BBQ4All Magazine numero 31 - Luglio 2021

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N°31/ANNO 3 - LUGLIO 2021

L'EDITORIALE DI GIANFRANCO LO CASCIO

Assaggiare la carne: una guida completa PARTE QUARTA

Insalata? si ma di pasta Pasta al nero di seppia e gamberi, pasta coi ricci, pasta alla trapanese

E-state al bbq

Mandorle affumicate, Baguette e Black Angus, Crostone con salsiccia di Wagyu, insalata bavarese di Franks Würst, banane al bbq COSTUME E SOCIETÀ

Cinque regole d’oro per sopravvivere alla grigliata estiva COME SI FANNO

kaiser roll

LA RICETTA SCIENTIFICA

Tabuleh


Direttore Editoriale Rossella Neiadin

Redattore Capo Michela Bongiorni

Redazione

Enio Berton Virgilio Brunetti Tommaso Buccafurri Nunzia Clemente Roberto Dal Bosco Salvatore Di Mento Luca Gallozza Marco Gerometta Mariangela Ibba Gianfranco Lo Cascio Riccardo Meniconi Giovanni Minelli Emiliano Nencioni Elena Ninotti Andrea Spaggiari Alessandro Trezzi Carlo Trono Paolo Tucci Alex Vasile Caterina Vianello Alberto Zonghetti

Realizzazione Grafica

Impaginazione Carlo Trono Illustrazioni di Eleonora Castagna e Ozzy Bellesi Fotografie di Rossella Neiadin, Luca Gallozza, Tommaso Buccafurri, Elisa Giuli, Emiliano Nencioni

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IN DI Rubriche

Editoriale - Assaggiare la carne: una guida completa - parte IV

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Costume - Più sudi e più sai di griller

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Ricette

Insalata di pasta con frutti di mare

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Spaghettoni con i ricci di mare

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Pesto alla trapanese

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Bresaola di Wagyu Miyabi A5 con gelato all'aglio

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Salty Smoked Almonds

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Crema di melone in ember con salamini affumicati

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Baguette con Black Angus

34

Crostone con salsiccia

36

Kartoffelsalat con Franks Würst

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Girasoli di pasta sfoglia con brie affumicato e Franks Würst

40

Porftolio Gastronomico - La pizza fritta

42

Peperoncini ripieni con salsa al tonno

48

Galletto Vallespluga marinato alle erbe con salsa honey mustard

50

Frutta al bbq

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Approfondimenti Arte Bianca - Kaiser roll

58

Across the pond - La dispensa americana 2: strani ingredienti

64

De Gustibus - come nasce il mio Wagyu

70

Maître Pâtissier - Il Tiramisù del pasticciere

78

From Zero to Hero - La cottura indiretta sul kettle

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La ricetta scientifica - Tabuleh

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Seguo - Too good is to be Gamma, to be Gamma is to be good!

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Editoriale di Gianfranco Lo Cascio

Assaggiare la carne: una guida completa PARTE IV

Il codice olfattivo della carne

“Non solo sono convinto che senza la partecipazione dell’odorato una complessa degustazione è impossibile, ma sarei addirittura propenso a credere che l’odorato e il gusto formano un unico senso, di cui la bocca rappresenta il laboratorio e il naso il camino. Più esattamente, l'uno serve alla degustazione dei corpi tattili e l'altro alla degustazione dei corpi gassosi […] Ogni corpo sapido è necessariamente odoroso, il che lo fa rientrare sia nel campo dell'odorato che in quello del gusto. Non si mangia nulla senza annusare più o meno consapevolmente; nei confronti dei cibi sconosciuti, il naso ha sempre la funzione di una sentinella avanzata che gridi: Chi va là?”

N

on so voi, ma io la penso esattamente come lui. Avete mai provato a mangiare qualcosa tappandovi il naso? Fatelo e capirete quanto quest’organo giochi un ruolo fondamentale nell’analisi gustativa di un cibo. L’olfatto ricopre un ruolo da protagonista quando mangiamo. È un organo di senso di tipo chimico, i suoi recettori si trovano su una mucosa di circa due centimetri quadrati, che si trova alla base del naso. Le molecole odorose raggiungono questa parte passando per tre vie: ortonasale, retronasale e sanguigna. La via ortonasale è quella che inizia con le narici, che sono due come le cavità nasali, divise a loro volta in tre “coane”, le cavità che mettono in comunicazione naso e bocca. L’aria passa attraverso le cavità nasali, viene filtrata, umidificata e resa turbolenta dalle coane. La via retronasale parte dalla faringe ed è in comunicazione con la via olfattiva diretta, in modo da creare una vera corrente d’aria.

L’epitelio è costituito dalle ghiandole del Bowman che producono muco destinato a mantenere costantemente umidificata la superficie e le cellule di sostegno, che ne supportano altri due tipi: quelle basali, destinate a sostituire le cellule sensoriali quando invecchiano, e quelle sensoriali attive. Queste sono veri e propri neuroni (nell’uomo sono da 6 a 9 milioni) collegati da una parte al bulbo olfattivo, e dall’altra, verso l’esterno, con una vescicola olfattiva. Ogni vescicola porta una trentina di villi olfattivi, che sono dei filamenti finissimi. Dunque l’homo sapiens ha da 180 a 300 milioni di questi villi, la cui superficie è attiva per intero. Quando una molecola olfattivamente attiva giunge a contatto con il villo olfattivo, l’energia chimica è trasdotta (trasformata) in segnale elettrico che, attraverso il bulbo olfattivo, giunge al cervello. Il segnale elettrico interessa innanzitutto la corteccia prepiriforme e l’amigdala. Da entrambe raggiunge il talamo dorso mediale e l’ipotalamo per poi interessare diverse regioni della corteccia orbitofrontale. Passiamo ora alla rassegna di tutti i parametri degli odori associabili alla carne cruda e cotta.

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La via sanguigna è generata dai vasi che irrorano il sangue dell’epitelio olfattivo, generando principalmente interferenze nella percezione.

Jean Anthelme Brillat-Savarin Avvocato, politico e gastronomo

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INTENSITÀ OLFATTIVA Via olfattiva diretta, carne cruda Definizione Misura il volume complessivo delle sensazioni che arrivano dalla carne cruda per via olfattiva diretta, da valutare alla prima annusata; l’intensità si analizza indipendentemente dal fatto che gli odori siano positivi o negativi, di conseguenza il valore minimo viene attribuito solo se la carne non presenta alcun odore. Correlazione di filiera Sono fattori importanti di comparsa di odore nella carne cruda: frollatura o maturazione, oltre che i principali processi di deterioramento che producono dei marker. Tuttavia possono essere fattori di caratterizzazione olfattiva anche il sesso, l’età dell’animale (specialmente maschile), il tipo di alimentazione e di conseguenza anche la tipologia di allevamento.

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Composti responsabili Tutti i componenti volatili che si generano per via enzimatica durante la frollatura o residui nella parte grassa. Inoltre sono responsabili anche gli ormoni e acido lattico presenti nel muscolo.

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ODORI ANOMALI Via olfattiva diretta, carne cruda Definizione Misura il volume complessivo delle sensazioni che giungono dalla carne cruda per via olfattiva diretta, e che evidenziano problemi sopraggiunti nel processo di lavorazione, trasporto o conservazione. Possono essere indice evidente di difettosità: odori di rancido, solforati, o ancora sentori di natura chimica o di origine microbiologica. Molti odori anomali della carne non sono soggetti ad adattamento olfattivo molto rapido, perché sono legati a fattori di pericolosità nei confronti dell’organismo umano; tuttavia è consigliabile valutare l’intensità complessiva nel corso delle prime olfazioni. Correlazione di filiera Vi rimando alle voci specifiche relative ai singoli odori anomali, riportate più avanti. Composti responsabili Vi rimando alle voci specifiche relative ai singoli odori anomali, riportate più avanti.

CARNE FRESCA Via olfattiva diretta e indiretta, carne cruda e cotta Definizione Misura l’intensità delle sensazioni aromatiche tipiche della carne fresca sana, così come percepibili in una battuta o carpaccio ben lavorati o all’interno di una carne cotta “al sangue”. Correlazione di filiera La presenza e la permanenza di questi aromi dipendono principalmente dalle fasi di frollatura, conservazione e nel caso della carne cotta dalla tipologia di cottura: le cotture “rare” o “medium rare” tendono a conservarne di più, mentre le cotture più spinte (lesso, arrosto ecc.) trasformano la carne dal punto di vista aromatico. Composti responsabili Tutti i componenti volatili residui nella parte grassa o generati per via enzimatica durante la frollatura.


ODORE FERROSO Via olfattiva diretta e indiretta, carne cruda e cotta Definizione Misura l’intensità delle sensazioni aromatiche tipiche del sangue, in grado di suscitare in bocca per sinestesia l’accostamento alla sensazione metallica. Correlazione di filiera Il sentore tipico di ferro, inteso come nota olfattiva e aromatica, risulta più evidente in tre casi: in caso di frollatura o cottura avanzata, che permette attraverso la proteolisi (il processo di degradazione delle proteine) ai composti contenenti ferro di svincolarsi dalla mioglobina del muscolo; in caso di allevamento al pascolo, che fa sviluppare più mioglobina, e nelle stesse condizioni di cui sopra permette di liberare più composti contenenti ferro; oppure in caso di errori durante la macellazione, che lasciano nella carne parte del sangue il quale, attraverso la proteolisi, libera i composti di ferro dall’emoglobina. Composti responsabili Eme (o gruppo eme) che si libera attraverso la proteolisi delle emoproteine (mioglobina dei muscoli ed emoglobina del sangue); ione ferroso (Fe2+) allo stato libero.

AROMA DI GRASSO Via olfattiva diretta e indiretta, carne cruda e cotta Definizione Misura l’intensità delle sensazioni aromatiche tipiche del grasso fresco della carne, che in alcuni casi può avere sfumature paragonabili al miele. Non considera l’odore del grasso rancido. Correlazione di filiera Dipende innanzitutto dalle caratteristiche genetiche dell’animale, dal tipo di allevamento e dall’alimentazione, ma sono fondamentali anche le fasi di frollatura e conservazione. Le eccessive ossidazioni, infatti, non solo portano all’evaporazione di questi componenti volatili, ma reagendo con i lipidi portano alla formazione dell’odore rancido. Nelle carni cotte, la tipologia di cottura influenza ulteriormente gli aromi della parte grassa. Composti responsabili Componenti volatili bloccati nella parte grassa e definiti dal tipo di alimentazione oppure ottenuti per via enzimatica dalla frollatura.

CARNE Via olfattiva diretta e indiretta, carne cruda e cotta Definizione È l’insieme di tutte le percezioni aromatiche legate alla carne in generale descritte nei precedenti paragrafi: carne fresca, odore ferroso e aroma di grasso. Non è detto che sia la somma dei tre elementi in quanto uno di questi aromi potrebbe prevalere attenuando o annullando gli altri. Correlazione di filiera Vi rimando alle voci specifiche relative ai singoli odori anomali, riportate più avanti. Composti responsabili Vi rimando alle voci specifiche relative ai singoli odori anomali, riportate più avanti.

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VERDURE ERBA

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Via olfattiva diretta e indiretta, carne cruda e cotta

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CEREALI Via olfattiva diretta e indiretta, carne cruda e cotta

Definizione Sentori di erba fresca, prato falciato (che ricordano i pascoli e la montagna), odori di fieno.

Definizione Sentori che ricordano i cereali, malto in particolare.

Correlazione di filiera Questi aromi sono fortemente collegati alla modalità di allevamento, in particolare all’alimentazione negli ultimi 6 mesi prima della macellazione; la loro intensità è legata anche alla composizione e alla quantità di grasso dei tagli.

Correlazione di filiera Questi aromi sono strettamente legati alla modalità di allevamento, nello specifico all’alimentazione negli ultimi 6 mesi prima della macellazione; La composizione e alla quantità lipidica dei tagli ne determina l’intensità.

Composti responsabili Componenti volatili, principalmente terpenici, presenti negli alimenti e bloccati nella frazione lipidica dell’animale.

Composti responsabili Componenti volatili presenti negli alimenti e bloccati nelle parti grasse dell’animale.

Via olfattiva diretta e indiretta, carne cruda e cotta Definizione Sentori che ricordano i vegetali cotti: verdure lesse, brodo vegetale, minestrone ecc. Correlazione di filiera Tenendo in considerazione, come per i sentori erbacei, l’allevamento e in particolare l’alimentazione degli ultimi 6 mesi prima della macellazione, nelle carni cotte i processi di trasformazione enzimatici e termici legati alla degradazione delle proteine portano allo sviluppo di sentori di verdura cotta. Composti responsabili Componenti volatili presenti negli alimenti e bloccati nella frazione lipidica dell’animale, in seguito alle trasformazioni legate ai processi di cottura.


VEGETALE

ARROSTO

Via olfattiva diretta e indiretta, carne cotta

Via olfattiva diretta e indiretta, carne cotta

Definizione Misura l’intensità di quel complesso di sensazioni aromatiche che rinviano all’esperienza olfattiva dell’erba, del fieno, del pascolo e della montagna, fino ai cereali e, nella carne cotta, alle verdure cotte o al brodo vegetale.

Definizione Sentori di carne arrosto, grasso cotto, caramello, tostato, tipicamente prodotti nelle reazioni di Maillard e Strecker.

Correlazione di filiera La presenza di odori che rinviano alla sfera del vegetale è influenzata dall’alimentazione dell’animale, in grado a volte di lasciare traccia aromatica specialmente, come già detto, nel grasso. Di conseguenza vi è differenza data dallo stile di allevamento (intensivo o estensivo) e dalla provenienza dell’animale (luogo di allevamento degli ultimi 6 mesi). Composti responsabili Componenti volatili presenti negli alimenti e bloccati nella frazione lipidica dell’animale, prima o in seguito alle trasformazioni legate ai processi di cottura.

LESSO Via olfattiva diretta e indiretta, carne cotta Definizione Sentori di carne lessa, brodo, amminoacidi. Correlazione di filiera Determinato dalla tipologia di cottura, che induce determinate degradazioni nelle proteine e nei lipidi. È tipico di cotture in presenza di elevata umidità, di liquidi o ad alta pressione. Composti responsabili Componenti solforati volatili generati dalla degradazione lipolitica e proteolitica.

Correlazione di filiera Si genera con tutte le cotture ad alte temperature, sia con aria molto calda (come nel caso del forno) sia per contatto (padella, griglie ecc.). L’elevata temperatura innesca le reazioni tipiche di Maillard e le degradazioni di Strecker, coinvolgendo carboidrati e componenti azotati (proteine, peptidi, amminoacidi) che portano alla formazione di numerosi precursori aromatici. Queste reazioni sono molto influenzate anche dai coadiuvanti di cottura utilizzati: olio, burro, spezie, vino, birra, miele ecc. Composti responsabili Componenti volatili ottenuti dal complesso delle reazioni di Maillard, tra cui pirazine e composti policiclici aromatici.

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GRIGLIA Via olfattiva diretta e indiretta, carne cotta Definizione Percezione legata al riscaldamento violento della carne, con formazione di composti bruni dall’odore di “grigliato” ed eventualmente cessione di odori da parte dei materiali di cottura o di combustione (nel caso del sentore di ghisa, legno bruciato, carbone ecc.). Correlazione di filiera I fattori determinanti sono la tipologia di cottura e lo stato dei materiali usati. Le cotture dirette sbagliate, con temperature eccessive, possono portare all’estremo le reazioni di Maillard, con formazione di composti bruni e odori di bruciato. I composti utilizzati per la combustione possono emanare aromi poi assorbiti dalla fase lipidica durante la cottura.

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Composti responsabili Componenti volatili ceduti dai materiali o dai combustibili utilizzati.

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AFFUMICATO Via olfattiva diretta e indiretta, carne cotta Definizione Odore di fumo, a volte con riferimento a un legno specifico. Correlazione di filiera Dip ende principalmente dalla tipologia di cottura e dai materiali di combustione utilizzati. Noi lo sappiamo bene: l’utilizzo di legni aromatici comporta, con le dovute tecniche, l’assorbimento degli aromi del legno da parte del prodotto. Composti responsabili Principalmente pirazine, idro carburi aromatici e composti policiclici aromatici generati dai materiali utilizzati per la combustione. Notate bene: tenendo in considerazione le quantità di cibo affumicato assunte pro capite, i rischi per la salute sono nulli.

GRASSO BRUCIATO Via olfattiva diretta e indiretta, carne cotta Definizione Percezioni di olio bruciato, grasso fritto, olio esausto. Correlazione di filiera Principalmente correlato a errori di cottura, cattiva pulizia dei materiali di cottura e ai coadiuvanti di cottura utilizzati (oli, burro ecc.). Temperature alte e contatti prolungati delle parti grasse sul materiale conduttore delle temperature possono generare bruciature con la formazione di odori anomali. Anche l’utilizzo di grassi di cottura oltre il punto di fumo per lunghi periodi può determinare odori indesiderati. Composti responsabili Formazione di idrocarburi aromatici dalla degradazione dei lipidi.


RANCIDO Via olfattiva diretta e indiretta, carne cruda e cotta Definizione Misura l’intensità delle sensazioni aromatiche tipiche del grasso ossidato, che si ingiallisce se lasciato a lungo esposto all’aria; può ricordare l’odore dell’esterno della cotenna del prosciutto o della prima fetta del salame quando il taglio è rimasto per lungo tempo scoperto senza involucro protettivo, arrivando fino all’odore di vecchio dell’olio che ha preso aria. Correlazione di filiera L’ossidazione del grasso del bovino, specie esterno, si può verificare in momenti diversi dopo la macellazione: nel corso della frollatura, del mantenimento del taglio esposto in vetrina frigorifera, della conservazione operata dal consumatore prima della cottura (se il pezzo non viene coperto) oppure anche dopo la cottura; in ogni caso, quando la carne resta a lungo non protetta dal contatto con l’ossigeno dell’aria. Le temperature aumentano la velocità di reazione: se la carne è conservata a temperatura ambiente o superiore, le ossidazioni avvengono più velocemente.

Via olfattiva diretta e indiretta, carne cruda e cotta Definizione Odori tipici della carne bovina quando è intervenuta un’alterazione delle proteine, tale da ricordare in crescendo l’uovo sodo, il cavolfiore, lo zolfo, l’uovo marcio. Correlazione di filiera La formazione di tali aromi dipende principalmente dalla degradazione proteica, che può avvenire per eccesso di frollatura, per temperature troppo alte di conservazione o anche in funzione delle tecniche di cottura. Il lesso in particolare tende a formare un maggior numero di amminoacidi liberi che, ad alte temperature, danno origine nelle reazioni di Maillard ai composti solforati. Composti responsabili Peptidi e amminoacidi solforati derivanti dalla degradazione delle proteine.

CHIMICO Via olfattiva diretta e indiretta, carne cruda e cotta Definizione Sentori anomali che ricordano la plastica, la saponetta, i medicinali o i conservanti. Correlazione di filiera Può essere ricondotto a coadiuvanti tecnologici utilizzati nel processo di conservazione, ai gas utilizzati per le atmosfere modificate o anche al contatto con materiali non idoneamente puliti o con residui riconducibili alle fasi di macellazione o sezionamento Composti responsabili Vari tipi di composti, dagli idrocarburi a composti inorganici.

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Composti responsabili Idrocarburi, esteri, aldeidi, chetoni, alcoli, acidi, polimeri e altri composti prodotti dalla degradazione dei lipidi e dal loroirrancidimento ossidativo, che consiste in una serie di reazioni a catena, scatenate dal distacco di un atomo di idrogeno dalla catena di un acido grasso con la conseguente formazione di un radicale libero. Questa reazione di autossidazione è tanto più prolungata quanto più ossigeno è disponibile.

SOLFORATI

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MICROBIOLOGICO Via olfattiva diretta e indiretta, carne cruda e cotta Definizione Sentori collegati a principi di fermentazioni microbiche (freschino, inacidito ecc.). Correlazione di filiera È legato principalmente a condizioni ambientali non idonee di frollatura e, soprattutto, di conservazione, con contaminazione e proliferazione microbica.

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Composti responsabili Composti intermedi ottenuti dalle degradazioni proteolitiche e lipolitiche a opera di microorganismi

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BIOCHIMICI DIVERSI Via olfattiva diretta e indiretta, carne cruda e cotta Definizione Sintesi delle percezioni legate ad alterazioni negative della carne descritte precedentemente: rancido, solforati, chimico e microbiologico. Correlazione di filiera Diverse per i singoli descrittori, come abbiamo detto nei precedenti paragrafi. Composti responsabili Diversi composti per i singoli descrittori, come trattato nei paragrafi precedenti.

PERSISTENZA Via olfattiva diretta e indiretta, carne cruda e cotta Definizione Misura il tempo di permanenza delle percezioni aromatiche percepite per via retronasale dopo la deglutizione. Correlazione di filiera Legata alle caratteristiche intrinseche della carne stessa, alla presenza di lipidi e alla tipologia di cottura. Composti responsabili I lipidi, inglobando e bloccando molte delle molecole volatili, quando si distribuiscono sul palato rilasciano lentamente questi aromi, aumentandone la persistenza in bocca.


APPETIBILITÀ Via olfattiva diretta, carne cotta Definizione Descrittore soggettivo di piacevolezza che esprime l’appetito che la carne è in grado di indurre in chi ne percepisce l’odore. Correlazione di filiera Legata alla presenza di aromi positivi dati dalla frollatura e dall’assenza di odori negativi. Composti responsabili Tutta la parte aromatica relativa alla carne cruda escludendo i composti responsabili del biochimico.

RICCHEZZA Via olfattiva diretta e indiretta, carne cruda e cotta

LIVELLO EDONICO Via olfattiva diretta e indiretta, carne cruda e cotta

Definizione Valuta la complessità aromatica della carne, in pratica la numerosità dei toni aromatici positivi presenti.

Definizione Giudizio finale sulla piacevolezza aromatica della carne.

Correlazione di filiera Tutte le fasi collegate alla formazione di composti volatili, dall’allevamento alle tecniche di cottura..

Correlazione di filiera Tutte le fasi collegate alla formazione di composti volatili, dall’allevamento alle tecniche di cottura.

Composti responsabili Tutta la parte aromatica escludendo i composti responsabili del biochimico

Composti responsabili Tutta la parte aromatica escludendo i composti responsabili del biochimico.

Vi è piaciuta la carrellata di profumini associati alla carne? Ci vediamo il mese prossimo con il capitolo conclusivo del nostro percorso di degustazione carnivora, che tratterà due argomenti importantissimi: sistema somestesico e gusto.

Gianfranco Lo Cascio

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Buona lettura!

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i d us r e l igr l

Più

più sai di

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Cinque regole d'oro per sopravvivere alle grigliate estive

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Costume e società a cura di Michela Bongiorni


Q

ualche anno fa è stato lanciato uno degli hashtag che personalmente più detesto al mondo: sto parlando del famigerato #tuttomoltobello. Onestamente non ricordo se sia nato prima l’hashtag o il film omonimo, ma in un batter d’occhio i social furono invasi da post molto intensi e da foto ispirate che riportavano quell’odiosa, quanto falsa, dicitura. Mi è venuta in mente oggi perché è la prima cosa a cui penso di fronte alle grigliate estive, instagrammate come se non ci fosse un domani, in cui si vedono persone molto felici di grigliare a 45° all’ombra e tanto sorridenti in costume ma che in realtà non sono consapevoli che la loro vera, o solo simulata, felicità è fortemente a rischio, data l’insidia dietro l’angolo. Insomma, tutto molto bello, il mare, la piscina, il gommone a forma di fenicottero, la birra ghiacciata e la musica a tutto volume; ma siete consapevoli degli errori che state commettendo? Ecco, dunque, una piccola guida per uscirne incolumi.

La temperatura Il primo errore che vedo commettere dal tipico grigliatore a bordo piscina è quello di non tener conto della temperatura esterna, che in questa stagione può raggiungere vette inarrivabili. É dunque fondamentale esserne consapevoli, sia per quanto riguarda l’aspetto strettamente tecnico (non è esattamente la stessa cosa cosa grigliare d’estate a Palermo e farlo d’inverno a Bolzano, e quindi il vostro dispositivo, per quanto altamente performante, non potrà avere la medesima resa), sia per quanto riguarda il cibo che andate a preparare. Dovete per forza dotarvi di una ghiacciaia: ho visto molte volte gente che preparava con cura ogni dettaglio, dalla marinata alla salsa di accompagnamento, magari a base di maionese. e poi teneva il tutto per ore sul tavolo in attesa del servizio. Non credo che servano spiegazioni scientifiche al riguardo, penso che il buon senso già possa venirvi in soccorso: tenere un pollo in marinata, o un gambero sgusciato, per delle ore all’aperto a una temperatura esterna di 38°C, in attesa di essere cotti all’ultimo minuto così i bambini mangiano la roba appena fatta! non è esattamente ciò che vi suggerirebbe Studio Aperto durante uno dei suoi leggendari servizi estivi. Tuttavia, non è consigliabile neanche cuocere prima alcuni alimenti, come ad esempio insalate di pasta o di riso, e poi lasciarli in qualche luogo all’ombra; la cosa ci espone al rischio di disturbi gastroenterici causati da batteri che, proprio a causa del caldo, proliferano più facilmente nei cibi.

Le infradito

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E qui veniamo alla vera nota dolente: l’abbigliamento. Siete in piscina, è caldo, tutti intorno a voi sono in costume e infradito: mi rendo conto che vogliate adeguare il vostro outfit all’ambiente. Tuttavia, è sconsigliabile farlo se state grigliando davanti a un dispositivo a carbone. Qualche anno fa ho commesso anch’io questo imperdonabile errore: stavo preparando una paella in costume e infradito quando un incauto commensale mi ha avvicinato ai piedi un cesto accenditore colmo di bricchette roventi. Nel girarmi, la mia gamba si è incollata al cesto. Risultato? Ustione di terzo grado e una cicatrice che ancora sta lì a ricordarmi di quanto sia stata incosciente. Fate tesoro di questa mia esperienza e ricordatevi sempre che state giocando col fuoco. Letteralmente. Possono cadervi anche banalmente dei corpuscoli roventi sui piedi mentre state versando le bricchette sulla griglia. Se può sembrarvi una tortura armeggiare davanti alle griglie coi jeans e le scarpe

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da tennis, sappiate che una ferita da ustione può rovinarvi la giornata e molte di quelle a seguire. Dovete proteggervi e possibilmente fare in modo che i parenti, gli amici, i familiari, i bambini in costume non si avvicinino mai al dispositivo a carbone. Se proprio non volete rinunciare alle infradito, optate per un barbecue a gas.

