N°32/ANNO 3 - AGOSTO 2021
L'EDITORIALE DI GIANFRANCO LO CASCIO
Assaggiare la carne: ultima parte
La situazione si fa piccante
Jambalaya, Spaghetti con drogarossa e 'nduja, Zuppa piccante Thai, Chili con carne, Salmone con zenzero, peperoncino e limone, Calamari ripieni al sugo piccante, Taquitos di pulled pork, Bacon pepper twist, Batate piccanti ARTE BIANCA
Sicilian Pepperoni Pizza IL QUINTO QUARTO
Fegato e rognone INFOGRAFICA
I tagli giapponesi del manzo LA RICETTA SCIENTIFICA
Spaghetti all'assassina
Direttore Editoriale Rossella Neiadin
Redattore Capo Michela Bongiorni
Redazione
Enio Berton Virgilio Brunetti Tommaso Buccafurri Nunzia Clemente Roberto Dal Bosco Salvatore Di Mento Luca Gallozza Marco Gerometta Mariangela Ibba Gianfranco Lo Cascio Riccardo Meniconi Giovanni Minelli Emiliano Nencioni Elena Ninotti Andrea Spaggiari Alessandro Trezzi Carlo Trono Paolo Tucci Alex Vasile Caterina Vianello Alberto Zonghetti
Realizzazione Grafica
Impaginazione Carlo Trono Illustrazioni di Eleonora Castagna e Ozzy Bellesi Fotografie di Rossella Neiadin, Luca Gallozza, Tommaso Buccafurri, Elisa Giuli, Emiliano Nencioni
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IN DI Rubriche
Editoriale - Assaggiare la carne: una guida completa - ultima parte
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Anteprima - Grill & Smoke To Perfection Masterclass
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#chiedialcoach - Intervista a Daniele Faresin
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Ricette
Jambalaya 30 Spaghetti 'nduja, drogarossa e ricotta salata
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Tom Kha Gai - zuppa thai di pollo e latte di cocco
36
Chili con carne
39
Filetti di salmone con zenzero, peperoncino e limone
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Calamari ripieni con sugo piccante ai pomodori secchi e scamorza
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Taquito ripieno di pulled pork
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Bacon Pepper Twist
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Patate americane piccanti
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Budino al latte con pesche e mandorle 54
Approfondimenti
Portfolio gastronomico/01 - Le salse piccanti
58
Portfolio gastronomico/02 - La cunserva mara e Frate Focu
64
Arte Bianca - Sicilian Pepperoni Pizza
66
Across the pond/01 - We are going to the restaurant!
72
Across the pond/02- Filetti di pesce blackened
76
Il Quinto Quarto - Fegato e rognone
78
Infografica - I tagli di carne giapponesi
84
From Zero to Hero - La cottura indiretta sul kettle
85
La Ricetta Scientifica - Spaghetti all'assassina
90
Seguo - Non far caso al disordine
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Editoriale di Gianfranco Lo Cascio
Assaggiare la carne: una guida completa ULTIMA PARTE
Il codice tattile e gustativo della carne “Non c’è uomo che non possa bere o mangiare, ma sono in pochi in grado di capire che cosa abbia sapore”.
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Confucio
o so che le caratteristiche che ci dividono dai primati sono altre, ma io faccio veramente fatica a considerare Homo Sapiens chi non conosce l’alfabeto del sapore. Quando diventerò una personaggio di spicco proporrò l’introduzione scolastica di un patentino del gusto, perché imparare il linguaggio dei sapori è importante quanto leggere o scrivere. Non siete d’accordo?
distinte: da una parte, registra percezioni di tipo fisico (volume, viscosità, forma ecc.) e dall’altra di tipo chimico. Queste ultime, a livello didattico si classificano in: astringente (tipiche del caco acerbo), pungente (aceto), piccante (peperoncino), metallico (cucchiaio sulla lingua) e pseudo-calore (freddo come la menta, caldo come l’alcol).
Ebbene, proprio per rimarcare il ruolo insindacabile del cibo e della degustazione, terminiamo il nostro percorso sull’assaggio della carne.
Il gusto è l’organo di senso che definisce la qualità di molecole disperse in un liquido in base al sapore, e ha sede nel cavo orale. La lingua è la casa delle papille gustative. Ogni papilla contiene uno o più bottoni gustativi (o gemme gustative) composte da cellule che terminano con microvilli sensibili alle sostanze dotate di sapore. Quando una di queste sostanze raggiunge un microvillo si origina un segnale elettrico che attraverso il nervo gustativo raggiunge il cervello dove viene elaborato.
Il SISTEMA SOMESTESICO
Il sistema somestesico è così chiamato perché riguarda la sensibilità del corpo e più precisamente: • sensibilità tattile; • sensibilità termica; • sensibilità dolorifica; • sensibilità profonda (propiocettiva); • sensibilità viscerale.
La sensibilità tattile assume due connotazioni
IL CODICE TATTILE E GUSTATIVO DELLA CARNE Nell’analisi sensoriale le percezioni tattili e gustative vengono valutate insieme, perché si alternano formando l’insieme delle percezioni ottenute in bocca durante la masticazione, escludendo la parte aromatica di cui abbiamo parlato nel Magazine di Luglio 2021. Passiamo ora alla rassegna di tutti i parametri delle percezioni tattili e dei sapori associabili alla carne cruda e cotta.
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Gli stimoli vengono trasdotti (cioè trasmessi e trasformati) da diversi tipi di sensori e, attraverso le terminazioni nervose, giungono al cervello raggiungendo prima il talamo e poi la corteccia cerebrale. Lì, le regioni corticali differenti elaborano contemporaneamente i diversi aspetti dell’esperienza, per darle un significato più completo possibile.
IL GUSTO
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TENEREZZA
GRASSO
Definizione Misura il grado di morbidezza della carne durante la masticazione, valutando lo sforzo compiuto dagli incisivi per affondare in un boccone la carne in analisi: sulla base di questo primo morso, tanto minore sarà lo sforzo, tanto maggiore sarà la tenerezza.
Definizione Percezione tattile di untuosità percepita immediatamente dopo la deglutizione e data dalla patina lasciata in bocca dagli acidi grassi
(tattile)
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Correlazione di filiera La struttura della carne e quindi la sua morbidezza è influenzata da tutta la filiera: partendo dalle caratteristiche morfo-funzionali dell’animale, per arrivare al sistema di allevamento e di alimentazione e le tecniche di macellazione, di lavorazione e di sezionamento, la frollatura, la durata e la temperatura di conservazione e infine le modalità di trasformazione e di cottura.
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Composti responsabili Sono quelli che compongono la struttura del tessuto muscolare e definiscono la qualità del tessuto connettivo. Sono di fondamentale importanza la costituzione dei corpi muscolari, i rapporti e lo stato biochimico delle proteine muscolari (sarcoplasmatiche, connettivali, miofibrillari) e il loro grado di contrazione. Anche l’età dell’animale influenza la struttura e la tenerezza delle carni: con l’invecchiamento diminuisce il collagene solubile in soluzioni saline neutre o acide, mentre aumentano i legami intramuscolari e intermuscolari tra le catene polipeptidiche (legami peptidici tra amminoacidi). Dato che questi legami diventano più resistenti al calore, sono meno sensibili all’azione enzimatica, quindi alla frollatura.
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SAPIDITÀ (gustativa)
Definizione Intensità del sapore sapido o umami, tipico del glutammato di sodio. Correlazione di filiera Razza, alimentazione, frollatura, tecnica di cottura. Composti responsabili Intensità di sapore significa, come detto, presenza dei sali sodici dell’acido glutammico o glutammato. Il glutammato si forma naturalmente in risposta al lavoro di trasformazione delle proteine a carico degli enzimi, come nella frollatura.
SUCCOSITÀ (tattile)
Definizione Quantità di liquido presente nella carne percepita durante la masticazione. Correlazione di filiera Tipologia di taglio, frollatura, conservazione, additivi e tecniche di cottura. Composti responsabili Umidità e liquidi presenti nella carne, additivi tecnologici eventualmente utilizzati e tecniche di cottura.
Correlazione di filiera La presenza del grasso è legata agli aspetti genetici di predisposizione della razza, ma anche alle tecniche di allevamento e alimentazione. Composti responsabili Acidi grassi e trigliceridi di deposito nella carne.
FIBROSITÀ (tattile)
Definizione Sensazione meccanica percepita durante la masticazione che rivela la presenza di parti coriacee difficili da ciancicare. Quando la carne è molto fibrosa, la masticazione si allunga per permettere di deglutire il residuo elastico finale; la fibrosità minima si ha per quelle carni che “si sciolgono in bocca”. Avete presente mia selezione presente sul Megastore? Correlazione di filiera La fibrosità delle carni è legata alla tipologia di taglio, oltre che alla genetica, all’allevamento e all’alimentazione, ma anche alle fasi di frollatura e lavorazione delle carni. Composti responsabili Tendini e parti connettive coriacee.
AMARO (gustativo)
Definizione Intensità del sapore amaro nella carne dopo circa qualche secondo dall’inizio della masticazione. Correlazione di filiera La formazione di composti con percezione amara è legata principalmente alla fase di cottura, ma anche frollature spinte con eccessiva proteolisi possono portare alla formazione di composti amari. Composti responsabili Prodotti della reazione di Maillard e amminoacidi.
PIACEVOLEZZA (tattile/gustativo)
Definizione Valutazione soggettiva della carne in relazione all’equilibrio delle percezioni tattili e gustative. Correlazione di filiera Tutte le fasi della filiera fino alla cottura conferiscono caratteristiche gustative e tattili determinanti per la piacevolezza. Composti responsabili Tutti i componenti percepiti a livello tattile e gustativo.
Vi è piaciuta questa serie di appuntamenti sulla degustazione della carne? State tranquilli, perché il mese prossimo ci sarà un nuovo capitolo che riguarderà la ciccia e le sue trasformazioni. Buona lettura! BBQ4All Magazine
Gianfranco Lo Cascio
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GRILL & SMOKE
TO PERFECTION
MASTERCLASS IL FUTURO È QUI!
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Anteprima a cura di Michela Bongiorni
li italiani, si sa, sono un popolo di santi, poeti e navigatori; secondo molti, tuttavia, accanto a queste caratteristiche ne mancano altre, decisamente fondamentali. Ve ne sarete accorti anche voi, leggendo i social, che l’italiano medio ha una preparazione da tuttologo e all’occorrenza diventa esperto in qualsiasi argomento: da CT della Nazionale a virologo, da schermidore a veterinario, da esperto di linguistica ad astronauta. Non fa eccezione il mondo del bbq.
L’italiano è convinto di saper grigliare, e di saperlo fare meglio di chiunque altro al mondo, perché si fregia di far parte della cultura gastronomica migliore del pianeta: la cucina italiana non ha eguali! Nessuno sul pianeta Terra mangia bene come nel Bel Paese!... e via discorrendo.
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Forte di questa convinzione, che spesso sconfina nel campanilismo regionale (la cucina siciliana è migliore, il pesto alla genovese è la cosa più buona che esista, il ragù alla bolognese è il cibo degli dei!) e familiare (mia nonna era la più brava a fare le lasagne, le polpette di mia mamma non sono eguagliabili!) l’italiano medio è convinto di non dover prendere lezioni sulla cucina da chicchessia; nemmeno da chef famosi e universalmente riconosciuti come i migliori del globo terracqueo, che invero infama ad ogni buona occasione, scagliandosi contro l’innovazione a difesa della tradizione della cucina italiana. Che, forse non l’abbiamo ancora detto, è la migliore del mondo e non ha bisogno di essere perfezionata!
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I CORSI
Tutti voi, che fate parte della nostra Community di illuminati, sapete bene quale sia la verità. Sull’onda delle convinzione di saper grigliare meglio di chiunque, gli italiani sono stati capaci di presentare sulle loro tavole preparazioni orrorifiche per anni e anni: rosticciane bruciate, polli secchi, bistecche immasticabili. E mi fermo qui, perché la lista sarebbe lunga.
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In questo clima non proprio rilassante, per niente accogliente e pieno di pericoli come l’Arena degli Hunger Games, Gianfranco Lo Cascio - ormai diversi anni fa - ha deciso che doveva dire basta e che doveva insegnare agli italiani cosa voglia dire fare grilling e fare bbq come si deve.
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Il resto è storia nota: dopo la nascita di BBQ4All, prima come forum, poi come community Facebook - che è ad oggi la più grande community italiana dedicata a questo mondo - sono arrivate le pubblicazioni (i libri, il Magazine), la divulgazione costante e quotidiana, la lotta per conquistare credibilità,
per abbattere le convinzioni ormai radicate e dure a morire, per convincere le persone che non c’è nulla di male ad ammettere che, pur vivendo all’interno di una cultura gastronomica eccezionale, non si può essere esperti in tutto e magari in altri Paesi mangiano carne alla griglia migliore della nostra. Sull’onda di questa neonata consapevolezza sono nati poi slogan destinati a diventare dei tormentoni: da è cotto quando è cotto per finire a se lo puoi cuocere, lo puoi grigliare. Tuttavia, questo percorso faticoso e difficoltoso per portare i grigliatori italiani verso una nuova visione della cottura alla brace sarebbe stato vano se accanto a tutta la teoria non fossero stati affiancati i corsi in presenza. Per questo motivo, è nata la BBQ4All University, che ha cominciato ad organizzare corsi in tutta Italia: lo sapete bene, perché molti di voi hanno partecipato a questi eventi che negli anni sono cambiati e si sono perfezionati.
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LA MASTERCLASS
Dopo un po’ di tempo, però, ci siamo accorti che non riuscivamo a sopperire a tutte le richieste che crescevano in modo esponenziale: i nostri coach correvano su e giù per l’intera penisola, sacrificando ogni week end con la famiglia, per andare a insegnare di persona a orde di griller che avevano scelto di svegliarsi dal torpore e di ingerire la pillola rossa, ma non bastava mai. Ad ogni corso finito c’erano sempre più persone che ne chiedevano un altro. Era perfino nato il tormentone in Sardegna quando?, in Molise quando?... e via dicendo.
ed ha cominciato a sostituirlo con quello percorso: ovvero accompagnare le persone per mano in un mondo fantastico per far vivere loro un'esperienza a tutto tondo e totalizzante. Questa è stata l’idea di base per cui è nato il progetto Grill & Smoke to Perfection - Masterclass.
L’idea di lanciare un video corso, dunque, è nata proprio per sopperire a questa richiesta sempre più pressante, ed è nata ben prima della pandemia che ha stravolto tutte le nostre abitudini.
Certo, è molto facile dire facciamo un video corso, realizzarlo sul serio è tutt’altra faccenda. O meglio, mi correggo: realizzarlo bene è tutta un’altra faccenda. Sarebbe superfluo specificarlo, ma voglio farlo lo stesso: noi volevamo farlo… proprio to perfection! Volevamo lanciare un prodotto che facesse storia, esattamente come è successo per tutto quello che abbiamo fatto negli anni, Magazine compreso.
Inoltre, in tutti questi anni di conduzione della più frequentata scuola di Grilling & Barbecue, Gianfranco Lo Cascio ha capito che frequentare un singolo corso non è sufficiente a trasferire il mare di informazioni necessarie a trasformare il griller della domenica in un vero ninja delle griglie.
Probabilmente, se ci fossimo accontentati dell’accettabile, la Masterclass sarebbe uscita già da qualche anno. Ma Gianfranco Lo Cascio non è un tipo che si accontenta. Voleva l’eccezionale, l’inarrivabile. Ed ecco spiegato il motivo per cui ci abbiamo messo un po’ di tempo.
Da quel momento ha superato il concetto di corso
Ma credeteci, è valsa la pena attendere.
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PARTIRE DA ZERO
La pandemia, ovviamente, ci ha dato la spinta finale: dovendo sospendere del tutto i corsi in presenza, ci siamo resi conto che non potevamo lasciare i nostri corsisti, (passati e futuri) senza una didattica. Giunti a quel punto, la decisione è stata presa: il 2021 sarebbe stato l'anno della svolta. Per riuscire a consegnarvi questo prodotto eccezionale, siamo partiti letteralmente da zero. Intendiamo dire che non abbiamo cercato una location adatta: l’abbiamo letteralmente costruita esattamente come la immaginavamo. Grazie al supporto di ingegneri, architetti e tutte le maestranze migliori per costruire la nostra location perfetta, Gianfranco Lo Cascio - aiutato dal Direttore della BBQ4All University, Daniele Faresin - ha prima ideato e poi reso realtà il Paradiso del BBQ: il posto in cui ogni griller vorrebbe svegliarsi dopo la morte. Stiamo parlando di 84 mq di area bbq, più una cucina esterna completa di tutto, immersi in un contesto da sogno: due piscine, due vasche idromassaggio, un complesso residenziale che prevede appartamenti con ingresso indipendente e una villa padronale. Insomma, come spesso ci è piaciuto definirlo, questo posto è una specie di Disneyland degli appassionati di cottura su fuoco.
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Una volta costruita la location, ovvero la sede della nuova scuola di cucina GLC Academy, eravamo solo all’inizio: un conto è decidere di girare una serie di video, un altro è trovare qualcuno che abbia l’attrezzatura adatta e che lo sappia fare bene. Il rischio di trovarsi tra le mani un prodotto triste, imbarazzante e brutto da vedere è altissimo.
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Dopo tante ricerche, abbiamo scoperto i ragazzi di Ownidea Studio: un’azienda di videomaking decisamente all'avanguardia, nella quale lavorano dei ragazzi preparatissimi e con una esperienza mostruosa alle spalle, nonostante la giovanissima età.
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UN PROGETTO GRANDIOSO Scelti i nostri "compagni di viaggio", eravamo ancora a metà strada: avevamo fondato la GLC Academy, costruito la sede, scelto chi ci avrebbe aiutato a rendere il materiale video unico. Dovevamo scrivere la sceneggiatura, immaginarci le inquadrature; e poi pensare ai tempi di registrazione, alle luci, alle riprese minuto per minuto, agli ingredienti, agli attrezzi, al set.
Niente doveva essere lasciato al caso: a partire dai dispositivi più ingombranti, fino ad arrivare all’ultimo granello di pepe, abbiamo studiato tutto nei minimi dettagli, lo abbiamo messo nero su bianco, lo abbiamo prima visualizzato nelle nostre menti e poi lo abbiamo reso realtà.
Il risultato di tutto ciò, lo potrete vedere presto. Siamo sicuri che riuscirete a capire tutto lo sforzo, tutto l'impegno contenuto in questo lavoro mastodontico. Probabilmente solo in quel momento riuscirete anche a comprendere la differenza che intercorre tra semplice e facile: il corso sarà fluente, sarà semplice da comprendere, sarà chiaro per tutti, anche e sopratutto per chi comincia da zero. Ma credetemi, niente di ciò che vedrete è stato facile. Lo sforzo, l’impegno, la serietà, la professionalità servono proprio a questo: a rendere fruibile e leggero un prodotto in realtà molto complicato da realizzare. Senza dimenticare l’entusiasmo; e noi, dopo tutti questi anni, ne abbiamo ancora tanto. E siamo solo all’inizio, la rivoluzione è appena cominciata.
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Il mese di Luglio 2021 rimarrà nella storia di BBQ4All: 20 giorni di totale full immersion, di nottate passate a registrare, di ciack si gira, di trucco e parrucco, di riprese spettacolari, di ribs mangiate all’alba, di salse piccanti al posto del caffè.
Sarebbe impossibile riassumere in poche righe le tre settimane in assoluto più faticose ma insieme più soddisfacenti che abbiamo mai vissuto.
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Intervista a cura di Michela Bongiorni
#CHIEDIALCOACH: L'INTERVISTA
DANIELE FARESIN
sono i dettagli a fare la differenza
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n azienda lo chiamiamo simpaticamente “lo svizzero” e già da questo dovreste capire molto del suo carattere: preciso, sempre puntuale, non si lascia andare alle emozioni, dimostra sempre molta competenze e sicurezza. Sto parlando di Daniele Faresin, vicentino, classe 1979, già Direttore della BBQ4All University e attualmente Rettore della neonata GLC Academy: colui tra i Coach che ha all’attivo in assoluto più corsi tenuti in giro per l’Italia. Per molti di voi è una figura quasi mitologica e un po’ sfuggente (non ama i riflettori), per cui ho pensato che sarebbe stata un’ottima idea intervistarlo per farvelo conoscere meglio. D’altronde, è anche uno dei maggiori ideatori ed esecutori del grandioso e innovativo progetto Grill & Smoke To Perfection - Masterclass , che vi ho presentato nelle pagine precedenti. Dopo qualche insistenza, sono riuscita a farlo stare seduto per almeno mezz’ora durante le riprese dei video corsi e l’ho costretto a rispondere a qualche domanda. Ecco cosa ne è uscito.
Come hai iniziato il tuo percorso e cosa ti ha spinto a interessarti all’argomento?
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Passione. Spesso le passioni ti prendono dopo un'esperienza entusiasmante, in modo chiaro, dove ti dici fin dai primi momenti che quelle sensazioni devono far parte della tua vita in maniera costante. Altre volte invece dopo delle esperienze, più o meno intense, vissute anche con un leggero distacco e senza essere "folgorati" ti entrano dentro come un tarlo, piccolo ma che lavora piano piano cercando e costruendo una sua locazione. Nella tua testa e nel tuo cuore.