La realtà è un tantino diversa. Davanti al barbecue d’estate si suda. Forte. Già grigliare in una zona ombreggiata porta inevitabilmente a innalzare la temperatura corporea e di conseguenza a perdere liquidi. Farlo al sole è da incoscienti.

La copertura adeguata

Stavamo appunto dicendo che grigliare con la capoccia al sole non è affatto una buona idea. Farlo al sole bevendo alcolici... beh, che ve lo dico a fare? So che molti di voi avranno un rigurgito di ribellione, che “la birra è il vero e unico motivo per cui vale la pena grigliare!” ma anche, “bere acqua non è da maschi-h!” e via discorrendo. Purtroppo, la verità, seppur dura da accettare, è che l'alcol è un vasodilatatore periferico, quindi aumenta la vasodilatazione cutanea e provoca una maggior sudorazione. Inoltre l'alcol inibisce la vasopressina, l'ormone antidiuretico. Cosa vuol dire? Che l'acqua filtrata dai reni viene direttamente eliminata e di conseguenza la quantità di liquido espulso sarà maggiore di quello assunto. Insomma, se pensate di dissetarvi bevendo una birra fresca, vi sbagliate alla

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Grigliare all’ombra è d’obbligo. Comprendo che voi amanti della tintarella siate dei temerari e vi convinciate che mettersi al sole mentre grigliate una bistecca possa unire l’utile al dilettevole; e poi “tanto ho la crema protezione 50!”. C’è da dire che anche tutte le pubblicità che si vedono in giro, sui giornali o sui vari siti che vendono dispositivi non aiutano: ci sono sempre persone tranquille, che non sudano mai, felici di starsene al sole a grigliare centinaia di bistecche e a guardarsi con serenità. Le donne sono sempre tutte perfettamente truccate e con la messa in piega, gli uomini hanno camicie inamidate e magliette bianchissime. Tutti ridono come dopo un trattamento di sbiancamento dentale.

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Bere molta acqua


grande. Inoltre, secondo uno studio tedesco condotto su donne e uomini sani, nelle persone che bevono alcool la quantità di luce UV necessaria a bruciare la pelle è significativamente inferiore rispetto a coloro che non bevono nulla. In poche parole: bere alcool mentre si è esposti al sole aumenta il rischio di bruciarsi. Ricordate dunque di trovare sempre delle zone regolarmente ombreggiate e, ahimè tocca dire una grande banalità, bere molta acqua. Lasciate la birra, il vino, i cocktail al momento della convivialità, quando vi sarete seduti a tavola e vi sarete rilassati. Certo, un cocktail leggero, magari leggermente alcolico e alla frutta, ghiacciato e rinfrescante, potete concedervelo, ma non esagerate.

La doccia

Le soluzioni però possono essere molteplici, in modo da salvare capra e cavoli: 1. far presente ai commensali che non è educato mettersi a mangiare senza che tutti siano seduti a tavola; 2. preparare quantità smisurate di cibo in modo da essere praticamente certi che non verrà consumato tutto; 3. cuocere delle preparazioni che necessitano di rest e che di conseguenza vi diano il tempo di spegnere tutto, di lasciare il cibo in mantenimento e di andare a rinfrescarvi con tutta calma prima di sedervi a tavola. In ogni caso, cercate di prevedere il momento per la doccia, fatelo per voi stessi e per chi vi siederà accanto. Vi prego. Il famoso slogan “più sudi più sai di fresco” è ingannevole, siatene consapevoli. BBQ4All Magazine

Qui si sottolinea l’ovvio ma sembra che ultimamente sia utile farlo. Dopo che avete sbuffato, sofferto, e sudato tutto il sudabile, mettersi a tavola completamente fradici e puzzolenti non è una buona idea. Mi rendo conto che possiate sollevare un problema di non poco conto: se vado a fare la doccia dopo aver servito in tavola il pranzo, non faccio in tempo a ritornare fresco e pulito che non è rimasto niente

per me. In effetti l’obiezione è accolta.

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INSALATA? Si, ma di PASTA

Tra le pagine del BBQ4ALL Magazine, vi abbiamo insegnato come l’insalata è quell’insieme di ingredienti non più triste, moscio, senza senso. Le insalate sono gustose, fresche, scientifiche, salvavita. Soprattutto d’estate: l’insalata è l’amica perfetta per il mare, le passeggiate nella natura, i pasti fuori casa. E l’insalata può essere anche di pasta: l’insalata di pasta fredda, ad esempio. Questa è la delizia di chi non ha voglia di stare ai fornelli con temperature superiori ai 30°C e umidità da giungla pluviale, croce di chi cerca un pasto dignitoso sotto l’ombrellone o comunque al riparo dalla calura estiva. L’insalata di pasta fredda è vista come un necessario compromesso tra comodità, poco sbattimento e la sacrosanta esigenza di relax che ci meritiamo. Siamo tra amici, però, quindi possiamo dirci la scottante verità che non diremo mai di fronte ad altri. La pasta fredda, non piace. Perché spesso è fatta male. Ripudiata e denigrata da molti, vista come un male necessario dai più. Quali, tra noi, ricorda con golosa eccitazione questa pietanza quando ci veniva presentata in vacanza, estratta dalla borsa frigo delle nostre madri? Nessuno credo, tranne qualche raro caso di piatto avanguardistico portato avanti da qualche genitore pioniere. Sulla rete fioccano quelli che noi chiamiamo le “Wikipastafredda”: consigli più o meno autorevoli per realizzare questo ricetta in maniera (secondo loro) perfetta, evitando errori grossolani. L’insalata di pasta deve essere innanzitutto instagrammabile, poco importa se equilibrata o meno. Giusto? Per qualcuno, sì. Non per noi, ovviamente.

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Facciamo un passo indietro: quando è nata la nostra insalata di pasta fredda?

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Sappiamo dalla storia che la pasta nasce per essere consumata calda, con vari condimenti, meglio se boglientissima, come racconta Franco Sacchetti alla fine del 1300 in una sua novella. Tale usanza non muta nei ricettari dei secoli successivi, infatti non ne troviamo la versione “fredda” nemmeno all’interno dei testi sacri della nostra tradizione gastronomica diffusi tra la fine dell’Ottocento ed inizio del Novecento. Al di là dei cuochi di corte, la memoria storica delle nostre cucine sono le nostre nonne. Quindi, andiamo a pescare tra i ricordi che ci hanno trasmesso. Esse, tra gli anni ’30 e ’50 del secolo scorso, non erano avvezze alla preparazione della pasta fredda.

Dovremo attendere almeno il decennio che va dai Sessanta ai Settanta per vedere recipienti di insalata di pasta. La nascita di questo piatto (se nascita la possiamo chiamare), la si deve sicuramente all’Italia vacanziera, con la borghesia e il proletariato che si incamminano in lunghe colonne di auto verso le località di mare, portando con sé le vettovaglie e i viveri da casa per risparmiare qualcosina sul budget risicato. Ad onor del vero, erano ancora più comuni le teglie di pasta al forno e parmigiana di melanzane, ma questa è altra storia… Piccolo excursus storico a parte, torniamo a noi ed al nostro quesito fondamentale: è possibile dare dignità a questa pietanza? Vi proponiamo tre riflessioni, che abbracciano diversi ambiti e il loro “concetto” di insalata e relativa realizzazione. La prima riflessione ci porta in Asia, dove i piatti freddi a base di noodles sono molto diffusi ed apprezzati senza essere affatto un sacrilegio. Insalata di pasta fredda? “Si – può – fare!” (citazione da Frankestein Junior di Mel Brooks, da leggere con enfasi e a voce alta). La seconda notazione è forse superflua ma doverosa (da leggere con tono bellicoso, a mo’ di Filippo Tommaso Marinetti e del suo Manifesto Futurista): Noi proclamiamo l’abolizione assoluta dei condipasta industriali che galleggiano in olio di semi, dei formaggi sintetici, dei wurstel di plastica; noi aborriamo gli affettati usciti furtivamente dalle confezioni a lunga scadenza, gettati ad affogare tra i liquidi generati dalle scatolette mal sgocciolate. Noi vogliamo inneggiare all’utilizzo di prodotti freschi, qualitativamente eccellenti, assemblati in corretta armonia. L’ultima riflessione, la più importante e la


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più seria, ci conduce alla cultura gastronomica, allo studio, alla storia della nostra cucina: Gualtiero Marchesi, il fondatore della cucina d’autore italiana. (Da leggere in tono ossequioso) […] “Maestro, qual è il suo cibo preferito in estate? Ci offre un consiglio su una ricetta che possa coniugare gusto e freschezza?”. “Il mio cibo estivo - racconta Marchesi - rinfrescante e rinfrancante, sono le paste fredde, che mangio volentieri anche d’inverno.” Ed ecco nascere, negli anni ’80, le tre famose insalate di spaghetti di Gualtiero Marchesi: al caviale ed erba cipollina, ai ricci di mare, alle vongole crude ed alghe. E no, non copieremo le idee del Maestro, ma sul solco da lui tracciato vi proporremo, come è costume del nostro Magazine, una doppia rivisitazione per deliziare il palato dei nostri commensali e per stupirli: iniziamo dall’insalata di pasta, a seguire tra poche righe; continueremo poi con gli spaghetti ai ricci di mare.

INGREDIENTI 4 persone

250 g di pasta corta (penne rigate, mezze maniche, fusilli…) 1 barattolo piccolo (circa 200 g) di nero di seppia 750 g di frutti di mare (vongole, cozze, gamberi) 2 gambi di prezzemolo 1 pezzetto di zenzero fresco sale q.b. olio extravergine d’oliva q.b. il succo di un limone intero

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PREPARAZIONE 1. Pulite con cura i frutti di mare, preparandoli per la cottura. 2. Predisponete una bacinella di acqua ghiacciata salata considerando 1 litro d'acqua e 10 grammi di sale ogni 100 g di pasta. 3. Ponete cozze, vongole e gamberi in una padella con olio, aglio, gambi di prezzemolo, il mezzo limone tagliato in due parti, un pezzetto di zenzero spellato, coprite con un coperchio e aspettate che si aprano. Poi sgusciate e immergete in una ciotola nel prezioso liquido di cottura che avrete filtrato con un colino a maglie fini. 4. Cuocete la pasta in acqua bollente salata, scolatela e versatela subito nella bacinella: l’obiettivo è raffreddarla del tutto. 5. Mettete la pasta scolata in frigo per qualche ora, lasciandola rapprendere per bene. 6. Scolate nuovamente la pasta e versatela in una zuppiera ampia, aggiungete il nero di seppia in barattolo e i frutti di mare sgusciati. 7. A parte, create un’emulsione di olio extravergine d’oliva, sale e limone. 8. Aggiungete l’emulsione a filo alla vostra pasta fredda.


SPAGHETTONI CON I RICCI DI MARE Salino, amido, terra e mare… tutto insieme!

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Molti di noi condividono il ricordo di un’esperienza simile, quella del riccio di mare mangiato sugli scogli, appena pescato. L’iniziale diffidenza, la curiosità mista a ribrezzo, il timore; poi l’esplosione di un sapore così unico, marino e terreno insieme, affilato e morbido, secco e allo stesso tempo umido. Il mare nel palato, le persistenti note iodate, i brividi sul corpo, l’appagamento che segue l’adempimento di un rito dal sapore arcaico e pagano. Immersi nell’estasi sensoriale, quasi ci si dimentica che la parte commestibile del riccio, quella che si può mangiare è costituita dalle gonadi… in altre parole, l’apparato riproduttore!

a.C – 8 a.C). I ricci li troviamo nella Satira VIII, libro II: descrivendo una cena a casa del ben ricco Nasidieno, racconta che un certo Curtillo consigliava di “[...] fare una salsa con le uova di riccio non lavati, spaccati in due, perché il loro liquido è migliore di qualsiasi salamoia”. Allontanadoci dai poeti ed entrando nel mondo culinario, è d’obbligo citare l’esperienza di Apicio, il cuoco simbolo della Roma imperiale (vissuto a cavallo fra il I secolo a.C. e il I secolo d.C.): “[...] Prendi una pentola pulita e fai bollire un po’ di olio, garum, vino dolce, pepe in polvere. Quando ha bollito, versa su ciascun riccio questa salsa. Mescola e fai bollire per tre volte. A cottura ultimata, condisci con pepe e servi”.

Numerosi scrittori e artisti di ogni secolo celebrano il sapore la magica capacità evocativa che solo lui, l’Echinoidea, è capace di suggerire. Gli archeologi ci confermano che già in epoca Neolitica (intorno al 6.000 – 3.000 a. C.) gli abitanti delle grotte consumavano ricci di mare; abitudine confermata anche dai ritrovamenti all’interno dei nuraghi sardi (1.100 a.C.).

Nel Medioevo perdiamo un po’ di vista il nostro puntuto protagonista, che però ricompare nel successivo Rinascimento. Bartolomeo Scappi, celebre cuoco famoso anche per essere il prediletto di Carlo V, re di Spagna, lo preparava in questo modo “Il riccio marittimo è animaletto di statura ritondo, […] Si cuoce tale animaletto quando è netto su la graticola ponendoli un poco d’oglio, e pepe nel buco, e cotto che sarà servasi caldo… Si può anco empire di varie composizioni dapoi che sarà ben netto come di sopra, facendosi poi cuocere su la graticola sotteflato a beneplacito…”.

Ma è con il mondo greco prima e quello romano poi, che troviamo chiarissime testimonianze scritte e preparazioni che, con qualche accorgimento, possiamo anche riadattare ai nostri palati, usanze ed abitudini. Il mondo greco, soprattutto, ci ha lasciato innumerevoli testimonianze del riccio di mare come cibo singolo o ingrediente di preparazioni più o meno complesse. Ippocrate, il padre della medicina, (460 a.C. - 377 a.C.), riporta questa testimonianza preziosa: “Alcuni mangiano i ricci di mare sia nel vino mielato, sia nella salsa di pesce. Queste usanze erano praticate prima del pranzo, per purgare il ventre”. Il filosofo e poeta Archippo (400 a.C.) racconta: “I ricci sono teneri, succosi, dal cattivo odore, saziano e sono di facile digestione; mangiati con aceto e miele, sedano e menta sono appetitosi, dolci e di buon sapore”. Poco dopo, il poeta Nicostrato (IV sec. a.C) scrive: “Il primo vassoio che introduce alla cena, comprenderà un riccio di mare, un po’ di pesce affumicato, capperi, una focaccia al vino, una fetta di pane ed un lampacione in salsa acida”. La notazione più vicina a noi è però quella di Orazio, poeta e scrittore del mondo romano (65

Oggi la pasta con i ricci di mare ha un posto fisso nel menu di molti ristoranti delle località marine più famose; la procedura di preparazione è simile con poche variazioni, ma noi ci siamo permessi di slegarci dalle convenzioni e di riflettere. Può essere migliore? Qualche purista afferma che la preziosa polpa va consumata pura, senza mediazioni. Quindi è meglio senza pasta? Gualtiero Marchesi ci è venuto in aiuto, con la sua insalata di pasta fredda ai ricci di mare. Da questa idea abbiamo iniziato a sperimentare, concordando che, per nostro gusto personale, il calore forse rovina i ricci. Essi diventano una materia prima irritabile, non rendono al palato, c'è troppa intensità, troppa aromaticità, troppi effluvi, troppi spigoli, troppo umami. La migliore espressione dei ricci si ha quando questi sono freddi, tranquilli e beati. Perché ben si prestano ad amalgamarsi e plasmarsi ad altri ingredienti. Quindi pasta fredda. Riccio freddo. Semplice, no?


INGREDIENTI 4 persone

250 g di spaghettoni trafilati al bronzo (spaghetti spessi) 1 kg di ricci di mare 60 ml di vino bianco 4 spicchi di aglio olio extravergine d’oliva q.b. erba cipollina q.b. sale q.b. il succo di 1 limone intero pepe in grani da macinare q.b.

PREPARAZIONE 1. Predisponete una bacinella di acqua ghiacciata 6. Una volta aperto il riccio, con l’ausilio di un salata considerando 1 litro d'acqua e 10 grammi cucchiaino, scavate la parte arancione: quelle di sale ogni 100 g di pasta. sono le uova e l’apparato riproduttore, la nostra parte edibile. Prendete tutto il possibile col 2. Nel frattempo, preparate una emulsione con cucchiaino e versate la polpa in un recipiente. sale, limone, olio extravergine d’oliva. 3. Cuocete gli spaghettoni in acqua bollente salata, scolateli e versateli subito nella bacinella: l’obiettivo è raffreddarli del tutto. 4. Lasciateli riposare in frigo a circa 4°C per qualche ora, in modo tale da freddarli ancora.

8. Conditeli con l’emulsione e mescolate energicamente. Aggiungete la polpa dei ricci fredda, il pepe macinato al momento, un trito di erba cipollina a finire.

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5. Nel frattempo, pulite i ricci. Con l’aiuto di un tagliaricci (che vi sarà indispensabile) incidete dal lato della bocca, che è anche il lato superiore del nostro riccio.

7. Prendete gli spaghettoni dal frigo, scolateli nuovamente e versateli in una zuppiera ampia.

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PESTO ALLA TRAPANESE Una ricetta che sa d’Oriente! Per parlare della mitologica pasta alla trapanese, corre l’obbligo chiudere gli occhi e catapultarci, almeno con la fantasia, a qualche secolo fa. Lasciamoci trasportare dall’idea (almeno!) dei profumi mediorientali, dei racconti fantastici di viaggiatori che si incontravano in questo crocevia di Mediterraneo. Siamo al porto di Trapani. Drepanum in latino, Drepanon in greco antico. Il nome significa “falce”, appunto dato dagli ellenici. Qui, luogo di scambio ed incontro tra culture, transitano diverse navi mercantili, soprattutto quelle genovesi che, cariche di prodotti, erano dirette ad Oriente. Tra le tipicità liguri che sbarcavano in Sicilia si racconta che ci fosse l’agliata genovese, un pesto preparato con basilico, aglio e noci; il nome stesso rivela origini antiche e un legame diretto con la salsa medievale appunto chiamata agliata, che si poneva a metà tra l’alimento e il medicamento – per via delle proprietà benefiche riconosciute all’aglio.

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Pare che i trapanesi (o meglio, le donne di tale città), avessero adattato la salsa genovese utilizzando i prodotti caratteristici del loro territorio: mandorle, pomodori, basilico, aglio, olio extravergine di oliva. Il risultato era l’agghiata trapanisa, un pesto prelibato dal sapore intenso e inconfondibile: se non l’avete mai mangiato è un’esperienza magnifica (nulla a che vedere con i noti sughi degli ipermercati che ne portano la dicitura), che ci trasporta all’interno di quel mondo magico e ricco di contaminazioni che è la cucina siciliana (per un breve ripasso, recuperate lo Speciale all’interno del Magazine di Ottobre 2020). Insomma, l’autentico territorio dentro un piatto.

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Si dice che il pesto trapanese trovi la sua massima esaltazione in abbinamento con le busiate o busiati, una tipologia di pasta fresca molto diffusa Sicilia occidentale: questo formato è molto simile ai maccheroni e realizzata solo con acqua e grano duro, senza uova. Vengono attorcigliati intorno

ad una cannula, per dare la forma di un giunco di Ampelodesmos mauritanicus, l’erba locale dalla quale prendono il nome. Le busiate con il pesto alla trapanese sono una preparazione decisamente importante in Sicilia e per i siciliani, tanto che la Regione si è giustamente adoperata per far inserire la ricetta tra tra i Prodotti Agroalimentari Tradizionali (PAT) della regione Sicilia, una lista ufficialmente riconosciuta dal Ministero delle Politiche Agricole per la tutela delle tradizioni dei prodotti alimentari tipici e relative trasformazioni in deliziosi piatti della tradizione. Per quanto questa ricetta debba essere giustamente tutelata, i nostri lettori ormai ci conoscono: troviamo diverse strade per gustare al meglio una ricetta, sempre rispettandola ma al contempo cercando di esaltare i punti forti, di renderla versatile. Il pesto trapanese, infatti, non si abbina benissimo soltanto con le busiate: ma ci sta da Dio con qualsiasi formato di pasta. Ed è quello che abbiamo fatto in questo numero del Magazine. Ma non solo, eh, attenzione. Il pesto alla trapanese è davvero formidabile. Può essere utilizzato anche in accompagnamento alla carne (un po’ di bbq non guasta mai, lo sappiamo) al pane (per una bruschetta atomica), alle melanzane (grigliate o al forno) addirittura al pesce (soprattutto fritto, ma anche pesce spada o calamaro). Se siete audaci, abbinatelo ai babbaluci cu l'agghia, lumachine di terra bollite e poi condite con questa salsa fredda. Dopo tutti questi possibili abbinamenti, potrete ben capire perché viene definito un piatto di terra e di mare, amato in tempi antichi sia dai contadini che dai marinai. È il momento di passare alla pratica, con il nostro pesto alla trapanese declinato con le trenette, un formato di pasta capace di trattenere bene i sughi e che non vi farà rimpiangere le busiate trapanesi!


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PREPARAZIONE 1. Per prima cosa sbucciate le mandorle. Mandate a bollore un pentolino d'acqua, calate le mandorle per due o tre minuti e poi scolate. Tenendo una mandorla tra il pollice e l'indice, e muovendo le dita, la mandorla abbandona la buccia facilmente, ma attenzione che schizza. Ci vuole solo un po' di pazienza a farle una ad una. 2. È il turno dei pomodori: praticate il classico taglio a croce sul fondo e tuffateli in acqua bollente per uno o due minuti. Una volta raffreddati, procedete alla spellatura.

INGREDIENTI 6 persone

300 g di pomodori freschi (ciliegini, pizzutelli, Piccadilly) 50 g di mandorle non pelate 50 g di formaggio pecorino stagionato un mazzetto di basilico olio extravergine d’oliva q.b. sale q.b. pepe q.b. 2-3 spicchi d'aglio rosso di Nubia 400 g di trenette

3. Grattugiate il formaggio pecorino, sbucciate e spezzettate lo spicchio di aglio rosso, lavate e asciugate il basilico. 4. Ora è il momento del pesto. Qui avete due strade: se usate il mortaio, iniziate a lavorare insieme l’aglio, il basilico e le mandorle aggiungendo un filo di olio. Passate quindi il composto in una ciotola e aggiungete il pecorino. 5. È il turno dei pomodori, che vanno pestati nel mortaio, aggiunti agli altri ingredienti aggiustando di sale, olio, pepe macinato al momento. La via più semplice prevede (ovviamente) di passare tutti gli ingredienti nel mixer aggiungendo sale, olio, pepe macinato al momento.

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6. Lessate la pasta in abbondante acqua salata; scolatela, versatela nella zuppiera con il pesto, aggiungete eventuale olio e mescolate bene.

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7. L’ultimo passaggio è il più poetico. Inalate il profumo sprigionato dal piatto, gustate e avrete visioni di coste frastagliate, mare cristallino, mulini, saline, torri d'Oriente.


Racconti di bresaola... e che bresaola!

WAGYU MIYABI A5

CON GELATO ALL'AGLIO IN EMBER ROASTING

Vi ricordate quando Gianfranco scherzava sulle bistecche frollate centinaia di giorni dicendo che diventavano bresaole? Beh, non era difficile immaginare che prima o poi avrebbe mostrato cosa intendeva dire. BBQ4ALL ha permesso a pochi eletti di mettere in tavola la prima produzione di Bresaola Wagyu Miyabi A5. Terminato il suo periodo di stagionatura, adesso è pronta per essere portata in tavola. La carne è carne. Dopo un fisiologico periodo di frollatura che può benissimo stare nell'arco dei 120 giorni, frollare diventa un esercizio inutile in ottica di costi/benefici. Altro conto è decidere di fare gastronomia di alto livello. Ed è quello si è deciso di fare nel Megastore. Chiaramente, una cosa è la bresaola tradizionale, altra cosa è quella proposta sul Megastore. Che cosa dovete aspettarvi dalla Bresaola di Wagyu Miyabi A5? Chiaro: un’esperienza completamente diversa. Prendete la vostra idea di bresaola tradizionale. Mettetela in un cassettino e lasciate la vostra immaginazione gastronomica libera per questa nuova esperienza. Cercheremo di riassumerla in pochi punti efficaci. Punto uno, il grasso. Qui siamo ben oltre il 75% di grasso rispetto al magro. Un prodotto esclusivo, ricco di grassi buoni.

Punto tre ma non ultimo, la consistenza. È impossibile affettarla e consumarla in modo sottile come la bresaola tradizionale perché si scioglie letteralmente, lasciandovi con le mani ben unte ma… vuote. Questa bresaola va consumata a fette belle cicciotte, piene piene. Solitamente, la bresaola convenzionale trova larghissimo impiego nelle preparazioni che necessitano di un apporto calorico limitato e dal contenuto proteico alto. La bresaola, solitament,e è un alimento passe-partout: la si usa per colazioni, spuntini, pranzi e cene. Gli abbinamenti con la bresaola sono svariati: con formaggi freschi, spalmabili o stagionati, erbe aromatiche, spezie in prima battuta. Ortaggi e verdure come pomodorini, peperoni, zucchine, si prestano benissimo a condire insalate con bresaola e ad arricchirne l’apporto vitaminico. Si presta benissimo ad essere ultimata con qualche goccia di aceto balsamico oppure emulsioni di vino rosso. La sapidità e l’aromaticità di questa preparazione è riconosciuta e rendono la bresaola particolarmente pregiata, giustificandone di fatto i prezzi decisamente sostenuti. Per presentarvi le infinite possibilità della bresaola di Wagyu abbiamo optato per dei fagottini ripieni di stracciatella e rucola, gherigli di noci, un pizzico di Sal’s Rub Mount Nimba, legati con filo di erba cipollina, leggermente spennellati con emulsione di olio e limone e accompagnato con del gelato all’aglio, lavorato con la tecnica dell’ember roasting, perfetta per gli ortaggi e le verdure.

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Punto due, il punto di fusione del grasso. Si scioglie in mano grazie all'incredibile quantità di acido oleico presente. L’acido oleico è importantissimo: aiuta a tenere sotto controllo il colesterolo, ma ricordate che per indicazioni precise sui vari regimi

alimentari da adottare, è sempre utile sentire un nutrizionista. Occhio, quindi.

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PREPARAZIONE GELATO ALL'AGLIO 1. Mettete sulle braci per 20 minuti un aglio intero bello grosso, poi formate un cartoccio di alluminio con 10 ml di olio e lasciatelo in cottura indiretta per altri 15 minuti. 2. Dopodiché, prelevate la polpa dall’aglio intero e frullatela.

INGREDIENTI 6 fagottini

1 confezione di bresaola Wagyu Miyabi del Megastore 1 vaschetta di stracciatella Un mazzettino di rucola 10 gherigli di noci (da tostare). 1 cucchiaino di Mount Nimba qualche filo di erba cipollina 15 ml di olio extravergine d’oliva qualche goccia di Limone 4 spicchi di arancia 1 aglio intero 2 tuorli d’uovo 50 g di zucchero a velo 250 ml di panna 125 ml di latte parzialmente scremato Alcune gocce di miele

3. Sbattete 2 tuorli d’uovo con lo zucchero a velo, ottenendo un composto abbastanza chiaro e denso. 4. Portate a bollore la panna assieme al latte, aggiungete la polpa d’aglio e lasciate sobbollire a fiamma bassa per 15 minuti circa. 5. To g l i e r e d a l f u o c o e aiutandovi con una frusta, aggiungete il composto con le uova. 6. Riportate a fuoco basso mescolando continuamente fino a che il composto non diventa setoso. 7. Aggiungete altra panna, un pizzico di sale e far raffreddare 2 ore in frigorifero.

2. Prendete una fetta di bresaola; stendetela su un piano con carta alluminio. 3. Mettete un cucchiaio di stracciatella condita con rucola, Rub e noci tritate al centro della fetta. 4. Arrotolate in maniera stretta la fetta di bresaola, creando così il ripieno. 5. Prendete un filo di erba cipollina e legate il fagottino. Dopodiché, lasciate riposare in frigo. 6. Al momento del servizio, prendete gli spicchi d’arancia e privateli della buccia. Prendete il gelato d’aglio e un paio di gherigli di noce come decorazione. Aggiungete qualche goccia di miele. Preparatevi a godere con i fagottini di bresaola Wagyu Miyabi!

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8. Il composto così ottenuto è buono già da solo, ma il vostro scopo sarà quello di ottenere un gelato da accompagnare la carne. Quindi, se siete in possesso di una gelatiera, utilizzatela normalmente seguendo le istruzioni in essa contenute. L’altro metodo, per chi non ha la gelatiera, consiste nel mettere in freezer per 3 ore il composto, poi frullatelo con un minipimer e rimettetelo altre 4 ore in freezer. Eventualmente, aggiungete un po’ di maizena.

PREPARAZIONE FAGOTTINI 1. Tritate la rucola; dopodiché, versate la stracciatella in una ciotola capiente, aggiungete il trito di rucola, il Rub e i gherigli di noce tostati in precedenza e successivamente tritati leggermente al coltello.

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Le mandorle? Provatele affumicate!

SALTY SMOKED ALMONDS Chi di voi andando ad una sagra paesana non si è mai soffermato a guardare e successivamente a comprare un sacchetto di mandorle tostate, da sgranocchiare passeggiando? Quel profumo inebriante è un richiamo fortissimo, specie se unito al chiassoso urlo del venditore. Perché non provate a prepararle per ingannare l’attesa dei vostri commensali, aspettando la cottura delle vostre pietanze al bbq? Saranno anche un grane aiuto per fermare quel certo languorino dei vostro amici affamati. Anzi, a un certo punto dovrete obbligarli a smettere di mangiare mandorle, per non compromettere il resto del pranzo. Le mandorle non sono altro che il seme della pianta del mandorlo, originaria del Medio Oriente. Ad oggi, tuttavia, il maggior produttore e consumatore di questo seme sono gli Stati Uniti d’America. In una manciata di mandorle troviamo, in quantità discretamente apprezzabili: fibre, proteine, vitamina E, fosforo e grassi. Tutto questo con pochissime calorie e carboidrati digeribili. Le mandorle sono ricche di antiossidanti, concentrati sopratutto nelle bucce. Insomma, non solo sono incredibilmente salutari, ma sono di una delizia croccante: una tira l’altra. Ottime per essere consumate dolci, danno il meglio anche in versione salata. E in questo caso avranno una marcia in più, dato dalla nota affumicata. Il momento migliore per trovare delle belle mandorle fresche per la nostra ricetta è la fine dell'estate. Vi diamo un suggerimento: questa ricetta riesce benissimo anche con noci, nocciole oppure pistacchi. O ancora, arachidi o mais. Insomma, se non avete mandorle fresche a disposizione non sarà un problema!

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Le mandorle affumicate sono ottime non solo manguate da sole, ma anche per guarnire delle insalate, oppure assieme a piatti a base di riso, tartare di pesce e, perché no, sul gelato.

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Ultima cosa: anche se nulla vieta di mangiarsele calde calde, sono ottime lasciate raffreddare e addirittura tolte dal frigorifero.

INGREDIENTI 500 g di mandorle fresche pelate un litro di salamoia al 25% aceto di mele q.b. olio extra vergine di oliva q.b. una confezione di Rub Montreal della linea Sal’s seasoning


PREPARAZIONE 1. Prima di metterle nel vostro dispositivo di cottura, dovrete immergere le mandorle in acqua salata per almeno 45 minuti: lasciarle troppo a lungo creerebbe solo un loro rigonfiamento. Aggiungete alla salamoia anche un po di succo di limone o aceto di mele, questo solo per impedire che l’acido fitico (presente nelle mandorle) blocchi del tutto l’assorbimento dei minerali. A vostro gusto, potreste usare altri agenti bagnanti: la salsa di soia, la salsa di teriyaki, l’aceto di mele, le bibite o i succhi. Oppure andare ad annaffiarle una seconda volta con un vino dolce, tipo Moscato o spumante, Marsala, cognac e, perché no, anche una buona birra di tipologia Stout. 2. Togliete le mandorle dalla salamoia e asciugatele per bene con la carta assorbente Ora dovrete solo andare a lubrificarle con un aggrappante che servirà a far attaccare il rub. L’olio extra vergine di oliva va più che bene. In alternativa potete montare dell'albume d'uovo con l’aggiunta di un cucchiaio di acqua. Ma anche salsa di soia

unita a olio di cocco fuso e tabasco. Oppure, salsa Worcestershire e burro fuso. 3. Una volta lubrificate, cospargete le mandorle con il rub. Noi abbiamo scelto il nostro Montreal, ma voi potete optare per una scelta diversa, adattandovi ai vostri gusti personali. Potete anche combinare più rub tra loro senza problemi, usare spezie orientali o nostrane, versioni dolci, salate o piccanti: assaggiate e calibrate a piacere. 4. Settate il vostro dispositivo sui 150°C per una cottura in indiretta. Il tempo massimo di permanenza in griglia sarà di un’oretta circa. Posizionate le mandorle su una teglia forata e mettetele in cottura, affumicandole: saranno pronte quando le vedrete bene asciutte e il rub si sarà caramellizzato: non fatele annerire troppo Per quanto riguarda la presenza aromatica data dai legni, scegliete il blend che più vi piace e andate tranquilli: il sentore di fumo non sovrasterà quello del rub.

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CREMA DI MELONE IN EMBER CON

SALAMINI AFFUMICATI Evoluzione di un grande classico Qualche giorno fa, in una trasmissione radiofonica molto nota, è partita la “domanda-ammazza-noia-per-coinvolgere-gli-ascoltatori”: per voi, quando inizia davvero l’estate? Fra le molteplici risposte, una andava per la maggiore:”l’estate inizia davvero quando si comincia a cenare con prosciutto e melone”. In molti associano alla cucina degli anni ‘80 questo famoso - per non dire famigerato - abbinamento, un periodo in cui in effetti veniva servito come antipasto un po’ ovunque:il piattp aveva anche quell’aria un po’ esotica e un po’ rivoluzionaria perché “ehi, serviamo la frutta dolce con un cibo così salato: che trasgressione!” In realtà questa semplicissima ricetta pare che abbia origini molto antiche e risalga ai tempi di Galeno di Pergamo, un famoso medico greco vissuto nel II secolo d.C. Secondo Galeno, medico personale di Marco Aurelio, era fondamentale tener conto della natura che ogni cibo ha e che è legata ad uno dei quattro elementi: acqua, aria, fuoco e terra. Ognuno di loro presenta in natura due fra questi quattro attributi: caldo, freddo, secco e umido; l’uomo, al fine di preservare la propria salute, dovrebbe bilanciarli perfettamente tra loro. Il melone era considerato un cibo umido e freddo; il prosciutto, invece, era visto come un cibo caldo ed asciutto, perché subisce un processo di stagionatura. Prosciutto e melone era quindi un abbinamento davvero perfetto.

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Tornando a noi, sicuramente questo accostamento presenta molti punti a suo favore. Dal punto di vista nutrizionale, è ricco di nutrienti molto utili all'organismo nel periodo estivo, quando abbiamo bisogno di combattere spossatezza e perdita di liquidi. Grazie al prosciutto ci riforniamo di proteine e di sali minerali, grazie al melone introduciamo acqua e vitamine. Non è da sottovalutare il fatto che un pasto così completo sia anche velocissimo da preparare. E, soprattutto, non richiede cottura. D’altra parte, siamo onesti, è un po’ demodé e banalotto. Volendo servire un pranzo estivo agli amici non si fa una grande figura con prosciutto e melone, ammettiamolo. Per questo motivo oggi vi presentiamo una sua evoluzione, forse un po’ meno veloce da preparare visto il piccolo passaggio in cottura richiesto, ma che sicuramente diventerò una preparazione molto scenografica e originale. Insomma, varrà la pena perderci un po’ di tempo per un risultato molto più soddisfacente.

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Il melone sarà cotto in ember roasting: i lettori storici si ricorderanno che avevamo già presentato una ricetta col melone cotto direttamente sulle braci, nel numero di Luglio 2019. Quella volta avevamo trasformato la polpa succulenta in un ghiacciolo allo yogurt. Stavolta la trasformeremo in una crema fredda, aromatizzata con lime e menta, che serviremo insieme ai nostri splendidi salamini affumicati. Visto? Anche noi abbiamo rispettato l’abbinamento caldo-secco e freddo-umido, ma con un pizzico di fantasia e di inventiva; non abbiamo perso neanche stavolta l’occasione di accendere un po’ di carbone, poi sempre per bilanciare possiamo buttarci in piscina.

INGREDIENTI 4 persone

Un melone di grandi dimensioni due lime qualche foglia di menta a piacere un pizzico di sale ghiaccio q.b. tre confezioni di Slim Beam Salami snack by Crimson Crest


PREPARAZIONE 1. Accendete mezza ciminiera di bricchetti e versateli nel dispositivo sulla griglia carboni. Appoggiateci sopra il melone e chiudete il coperchio. Dopo circa venti minuti giratelo dall'altro lato. Sarà pronto quando lo vedrete bruciacchiato fuori e lo sentirete cedevole al tatto. Potrebbe essere una buona idea praticare un foro nella buccia, al fine di evitare che la pressione interna lo faccia esplodere. La cottura in ember dona al melone una lievissima, non invadente, nota affumicata e caramellata. 2. Togliete il melone dalle braci, apritelo a metà facendo molta attenzione a non bruciarvi e lasciatelo raffreddare. 3. Una volta raffreddato, con un cucchiaio privatelo dei semi, poi scavate bene la polpa e mettetela in una bowl con sotto il ghiaccio: frullatelo a immersione insieme al succo dei due lime e a un pizzico di sale.

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4. Ponete la crema ricavata in frigo a raffreddare, anche per una notte intera, e il giorno dopo servitela insieme ai salamini affumicati, formati all’80% da Wagyu F1 Crimson Crest, e al 20% da maiale Duroc Greedy’s Hog. Decorate il tutto con foglioline di menta fresca e gustatevi questa delizia: un salamino e mezzo cucchiaino di crema, un salamino e mezzo cucchiaino di crema e così via… fino alla fine.

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LA BAGUETTE È PIÙ BUONA CON IL BLACK ANGUS

La fame estiva va saziata con cose pratiche, fresche e che non facciano rinunciare al gusto. Ad esempio, in estate diventiamo tutti massimi esperti di panini. Il panino è pratico, goloso, svuotafrigo oppure gourmet all’occorrenza.

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Oggi vi presentiamo un panino d’autore sì, ma di una semplicità estrema anche. Parliamo di una fragrante baguette farcita con roast beef di Black Angus, salsa al formaggio cheddar e peperoncini jalapeño. La baguette ha davvero bisogno di ben poche presentazioni: tutti noi conosciamo l’iconico sfilatino di pane di semola spesso preso come simbolo (oppure bonario sfottò) della Francia e dei francesi. Viene chiamato anche francesino o pane francese. Questo formato di pane ha delle caratteristiche ottime, che lo rendono uno dei pani preferiti per essere farciti. La baguette in realtà ha origini viennesi; successivamente, quando nel 1920 una legge francese vietò ai fornai di Francia di lavorare prima delle ore 4 del mattino, questo pane lungo e pratico si diffuse grazie alla velocità con il quale poteva essere cotto e, quindi, proposto ai clienti più mattinieri. Può fregiarsi del titolo di “pane della tradizione francese” se presenta solo questi ingredienti: acqua, farina, lievito di birra (o lievito madre) e sale.

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All’interno della nostra baguette, faremo alternare strati di tenero e burroso manzo cotto al sangue

ed affettato finemente e croccantissime cipolle dorate insaporite dal basilico fresco. Il tutto sarà innaffiato da una dose generosa e opulenta di salsa al cheddar e jalapeño.

Per il roast beef abbiamo utilizzato la testa di filetto ma nulla vi vieta di utilizzare grandi classici come l’Eye-Round o sbizzarrirvi con tagli più particolari come ad esempio una flap meat. Il peperoncino jalapeño, con la sua piccantezza mite e il sapore fruttato, è la spalla perfetta per insaporire la salsa al cheddar cremosa ed avvolgente. Se preferite una versione più piccante aggiungete il peperoncino che più gradite, in caso contrario sostituitelo con una brunoise di peperone rosso.

INGREDIENTI 2 persone

2 pani formato baguette da circa 120 g l’uno 1 filetto di Black Angus Creekstone Farms da 250 g Sal’s seasonings Ultimate SPOG a piacere olio extravergine d’oliva q.b. 2 cipolle dorate basilico fresco q.b Per la salsa al cheddar: 1 l di panna fresca 30 g vino bianco secco

Per il pane, vi abbiamo consigliato la baguette, per la sua fragranza e la capacità di catturare i condimenti. Ciò non vieta di poterne usare un altro tipo. Sceglietene una tipologia che sia consistente per racchiudere e sostenere tutti i nostri ingredienti ma che al morso si strappi con facilità ed eviti che fuoriesca tutto sbrodolandovi miseramente. Anche varianti arricchite con semi o frutta secca si prestano benissimo a questo tipo di preparazione. Non vi resta che mettervi all’opera per poi chiamare a raccolta gli amici, i parenti, i colleghi e anche i nemici e offritegli un pezzo di paradiso. Vi ringrazieranno, vi ameranno ancora di più e la capriola sulla sedia sarà assicurata, garantito!

600 g formaggio cheddar 1 cucchiaino di paprika 1 cucchiaino di curcuma 5 peperoncini jalapeño rossi sale q.b. pepe q.b. 1/2 cucchiaino di gomma di xantano


PREPARAZIONE 1. Condite il filetto con uno strato generoso di Ultimate Spog dopo averlo uniformemente massaggiato con un velo di olio extravergine d’oliva. Chiudete il filetto in un sacchetto sottovuoto e cuocetelo in bagno termostatico a 52°C per 55/60 minuti. 2. Abbattete in positivo o immergete in una bowl piena di acqua e ghiaccio il filetto, così da interromperne la cottura in tempi brevissimi. 3. Una volta raffreddato e privato del sottovuoto, asciugate il filetto in maniera accurata; dopodiché rosolatelo in padella rovente o su una griglia temperatura inferno pochi minuti per lato, girandolo spesso, fino ad ottenere una crosticina profumatissima e saporita. È importante fare questo passaggio con il filetto il più freddo possibile così da ottenere una perfetta cauterizzazione esterna e mantenere l’interno rosato e succoso. 4. In un termomixer fate scaldare la panna, il cheddar tagliato in cubetti, la curcuma, il vino e la paprika ad una temperatura compresa tra

i 50°C e i 60°C, a velocità media per un tempo di circa 6/7 minuti, così da essere sicuri di aver sciolto tutto il cheddar nella massa. 5. Aggiustate a questo punto di sale, pepe e fate andare alla massima velocità aggiungendo la piccola dose di gomma di xantano. 6. Tagliate i peperoncini a tocchetti piccolissimi e completate la fonduta, una volta che quest’ultima sarà diventata tiepida. 7. Per le cipolle invece vi basterà tagliarle à la julienne e farle saltare in una padella rovente per pochi minuti, condendole con poco sale e pepe. 8. Eliminate le punte delle baguette e tagliatele in tranci comodi da mangiare. Tostateli leggermente in padella con un filo d’olio extravergine d’oliva e disponete a strati nel panino una dose generosa di salsa al cheddar, uno strato di cipolle, un doppio strato di carne affettata molto sottile e un tocco di basilico fresco tritato per dare aromaticità. In ultimo, spruzzate con succo di limone.

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CROSTONE M'hai provocato? E io me te magno!

Crostoni o bruschette, due preparazioni molti simili declinate anche al diminutivo, crostini e bruschettine, che nell’immaginario collettivo sono sinonimi di antipasto o di aperitivo. Avete presente quelle tipiche situazioni in cui vi trovate a dover mangiucchiare qualcosa prima della cena per stuzzicare l’appetito - come se non foste giù affamati come lupi - e vi trovate di fronte vassoi interi di queste deliziose fette di pane condite nei più svariati modi? Alzi la mano chi non si è trovato almeno una volta nella vita a riempirsi di bruschette e a rovinarsi il resto della cena. Il neologismo molto cool “apericena” è probabilmente nato per colpa di questi deliziosi stuzzichini: una volta finito l’aperitivo non rimaneva più posto per il resto. Fra le millemila declinazioni dei crostoni di pane conditi e farciti, certamente uno che va per la maggiore è quello con la salsiccia. Specialmente in estate, un succoso salsicciotto servito su fette di pane croccanti e calde può essere considerato un veloce salvacena: e se lo facessimo con una materia prima di altissima qualità? Noi abbiamo provato a farlo con la salsiccia di Wagyu F1 Crimson Crest del nostro Megastore, già cotta e affumicata. In Texas è molto comune consumare le "Smoked Hot Links": salsicce di manzo speziate e affumicate. Eh sì, di manzo, che non è esattamente come quella di maiale: parliamo di un prodotto un poco più ostico da cuocere e da mantenere succoso. Per questo motivo noi di BBQ4All abbiamo pensato che proporla cruda sarebbe stato limitante, perché è l'affumicatura a renderla così speciale. Per facilitare la vita dei nostri clienti, abbiamo quindi deciso di affumicarle noi, in modo che potessero trovare un prodotto praticamente già pronto. Abbiamo preso il Wagyu e l'abbiamo tritato al cutter. Abbiamo aggiunto solo un 20% di tagli secondari di maiale (un po' di grasso e un po' di collagene), sale e pepe, budello e via nel forno affumicatore con ciliegio e hickory fino alla temperatura perfetta e per il tempo necessario. A questo punto sono già pronte, sono cotte: vanno solo fatte rinvenire e poi servite. Davvero facile, no?

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Essendo già esplosive da sole, siamo andati sul minimal: per questa ricetta abbiamo arrostito il pane e fatto una salsa di accompagnamento davvero passe-partout: la salsa tiger. Il risultato è spettacolare: in dieci minuti servirete in tavola un piatto gourmet che vi farà fare un figurone, anche solo per il nome affascinante ed evocativo della materia prima.

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Vi piace questa nostra idea di apericena? Sì, ma anche apericolazione, aperipranzo, aperimerenda: troverete sempre una scusa per mangiare questa delizia.

INGREDIENTI 4 persone

una confezione di Smoked Hot Links un filone di pane casereccio per la salsa tiger: 300 g di maionese 150 g di senape 2 cucchiaini di succo di limone 1 cucchiaino di aglio in polvere sale e pepe q.b.

PREPARAZIONE 1. Fate rinvenire le salsicce nella confezione immergendole in acqua bollente. 2. To g l i e t e l e d a l l a confezione e grigliatele sul vostro dispositivo in cottura diretta, oppure piastratele velocemente. 3. Tagliate il pane a fatte alte circa un centimetro e poi abbrustolitele, sempre sul vostro dispostivo o in una padella con un filo d’olio. 4. Tagliate le salsicce in rondelle e adagiatele sul pane caldo. 5. Conditele con la salsa tiger che avrete preparato mescolando tutti gli ingredienti.


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La patata come non l’avete mai mangiata!

KARTOFFELSALAT E WÜRSTEL

Torniamo a parlare di un’insalata che, come abbiamo già potuto appurare in qualche numero passato, non è sempre sinonimo di dietetico, leggero e fresco. Anzi, moltissime volte mangiare un’insalata si trasforma in un’esperienza soddisfacente e completa, molto distante da quella specie di triste punizione riservata a chi segue una dieta particolarmente rigida. Rientra nella categoria insalate soddisfacenti anche quella che vi presentiamo oggi.

Si tratta della Kartoffelsalat, la tipica insalata di patate bavarese. Il nome parla chiaro: è consumata principalmente in Germania, ma anche in Alto Adige. È una pietanza gustosa e ad altro contenuto calorico, che si può servire sia calda che fredda. Secondi alcuni le origini di questa ricetta sarebbero polacche; certamente si tratta di un piatto povero, che vede l’utilizzo di uno degli ingredienti principali della cucina tedesca. La Germania è nota per essere uno dei Paesi che ama di più la patata, oltre a produrne davvero in quantità gigantesche: per decenni è stata la base della loro cucina, preparata in svariati modi. Si dice che negli anni ‘50 ogni tedesco mangiasse circa 200 chilogrammi all’anno di patate. Anche se oggi i consumi dello squisito tubero sono calati, la patata rimane sempre un cibo molto amato da quelle parti. E, onestamente, anche dalle nostre.

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Abbiamo pensato di rivisitare - come sempre a modo nostro - questo classico della cucina tedesca. In realtà in Germania esistono vari tipi di insalate di patate, che di solito vengono suddivise in due gruppi: insalata di patate condita con maionese o con sale olio e aceto. Noi abbiamo scelto quella più famosa e goduriosa: con maionese , ça va sans dire. Di solito, le patate vengono bollite e successivamente condite con una salsa a base di maionese, sostituita a volte con panna o yogurt. Noi invece abbiamo cotto i tuberi sotto la cenere, in ember roasting, poi li abbiamo conditi con una salsa a base di senape e maionese e infine serviti, come da tradizione, coi würstel: con i nostri meravigliosi Franks Würst, fatti di sola carne Black Angus americana Blue Ox.

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Anche se in Germania la Kartoffelsalat non ha stagione, e viene servita per ogni occasione, dal Natale alle grigliate estive, ci è sembrato giusto presentarvi adesso questa ricetta, perché per noi i cibi serviti freddi richiamano subito l’estate anche se, come in questo caso, non rispettano esattamente le direttive della TV: quando fa molto caldo uscite solo nelle ore serali e mangiate leggero, preferibilmente frutta e verdura.

INGREDIENTI 4/6 persone

1 kg di patate novelle 2 cipollotti sale q.b. pepe q.b. prezzemolo (o erba cipollina) due confezione di Franks BLUE OX per la salsa 2 cucchiai di senape 2 uova 400 ml di olio di semi due cucchiai di succo di limone o aceto un pizzico di sale


PREPARAZIONE 1. Predisponete il dispositivo per una cottura a contatto con le braci. 2. Avvolgete le patate nel foil con tutta la buccia e appoggiatele sul carbone, ricoprendole con cenere e carbone. Fatele cuocere finché non riuscirete ad infilzarle con la forchetta senza nessuna difficoltà. Toglietele dalla cenere, lasciatele leggermente raffreddare e poi pelatele. 3. Tagliate adesso le patate a cubetti, il più regolari possibili. Teneteli da parte in una ciotola. 4. Preparate la maionese in versione super veloce, frullando insieme con un frullatore a immersione le uova fredde, l’olio, il sale e l’aceto. Una volta fatta, aggiungete alla maionese la senape e il cipollotto tritato finemente. Aggiustate di sale e di pepe e tenete da parte. 5. A questo punto, condite le patate con la salsa ottenuta, giratele delicatamente e tenetele in frigorifero fino al momento del servizio. Questa operazione può anche essere fatta il giorno prima: le patate assorbiranno buona parte della salsa e saranno ancora più gustose. 6. Rigenerate i würstel in acqua calda senza toglierli dalla busta. Quando saranno caldi, passateli velocemente in piastra o in cottura diretta sulla griglia del vostro dispositivo.

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7. Servite la vostra Kartoffelsalat a temperatura ambiente o appena tolta dal frigo, condendola un po’ con prezzemolo o con erba cipollina, insieme ai würstel ancora caldi.

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INGREDIENTI 6 persone

2 rotoli di pasta sfoglia rotonda 3 würstel Franks Würst Blue Ox 1 formina di Brie da 150g 1 uovo semi di sesamo

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Smoky chipotle Sal’s Seasoning

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E come un girasole giro intorno a te!

BRIE

AFFUMICATO E WÜRSTEL

I girasoli di pasta sfoglia ripieni di formaggio brie e Franks Würst BLUE OX possono essere l’idea più divertente delle feste... ed anche la più golosa! Non solo perché è esteticamente accattivante ma perché contiene al suo interno i miglior würstel in circolazione. Un girasole di pasta sfoglia dorata e croccante, che racchiude nei petali i Franks Würst, i würstel definitivi fatti al 100% di carne di Black Angus americana Blue Ox. Sono già cotti, già affumicati con metodo tradizionale: cioè esposti a vero fumo di legna con essenza di ciliegio e hickory. Al centro del nostro girasole, una formina di formaggio brie dolcemente affumicata in precedenza e condita con il nostro Smoky Chipotle. Ciò che fa la differenza sostanziale in questa preparazione è sicuramente la tecnica del planking applicata al formaggio. Il planking prevede di grigliare le vostre pietanze a contatto con una tavoletta di legno (solitamente di cedro), in precedenza scaldata per qualche minuto utilizzando la cottura diretta. In questo modo il fumo prodotto e gli oli essenziali doneranno alla preparazione un’aroma molto particolare, delicato e gustoso. A differenza del Camembert, molto più intenso e dal sentore di tartufo, il formaggio brie con la sua delicatezza si presta molto bene in questo piatto. La tecnica è fondamentale: si stacca un pezzo di sfoglia con una leggera torsione , si intinge con ingordigia nel formaggio fuso e poi in una salsa a scelta.