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Passa del tempo. A volte trascorrono anni, ma poi quel qualcosa, difficile da spiegare, che ti ha colpito che ti ha emozionato inconsciamente rispunta fuori facendoti sentire l'esigenza di riprendere un discorso lasciato in sospeso, una passione che era rimasta sopita e che si riaccende d’improvviso. In questo caso diventa una smania, che non ti fa dormire la notte,
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che ti fa pensare e sognare a come sviluppare, progredire, migliorare. Nel mio caso, quando da ragazzino vedevo mio padre armeggiare con le "griglie-sgabello"con un suo stile, basato solo su alcuni consigli appresi qua e là, riuscendo comunque ad ottenere risultati soddisfacenti, io ero contento e mi piaceva l'esperienza del "combattere" col fuoco cercando di non bruciare quello che era sulla griglia. Ma, essendo esp erienze sporadiche relegate più che altro al periodo estivo, poi me ne dimenticavo. Molti anni dopo, quando ormai ero adulto e avevo la mia famiglia, ho iniziato a sentire il bisogno di riprendere un "discorso" mai chiuso, lasciato temporaneamente in un angolo. Volevo avere una mia griglia e rivivere quelle esperienze in prima persona. Ovviamente sono partito da zero con una "griglia-sgabello" che mio padre mi regalò dopo una conversazione nella quale esponevo il desiderio di grigliare come faceva lui.
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Un paio di cotture ed il fuoco invece di crescere sulla griglia iniziò a crescere dentro di me facendomi capire che non era abbastanza ciò che stavo portando avanti. La griglia che avevo era limitante e le informazioni che avevo erano scarse. Così iniziai a girare fra i negozi e dopo aver adocchiato i primi kettle (primi per me ovviamente) ne presi uno, perché mi sembravano degli strumenti più performanti. Stiamo parlando comunque di un periodo abbastanza acerbo per il grilling italiano, il 2008.
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Bene, con il nuovo grill iniziai a cimentarmi nei classici che conoscevo trovando dei miglioramenti nei risultati ma rimanendo sempre con quel senso di blocco. Capii il problema, il blocco era solo mio: necessitavo di maggiori informazioni e di basi sulla cottura e sulla cucina. Mi buttai su internet cercando varie informazioni capitando in qualche forum che trattava la cottura
alla brace. Uno di questi era proprio BBQ4All con i suoi condottieri, in primis Gianfranco Lo Cascio.
E cosa successe? Iniziai a leggere, a studiare, a provare e riprovare, a chiedere e a condividere. Avevo trovato la via per sviluppare quella passione che in quel momento mi aveva letteralmente folgorato. Loro erano il gruppo giusto. Lui era il Bianconiglio da seguire. Capii subito il potenziale e notai il modo libero, aperto, di condividere le informazioni. Qualità che apprezzai molto e che raccolsi. E che porto con me ancora oggi. Mi feci coinvolgere a tal punto che mi misi a sperimentare di tutto e a condividere nel forum dell’epoca fino a quando loro non fecero il passo successivo, quello di comunicare con il mondo in maniera più diretta, di persona, organizzando eventi, partecipando a manifestazioni e creando il primo corso teorico-pratico serio sull'argomento. Non ci pensai 2 volte e appena venne pubblicizzato il corso mi iscrissi, sparandomi 700 km a sessione fino a Torino per poterli incontrare e apprendere tutto quel che si poteva. Grande esperienza il corso che mi fece capire cosa
significasse il nome che veniva portato avanti con orgoglio, BBQ4All.
E poi? Da lì in avanti seguii con grande attenzione tutte le nuove attività del gruppo, iniziai a leggere e mettere in pratica tutte le nuove informazioni che Gianfranco e i suoi primi seguaci condividevano, e a provare le ricette pubblicate nel sito. Grazie a questo ero riuscito ad evolvere in un approccio più maturo, con quegli elementi fondamentali dominanti nella cottura alla griglia, anche se li compresi realmente molto dopo. Ovviamente questo rapporto era maturo solo se confrontato con il mio passato, perché più avanti si va e più la strada si restringe, e solo lì si capisce quanto c'è ancora da imparare e da condividere con chi viene dopo di noi, con chi si affaccia a questa passione e vuole imparare Inaspettato ed entusiasmante fu il momento in cui venni chiamato a partecipare attivamente alle attività di show-cooking e di insegnamento di BBQ4All. Era una grandissima opportunità di condividere e trasmettere ad altri quello che io stesso avevo imparato. Quando si entra attivamente in BBQ4All, quando si
conoscono le persone che lo compongono si capisce la grandezza di questo gruppo, per le competenze impareggiabili, l'altruismo, per il senso di fratellanza, per il rispetto. Entrare nel gruppo significa prendere parte ad un progetto, un viaggio verso una consapevolezza inaspettata, significa essere convinti della scelta fatta e di non voler più accettare compromessi o farsi trascinare dove spinge in quel momento la marea. Di strada ce ne sarà da fare ancora parecchia, ma la passione aumenta costantemente.
Quando c’è stata la svolta, ovvero da coach a Direttore della University? Come già detto, non mi sono fatto ripetere due volte la domanda di voler partecipare alle attività. Ero smanioso di mettermi in gioco, ho partecipato alla prima importante formazione per coach e sono stato uno dei primissimi coach lanciati sul territorio nazionale a coprire le richieste di appuntamenti sempre più capillari. Sono sempre stato un po’ meticoloso e con una predisposizione all’organizzazione e mi sono trovato subito a mio agio nel gestire in prima persona il territorio che avevo in supervisione in quel momento, tanto che da lì a un paio d’anni mi sono sentito proporre di coordinare il comparto corsi sull’intero territorio nazionale. Quanto ci avrò pensato, secondo voi? Zero secondi. Netti. Era una sfida entusiasmante che non mi sono lasciato sfuggire. Coordinamento, supervisione, formazione di nuovi coach e affiancamenti sono stati il pane quotidiano degli ultimi anni, un periodo veramente sfidante ed emozionante.
Quanti corsi hai all’attivo?
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Tra il 2013 e il 2019, prima del blocco dovuto alle restrizioni a causa della pandemia da Covid-19, ho avuto la fortuna di presenziare a oltre un centinaio
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da permettere a più persone possibili di entrare in modo graduale in questo mondo. Centinaia di migliaia di persone di tutta Italia sono passate nei nostri canali multimediali in una decade e moltissimi di questi, decine di migliaia, hanno intrapreso la formazione strutturata ai corsi della BBQ4All University.
Questo cosa significa?
di corsi, tra quelli tenuti da me e quelli in cui ho affiancato i nuovi coach in erba. Calcolando che, tranne poche eccezioni, i corsi sono sempre stati svolti nel weekend (in giorni singoli o doppi) mi è capitato di girare anche per oltre 20 weekend l’anno, da Torino a Udine, da Parma a Lecce. Incontrare persone in tutto il Paese è stata un’esperienza veramente importante e che mi dà entusiasmo ancora oggi.
Ti ho sentito affermare più volte che il corsista di oggi è più avanti dei coach degli albori: vuol dire che negli anni anche il grigliatore della domenica si è evoluto. Secondo te grazie a chi e a che cosa?
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Si, è esatto, ma bisogna fare una precisazione sull’affermazione.
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Lungo gli anni Gianfranco e tutto il team media e marketing di BBQ4All hanno lavorato molto per coinvolgere i potenziali interessati, facendo capire loro l’importanza della formazione personale anche nel contesto del grilling casalingo. Sono stati creati percorsi super basici, non tanto per gli argomenti ma per il modo di comunicare le informazioni, così
Che agli albori, ai corsi, capitavano persone con competenze sicuramente scarse o basiche, mentre adesso un coach trova degli appassionati già con molte informazioni pre-acquisite, che hanno anche iniziato ad approfondire personalmente gli argomenti e che vogliono migliorarsi significativamente. Il coach di oggi, quindi, deve essere un professionista preparatissimo e altamente competente, non solo nella materia grilling e barbecue ma ad un livello molto più profondo, ambito che a Gianfranco è sempre stato molto a cuore. Da qui, il nostro celebre stile di approcciare ogni argomento con un piglio scientifico.
Parlaci di questo progetto grandioso: la Masterclass. I corsi BBQ4All University negli anni si sono diffusi molto, hanno raggiunto gli appassionati in gran parte del territorio nazionale. Questa attività ha avuto riscontri ottimi ad ogni appuntamento ma, com’è ovvio, per problemi logistici, temporali o impossibilità a conciliare date, moltissime persone interessate non sono riuscite a partecipare a un corso dal vivo. Questo è sempre stato un fattore che conoscevamo e l’idea di arrivare a tutti, in modo che tutti potessero beneficiare della nostra didattica e della tecnica, è un obiettivo che ci siamo prefissati un po’ di tempo fa: volevamo creare un percorso, sviluppato a moduli strutturati verso l’alto, dalle fondamenta fino ad acquisire tutte le tecniche possibili, che potesse essere fruito in maniera fluida e secondo la disponibilità
di tempo che ciascun aspirante griller avesse a disposizione. Ed ecco nata, appunto, la Grill & Smoke To Perfection - Masterclass. Si sa, da sempre teniamo molto a realizzare i progetti che ci prefissiamo. Lo facciamo in modo maniacale, senza compromessi e senza accontentarci di velocizzare una produzione a discapito della qualità. Stesura del format, costruzione della location, ingaggio dello staff e della video company, coinvolgimento di partner di altissimo livello: sono tutti elementi del progetto che possono essere gestiti in modo superfluo con un risultato mediocre o analizzati e sviluppati con la massima cura per un risultato eccezionale. Alla dine sono i dettagli a fare la differenza. Non ci siamo accontentati, ci siamo tirati su le maniche, abbiamo fatto tutto il necessario per creare un percorso di altissimo livello che avrà, oltretutto, uno sviluppo molto interessante nel tempo e che veramente nessuno si vorrà lasciar sfuggire.
della pausa forzata, la didattica della BBQ4All University aveva iniziato un’evoluzione lasciandosi alle spalle il concetto di corso per sviluppare quello di percorso, dove un partecipante aveva la possibilità di immergersi completamente nei concetti, nelle tecniche e nell’esperienza gastronomica insieme al coach. Questo è stato il definitivo giro di boa: adesso tutti potranno vivere un’esperienza a 360° in modo sempre più profondo e performante. Strutturato in livelli adatti alle capacità e conoscenze di ciascun partecipante, il lungo percorso didattico darà la possibilità a chiunque di acquisire tutte le informazioni utili sul mondo della griglia, in modo che l’esperienza sia - davvero - “form Zero to Hero”.
Qual è il primo passo che un appassionato deve fare, dunque?
Ci saranno ancora i corsi in presenza?
Si parte proprio dal percorso Essential: una serie di video introduttivi e gratuiti che consente a tutti di mettere in ordine le prime idee sparse e a fare posto a una consapevolezza chiara di quello che è il grande mondo della cottura alla griglia. Tutti hanno le potenzialità per partecipare ad un corso Essential.
Tralasciando questo periodo che ci ha impedito di organizzare attività dal vivo, le esperienze di
Avete sentito il Direttore? Iscrivetevi tutti, la pillola rossa è là che vi aspetta.
confronto tra corsisti appassionati e i coach saranno sicuramente importanti, come lo sono sempre state. Con l’introduzione del nuovo percorso Masterclass ci sarà un’evoluzione anche in ambito di corsi ed experience dal vivo, che definiranno una nuova “stagione” per la BBQ4All University. Oltretutto, come già anticipato da Gianfranco Lo Cascio con una serie di post sulla Community Facebook, la nuova sede della GLC Academy sarà una location particolarmente attrattiva per lo sviluppo di questi nuovi format.
Già nell’ultimo anno, prima
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Come si evolverà la didattica in futuro?
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Ricetta a cura di Michela Bongiorni
LA MITICA
JAMBALAYA un mix esplosivo di culture e tradizioni La mia ricetta nel cassetto si chiama Jambalaya ed ormai la preparo ad ogni ricorrenza utile. Sono ormai passati diversi anni da quando ne sentivo parlare distrattamente; poi me ne sono interessata ed ho perfezionato una mia "ricetta". Ricapitolando: da queste parti, quando si parla di Jambalaya, propongo la MIA Jambalaya. Ho messo la definizione ricetta tra virgolette, poco più su, perché questo piatto tipico della cucina creola fa parte di quelle preparazioni per le quali è molto difficile (se non impossibile) parlare di un procedimento standard e codificato.
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La Jambalaya è un un mix di colori e di sapori, un piacere per gli occhi e una goduria per il palato. Si tratta di un piatto composto da riso, verdure, carne e pesce che molto spesso viene confuso con la Paella, dalla quale di fatto nasce. Non è un caso se, per far comprendere ai miei commensali di cosa si tratti, di fronte ai loro sguardi un po’ smarriti quando dico loro “ho preprarato la Jambalaya!”, la mia spiegazione breve sia appunto: “è una specie di paella, ma più saporita!” La preparazione americana nasce proprio da quella spagnola e i due piatti alla vista risultano molto, molto simili tra loro. In realtà il piatto creolo è molto diverso da quello spagnolo e io oggi sono qui proprio per raccontarvelo. La Jambalaya nacque in Louisiana, nella città di New Orleans, dopo la metà del XVIII secolo, durante il dominio spagnolo.
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È il caso di fermarci un attimo per fare una fotografia della situazione storica di quel tempo: gli Stati Uniti, prima dell’indipendenza ottenuta nel 1789, hanno avuto quasi trecento anni di storia in cui sono stati sul serio una terra selvaggia e poco esplorata, nonostante la presenza degli europei. In questi secoli, gran parte di quei territori erano dominati dagli spagnoli, soprattutto il sud e l’ovest, e dai francesi (l’attuale Canada e buona parte delle Grandi Praterie); si trattava generalmente di colonie povere, in cui la popolazione viveva di caccia, agricoltura e commercio di pelli e canna da zucchero. Soprattutto nelle zone più a sud, erano ancora numerosi gli “indiani”, ma erano numerosissimi
anche gli schiavi deportati dall’Africa. Insomma, il miscuglio di popoli e di stnie, in quelle zone, era davveero importante. Proprio da qui nasce la definizione di creoli: una popolazione nuova che aveva assorbito l’identità e le caratteristiche di tutte queste culture senza, in realtà, rappresentarne nessuna in particolare. Quelli erano anni di guerre continue che avevano lo scopo di conquistare la supremazia su quei terrotori: la Guerra dei Sette Anni (1756 – 1763), tra Francia e Gran Bretagna, combattuta anche nei possedimenti coloniali, fu una di quelle più determinanti. La vittoria britannica fu netta e rappresentò l’inizio del loro dominio sul continente; al contrario, l’esperienza francese nel Nuovo Mondo si chiuse definitivamente qui, dato che i territori rimasti furono via via ceduti o persi nei decenni successivi. In Acadia, una regione sull’Oceano Atlantico ed attualmente territorio canadese, vivevano dei discendenti dei coloni francesi che si opposero fino all’ultimo ai nuovi dominatori inglesi, anche dopo la conclusione della guerra; per punizione, furono espulsi dalla loro terra ed obbligati ad una migrazione forzata di migliaia di chilometri fino a quella che sarebbe dovuta diventare la loro nuova casa, ovvero l’attuale Louisiana, ed in particolare le zone paludose intorno a New Orleans: città che nel frattempo era passata sotto il dominio spagnolo . Erano loro i cajun (pronuncia keigiàn) che, insieme ai creoli, gettarono le basi di una delle culture gastronomiche più spettacolari esistenti al mondo, di cui vi ho già parlato in passato. Dicevamo, dunque: la Louisiana in quel momento storico era una zona complessa, caldissima, paludosa, selvaggia, abitata da genti diverse ed era dominata dagli spagnoli. Come è sempre accaduto, i nuovi conquistatori sia per affermare la propria forza, sia per placare un po’ la nostalgia delle terre natìe, imposero la propria cultura sul nuovo territorio. Tuttavia incontrarono notevoli difficoltà in ambito culinario nel riproporre i sapori tipici delle proprie ricette: molti degli ingredienti erano irreperibili. Nel caso specifico della paella, non
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furono certo il riso e le verdure ad essere un problema, ma certamente fu determinante la mancanza dello zafferano: provenendo dall’Oriente, era in quella zona rarissimo a causa degli esorbitanti costi di importazione. Fu dunque sostituito con il pomodoro, pianta autoctona, facile da trovare ed economica, in grado di dare un po’ di colore e di gusto deciso al piatto. Successe la stessa cosa anche per i gamberi, di cui quel mare è pieno ancora adesso, che resero di fatto superflui gli altri frutti di mare. Ovviamente, gli abitanti autoctoni scoprirono questo piatto economico e gustoso e lo arricchirono con gli ingredienti a cui erano abituati: carne di alligatore, di tacchino, di scoiattolo. Per quanto riguarda le spezie, cominciarono ad usare quelle coltivate nel Mar dei Caraibi, quindi peperoncino di Cayenna, zenzero e pepe bianco. Nel 1800, con l’arrivo dei cajun, fu introdotta nella preparazione la salsiccia affumicata, ingrediente che loro consumavano in grandi quantità. Per non parlare dell’importante influenza degli schiavi africani che misero a disposizione la loro conoscenza sulla coltivazione del riso.
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Nacque così la Jambalaya: un piatto sorprendente, di cui, come dicevo all’inizio, non può esistere una preparazione originale o tradizionale, essendo nato da tutti i popoli che convivevano in quella zona e che hanno apportato ognuno una modifica, adattandolo ai propri gusti e alle proprie tradizioni. Per esempio,
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i francesi a differenza dei creoli non amavano il pomodoro e abbondavano con le cipolle. Ognuno ha la sua ricetta, dunque. Come anticipato all'inizio di questo pezzo, qui vi propongo la mia versione di Jambalaya. Partiamo dagli ingredienti: non ci sono veti sui tipi di carne e di pesce che possono essere presenti nella Jambalaya (tacchino, alligatore, anatra, ostriche, gamberi, aragosta...) anche se i più usati rimangono il pollo, la salsiccia di maiale affumicata e i gamberi. È imperativo che sia presente la Holy Trinity (la Santa Trinità), ovvero un soffritto realizzato con cipolla, sedano e peperoni verdi. Esistono fondamentalmente due metodi per preparare la Jambalaya, al netto della varietà infinita degli ingredienti utilizzati: il metodo creolo (Jambalaya rossa, con più pomodoro) e quello cajun (Jambalaya bruna, quella con più cipolle e pochissimo pomodoro di cui vi ho parlato prima). Per il resto, potete sbizzarrirvi con gli altri ingredienti secondo il vostro gusto. Personalmente, preferisco di più la versione creola, quindi con abbondante pomodoro. Sul grado di piccantezza lascio piena libertà, dipende tutto dai gusti personali. Se vi piace tanto mangiare piccante e volete provare qualcosa di veramente esplosivo, aggiungete al tutto un po’ di ‘nduja: mi ringrazierete.
PREPARAZIONE 1. Tagliate il pollo a pezzi piccoli o a striscioline e conditelo con olio, il succo di mezzo lime, una puntina di curry, una puntina di paprika dolce e un cucchiaino di Smoky Chipotle Chili. Tenete in frigo a marinare per qualche ora. 2. Pulite e sgusciate i gamberi, ma lasciatene alcuni col guscio. 3. Affetate le zucchine, tagliate il peperone rosso a listarelle. 4. Fate un soffritto tritando finemente il sedano, la cipolla e il peperone verde.
INGREDIENTI 4 persone
500 g di riso 120 g di petto di pollo 20 gamberi rossi di Mazara del Vallo Mazhara 100 g di smoked pepperoni salami del BBQ4All Megastore 2 salsicce un cipolla bianca un peperone verde una costa di sedano due zucchine un peperone rosso un cucchiaio di concentrato di pomodoro olio extravergine di oliva q.b. sale e pepe q.b. una confezione di Sal’s seasoning Smoky Chipotle Chili un cucchiaino di curry un cucchiaino di paprika dolce due lime due litri di brodo vegetale o di pollo
5. Tagliate il salame piccante in cubetti 6. Predisponete il dispositivo per una cottura diretta; adagiate il wok al centro della griglia con in carobe sotto e fatelo scaldare bene. 7. Versate abbondante olio nel wok e poi mettete il soffritto: siate accorti a non farlo bruciare. Aggiungete la salsiccia sbriciolata e fate insaporire bene. Subito dopo aggiungete il pollo, facendolo rosolare. Infine aggiuntete il salame piccante a dadini. 8. È il momento del riso: aggiungetelo agli altri ingredienti, fatelo tostare e poi bagnatelo con il brodo caldo. Aggiustate di sale e di pepe. 9. Aggiungete a questo punto le verdure e il concentrato di pomodo. I gamberi saranno messi per ultimi. 10. Sempre aggiustando di sale, continuate a bagnare il riso finché non sarà circa a più di metà cottura: a quel punto aggiungete i gamberi, aggiugerete l’ultima mescolata di brodo e poi smetterete di bagnarlo. Questo passaggio è fondamentale perché il riso si attacchi un po’ al wok e crei quella crostina saporita che prende il nome di soccarrat. Non ci sono modi e tempi precisi: dovete accorgervene dall’odore; certamente l’esperienza verrà in vostro aiuto quindi è possibile che inizialmente troviate difficoltà a creare il soccarrat, ma che riusciate a perfezionarlo nel tempo. Certamente dovete stare molto attenti a non far bruciare tutto, quindi non esagerate con le braci accese. Per mia esperienza, mezza ciminiera di braci è sufficiente.