1. Stabilizzate il vostro dispositivo con un setup indiretto e scegliete una tavoletta di legno dell’essenza che preferite. 2. Dopo averla tenuta a bagno per circa mezz’ora, sistematela in cottura diretta con il brie ed aspettate che inizi a fumare. Successivamente, potrete spostare l’intera tavoletta sul lato indiretto e lasciare affumicare per 10/15 minuti. 3. Sovrapponete i due dischi di pasta sfoglia senza schiacciarli ed al centro di quello inferiore inserite il brie precedentemente raffreddato, avendo cura di sigillarlo bene con il disco superiore. 4. I lembi restanti di pasta andranno divisi in quattro quadranti a loro volta suddivisi in tre sezioni così da ottenere un totale di 24 petali del nostro girasole. È importante lavorare sempre in ambiente fresco aiutandosi con il frigo,al bisogno, viste le temperature estive. 5. Dividete ogni würstel in otto pezzi uguali ed avvolgere con ogni sezione di pasta il singolo pezzo di würstel; poi richiudetelo attorno al brie come se fosse la corona di un girasole. 6. Una volta terminati i würstel, spennellate con l’uovo leggermente sbattuto e cospargere con un leggero strato di semi di sesamo senza esagerare. 7. Cuocere a 200°C per circa 30/35 minuti, avendo cura di controllare le parti più spesse in cui si uniscono i lembi di sfoglia. 8. Una volta pronto il nostro girasole, scoperchiare con cautela brie e liberarlo dalla crosta fiorita superiore. Cospargete con un velo leggero di Smoky Chipotle e servite ancora caldo!

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Si presta perfettamente una salsa dal sentore acidulo, leggermente piccantina o un chutney di frutti rossi.

PREPARAZIONE

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PIZZA FRITTA con ricotta, provola e salame affumicato GLC Top Selection Portfolio gastronomico a cura di Nunzia Clemente

UNA STORIA DORATA, UNTA E PROFUMATA CON BARICENTRO A NAPOLI Fino a qualche anno fa, c’era un alone di sospetto nei suoi confronti. Lei, proprio lei, la biondissima e profumosa pizza fritta. Additata come calorica, non esportabile in un posto che non fosse Napoli, imbibita di chissà quali proprietà malefiche a causa della frittura breve a temperature sostenute: ecco, ci spiace dirlo, ma vista la diffusione a macchia d’olio (sic!) i detrattori farebbero bene a mangiarne e stare zitti. La pizza fritta è diventata un’icona di street food, perlopiù associata alla vita napoletana, città dove questo alimento ha una vita ben prospera. Personalmente, ho bei ricordi della pizza fritta, pur non vivendo a Napoli da un po’. Una volta di un bel po’ di anni fa, ormai, io e una-bravissima-fotografa-in-servizio-qui-al-Magazine abbiamo assaggiato e fotografato almeno una ventina di pizze fritte. Ebbe la capacità innata di renderle belle e sensuali.

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Loro, le pizze fritte. Noi invece accettammo di buon grado di metter su qualche chilo e basta, senza colpo ferire. Sicuramente parente prossima di calzone, panzerotto e gnocco fritto in giro per l’Italia, ma ho pochi dubbi: anche voi la considerate regina fritta tra i fritti.

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La conosciamo un po’ meglio insieme, vi va? Vi prometto di non farvi salivare troppo. Beh, dico bugie: in ogni caso, fra qualche pagina, dovreste trovare un ottimo metodo per rimediare alla voglia compulsiva di pizza fritta. Così vi scottate le dita a dovere.


PIZZA FRITTA: NASCITA DI UNA LEGGENDA Di frictilia abbiamo molto parlato, qualche numero fa del Magazine: per sommi capi, la pizza fritta può essere paragonata ad una grossa frittella, in questo caso salata (ma che i pizzaioli contemporanei declinano sovente anche in versione dolce). Nell’antichità, era spesso guarnita dopo cottura e ripiegata con in mezzo il condimento, talvolta dolce (fichi, miele, uva), talvolta salato (salse di pesce come il garum). Al giorno d’oggi potremmo dire che questa sia diventata la contemporanea montanara, cioè un pallone di pasta fritta con un topping di ingredienti sia crudi che preparati (come ad esempio, il ragù o la genovese). Un dato di base ed incontrovertibile, prima di narrarvi citazioni e leggende, c’è: la pizza fritta è la parente povera della pizza al forno, su questo non ci piove; né sembrano esserci pareri fortemente contrari. Da sempre e di gran lunga è stato più semplice possedere e trasportare un pentolone colmo d’olio, non un forno a legna. Famosa è la teoria secondo la quale la pizza fritta sarebbe nata dall’ingegno delle donne napoletane, durante il Secondo Dopoguerra, vista appunto la penuria di forni a legna. Una testimonianza di ciò ci è stata lasciata dal film film di Vittorio de Sica “L’oro di Napoli”, datato 1954, con una magica Sofia Loren a fare la parte della pizzaiola in uno degli episodi chiamato “Pizze a credito”. Sicuramente, per i motivi citati prima, la pizza fritta ebbe una risonanza maggiore nei periodi di fame del popolo napoletano. Ma esistono numerose citazioni del nostro unto disco di pasta, anche di un certo pregio. Ad esempio, le “zeppulelle” – cioè tocchetti di pastacresciuta fritti, antesignani e parenti della nostra pizza fritta, la tsippola – sono ampiamente citate in un componimento in versi del marchese Giovanni Battista del Tufo. Il Marchese è a Milano e descrive con malinconia un venditore ambulante napoletano di zeppole con le mele. BBQ4All Magazine

Ancora, qualche secolo più in là – precisamente, durante il XIX secolo – fu il Duca di Buonvicino, Ippolito Cavalcanti, a descrivere nella sua

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opera magna “Trattato di cucina teorico-pratica” a fornire altre due ricette per le “zeppulelle”, da fare durante la settimana di Pasqua. Il martedì era dedicato alle zeppulelle di baccalà, da fare “dinto a na tiella chiena d’uoglio, e jon, jonne, e asciutte l’accuonce dinto a lo piatto sujo” (da friggere in una padella piena d’olio, asciugare e poi sistemare per bene nel piatto); mentre per il Giovedì Santo le zeppole erano da fare “mbuttunate d’alice”, cioè ripiene di pescetti piccoli, di minuzie. La grande giornalista e storica napoletana Matilde Serao, autrice de Il ventre di Napoli, ci descrive ancora le zeppole e l’usanza del popolo napoletano di comprare – per un solo soldo! – dai venditori ambulanti dei “panzerotti” ripieni con un torsolo di cavolo, o ancora un’alice o ancora qualche foglia di carciofo. Avanzi, insomma. Queste testimonianze – ho applicato una selezione – ci dimostrano che la zeppola/pizza fritta era un cibo profondamente radicato nella mentalità del popolino, grandemente versatile, facilmente reperibile e, soprattutto, disponibile a poco prezzo. Non tutti potevano permettersi i grandi pentoloni ricolmi di maccheroni, i sughi prelibati dei monsù (i cuochi della corte borbonica E quindi, viva la zeppola (pizza) fritta, cibo comunitario. COS’È, OGGI, UNA PIZZA FRITTA? Non è ben chiaro il passaggio da zeppola (tsippola) a pizza quando sia avvenuto: vi basterà sapere che in provincia di Napoli e nelle altre province campane la pizza fritta è ancora chiamata così. Zeppola. Ho provato a chiedere spiegazioni a zeppolari del mio paese. Spiegazioni abbastanza esaustive, devo dire. La zeppola, almeno in provincia, si distingue per l’impasto molto veloce e lasciato lievitare per pochissime ore: questo impasto ultra-veloce era, molti decenni fa, quello preferito dagli zeppolari – non dai pizzaioli – perché dava la possibilità agli ambulanti di non gettare impasto superfluo, magari per una giornata di lavoro andata male a causa del clima nefasto.

Oggi, la pizza fritta è un disco di pasta lavorato con le dita per accogliere un ripieno di vario tipo: solitamente vi è ricotta, pepe, provola, ciccioli (ritagli di grasso e parti meno nobili del maiale) oppure salame. Successivamente, la pizza viene ripiegata su se stessa e chiusa battendo forte sulle estremità, scutuliata (ndr, scossa) per assestarne il condimento all’interno e successivamente immersa nell’olio bollente. Aiutati da una schiumarola, la pizza si frigge e si gonfia in una danza di bolle finché non diventa dorata. Quello appena descritto è il procedimento della pizza fritta “da passeggio”. Esiste anche quella tonda, sovente ricavata con due panetti di pasta: uno come base, l’altro come “coperchio” del ripieno fumante. Le farciture possono essere innumerevoli. Salumi, prosciutto ma anche alici e pescetti di vario tipo. Tra le verdure, gettonata è la scarola ripassata in padella, soprattutto con olive e pinoli, ricetta classica napoletana. La parte dei latticini è quasi sempre affidata alla ricotta ed alla provola, raramente al fiordilatte e alla mozzarella, in quanto troppo cariche di siero e quindi andrebbero a corrompere la struttura “fragante” della pizza fritta. Ve la lancio lì: provate una vostra pizza fritta casalinga, unendo i latticini della tradizione napoletana come ricotta e provola, aggiungendo un tocco di classe con il salame GLC Top Selection... noi l'abbiamo fatto. Senza dubbio, tra le nostre versioni preferite. PESCITIELLO, BATTILOCCHIO, COMPLETA, MONTANARA. VOCABOLARIO DELLA PIZZA FRITTA. La pizza fritta è un universo. Ne esistono infinite varianti e tipologie, vista la sua capacità adattiva. Certo: alcune versioni, con determinate farciture, sono decisamente migliori delle altre. Ma vi sfido: una pizza fritta svuotafrigo della domenica sera sarà oltremodo soddisfacente, come poche altre cose al mondo.

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La pizza, invece, beneficiava di qualche ora di impasto diretto in più. Nerd della pizza, non ti sconvolgere. Lascio a te tutte le spiegazioni del caso. Torniamo a noi. Facile immaginare come le cose, nel magma fluido della società cittadina borbonica, zeppola e pizza siano andate praticamente a

confluire, a mischiarsi, a beneficiare dei rispettivi punti forti – come la praticità, la velocità, la goduria del fritto, la possibilità di farcirla in mille modi diversi – complice anche la distruzione della guerra. I pizzaioli – e le pizzaiole, numerose a Napoli prima! – dovevano pur industriarsi e tirar fuori qualcosa

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COMPLETA. La pizza fritta denominata Completa è solitamente farcita con ricotta vaccina, pepe, provola, ciccioli di maiale o salame (oppure insieme). Opzionale, una “macchia” di pomodoro, per dare colore. Ma molte pizzerie storiche e di quartiere hanno la loro versione della “Completa”, che spesso prevede ingredienti altamente caratterizzanti e che veicolano il flusso di mangiatori professionisti proprio “in quella pizzeria lì” per assaggiarla. BATTILOCCHIO (pescitiello). Un singolo panetto di pasta viene lavorato, riempito ed infine ripiegato su se stesso per poi essere cotto. Di solito il panetto è di dimensioni ridotte ed è la pizza fritta che, tipicamente, viene mangiata per strada, vista la “comodità” nelle dimensioni. MONTANARA: La montanara probabilmente è la forma più antica di pizza fritta. Oggi viene proposta essenzialmente come antipasto (quindi in versioni molto piccole, dei bonbon di pasta fritta), ma ciò non vieta di renderlo un piatto completo ed unico in alcune pizzerie storiche. La Montanara viene dapprima fritta e poi guarnita, sia con preparazioni che con ingredienti a crudo. Per questo abbiamo montanare con sugo di genovese oppure caldo ragù napoletano, ma anche con pomodorini freschi, rucola e mozzarella di bufala a crudo.

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COME SI MANGIA LA PIZZA FRITTA? Dicevo, all’inizio di questo portfolio gastronomico di Luglio, che la pizza fritta è uno street food, cioè qualcosa da tenere tra le mani e mangiare serenamente tra un impegno e l’altro. Sì, ma non solo. Con il passare degli anni – e soprattutto nell’ultimo decennio – la pizza fritta si è imposta come un prodotto “da tavola”, da consumare comodamente seduti e non soltanto appoggiandosi a tavolini di fortuna in piedi, pulendosi alla bell’e meglio la bocca dopo aver ingollato bocconi con la temperatura dell’inferno. Esistono sostanziali differenze tra le pizze fritte dans la rue e quelle servite a tavola.

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Mangiarla per strada. Ecco, converrà non toccare direttamente con le mani la pasta bollente ma proteggersi con la carta oleata. Poi, dare morsi piccoli ma precisi: l’effetto geyser bollente è dietro l’angolo ed è meglio che coli a terra anziché su magliette, visi o barbe provocandovi fastidiose


ustioni. Solitamente, la pizza fritta da consumare per strada è il pescitiello. Mangiarla a tavola. La pizza fritta diventa XXL size, in una sorta di priapismo alimentare. Indifferentemente si trova sia tonda che a forma a di pescitiello. Ancora fumante, la superficie viene bucherellata con i rebbi della forchetta, facendo fuoriuscito il vapore magmatico. COME SI RICONOSCE UN’OTTIMA PIZZA FRITTA? Pochi parametri ben necessari potranno aiutarvi a riconoscere una pizza fritta fatta a mestiere e a goderne. COLORE. La pizza fritta ben fatta ha un colore biondo, uniforme. Diffidate di pizze fritte che presentano zone più scure delle altre. PROFUMO. La vostra pizza fritta dovrà avere un bell’odore – beh! – di fritto. Dovrà essere lieve e predominante, con qualche nota lievitata ad amplificare il tutto. Diffidate di puzza di olio rancido: si riverserà tutta sul vostro bottino. PESO. Soppesate la vostra pizza fritta. Non dovrà essere eccessivamente pesante, cattivo segnale di pasta non perfettamente stesa (deve essere sottile come un velo!) oppure di condimento eccessivo (e quindi temperatura vulcanica). TEXTURE. Superficie croccante e bollente. C’è altro da dire? Tenetevi lontano da consistenze mollicce e freddine. VINO, BIRRA. COSA ABBINARE ALLA PIZZA FRITTA? La pizza fritta richiama un pairing alcolico. C’è poco da fare. La pizza fritta è perfetta per essere abbinata con vini spumanti. La presenza massiccia di CO2 e la maggiore acidità di questi vini ben aiutano a bilanciare la frittura, rendendola piacevole e pulendo il palato dalla grassezza eccessiva. Ma il vino che meglio si abbina alla pizza fritta è, storicamente, il marsala, ancora ad oggi servito in bicchierini in talune friggitorie. Il residuo zuccherino di questo vino ben aiuta a bilanciare le note grasse e a smorzarle. BBQ4All Magazine

Per quanto riguarda il lato birre, c’è da sbizzarrirsi: ci si può concedere Geuze, Lambic e English Barley Wine. L’idea di base è quella di pulire il cavo orale con una acidità spinta ed una buona carbonazione di base.

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Che io sia jalapeño!

PEPERONCINI

RIPIENI CON SALSA AL TONNO

Folgorati da un peperoncino, è proprio il caso di dirlo: è quello che accadde agli esploratori spagnoli capitanati da Hernán Cortés.. Anno Domini 1517: i conquistadores, arrivati in Messico, furono immediatamente colpiti da una pianta dai frutti peculiari che venivano utilizzati dagli indigeni in tantissime pietanze e dalle più svariate forme. Senza paura alcuna, vien da dire.

La pianta in questione produceva peperoncini, nella fattispecie gli ormai arcinoti peperoncini jalapeño. Il nome è un toponimo: infatti, la stragrande maggioranza di questi peperoncini era coltivata nei dintorni della città di Jalapa, capitale dello Stato di Veracruz. “Chile gordo” è l’altro nome del peperoncino jalapeño, grazie al suo diametro consistente e alla semplicità con la quale può essere farcito, dando via a ricette golosissime: dal formaggio al prosciutto, fino al riso.

INGREDIENTI 4 persone

8 peperoncini jalapeño belli grossi e non troppo maturi 1 confezione di filetto di salmone affumicato 1 rotolo di pasta sfoglia 100 g di formaggio spalmabile tipo Philadelphia, meglio se aromatizzato (alle erbe o al salmone) 1 tuorlo d’uovo 25/30 grammi di semi di sesamo per la salsa al tonno 125 g di filetti di tonno all’olio extravergine d’oliva di alta qualità 12 olive verdi

Che sapore ha il “Cuaresmeno”, altro appellativo del nostro peperoncino? Ha un sapore deciso, ma non eccessivamente piccante, soprattutto nelle prime fasi della sua maturazione (cioè quando è ancora verde). Verso il mese di agosto, il suo colore cambia dal rosso al marrone e la sua piccantezza diviene più accentuata. Questa sua caratteristica lo rende appetibile anche a chi non è appassionato ai gusti estremi della scala di Unità Scoville, cioè la scala che misura la “piccantezza” degli alimenti, cioè la capsaicina (la sostanza responsabile) contenuta.

12 olive nere 12 cetriolini sottaceto 5 cipolline sottaceto 6 filetti di peperoni grigliati sottaceto 50 grammi di funghi 5 cucchiaini di maionese * per la maionese: 1 tuorlo d’uovo 50 g di olio extra vergine di oliva 50 g di olio di semi

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Come useremo questo peperoncino godibilissimo, apprezzato e conosciuto anche dai meno avvezzi alla cucina? Ne faremo degli antipasti piccantini, farcendoli come da tradizione sudamericana con una salsina però a modo nostro, fatta con tonno e sottaceti. Dopodiché chiuderemo i peperoncini con una fettina di salmone, per dare un po’ di freschezza.

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Avete l’acqua a portata di mano? Iniziamo!

il succo di mezzo limone sale e pepe q.b.


PREPARAZIONE 1. Per prima cosa preparate la maionese. Avendo cura di usare ingredienti a temperatura ambiente, mettete il tuorlo in una ciotola per minipimer, aggiungete un pizzico di sale e pepe. Aggiungete anche il mix di olio extravergine e olio di semi a filo, rullando in modo continuativo ed omogeneo fino a che il composto sarà ben incorporato. A questo punto aggiungere il succo di limone, ottenendo una salsa ben montata. 2. Ora preparate la salsa al tonno. Sgocciolate i filetti di tonno con cura per poi metterli in un minipimer, assieme alle olive ed alle verdurine sottaceto. Aggiungete la maionese e frullate il tutto. Attenzione, questa salsina semplicissima crea una certa dipendenza: abbiate cura di farla arrivare al tavolo dei vostri ospiti, non spalmatela su crostini prima del tempo! 3. Prendete i peperoncini e dopo averli lavati, tagliate il calice dove è attaccato il picciolo, eseguite un taglio perpendicolare ed estraete la

placenta ed i semi. Se volete essere più tranquilli, usate dei guanti in lattice e una mascherina. 4. Farcite i peperoncini jalapeño con un mix di salsa al tonno e formaggi spalmabili, poi coprite il taglio con un sottile pezzo di filetto di Salmone affumicato. 5. Tagliate a listarelle la pasta sfoglia e avvolgete per bene il peperoncino, partendo dal fondo con un pezzetto quadrato in modo da chiudere l’estremità più larga. 6. Spennellare la parte superiore con il tuorlo d’uovo e far aderire i semi di sesamo. 7. Settare il dispositivo sui 200°C e predisporre il dispositivo per la cottura indiretta. Dopodiché, predisporre i peperoncini jalapeño sul dispositivo, affumicando con legno di cedro per circa 20 minuti. 8. Dopo i 20 minuti, sarete pronti per servire un antipasto sfizioso e… piccante!

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GALLETTO VALLESPLUGA MARINATO ALLE ERBE CON SALSA HONEY MUSTARD C’è qualcuno a cui non piace il galletto grigliato? Vi sfidiamo: non esiste persona a cui non piaccia. Si tratta di un grande classico della cucina italiana, onnipresente in tutte le grigliate estive. Immaginate quanti galletti vengono ogni giorno messi su griglia: ma quanti tra questi saranno davvero buoni? Il problema risiede appunto nella cottura: la stragrande maggioranza dei griller della domenica non ha idea di come cuocere un galletto e spesso lo serve asciutto e stoppaccioso, nonché corredato di pelle flaccida. Sgombrando il banco da lavoro di ogni possibile dubbio, abbiamo quindi deciso di provare per voi il Re dei Galletti, anche per andare sul sicuro utilizzando un prodotto che non possa essere accusato di scarsa qualità. Le aziende, quelle di un certo peso, spesso arrivano ad essere identificate con il loro prodotto di grido. Anche in Italia, ne abbiamo un discreto numero, nate durante il Novecento e perfezionate durante il Secondo Dopoguerra. Tra queste, troviamo la Valle Spluga: nata negli anni Sessanta in provincia di Sondrio (precisamente, in Valchiavenna), si è imposta a livello nazionale ed internazionale per l’allevamento e la messa in commercio del galletto: una vera e propria icona, destinato a diventare il più famoso d’Italia (e forse forse, tra i più conosciuti al mondo). Oggi andiamo a conoscerlo un po’ più da vicino; poi proveremo a metterlo in griglia, secondo gli insegnamenti BBQ4All, vi va?

Grazie al ridotto contenuto di grassi, il sapore del galletto è raffinato, non copre il sapore degli altri ingredienti. Una carne così versatile è ottenuta grazie all'utilizzo di mangimi di alta qualità, formulati esclusivamente da ingredienti naturali. Lo stato di salute degli animali è un aspetto molto importante: il responsabile di allevamento verifica e si assicura di ridurre tutti i fattori di stress, che potrebbero compromettere il benessere generale dei Galletti. In ultimo, ma non in ordine di importanza: la filiera di produzione è al 100% di proprietà italiana, mica poco per il nostro orgoglio nazionale. LA PROVA DEL FUOCO Potevamo mai farci scappare la prova di un galletto così succulento e pieno di buoni propositi? Vi dimostreremo ancora una volta che la qualità della materia prima è fondamentale ai fini del risultato finale. Ma non solo: bisogna anche avere la conoscenza per saperlo trattare. IL GALLETTO: STORIA DI UN CIBO BUONO, MA MALTRATTATO Non nascondetevi dietro un dito: almeno una volta, durante l’infanzia, vi hanno propinato il galletto. Perché è buono, perché è sano, perché si fa prima, perché non è troppo costoso. Tutti motivi molto validi, ma tra questi non ce n’è uno che ne giustifichi la cattiva riuscita: carne che al morso risultava gommosa, pelle gelatinosa ed aliena. Perché accadeva ciò? Perché i nostri grigliatori improvvisati non conoscevano le tecniche giuste per la cottura. Il Galletto, lanciato violentemente in griglia a temperature altissime, ne usciva decisamente malconcio: la pelle non aveva modo di disidratarsi

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GALLETTO VALLESPLUGA: STORIE DI GALLI, STORIE D’ITALIA Com’è fatto un galletto Vallespluga, nella sua sostanza? Proteine nobili, vitamina B12, ferro e grassi contenuti fanno del Galletto un prodotto dalle carni pregiate, ricercate, di qualità. Nutrizionalmente, il Galletto Vallespluga si presenta molto valido sia per regimi alimentari standard, sia per chi ha bisogno

di ridurre i grassi per svariati motivi.

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a dovere, le fibre della carne subivano uno shock termico non indifferente. Insomma, adios galletto cucinato bene. Un galletto cotto a puntino, invece, dà soddisfazioni grandi: è una preparazione passe-partout adatta a tutti: ti salva con gli ospiti schizzinosi della carne al sangue, è adorato dai bambini, possibilmente con un bel cartoccio di patate come contorno, per non parlare poi dei partner e delle partner perennemente a dieta. Partendo da una materia prima di ottima qualità, abbiamo già un plus per ottenere un prodotto perfetto. Ma, non avendo le giuste conoscenze in materia, anche un galletto altamente performante può diventare un vero disastro in griglia. Non abbiamo intenzione di sprecare un’occasione così promettente, vero? UNA QUESTIONE DI CALORE Iniziamo col dire che l’errore più comune commesso dai griller di famiglia era – ed è ancora – sicuramente, una cattiva trasmissione del calore al nostro galletto. Detto in parole più semplici: si cuoceva male. Questo significa che cuocere un galletto è complicato? No, anzi: avendo i giusti riferimenti scientifici, che vi daremo noi, sarà una passeggiata. Ricordate il calore per convezione? Sarà quello che trasmetteremo al nostro galletto predisponendo il nostro dispositivo per una cottura indiretta, con coperchio chiuso e temperatura moderata.

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SKINCARE: COME CAMBIA LA PELLE Cambia il modo di cuocere il Galletto, cambierà anche la sua pelle. Potete tranquillamente cancellare dai ricordi quell’ammasso gelatinoso, malsano, di pelle bianchiccia. La pelle, già opportunamente trattata con olio e spezie, cotta con calore dolce per convezione, inizierà a disidratarsi man mano. Ci fermeremo a 140°C, una temperatura di esercizio inferiore rispetto al solito, per provocare la reazione di Maillard. Ma non preoccupatevi: questa temperatura ci darà una pelle croccante, asciutta, profumatissima.

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E la carne all’interno? Le fibre si contrarranno grazie alla temperatura moderata, mantenendo una elevatissima succosità che resterà anche nel piatto, fino all’ultimo boccone. Boccone che – ve lo assicuriamo – arriverà prestissimo. Nessuno resiste al galletto cucinato bene, ma proprio nessuno.

LA RICETTA Per dare un sapore “esplosivo” ed accattivante alla carne del galletto, la scelta migliore ricade sulla marinatura; nel caso di galletti particolarmente cicciotti, c’è da affiancare anche una salamoia. La particolarità della marinatura è che ci permette di dare una caratterizzazione del tutto personale al prodotto finito semplicemente cambiando gli ingredienti o variandone le quantità a piacimento. La nostra cara marinatura non è altro che un’emulsione tra una componente acida ed una grassa, tenuta insieme da uno stabilizzante e arricchita da sale, aromi e spezie, nella quale inserire il cibo da insaporire e intenerire, spesso tagliato in piccoli pezzi o inciso. La si utilizza spesso anche per quei tagli poveri di gusto e che hanno bisogno di sostegno. Inoltre è un valido aiuto per preservare morbidezza e succosità. In una carne come quella del Galletto, capirete che questa è la condizione necessaria per avere un’ottima esperienza gastronomica. Una delle caratteristiche delle sostanze acide è di riuscire facilmente a penetrare la membrana cellulare degli alimenti. Di contro, quelle grasse trovano difficoltà nel permeare, poiché le loro molecole tendono per natura ad agglomerarsi. Il grasso però è un grande veicolante di sapore; quindi attraverso uno stabilizzante riusciamo ad ottenere i benefici di entrambe le sostanze anche nel lungo periodo. Aggiungete un soffio di senape nella citronette, vi cambierà la vita. Oppure pensate alla maionese, l’emulsione stabile per eccellenza. Lì, spesso sono sufficienti le lecitine contenute nel tuorlo a fare da stabilizzante, ma è comune anche l’aggiunta della senape. Le proporzioni tra gli ingredienti possono essere variabili in funzione dello scopo da ottenere, e di quale influenza si cerca di raggiungere da ciascuno. Indicativamente, il rapporto tra sostanza grassa e sostanza acida si aggira su una proporzione da 1:3 a 1:2. Le due caratteristiche principali da ricercare sono, quindi, la pelle croccante e la carne con una elevata succosità. La pelle croccante è il boccone più goloso; ci sono due passaggi da seguire per ottenere questo risultato imprescindibile, che cambierà aspetto e consistenza dell’intero galletto.


Dobbiamo ottenere una certa brunitura superficiale: questa è possibile grazie alla reazione di Maillard, che renderà la crosta profumata e saporita. Prima di mettere sul fuoco, sarà necessario asciugare la carne per bene. Anche quando vi sembrerà ben asciutta, dovrete asciugarla ancora, e ancora. L’umidità andrebbe a vanificare il nostro processo, quindi tenderemo ad eliminarla del tutto. La reazione di Maillard avviene con una temperatura di esercizio pari a 160°C. Questa volta, però, utilizzeremo temperature più basse, perché oltre a limitare la fuoriuscita di liquidi e quindi trattenere il più possibile l’umidità tra le fibre, vogliamo disidratare la pelle fino a quando ogni singola particella di acqua sarà evaporata. A quel punto sarà molto semplice rendere la pelle croccante. Settiamo quindi il nostro disp ositivo intorno ai 130°C/140°C. Questa temperatura ci permetterà di disidratare l’epidermide mentre si fonde il grasso al di sotto. Il risultato sarà una pelle asciuttissima e perfettamente staccata dalla polpa, che invece resterà umida e terribilmente succosa. Seguendo queste piccole regole e dividendo in step semplici tutto il processo, il risultato sarà sbalorditivo. Garantito! BBQ4All Magazine 053


INGREDIENTI 4 persone

2 Galletti Vallespluga dal peso di 500 g circa l'uno Per la marinatura: 100 g di burro 2 spicchi d’aglio 2 rametti di origano fresco 2 rametti di maggiorana 2 rametti di timo limone 50 g di vino bianco secco 20 g senape 1 peperoncino fresco sale q.b. pepe nero q.b. Per la salsa honey mustard: 100 g maionese 60 g miele d’acacia o millefiori 20 g senape di Digione 20 g senape in grani all’ancienne 10 ml di aceto di mele 1 cucchiaino di aglio in polvere

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1/2 cucchiaino di paprika dolce

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PREPARAZIONE:

1. Per la marinatura sciogliete il burro in un pentolino con i due spicchi d’aglio tritati, aggiungete poi a quest’ultimo il vino bianco e fate dealcolare bene. 2. Trasferite il composto nel bicchiere di un mixer a immersione e frullate alla massima velocità aggiungendo la senape, che farà da emulsionante e stabilizzerà la marinatura. 3. A questo punto sfogliate le erbe e tritatele al coltello, aggiungetele alla marinatura e cospargete sul galletto che avrete preventivamente salato e pepato. Se gradite potete aggiungere in questa fase il peperoncino tagliato a rondelle. 4. Lasciate marinare da un minimo di 2 ore a un massimo di 24 ore in frigorifero. 5. Per la salsa honey mustard unite in una bowl la senape, il miele e la maionese ed emulsionate con una frusta. 6. Solo a questo punto unite l’aceto, la paprika e l’aglio in polvere e mescolate fino al completo assorbimento. 7. Lasciate riposare in frigo almeno 24 ore per dare modo alla salsa di maturare. 8. Dopo 24 ore togliete il galletto dalla marinata. Eliminate l’eccesso e asciugate bene con della carta da cucina. 9. Lasciatelo poi scoperto per almeno 2 ore. In questo modo si asciugherà ulteriormente e la temperatura interna sarà prossima a quella ambiente. 10. Stabilizzate il vostro dispositivo sui 130°C/140° C e ponete in cottura indiretta il galletto, meglio se su un supporto dedicato. 11. Affumicate leggermente con le essenze che preferite, ottimi il melo e il pesco, fino a che l’interno coscia non segnerà un temperatura di circa 78°C/80° C. 12. A quel punto aprite tutte le bocchette, spennellate la pelle di burro chiarificato oppure olio caldo e date un boost di temperatura alta, così da finalizzare il processo di crisp (“croccantizzazione”). Se avete fatto tutti i passaggi correttamente basteranno pochi minuti. BBQ4All Magazine

Servite il vostro galletto croccante e drizzate le orecchie per sentire la pelle scrocchiare sotto i denti dei vostri commensali.

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E IL DOLCE?

FRUTTA AL BBQ Banane, carboni, chi c’era con te… Sulla banana si sprecano canzoni. Ne abbiamo scelta una, giusto per farvela canticchiare e per presentarvi il frutto più versatile che ci sia, che al barbecue rappresenta una vera potenza. La frutta al barbecue è un dolce sfizioso e di sicuro effetto, soprattutto durante l’estate. La preparazione è ridotta al minimo, si può preparare quasi subito ed anche in calcio d’angolo quando ci si è dimenticati del dolce. Vi presentiamo la banana al bbq e guarnita con il meglio che ci sia in circolazione, vi va? Perché abbiamo scelto la banana, oltre che per la musicalità e per la versatilità? Perché la banana è un frutto molto diffuso e consumato in tutto il mondo, grazie ai commerci internazionali conosciuto a tutte le latitudini: si tratta della bacca del banano, una delle piante erbacee più grandi, appartenente alla famiglia delle Musaceae di origine africana. Il viaggio della banana nel mondo è stato abbastanza tortuoso: furono i conquistadores portoghesi che, dall’Africa, portarono la falsa bacca nelle Americhe, circa a metà del Cinquecento. Soltanto agli inizi del Seicento, il frutto iniziò ad essere conosciuto anche in Europa. I caschi di banane sono letteralmente grappoli di frutto e possono arrivare a pesare anche 50 (!) kg. Sappiamo bene che la buccia esterna non è commestibile; si presenta ai nostri occhi abbastanza dura e, a seconda del grado di maturazione, ha un colore che va dal verde chiaro al giallo; la polpa invece è biancastra e con un sapore dolce che tende a svilupparsi con la maturazione. La polpa della banana è praticamente adattissima ai dolci, sia in versione crema che smoothie, ad esempio. I bananeti sono diffusi più o meno in tutto il mondo; è un frutto facilmente reperibile in ogni periodo dell’anno, dal costo contenuto e medio (dipende dalla qualità e dalla tipologia delle banane), quindi non vi sarà difficile trovarne per farne il vostro dolce al bbq.

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La nostra versione di banana al bbq prevede delle banane sufficientemente mature, ripassate sul nostro dispositivo e guarnite con cioccolato, panna e granelle golose. Vi assicuriamo che sarà un dolce gradito da tutti i vostri ospiti, sia grandi che bambini.

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INGREDIENTI 4 persone

4 banane non troppo mature 200 g di cioccolato fondente di ottima qualità. Se potete, privilegiate quello con spiccate note acide e fruttate. 50 g di biscotti amaretti Granella di frutta secca q.b. (noci, nocciole, pistacchi…) zucchero a velo Guarnizioni al gusto di cioccolato o caramello in tubetto Panna fresca spray a piacere Miele q.b. Stecchini di legno abbastanza lunghi (quelli per gli spiedini).


PREPARAZIONE 1. Dovete prendere delle banane e lasciarle maturare, questo è molto importante per ottenere la massima dolcezza di questa preparazione, non preoccupatevi dell’aspetto esteriore, in quanto in ogni caso andranno ad annerirsi esteriormente durante il processo di cottura nei vostri dispositivi. 2. Prendete un coltellino (meglio uno spilucchino) e partendo dal manico iniziate ad incidere fino al picciolo, con un taglio a forma di V profondo circa 2,5 cm. senza staccare la buccia dal lato del manico. 3. A questo punto si staccherà dalla buccia un po’ di polpa che andrete a mettere da parte per altre preparazioni. 4. Iniziando dal picciolo, avvolgete il lembo intagliato a mo’ di involtino, fino al manico. Per mantenerlo fermo e inoltre creare dei piedini alla banana, infilate due stecchini in diagonale contrapponendoli, regolandoli poi a piacere in maniera che appoggiando sulla griglia la banana stessa non vada a ribaltarsi da un lato.

5. Sminuzzate il cioccolato fondente; successivamente, incastrate i pezzetti nell’incavo creato. 6. A questo punto settate il dispositivo sui 150°C e ponete le banane in cottura indiretta per circa 15/20 minuti, magari affumicando con del legno dolce. In alternativa, potete tranquillamente usare il forno di casa. Il risultato da ottenere è quello di far sciogliere il cioccolato all’interno dell’incavo e ottenere una buccia scura. 7. Prendete le banane e posizionatele sul piatto di servizio, prendete la panna spray e riempite per bene l’incavo. Sbriciolate uno o due biscotti amaretti sopra la panna. 8. Come sopra, compiete la stessa operazione per la granella, senza aver paura di sbordare; una passata a zig zag di miele e poi la stessa cosa per il cioccolato da guarnizione, per completare il tutto spolverate di zucchero a velo. La presentazione è una cosa importantissima per un dolce, per questo abbiamo abbondato in guarnizioni. 9. Non vi resta che servire i piattini, così ben guarniti, cantando: banane, carboni…

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L'Arte Bianca a cura di Alessandro Trezzi illustrazioni di Ozzy Bellesi

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Quello del pane è un mondo fantastico, fatto di intrecci, di tradizioni tramandate e mescolate, di usanze diffuse e riadattate.

Prendete ad esempio la michetta milanese, uno dei pani più famosi e amati del Nord Italia, dal quale la precedente generazione ancora fatica a staccarsi. Rotondo, piccolo formato, l’interno vuoto, acquistato e sbranato entro poche ore, rigorosamente farcito di abbondante mortadella; un’usanza tipica del Nord già ai tempi del dopoguerra, quando i pendolari lo recuperavano quotidianamente prima di andare a lavoro, allo scopo di utilizzarlo come pranzo, e che si differenzia dalla pratica del Sud di comprare grandi formati per sfamare tutta la famiglia nelle settimane di lavoro nei campi. Ebbene, la nascita della michetta è da ricercarsi nell’Ottocento, durante l’occupazione del milanese dall’impero austro-ungarico. I funzionari dell’Impero, infatti, non amavano la locale micca, un pane diffuso in tutta la zona del Nord Italia e che produceva moltissime briciole quando veniva spezzato (dal latino mica, ossia briciola): per questo motivo importarono il loro tradizionale kaisersemmel (che letteralmente significa “pane dell’imperatore”), un piccolo panino a forma di rosa, del peso di circa 50-90 grammi, caratterizzato da una morbida mollica che però sul suolo lombardo, nel quale è presente maggiore umidità rispetto a quello austriaco, non conservava la sua fragranza, diventando invece molle e dalla spiacevole consistenza gommosa. Per questo motivo i panettieri dell’epoca decisero di togliere la parte interna, quella della mollica, in modo da lasciare il nuovo pane cavo all’interno e dunque fresco e croccante più a lungo. Nacque così una prima versione della michetta, da una storpiatura del termine tedesco kaisersemmel e dal diminutivo della tradizionale micca lombarda.

Un pane sicuramente celeberrimo nel nostro bel paese, ma quindi profondamente differente dal suo pro-genitore straniero; il kaiser roll è composto da farina bianca, lievito, malto, acqua e sale, con il lato superiore solitamente diviso in uno schema simmetrico di cinque segmenti, separati da tagli superficiali curvi che irradiano dal centro verso l'esterno o piegati in una serie di lobi sovrapposti che ricordano una corona. I kaiser roll esistono in una forma riconoscibile almeno dal 1760. Si pensa che siano stati nominati in tal modo per onorare l'imperatore (Kaiser) Francesco Giuseppe I d'Austria (nato nel 1830, regnò dal 1848 al 1916). Nel XVIII secolo una legge fissava i prezzi al dettaglio dei semmeln (panini) nella monarchia asburgica; presumibilmente, il nome Kaisersemmel divenne di uso generale dopo che la corporazione dei fornai inviò una delegazione nel 1789 all'imperatore Giuseppe II, e lo convinse a deregolamentare il prezzo dei panini. Con la loro connotazione monarchica, i panini Kaiser si distinguevano dai comuni panini conosciuti come Mundsemmeln ("involtini di bocca") o Schustersemmeln ("involtini da ciabattino"). Si trovano tradizionalmente in Austria, ma sono diventati popolari anche in altri paesi dell'ex impero asburgico austriaco, come la regione della Galizia in Polonia e in seguito l'intero paese, Croazia, Slovenia e Serbia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia, nonché in Germania, negli Stati Uniti e in Canada. Esistono molteplici varianti del rotolo comune, diverse per dimensione, tipo di farina utilizzata e condimenti; per quanto tradizionalmente siano semplici, è possibile trovarli oggi conditi con semi di papavero, semi di sesamo, semi di zucca, semi di lino o semi di girasole. Il Kaiser Roll è la parte principale di una tipica colazione austriaca, solitamente servita con burro e marmellata; non solo, spesso viene utilizzato per panini popolari come gli hamburger, oppure wurstel a fette e cetriolini sottaceto. Un’altra variante chiamata kummelweck, condita con sale kosher e

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Al termine della seconda guerra mondiale, grazie alle misure di aiuto previste dal Piano Marshall gli americani diedero agli italiani (depositandoli presso l’aeroporto militare di Malpensa) oltre un milione di quintali di grano e diverse centinaia di migliaia di quintali di una farina molto speciale, allora sconosciuta in Europa: la farina manitoba, prodotta in Canada occidentale da un grano parti-

colarmente forte, caratterizzato da un’estrema resistenza al clima rigido tipico del luogo. I panettieri milanesi (chiamati anche prestinai) iniziarono dunque a realizzare e diffondere la michetta così come la conosciamo ancora oggi, friabile e fragrante, croccante ma non eccessivamente dura, perfetta da farcire.

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L’obiettivo è quindi quello di mettere d’accordo i due paesi, facendo una michetta del Kaiser, che possa conservare una crosta croccante seppur con un cuore tenero, ma senza che la nostra umidità caratteristica ne asciughi l’interno rendendola immangiabile. Da amanti del barbecue, dovrà diventare la nostra alleata migliore quando prepareremo il Pit Beef, raccogliendo i succhi della carne, ed evitando di prestare resistenza al morso danneggiando l’esperienza complessiva. Vogliamo vedere come si fa?

Il metodo (indiretto)

cumino, e negli Stati Uniti è un componente essenziale di una specialità della zona di Buffalo, il Pit Beef Sandwich. In gran parte dello stato orientale di New York e in tutto il New Jersey, i panini Kaiser sono conosciuti come hard roll; la varietà Wisconsin di hard roll presenta una consistenza soffice su l'interno con una crosta sulla parte superiore del panino, ed è stata creata nel corso dei decenni dai panifici di Sheboygan per essere abbinata alla specialità locale del bratwurst.

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Il kaiser roll da veri Nerd

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Analizzato il pregresso, come possiamo realizzare un Kaiser Roll da veri Nerd, in grado di far dimenticare ai nostri avi l’occupazione della nostra amata patria? Dal mio punto di vista, il miglior pane è sempre quello in grado di combinare le due consistenze: croccante fuori, morbido dentro.

Oggi diventiamo grandi, e lavoriamo con la biga; si tratta di un pre-impasto asciutto e tutto italiano, evoluto negli anni dal grande Piergiorgio Giorilli, il padre dei panificatori moderni. Tecnicamente, un impasto che la utilizza è definibile come indiretto, ossia un processo nel quale la fase di miscelazione e unione dei vari ingredienti è divisa in due parti: • Un pre-impasto, in cui si mescolano di solito acqua, farina e lievito; • Un re-impasto successivo alla prima maturazione, in cui si aggiungono gli ingredienti mancanti. Una tecnica nata per la panificazione, e approdata oggi con una diffusione spasmodica anche nel mondo pizza, spesso senza nemmeno avere motivazioni valide per giustificare il suo utilizzo. La biga classica, didattica, come Piergiorgio Giorilli ce l’ha insegnata codificandone il metodo prevede da manuale dosi, temperature e tempi di maturazione ben precisi: • Farina 00 o 0 (W > 300); • 44% di acqua sul peso della farina; • 1% di lievito sul peso della farina.


In base al tempo di riposo distinguiamo due tipologie distinte e conseguenti temperature di esercizio: • Biga corta, con maturazione di 16 ore a una temperatura di 18-20 °C; • Biga lunga, con maturazione di 24 ore in cella frigorifera a 4-5°C e le successive 24 a 18-20°C. I vantaggi più evidenti di tale tecnica riguardano la fermentazione lattica che ha luogo durante la maturazione dell’impasto finito: con la produzione di acidi organici a beneficiarne sono gusto, profumo e sviluppo della struttura e degli alveoli, i piccoli fori che si formano nella pasta. Migliora anche la conservabilità, e la maggiore acidità dell’impasto garantisce più resistenza contro i microrganismi patogeni cui si deve la crescita delle muffe. Last but not least, i tempi di lievitazione si riducono sensibilmente, aiutandoci a dare all’impasto finale una struttura migliore. Tuttavia, tale tecnica è sono consigliabile solo in presenza di ambienti (o di strumenti) adatti alla maturazione, con temperature e umidità costanti. Inoltre, un impasto indiretto gestito male, con punte di acidità importanti e un pH sballato (impastato troppo o lasciato a maturare per un tempo eccessivo) vi restituirà risultati per lo più scadenti per i rischi legati alla maturazione eccessiva del preimpasto, che provoca la rottura della maglia glutinica e un lievitato pessimo.

Di norma potete attenervi a questa regola generale: sorella biga vi aiuta ad avere alveoli grossi e irregolari, oltre a una struttura salda e sviluppata, una maggiore spinta verso l’alto e una maglia glutinica solida, grazie alla prevalenza di acidi organici. La mollica sarà più “ariosa”, morbida e aromatica, con un sapore pieno dovuto alla produzione di acido lattico durante la fermentazione. Caratteristiche che la rendono preferibile per pizze in teglia alla romana, focacce morbide, grandi lievitati e pagnotte dalle dimensioni sostenute. Tenete però presente che la biga porta molta tenacità nell’impasto finale, che se non spezzata a dovere con farine più deboli nel re-impasto si ripercuotono inevitabilmente sul morso. Per la nostra preparazione utilizzeremo una farina di forza al fine di stabilizzare la biga durante la fermentazione; una 00 o 0, che ripercorra la tradizione instaurata con l’innesto della Manitoba nel nostro territorio. Tuttavia, per evitare di svuotare completamente la mollica, non lavoreremo con un 100% biga come nel caso della michetta ma con un 50%, in modo da conservare comunque un interno sviluppato ma morbido. Infine, spezzeremo nel re-impasto con una materia prima più debole, per evitare la tenacità nel prodotto finito ed il conseguente morso lungo nel nostro amato panino.

INGREDIENTI per 10 kaiser roll

per la biga 250 g di farina di grano tenero 00 o 0 (W 360); 125 g di acqua; 2.5 g di lievito di birra fresco

per l'impasto La biga matura 250 g di farina di grano tenero di tipo 00 o 0 (W 270); 200 grdi acqua; 10 g di sale fino; 2.5 g di malto diastasico.

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Infine, sciogliere una biga a mano nell’impasto finale è molto difficoltoso, perché a

causa della bassa idratazione richiede un’energia cinetica e una costanza assicurate solo da movimenti meccanici come quelli di planetarie e impastatrici.

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PRE-IMPASTO

In una ciotola versate l’acqua, sciogliete il lievito e immergete tutta la farina, mescolando qualche minuto con le mani fino ad idratarla completamente; il composto dovrà risultare grezzo, spezzettato e asciutto, non assolutamente impastato, ricordando un crumble.Chiudete ermeticamente e lasciate fermentare a 18°C per 16 ore; la vostra cantina potrebbe andare benone.

IMPASTAMENTO

Spezzettate la biga matura in metà dell’acqua, aggiungete qualche cucchiaio di farina e iniziate a lavorare a macchina per sciogliere la biga. Dopodiché aggiungete tutto il malto, la farina e l’acqua a filo, fino a quando il glutine non si sarà formato. A questo punto aggiungete il sale e l’acqua rimanente, chiudendo a una temperatura di almeno 24-25°C; formate una palla liscia e lasciate riposare circa 1 ora a temperatura ambiente.

FORMATURA E RIPOSO FINALE

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Spezzate l’impasto, formando palline da circa 80 grammi l’una; mettetele su una teglia, coprite con un panno umido e lasciate riposare ancora 1 ora, fino al raddoppio. Trascorso il tempo, stampate i panini con l’apposito strumento per kaiser roll o per michetta; in sua mancanza, procedete in questo modo: pressate

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con una mano i panini formando dei dischi, per poi praticare dei tagli a mezzaluna partendo dal centro verso l’esterno. Girateli e metteteli ancora su un telo leggermente infarinato per un’altra ora, fino al raddoppio.

COTTURA

Pre-riscaldate il vostro forno a 250°C con al suo interno una pietra refrattaria appoggiata centralmente sulla griglia o, in sua mancanza, una teglia rovesciata. Una volta raggiunta la temperatura, portate la teglia o la pietra sul banco e posizionate i panini; infornate per circa 10 minuti con abbondante vapore (generato con uno spruzzino e un pentolino colmo d’acqua). Trascorsa la prima parte della cottura, togliete il vapore, lasciate il forno leggermente aperto e terminate di cuocere per altri 5 minuti. Sfornate, e posizionate su una griglia rialzata fino al completo raffreddamento.

RINVENIMENTO E SERVIZIO

Il Kaiser Roll non è un panino che si mantiene per giornate intere; se non lo consumate in giornata, una volta raffreddato potete congelarlo in pezzi. Prima del servizio mettetelo ancora intero nel forno a 200°C per circa 5-6 minuti, in modo da farlo tornare perfettamente fragrante e pronto per essere farcito.


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La dispensa americana 2: strani ingredienti

Across the Pond a cura di Elena Ninotti

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ira le cose che sono cambiate maggiormente, grazie all'arrivo di Internet, c'è sicuramente il nostro approccio con la cucina. Se fino a 20 anni fa, per preparare una ricetta, ci si affidava al passaparola con le amiche o a vecchi ricettari tramandati di generazione in generazione, adesso basta un click per poter avere a portata di mano l'ultima ricetta dello chef stellato oppure le indicazioni per preparare un piatto etnico di cui difficilmente i nostri genitori conoscevano l'esistenza. Grazie ai forum e alle pagine Facebook e Instagram è possibile preparare cibi messicani, indiani, e americani.

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Sebbene attraverso i principali shop online sia possibile avere in breve tempo ingredienti introvabili nella grande distribuzione vicino casa, alcune cose restano quasi introvabili o, se si riescono a reperire, spesso hanno costi proibitivi. Io stessa mi sono scontrata con questo problema: dapprima volendo replicare ricette americane in patria e, successivamente, volendo fare una cucina il più possibile vicina a quella vera italiana; proprio per questo, quando do una ricetta cerco sempre di mettermi nei panni dell'esecutore e suggerisco sostituzioni che non snaturino il piatto ma che lo rendano comunque replicabile praticamente ovunque. Dopo aver girato settimane alla ricerca di cacao unsweetened e sherry per cucinare, o essermi arrovellata il cervello sulle istruzioni della macchina del pane che riportava rapid yeast, ho dovuto trasferirmi per rendermi conto dell'inutilità di tutto questo. È per questo che vi voglio raccontare cosa si nasconde dietro ai termini “light or brown sugar”, dutch processed cocoa, wafer cookies, graham cracker, and so on.

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Biscotti

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Nelle cheesecake o nei dolci freddi spesso vengono menzionati i vanilla wafer o i graham cracker. Non sono né wafer (nella nostra accezione) né cracker. I vanilla (o chocolate) wafer sono dei frollini semplici: potete sostituirli con dei biscotti da colazione non particolarmente burrosi o con biscotti tipo Oreo o Ringo privati della farcia. Anche dei semplici biscotti da colazione sono perfetti. I Graham cracker, invece, fanno storia a sé. Assieme alla granola e ai cereali Kellogg’s, sono il retaggio di un’ondata salutista e vegetariana che iniziò in America nella seconda metà dell’800 e che persiste ancora adesso. Non è un mistero l’amore degli americani per integratori, vitamine, cibi arricchiti. Le manie alimentari sono nate 150 anni fa, con la bistecca tritata di Salisbury, i cereali di Kellogg e, appunto, i biscotti di farina integrale di Graham.

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I Biscotti del reverendo Graham erano di farina non raffinata, con crusca, che aiutava a “pulire”, e non prevedevano la fermentazione (che veniva vista come una putrefazione), in quanto avevano baking powder e non yeast. In un certo qual modo, venivano spacciati come biscotti “che pulivano l’animo”. Non è un caso che questi siano gli stessi anni in cui nasce l’idroterapia e in cui Kellogg fa fortuna con le sue cliniche visionarie e affamatrici (affiliate agli avventisti del settimo giorno). In realtà, al giorno d’oggi, i biscotti Graham non sono altro che biscotti sottili, dolci, arricchiti di

crusca e miele, gradevoli, poco grassi e ottimi per la merenda dei bimbi. Potete evitare di cercare ricette per farli da soli. Usate delle Digestive, dei Grancereale o dei biscotti Misura, e avrete ugualmente la vostra base, senza modificare o stravolgere il gusto della ricetta.