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11. Una volta che il riso sarà cotto, aggiungete a vostro gusto olio extravergine di oliva, lime e volendo un cucchiaino di Smoke Chipotle chili: staccate il riso dal wok e includete la crosticina nella Jambalaya, mescolando il tutto. Grigliate i gamberi rimasti interi e servite.
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QUESTI
SPAGHETTONI SONO UNA VERA DROGA! Con 'nduja di Spilinga, ricotta
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salata e pomodorini drogarossa
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Tutta la conoscono, tutti la amano. Parliamo della ‘nduja, il più famoso prodotto alimentare calabrese che negli ultimi anni ha conosciuto e vero e proprio boom. È tipica del Monte Poro: Spilinga (in provincia di Vibo Valentia) è il comune d'elezione, ma l'area di produzione è estesa a molti comuni del vibonese. Anche se in molti dicono che vera nduja è solo quella di Spilinga (da anni è in corso una lotta per la difesa della ‘nduja di Spilinga e per il riconoscimento IGP). Il nome deriva dal francese andouille, che vuol dire salsiccia, anche se in nostro piccantissimo nettare degli dei non ha nulla a che vedere con quest’ultima. Originariamente la 'nduja era un alimento povero: era preparato usando le parti meno nobili del maiale come interiora, trippa e polmoni. Al giorno d'oggi, invece, vengono destinate alla produzione della 'nduja le parti migliori della bestia, impastate con sale e peperoncino. Il tutto viene poi insaccato in budello naturale. Il salume morbido che ne deriva viene poi leggermente affumicato prima di essere stagionato per alcuni mesi. È fondamentale che anche la qualità del peperoncino sia elevata, oltre ovviamente a quella della carne utilizzata. Non di rado può accadere che il peperoncino, tra l'altro di dubbia qualità, venga usato per mascherare il sapore di cibi abbastanza scarsi. Nella 'nduja non solo viene usato peperoncino di qualità, ma viene usato anche in quantità. Una bocca non abituata a gusti tanto piccanti potrebbe avere un approccio difficile a questo ingrediente. Ma noi stiamo parlando di cibi piccantissimi in questo speciale estivo del Magazine, quindi vi tocca abituarvi a questo fuoco. In ogni caso, può aiutare preparare la 'nduja scaldandola un po' in un pentolino e mischiandola alla ricotta, che ammorbidirà il piccante della 'nduja. Oppure si può usare per condire la pizza, oppure per un sugo con cui servire la pasta. Ed è esattamente quello che abbiamo fatto oggi con questi spaghettoni. Squisitamente piccanti, avvolgenti e irresistibili, gli spaghettoni con sugo di 'nduja e pomodorini drogarossa (non hanno bisogno di presentazione, vero? Li conoscete tutti i nostri ormai famigerati pomodorini arrostiti... e se non li conoscete, beh, cercate di rimediare il prima possibile!) diventeranno un must soprattutto in estate, quando i pomodori danno il meglio di sé! Certo... forse non aiutano a stare freschi, ma fidatevi: varrà la pena soffrire un po’ il caldo. Se poi ci aggiungete una nevicata di ricotta salata farete sicuramente centro.
spaghettoni / 80 g 'nduja di Spilinga / 250 g di pomodorini drogarossa e il loro succo / 50 g di cipolla di Tropea / sale q.b / olio extravergine d’oliva q.b / basilico fresco / 100 g di ricotta salata affumicata
PREPARAZIONE 1. In un saltapasta capiente scaldate quattro cucchiai di olio d’oliva extravergine, aggiungete la cipolla tritata molto finemente e lasciate appassire per circa 3/4 minuti a fuoco molto dolce. 2. Nel frattempo stemperate la 'nduja in una ciotolina lavorandola con una forchetta. 3. Aggiungete in padella i pomodorini droga rossa interi o leggermente schiacciati insieme al loro condimento. Se preferite una versione meno rustica, potete passare i pomodorini in un passaverdure e ottenere una buonissima passata affumicata di droga rossa, eliminando così i semi e le bucce. 4. Dopo 2/3 minuti aggiungete la Nduja e spegnete il fuoco, utilizzando il calore residuo della padella fate in modo che si sciolga per benino rimestando con un mestolo di tanto in tanto. 5. Scolate gli spaghettoni al dente E lasciateli insaporire nella padella con il sugo alla Nduja per qualche minuto inserendo alla fine abbondante basilico. 6. Completate il piatto con una pioggia di ricotta salata affumicata.
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Il contrasto agrodolce dei pomodorini si sposa alla perfezione con il gusto intenso e piccante della 'nduja: il tutto viene armonizzato dalla nota lattica e affumicata della ricotta salata stagionata. L’unico consiglio che possiamo darvi e di considerare il bis perché il risultato finale è veramente strepitoso!
Ingredienti per 4 persone: 400 g di
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PICCANTE SÌ, PICCANTE NO… DECIDILO TU!
TOM KHA GAI tradotto per voi: zuppa di pollo e latte di cocco Lo sappiamo: questo numero del Magazine è dedicato al piccante. Chi mal sopporta questa caratteristica, oppure per un motivo qualunque non può mangiarne, potrebbe trovare difficoltà con le ricette proposte. Per questo motivo abbiamo deciso di inserire un piatto thailandese molto famoso che però, a differenza di altre preparazioni thai, non è piccante. Stiamo parlando della famosa Tom Kha Gai, una zuppa di pollo fatta con una base di latte di cocco e una decisa nota agrumata. Uno degli ingredienti principali di questa zuppa è il galanga, ovvero lo zenzero thailandese, che a dire la verità una leggerissima nota piccante (ricorda il rafano) la dà. Ma è talmente leggera che è praticamente impercettibile. Originario del Sud-Est asiatico, il galanga è una officinale erbacea tropicale che appartiene alla famiglia delle Zingiberaceae. Nella cucina tailandese ed indonesiana è utilizzata come spezia per dare sapore a piatti di pesce, zuppe, salse, pollo, carne rossa e verdure: insomma, per loro è un po’ come il nostro prezzemolo. Gli altri ingredienti fondamentali per questa zuppa sono: le foglie di kaffir, (un albero che produce una specie di piccolo lime chiamato combava) che hanno un aroma di limone e clorofilla molto intenso e pungente; il lemongrass, chiamata da noi citronella, dal sapore agrumato intenso e un po’ pungente; la salsa di pesce, che si ottiene da un lungo processo di fermentazione del pesce e si pone come ingrediente base di numerose ricette orientali.
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Ovviamente, può non essere facile reperire tutti questi ingredienti in Italia, specie se non abitate in zone in cui siano presenti negozi etnici o reparti dedicati nei supermecati. Quindi, potete sostituire questi ingredienti con altri più “di casa nostra”: il galanga con lo zenzero “nostrano”, le foglie di kaffir con la scorza del lime, la salsa di pesce con la salsa di soia (dai, ce l’avete tutti un all you can eat vicino casa, no?). Sul discorso piccantezza, come abbiamo specificato questa zuppa ha più che altro un sapore vellutato e abbastanza salato, molto agrumato. Ma nulla vieta che possiate aggiungere al tutto un po’ di peperoncino, per rendere questa zuppa più simile alla Tom Yam Kung, una preparazione molto simile negli ingredienti, ma fatta coi gamberi e i frutti di mare, e fortemente piccante.
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Non abbiamo la pretesa di presentarvi la ricetta “originale”: sappiamo bene che ci saranno alcuni tra di voi che sono stati in Thailandia e hanno mangiato questa zuppa cucinata direttamente da una signora di 120 anni che ha passato la vita a prepararla. No, questa non avrà lo stesso sapore. Probabilmente anche il pulled pork che preparate il sabato con gli amici non ha esattamente lo stesso sapore di quello mangiato in Carolina, perché magari per prepararlo usate dei rub diversi da quelli usati nel sud degli Stati Uniti, delle injection calibrate sul vostro palato e così via... eppure vi piace, vero? Ecco, vi piacerà anche questa zuppa. Garantito.
INGREDIENTI 4 persone
500 g di petto di pollo 250 ml di latte di cocco 2 cucchiai di salsa di pesce (o salsa di soia) mezzo litro di brodo di pollo o brodo vegetale 2 cucchiai di olio di sesamo 2 cucchiaini di zucchero 6 fettine di galanga (o di zenzero) due gambi di lemongrass (oppure la scorza di un limone biologico) 4 foglie di kaffir lime (oppure la scorza di un lime) peperoncino a piacere (facoltativo) sale e pepe q.b
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PREPARAZIONE 1. Tagliate il petto di pollo a pezzetti e marinatelo nella salsa di pesce (o in quella di soia) per circa un’ora tenendolo in frigo 2. In una pentola capiente mettete l'olio di sesamo e rosolate leggermente le foglie di kaffir (o la scorza del lime), i gambi di lemongrass (o il limone), il peperoncino (se volete) e il pollo scolato dalla marinatura. Salate leggermente e lasciate andare. 3. In una pentola a parte, scaldate il brodo, aggiungete il latte di cocco, il galanga (o lo zenzero) e portate a ebollizione. 4. Versate il bro do così ottenuto nella pentola col pollo, lasciate che riprenda a bollire, aggiustate di sale, coprite e lasciate andare a fuoco medio finché il pollo non sarà pronto (occhio a non farlo cuocere troppo, perché si indurisce).
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5. Una volta pronta, lasciate che zuppa riposi per qualche minuto e prima di servirla aggiungete a piacere un po’ di soia o di salsa di pesce, il succo e la scorza del lime e, se vi piace, qualche germoglio di soia.
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CHILI CON CARNE Lo stufato tex-mex amato in tutto il mondo! Odore di saloon, di speroni sulla terra arsa, di sguardi sprezzanti e di duelli: entrate nel vostro saloon preferito (almeno, quello dei vostri film preferiti!), andate al banco ed ordinate il vostro piatto di chili con carne, guardandovi intorno con circospezione. Il chili con carne è un piatto fusion ante litteram: sebbene il solo nominarlo ci porti istintivamente a pensare a scene desertiche del genere, soprattutto ambientate nel Texas, questo piatto nasce in Messico. Sì, sì: pensate pure a mariachi, maracas e sombrero. Il chili è l’autentico piatto tex-mex, impossibile definirlo in una cornice unica, visto che viaggia da secoli su e giù tra gli States ed il Centro America, declinandosi in più versioni ma mantenendo sempre la robustezza dei sapori e… il piccante, ovvio. Il chili, come dicevamo, può declinarsi in decine di varianti. Nel pentolone fumante, si incontrano diversi tipi di peperoncino, di carne, di spezie, di fagioli ed anche noodles in alcune versioni più fusion e contemporanee. Questo piatto ha una storia davvero molto densa e variamente raccontata. Percorriamo insieme i vari passaggi.
Mille storie per un piatto leggendario...
La storiella più popolare prevede la presenza di una figura mitologica, un indigeno, che ad un certo punto avrebbe messo tutto insieme in un calderone, inventando di fatto il chili.
Una figura emblematica del chili con carne è la reina de chili, la venditrice ambulante di chili: dobbiamo a queste figure il perfezionamento e la diffusione ulteriore della ricetta. Nei calderoni, la carne cuoceva lentamente per ore, amalgamandosi agli altri ingredienti e letteralmente sciogliendosi. I soldati e gli avventori dei mercati ne compravano in grande quantità. I monaci spagnoli avevano un rapporto ambivalente con il chili. Per alcuni, la presenza del peperoncino la rendeva una pietanza afrodisiaca; per altri, era considerato il “piatto del diavolo”, a causa della piccantezza e del colore. Secondo noi, lo mangiavano volentieri. Eccome, se erano ghiotti di chili! Una versione moderna del chili, intesa come zuppa piccante, è apparsa in Texas; di questo, ne abbiamo documentazioni abbondanti grazie a Everett de Golyer, un ricco imprenditore di peperoncini. Dai suoi studi, emerge che i primi inventori di un mix di peperoncini per il chili furono i viaggiatori della corsa all’oro e i cowboy texani. Questi avevano bisogno di cibo nutriente e sostanzioso durante le loro
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Esistono numerose varianti, addirittura con figure ben identificate. Tra queste, una storia vede come protagonista una religiosa e mistica spagnola - Maria de Agreda – che ebbe contatti (di tipo sovrannaturale, dice la leggenda) con i nativi americani. Era chiamata dagli spagnoli “La Dama de Azul”, la signora vestita di azzurro.
Da questi contatti, portò la prima ricetta del chili con carne. La datazione di tutto ciò è circa il 1600. Gli ingredienti previsti erano peperoncini freschi, carne di cervo, pomodori e cipolle. Poi furono aggiunti anche peperoni ed altri ortaggi locali. Una leggenda più verosimile può essere quella attribuita ai conquistadores: tra il XV e il XVII secolo, durante le loro sortite guerrigliere, essi notarono che gli indigeni preparavano questi giganteschi pentoloni bollenti pieni di uno stufato con pomodori, peperoncini e cipolla. Con il passare dei secoli, i coloni portarono la loro impronta al piatto, aggiungendo carne di vario tipo ed aromi.
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traversate. Quindi, i cuochi inventarono uno stufato con carne secca, pepe, sale, cipolla, peperoncino e li assemblarono in forma di blocchi. Per mangiarlo, bisognava reidratare. Verso il 1860, anche i prigionieri delle carceri del Texas iniziarono a rivendicare il loro ruolo nella creazione del chili. Pare che il rancio consistesse appunto in una zuppa di pane, acqua, pochi ortaggi ed insaporita con abbondante peperoncino; tanto che le carceri iniziarono ad essere valutate dai detenuti proprio in base alla qualità del peperoncino proposto durante i pasti. Tanto che i detenuti delle carceri, dopo essere stati rilasciati, raccontavano che spesso ciò che a loro mancava era una ciotola di buon chili, ben piccante. Il peperoncino utilizzato per questi primi chili probabilmente era quello chiamato chilipiquo, che cresceva spontaneamente in Texas.
...ma anche mille versioni!
Impossibile stabilire quale sia la versione ufficiale del chili con carne. La bellezza e la leggenda di questo piatto, dopotutto, sta anche nella sua versatilità estrema. Molti chef creano la propria versione di questa gustosa preparazione, personalizzandola fino all’estremo e rendendola riconoscibile. L’obiettivo? Creare il chili con il sapore più intenso, che domande. I chili più comuni sono quelli che utilizzano differenti tagli di carne (pollo, tacchino, manzo, bufalo e cervo quelli preferiti), ma anche chili vegetariani (dove la carne è sostituita da ulteriori ortaggi molto saporiti), e i chili aromatizzati con le spezie più varie. Solitamente si usa combinare diversi tipi di peperoncino per ottenere la speziatura, la piccantezza e la nota fruttata desiderata. Il chili con carne si mangia solitamente accompagnato dalle iconiche tortillas, i sottili dischi di “pane” di mais. Un altro abbinamento tipico è il chili con carne accompagnato da riso saltato alla messicana. Il servizio del chili con carne può essere sia nelle tortillas (farcendole, insomma), oppure in ciotoline con fettine di avocado, peperoncini jalapeno, panna acida e riso.
CRIMSON CREST 5+ Wagyu F1 Crossbred / 400 g di fagioli neri o rossi già lessati / un confezione di rub Sal’S Seasoning Tennessee / un cucchiaino di curry / una costola di sedano / un peperone verde / un peperoncino rosso / un peperoncino verde / due peperoncini jalapeno / 200 g di polpa di pomodoro / un cucchiaio di concentrato di pomodoro / sale e pepe q.b. / olio extravergine di oliva q.b. / riso bollito a piacere (facoltativo) / un avocado (facoltativo).
PREPARAZIONE 1. Insaporite la carne con il rub Tennessee a cui avrete aggiunto il curry. Lasciatela da parte per qualche minuto e intanto tritate finemente la cipolla, il peperone verde e il sedano. 2. In un tegame (volendo potete usare la cocotte sul vostro dispositivo in cottura diretta), fate soffriggere la santa trinità (cipolla, sedano e peperone verde), insieme a un trito dei peperoncini (rosso, verde e jalapeño). 3. Aggiungete a questo punto la carne e fatela insaporire. Aggiungete la passata di pomodoro e il concentrato di pomodoro, insieme a mezzo bicchiere di acqua calda. Aggiustate di sale e di pepe, poi coprite il tutto e lasciate cuocere a fuoco molto dolce per circa un’ora e mezzo. 4. Facendo sempre attenzione che la carne non si asciughi troppo, mascolatela ogni tanto ed eventualmente aggiungete un poco di acqua o brodo caldo. Trascorsi i 90 minuti, aggiungete i fagioli, mascolate bene e lasciate cuocere per un’altra mezz’ora o comunque fincé la carne non comincerà a sfaldarsi. 5. Una volta pronto il chili, servitelo come più vi aggrada: farcite le tortilla, servitelo con i nachos oppure con riso bianco, avocado, pomodorini e succo di lime. Eliminate le punte delle baguette e tagliatele in tranci comodi da mangiare. Tostateli leggermente in padella con un filo d’olio extravergine d’oliva e disponete a strati nel panino una dose generosa di salsa al cheddar, uno strato di cipolle, un doppio strato di carne affettata molto sottile e un tocco di basilico fresco tritato per dare aromaticità. In ultimo, spruzzate con succo di limone.
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Anhe noi abbiamo la nostra versione. Avevate dubbi?
Ingredienti per 4 persone: 800 g di Stew AUS
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Di pozioni d’amore e altri rimedi
FILETTI DI SALMONE CON ZENZERO,
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PEPERONCINO E LIMONE
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Ingredienti per 4 persone: 4 filetti di
salmone da circa 150 g l’uno / un pezzetto di radice di zenzero o zenzero in polvere q.b. / due peperoncini rossi / il succo di un limone e la sua scorza / due cucchiani di Sal’s Seasoning Smoky Red / olio extravergine di oliva q.b.
Se esiste un ingrediente che negli ultimi anni ha preso sempre più piede nelle cucine degli italiani, questo è senza ombra di dubbio lo zenzero. Ve ne sarete accorti anche voi: fino a pochi anni fa si faceva molta fatica a trovarlo, mentre adesso e onnipresente praticamente in tutti i supermercati, piccoli o grandi, e declinato in varie versioni: fresco, in polvere, caramellato, marinato in stile giapponese.
per la salsa di peperoncini :100 g di peperoncini rossi freschi / uno spicchio d’aglio / mezzo cucchiaino di sale / 50 ml di olio extravergine di oliva
Di fatto, in molti hanno scoperto questa spezia grazie all’avvento (potremmo dire l’invasione) dei ristoranti pseudo-giapponesi che sono spuntati come funghi nelle nostre città. In realtà questa radice, utilizzata in cucina in qualità di spezia, ma anche in medicina per le sue proprietà antibiotiche e antinfiammatorie, vanta secoli di storia alle spalle. Tutti sanno che lo zenzero fa bene! Hai mal di gola? Prendi lo zenzero. Hai mal di stomaco? Prendi lo zenzero. Pare che Enrico VIII lo consigliasse addirittura come rimedio contro la peste. Originario dell’India e della Cina, sembra che a portarlo in Europa sia stato Alessandro Magno: si diffuse dalla Grecia all’Impero Romano e poi grazie agli arabi arrivò in Africa. Fu subito amato da tutti. Si dice che Pitagora lo consigliasse come antidoto per il morso dei serpenti, che gli arabi lo considerassero un afrodisiaco e che la Scuola Medica salernitana – fondata nell’Alto Medioevo , proprio a Salerno come ci indica il nome - lo suggerisse come elemento principale per le pozioni d’amore.
PREPARAZIONE 1. In una busta per il sottovuoto mettete i filetti di salmone, il peperoncino tritato, lo zenzero tritato o in polvere e la buccia grattugiata di un limone. Tenete il salmone così in marinata per tutta la notte in frigo.
Non sappiamo se abbia mai funzionato per questo tipo di intrugli, ma sappiamo con certezza che vi innamorerete di questi filetti di salmone, marinati proprio con la spezia magica. Conoscete tutti il pesce dalla carni rosa e dal sapore burroso e delicato: immaginate di volergli dare un boost di sapore, ma che non sovrasti troppo il gusto dell’ingrediente principale. Lo zenzero è perfetto. E poi, sempre per dar retta alla leggenda che lo considera un cibo afrodisiaco, noi ci abbiamo aggiunto anche il peperoncino per renderlo... decisamente più porno! E dato che siamo dei viziosi, lo abbiamo servito con una salsa piccantissima. Poi però lo abbiamo presentato con un’insalata, per dare un po’ di sollievo alle vostre papille in fiamme. Fateci sapere che ne pensate… e anche se funziona come filtro d’amore.
3. Preparate il vostro dispositivo per una cottura diretta e posizionate una piastra in ghisa in corrispondenza delle braci. Togliete il salmone dalla marinata, spennellatelo con l’olio e poi piastratelo sulla ghisa ben calda. Toglietelo quando avrà raggiunto il punto di cottura desiderato.
per l’insalata: 200 g di misticanza / pomodorini ciliegini a piacere / sale e olio q.b.