Latticini Cominciamo subito chiarendo che il buttermilk non è il siero che resta dalla lavorazione del burro. Se fate il burro in casa, potete usare il siero nei panificati, ma non è neanche simile. E’ più simile a uno yogurt da bere. Si produce come sottoprodotto della lavorazione del burro, dopo aver sgrassato il latte. Si prende il latte scremato e si fa fermentare con batteri, tra cui il Leuconostoc citrovorum che digerisce l’acido citrico trasformandolo in diacetile che, appunto, dà l’aroma al burro. Il latticello, o buttermilk, dà acidità agli impasti, ne migliora il gusto e aiuta le carni, che vi sono state marinate, a essere più morbide e saporite. Il classico pollo fritto americano è lasciato a bagno in buttermilk e spezie per qualche ora, poi sgocciolato, passato in una miscela di farina e spezie e fritto in immersione in olio (deep fried). Vi assicuro che anche dei semplici bocconcini di petto di pollo vengono valorizzati da questo procedimento. Si consiglia di usarlo anche nei muffin e nei pancake per dare l’acidità giusta a reagire con il bicarbonato


che viene aggiunto. In Italia non esiste praticamente in commercio, si trova solo in certi negozi naturali a prezzi esorbitanti. Potete sostituirlo con una buona approssimazione con del Kefir di latte, che ormai trovate ovunque nel banco frigo dove sono gli yogurt. Tenete solo presente che il kefir ha un contenuto proteico maggiore, quindi tende a scurire un pochino di più e che è leggermente più liquido: nel caso dovesse far parte degli ingredienti di una torta dovreste regolare leggermente le polveri. La panna acida fa parte, soprattutto, delle ricette Tex Mex, ma è comunque amatissima da tutti. E a ragione. É una specie di yogurt poco acido, cremoso, denso. Spesso nelle ricette “tradotte” si parla di inacidire la panna fresca da montare con un cucchiaio di limone (versione accreditata anche da Cook’s Illustrated). In realtà, se volete avere un'esperienza quanto più simile alla vera panna acida, vi consiglio di creare una specie di yogurt con la panna fresca. 500 ml di panna a 40°C, un cucchiaio di yogurt greco e lasciare riposare almeno 6 ore, meglio in un thermos o in una yogurtiera. Diciamo che entrambi i metodi sono accreditati, a voi la scelta di quello che vi dà il risultato migliore.

Cacao A fare il paio con la mia ricerca dello sherry, ci fu quella del cacao dutch processed. Questo tipo di cacao viene correntemente riportato nelle ricette americane, opponendolo allo unsweetened cocoa powder, e di cui mai si fa menzione nei ricettari europei, neanche quelli Inglesi. Poi, un giorno, la rivelazione. In Europa non si parla di Cacao Dutch processed semplicemente perché tutto il cacao in Europa, praticamente, lo è. Avete presente il sapore del Nesquik? Ha un retrogusto leggermente polveroso, poco “cacaoso” e un colore pallido. Quello in realtà è il cocoa powder. In USA esiste in versione dolcificata e non dolcificata. Sa meno di cacao (come lo intendiamo noi) e ha un sapore più terroso.

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Il cacao europeo, invece, è figlio dell’innovazione di Van Houten, un commerciante olandese (Dutch) del primo ‘800. Si trattano i semi di cacao con una miscela basica (alcalinizzazione) che rende il colore della polvere più scuro, il sapore

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meno aspro e favorisce la dispersione nei liquidi della polvere che si ottiene. Un trucco. La polvere di cacao (se non miscelata precedentemente ad amidi) si scioglie meglio in acqua bollente, e questo vi spiega perché qui fanno la cioccolata calda con l’acqua. In USA il Dutch processed cocoa è difficile da trovare, nonchè carissimo. Diciamo anche 3 volte il costo un semplice barattolo di cacao. Molte ricette ne riportano uno o l’altro e modificano gli ingredienti sulla base di quello che viene utilizzato: variando l’acidità della ricetta, nonché avendo una diversa “disperdibilità”, le ricette hanno infatti una resa diversa. Per quanto mi riguarda, i dolci fatti con l’unsweetened cocoa mi hanno talmente delusa che preferisco correre il rischio e continuare ad usare il dutch che trovo online o che mi portano i visitatori italiani.

I vini da cottura Anni fa mi misi alla ricerca del vino Sherry per cucinare, trovandolo riportato in tantissime ricette. Dopo estenuanti ricerche, finii per trovarlo in una enoteca. A 60 Euro.

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Ovviamente lo lasciai lì, visto che il destino di una bottiglia pregiata non è certo quello di finire a sfumare i funghi per la zuppa e, in casa mia, non avrebbe avuto una fine degna. Solo dopo il trasferimento ho scoperto l’esistenza dei cooking wine, che sono “liquidi” aromatizzati usati per cucinare. In pratica, il nostro Tavernello in brick è il Veuve Cliquot dei vini da cucina. Hai voglia a leggere nelle ricette “Sherry, Marsala, vino bianco, rosso” o, ancora, “aceto balsamico bianco” o “aceto di champagne”. Per carità: sicuramente esiste qualche aceto balsamico bianco originale e, sicuramente, questo è molto pregiato; ma, altrettanto sicuramente, non è neanche simile a quello che si trova sullo scaffale del supermercato americano: questo è un prodotto comune, di cui non discuto il sapore, ma assolutamente commerciale.

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Nel caso dei cooking wines, lasciate perdere la sostituzione. Questi sono prodotti pieni di zuccheri, coloranti, aromi (lo vedete anche dai prezzi, meno di un decimo del famoso sherry dell’enoteca). Io qui ho trovato dei vini bianchi a basso costo, un po’ come il nostro Tavernello, da usare in cucina. E me li faccio andare bene.

BROWNIES

I ngredienti: 115 g burro / 200 g

zucchero / 30 g cacao amaro in polvere / 60 g farina autolievitante (o farina 0 con una punta di lievito per dolci) / 2 uova intere / vaniglia q.b. / un pizzico di sale / Gocce di cioccolata a piacere Preparazione: 1. Mescolate farina, cacao e sale, setacciate bene. 2. Montate con le fruste il burro con lo zucchero e l’estratto di vaniglia. 3. Aggiungete le uova una alla volta e continuate a montare. 4. Aggiungete le polveri e mescolate bene. 5. Versate in uno stampo 20x20 imburrato o ricoperto di carta forno, bagnata e strizzata. Livellate bene e cospargete uniformemente di gocce di cioccolato. 6. Infornate a 170°C statico o 150°C ventilato per 18-20 minuti. Il centro deve essere fermo ma non troppo secco. Se necessario, prolungate di qualche minuto la cottura. 7. Fate raffreddare e tagliate in 9 cubotti. Si possono aggiungere gelato, nocciole tritate, noci pecan, o pezzetti di pera fresca per un risultato più gourmet.


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Racconti: come nasce il mio

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il mio viaggio in Giappone senza stress 070


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sistono finestre temporali in cui vivi esperienze che spostano il baricentro della tua maturità emotiva. Ma non te ne accorgi subito. Inizialmente scegli di viverle sulla scia dell’entusiasmo e della scoperta, poi ti immergi completamente e ti conformi all’ambiente e al modo in cui scorrono i flussi in quello specifico frangente. Poi le concludi, forse con un po’ di nostalgia, ma a cose concluse. Quando cioè metabolizzi che non è stato solo un viaggio, ma hai vissuto un frammento della vita di un paese, di alcune persone che lo abitano, del modo in cui plasmano la realtà che li circonda. E comprendi che, nonostante le distanze misurate in chilometri e cultura, senti quell’ambiente vicino, molto più vicino di quello in cui vivi. Forse vi starete chiedendo di cosa parlo, cari i miei dodici lettori del Magazine. Parlo della mia prima esperienza in Giappone, la mia prima volta con il mondo dell’allevamento della Kuroge, la Nera Giapponese, la Madre di tutto il Wagyu. Vivere quei momenti, respirare quell’aria, rimanerci immerso per giorni, cambia totalmente la prospettiva delle cose. E adesso vi spiego subito perché. Il primo motivo è che sei totalmente, miseramente, indiscutibilmente impreparato. Per quanto tu possa aver ingurgitato quintali di carne di Kobe o Kagoshima, per quanto tu sia stato a contatto con esponenti commerciali asiatici, non sarai mai pronto ad “affrontare” il Giappone, i giapponesi e la loro quasi “fastidiosa” ricerca della perfezione in ogni singolo gesto. Non so se siete mai stati in un allevamento di bovini. Io sì, moltissime volte. Ma la mia prima volta in Giappone mi ha fatto capire moltissimo. Di certo che molti dei nostri allevamenti avrebbero tanto da imparare. Fermi tutti, non c’è bisogno di sguainare le spade. Non sto dicendo che nessuno degli allevamenti in Italia sia tenuto a regola d’arte. Sto dicendo che la media degli allevamenti ha uno standard che è molto lontano da quello Giapponese.

Sono tutte domande che ho personalmente fatto alla gente del posto. La risposta è sempre arrivata sotto forma di sorriso e non di parola. Continui ad osservare, iniziano a spiegarti la filosofia che scandisce il tempo e inizi a comprendere. Tutta l’intera vita della Kuroge deve essere vissuta in totale assenza di stress. Prendetelo come un mantra perché loro non ci scherzano nemmeno un po’. Partiamo allora dalle cose più semplici. Il recinto è spazioso, molto spazioso. E non è per niente affollato. Si percepisce subito che i capi stanno più che comodi. Solitamente da 2 a 4 capi. O femmine o maschi castrati. Poi c’è una fontanella dove l’acqua scorre in continuazione, non ristagna mai. E proviene da una sorgente che sgorga dalle colline poco distanti. Ogni volta che vogliono bevono acqua purissima, è sempre lì a disposizione. Ogni “gruppo” di bovini è dotato di due recinti affiancati, ma ne occupano uno alla volta. Il suolo è cosparso di trucioli di legno aromatico che ai bovini piace moltissimo. Ogni 2 o 3 giorni, a seconda delle necessità, viene aperto il recinto a fianco, già pulito e con il letto di trucioli soffice e ben distribuito. I capi, senza alcun tipo di input, entrano nel nuovo recinto pulito. Quello sporco viene ripulito immediatamente. Tolti i trucioli, lavato bene, sanificato e disinfettato. Solo poco prima di cambiare nuovamente recinto vengono disposti i nuovi trucioli. E così via per tutta la durata. I capi possono nascere nella farm, visto che c’è anche una nursery, oppure possono essere acquistati all’asta. Quando nascono i vitellini nella farm, non vengono mai separati dalla madre sempre per perseguire l’obiettivo di annullare lo stress sia alla madre che al figlio. Non subiscono alcuna terapia medica preventiva di antibiotici o steroidi. Un giapponese non si sognerebbe mai di violare la propria etica nemmeno sotto tortura. La classificazione del Wagyu è molto stringente in Giappone. L’agognato A5, il livello massimo di valutazione di una carcassa, deve arrivare solo per reali meriti. Sanno che un capo stressato o

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Già dal momento in cui entri all’interno di una struttura ti rendi conto che c’è qualcosa di completamente diverso dal solito: non c’è alcun odore di ammoniaca o di letame o di liquami in genere. Non è che si avverte appena, non c’è proprio, non si percepisce, nemmeno stando nelle immediate vicinanze dei

recinti. Non c’è una mosca che una, nemmeno a cercarla col microscopio. Ma com’è possibile?

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maltrattato non diventerà mai un A5. Gli allevatori di Wagyu non vogliono solo ottenere una carne molto marezzata. Non è il motivo che spinge e determina il protocollo di allevamento. Il vero focus è “allevo un capo nella sua migliore espressione possibile, così diventerà un vero A5”.

di nocciole tostate. Profumato. Che fonde già con il calore della tua mano. Che consumato in quantità ragionevoli è ottimo per la nostra salute. Insomma, sembra che questa farina di olive sia per il Wagyu ciò che le ghiande sono per il Cerdo Iberico dello Jamon de Bellota (il prezioso prosciutto spagnolo).

Non è solo grasso. Non è quello. Per questo, tutte le volte che vi dico di non guardare solo alla marezzatura, vi sto dando un ottimo consiglio.

Esiste una prefettura che non fa segreto di questo metodo ma sembra che in realtà sia una pratica molto più diffusa di quanto non si sappia.

È evidente che qualsiasi capo bovino che subisce un’integrazione di cereali ha molta più probabilità di sviluppare grasso intramuscolare rispetto a quelli che mangiano solo erba. Non è più un segreto da tempo. Ma è la composizione di questo grasso a fare un’enorme differenza.

I capi vivono serenamente per 36 mesi. Diventano enormi, sono dei veri e propri giganti. Spesso sono venduti all’asta, non in un mercato libero. Sono dei veri e propri capolavori.

La parte lipidica di questi capi bovini contiene acidi grassi monoinsaturi, acido oleico e acido linoleico. Per capirci, sono i grassi che fanno bene. Quelli che dobbiamo ingerire nella dieta. L’olio d’oliva, per capirci, è di base un grasso monoinsaturo. La quantità di acido oleico contenuto nel grasso dei nostri capi è secondo solo all’olio di oliva: 58% di acido oleico, l’olio ne ha il 62%. Ma c’è di più. La ratio di acidi omega 3 e omega 6 è perfetta. È una carne che fa bene. Chiedetelo al vostro nutrizionista. Ora non dovrei dirvi questa cosa ma ve la dico. Sono voci non ufficiali ma esistono ragionevoli dati a conferma. Uno dei “segreti” per il raggiungimento di questi risultati è dato, non si sa quando, né per quanto tempo, dall’integrazione della sansa di oliva. Avete presente, no? Ciò che resta della spremitura delle olive. In realtà ci hanno provato anche in Italia ma con scarsi risultati: i bovini non lo amano. Quindi come fanno i giapponese a integrare la sansa nell’alimentazione?

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Sembra che esista un processo di disidratazione e tostatura di questa polpa di olive. È un processo molto particolare e segreto, nessuno è ancora riuscito ad aprire la bocca ad un giapponese. Il risultato è una specie di farina che somiglia molto al caffè, almeno nell’aspetto. Il sapore però è tendente al dolciastro e pare che non solo non sia nocivo per i capi ma anche che faccia bene alla loro salute.

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La risultante è un grasso fitto, setoso, che profuma

La vita dell’allevatore è durissima ma si sente tutta la passione che ci mette. Questi animali vivono in un ambiente pacifico, costantemente coccolati e amati davvero, pur sapendo quale sarà la loro destinazione finale. Non vengono mai maltrattati, non sono mai sporchi, se si ammalano vengono subito spostati e curati amorevolmente. Se muoiono non vengono commercializzati. Sono immersi in un luogo magico, dove l’aria è fresca e la vita scorre lenta. Passeggiare per quei sentieri vi fa sentire come a Okinawa, fianco a fianco al Maestro Miyagi in Karate Kid 3. Solo che vicino a voi, invece del Miyagi c’è il Miyabi. E anche se sapete che prima o poi finiranno sulla griglia, in quel momento vi accorgete che non è necessario far vivere una vita miserabile ad un bovino. Vi prenderete la sua vita ad un certo punto, è corretto onorarlo in vita e in ogni modo possibile. Prendervi cura di lui perché lui possa poi prendersi cura di voi. È uno scambio più che accettabile, non credete? Ecco perché il nostro Wagyu è molto costoso. Perché si porta dietro un grande valore morale e intellettuale. E auspico che questa profonda convinzione da parte del popolo giapponese possa diventare uno standard, essere d’esempio per cambiare le cose. Da questo forse si capiscono tante cose. Una su tutte è che non basta vedere carne marezzata su un banco per stabilirne la qualità. E che una carne marezzata può costare poco, ma non può essere di qualità. Ora lasciatemi parlare di una di un’altra zona, un luogo in cui si compie una magia ancora più straordinaria.


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soprattutto il sapore unico di questo tipo di wagyu. Come vi annunciavo, il protocollo di allevamento varia da animale ad animale. Si cambia la quantità di alimento a seconda di ogni singolo capo perché le diverse “keisan-gyu” (vacca wagyu che ha partorito 7/8 volte per generare nuove wagyu A4/A5) che selezionano in tutto il Giappone sono state allevate ognuna in un ambiente differente e provengono da prefetture diverse, quindi hanno una biologia e stili di alimentazione non uniformi e velocità sfalsate in fatto di digestione. Ricordate bene il discorso dello stress, vero? Keisan-gyu è il nome che in Giappone viene dato alla vacca wagyu che ha partorito. Le femmine sono di solito divise in bestiame destinato all'allevamento per essere macellato e bestiame di particolare pregio con caratteristiche genetiche superiori. Che possono quindi dare vita a vitelli con marezzature elevate.

Siamo nelle prefetture di Shimane e Yamaguchi, a sud del Giappone. Lì è dove selezioniamo i nostri capi che diventeranno Shimofuri Farm. Abbiamo iniziato con una selezione incredibile che rischia di avere un basso mercato sia in Giappone ma anche all’estero.

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La fattoria Jukuho seleziona per noi madri che hanno partorito, provenienti da tutto il paese. Hanno a disposizione tutto il database del sistema digitale wagyu giapponese del ministero dell’agricoltura, i risultati di marezzatura del bestiame acquistato sul mercato interno e il pedigree del bestiame di almeno tre generazioni. Questo gli consente di tarare il protocollo di allevamento capo per capo, cambiando le tecniche a seconda dei parametri. Questo consente di ottenere una marezzatura superlativa e raggiungere un peso adeguato della carcassa, che permette di centrare obiettivi di economicità e qualità del prodotto.

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Nella Farm producono il loro foraggio grezzo originale che contiene non solo paglia di riso e trebbie di birra, ma anche microorganismi quali lievito, bacillus subtilis e batteri che producono acido lattico. Per ottenere un mangime concentrato mescolano a mangimi convenzionali crusca di riso e mais con lo scopo di migliorare sia le sfumature aromatiche umami ma

Parlando di manzo giapponese, la carne di un animale castrato e la giovenca (o meglio sorana, scottona, manzetta, cioè il bestiame che non ha partorito) sono considerate preziose; se è caratterizzata da una qualità elevata della carne e da un grasso delizioso, riceve l'autorizzazione ad essere chiamata Wagyu, con le suddivisioni di provenienza e categoria note. D'altra parte, Keisan-gyu, la madre che ha partorito, ha una reputazione più appannata, l'immagine di un animale dalla carne di qualità inferiore rispetto ad un castrato o una giovenca. Per questo motivo viene trasformata solitamente in semilavorati o destinata alla produzione di macinato, dopo aver dato alla luce almeno 7-8 vitelli in media per ogni capo di bestiame. Tuttavia, con Shimofuri/Jukuho abbiamo dimostrato che il Keisan-gyu reingrassato bene è in grado di produrre carne dal gusto ricco e grasso aromatico, tanto quanto castrati e giovenche. Il numero di vacche madri wagyu è piccolo rispetto alle giovenche wagyu. Tra questi pochi bovini, la Jukuho sceglie per noi le mucche madri che sono adatte al refattening. L’aging è spesso suddiviso in “dry aging” " e "wet aging", ma questo termine può essere utilizzato anche in riferimento al refattening del bestiame che ha partorito. Reingrassando le keisan-gyu, la qualità della carne cambia e la carne, anche se “invecchiata”, grazie ad una precisa alimentazione con ingredienti


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selezionati, aumenta la quantità di aminoacidi nella carne, precursori del forte gusto umami che caratterizza Shimofuri . Man mano che l'età avanza e il processo di ingrasso prosegue, gli acidi grassi insaturi del wagyu aumentano e il punto di fusione del grasso diventa più basso (aumentando la qualità del prodotto). Questo darà anche alla carne un sapore molto più ricco e, infine, man mano che la concentrazione di aminoacidi aumenta, la ciccia diventerà profondamente aromatizzata.

versione delle cose a cui siamo abituati e in cui pochissimi occidentali sono riusciti ad andare così in profondità. Stiamo lavorando ad un modello che ancora si fa fatica a comprendere fino in fondo, ma sappiamo che la strada è quella giusta e riusciremo a spiegarlo sempre a più persone. Perché capire il vero concetto di qualità e rispetto ci permetterà di cambiare davvero il mindset e individuare qual è l’unica versione di allevamento sostenibile e quanto questo non può rivolgersi a un mercato di massa.

“Aged Wagyu" è il manzo Wagyu che è stato raffinato per un lungo periodo di tempo e ha un gusto e un sapore diverso dal manzo Wagyu giovane. Consideratelo al pari della Vaca Vieja ma con una grandissima differenza. Il lavoro di recupero delle vacche spagnole è assolutamente eccezionale perché non svilisce quei capi che hanno poco mercato. Anzi, in Spagna ne hanno fatto una prelibatezza ricercata per molti cultori. Parliamo però di vacche a fine carriera, sono una diversa dall’altra e raramente sono sottoposte a tecniche di reingrasso.

Resta ad ognuno di noi la scelta: meglio 100 kg di manzo a 1€? Oppure meglio 1 kg a 100€? Come si può pensare ad allevamenti sostenibili se si consuma sempre più carne a prezzi sempre più bassi? Forse è il caso di riflettere. E noi non smetteremo di farlo.

Gianfranco Lo Cascio

Le Keisan-gyu vengono vengono recuperate nel momento in cui hanno dato se stesse alla prole. Non possiedono grandi marezzature perché sono state in parte “asciugate” dalla gravidanza e dall’allattamento. Quando non verranno più usate per generare nuovi Wagyu, verranno trasferite nella Farm e sottoposte a un periodo di reingrasso in assenza totale di stress. Per ricostituire una struttura sana e una giusta quantità di grasso interno. Il risultato, se avete provato la selezione Shimofuri, sapete bene che è di straordinaria tenerezza e aromi soavi. Se non l’avete provata, beh, vi siete persi un’esperienza formidabile.

È straordinario lavorare gomito a gomito con realtà che vivono all’altro capo del mondo, fuori da ogni

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La Aged Wagyu di Shimofuri Farm continuerà nel suo consolidamento. Sceglieremo sempre più capi di spiccate doti e continueremo ad affinare il metodo di reingrasso. Ma non sarà l’unica selezione. Nella prefettura di Nagano stiamo lavorando anche ad una F1 dove tori Wagyu vengono ibridati con vacche di diversa estrazione. Questo per ottenere capi con una struttura grassa estremamente aderente al modello occidentale, pur preservando la disciplina e le note aromatiche tipiche del protocollo giapponese (ve ne parlerò in seguito).

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Maître Pâtissier - corso di pasticceria a cura del Maestro Pasticciere Pasquale Bevilacqua Pasticceria Mamma Grazia, Nocera Superiore (Salerno)

Il tiramisù

secondo il pasticcere Per non accontentarsi di un banale savoiardo bagnato nel caffè Questo Luglio 2021 ha risvegliato in noi italiani una grande voglia di festeggiare il nostro Paese: abbiamo portato a casa un bel po’ di successi agonistici e questo si tramuta automaticamente in cene e reunion tricolori, con il meglio che la nostra cucina possa offrire. Per quanto riguarda i dolci squisitamente italiani, sulle tavole non può mancare il tiramisù. Tra le pagine del Magazine è già apparsa una ricetta di questo dolce, mangiato praticamente da tutti. Ma non vi è stata ancora data la versione del tiramisù del pasticciere, con i biscotti fatti da voi, il mascarpone artigianale, la bagna al caffè calibrata al millilitro delle vostre golosità.

Vi darò tutti i suggerimenti ed i passaggi utili per costruire praticamente il vostro tiramisù da zero: imparerete a fare dei savoiardi gustosissimi, friabili e “da pasticceria”; il mascarpone – avete già una ricetta, fornita dal Mastro Formaggiere del Magazine, ma vi fornisco anche la mia – sarà una crema, non duro come quello del supermercato e sarà avvolgente, grasso ed irrinunciabile. Il tiramisù così preparato potrete conservarlo in frigo per circa 3 giorni, ad una temperatura di +5 °C. Se avete in mente di conservarlo più a lungo sarà opportuno surgelarlo negli appositi ripiani del congelatore. Basterà tirarlo fuori un’oretta prima del servizio e portarlo a temperatura di frigo. Siete pronti? Andiamo a preparare insieme il più grande classico italiano!

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Sebbene sia un dolce non registrato nei manuali di cucina prima degli anni Sessanta del secolo scorso, il tiramisù gode di una fama smisurata sia in Italia che all’estero. Vi assicuro che uno dei dolci più presenti nei menu di tutti i ristoranti italiani del mondo è proprio questo blocchetto di biscotti inzuppati nel caffè, crema al mascarpone, cacao. Negli ultimi anni – diciamo pure, negli ultimi vent’anni – il tiramisù ha subito tutte le svariate trasformazioni che abbiamo visto nella pasticceria: è stato scomposto, messo in bicchiere, ricomposto in altre forme. Per la mia esperienza, posso assicurarvi che il tiramisù più buono di tutti potete farlo da soli. Proprio da soli.

Troppo spesso – per velocità, per poco tempo, per presunta “scarsa capacità” – il tiramisù diventa un dolce bistrattato, raffazzonato. Savoiardi di dubbia qualità vengono inzuppati a più non posso in litri di caffè, il mascarpone duro come uno zoccolo messo a cucchiaiate selvagge, il cacao amaro come una specie di diluvio estivo. Volete cimentarvi in un tiramisù che sembrerà ai vostri ospiti come appena uscito da una pasticceria? Non vi resta che seguirmi passo dopo passo.

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Ingredienti per circa 12/16 savoiardi: 250 g

Farina 00 / 300 g Albumi d’uovo / 200 g Zucchero semolato / 140 g Tuorli d’uovo / 6 g di buccia di limone non trattato (sfusato amalfitano, se lo trovate) / 0,5 g di pasta di vaniglia Bourbon

Preparazione: 1. Per prima cosa, montare a neve ferma albume con lo zucchero per circa 10 minuti. 2. Successivamente, unire la buccia del limone grattugiata (ben lavata) e la pasta di vaniglia Bourbon. 3. Versare i tuorli d’uovo a filo e far miscelare per un minuto a velocità media. 4. Prendete la farina ed unitela a mano, fino ad ottenere un composto liscio e molto liquido. 5. Con una marisa, iniziamo ad emulsionare il composto. 6. È il momento di prendere una sac à poche. Create una bocchetta che sia ampia circa 14 mm, per estrudere i nostri savoiardi. 7. Preparate una teglia ampia con un foglio di carta forno. 8. Nel frattempo, impostate il forno in modalità ventilata e fate raggiungere la temperatura di 220°C . 9. Riempite la sac à poche con cucchiaiate di impasto ed estrudete con calma e sangue freddo i vostri savoiardi. Dovrete avere la pazienza e la fermezza di estruderli uno ad uno con un colpo unico, altrimenti tenderanno a creparsi e spaccarsi. Abbiate cura anche di conservare un discreto spazio tra i biscotti, diciamo tre dita di spazio tra un savoiardo e l’altro. 10. Infilate la teglia in forno e cuocete per massimo 15 minuti.