2. Indossando i guanti, lavate i peperoncini sotto acqua corrente, tamponateli, eliminate i piccioli, tagliateli pezzetti e frullateli nel mixer insieme all’aglio e al sale. Mettete il tutto in un colino e fategli perdere l’acqua di vegetazione aspettando circa 4 ore. Rimettete poi la polpa nel mixer con e frullatela con l’olio fino ad ottenere un composto omogeneo.
4. Assemblate l’insalata e servite i filetti di salmone, conditi con olio extravergine di oliva, succo di limone e una generosa spolverata di Smoky Red, insieme alla salsa di peperoncini da aggiungere a piacere secondo il grado di piccantezza desiderato.
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CALAMARI RIPIENI CON SUGO PICCANTE AI POMODORI SECCHI E SCAMORZA Belli da vedere e buoni da mangiare, i calamari ripieni sono un secondo d’effetto per fare un’ottima figura anche con gli ospiti più esigenti. In qualsiasi modo li prepariate,fritti o alla griglia, i calamari infatti danno sempre grandi soddisfazioni! Sono immancabili nei menù dei ristoranti di pesce, da quelli più popolari a quelli più raffinati. La ricetta dei calamari ripieni è un classico della cucina mediterranea e qui vi proponiamo una versione tanto semplice quanto appetitosa: vi serviranno solo un po’ di pane, parmigiano, acciughe e prezzemolo per realizzare un ripieno morbido e corposo, che rivelerà all’assaggio un’esplosione di sapori! Dovrete solo avere l’accortezza di non cuocerli troppo a lungo in padella, in modo da non rovinare la delicata consistenza di questi molluschi. Bastano veramente pochi minuti.
calamari grandi / 120 g di mollica di pane bianco / 30 g di Parmigiano Reggiano grattuggiato / 6 filetti di acciughe sott’olio / 2 spicchi d’aglio / 40 g di vino bianco secco / 1 uovo / 120 g di scamorza affumicata / 200 g di passata di pomodorini datterini / 70 g di pomodori secchi / olio extravergine d’oliva q.b / basilico fresco / prezzemolo fresco / origano secco / la scorza di un limone / 2 peperoncini piccanti
PREPARAZIONE 1. Per la pulizia dei calamari sciacquateli sotto l’acqua corrente, staccate delicatamente la testa dal corpo con le mani e tenetela da parte. Estraete la penna di cartilagine trasparente che si trova all’interno della tasca del calamaro, poi sciacquatelo e rimuovete le interiora con le dita. Eliminate la pelle esterna incidendo un’estremità con un coltellino e tirando delicatamente. Riprendete la testa e separatela dai tentacoli incidendo poco sotto gli occhi,poi aprite i tentacoli e spingete verso l'alto la parte centrale per eliminare il rostro. 2. Tritate al coltello i tentacoli e fateli saltare in padella con un filo di olio extravergine d’oliva, l’aglio tritato finemente e le acciughe per circa 2/3 minuti. 3. Sfumate con metà del vino bianco e una volta evaporata la parte alcolica aggiungete la mollica di pane tagliata a cubetti e schiacciatela delicatamente in modo tale da farle assorbire tutto il condimento. 4. Quando il liquido sarà stato assorbito, trasferite il composto in una ciotola e lasciatelo raffreddare, dopodiché unite il parmigiano grattugiato, il prezzemolo e il basilico tritati, l’uovo leggermente sbattuto, sale e pepe. 5. Ricavate dalla scamorza dei cubetti da 1cm di lato ed aggiungeteli al ripieno insieme ai pomodori secchi tritati e la scorza di un limone. 6. Impastate con le mani per compattare bene tutti gli ingredienti , poi trasferite il composto ottenuto in un sac-à-poche e tagliate la punta a uno spessore di circa 1 cm. 7. Riempite i calamari con il composto, avendo cura di lasciare liberi un paio di cm dal bordo e chiudete l’apertura con uno stuzzicadenti. 8. In una padella, scaldate un filo d’olio con uno spicchio d’aglio tritato, poi adagiate all’interno i calamari ripieni e cuocete per qualche istante a fiamma alta fino a rosolarli. 9. Sfumate con il vino bianco, lasciate evaporare e prelevate momentaneamente i calamari scottati. 10. Nella stessa padella aggiungete la passata di datterini, l’origano e il basilico a piacere e i peperoncini tritati secondo il vostro gusto, cuocete il condimento piccante per circa 6-7 minuti. 11. Inserite nuovamente i calamari e cuocete a fiamma media per 5-6 minuti a seconda della grandezza; i vostri calamari ripieni sono pronti per essere serviti!
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La scamorza affumicata e i pomodori secchi daranno un twist di sapore molto interessante che andrà a bilanciare la delicatezza dei calamari. Ad accompagnare i nostri calamari in questo viaggio di golosità e unto un sughetto piccante a base di datterini e peperoncino. Fresco e gustoso. Da farci scarpetta, d'obbligo!
Ingredienti per 4 persone: 600 g di
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Taco o Burrito?
DAMMI UN
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TAQUITO
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Se esiste una cosa di cui non potrete più fare a meno è questa: il Taquito. Sì, è esattamente ciò che pensate voi, una cosa a metà tra il taco e il burrito. Ma fritto. E lo sapete che noi, oltre a essere griller convinti, siamo anche frittariani: mangiamo qualsiasi cosa purché fritta. Nello speciale “piccante” del Magazine non poteva certo mancare la cucina tex-mex, della quale vi abbiamo già dato un assaggio presentandovi il nostro chili con carne. Ma di cosa si tratta? Probabilmente sarete stati colpiti dalle foto, e avrete già capito, ma vi diamo lo stesso la spiegazione: sono piccole tortillas di mais , farcite con un ripieno sostanzioso (che può variare, dalla carne di manzo al pollo, dalle verdure al formaggio), per poi essere arrotolate e fritte. Anche se in molti lo confondono con le flautas messicane - vedremo dopo le differenze - i taquitos sono originari degli Stati Uniti. Nello specifico la loro nascita è attribuita da molti a un proprietario di una fabbrica di tortillas nella zona di San Diego, di nome Ralph Pesqueria Jr. che li avrebbe inventati negli anni ‘40 del ‘900. In realtà pare che il Sig. Pesqueria si sia impropriamente attribuito l’invenzione del termine e di conseguenza del piatto poiché, già nel 1917, nel Glossario preliminare del Nuovo Messico spagnolo era apparso il termine taquito. E ancora, nel 1929 appare, in un libro per ragazzi che racconta storie di persone messicane residenti negli Stati Uniti, la definizione moderna di taquito, inteso dunque come tortilla arrotolata. In ogni caso, la popolarità di questo delizioso “cannolo” ripieno di ciccia si deve anche al fatto che è diventato in poco tempo una specialità dello street food. Ed è stato uno dei primi cibi della cucina Tex-Mex ad essere venduto surgelato. Tornando alla diatriba flautas o taquitos, le due preparazione possono essere difficili da distinguere, essendo di fatto molto simili. Entrambe sono tortillas ripiene e arrotolate che vengono fritte fino a renderle croccanti e poi condite. Ma ci sono alcuni dettagli che le distinguono l'una dall'altra. La differenza principale tra flautas e taquitos è nella lunghezza. Una flauta è molto lunga e sottile, ed è fatta con una tortilla di farina o di mais delle dimensioni di un burrito. I taquitos, invece, sono le versioni più corte, fatte con tortillas di mais o di farina di dimensioni molto più piccole, dato che spesso vengono serviti come antipasto. Proprio grazie alle loro piccole dimensioni i taquitos sono di forma regolare e vengono fritti in poco olio rispetto alle flautas, che spesso sono a forma di cono. A complicare ulteriormente le cose, tuttavia, molte bancarelle di street food, nel Messico centrale e meridionale, vendono un articolo molto simile che si chiama quesadilla fritta, di solito ripiena di formaggio, che però risulta molto meno croccante al morso.
tortilla di piccole dimensioni, di mais o di farina / 250 g di panna acida / un peperoncino verde / un peperoncino rosso / 300 g di Smoked Pulled Pork del Megastore / pomodorini ciliegini a piacere / salsa guacamole a piacere / un litro di olio di semi per friggere PREPARAZIONE 1. Prendete una pentola con acqua fredda, infilateci dentro il pulled pork ancora imbustato, portatelo a bollore e poi spegnete il fuoco. Aprite la busta e il pulled pork è già pronto. Tenetelo da parte. 2. Prendete le tortillas, la panna acida e il pulled pork: stendete un po’ di panna acida sul bordo, poi mettete il pulled pork sempre sul bordo, conditelo con qualche fettina di peperoncino e poi arrotolate la tortilla e chiudetela aiutandovi con altra panna acida. 3. Procedete così con tutte le tortillas, poi scaldate l’olio di semi e preparatevi a friggere: immergete nell’olio bollente i vostri deliziosi cannoli e girateli spesso in modo che non si brucino. Quando saranno ben dorati da tutti i lati, scolateli su carta assorbente. 4. Servite i taquitos caldi condendoli a piacere con peperoncini, pomodorini, salsa guacamole e panna acida.
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Ok, bando alle ciance e veniamo a noi: dovendoli riempire di ciccia, abbiamo subito pensato che i nostri taquitos sarebbero stati perfetti ripieni di pulled pork. Visto però il caldo asfissiante di questa giornate estive, non avevamo molta voglia di metterci a prepararlo, stando ore e ore a bdare un dispositivo fumante. Per fortuna il nostro Megastore ci viene sempre in soccorso: era questo il momento di utilizzare lo Smoked Pulled Pork già pronto. E così abbiamo fatto: facile, veloce, gustoso. Goduria infinita in poco tempo. Cosa volete di più dalla vita?
Ingredienti per 4 persone: 12
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BACON PEPPER TWIST Uno snack da urlo Il bacon, spesso, ha un destino difficile in Italia: spesso viene confuso con la nostrana pancetta, ugualmente buona ma del tutto diversa. Ancora una volta, prima di affrontare la nostra preparazione del mese, ci tocca fare un po’ di chiarezza. La pancetta, come dice il nome, viene ricavata dalla pancia del maiale: a meno che non ci siano altre indicazioni particolari, è quello l’unico taglio d’origine. Stop. Manco a dirlo, per il bacon non è così. Per produrre il bacon è utilizzata ANCHE la pancia del maiale, ma non solo: c’è il prosciutto, il collo e la schiena. Dipende. Questi tagli vengono messi insieme e successivamente trattati in salamoia ed essiccati. Dopodiché, il bacon viene cotto ed affumicato. Et voilà. Cambiano anche di consistenza e sapore. La pancetta ha un sapore generale più morbido, mentre il bacon è più aggressivo. La pancetta risulta, di consistenza, più cedevole. Il bacon è bello scrocchiarello, soprattutto dopo il passaggio in grill. Esiste una moltitudine di ricette da fare con il bacon. Una tra queste è quella dei bacon pepper twist.
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I bacon pepper twist sono lo snack di carne che avete sempre desiderato, ve lo garantiamo. Delle succose fette di bacon, condite ed arrotolate e poi fatte rosolare sul bbq. Adatte per essere servito come spezzafame o aperitivo alternativo… ovviamente, visto il tema di questo mese, la nota piccante non dovrà mancare.
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INGREDIENTI 4 persone
12 strisce di bacon spesse circa 1/2 dito l’una 2 cucchiai di zucchero di canna 1-2 cucchiai di rosmarino fresco tritato (in sostituzione: il vostro rub preferito) sale kosher e pepe nero (20 gr.). 1 rotolo di pasta sfoglia 1 tuorlo d’uovo 50 g di formaggio Cheddar grattugiato (in sostituzione, la stessa quantità di un mix di formaggi grattugiati a vostro piacere) 2/3 peperoncini jalapeño tritati 1-2 cucchiaini di pepe di Cajenna Olio extravergine d’oliva q.b.
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PREPARAZIONE 1. Preriscaldate il forno o il vostro dispositivo a 200°C. Rivestite una teglia con un foglio di carta alluminio e posizionate una griglia sopra, oppure posizionate una leccarda sotto la griglia in indiretta per raccogliere i grassi sciolti. Strofinate leggermente la griglia con extravergine d’oliva. 2. In una ciotola poco profonda, unite lo zucchero di canna, il rosmarino e un pizzico di sale e pepe, oppure un mix di Rub a vostra scelta. 3. Mettete il foglio di pasta sfoglia su un piano leggermente infarinato. Spennellate la superficie con il tuorlo d’uovo. Cospargete uniformemente circa 25 grammi di Cheddar grattugiato sulla sfoglia, quindi aggiungere il pepe di Caienna e peperoncino fresco tritato. Spolverate leggermente un mattarello con la farina e passare il mattarello sul formaggio, premendo delicatamente il formaggio nella pasta. Piegate la pasta a metà, quindi tagliare ciascuna in strisce larghe 12mm. Pizzicate le estremità per sigillare, quindi attorcigliate delicatamente ogni striscia più volte per racchiudere il formaggio. C’è il rischio che parte del formaggio cadrà, ma non vi preoccupate: dovreste averne messo abbastanza.
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4. Prendete un pezzo di pancetta e avvolgetelo intorno alla pasta ritorta. Ripetere con i restanti Pepper bacon twists. Passate i bastoncini sopra
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il mix di zucchero di canna, mescolando per ricoprire, posizionate i twists sulla teglia. 5. Cuocere fino a quando saranno belli dorati e croccanti, ruotandoli di tanto in tanto. 6. A questo punto, non vi resta che servirli. Belli caldi caldi vi faranno impazzire, ma saranno gustosissimi anche tiepidi o a temperatura ambiente. Si tratta di una preparazione jolly: infatti, potete tranquillamente prepararli in anticipo. Una soluzione – se dovete prepararli, ma non cuocerli – sarebbe quella di far raffreddare i bastoncini non cotti in frigorifero su delle teglie con carta forno finché non si rassodano. Rimuoveteli dalle teglie e conservateli in un sacchetto di plastica richiudibile nel congelatore per un massimo di 1 mese. Per cuocerli, adagiateli sulla griglia e cuoceteli come indicato Qualche consiglio utile: lo spessore del bacon che si compra varia da marca a marca. L’ideale è prendere un pezzo di pancia di maiale scotennata e dopo averlo marinato e affumicato a freddo o a bassa temperatura. Tagliate le fette con una bella lama, oppure con una affettatrice valida. Se vi avanzano delle strisce di bacon, arrotolatele su se stesse, cospargendole di rub. Con il dispositivo a 200°C, dovrebbero cuocere in una ventina di minuti. Una nota fruttata nel dispositivo non vi dispiacerà.
PATATE... O BATATE? Dolci e un po’ piccanti Se siete convinti che esista un solo tipo di patate, vi sbagliate di grosso. Di tanto in tanto – a dire il vero, sempre più spesso negli ultimi anni – nei reparti frutta e verdura di molti supermercati ben forniti fanno capolino dei tuberi diversi, di un colore insolito , molto accattivanti nella loro diversità. Sono patate, sì, ma patate americane. Ci troviamo di fronte alle batate – eh no, cari ragazzi, non è un errore di battitura. Se non volete chiamarla batata, va benissimo anche patata dolce, riconducendoci al suo gusto particolarmente zuccherino rispetto agli altri tuberi da noi conosciuti. Beh, che sapore hanno le batate, ci chiederete voi? Sostanzialmente, sono dolci; la consistenza è quella dei classici tuberi che conosciamo da sempre, con un’aggiunta però di un sapore riconducibile alla zucca. Questo accento decisamente dolce le rende perfettamente versatili in cucina, adatte a mille e più preparazioni. La patata dolce (ops, la batata!) ha un oceano di potenzialità. Appartiene alla famiglia delle Solanaceae, cioè quella dei pomodori, delle melanzane e dei peperoni. Con questi ortaggi, condivide le notevoli proprietà antiossidanti, di acido folico (importantissimo per le donne incinte), garantisce un apporto di carboidrati per i diabetici, ha vitamine e sali minerali in quantità tali da essere definita lo “starter” del sistema immunitario. Originaria del Sud America, la batata è diffusissima in Giappone (nella prefettura di Kagawa, le popolazioni locali la mangiano cruda e praticamente in abbinamento a tutto). Ma in tutto il mondo, la batata gode di ottima popolarità, declinandosi bene nelle ricette locali, Italia compresa.
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E proprio con una ricetta italiana abbiamo voluto omaggiare la batata: l’accompagneremo ai peperoncini verdi, chiamati anche friggitelli, quelli diffusi nella bella stagione e saporitissimi appena saltati in padella. Per rendere onore al Magazine di Agosto, ci sarà la nota piccante, costituita dai nostri immancabili jalapeño.
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Ingredienti per 4 persone: 4 patate dolci
(circa 1,3 kg) / 10 peperoncini verdi (chiamati anche friggitelli) / 2 peperoncini jalapeño / paprika q.b. / sale q.b. / olio extravergine d’oliva q.b.
PREPARAZIONE 1. Settate il vostro dispositivo per una cottura indiretta, stabilizzando la temperatura a 170°C/200°C circa. 2. Lavate per bene le batate, tagliatele a cubotti da 4/5 cm; non c’è bisogno di essere troppo precisi. Posizionate i cubotti in una casseruola e ricopriteli di acqua, mettetele a cuocere a fuoco medio fino a portarle ad ebollizione. Da questo momento, calcolate 5 minuti per poi iniziare a testare la consistenza con uno stecchino appuntito. La consistenza giusta non dovrà essere troppo cedevole, lo stecchino non dovrà trapassare i cubotti. 3. Scolate i cubotti e posizionateli su una teglia. 4. Tagliare a fettine i peperoncini verdi di fiume i e i peperoncini jalapeno; successivamente, unirli alle patate, condire con sale e pepe e abbondante olio, infine una spolverata di paprika piccante o affumicata, dipende da voi. 5. Nel vostro dispositivo già settato, posizionate la vaschetta in indiretta e affumicate i primi 10/15 minuti con un legno fruttato. 6. Un’oretta di questa operazione è più che sufficiente, ma l’obiettivo è quello di far rilasciare ai peperoncini le loro essenze nell’olio e di conseguenza irrorare le patate dolci di note piccanti.
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Le patate dolci piccanti con peperoncini verdi sono perfette come contorno, magari accompagnate da una salsina con base di formaggio.
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SEI PROPRIO UN
BUDINO! Come nobilitare l’escluso tra i dessert. Nella decade che va tra il 2000 e il 2010 (ma sommiamo anche qualche annetto dopo, vah), la nostra vita è stata affollata di vari medical drama, tutti eredi del ben famoso E.R. – Medici in prima linea. Al di là dei vari intrecci amorosi, i medical drama ci insegnano tutti le stessa cose: il camice dei medici non si sgualcisce mai neanche dopo un turno di 120 ore, che non è mai lupus, che anche un banale singhiozzo può trascinarci nella bara e che un bruciore di stomaco potrebbe preannunciare una dissecazione aortica o un’altra patologia mortale ricca di atroci sofferenze. Ma i medical drama ci hanno soprattutto insegnato che l’ospedale è la fonte e il ritrovo di un dolce che difficilmente sceglieremmo altrove: stiamo parlando del budino, che in questi sceneggiati diventa la fonte primaria di sostentamento dei giovani specializzandi squattrinati. Scherzi a parte: il budino, sin dai suoi esordi, è stato considerato un cibo ricostituente adatto ai malati, ai bambini e alle persone in là con gli anni (magari con difficoltà di masticazione). Questi utilizzi erano soprattutto dettati dalle alte proprietà nutritive e dalla poca tenacia al morso. Di fatto, questa vita "in ospedale" e anche... "medicale", ha tolto al budino la sua dignità di dessert, a conclusione di un fine cena tra amici, decretando che fosse un dolce da mangiare direttamente nel vasetto di platica in mensa, in ospedale o in solitudine tra le pareti domestiche.
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In realta, come vedrete tra poco, non è esattamente così. Demerito anche, purtroppo, della facilità di reperimento del budino in polvere, da comprare al supermercato, che agli occhi dei più è sembrata una forzatura “artificiale”.
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Cos’è un budino, nella sua essenza? Il budino è un dolce al cucchiaio morbido ma allo stesso tempo sostanzioso realizzato con latte, zucchero, leganti (farinacei, uova e colla di pesce) e vari ed eventuali altri ingredienti per aromatizzarlo. A seconda della ricetta utilizzata, ha una sola cottura sul fuoco per poi passare subito alla fase di raffreddamento suddiviso in formine; in alternativa, ha due cotture prima sul piano cottura, poi in forno a bagnomaria all’interno di stampi ed infine in frigo. Quindi, contrariamente al pensiero comune che identifica con la parola budino solo tre/ quattro versioni (al cacao, alla vaniglia, al latte e al riso), esistono in realtà moltissime altre varianti, chiamate con molti nomi differenti. Infatti, a questa categoria appartengono il creme caramel, la bavarese, il flan, il pudding, la panna cotta, la crema catalana. Ci pensate? Questi dessert – dai nomi molto altisonanti, c’è da dire – hanno tutt’altra dignità rispetto al bistrattato budino. Vengono serviti in graziosi piatti di porcellana e finemente presentati, eppure appartengono alla medesima famiglia di dolci. Le creme dolci hanno una storia antichissima e ricca di trasformazioni. La prima testimonianza di una crema del genere a base di uova, zucchero e latte ci viene data dall’imprescindibile Marco Gavio Apicio bel suo De Coquinaria. Qui, viene descritta la preparazione di un budino di latte, uova, miele e pepe. Le corti medievali, amanti dei ricostituenti, eleggono il budino a loro dolce preferito. Testimonianza di ciò, il De Honesta Voluptate dell'umanista e gastronomo Bartolomeo Sacchi detto Il Platina. Questo tomo fu il primo ricettario diffuso a mezzo stampa in Italia, in lingua latina.
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Quando si è passati a chiamare queste preparazioni “budino”? Ritroviamo lo stesso termine in due preparazioni salate, le boudin blanc (salsiccia a pasta molto fine e morbidissima) e le boudin noir (sanguinaccio). Budino deriva, quindi, dal francese boudin che a sua volta è l'evoluzione della parola latina botellinus, ovvero budello di salsiccia. Molti sostengono che la scelta sia derivata con molta probabilità dalla somiglianza nella consistenza. Sicuramente il budino è riuscito a sopravvivere allo scorrere del tempo grazie alla sua semplicità, e alla sua grande capacità di adattamento alle esigenze del tempo come testimoniano le molte varianti: oggi esistono versioni vegane e vegetariane realizzate senza uova con latte di cocco, mandorla o soia. Qui vi proponiamo una delle ricette più classiche: il budino al latte.
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Per renderlo ancora più goloso lo abbiamo arricchito con succose albicocche e mandorle tostate. La frutta renderà ancora più fresco il sapore del dolce, perché l’acidità del frutto – che smorza la dolcezza del latte - esalterà il connubio di sapori mantenendoli distinti. Al contempo, la masticabilità apportata dalle mandorle croccanti renderà il dolce ancor più gradevole al palato.
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Inoltre, visto che soprattutto nell'arte dolciaria anche l'occhio vuole la sua parte, il bianco della crema rassodata ravvivato dall'arancio brillante dell'albicocca vi farà venire l'acquolina in bocca ancor prima dell'assaggio.
PREPARAZIONE 1. Lavare sotto l’acqua corrente le albicocche, sbucciatele, privatele dei noccioli e tagliatele a dadini regolari. 2. Accendete il forno a 180°C in modalità statica 3. Disponete su una teglia foderata con carta forno le mandorle e infornate avendo cura di girarle almeno una volta o due. Quando sono belle dorate toglietele dalla fonte di calore e lasciate raffreddare. Una volta fredde frantumatele grossolanamente. 4. In un pentolino versate il latte, lo zucchero, la fecola di patate (ogni volta che aggiungete un elemento, mescolate bene con una frusta per evitare la formazione di grumi), e la bacca di vaniglia 5. Fate cuocere la miscela su un fuoco medio basso avendo cur di mescolare costantemente, arrivato al bollore togliete la bacca lasciate andare il composto ancora per due minuti perchè si addensi continuando a girare il tutto energicamente. Dopodiche spegnete il fuoco e lasciate intiepidire
INGREDIENTI
4/6 budini (in base alla dimensione degli stampi)
6. Prendete gli stampini, versate nell'ordine un po' di mandorle tritate, la crema poi inserite la frutta, ancora delle mandorle e ricoprite il tutto con il composto.
200 g di mandorle pelate 250 g di albicocche private dei noccioli 500 ml di latte intero fresco 130 g di zucchero a velo una bacca di vaniglia Bourbon
8. Sformateli poco prima di servire. 9. Se volete potete decorarli con una o due fettine di albicocca e foglioline di menta.
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40 g di fecola di patate
7. Riponete in frigo per almeno 8 ore.
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Le salse N piccanti Porfolio Gastronomico/01 a cura di Nunzia Clemente
on è del tutto scontato il perché ci piacciano così tanto le salse piccanti. Pensateci, ne esistono davvero di ogni tipologia, con una base comune: parlo della discreta quantità di capsicina, che è la sostanza contenuta nel peperoncino, e che provoca la famigerata sensazione che molti amano e altrettanti fuggono. Le popolazioni del mondo che beneficiano di climi mediterranei, umidi e tendenzialmente caldi e/o tropicali, vedono nella loro dieta la presenza del peperoncino; nome tecnico di questa pianta, Capsicum (e relative nomenclature particolari). Di conseguenza, gli abitanti di questi posti sono stati capaci di inventarsi una gran quantità di intingoli che vedono come protagonista il frutto piccante. Certo, non è proprio da tutti – e tutti i giorni! – consumare peperoncino e avere vasi sanguigni dilatati, lacrimazione, talvolta battito accelerato. Eppure è un ottimo cardioprotettore, anticolesterolo e migliora l’ossigenazione del sangue. Insomma: a meno che non siate divoratori di peperoncino, i popoli del mondo hanno imparato a mettere il peperoncino poco poco nelle ricette per avere quanti più benefici possibili. Insomma, creando delle salse con ANCHE il peperoncino. In questo modo, gli esseri umani - che davvero, stupidi non siamo - ottengono un doppio beneficio: il peperoncino c'è comunque, ma non in quantità allarmanti. Sembra che non riusciamo a farne a meno? Pare vero, sì.
Paul Rozin e i suoi studi piccanti Lo psicologo Paul Rozin, esperto in comportamento e storia dell’alimentazione, spiega in maniera molto semplice perché, secondo lui, gli esseri umani di qualunque latitudine amano il cibo piccante. “Agli esseri umani piace godere delle situazioni in cui il loro corpo manda segnali d’allarme, mentre sanno che in realtà è tutto ok.”
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Gli scienziati dell’alimentazione hanno iniziato a studiare il rapporto tra esseri umani e cibi piccanti sin dagli anni Settanta, basandosi sulle teorie evoluzionistiche. Per farla breve, ha giocato un ruolo fondamentale la tendenza alla sperimentazione di nuovi cibi, a partire dai primati. Gli umani sono esseri onnivori: quindi, si mangia di tutto un po’.
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Una “apertura mentale” del genere ha portato l’evoluzione a farci trovare gradevoli anche cibi che, convenzionalmente, non lo sono. Tipo il peperoncino, la base delle nostre salse piccanti. Rozin viaggiò a lungo in Messico, alla scoperta delle origini dell’amore per il peperoncino e i cibi piccanti. Rozin considerò che, nel cervello umano, le aree che si occupano del piacere e del
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dolore si trovano molto vicine tra di loro. Quando entrano in funzione, si attivano parti del cervello chiamate della coscienza superiore. Anche queste, sono molto vicine tra loro. Lo studioso pervenne, quindi, alla conclusione che l’amore per il cibo piccante sia semplicemente il frutto dell’interazione e dello scambio di informazioni intenso e continuo tra queste aree del cervello. La sensazione di piacere si mischia con quella del pericolo in un ping pong intenso e – solitamente! – molto rapido. A questo, si accompagna la consapevolezza (data dall’esperienza) che la sensazione “pericolosa” andrà via molto presto. So cosa state pensando: un’esperienza masochista. Ovviamente, ci sono diversi gradi di tolleranza del piccante, con persone che traggono piacere-dolore da cibi che, per altre persone, sono soltanto sgradevoli. Va da sé che ingerire un Carolina Reaper, attualmente il peperoncino più piccante del mondo, provocherà un mare di impulsi spiacevoli.
Perchè proprio le salse piccanti? Insomma: piccante sì, ma nelle dosi giuste. Per questo, le salse – che solitamente, prevedono un utilizzo delle stesse limitato a qualche cucchiaino per ogni porzione al massimo – “soddisfano” in qualche modo il nostro bisogno di piccante ed ecco uno dei motivi per cui esistono così tante salse piccanti. E poi, diciamoci la verità: nel corso dei secoli le salse piccanti hanno avuto molteplici ruoli, come quello di insaporire cibi un po’ piatti, oppure cibi di scarsa qualità. Ancora, alcune salse piccanti sono fatte in maniera tale da fungere come conservante ante litteram, insieme ad altri ingredienti come l’olio. Oltre che per gli ingredienti caratterizzanti utilizzati, le salse piccanti differiscono (ovviamente!) per il grado di piccantezza del peperoncino utilizzato. Il grado di piccantezza dei peperoncini viene indicato con la scala di Scoville. Mediamente, in una salsa piccante, ci vanno peperoncini freschi (o secchi, o ancora reidratati a dovere), dal le tonalità fruttate ed aromatiche, solitamente non troppo forti (ma con molte e documentate eccezioni). Insomma, il peperoncino spesso è il nerbo portante della preparazione ma non dovrebbe coprire altri ingredienti che ne devono amplificare il gusto: spezie in primis, spesso cumino, coriandolo, origano.
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Ogni Paese del mondo che ha il peperoncino tra le coltivazioni “tipiche” ha una qualche salsa che lo vede come co-protagonista di tutto rispetto.
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Facciamo un po’ il giro del mondo conoscendo le salse piccanti di svariati angoli del globo, vi va?
SALSA MESSICANA
MESSICO Messico, altrimenti detto Regno del peperoncino jalapeño; abbiamo già avuto modo di parlare del magico frutto della città di Jalapa, scoperto dai conquistadores, amato per la sua rotondità e per la sua piccantezza non eccessiva. Così gradevole che è adattissimo ad essere farcito ed è l’ingrediente principale della salsa messicana. Solitamente, è a base di pomodori, peperoni e pepe nero. Viene chiamata anche salsa ranchera (non dobbiamo spiegarvi i motivi, vero?) e viene spesso proposta come condimento di nachos e tortillas. Ma potremo dire anche che è davvero – ma davvero – onnipresente. Una variante della salsa messicana è la salsa al peperoncino chipotle, che sarebbero i nostri Jalapeño però preventivamente affumicati.
I peperoncini chipotle sono così più carnosi e consistenti. Questa salsa si prepara con chipotle ammorbiditi in acqua, con aggiunta di passata di pomodoro ed un ulteriore intingolo chiamato “adobo”, fatto con peperoni crudi, aceto, aglio, origano e sale. La salsa ottenuta ha un sapore decisamente forte e viene utilizzata per marinare e condire preparazioni a base di carne.
SALSA ACHAAR
INDIA Meglio essere chiari: la salsa achaar, con origine nel Sud Est Asiatico, può essere sia dolce che piccante. Noi vi riportiamo la versione piccante. La salsa achaar è una salsa di consistenza particolare, una sorta di mousse oleosa a base di sottaceti. Il mix di frutta e verdura viene messo sott’olio, con aggiunta di spezie varie. Questa salsa particolare non prevede l’utilizzo di zuccheri: infatti, tutti quelli necessari provengono dalla frutta utilizzata. Si usa in accompagnamento a piatti di carne e verdure ma, non di rado, viene anche utilizzata per la conservazione degli stessi per periodi medi o lunghi.
SALSA AJI
Alla base c’è il peperoncino omonimo e molte altre spezie che conferiscono una certa freschezza, tra le quali il coriandolo. Presenti anche pomodoro, cipolla e succo di limone. Si utilizza per condire salsicce e piatti a base di carne.
SALSA HARISSA
MAGHREB E TUNISIA (E TUTTO IL MONDO MEDIORIENTALE) Chiunque abbia frequentato almeno una volta un ristorante mediorientale si sarà imbattuto nella versione locale della salsa harissa, tanto famosa quanto apprezzata. Possiamo
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PERÙ Il Perù è il produttore di peperoncini più antico del Sud America: di un bellissimo verde brillante, sono inconfondibili. Le popolazioni
indigene del Perù commercializzavano ed utilizzavano nelle loro ricette questi frutti ben prima dell’avvento degli europei, che provvidero ad inglobarne nei loro commerci le produzioni e a portarli nel Vecchio Continente. La salsa aji è la somma della conoscenza del “piccante” peruviano.
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collocarne i natali in Tunisia ed è una salsa densissima, simile ad un concentrato di pomodoro come consistenza, a base di peperoncino fresco, aglio ed olio d’oliva. La consistenza pastosa vi darà l’idea di quanto peperoncino ci sia all’interno: praticamente l’80% del totale. Presenti anche coriandolo, cumino e carvi. L’harissa (il cui nome, tradotto, è qualcosa di simile a “pesto”, vista la consistenza degli ingredienti) viene utilizzata sia come ingrediente base di alcune preparazioni, sia come accompagnamento a cous cous, kebap e minestre varie.
CHIMICHURRI
ARGENTINA Ci spostiamo in uno degli Stati più grandi del mondo, l’Argentina: clima e popolazioni variegate, ma accomunati tutti dall’amore per il piccante. Si utilizza ad ogni latitudine del
Sudamerica, fino a d a r r i va r e i n Nicaragua. La salsa chimichurri è composta da peperoncino, prezzemolo e d aglio, oli vegetali va r i e d a c e t o bianco. Una volta fatta la base, è possibile aromatizzare il chimichurri come più aggrada: via lib era alle spezie come paprica, origano, cumino, coriandolo, limone e alloro. Il colore verde è dato, ovviamente, dall’abbondante presenza del prezzemolo. La salsa chimichurri di sicuro è molto conosciuta dai griller amanti delle grigliate tipiche dell’Argentina, visto che essa è uno dei condimenti tipici dell’asado.
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PICCANTINO CALABRESE
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ITALIA La silenziosa Calabria, produttrice instancabile di peperoncini (qualcuno ha forse detto ‘nduja?) tiene banco con il suo intingolo chiamato proprio Piccantino c a l a b r e s e , commercialmente conosciuto anche come Bomba calabrese. Il Piccantino, dal nome eloquente, è un intingolo
decisamente forte a base di pomodoro, peperoncino, prezzemolo, aglio ed olio di semi. La consistenza del Piccantino calabrese è densa, così densa da poter sembrare quasi solida. La si utilizza in Italia (e nel mondo!) più o meno per condire qualsiasi cosa.
GOCHUJANG
COREA Le salse fermentate sono un must della cucina orientale, in special modo quella giapponese e coreana. Da qualche anno a questa parte, la cucina coreana è uscita fuori dai suoi confini e si sta conquistando la sua fetta di appassionati in giro per il globo grazie a sapori e preparazioni molto peculiari. Il gochujang, la salsa fermentata a base di riso glutinoso, fagioli di soia e peperoncino, sta avendo un ottimo successo tra gli appassionati e non. Si ipotizza che nell’antichità, al posto del peperoncino, fosse utilizzato il
pepe del Sichuan. Ad oggi, solitamente, si utilizza per insaporire dei sostanziosi stufati coreani, per marinare la carne e per le insalate. Si possono ottenere delle varianti, a seconda degli ingredienti utilizzati per insaporire il gochujang. Con aceto, zucchero e semi di sesamo si ottiene la chogochujan; mischiando la gochujang con pasta di soia, cipolle tritate e altri ingredienti piccanti, si ottiene la ssamjang. Queste varianti sono molto utilizzate come dressing per variopinte insalate.
SALSA SRIRACHA
THAILANDIA Siamo ancora in continente asiatico, per la precisione in Thailandia. Anche qui, la
è ampiamente rispettata e praticata grazie alla salsa sriracha, un intingolo locale utilizzato per condire essenzialmente il pesce, ma anche noodles ed involtini primavera. Questa salsa è a base di peperoncini, aceto di vino, aglio, zucchero e sale. Si tratta di una salsa molto conosciuta fuori dai confini thailandesi, tanto che negli Stati Uniti viene addirittura commercializzata su larga scala, in tubetti. Negli States, la salsa sriracha prodotta per il commercio prende il nome di “rooster sauce”. Anche importantissime catene di fast food hanno inserito nei loro menu pietanze accompagnate da questa salsina thailandese.
SCOTCH BONNET
peperoncino tipico dei Caraibi, protagonista di una “hot sauce” che è praticamente onnipresente come accompagnamento dei piatti caraibici. Lo Scotch Bonnet è praticamente una sorta di peperoncino habanero, la cui coltivazione è molto diffusa. Si tratta di una salsa molto – ma davvero MOLTO – piccante: infatti, si calcola che una porzione di Scotch Bonnet Hot Sauce può essere anche 40 volte più piccante di una banale salsa messicana. La Scotch Bonnet Hot Sauce è fatta con l’omonimo peperoncino, cipolla e carote. Dove la potete mettere? Praticamente ovunque, ma c’è una predilezione innata per la carne essiccata, magari da intingere.
CARAIBI (STATI UNITI)
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Dal Salento con ardore
Cunserva mara Porfolio Gastronomico/02 a cura di Virgilio Brunetti
“F
rate focu” è il nomignolo che in alcuni comuni del basso Salento hanno affibbiato ad una crema di pomodori, peperoni e peperoncini piccanti. La maggior parte dei salentini la conosce come Cunserva mara ovvero conserva amara. Amara, per i salentini, non indica esattamente il sapore amaro bensì il piccante, che a ben vedere non è neanche un sapore ma una sensazione chemestetica indotta dagli alcaloidi del peperoncino, che simulano su specifici recettori nervosi una sensazione di dolore e calore soprattutto sulle mucose della bocca e degli occhi.
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La crema piccante Salentina di cui parliamo è un prodotto di origine seicentesca: pomodori e peperoni sono piante tropicali e sub tropicali provenienti dalle Americhe e lentamente sono state introdotte come alimenti base nella cultura gastronomica mediterranea.
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Peperoni, peperoncini e pomodori inoltre sono solanacee, piante notoriamente velenose al pari del tabacco, belladonna e stramonio. Nella “cunserva mara” l’unico ingrediente nativo del bacino del mediterraneo è l’olio d’oliva. Secondo il protocollo dei prodotti tipici di Puglia le percentuali tra peperone e pomodoro devono essere rispettivamente 70% e 30%, ma non v'è proferito verbo sulla divisione tra pipe russu (peperone rosso dolce) e piparrussu (peperoncino), due ingredienti simili solo nel nome: il primo è dolce come una carota mentre il secondo arriva tranquillamente al centinaio di migliaia di Scoville, soprattutto se maturato al sole del Salento. Diciamo che una proporzione 70% 30% tra dolce e piccante genera una salsa alla quale tutti si possono approcciare. Andando sul 50% - 50% comincia a diventare la sua variante più minacciosa, detta “Frate Focu”.
Vi riporto di seguito la preparazione della cunserva mara così come la riporta il mio amico professore Pino De Luca, uomo enciclopedico e autentico gourmet. Il materiale da utilizzare per la cunserva mara è dunque costituito da peperoni rossi dolci, peperoncini rossi piccanti e pomodorini fiaschetti. Tutti questi ingredienti devono essere ben lavati, privati del picciolo e dei semi e sminuzzati. Dovranno essere posti quindi in una grande pentola, allungati con un fondo di acqua fresca e una manciata di sale, coperti per bene e lasciati a bollire a fuoco lentissimo per 4/5 ore, fino a quando i pomodori non si saranno spappolati completamente. Quando la marmellata è bella cremosa è necessario passarla con una macchinetta per fare la salsa e successivamente dovrà essere posta in ampie terrine di terracotta per alimenti. É necessario che queste ultime siano molto ampie e poco profonde poiché vanno esposte al sole, protette da zanzariere a trama sottilissima per evitare il contatto con gli insetti e la polvere. L'esposizione avverrà tutti i giorni dall'alba al tramonto fino a quando la “cunserva Mara” non assumerà un colore mogano scuro e sarà abbastanza dura. Quando la salsa si è essiccata la si pone in un vaso profondo (limmu o limbu) sempre di creta vetrificata, la si copre con un telo di lino e la si lascia al fresco per due o tre giorni; la cunserva si ammorbidirà assumendo una certa pastosità. È tempo della “spatolatura”: poco alla volta si aggiunge olio extra vergine di oliva e con una “cucchiara” di grandi dimensioni si mescola l'olio alla cunserva. In dieci-dodici giorni avremo una crema densa , molto cremosa e spalmabile che può essere trasferita in vasetti di vetro sterili e coperta con un filo di olio extravergine. La cunserva mara sarà compagna inimitabile di friselline, sagne 'ncannulate e, fidatevi, di arrosti alla brace e formaggi semistagionati. La Cunserva Mara e Frate Focu (la versione hot) sono festeggiati appositamente e rispettivamente nei comuni salentini Spongano e Scorrano.
Partiamo dalla premessa che la cunserva mara non è una banale cremina piccante a base di pomodoro ma è un autentico concentrato di umami. I lunghi passaggi produttivi, la lunga soleggiatura della crema, contribuiscono a concentrare in maniera straordinaria i sapori e gli aromi dei pochi ingredienti base. Il licopene (carotenoide antiossidante) presente nei peperoni e nel pomodoro impedisce che si instaurino processi di ossidazione mentre l’acidità e la sapidità impediscono alcuni pericolosi processi fermentativi soprattutto nelle prime fase del soleggiamento. La produzione della cunserva non è scevra da problemi in quanto affidata alle condizioni meteo che spesso possono essere sfavorevoli, quindi saltuariamente è necessario aggiungere dei conservanti. Gabriele ha avuto la geniale idea di aggiungere una variazione alla tradizionale Cunserva: tutti gli ingredienti prima di essere assemblati in una crema non vengono direttamente bolliti: prima vengono puliti, tagliati e sistemati in grandi teglie di ferro ed esposti al calore dolce del forno di pietra alimentato con legna d’olivo. La temperatura del forno viene mantenuta lungamente per ore intorno ai 100°C in un’atmosfera secca e fumosa. I pomodori e i peperoni si disidratano lentamente acquisendo un lieve aroma di fumo e solo successivamente vengono stufati e trasformati in una salsa densa grazie alla macchinetta per la salsa, quella che estrae semi e bucce. La crema così ottenuta sarà disidratata lentamente al sole del Salento ma sarà già più ricca e concentrata. L’olio d’oliva anche in questo caso viene aggiunto durante la fase di spatolatura in modo da ottenere una fine emulsione che rende la crema adatta alla lunga conservazione. Per conservare questa prelibatezza, l'olio Sicilia Selezione Gianfranco Lo Cascio, presente sul nostro Megastore, è quanto di meglio si possa avere. Il risultato è una crema piccante, affumicata e super umami, un prodotto da capriole sulla sedia (cit.).