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11. Per circa 8 minuti di cottura, la valvola del forno (quella che permette all’umidità di fuoriuscire) dovrà essere chiusa, per la restante parte della cottura dovrà essere aperta, per permettere ai savoiardi di asciugarsi.

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12. I savoiardi saranno pronti quando la loro superficie sarà brunita. Se avete lavorato bene, il savoiardo sarà integro e non collassato.


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Ingredienti per mascarpone e crema:

1 l di panna fresca con il 35% di grassi / 2 g di sale / 80 g succo di limone / 250 g di tuorli d’uovo / 250 g di zucchero semolato / 6 g di buccia di limone non trattato (sfusato amalfitano se disponibile) Preparazione del mascarpone: (Il mascarpone va preparato necessariamente il giorno prima) 1. Realizzate una infusione con il litro di panna, i 2 g di sale e gli 80 g di succo di limone. 2. Portate ad ebollizione il composto. 3. Togliere dal fuoco e lasciar freddare per circa 30 minuti. 4. Dopo aver lasciato raffreddare, trasferite il composto su un canovaccio a sua volta poggiato su un setaccio. 5. Coprite con pellicola per alimenti e trasferite in frigo a circa 5°C.

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6. A questo punto, il mascarpone dovrà riposare in frigo per l’intera giornata (24 ore complete).

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Preparazione del mascarpone: 1. Montare in planetaria i 250 g di zucchero semolato con i 250 g di tuorli d’uovo. 2. Quando saranno ben montati a neve, versare all’interno il nostro mascarpone. 3. Far montare tutto insieme per qualche minuto a velocità media. Vi renderete conto che il processo sarà ultimato quando il composto assumerà una consistenza cremosa. Questo accade perché la cremosità del nostro mascarpone andrà a sostituire la componente ariosa degli albumi e dello zucchero montati a neve.


Ingredienti per la bagna e per l'assemblaggio: 100 g caffè espresso napoletano / 50

g acqua / 50 zucchero / 100 g di cacao amaro / decorazioni di cioccolato a piacere Assemblaggio: 1. Iniziamo la costruzione del nostro tiramisù. Creiamo una bagna al caffè espresso con i 100 g di caffè, i 50 g di acqua e i 50 g di zucchero in un bicchiere abbastanza capiente.

abbiamo scelto per presentare il nostro dolce. 4. Riempiamo una sac à poche di crema al mascarpone. 5. Estrudere uno strato consistente di crema al mascarpone sulla porzione di savoiardi. 6. Imbibire ancora due savoiardi per coprire lo strato di crema mascarpone.

2. Ad uno ad uno, imbibiamo i nostri savoiardi con delicatezza nella bagna.

8. Con l’aiuto di un setaccio, spolverate il cacao amaro come decorazione.

3. Posizioniamo uno o due savoiardi sul piatto che

9. Decorate con i fili di cioccolato.

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7. Sulla sommità, estrudete qualche altro ciuffo di crema mascarpone.

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a cura di Emiliano Nencioni

BBQ4All: FROM ZERO TO HERO

La cottura indiretta sul kettle

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olti di voi, lo sappiamo, si trovano alle prese con un problema che li assilla e che li costringe a stare svegli di notte; ma non stiamo parlando di quelle nottate che, almeno sulla carta, sono considerate divertenti overnight dedicate alle lunghe cotture tipiche dell’American bbq, parliamo invece di quelle brutte notti assillate dai dubbi che costringono a girarsi e rigirarsi nel letto, senza trovare una posa: ma riuscirò a fare una bella cottura indiretta, magari un pulled pork, anche se possiedo un kettle e non uno smoker? Rispondiamo subito con la versione veloce, in modo da salvare il vostro sonno: sì, la cottura indiretta, anche molto lunga, è fattibilissima su un kettle. Ci sono però delle cose a cui dover fare attenzione e che è bene sapere prima di iniziare.

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Le dimensioni contano

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Può sembrare scontato dirlo, ma quando si parla di cottura indiretta su un kettle si deve sempre tener conto che la principale differenza fra questo dispositivo e uno smoker è la porzione della griglia utilizzabile per la cottura degli alimenti. Come ben sapete, sul kettle ci sono due tipi di cottura indiretta: a due zone, in cui le braci vengono poste su un lato del braciere e la carne viene adagiata, sulla griglia di cottura, sul lato opposto rispetto al carbone; a tre zone, in cui il carbone viene posto su due lati del braciere e la carne viene posizionata in griglia nel corridoio centrale. In entrambi i casi, è evidente che lo spazio utile per poter cuocere un alimento in indiretta è esattamente la metà rispetto a uno smoker in cui, invece, si può utilizzare l’intera griglia. Va da sé che ripiegare su un kettle che abbia


un diametro più grande diventi una scelta vincente se si vuole affrontare una cottura bbq di un grosso pezzo di ciccia. Al momento dell’acquisto, dunque, è meglio optare per un dispositivo più grande: spenderete qualche euro in più ma sarete ripagati in soddisfazione.

Low e Slow La caratteristica tipica della cucina BBQ è appunto il low e slow: stiamo parlando di cotture di molte ore (dalle 4 in su) a temperature inferiori ai 130°C. Sarebbe ottimale rimanere sui 110°C. Per ottenere questo risultato, è fondamentale utilizzare lo Snake Method: si realizza un serpentone di bricchette spente che corre lungo il bordo del kettle, avendo l’accortezza che queste siano a contatto tra loro, leggermente sovrapposte. Una delle formazioni migliori è di due bricchette sotto e una sopra. Ad uno degli estremi del serpentone si aggiungono le bricchette accese, così da innescare una combustione a catena, a cui verranno sovrapposte le prime chips di affumicatura. Questo metodo vi permetterà di mantenere la temperatura costante, mentre la lunghezza dello “snake” determinerà la durata. Regolando le bocchette di aerazione inferiori, avrete anche modo di regolare la temperatura all’interno della camera di cottura. Mentre con la bocchetta superiore gestirete la permanenza del fumo, e quindi la fase e l’intensità dell’affumicatura.

Water pan Spesso, al livello della griglia carboni, è consigliabile aggiungere una vaschetta con acqua calda, chiamata in gergo water pan, il cui scopo è quello di aiutare la stabilizzazione della temperatura all’interno della camera di cottura, e a produrre umidità (non vi dimenticate che, a differenza di ciò che pensano in molti, una cottura indiretta su un kettle riproduce l’effetto di un forno in modalità ventiliato e un ambiente talora molto secco). Tuttavia, non sempre è necessario introdurre umidità in camera di cottura: se per esempio abbiamo in griglia una grossa quantità di carne, che produce già parecchia umidità, l’inserimento del water pan potrebbe essere superfluo. Per questo motivo, è sempre bene provare e riprevare e poi, in base alla propria esperienza decidere se utilizzarlo o meno.

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È comunque vero che, in ogni caso, una vaschetta con acqua posta sotto la carne in cottura raccoglie i grassi che colano e protegge le griglie sottostanti dalla sporcizia, con grande felicità di chi poi è addetto alla pulizia post-grigliata.

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La ricetta scientifica a cura di Gianfranco Lo Cascio

: a c i f i t n e i c s a t t e c i r La

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Il Tabuleh, Tabbouleh o anche taboleh o tab(b)uli è un’insalata a base di prezzemolo. Lo confesso subito, così togliamo di mezzo ogni possibile fraintendimento. Io amo la versione libanese. Anzi non la amo, la adoro con sentimenti profondi. Questo perché ho vissuto un lungo periodo in Libano ed è un posto magico che mi è rimasto nel cuore. Soprattutto la sua cucina. La cucina libanese è “strana”. Perché per quanto sia un Paese a dominanza araba non conserva le caratteristiche tipiche dei piatti tipici del Medioriente. Il Libano è limone, menta, freschezza. Quasi totale assenza di piccante. Sumac, cetriolo, aglio, pochissime spezie invadenti. È una cucina rinfrescante, molto mediterranea, più vicina a quella greca che a quella tipicamente mediorientale fatta di spezie e sentori piccanti. La prima volta è stato complesso mangiare il Tabbouleh. Perché non ero abituato a quella dominante di prezzemolo. Ma la freschezza che restava alla fine era deliziosa. A fare da spalla c’era sempre il bulgur, che è semplice grano spezzato e cotto al vapore. Nella versione libanese, la massa presente in maggiore quantità non è il bulgur ma il prezzemolo. Poi c’è il cipollotto, i cubetti di pomodoro, una generosa manciata di menta, una generosissima dose di olio extravergine e tantissimo succo di limone. Quando di stagione, si mettono anche dei cubetti di cetriolo. Che personalmente adoro oltremisura.

Prenderò in considerazione questa versione quindi. Perché quella siriana e palestinese hanno più bulgur che prezzemolo. Non è certo cattiva ma è un altro piatto, con altre sfumature di gusto. Come si può migliorare un piatto che sembra già essere perfetto di per sé? Forse non tantissimo, ma ritengo che ci sia sempre qualcosa che si può migliorare, quantomeno in cucina. E dove davvero non si riuscisse a migliorare, si potrebbe sempre rendere un piatto molto più aderente al nostro gusto personale, no? Nella mia esperienza il Tabbouleh era quello che chiamavo “apri fame”. Veniva sempre servito come pietanza di apertura insieme alla pita e alla crema di aglio, il toum, un classico immancabile nelle tavole libanesi. Il toum non è altro che aglio crudo emulsionato con olio, sale e succo di limone. Si ottiene una crema bianca dal gusto incredibilmente potente. Se amate l’aglio non potete non adorarla. Per il mio palato, alternare bocconi di insalata di prezzemolo a pezzi di pita con crema di aglio era un connubio di goduria perfetto. A tal punto che se per caso, qualche volta, non c’era il toum in tavola, preferivo aspettare prima di iniziare il mio rituale. Ed è quindi in questa direzione che ho voluto proiettare le cose.

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Sovente si mangia con il cucchiaio. Accompagnata dall’immancabile pita e due piattini: uno di Labneh, yogurt colato con aglio, menta e olio extravergine, e l’altro con cre-

ma di aglio da strofinare sul pane. Non credo di aver passato un giorno senza mangiare il Tabbouleh durante tutta la mia permanenza in Libano. E per quanto io non lo prepari spesso, sento di avere una profonda connessione con questo piatto.

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GLI INGREDIENTI PORTANTI

#01 IL PREZZEMOLO Petroselinum crispum

Anche se la famiglia delle carote ha dato meno piante aromatiche in Europa rispetto alla famiglia della menta, ne include comunque diverse che forniscono potere aromatico sia come erba che come spezia (alcune anche come verdure). I membri della famiglia delle carote crescono in condizioni meno estreme rispetto alle mentine mediterranee, sono generalmente tenere biennali piuttosto che arbustive o legnose perenni, e hanno sapori che sono generalmente più miti, a volte anche dolci. I semi (in realtà piccoli frutti secchi) possono contenere difese chimiche - sono quindi spezie - perché sono abbastanza grandi e allettanti per insetti e uccelli. La miristicina, un terpene condiviso da aneto, prezzemolo, finocchio e carote, e che dà loro una comune nota legnosa e calda, è probabilmente una difesa contro le muffe. Le erbe della famiglia delle carote hanno ghiandole oleifere difensive all'interno delle loro foglie, non sulle superfici. Le ghiandole si raggruppano

#02 IL LIMONE

Gli agrumi sono tra i più importanti frutti arborei. Dal loro luogo di nascita nella Cina meridionale, nell'India settentrionale e nel Sudest asiatico si sono diffusi in tutte le zone subtropicali e temperate miti del mondo. Il commercio antico portò il cedro nell'Asia occidentale e nel Medio Oriente prima del 500 a.C., e i crociati medievali ritornarono in Europa con un bel po’ di arance aspre; i commercianti genovesi e portoghesi introdussero le arance dolci intorno al 1500 e gli esploratori spagnoli le esportarono nelle Americhe.

Il prezzemolo è originario dell'Europa sudorientale e dell'Asia occidentale; il suo nome deriva dal greco e significa "sedano di pietra". È una delle erbe più importanti nella cucina europea, forse perché il suo sapore caratteristico (che deriva dal mentatriene) è accompagnato da sentori freschi, verdi e legnosi che sono un po’ ruffiani e quindi completano molti cibi. Quando il prezzemolo viene tritato, la sua nota distintiva svanisce, le note verdi diventano dominanti e si sviluppa una connotazione leggermente fruttata. Esistono varietà a foglie ricce e piatte con caratteristiche diverse; le foglie piatte hanno un forte sapore di prezzemolo quando sono giovani e solo in seguito sviluppano una nota legnosa. Le foglie ricce, invece, all’inizio presentano un sapore dolce e legnoso e sviluppano il carattere “prezzemolato” quando sono più mature.

dopo il raccolto, e la buccia carnosa offre una buona protezione contro i danni fisici e l'attacco di microbi guastafeste.

ANATOMIA DEGLI AGRUMI

Ogni segmento di un agrume è un compartimento dell'ovario ed è pieno di piccole sacche allungate chiamate vescicole, ognuna delle quali contiene molte cellule di succo, microscopiche e individuali, che si riempiono di acqua e sostanze dissolte man mano che il frutto si sviluppa. Intorno agli spicchi c'è uno strato spesso, bianco e spugnoso chiamato albedo, solitamente ricco sia di sostanze amare che di pectina. E sopra all'albedo c'è la buccia, uno strato sottile e pigmentato con minuscole ghiandole sferiche che creano e conservano oli volatili. Flettendo un pezzo di buccia di agrumi le ghiandole oleifere scoppiano e proiettano uno spruzzo visibile, aromatico - e infiammabile - nell’aria.

COLORE E SAPORE DEGLI AGRUMI

Gli agrumi devono i loro colori giallo e arancione ad una complessa miscela di carotenoidi, di cui

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Perché gli agrumi sono così popolari? Offrono un'insolita serie di virtù. Le loro bucce hanno aromi distintivi e forti, è questo che li ha resi attraenti dal principio, ben prima che la selezione da parte dell’uomo sviluppasse cultivar dal sapore più amabile. Le varietà migliorate hanno un succo rinfrescante, da aspro a dolce, che può essere estratto anche da poca polpa. La buccia è ricca di pectine che creano gel. Gli agrumi sono anche abbastanza robusti. Sono non climaterici, quindi mantengono la loro qualità per un po' di tempo

intorno a lunghe venature e le riempiono di olio essenziale.

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solo una piccola parte è disponibile come vitamina. Le bucce dei frutti sono inizialmente verdi e ai tropici spesso rimangono tali anche quando il frutto matura. In altre regioni, le temperature fredde innescano la distruzione della clorofilla nella buccia e i carotenoidi diventano visibili. I frutti in commercio vengono spesso raccolti verdi e trattati con etilene per migliorarne il colore e ricoperti con una cera commestibile per rallentare la perdita di umidità. I pompelmi rosa e rossi sono colorati dal licopene e le arance dolci rosse da una miscela di licopene e betacarotene e dalla criptoxantina. Il rosso porpora delle arance rosse deriva dalle antocianine.

SAPORE DEGLI AGRUMI

Il sapore degli agrumi è creato da una manciata di sostanze, tra cui l'acido citrico (così chiamato perché è tipico di questi frutti), zuccheri e alcuni composti fenolici amari, che di solito sono concentrati nell'albedo e nella buccia. Gli agrumi sono sorprendentemente ricchi dell'aminoacido glutammato, rivaleggiando con il pomodoro (le arance raggiungono 70 milligrammi per 100 grammi, i pompelmi 250). Contengono poco amido e quindi non si addolciscono molto dopo la raccolta. Di solito l'estremità del frutto in fiore contiene sia più acido che più zuccheri, e quindi ha un sapore più intenso dell'estremità attaccata al ramo. I segmenti vicini possono variare significativamente nel gusto. L'aroma degli agrumi è prodotto sia dalle ghiandole oleifere nella buccia che dalle goccioline d'olio contenute nelle vescicole del succo. Generalmente gli oli delle vescicole contengono più esteri fruttati e l'olio della buccia più aldeidi verdi e terpeni agrumati/speziati. Alcuni composti aromatici sono condivisi dalla maggior parte degli agrumi, tra cui il limonene genericamente agrumato e piccole quantità di idrogeno solforato. Nel succo appena fatto, le goccioline di olio del sacco si aggregano gradualmente con i materiali polposi e questa mescolanza riduce l’intensità dell'aroma, specialmente se parte della polpa viene filtrata.

TIPI DI AGRUMI

Gli alberi del genere Citrus sono meravigliosamente vari e inclini a formare ibridi tra loro, il che complica la determinazione dei rapporti di parentela da parte degli scienziati. Attualmente si pensa che i comuni agrumi addomesticati derivino tutti da tre soli “genitori”: il cedro Citrus medica, il mandarino Citrus reticulata e il pomelo Citrus maxima. Almeno un discendente è relativamente giovane: il pompelmo ha apparentemente avuto origine nelle nelle Indie Occidentali nel 18° secolo come incrocio tra il pomelo e l'arancia dolce.

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I limoni potrebbero aver avuto origine come ibrido in due fasi, la prima iniziata nella zona dell'India nordoccidentale e del Pakistan, la seconda nel Medio Oriente. Arrivarono nel Mediterraneo intorno al 100 d.C., furono piantati nei frutteti della Spagna moresca entro il ‘400, ed ora sono coltivati principalmente nelle regioni subtropicali. Sono apprezzati per la loro acidità e il loro aroma fresco e brillante. Il succo di limone ha un pH estremamente basso (2,3 – 2,5) e proprietà altamente antiossidanti, caratteristiche che lo rendono ideale non solo in cucina, ma anche in cosmesi, farmacia e pulizia. È ricco di vitamina C, potassio e flavonoidi e vanta benefici anti-praticamente in tutti i campi (anticolesterolo, antibatterico, antinfiammatorio, antisettico, antianemico …), mentre è sconsigliato a chi soffre di gastrite.

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Forse avrete notato che i limoni sono sempre disponibili, e il merito non è solo della Grande Distribuzione. I frutti infatti giungono a maturazione in diversi periodi dell’anno a seconda delle fioriture. La prima, tra marzo e giugno, dà origine ai primofiore e ai limoni invernali, che maturano rispettivamente a settembre-ottobre e tra dicembre e aprile. La seconda fioritura (maggio-luglio) produce i bianchetti, i meno pregiati sul mercato che maturano tra marzo e maggio. Infine, la terza fioritura (agosto-ottobre) dà origine ai verdelli, frutti di giugno e luglio tra i più usati per la produzione di limoncello.


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FOCUS: LE CULTIVAR DI LIMONE ITALIANO LIMONE FEMMINELLO COMUNE

Il femminello è la cultivar italiana di limone in assoluto più diffusa. Il nome fa riferimento alla notevole fertilità con ben cinque fioriture annuali che danno origine, da settembre in poi, a primofiore, bianchetti, marzani, verdelli e bastardi. Il femminello viene coltivato soprattutto in Sicilia orientale e Calabria meridionale e vanta numerose selezioni clonali. Tra le più pregiate troviamo Zagara bianca dalla fruttificazione costante e produttiva, Siracusano o masculuni caratterizzato da vigoria e alta qualità dei frutti, Apireno Continella senza semi, Santa Teresa apprezzato per i verdelli, Dosaco a basso contenuto di semi e alta concentrazione di succo, Sfusato amalfitano ricco in olii essenziali. Ulteriori cloni sono Incappucciato, Lunario, Sfusato di Favazzina, Quattrocchi e Scandurra. Ce n’è per tutti i gusti, sia che vogliate utilizzare la buccia per profumare la casa, sia per il succo da spremere copioso sull’insalata e nell’impasto di una torta.

LIMONE INTERDONATO

Questo ibrido è diffuso quasi esclusivamente sul versante ionico messinese e a quanto pare è reduce di una storia avventurosa. Le sue origini si fanno risalire al veterano di guerra Giovanni Interdonato, già colonnello garibaldino il quale, ritiratosi a vita privata, pensò bene di darsi all’agrumicoltura. Da un incrocio “fortuito” tra cedro e il limone locale ariddaru spuntò questo ibrido di forma allungata e carattere decisamente poco agguerrito. Il succo infatti è delicato e poco acidulo e anche la buccia è più dolce che amara.

LIMONE MONACHELLO

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Terminiamo la triade delle cultivar italiane “di base” con il monachello, limone utilizzato specialmente per la produzione di verdelli. Si distingue per la sua resistenza alle malattie, prima fra tutti il mal secco di origine fungina; tuttavia la pianta è poco produttiva e fruttifica piuttosto lentamente. I frutti hanno forma allungata e buccia liscia, hanno poco succo e sono generalmente meno acidi dei femminello.

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LIMONE COSTA D’AMALFI IGP

Il limone da cartolina è proprio lui, affacciato sulle terrazze a picco sul mare della Costiera più famosa. Il limone Costa d’Amalfi Igp appartiene alla varietà Sfusato amalfitano, caratterizzato da forma ellittica e affusolata, polpa priva di semi e un profumo molto intenso, ricchissimo di olii essenziali. Recenti studi scientifici hanno addirittura dimostrato che il Costa d’Amalfi contiene almeno il doppio di composti aromatici rispetto a qualsiasi altro limone. Non sorprende dunque che pochi pezzettini di buccia uniti a ghiaccio tritato diventino un dessert fenomenale: cercate questa “grattachecca” artigianale nei chioschetti ambulanti a Positano, Ravello, Tramonti e tutti gli altri comuni di questo splendido pezzettino d’Italia.

LIMONE DI SORRENTO IGP

Aggrappato ai classici pergolati, il limone di Sorrento Igp è il tesoro giallo oro e profumatissimo della Penisola Sorrentina. L’ecotipo Ovale di Sorrento ha forma ellittica e dimensioni medio-grandi, ha succo abbondante e scorza intensamente aromatica. Il suo utilizzo più famoso è sicuramente nel limoncello.

LIMONE DI SIRACUSA IGP

Il limone di Siracusa Igp è un femminello portentoso: le sue fioriture consentono una produzione costante durante tutto l’anno e ogni frutto presenta caratteristiche ben precise. I primofiore di ottobre sono medio-grandi, ellittici e succosi; i bianchetti o maiolini di aprile sono grandi, gialli e di forma ovale; i verdelli di giugno sono sferici e caratterizzati dalla buccia verde chiaro. Oltre ai piatti tipici come ricotta infornata e arancine, il Siracusa Igp è ideale per i dolci.

LIMONE DELL’ETNA IGP

Non solo vite e vino: la fertilità del vulcano più alto d’Europa dà vita anche al limone dell’Etna Igp nelle varietà femminello e monachello. Entrambi producono frutti primofiore, bianchetto e verdello caratterizzati da colore giallo-verde, forma ellittica e succo aspro e abbondante. Per gustare appieno la “sostanza” del limone Etna


non potete esimervi dal rituale dei chioschi di Catania, ovvero il seltz sale e limone per placare la sete estiva.

LIMONE INTERDONATO MESSINA IGP

L’Interdonato di Messina Igp è una specie sui generis, lo abbiamo già detto. Questo ibrido locale giovane e vigoroso (classe 1875, non ha ancora duecento anni di vita) si distingue per la buccia sottile, la forma ellittica dalle estremità verdoline e il basso contenuto in acido citrico che lo rende particolarmente dolce. Definito “il migliore da accompagnare al tè” per gli amanti del genere.

LIMONE DI ROCCA IMPERIALE IGP

Ci spostiamo in Calabria nella provincia di Cosenza per questa cultivar di femminello davvero speciale. Il limone di Rocca Imperiale Igp ha forma allungata, buccia dai colori tenui e polpa quasi priva di semi. Il suo sapore delicato, né acido né amaro, lo rende ideale per aromatizzare dolci e creme.

LIMONE FEMMINELLO DEL GARGANO IGP

Grazie a lui anche i pasticciotti acquistano (incredibilmente) una marcia in più. Il limone Femminello del Gargano Igp è una specialità pugliese della provincia di Foggia derivata dall’ecotipo di femminello comune detto Limone nostrale. La sua forza sta nell’intensità del profumo: la buccia è infatti particolarmente ricca di olii essenziali. La varietà si presenta con forme diverse (ellittica, ovoidale, globosa) a seconda della fioritura, ha polpa succosa e sapore citrino poco amaro.

LIMONE DI PROCIDA

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L’Arca del Gusto Slow Food recupera questa varietà isolana di femminello ovale. Grosso, spesso e tutto da mangiare, il limone di Procida è anche detto “limone di pane” per via dell’albedo che in questo caso si rivela poco amaro e decisamente appetitoso.

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GLI INGREDIENTI PORTANTI

#03 IL COUS COUS Di origine maghrebina, primordiale e leggero, viene servito con carne, pesce o verdure. In passato, l’ingrediente base del cous cous era principalmente la semola di grano, Triticum durum, quella farina granulosa frutto di una macinatura grossolana, ottenuta da macchine primitive. Oggi con questo nome ci si riferisce anche ad alimenti preparati con cereali diversi, come orzo, miglio, sorgo, riso, o mais. Il cous cous può essere fine, medio o grosso, bianco o bruno, e può essere cucinato con burro, olio, speziato o no, salato o dolce.

L’ORIGINE

Il cous cous affonda le sue radici nel Maghreb, terra dei berberi, la popolazione indigena dell’Africa Settentrionale. Il processo di cottura tipico del cous cous, la cottura a vapore sul brodo in una pentola speciale, potrebbe avere avuto origine prima del decimo secolo in un'area dell'Africa Occidentale che comprende gli attuali Niger, Mali, Mauritania, Ghana, e Burkina Faso. Il cous cous ha viaggiato nell'Africa subsahariana, dal Ciad al Senegal, per raggiungere i paesi mediorientali e diventare uno dei piatti più diffusi in Francia, in Grecia e in tutto il bacino mediterraneo, soprattutto in Sardegna (Carloforte), nel livornese e nel trapanese (San Vito Lo Capo).

LE RICETTE COL COUS COUS

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Questa semola si presta a una varietà infinita di piatti: da quello più semplice con lo smen, un burro “fermentato", e un bicchiere di latte cagliato, ai ricchissimi cous cous delle feste di matrimonio serviti con broccoli, carne di maiale o preparati nella versione dolce, con cannella, uva passa, fichi, mandorle e pistacchi.

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Il condimento classico del cous cous è quello con la carne di montone, di agnello, di pollo o anche di manzo a cui possono essere aggiunti altri ingredienti a piacere. Anche gli aromi possono variare. Si può per esempio unire in cottura alla zuppa di pesce una bustina di zafferano, o sedano, oppure alcune foglie di alloro.