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Da salentino e da uomo di scienza non posso esimermi dal descrivervi una variante studiata e sperimentata dal mio collega e amico Gabriele Maiorano, biologo appassionato di cucina,
originario di un piccolo paesino chiamato Cerfignano a pochi passi da Santa Cesaria Terme.
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L'Arte Bianca a cura di Alessandro Trezzi illustrazioni di Ozzy Bellesi
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a z piz
S
apreste dirmi qual è la pizza più iconica e rappresentativa al mondo? No, non è la napoletana, e nemmeno la generica margherita. Basta guardare le immagini raffigurative, le emoticon sui social o qualsiasi altro strumento di diffusione mondiale per comprendere che in realtà, ad oggi, la pizza viene rappresentata in lungo e in largo con il Pepperoni. Tanto che la pizza con tale ingrediente viene chiamata proprio Pizza Pepperoni. Se il nome di questo salame piccante (perché a quello possiamo ricondurre IL Pepperoni) è stato associato al sounding di "pepper" , la controproposta in lingua italiana è stata a dir poco fallimentare. Quanti di noi, nelle approssimative sceneggiature tradotte dall'inglese dei film anni Ottanta e Novanta, hanno sentito ""hey, di chi è la pizza ai peperoni?" Almeno tutti quelli che ad oggi hanno dai trent'anni a salire. La pizza pepperoni è la pizza delle Tartarughe Ninja, nonché una delle più amate negli Stati Uniti. Così tanto amata che occupa il terzo posto tra quelle più ordinate in tutto il Paese, con una produzione più alta di quella dei salami italiani, per un totale di 113 milioni di kg annui. Tra i vari stili di pizza diffusi negli States, la pizza pepperoni più celebre ed evocativa è sicuramente la Pepperoni New York Style, una tonda di dimensioni generose e più spessa delle nostre, dalla crosta estremamente croccante e carica nella farcitura. Il cliente la sceglie al banco (come avviene nei nostri panifici o pizzerie al taglio) e viene servita in fette riscaldate, che con il rinvenimento recuperano friabilità e fragranza; le più consumante sono senza ombra di dubbio la margherita con origano e la nostra pepperoni. Il salame viene tagliato finemente e posto sopra un abbondante strato di mozzarella; complice la cottura più prolungata (nell’ordine dei 3-4 minuti circa) rispetto alla napoletana, il salame si arriccia, divenendo croccante alle estremità e concentrando la saporitissima colata di grasso nella zona centrale.
Ci dimentichiamo, forse, che la pizza deriva dall'emigrazione dei compatrioti? Sì, ciò non toglie che ad oggi, negli USA, si siano sviluppati una decina di stili famosi (più altre sotto-categorie), ben più delle alternative italiane ed ognuna con la propria identità ben precisa: New York, New Jersey, New Haven, Detroit, St. Louis, Chicago, California ed infine l’amatissima Sicilian. Ed è proprio su quest’ultima tipologia che ci focalizzeremo oggi per la nostra Pepperoni Pizza.
Sicilian Style Pizza Vi ricordate il nostro amato sfincione palermitano, di cui abbiamo parlato qualche numero fa? Ebbene, oltre ad aver dato vita alla pizza al trancio alla milanese, venne esportato nel secolo scorso anche in America, qui rivisitato come Sicilian e diffusosi specialmente a New York, città oggi molto fornita di tale tipologia. Si tratta di una pizza in teglia rettangolare, molto morbida e con la crosta estremamente croccante e dorata, realizzata con l’impasto e il metodo tipico della focaccia; rispetto allo sfincione tuttavia, l’idratazione è più alta, al fine da aprire la mollica maggiormente ed agevolare il distacco della base dalla mollica ed aumentare l’effetto “crunch” della parte inferiore. Un'altra particolarità, usatissima negli States, risiede nell’ordine degli ingredienti per la guarnizione della pizza: viene spesso posizionata prima la mozzarella e poi una salsa cotta di pomodoro, in modo da insaporire l’impasto e al tempo stesso rendere sempre più evidente la grande friabilità della base, una caratteristica amatissima in USA. Fondamentalmente, non ci sono mezze misure: la Sicilian perfetta deve essere estremamente croccante e intensamente aromatica. Vi ho incuriosito? Perfetto, vediamo insieme come si fa.
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Chi dice che la pizza non può essere considerata tradizione statunitense, è vittima del classico campanilismo italiano da quattro soldi, che ad oggi è tremendamente retrogrado e di pessimo gusto. Una tradizione nient’altro è che, per definizione, “il
complesso delle memorie, notizie e testimonianze trasmesse da una generazione all'altra”. E se la pizza viene ampiamente consumata, riprodotta e adattata in America sin dal 1905 (anno in cui fu aperta la prima pizzeria a Little Italy, New York), come può non essere considerata tradizione?
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L'impasto
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Come anticipato, il processo della Sicilian ha molte similitudini con quello della focaccia e ancor di più dello sfincione; per avere un’apertura maggiore tuttavia, lavoreremo con un quantitativo di acqua più alto, e avremo quindi bisogno di una farina in grado di reggere adeguatamente l’assorbimento minimo e la maturazione accelerata dall’ambiente più umido.
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Qui niente fronzoli: lavoreremo con una 00 o 0, in modo da non avere rogne con la maglia glutinica a causa della crusca. Dal momento che la farcitura risulterà bella carica di sapore, avere caratteristiche aromatiche anche nell’impasto ci interessa relativamente poco, in quanto verrebbero in ogni caso ampiamente sovrastate. Fondamentale tuttavia che il P/L non risulti troppo
elevato, o complice l’idratazione più elevata faticheremo a stendere il panetto arrivando a fine teglia.
Il riposo Come per ogni focaccia che si rispetti, l’equilibrio delle fasi di riposo riveste un ruolo importantissimo, ancor più dell’impastamento stesso. I nostri panetti dovranno arrivare alla stesura con la giusta estensibilità, al fine da esser stesi agilmente in teglia senza problemi, e agevolando la lievitazione finale che conferirà le giuste caratteristiche alla struttura della nostra Sicilian. Poca puntata, lungo appretto e fase finale in teglia: sono queste le caratteristiche di una focaccia perfetta. Questa volta lasceremo da parte anche il mattarello,
in quanto un contributo maggiore di aria ci darà una mano ad aprire maggiormente la mollica ed enfatizzare l’effetto croccante tanto desiderato.
La farcitura Tenete ben presente una cosa: il 90% delle pizze Americane non ha bordo. In realtà, a parte la napoletana di nuova concezione, quasi nessuna tipologia ne ha in abbondanza; la pratica di dover necessariamente lasciare 3-4 cm di crostone è una smania esagerata, che deriva dalla diffusione incontrollata della napoletana, spesso erroneamente considerata come l’unica vera pizza al mondo. Dovete sempre considerare in realtà che, specialmente le pizze in teglia, nascono per essere tagliate in tranci e servite al banco; in casa, per altro, le condividerete con amici e parenti, dal momento che le dimensioni sono generose. Qual è quindi il senso di eliminare una porzione importante di condimento, se non quella di privare il povero malcapitato del godimento della farcitura? La verità è questa, chi si becca il bordo della teglia, piange. La farcitura di una Sicilian segue i dettami della pizza al trancio alla milanese, e prima ancora dello sfincione palermitano: farcitura corposa, abbondante ma ben distribuita e uniforme.
Faremo quindi un trito di mozzarella, di primissima qualità ma asciutta, e la posizioneremo sull’impasto dopo la lievitazione in teglia, non prima di aver cosparso il tutto con pepe e origano, che protetti dal primo strato eviteranno di bruciare; prepareremo quindi una salsa di pomodoro, e la posizioneremo a strisce diagonali sullo strato di formaggio. Infine, le nostre fette sottilissime di salame Pepperoni si arricceranno, diventando croccanti ed intensificando il loro incredibile profumo.
Le teglie Le migliori teglie in assoluto per la cottura di questa specialità sono il rame stagnato e l’alluminio professionale; il primo tuttavia è sempre più raro, e comunque di difficile manutenzione e dal costo elevato. Il secondo non è semplice da reperire per i privati, e non è da confondersi con l’alluminio tradizionale, spesso di bassa qualità e che quindi non cuoce correttamente il fondo, lasciandolo molle e poco cotto. La scelta verte quindi sul ferro alluminato, sull’acciaio o sul ferro; ricordatevi tuttavia che il bordo deve essere alto almeno 3-4 cm, per consentire all’impasto di crescere correttamente.
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INGREDIENTI
per due teglie 30x40 cm
per l'impasto 1000 g di farina di grano tenero di tipo 00 o 0 (320 W) 700 g acqua 10 g lievito di birra fresco 25 g malto d’orzo in sciroppo oppure 5 g di malto diastasico in polvere 25 g sale fino
per la salsa 800 g di pomodori pelati in succo 2 spicchi d’aglio 2 acciughe ben dissalate sale fino q.b. pepe nero q.b. origano essiccato q.b. olio extravergine d'oliva q.b.
per la farcitura 800 g di mozzarella quanto più asciutta possibile 500 g di smoked Pepperoni del Megastore origano q.b. pepe nero q.b.
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olio extravergine d'oliva q.b.
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IMPASTAMENTO
Cominciate sciogliendo lievito e malto nell’acqua e aggiungete il tutto alla farina; verso la fine mettete il sale e terminate l’impastamento.
PUNTATA
Una volta ottenuta la massa liscia e asciutta, a una temperatura di almeno 22°C, posizionatela in un contenitore stretto dai bordi alti chiuso ermeticamente e lasciatela puntare per circa mezz’ora a temperatura ambiente, al fine da consentire alla lievitazione di partire.
STAGLIO E APPRETTO
Ricavate due pagnotte di egual peso, chiudetele bene e posizionatele in altrettanti contenitori ben oliati, per poi riporre tutto in frigorifero a circa 6°C per 18 ore.
STESURA
Al termine di questa fase l’impasto sarà quasi triplicato; ungete bene due teglie e rovesciateci i panetti. Appiattite i panetti leggermente con il palmo della mano, schiacciate bene i bordi e poi stendete con i polpastrelli; a questo punto oliate leggermente la superficie e coprite la teglia con pellicola, non a contatto.
TERZA LIEVITAZIONE IN TEGLIA
Completata la stesura, lasciate lievitare per circa 90 minuti in un ambiente caldo, preferibilmente a 28-30 °C. Se non possedete una cella non preoccupatevi, andrà benissimo il vostro forno spento con la luce accesa.
PREPARAZIONE DELLA SALSA E FARCITURA
Non appena l’impasto sarà lievitato, cospargete di origano e pepe nero, poi create uno strato uniforme di abbondante mozzarella tritata; andare sui bordi non è un’opzione, ma un ordine! Colando sulla teglia, formerà uno strato croccante amatissimo dagli americani, che spesso enfatizzano grattandoci del parmigiano. Con un mestolo, create delle strisce diagonali di salsa spesse sulla vostra teglia, dopodiché aggiungete abbondante Pepperoni tagliato sottilissimo (in affettatrice o mandolina
COTTURA
Nel caso utilizziate un classico forno casalingo, preriscaldate il forno a 250°C e, per agevolare la cottura del fondo, posizionate la teglia sul pavimento nella prima fase per rendere la base croccante al pari della parte superiore. Se doveste invece avere a disposizione un forno elettrico professionale, preriscaldate sempre a 270°C, utilizzando però il 100% della potenza della platea (il piano inferiore) e solo il 20-25% di potenza del cielo (la parte superiore), più che sufficiente per una doratura uniforme della mozzarella. Dopo circa 15-20 minuti controllate che il formaggio sia ben sciolto ma non bruciato e il fondo ben croccante; sfornate e lasciate raffreddare su una griglia rialzata per evitare che la condensa rovini la friabilità della base, e irrorate con un ultimo filo di olio extra vergine, una spolverata di pepe e origano, in modo che il calore faccia sprigionare tutti i profumi. Tagliate, servite e godete verso l’infinito e oltre.
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Tritate l’aglio e schiacciatelo sotto la lama del coltello, fate soffriggere lentamente sul fuoco in un tegame con un filo d’olio e le acciughe. A questo punto aggiungete i pomodori
pelati frantumati a mano, aggiustate di sale e di pepe e lasciate cuocere per circa 30 minuti a fuoco minimo, evitando di far ridurre eccessivamente il tutto. Spostate dal fuoco, aggiungete abbondante origano e lasciate raffreddare.
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We are going to the restaurant! Consigli per star bene al ristorante Across the Pond a cura di Elena Ninotti
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iolete sapere cosa colpisce tantissimo gli americani che numerosi (almeno, prima della pandemia da Covid-19!) affollavano il nostro Bel Paese? Oltre la qualità del cibo di cui sono ghiotti, s’intende. Quello di cui gli americani non finiranno mai di stupirsi sono, indubbiamente, i rigidi orari di apertura dei locali addetti alla ristorazione in Italia. Dopo tre anni negli States, lo ammetto: lo stupore è reciproco. Ancora mi riesce incomprensibile vedere la gente in fila al ristorante alle 16.30, in attesa di un tavolo. Qui è una cosa normalissima. Di contro, loro non si capacitano del come sia possibile che il ristoratore gli neghi un tavolo alle 19.00, o alle 15.00.
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Se, quando la situazione sarà tornata alla normalità, avete in programma di fare un giro negli Stati Uniti vi accorgerete di come sia facile mangiare fuori. A molti americani piace mangiare: tanto, sempre e anche bene. Nonostante i luoghi comuni li dipingano come poco attenti a quello che mangiano, questo non corrisponde spesso alla realtà. Giusto per chiarire, gli Stati Uniti sono molto grandi e hanno tantissime differenze culturali e sociali. Basti pensare che tutte le diete che prendono piede da noi, quasi certamente sono nate in California e similari.
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Allo stesso modo, esistono i Food Desert, di cui vi parlerò in qualche altra puntata del nostro viaggio americano, cioè aree dove al massimo puoi comprare cibo in scatola presso la stazione di servizio del carburante. In mezzo a queste realtà, ci sono tante persone
che amano mangiare fuori e lo fanno più volte a settimana. Io stessa faccio parte di un gruppo Facebook di eaters locali e, vi assicuro, vi stupirebbe leggere la qualità della maggior parte dei commenti. I ristoranti sono generalmente di 2 tipi: i diners, che servono colazione e pranzo, aprono alle 7,30 am e chiudono attorno alle 2 pm; e i ristoranti veri e propri, che servono lunch e dinner. Aprono alle 11-12 e chiudono con un orario variabile dalle 8 pm alle 11 pm. Durante questi orari, è possibile mangiare senza restrizioni. Anzi: spesso, tra le 3 pm e le 6 pm, c’è una fascia oraria da “happy hour” in cui appetizers (antipasti) e cocktail sono proposti a metà prezzo. Talvolta, anche il menu completo ha forti sconti in questa fascia pomeridiana. Se doveste visitare aree meno turistiche e internazionali, state attenti. In queste zone la cena viene servita fino alle 9 pm e, la domenica, possono tranquillamente chiudere alle 7 pm. Mangiare fuori negli States è un concetto totalmente differente da quello a cui noi siamo abituati. Non esiste fare “serata” al tavolo del ristorante. Ci si siede, si ordina, si mangia e, quando il cameriere viene a chiedere del dolce, ci sono due opzioni. Se si desidera il dolce, il cameriere va, porta il dolce e poi il conto. Si decide di saltare il dessert? Il cameriere, prontamente, porge il conto. BBQ4All Magazine
A proposito di camerieri: la loro paga è data per oltre il 50% dalle mance dei clienti, quindi è nel
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suo interesse che siate soddisfatti del suo servizio, ma anche che liberiate il tavolo il più velocemente possibile. Al momento di pagare il conto, è anche possibile dividere l’importo su più carte di credito, a seconda dei commensali. Se proprio volete fare le cose precise, potete avvertire il cameriere al momento dell’ordine. Questi dividerà la comanda in modo nominale e porterà direttamente due conti. Nessuno si stupisce e non c’è bisogno di avere dietro il contante.
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QUESTIONE DI MANCIA
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A seconda del posto in cui siete a mangiare, vi consiglio di stare attenti alle voci del conto. Grandi città, luoghi turistici o comunque ristoranti frequentati da stranieri, tendono ad addebitare già la mancia del personale, nella misura di un 15-20% del totale (al netto della tassazione locale). Quindi controllate e, eventualmente, evitate di aggiungere di nuovo la mancia. Nel caso vi sfuggisse e, ops!, la aggiungeste due volte, sarà sufficiente una telefonata alla banca per togliere la transazione dal totale.
DIRITTO DI TAPPO Un’altra parcolarità della ristorazione americana è l’abitudine diffusa di portare il proprio vino o champagne da bere al tavolo, esercitando di fatto quello che in Italia sarebbe il cosiddetto diritto di tappo. Alcuni Stati hanno una normativa stringente sulle licenze per alcolici e quindi i ristoranti non possono vendere alcol, mentre altri hanno alcool nel menu, ma ammettono comunque la pratica di portare il proprioa fronte del pagamento della corkage fee, cioè un contributo (in media da 5 a 50 dollari) per farvelo bere, ma non vi faranno storie.
MENU Le prime volte che si ordina, è facile rimanere spiazzati dalle quantità del cibo servito. Qui non esiste la sequenza “antipasto-primo-secondo”. Il menù è diviso in appetizers generalmente piatti da condividere tra i commensali, ed entrée, cioè piatti principali. L’entrée è generalmente costituita dal piatto principale, accompagnato sempre da un contorno abbondante e carboidrati costituiti da riso, pasta, pane tostato. Un piatto unico a tutti gli effetti,
a differenza degli appetizers che arrivano semplici. Personalmente ho impiegato un po’ di tempo ad abituarmi a questa modalità di pasto. Preferirei sempre avere porzioni minori ma poter assaggiare più piatti... invece finisce che prendiamo un appetizer e una o due entrée in tre, ma, anche così, spesso ci portiamo gli avanzi a casa. Quando resta del cibo sul tavolo, infatti, il cameriere arriva con i contenitori per l’asporto e impacchetta tutto. Per gli americani è normalissimo ordinare più del necessario, proprio per avere il pasto pronto l’indomani. Devo ammettere che anche io mi sto abituando a questa pratica, che effettivamente è davvero comoda, mi permette di assaggiare più varietà e, magari, lasciarmi un pochino di spazio per assaggiare il dessert. Una cosa molto utile è che tutti i menu sono visionabili su Internet. Difficile, invece, che siano riportati all’esterno del locale, ma certamente sono presenti nella pagina web, dalla quale si può fare anche la prenotazione del tavolo o del take out, cioè l’asporto. Così è possibile evitarsi imbarazzi o brutte soprese all’ultimo: si verifica se cibo e prezzi sono di nostro gradimento e, solo a quel punto, si prenota.
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Adesso passo a fornirvi la ricetta di un piatto che si trova davvero spesso nel menu americano, almeno da queste parti, è il pesce blackened: altro non è che un trancio di pesce, o gamberi, spolvera di spezie cajun e poi passato sotto il grill fino a doratura. Si tratta di un modo veloce e saporito di valorizzare un pesce bianco.
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FILETTI DI PESCE BLACKENED
Ingredienti per 4 persone: 4 filetti di pesce bianco, abbastanza spessi ( benissimo dentice, ricciola, orata) / 2 cucchiai di olio extravergine d’oliva Per il mix di spezie cajun: 1 cucchiaino di paprika / 1 cucchiaino cumino in polvere / 1 cucchiaino di cipolla in polvere / 1 cucchiaino di aglio in polvere / 1 cucchiaino di timo essiccato / 1 cucchiaino di senape in polvere / 3/4 cucchiaino di sale fino / la punta di un cucchiaino di peperoncino piccante / una bella macinata di pepe Per i contorni: verdure ed ortaggi di stagione in grandi quantità PROCEDIMENTO: 1. Mescolare tutte le spezie. Se avete un macina spezie o un mortaio, potete far fare un giro per avere una miscelazione perfetta. 2. Spolverare accuratamente il pesce con le spezie 3. In una padella di ferro (cast iron skillet), mettere i due cucchiai di olio aspettare che diventi bello caldo. 4. Mettere il pesce in padella dalla parte della carne. La pelle, dal lato opposto, aiuterà la polpa a restare integra quando si andrà a girare. Mettendolo prima dalla parte della pelle, questa non avrà successivamente la forza di mantenere la carne integra. Dopo 2-3 minuti, girare il filetto dalla parte della pelle e far finire la cottura.
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5. Servire con un contorno di verdure (broccoli, fagiolini o asparagi) appena scottate e una cupoletta di riso al vapore, con un purè di patate aromatizzato all’aglio arrostito, oppure come ripieno per dei fantastici tacos.
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Il quinto quarto a cura di Virgilio Brunetti
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el precedente articolo abbiamo visto come già nell’antichità ci siano testimonianze scritte dell’uso delle frattaglie in cucina. Marco Gavio Apicio (De Re Coquinaria nel I secolo) dedica molte ricette al consumo di visceri di molti animali sia allevati sia selvatici; Il fegato ad esempio era un organo utilizzato dagli aruspici per interpretare il volere delle divinità, ma era anche considerato un cibo prelibato. A tale riguardo è importante ricordare l’etimologia stessa del vocabolo italiano fegato: il termine fegato infatti non proviene dall’equivalente latino iecur né dal greco epar, ma piuttosto da un aggettivo, ficatum, che proviene a sua volta dalla parola ficus e indica il fegato di animali ingrassati coi fichi o anche cucinato coi fichi. Tecnicamente il fegato non è carne: è un organo interno che ha una struttura lontanissima dal tessuto muscolare. È un organo parenchimatoso, il che significa che per la maggior parte del suo volume ha la stessa struttura cellulare. Le cellule del fegato si chiamano epatociti, cellule di forma cubica con due caratteristiche gastronomiche importanti: accumulano zucchero sotto forma di glicogeno e grassi sotto forma di goccioline. Il fegato è presente in tutti i vertebrati, ma troviamo organi analoghi anche in molti invertebrati, come i crostacei (quello chiamato epatopancreas). Parliamo di una grande ghiandola endocrina, un organo vitale con numerose funzioni: non essendo questo il posto giusto per un trattato sull’anatomia e la fisiologia del fegato, vi basti sapere che è un organo estremamente vascolarizzato che svolge un ruolo chiave nel metabolismo degli zuccheri e dei grassi. Anche per questo motivo la sua struttura è fortemente influenzata dalla specie, dalla salute dell’animale, dallo stato generale e dal tipo di alimentazione. La maggior parte degli animali di interesse culinario ha il fegato, ed essendo un organo di grandi dimensioni ha esso stesso una enorme importanza gastronomica. La sua texture è estremamente interessante e la gestione di questa caratteristica in cottura segue la regola delle temperature similmente ad una comune bistecca.
In generale quelli che odiano il fegato come alimento sicuramente sono stati traumatizzati da cotture e preparazioni errate ma... diciamoci la verità: il fegato è uno di quegli alimenti che o si ama o si detesta per cui la domanda è: perché il fegato fa schifo? IL FEGATO MI FA SCHIFO PERCHÉ È SECCO. Otteniamo una texture sabbiosa quando le componenti proteiche del tessuto sono completamente denaturate dal calore; il fegato è un parenchima costituito appunto da epatociti, cellule cubiche distribuite con una geometria piuttosto uniforme. Così come succede con la carne (il muscolo), in cottura le proteine del parenchima perdono integrità e quindi la capacità di trattenere acqua. Inoltre i grassi presenti nel tessuto epatico fondono e difficilmente vengono trattenuti. Se stracuocete una fettina di foie gras cru in una pentola vi ritrovate con una bella pozzanghera di grasso fuso ed un reticolo di proteine di fegato fritte, un disastro! Alla stessa maniera se stracuocete una scaloppina di fegato suino di bovino il risultato sarà una orribile “cosa” piuttosto difficile da deglutire. Cuocete il fegato il giusto: vi suggerisco una temperatura compresa tra i 54 e 58 gradi per il fegato bovino; riservate invece le altre tipologie di fegato per cotture prolungate come paté, terrine e preparazioni in umido come la veneziana. IL FEGATO MI FA SCHIFO PERCHÉ È GOMMOSO. Anche in questo caso abbiamo un problema serio di texture che si risolve con un trimming accurato delle membrane e dei grossi vasi che irrorano il parenchima epatico; potrebbe essere necessario eliminare anche i dotti biliari. Ripulito il fegato da tutte le membrane e i vasi potete facilmente
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Il fegato allo stato crudo presenta una consistenza molle, poco elastica, tendenzialmente fragile che tuttavia cambia progressivamente se esposto
al calore. Sono presenti delle membrane, i vasi sanguigni, che essendo ricchi di connettivo ed elastina interrompono la struttura uniforme, dando qualche problema in cottura. La quantità di grasso presente nel fegato è determinante nella scelta della cottura e nella preparazione. Un fegato grasso è di per sé molto più appetibi le di un fegato “sano”, ma ciò non toglie che in alcune preparazioni non possa essere reso ugualmente appetibile aggiungendo dei grassi saporiti in fase di preparazione.
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affettarlo o cubettarlo per poterlo poi marinare o metterlo in salamoia per eliminare l’eccesso residuo di sangue.
Cotture rapide
IL FEGATO MI FA SCHIFO PERCHÉ È AMARO. L’amaro del fegato può essere anche molto marcato è ciò è dovuto ad errori di macellazione e ad un mancato o insufficiente drenaggio del sangue o di una sostanza terribilmente amara chiamata bile. Un fegato contaminato da bile è per sé un alimento da non consumare ma un minimo di quel sapore caratterizzerà anche in casi normali l’alimento. Esistono numerosi metodi per abbassare significativamente il sapore amaro del fegato: alcuni sono metodi della nonna, altri sono squisitamente seasoning ed hanno lo scopo di restituire succosità modificare il gusto base del fegato e favorire le reazioni di Maillard.
Questa è una ricetta della tradizione leccese e chiamata “figatu cu la zippa” ma è diffusa nella tradizione gastronomica di quasi tutte le regioni italiane.
Il metodo tipico utilizzato dalla tradizione è bel bagno nel latte; il latte è una emulsione naturalmente basica di grassi, proteine e zuccheri, e, sebbene non ci sia nessuna evidenza scientifica che il latte elimini il gusto amaro caratteristico del fegato, sicuramente costituisce un potentissimo booster della reazione di Maiallard quando si utilizza nelle cotture ad alta temperatura proprio perché il latte abbonda di zuccheri riducenti ed ha un pH leggermente basico.
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Alcune fonti parlano anche di bagno nel tè dolce, e sicuramente questo potrebbe essere il metodo d’elezione della tipica nonna orientale; anche in questo caso il tè arricchito di zucchero e i tannini dell’infuso potrebbero avere ricadute positive sulla preparazione, ma sicuramente la salamoia rimane il metodo più efficace nel trattamento di alimenti proteici, fegato compreso. Sia nel trattamento con latte, con soluzione salina, o col tè zuccherato, molto del decremento del gusto amaro sarà ascrivibile all'eliminazione di eventuali eccessi di sangue nel tessuto epatico e solo in maniera marginale all’eccesso di bile che di fatto se presente rende immangiabile il fegato.
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IL FEGATO FA SCHIFO... PERCHÉ NON SO CUCINARLO. Siamo arrivati al vero problema. Risolviamo subito.
FEGATO ALL'ALLORO ARROSTITO NELL'OMENTO
Si preparano dei grossi cubi di fegato di bovino (ma si può usare anche il maiale), poco più grandi di un boccone. Potete marinarli nel latte o metterli in salamoia: personalmente a me piace una marinatura breve in un’emulsione di olio d’oliva, salsa di soia e aceto balsamico, prezzemolo, pepe nero e cipolla. Lasciate marinare i cubi di fegato almeno un paio d’ore; estraeteli dalla miscela, infarinateli leggermente con un velo di maizena e avvolgeteli in un doppio strato di omento di maiale. Infilate i cubotti in due spiedini in modo che non ruotino in cottura ed alternate ogni pezzo con una foglia intera di alloro secco o una di alloro fresco, vedrete che l’impatto dell’alloro secco e fresco sul fuoco sarà diverso. Nella fase di cottura a fuoco vivo le foglie di alloro secco bruceranno dando un caratteristico sapore affumicato mentre quelle fresche distilleranno con il calore gli olii aromatici che andranno ad insaporire il grasso dell’omento. Cercate di ottenere una Maillard uniforme esponendo gli spiedini ad un calore intenso ma non estremo: potete anche utilizzare una skillet, l’importante è non bruciare l’alimento e tantomeno lessarlo, in entrambi i casi si amplificherebbe il sapore amaro. Terminate la cottura in indiretta fino a raggiungere una temperatura al cuore di massimo 56°C per il fegato bovino; se avete usato il maiale o cinghiale dovete superare i 63°C. Potete sostituire l’alloro con la salvia, mirto, scorze di agrumi private dell’albedo, lardo di colonnata, cipolla sbianchita, fichi, prugne o albicocche; potete usare come spiedini rami di alloro, rosmarino o ginepro oppure delle stecche di cannella appositamente lavorate; non dimenticate di preparare una salsa degna: io suggerisco di accompagnarla con una composta agrodolce di cipolle al merlot, senape al miele e crostini di pane di segale.
Cotture in umido:
FEGATO ALLA VENEZIANA
Il fegato alla veneziana è ovviamente uno dei piatti veneti più famosi, combinazione perfetta di fegato e cipolle bianche in una lunga cottura in umido coadiuvata da brodo e burro. Il vino rosso non compare nella ricetta ma sarà il degno accompagnamento di questa preparazione povera ma ricca di sapore e storia. Nella ricetta tradizionale la quantità di cipolla è pari in peso a quella del fegato che deve essere freschissimo e di vitello, tuttavia vi stupirà sapere forse che la cottura lunga riguarda quasi esclusivamente la cipolla. Tritate un mezzo prato di prezzemolo e un pallet di cipolle bianche, mi raccomando sottili così piangete, soffriggete le cipolle in olio e burro (per quanto mi riguarda dovreste scegliere solo uno dei due) e cuocete la cipolla a fiamma bassa per il tempo necessario che diventi cremosa, dolce, e buonissima. Solo a questo punto aggiungete il fegato (io prima lo infarinerei e “maillardizzarei” a parte in un tegame
con abbondante grasso) poi aggiungete alle cipolle cotte con un del brodo di carne. Il fegato sarà cotto quando sarà cotto, ma non ci vorrà molto tempo perché avrete ormai capito che se lo stracuocete sarà come ingoiare una manciata di sabbia grumosa e amarognola; spegnete la fiamma e servite caldo con un purè scientifico o un’ottima polenta (io adoro la polenta taragna cotta con quantità di grassi incompatibili con la vita e poi grigliata). Se vi distraete e il fegato sarà veramente troppo cotto non sarà comunque tutto perduto. Il fegato stracotto nella crema di cipolle può diventare la base perfetta per un patè di fegato da spalmare sui vostri crostini; dovrete solo frullare tutto aggiungendo quantità smodate di burro perché solo così la sua texture ritornerà ad essere accattivante e golosa.
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Il rognone, invece, rappresenta tra le frattaglie una vera sfida gastronomica e solo i veri estimatori hanno le idee chiare su come trattare questo alimento. Similmente al fegato non andrebbe stracotto e mai lessato, perché la sua texture inevitabilmente diventa elastica ed arcigna e il gusto tende a diventare anonimo. Il rognone è in realtà nient’altro che i reni, organi deputati alla filtrazione del sangue dei mammiferi; il risultato di questo processo sono le urine che vengono convogliate dai reni in una struttura cava ed elastica detta vescica. Capirete che un rognone non proprio fresco e trattato in maniera non adeguata avrà un forte odore urina di animale e se cotto in maniera errata avrà una consistenza veramente poco piacevole.
via della forte vascolarizzazione di questi organi).
Il rognone è un organo pari, estremamente vascolarizzato che ha una forma tipica “a fagiolo” negli ovini e nei suini, fa eccezione quello bovino che ha una struttura lobulata. In tutti i casi i reni sono organi incapsulati in uno strato di grasso che fa da ammortizzatore; particolarmente interessante il grasso di rognone di bovino che può avere diversi utilizzi gastronomici, si tratta un grasso bianco, aromatico e solido, ricchissimo di acidi grassi saturi tanto da avere una consistenza compatta più dura della cera stearica delle candele.
Se non lo si acquista già pulito dal macellaio, bisogna tagliarlo in senso verticale, lavarlo con molta cura in acqua corrente, poi con un coltello affilato come un bisturi bisogna pelarlo e privarlo della parte interna bianca, grassa e fibrosa. Capsula, collettori, grasso e grossi vasi sono le strutture che vanno eliminate con una paziente operazione di trimming. La cottura deve essere breve una volta tagliato a pezzetti oppure a fettine non troppo sottili.
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Non ve lo dovrei dire ma una volta lo Zio Gianfranco mi confidò di aver fritto le patatine nel grasso di rognone fuso e di aver avuto una sorta di crisi mistica.
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Brevemente vorrei suggerirvi le linee guida su come trattare questo alimento che vi ricordo fa parte delle frattaglie rosse (per
Deve essere sempre freschissimo. La struttura interna microscopica del rene consiste in una ripetizione ordinata di tubuli e capillari che di fatto costituiscono le unità filtranti. Sezionando longitudinalmente il rognone possiamo distinguere: Una zona corticale più esterna di colore rosso chiaro ove troviamo i nefroni, le unità funzionali del rene. Una zona midollare, più interna di colore rosso scuro, organizzata in strutture coniche dette piramidi renali, distinte tra loro da estensioni delle corticali dette colonne renali. Le piramidi sono formate principalmente dai condotti per il trasporto dell’urina, i dotti collettori.
Alcune fonti suggeriscono di effettuare, prima di realizzare la preparazione, una precottura, cioè far saltare brevemente le fettine di rognone in un tegame con un filo d’olio affinché perdano il siero e il sangue residui, e poi di farle sgocciolare in un colino per circa trenta minuti. Il rognone può essere ripassato in padella di ferro o in ghisa oppure può essere cotto alla griglia.
Un grande classico è il rognone di vitello al cognac: la preparazione prevede che i rognoni tagliati sottili vengano saltati velocemente in burro chiarificato, si aggiungono poi degli scalogni tritati preferibilmente già stufati anch’essi nel burro. Si aggiunge della senape e subito dopo si fa fiammeggiare con del cognac. Se la salsa è ancora poco densa potete arricchirla con poca panna. Il piatto va servito caldo con abbondante salsa. Per quanto riguarda la cottura alla griglia vi racconterò il piatto preferito della prima colazione di Leopold Bloom (dall’“Ulisse” di James Joice): "[…] Mr Leopold Bloom mangiava di gusto le interiora di animali in genere e di volatili in particolare. Gli piaceva mangiare dense minestre di rigaglie, gozzi ripieni dal sapore pastoso, cuore farcito arrosto, fette di fegato impanate e fritte, uova di merluzzo fritte. Soprattutto andava matto per i rognoni di castrato alla griglia, che gli lasciavano sul palato un fine sapore di urina lievemente aromatica […]" (traduzione di Gianni Celati)
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Procuratevi i rognoni di castrato più freschi che potete, tagliateli in due ed eliminate tutte le parti grasse fibrose, rendete il boccone più uniforme possibile, lavate con abbondante acqua corrente e asciugate le frattaglie. Fondete del burro, meglio se chiarificato, e nappate i rognoni. Mettete in cottura diretta su di una brace matura con calore non troppo violento, ritirate dalle braci e finite la cottura in indiretta avendo cura di spennellare ancora i rognoni con del burro. Finite la cottura del rognone quando la temperatura sarà compresa tra i 54°C e 56°C. Consumate i rognoni di castrato ancora molto caldi, su una fetta di pane bianco arrostito e imburrato.
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infografica i tagli di carne giapponesi
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a cura di Emiliano Nencioni
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La cottura indiretta sul bullet smoker
E così avete fatto il grande passo, avete investito un piccolo capitale di tutto rispetto nell’acquisto di uno smoker verticale, un bullet smoker, in una delle sue varie incarnazioni commerciali. Avete fatto spazio in veranda, o in garage, sacrificando scatoloni di ricordi, la bicicletta che vide muovere difficoltose pedalate al vostro primogenito, l’attrezzatura da hockey e il flicorno tenore del nonno che suonava in banda. Un cacciavite a stella, una chiave da tredici, e quel siluro un po’ sbilenco è presto montato. E adesso? E adesso bisognerebbe imparare ad usarlo, con quello che costa, con tutto il posto che prende. Niente paura, come sempre siamo qui noi, quelli del Magazine, che puntuali (abbastanza) districhiamo i nodi gordiani più cruciali nella vostra esistenza sotto forma di griller. Bando ai cappelli introduttivi quindi, e procediamo con una più prosaica e utile guida alla cottura indiretta su bullet smoker, qualcosa da fotografare e salvare nei preferiti del vostro album sullo smartphone.
Anatomia di un bullet smoker Potreste vedere lo smoker verticale come un kettle nel quale sia stato inserito un cilindro cavo alto 80 cm fra fondo e coperchio: non è esattamente così, ma è un buon punto di partenza. Cominciando dal basso abbiamo il braciere, quasi una semisfera cava nell’interno della quale andremo a posare il combustibile, carbone o bricchette, sull’apposita griglia carboni; tre bocchette circolari parzializzabili (vent in) permettono la regolazione del flusso d’aria in entrata.
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Appena sopra si appoggia il fusto, ospitante il supporto per il waterpan e due griglie alimenti su due differenti altezze: spesso è presente un qualche tipo di oblò di ispezione, usato per rabboccare il carbone, aggiungere acqua nel waterpan o in generale ficcanasare un po’ durante la cottura.
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Il waterpan è una grande scodella di metallo, di diametro poco inferiore a quello del fusto, utile a separare la zona carboni dalla zona pietanze, di fatto impedendo l’irraggiamento diretto del calore proveniente dal bruciatore; la forma a scodella permette di contenere qualche litro d’acqua, che agirà da volano termico e introdurrà ulteriore umidità in camera di cottura qualora ce ne fosse bisogno. Chiude il tutto un bel coperchio semisferico, dotato di maniglie, bocchetta circolare parzializzabile per regolare il flusso d’aria in uscita (vent out), e di un termometro analogico integrato, non lo strumento più attendibile del mondo ma comunque molto comodo per farsi un’idea della temperatura in camera senza arrabattarsi con mille sonde di ultima generazione.
Funzionamento e gestione di un bullet smoker Aver fatto i primi passi usando un kettle sicuramente aiuta molto la comprensione della termodinamica e fluidodinamica dentro lo smoker, ma cercando di non dare niente per scontato vediamo come poter spiegare la faccenda un po’ a tutti. Dovreste già aver ben presente la differenza fra: • cottura diretta: il calore viene maggiormente trasmesso per irraggiamento; • cottura indiretta: il calore viene maggiormente trasmesso tramite moti convettivi. In pratica, è la stessa differenza tra tenere una mano trenta secondi sopra un bruciatore e tenere una mano tre ore in un forno ventilato a 120°C: al pronto soccorso dovrete fornire giustificazioni molto molto diverse.
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Bene, nello smoker si fanno cotture indirette. Scordatevi la bella bistecca, il petto di pollo e le melanzane grigliate: per quelle potrete usare sempre il fido kettle. Niente cotture dirette, a meno che, in situazioni d’emergenza, non vi ritroviate a grigliare sul solo bruciatore, privato del resto della struttura (è successo, sì).
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Cosa sarebbero questi moti convettivi, e per quale motivo avete dovuto comprare un dispositivo dedicato solo a questo tipo di cotture? In terza media, con l’esperienza dei fogli di carta
velina sopra il termosifone, avete scoperto e verificato che l’aria calda sale; in un sistema pressoché chiuso, come per praticità vogliamo considerare lo smoker, il combustibile scalda l’aria circostante che sale verso le pietanze soprastanti, circondandole di calore; nel frattempo il vuoto creatosi in basso verrà colmato da altra aria che verrà prontamente scaldata e che inevitabilmente salirà, spingendo via l’aria salita un istante prima e che cedendo calore al cibo si è raffreddata e tenderà a voler tornare in basso, innescando un circolo continuo di salite e discese atto a irrorare continuamente di aria asciutta e calda le pietanze. Inutile aggiungere - ma lo aggiungo - che perché il fenomeno abbia luogo è necessario un coperchio, meglio se di forma pensata per “incoraggiare” il suddetto vorticare: ecco perchè il bullet smoker ha la tipica forma a proiettile (o supposta, più realisticamente). La possibilità di un riscaldamento per irraggiamento è scongiurata dal waterpan metallico, che fa da barriera poco sotto il livello più basso delle griglie pietanza. Questo tipo di trasmissione del calore è molto utile per la cottura di pezzi di carne di grandi dimensioni, nella quale l’abbrustolirsi troppo rapido della superficie, tipico della cottura diretta, porterebbe a zone interne troppo crude o addirittura ancora fredde. É per questo che la cottura indiretta è il metodo d’elezione per la cottura barbecue, che come ormai abbiamo ripetuto fino allo sfinimento implica la cottura di grandi pezzi di carne per lungo tempo - e in presenza di affumicatura. In assenza di controller digitali per la temperatura, la gestione del calore è demandata alla parzializzazione di vent in e vent out: come per gli eroici kettle, le bocchette in basso determinano quanta aria (e quindi comburente per la fiamma) potrà entrare, e quella in alto determina come, per effetto camino, l’aria che esce farà sì che altra aria fresca e ossigenata possa entrare. Più aria, più calore, come sempre. Dopo qualche decina di minuti dalla sua accensione un buon kettle allestito con un buon setup tenderà a stabilizzarsi: in base alla regolazione delle bocchette e aiutato dalla propria inerzia termica (e vento permettendo), la camera di cottura rimarrà a una certa temperatura, con oscillazio-
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ni tollerabili. Un buon aiuto a questa inerzia termica è dato dal waterpan: l’acqua in esso contenuta, lo sappiamo bene, non potrà mai superare i 100°C, risultando in duetre chili di materia che assorbe e restituisce energia, di fatto smorzando eventuali picchi di calore o tamponando improvvisi raffreddamenti.