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FOCUS: GLI UTENSILI DEL COUS COUS 01. CUSCUSSIERA

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È la pentola speciale per cuocere il cous cous a vapore. In Sicilia è spesso di terracotta smaltata, ma viene realizzata anche in rame e alluminio. In mancanza di questo accessorio è possibile utilizzare uno scolapasta di metallo appoggiato su una pentola in cui far bollire l'acqua o il brodo con le verdure, la carne o il pesce.

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02. MAFARADDA

Apposito contenitore siciliano di terracotta verniciata a pareti ricurve e fondo piatto, in cui vengono legati i granelli di semola.

03. LEMMO

Chiamato anche lemmu in Sicilia, è il recipiente di terracotta verniciata svasato che serve a contenere la semola già lavorata.

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LA LAVORAZIONE TRADIZIONALE DEL COUS COUS MACINATURA

Il lavoro comincia con la macinatura del grano al mulino e con la setacciatura della semola dividendo il grosso dal fine. Durante questa fase viene recuperato anche lo spezzato utile a preparare il burghol o il Tabuleh. Le dimensioni dei granelli determinano l'uso. • Il cous cous più grande, chiamato m’hamas, è della dimensione di granelli di pepe. • I granelli di dimensione media sono quelli utilizzati più comunemente • Il cous cous fine si usa nei dolci o col pesce.

MODALITÀ DI COTTURA

Dovrebbe essere passato al vapore due o anche tre volte. Quando è cotto come si deve è morbido e leggero, non dovrebbe essere gommoso né formare grumi. Il cous cous va cotto a vapore in un tegame simile ad uno scolapasta: la cuscussiera. È costituita da due parti, quella inferiore, e quella superiore forata tipo scolapasta. Come si usa la cuscussiera? •

L’ultimo setaccio divide il cous cous grosso dalla "mazlouga" che è in tutto e per tutto simile alla fregola sarda e si usa nelle minestre invernali.

L’INCOCCIATURA

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La Mafaradda Siciliana è l'antico e tradizionale piatto largo e basso, a pareti svasate, di legno o di terracotta, utilizzato anche come piatto di portata, in cui si versa la farina di semola, un bicchiere d’acqua, un grosso pizzico di sale e, in qualche regione, piccole quantità di farina. Si spruzza dell’acqua salata, e si inizia a "incocciare", ossia a lavorare la semola con le mani, con le dita leggermente aperte e il palmo sollevato, con movimenti circolari, sempre nella stessa direzione, fino a ottenere delle palline non più grandi di una capocchia di spillo. Si continua a lavorare la semola fino ad ottenere delle palline piccolissime che vengono versate in un piatto fondo di vimini, per essere separate le une dalle altre. Vengono lasciate asciugare un quarto d’ora in un cestino e poi si ricomincia a lavorare , a”rotolare" il cous cous per farlo passare attraverso setacci di diverse dimensioni. Deve essere lasciato asciugare per tre ore su una tovaglia e conservato in un luogo molto asciutto o in giare di terracotta ermeticamente chiuse.

Nella parte bassa si mette abbondante olio d’oliva, qualche spicchio d’aglio, spellato o in camicia, e un piccolo peperoncino. Si rosola a fuoco vivo con qualche spezia e si aggiunge un brodo di carne, o di pesce o di verdure. Quando dalla couscousiera usciranno dei fumi vorrà dire che l'acqua (o brodo) bolle. A questo punto si adagia lentamente il cous cous inumidito e sgranato. Si regola il fuoco ad intensità media e si sistema un canovaccio di cotone sopra la cuscussiera per non disperdere il vapore. Dopo cinquanta minuti circa si rovescia il contenuto in un grande piatto, largo abbastanza per continuare a sgranare e inumidire la semola lentamente e a piccole quantità con due bicchieri d'acqua e mezzo bicchiere d’olio. Poi si aggiusta di sale. Se l'acqua dentro la cuscussiera si dovesse asciugare troppo se ne aggiunge altra e mentre si sgrana il cous cous si aspetta che riprenda il bollore. Appena bolle si rimette la pentola con i buchi e si riadagia sopra il cous cous. Si aspettano altri 50 minuti e si rifà lo stesso lavoro senza aggiungere olio ma solo un po' d'acqua. Alcuni fanno quest'ultima sgranata con il brodo cotto nella cuscussiera.

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IL COUS COUS PRECOTTO

Se non si ha tempo o manualità, si può utilizzare il cous cous precotto che si trova facilmente anche nei supermercati. È solitamente passato al vapore una prima volta e poi essiccato, e le istruzioni sulla confezione consigliano di aggiungervi un po' di acqua bollente per poterlo servire. Questo metodo è semplice e rapido: basta mettere il cuscus in una ciotola e versarvi sopra l'acqua o il brodo bollente, coprendo poi la ciotola. Il cous cous si gonfia e nel giro di pochi minuti è pronto da servire, dopo averlo però sgranato con una forchetta. Diversamente da come indicato sulle confezioni, potete cucinarlo anche a vapore. Cuocendolo così per un’ora e più, mescolando spesso per evitare i grumi, si ottiene una semola più soffice.

COME SI MANGIA

Nella tradizione africana il cous cous viene consumato seduti tutti insieme attorno a un grande piatto rotondo con la carne o il pesce e le verdure al centro. Il brodo viene servito in una ciotola a parte, e ogni commensale può aggiungerlo a piacere.

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Prima di iniziare il pasto a base di cous cous viene sussurrato "Biss’mi Allah" ("in nome di Dio"), una preghiera di benedizione per la mensa. Poi si procede affondando le tre dita della mano destra nel cous cous, come precisa il corano, poiché con un dito mangia il diavolo, con due il profeta e con cinque l’ingordo. Si forma con le mani una pallina di semola sgranata attorno a un pezzetto di verdura o carne o pesce utilizzando le mani, ognuno attinge alla porzione davanti a sé nel piatto. Per servirsi non si utilizzano posate ma pane non lievitato.

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In una ciotola a parte viene servita l’harissa, una salsa molto piccante a base di peperoncino rosso fresco, aglio, olio d’oliva e tipica del Nordafrica. L'harissa ha la consistenza di una pasta.


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FOCUS: IL COUS COUS NEL MONDO

AFRICA Questo piatto è l'alimento tradizionale di tutto il Nordafrica (Algeria, est del Marocco, Tunisia, e Libia). In Algeria, Tunisia e Marocco, il cous cous viene generalmente servito con verdure (carote, rape, ecc.) lessate in un brodo più o meno piccante, e qualche tipo di carne (di solito, pollo, agnello o montone); in Marocco, si può trovare anche del pesce in salsa agrodolce con uvetta e cipolle; in alcune regioni della Libia si usano pesce e calamari. Il brodo della carne in Tunisia è rosso, fatto con pomodoro e peperoncino, mentre in Marocco di solito è giallo Oltre che nel Maghreb, è molto diffuso anche nell' Africa Occidentale.

ISRAELE

Conosciuto anche come cous cous in perle, è una versione a grani più grossi, che viene servito in modi diversi.

EUROPA

In Francia è il secondo piatto preferito dai francesi. È molto consumato anche in Belgio e in Grecia.

SICILIA

A San Vito Lo Capo e in tutta la costa Trapanese, da Mazara del Vallo a Marsala sino alle isole Egadi, il cous cous si è sposato con la tradizionale zuppa di pesce, la "ghiotta", sostituendo il pesce alla carne, ingrediente tradizionale dei Berberi. Quello preparato nel trapanese è cotto a vapore in una speciale pentola (cuscussiera) di terracotta smaltata (vedi sopra). Un'altra fondamentale differenza tra cous cous siciliano e tunisino sta nel modo di incocciare, cioè lavorare a mano la semola, che è più grossa nel Trapanese per la tipologia delle macine dei mulini locali.

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SARDEGNA

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Il cascà o cashcà è una variante del cous cous, rappresentava un piatto povero ed era condito con cavolo cappuccio, cavolfiore o ceci. Col tempo il piatto si è evoluto, ed alla ricetta base si sono aggiunte le verdure di stagione e la carne suina. Il piatto si è trasformato in cibo della festa in epoca recente, preparato soprattutto in occasione della festa patronale di San Carlo. La lavorazione con le mani è un po' diversa da quella siciliana o nordafricana. Inoltre in Sardegna viene lavorato su un tagliere piano (quello di Carloforte è tipico)


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LA RICETTA SCIENTIFICA INGREDIENTI dosi per 6-8 persone • 500 g di cous cous • 500 ml di acqua • 1 kg di prezzemolo • Un mazzetto di menta • 250 g di pomodori da insalata • Il succo di 3-4 limoni • 2 cipollotti freschi • Olio q.b. Per la salsa di aglio • 1 aglio intero • Olio extravergine di oliva • Succo di 2 limoni • Sale q.b. • Pepe q.b.

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Opzionale: yogurt intero

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Ci sono pochissimi ingredienti, soprattutto verdure da consumare crude. È scontato dire che bisogna trovare quelle di qualità superiore. Il bulgur non è sempre facile da reperire e si presta poco al procedimento a cui dovremo sottoporlo. Un perfetto sostituto, più semplice da acquistare e più adatto alla tecnica è il cous cous. Anche un buon cous cous precotto andrà benissimo. La prima cosa da fare è metterlo in padella con dell’olio e tostarlo a modino. Bisogna farlo diventare ben scuro e croccante. Questo processo è tecnicamente ciò che viene definito destrinizzazione. Una valida alternativa consiste nel tostarlo in forno. Va bene l’uno e l’altro modo. In padella si fa più in fretta ma bisogna rimestarlo in continuazione per non farlo bruciare. È qui che stiamo aggiungendo un po’ di scienza alla nostra preparazione. Il cous cous, l’abbiamo detto, non è altro che semola di grano duro. È grano spezzato e ridotto in granuli. La grana è più fine rispetto al bulgur ma più grossolana se pensiamo alla polenta. Essendo semola sappiamo che al suo interno ci sono amidi, ovviamente, amilosio e amilopectina, ma c’è anche una buona quantità di glutine, quindi di proteine. Ricordiamo che per produrre la pasta si usa proprio la farina di grano duro per la sua quantità di proteine. Che succede durante il momento di tostatura a secco? Beh, sostanzialmente due cose. La prima è ciò che viene individuata come destrinizzazione dell’amido, come detto. Avviene quando l’amido viene sottoposto a calore secco. Gli zuccheri presenti si trasformano in destrine. Le destrine hanno il tipico colore bruno e tendono a fornire una nota dolce e profumata. Ma non è tutto. Che succede se abbiamo calore secco, zuccheri riducenti e proteine? Esatto, avviene la Reazione di Maillard. Nel cous cous ci sono proteine (glutine) ci sono zuccheri riducenti (destrine derivanti dalla tostatura) e se quindi diamo abbastanza calore di certo si catalizza la reazione di Maillard. Che vuol dire più sapore.

Vi faccio un esempio. Avete presente il pane raffermo? Ecco, quello è un amido retrogradato. Quando il pane viene cotto in forno, in presenza di umidità, gli amidi gelatinizzano. La mollica di pane, per esempio, è amido gelatinizzato. Finché si trova dentro al pane è soffice e umida. Ma se lo lasciamo all’aria per un po’ si asciuga, si secca ed assume una consistenza croccante. Questo è proprio il fenomeno di cui vi parlavo, la retrogradazione dell’amido. La ricristallizazione delle molecole di amido che formano il gel. La cosa interessante è che il processo è reversibile. Basta reidratare l’amido per tornare in condizione di gel. Stessa cosa con il cous cous. Dopo la tostatura sarà molto scuro e croccante. Ma basterà fargli assorbire acqua per renderlo nuovamente commestibile ma con queste sfumature di sapore e colore assolutamente deliziose. Una volta tostato lo idratiamo con acqua bollente, come si fa di solito. Una parte di acqua bollente per una parte di cous cous. Lo si lascia coperto per dieci minuti e l’acqua verrà completamente assorbita. Anche se l’amido è retrogradato a causa della tostatura, in men che non si dica, grazie all’acqua bollente, tornerà a gelatinizzare idratando e cuocendo la semola. Sgranatela bene e lasciatela da parte. Che sia ben sgranato, mi raccomando. Adesso tocca ai pomodori. Privateli dei semi, tagliate in quarti e ricavate una concassé. Facile facile. Mettete da parte. Se ne avete e vi piacciono e sono in stagione, fate anche una concassé di cetriolo. Passiamo al cipollotto. Di norma andrebbe tagliato crudo. Va bene anche una cipolla rossa o comunque che non sia troppo carica di vapori sulfurei. Se avete particolari criticità nella digestione della cipolla potete usare il solito modo per eliminare gli enzimi responsabili.

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Dopo la tostatura il cous cous avrà una dominante più dolciastra e il tipico sentore di crosta di pane appena sfornato.

Se il vostro cous cous è precotto (e di base lo sono tutti) ha subito (aiutato anche dalla tostatura) quella che si chiama retrogradazione. La retrogradazione non è altro che una parziale ricristallizazione degli amidi gelificati. Non tornano allo stato iniziale ma quasi.

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E cioè?

Lì si può certamente procedere per gusto.

Prendete le cipolle così come sono, senza nemmeno pelarle, sistematele su una teglia rivestita di carta forno e mettetele in forno a 230°C fino quando non arrivano a 65°C interni. Per misurare la temperatura, utilizzate una cipolla “spia”, che infilzerete con la sonda e scarterete una volta pronta.

Se ai vostri ospiti non piace il cipollotto potreste virare sull’erba cipollina e metterne una bella manciata. Insomma, l’aroma di cipolla è caratterizzante del Tabbouleh.

Adesso possiamo pensare al prezzemolo. Non si butta nulla. Si usano sia i gambi che le foglie. Separate i gambi e tritateli molto, molto, molto finemente. Per le foglie potete usare un trito un po’ più grossolano. Considerate che il modo migliore di mangiare il piatto finito è con il cucchiaio, quindi fate in modo da non avere pezzi troppo grandi da masticare. La menta è imprescindibile. Per dare freschezza e per dare la tipica aromaticità alla ricetta. Usatene una bella manciata, non lesinate. Ci sta benissimo. Tritatela finemente in modo che possa nascondersi e amalgamarsi bene insieme alle foglie.

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Darvi delle dosi precise sarebbe complicato. Il mio consiglio è di trovare il vostro equilibrio. Ma per indicarvi la strada giusta vi illustrerò le giuste proporzioni di base. Per ogni “tazza” di prezzemolo, immaginate orientativamente 250ml in volume, dovreste usare un cucchiaio di cous cous, uno di menta, uno e mezzo di limone e due cucchiai di olio.

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Quella è la partenza. Poi aggiungete uno o due pomodori a seconda della dimensione. Uno o due cipollotti a seconda di quanto ti piace sentirlo. Un quarto di cetriolo? Mezzo? Non è fondamentale.

Il Kick finale è il dressing ma ricordate che è un plus. Il tabbouleh va comunque condito con olio e succo di limone, a prescindere se poi si usi il dressing oppure no. È il voler risentire quell’aroma un po’ scarico di aglio che il toum mi lasciava in bocca nei miei soggiorni libanesi. Si procede quindi al cuocere una testa d’aglio in forno a 100°C/130°C. Sappiamo perché intera, lo abbiamo detto moltissime volte. Negli spicchi d’aglio si trova l’allina (S-allil-cisteina-solfossido) che è una sostanza inattiva e inodore che vene convertita nell’allicina (estere allilico dell’acido alliltiosolfonico) dall’enzima alliinasi, che viene liberato per rottura dei vacuoli che lo contengono quando si frantumano o si tritano gli spicchi d’aglio. Cuocendoli senza toccarli sappiamo che l’allina si disattiva e quindi non può più trasformarsi in allicina. Quindi non ha quel tipico sapore pungente ed è più digeribile. A questo punto liberiamo gli spicchi dalla buccia, mettiamo nel mixer e mettiamo tanto olio quanto aglio e succo di limone pari alla metà della quantità di olio. Una manciata di sale e pepe ed emulsioniamo il tutto fino ad ottenere una consistenza cremosa. Il risultato dev’essere una salsa abbastanza liquida. Nel caso non lo fosse potete allungare con un po’ d’acqua o di yogurt intero.


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PER IL SERVIZIO

Non mischiate tutto subito. Condite prima il cous cous, ben sgranato, con l’olio. Assaggiate e regolate di sale. Condite poi il prezzemolo con l’olio e il limone assieme a tutte le verdure, tranne il cous cous. Regolate di sale e pepe anche qui. A questo punto potete aggiungere il cous cous condito. Mescolate molto bene perché tende a depositarsi sul fondo. Assaporate il Tabuleh e sorridete alla vita. Ma prima controllate di non avere del prezzemolo tra i denti.

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Gianfranco Lo Cascio

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Too good is to be Gamma, to be Gamma is to be good!

Seguo

a cura di Emiliano Nencioni

“Un tempo eravamo eroi su bicilindrici aste e bilancieri, adesso questi vogliono il monopattino elettrico!” “ Cottura in sous vide? La fai perché piace al tuo fidanzatino?” “Eh cari sodàli, l’imbarbarimento dei costumi! Cose che non collimano con le abitudini di noi maschi alfa! I maschi alfa sui social network, una categoria completamente autoreferenziale di cui si può comodamente entrare a far parte con il solo sforzo di scrivere “maschi alfa come me” o “noi maschi alfa” commentando un’altra persona in odore di alfosità. Categoria a cui suppongo si potrà appartenere a vita, visto che non si è mai visto nessuno ritirare un tesserino da alpha male, e nessuno si è mai preso la briga di considerare se azioni, propositi, atteggiamenti fossero effettivamente omologabili e afferibili a questa élite di virile socialità.

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Ce ne fosse mai uno onestamente fiero e soddisfatto di appartenere all’invidiabile classe beta, o a proprio agio nel dichiararsi un rispettabile gamma.

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E, sì, lo ammetto subito, questa è una di quelle rubriche Seguo consistenti in un monolitico grido di esasperazione contro un’usanza online, con annesso parallelismo letterario.

Mi risulta impossibile infatti leggere di individui alfa senza pensare agli avvenimenti narrati in Brave New World di Aldous Huxley, romanzo decisamente poco noto qui da noi, non fosse per qualche illuminato insegnante d’inglese che lo fa leggere (obbligatoriamente, e quindi sciupando ogni gusto personale) in qualche liceo. Brave New World fa parte del filone dei romanzi distopici, come 1984 di Orwell o Fahrenheit 451 di Bradbury, e narra di un mondo futuro che, a prima vista, non è poi così male. Huxley doveva essere rimasto colpito dall’efficienza e dalla spersonalizzazione della produzione in serie, tanto da far cominciare il conteggio degli anni del suo mondo nuovo dal 1908, anno della messa in produzione della Ford T, prima auto realizzata in catena di montaggio, dividendo la storia dell’umanità in un'epoca pre-Ford ed in un'epoca Post-Ford. Il concetto di produzione in serie e catena di montaggio si espande a tan-


Ruben Cukier - Caste (2019)

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tissimi aspetti della vita biologica e sociale, fino a diventare elemento cardine dell’umanità: la stessa riproduzione umana diventa un processo industrializzato, con l’abolizione degli affetti e il passaggio alle gravidanze extrauterine, con lo sviluppo di feti in catena di montaggio, e controllando meccanicamente, già durante lo sviluppo dell’embrione, la divisione in caste della società. Tramite somministrazione o carenza di ossigeno infatti è già nelle incubatrici che si decide il ruolo del mondo del “lotto” di nuovi virgulti (non si parla mai di genetica: per forza, il DNA fece capolino solo venti anni più tardi). Gli Alfa, intellettuali, scienziati e governanti, saranno la casta al comando, individui belli, intelligenti, privi di difetti fisici, destinati a detenere il potere in ogni ambito. I Beta, tecnici, amministrativi, funzionari, esteticamente sempre gradevoli e un po’ frivoli, sono l’emanazione operativa degli Alfa, e da questi ultimi sempre bonariamente apprezzati. I Gamma, tarchiati, rubizzi, ingenui, sono gli operai, commercianti, lavoratori in genere, e costituiscono la massa produttiva della società. Non esattamente degli Adoni e sicuramente snobbati dalle classi più alte, compensano con una perenne allegria positiva.

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I Delta, magrolini, un po’ gobbi, apatici e idioti, sono la manovalanza spicciola, detestano tutto quello che non è Delta e trovano appagamento solo nel loro lavoro.

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Gli Epsilon, subumani irrimediabilmente deformi,

hanno subito la sorte peggiore durante l’incubazione: sono capaci solo di eseguire compiti basilari, non hanno un proprio pensiero ed esistono solo per effettuare compiti che risulterebbero intollerabili agli altri. Il motto mondiale di “Comunità, Identità, Stabilità” viene perseguito attraverso l’eliminazione della tristezza, delle guerre, dell’infelicità sociale: ogni momento di tristezza viene sistematicamente abbattuto con l’assunzione di una specie di “droga di stato”, il soma, una sorta di antidolorifico, antidepressivo altamente energizzante, talmente osannato e venerato da diventare quasi un “culto del prodotto”. Interessante notare come da “religione, oppio dei popoli” qui si sia astutamente ribaltata la situazione con “oppio, religione dei popoli”; bravo Huxley, un easter egg che non avevo notato al liceo. Insomma, come accennavo all’inizio dell’articolo, questo mondo distopico pare un po’ meno terribile degli altri grandi classici: nessun fratello maggiore che ti osserva sempre, nessuna fire brigade che ti appicca fuoco alla casa con la nonna dentro, solo promiscuità, felicità, appagamento sociale, pace perenne. Ma, figuriamoci, c’è un piccolo prezzo da pagare. Tanto per cominciare, i libri e la cultura sono tassativamente vietati, banditi, inesistenti. É un po’ buffo notare come tutti questi scrittori di metà ‘900, dovendo pensare alla privazione principale, più severa, più lancinante, abbiano tutti pensato al “togliere i libri”. Un po’ l’eco del nazismo, sicuramente, un po’ anche il pensiero “e io poi come campo, che scrivere è il mio mestiere?”.


Non solo: in Brave New World sono banditi anche gli affetti, l’idea di famiglia, la filosofia, l’arte e il pensiero critico. La felicità è obbligatoria, così come è tabù la monogamia. Il piccolo me sedicenne in quarta liceo si prese un brutto voto ad un compito in inglese che prendeva in esame proprio Brave New World. L’inglese era perfetto, ma al contrario di quanto l’insegnante si aspettasse scrissi con convinzione che forse sì, rinunciare all’arte e alla filosofia, dividersi in caste e rinunciare all’amore angelicato poteva essere un prezzo equo da pagare per una garanzia di felicità a vita, assenza di guerre, appagamento totale e in definitiva per la totale mancanza di rogne e ansie. In maniera molto superficiale e poco “da bimbo bravo” avevo completamente mandato a spigare la filosofia in favore di una allegra promiscuità, e avrei scelto ad occhi chiusi la felicità obbligatoria piuttosto che il concetto di famiglia o di memoria storica. Con un poco opportuno gesto teatrale chiusi l’elaborato con il motto della classe Gamma, che aveva completamente rapito la mia fantasia di adolescente incasinato: Too good is to be Gamma, to be Gamma is to be good! (si traduce, rovinandolo, pressappoco con “Troppo bello essere Gamma, essere Gamma è essere ganzi!”). Gamma, la terza classe: magari non proprio il primo della lista, ma neanche l’ultimo degli Epsilon (quasi cit). Perché avere le responsabilità e le noie di un Alfa, o i compiti sensibili di un Beta, con tutta la consapevolezza di essere dei “capi” con una massa da guidare, quando puoi essere un Gamma, non fare niente di che, ricevere il tuo condizionamento ipnopedico ed essere graniticamente convinto di vivere la migliore delle vite possibili? Quei Gamma sempre gentili, ironici, strafelici di non avere le gatte da pelare delle caste superiori, con mai un pensiero, mai un dramma, mai una giornata storta.

Invece qui, oggi, sui social, ma anche fuori dai social, vogliono tutti essere Alfa. Gente che, a parer mio, poi tanto alfa non è, anzi: ricordano più i Delta quando si incattiviscono con le caste superiori. Non sono neanche sedicenni alle superiori che rispondono alle loro immediate esigenze con una fantasia su un romanzo distopico, svaccano il compito di proposito e si pigliano un quattro e mezzo, solo per palesare il proprio malessere. Sono tutti ben adulti, quasi vecchiotti. Magari, forse, dico forse, c’è dietro una mamma che ha affermato per anni “sei bello sei bravo tu sì che puoi fare tutto quello che vorrai”, e allora li vedi tutti convinti di far parte di una casta superiore, per poi coniugare i verbi con procedure non deterministiche - anzi direi altamente stocastiche. Vogliono essere Alfa, ma non tanto per il prestigio: è più una cosa virile, pseudo-sessuale, c’entra più l’arroganza, una strana voglia di allontanarsi dalla sensibilità, dalla delicatezza e dalla sincerità. Viene premiato l’insulto, l’ostentazione (di cosa?), la costruzione di una stage persona piena di autocompiacimento. La giustificazione sta nel branco. Fanno gruppo, e si giustificano l’un l’altro l’attribuzione dell’etichetta Alfa: più che una casta, un organismo-alveare, una coscienza collettiva autoalimentata e autoverificata, potente in massa e insignificante nei termini del singolo individuo. Se fossi un influencer e avessi il terribile dono di saper spingere gli altri a fare quello che dico, sicuramente - dopo aver già chiesto a tutti di scrivere “Smetti.” sotto ai commenti fuori luogo, fastidiosi o imbarazzanti - suggerirei di aggiungere, sotto a quei capolavori di cringe (“doloroso disagio”) che sono i discorsi “ah noi maschi alfa”, un bello slogan “too good is to be gamma, to be gamma is to be good”. Bello poi stare lì a godersi la scena di loro che non capiscono, chiedono, si inalberano, googolano. Sorpresa: Google, vai a capire perchè, non restituirà risultati per quella frase. Provate.

Emiliano Nencioni

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Alle accuse di essere superficiale risposi che la mia riflessione era comunque più interessante del resto delle opinioni bovine e preconfezionate della classe, riuscendo solo a peggiorare

la faccenda.

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H T T PS : / / C LU B M E G ASTO R E . B BQ 4 A L L. I T e c h i e di i n formazi oni pi ù detta gli at e, pr i ma c h e i coac h fi ni sca no e le i scri zi oni chi uda no.


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