Setup di un bullet smoker Uno dei vantaggi di uno smoker verticale è il non dover perdere la testa a predisporre le bricchette a formare uno snake, l’unico modo di sperare in una cottura di lunga durata usando un kettle: non serve più dedicare quaranta minuti di tempo nella costruzione di un perfetto opus reticulatum, è sufficiente gettare il carbone nell’apposito ricettacolo e poi depositare poco meno di mezzo cesto accenditore di bricchette ben accese in una porzione della griglia carboni. Successivamente si dovrà caricare il waterpan con almeno un paio di litri di acqua pulita, inserirlo nel fusto e successivamente sovrapporre il fusto al braciere; volendo usare entrambi i piani a disposizione delle griglie pietanze bisognerà avere l’accortezza di inserire prima il livello inferiore, con eventuali sonde conficcate nella carne, e poi il livello superiore, cercando se possibile di non sovrapporre il cibo per evitare sgocciolamenti e contaminazioni di sapori. Se questa avvertenza vi sembra superflua, aspettate di dover mettere velocemente in foil un brisket alle quattro del mattino nel cuore di una cottura overnight, e mi rammenterete.
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Coperchio chiuso, e il setup è pronto, senza la necessità di troppi virtuosismi. Potete comodamente usare l’oblò di ispezione presente sul fusto per aggiungere legna aromatica per la doverosa affumicatura (dopotutto si chiama smoker), semplicemente gettando i chunks della vostra essenza preferita sul bruciatore. Tecnicamente potreste usare anche le chips, quelle schegge un po’ minuscole che si trovano facilmente al supermercato, ma avranno una durata ancora minore di quella nell’uso nel kettle.
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La ricetta scientifica a cura di Gianfranco Lo Cascio
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In molti casi, il cucinare è una forma di omicidio colposo. C’è chi ammazza con il pollo crudo, chi assassina con l’uovo bavoso, chi soffoca con la torta asciutta. Esiste però un primo piatto pugliese che di criminale ha solo il nome: gli spaghetti all’assassina. Il delitto vero sarebbe non assaggiarli almeno una volta nella vita. Cosa ha di così straordinario questa ricetta da meritare una rivisitazione scientifica? Ve lo spiego subito.
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Nella pietanza barese di cui sto per svelare ogni segreto, gli spaghetti non vengono lessati in acqua bollente e salata, ma cotti nella salsa di pomodoro e una dose importante di peperoncino, direttamente nella padella di ferro. In questo modo il condimento si restringe per bene e gli spaghetti soffriggono e si sbruciacchiano pure un po’, creando una crosticina paradisiaca. Buoni da morire.
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LA STORIA
Gli spaghetti all’assassina nascono poco più di una cinquantina di anni fa, esattamente al 1967, in una piccola trattoria della città di Bari. Felice Giovine, demologo, storico della città di Bari, Direttore del Centro Studi Baresi, dell’Archivio Storico delle Tradizioni Popolari Baresi e dell’Accademia della Lingua Barese “Alfredo Giovine”, è l’intellettuale che ha ripercorso la storia della ricetta attraverso ricerche fatte su documenti storici di sua proprietà e intervistando l’inventore degli spaghetti in questione: un foggiano. Il suo nome è Enzo Francavilla. Riporto parte dell’intervista.
“Ero un giovane cuoco – racconta Francavilla – e avevo fatto la gavetta al Sarti di Foggia, ma sono venuto a lavorare a Bari insieme ad altri due amici di Cerignola, perché assunto alla “Sirenetta”, locale in via Melo, di proprietà della storica famiglia Vincenti. Alla “Sirenetta”, ho lavorato per una decina d’anni, ma poi ho deciso di mettermi in proprio e di rilevare dai Fusaro “Il Sorso preferito”. Contemporaneamente lavoravo anche alla “Sirenetta a mare”, sul lungomare che da San Giorgio porta a Torre a Mare, poco dopo il lido “Il Trullo”. Il mio aiuto era necessario soprattutto in quelle serate in cui venivano ad esibirsi i grandi cantanti di quegli anni, come Mina, Fred Bongusto, Peppino di Capri, Patty Pravo, Bruno Martino, Gianni Morandi e popolari attori dell’epoca come Gino Bramieri e Renato Rascel. Appena ho aperto il “Sorso”, solo un paio di giorni dopo, sono entrati due signori provenienti dal Nord Italia e mi hanno chiesto di preparare loro un primo piatto che fosse gustoso e sostanzioso. Mi sono inventato così un piatto di spaghetti con una salsa di pomodoro e una generosa dose di peperoncino, preparati direttamente nella padella di ferro, facendo “stringere” bene il condimento e creando così una gustosa crosticina esterna. Li ho serviti consigliando loro di bere soltanto a fine piatto e così hanno fatto. Poi mi sono avvicinato per chiedere se avessero gradito e uno di loro mi ha detto soddisfatto:”Buonissimi davvero”.
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Poi, sicuramente riferendosi a quanto erano stati graditi ma soprattutto alla piccantezza, ha aggiunto sorridendo:” Sei un assassino”. Così ho deciso che il nome perfetto era proprio “Spaghetti all’assassina” e, da quella sera, il piatto è diventato una richiestissima specialità del ristorante Al Sorso preferito.”
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GLI OBIETTIVI
Quando ho scoperto questa ricetta, ho erroneamente pensato che si trattasse di un piatto di recupero di pasta avanzata. Alla luce di cotanta ricostruzione storica fatta attraverso la testimonianza del suo stesso inventore, possiamo sancire che mi sono sbagliato di brutto. Non si tratta, quindi, di un piatto di recupero ma - genesi altrettanto frequente dei piatti popolari - del frutto dell’ingegno di un cuoco colto alla sprovvista dalla richiesta di un cliente. Enzo Francavilla non ha fatto altro che mettere insieme alcuni concetti, arrangiandosi con quei pochi ingredienti che aveva a disposizione e sfruttando al meglio le attrezzature modeste del suo ristorante. Si è senz’altro ispirato a quella pasta avanzata che la domenica sera si “arrusca” o “sfrigge” in tutte le case meridionali, o, ancor più semplicemente, alla crosticina superficiale della pasta al forno. Negli anni ’60 e ’70, sia in casa che nei ristoranti, per ripassare i cibi si usava frequentemente la padella di ferro, ormai bandita in tutte le cucine. Era completamente nera perché non veniva mai lavata, bensì strofinata con carta di giornale per rimuovere i residui solidi. In questo modo si favoriva la formazione di una patina oleosa che impediva alla ruggine di formarsi. A Bari quella padella si chiama “sartàscene” e ancor oggi è possibile acquistarla in qualche mercatino. Oggi si preferisce usare la “lionese”, una padella molto più pesante e spessa, ma sempre in ferro, e soprattutto a norma. Ma quali sono gli obiettivi degli spaghetti all’assassina perfetti? 1. Gli spaghetti devono assorbire il sapore di pomodoro tramite una “risottatura” con passata diluita con acqua 2. Gli spaghetti devono essere tostati e croccanti, formando una crosticina, frutto della caramellizzazione del pomodoro e delle proteine e degli zuccheri presenti nella pasta.
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E qual è il difetto di questa e tante altre ricette della tradizione? Il metodo. È totalmente empirico. Dobbiamo buttare tutto nella padella, calcolando i tempi un po’ a occhio e pregare San Nicola che la pasta risulti perfettamente al dente ma sbruciacchiata e ovviamente con la giusta dose di salsa. Un assassinio del nostro sistema nervoso, e potenzialmente pure dei commensali.
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Cosa ho fatto per migliorare la tecnica e renderla replicabile sempre, tutte le volte? Ho preparato un consommé di pomodoro, estraendo la parte liquida del frutto e usandola come acqua di cottura, e ho tostato gli spaghetti prima di buttarli in padella. Risultato? Spaghetti perfettamente cotti, belli salsati e pomodorosi al massimo, con una crosticina croccante ed ambrata (non nera bitume come mi è capitato di vedere spesso), frutto della combinazione tra pomodoro caramellato e pasta tostata. Siete pronti a scoprire come si fa?
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CHIARIFICARE IL POMODORO
IL CONSOMMÉ
È una delle zuppe più interessanti: un liquido chiaro dal sapore intenso e con un corpo distinto ma delicato. Il nome deriva dal francese "consumare", " utilizzare", e si riferisce alla pratica medievale di cuocere il brodo di carne fino al raggiungimento della giusta consistenza. Il consommé più diffuso, quello di carne, è fatto preparando un brodo di base principalmente di ciccia, non di ossa o pelle povere di sapore, che viene poi chiarificato. È una sorta di doppio brodo fatto espressamente per la zuppa; per produrre una porzione possono servire anche 500 grammi di carne. Il consommé di pomodoro, che è quello che interessa a noi, si può ottenere in tre modi.
01. CONSOMMÉ E CHIARIFICAZIONE CON ALBUMI D’UOVO
La chiarificazione del consommé si può ottenere mescolando il pomodoro passato o ridotto in purea nell’estrattore insieme a diversi albumi d'uovo leggermente sbattuti. La miscela viene portata lentamente a ebollizione e lasciata decantare per circa un'ora. Man mano che la passata si riscalda, le abbondanti proteine dell'albume iniziano a coagulare in un reticolato fine simile ad una tela fittissima, ed essenzialmente filtrano il liquido dall'interno. La parte solida del pomodoro viene facilmente intrappolate dal reticolato di albume, gradualmente la rete proteica sale in cima alla pentola per formare una "zattera", che continua a raccogliere le particelle portate in superficie dalla convezione del liquido. Quando la cottura è terminata, la zattera viene scremata e tutte le particelle rimanenti vengono rimosse con un filtraggio finale. Il liquido risultante è molto chiaro. La chiarificazione con l'albume rimuove sia parte delle molecole di sapore che gli agenti addensanti contenuti nel pomodoro (cellulosa, pectina, emicellulosa).
02. CONSOMMÉ E CHIARIFICAZIONE CON ALBUMI D’UOVO Si preparano 500 grammi di passata di pomodoro fredda, altrettanti 250 grammi di passata di pomodoro fredda e 1,5 grammi di agar agar, un agente gelificante che si ricava dalle alghe (0,2% del peso totale del succo) e che servirà ad acchiappare e separare le frazione solida del pomodoro.
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Si sbatte l'agar agar nei 250 grammi di passata di pomodoro fredda, per poterlo disperdere, poi si scalda il tutto e si porta ad ebollizione, mescolando e lasciando sobbollire un paio di minuti, per idratare il gelificante. Mentre si sbatte vivacemente la soluzione di agar bollente si aggiungono a filo i 500 grammi di passata di pomodoro, sempre fredda. È importante evitare che la miscela scenda sotto i 35°C o la pre-gelificazione potrebbe rovinare il risultato finale. A questo punto
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si mette su un bagnomaria di ghiaccio per solidificare il composto. Una volta solidificata, la “cagliata” di agar agar va rotta con una frusta, come se si trattasse di formaggio. Quindi si trasferisce in uno chinois foderato di garza finissima, la mussola che viene usata nei caseifici insomma. Si solleva e si spreme, attorcigliando il panno molto delicatamente, per evitare che il gel di pomodoro contamini il consommé. Con questo metodo si ottengono 500 ml circa di acqua di pomodoro.
03. CONSOMMÉ E CRIOFILTRAZIONE
La criofiltrazione sembra un affare complicato, almeno a giudicare dal nome. In verità è molto semplice e non richiede alcuna attrezzatura costosa. La parte migliore? I risultati sono sorprendenti con quasi tutti i brodi, con la frutta e con la verdura. E poiché non richiede alcun riscaldamento, preserva il sapore e gli aromi originali della preparazione. Consiste semplicemente nel congelare il vostro prodotto (potete farla con qualsiasi cosa - brodi, frutta, verdura…) e poi scongelarlo in frigorifero su una teglia con i buchini, con un contenitore sotto che raccolga i liquidi. Il supporto ideale è la teglia forata per la cottura a vapore, appositamente foderata con 4 strati di garza. Il risultato sarà un’acqua di pomodoro cristallina con un sapore impressionante di pomodoro fresco. Come si fa? Mo ve lo spiego. Procuratevi 3 kg di pomodori. Per pelarli rimuovete il peduncolo e con attenzione fate un paio di tagli a croce alla pelle partendo dall’estremità. Metteteli in acqua bollente per 10-15 secondi e trasferiteli in un recipiente con acqua fredda e ghiaccio. Aspettate un paio di minuti e pelateli con le mani, lo shock termico vi aiuterà nel processo. Rimuovete i semi.Tagliate i pomodori in piccoli pezzi e passateli al passaverdure o al mixer.
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Mettete la passata di pomodoro in un contenitore piatto nel congelatore. Assicuratevi che la mattonella ghiacciata entri poi nella teglia forata.
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Foderate la teglia con i buchini con 4 strati di garza e mettetela dentro una teglia non forata delle stesse dimensioni. Trasferite la passata di pomodoro congelata sopra la garza e conservatela in frigorifero per 24 ore. Raccogliete l'acqua di pomodoro limpida che sarà filtrata sul fondo e utilizzatela nelle vostre ricette.
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04. CONSOMMÉ E FILTRAZIONE A CALDO
Di tutte le tecniche è di gran lunga la più facile. È un ottimo compromesso tra semplicità di esecuzione, rapidità e spreco di materie prime. Ed è per questo che la utilizzeremo nella nostra ricetta degli spaghetti all’assassina. Vi serviranno: • • • •
3 kg di pomodori da sugo (o anche pomodorini) Sale q.b. 1 panno di cotone pulito Estrattore di succhi, passapomodoro o passaverdura a maglia finissima
Prendete i vostri pomodori (o pomodorini), lavateli, tagliateli a pezzi grossolani e passateli nell’estrattore di succhi o nel passapomodoro. Se proprio non avete questi strumenti, utilizzate un passaverdure manuale con la maglia molto stretta, per schiacciare bene le bucce ed evitare di far cadere nella polpa i semini. Trasferite la purea di pomodoro fresco in una pentola e lasciate sobbollire per qualche minuto. I moti convettivi del liquido porteranno in superficie tutta la parte solida (pectina, cellulosa, emicellulosa, licopene), vi basterà scansare la polpa galleggiante per vedere il liquido giallo semitrasparente sul fondo.
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A quel punto foderate una ciotola di vetro con un panno in cotone spesso, sterilizzato. Versate all’interno la passata ormai separata e fate decantare per qualche minuto. Sollevate il panno e stringete con delicatezza, vi ritroverete con una sorta di concentrato di pomodoro nel panno (usatelo per fare il sugo della pasta!), e l’acqua di pomodoro nella ciotola (circa 2,5 litri). Conservate il liquido per le vostre preparazioni, si presta a tantissimi utilizzi.
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LA PASTA
Io ho una passione viscerale per la pasta di Gragnano. Mi piace l’aspetto, la rugosità, la sua capacità di addensare tutti i sughetti, il gusto, i formati tipici della zona. L’ho scelta per questa ricetta perché: 1. La adoro; 2. Le sue caratteristiche organolettiche ci daranno tanta soddisfazione in cottura. Ma prima di vedere come si cuoce, vediamo cosa rende la pasta di Gragnano così speciale: 1. Il fattore Gragnano. La pasta si ottiene impastando la semola di grano duro con l’acqua delle falde locali. I pastifici sono concentrati nell'area di Gragnano e circostante; qui, l'acqua è meno calcarea, il clima perfetto per l'essiccazione naturale. Sono iconiche le grandi foto dei viali di Gragnano con la pasta letteralmente "appesa" ad asciugare, grazie al vento che saliva dalla vicina Castellammare di Stabia. 2. Superficie rugosa. Sebbene i formati siano tutti diversi, prodotto della fantasia dei pastai gragnanesi, la superficie è sempre rugosa, perfetta per trattenere sughi e condimenti. Merito delle basse temperature di essiccazione, delle quali vi parlo tra un po' 3. Trafilatura in bronzo. Se è così ruvida e porosa è perché le trafile che lavorano la pasta di Gragnano sono tutte in bronzo. Intendiamoci, anche una trafilatura in teflon ben eseguita garantisce una pasta gialla ambrata, levigata e dal buon sapore. Ma quelle in bronzo o in oro rendono migliore la finitura della superficie, ruvida e biancastra. Oltre ad assimilare meglio il condimento, una maggiore porosità facilità l’assorbimento dell’acqua durante la cottura, per questo la pasta di Gragnano dev’essere cotta al punto giusto per essere al dente. 4. Essiccazione lenta e a bassa temperatura. A seconda del formato, la pasta di Gragnano viene essiccata a una temperatura compresa tra i 40°C e gli 80°C, per un tempo che va dalle 6 alle 70 ore, in dei tunnel dove circola aria calda o in celle statiche celle statiche (molto più diffuso ed economicamente vantaggioso ad oggi). Per avere un termine di paragone: l’essiccazione delle paste comuni dura 4-7 ore a 75°C o anche di più. Che effetti produce l’essicazione lenta a bassa temperatura? La risposta difficile è che consente alla struttura proteica di restare inalterata. Per farla semplice, una pasta ben essiccata difficilmente si spezzerà durante la cottura, anzi, conserva un corpo elastico e tenace sin dopo la mantecatura in padella. 5. La materia prima. Dal tipo di grano utilizzato derivano il sapore della pasta, la capacità di tenere la cottura e quella di assorbire il condimento. Il metodo di coltivazione influenza la qualità del chicco di grano, un grano che subisce forti trattamenti chimici nel campo ne porta le tracce sin dentro il piatto. 6. Semola di grano duro. È il simbolo della pasta di qualità per un motivo molto semplice: la ricchezza proteica del grano duro, superiore rispetto a quella del grano morbido. Da una percentuale di proteine superiore al 13,5% deriva un elevato indice di glutine e il relativo “dente” durante la cottura.
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7. Il confezionamento. Da disciplinare può avvenire nel solo comune di Gragnano e a distanza di 24 ore dal termine della essiccazione.
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8. L’esperienza insegna. La relazione tra l’arte bianca della pasta e l’area di Gragnano dura da almeno 500 anni, la cittadina del napoletano è riconosciuta capitale della pasta dalla metà del 1800.
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LA TOSTATURA DEGLI SPAGHETTI
La prima cosa da fare è mettere gli spaghetti in una teglia bassa foderata con carta forno, ungerli con poco olio, che servirà a veicolare il calore, e metterli in forno a 170°C. Bisogna farli diventare color miele, non troppo scuri. Questo processo è tecnicamente ciò che viene definito destrinizzazione. È qui che stiamo aggiungendo un po’ di scienza alla nostra preparazione. La pasta non è altro che semola di grano duro. Sappiamo che al suo interno ci sono amidi, ovviamente, amilosio e amilopectina, ma c’è anche una buona quantità di glutine, quindi di proteine. Nella pasta di Gragnano in particolare. Che succede durante il momento di tostatura a secco? Beh, sostanzialmente due cose. La prima è ciò che viene individuata come destrinizzazione dell’amido, come detto. Avviene quando l’amido viene sottoposto a calore secco. Gli zuccheri presenti si trasformano in destrine. Le destrine hanno il tipico colore bruno e tendono a fornire una nota dolce e profumata. Ma non è tutto. Che succede se abbiamo calore secco, zuccheri riducenti e proteine? Esatto, avviene la Reazione di Maillard. Negli spaghetti ci sono proteine (glutine) ci sono zuccheri riducenti (destrine derivanti dalla tostatura) e se diamo abbastanza calore di certo si catalizza la reazione di Maillard. Che vuol dire più sapore.
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Dopo la tostatura, gli spaghetti avranno una dominante più dolciastra e il tipico sentore di crosta di pane appena sfornato. Questo ci permetterà di controllare meglio la cottura, conferendo sì il sapore di tostato, ma evitando di prolungare troppo la cottura, evitando la formazione di quegli agglomerati neri di pomodoro bruciato.
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LA PADELLA LIONESE La padella in ferro, detta anche “lionese” dall’aggettivo francese lyonnaise, di Lione, ha tantissime virtù. La forma di questo strumento è così antica che un attrezzo simile è stato ritrovato negli scavi di Pompei; l’attuale padella, rotonda con manico, dovrebbe risalire al XVII secolo, e già allora era realizzata in ferro battuto a martello.
I PLUS DELLA LIONESE
01. La sua particolarità principale, dovuta alle proprietà del ferro, è quella di favorire la Reazione di Maillard. Per questa ragione, la lionese è indispensabile per rosolare la carne o il pesce. Perfetta anche per la cottura al salto: dal riso alla pasta a vari tipi di verdure; in più, funziona benissimo per tostare frutta secca e semi tipo il sesamo.
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02. Il ferro consente di raggiungere velocemente alte temperature e di mantenerle costanti. Un aspetto essenziale che rende le padelle in ferro ideali per friggere – l’olio si scalda in fretta e in modo uniforme, e la temperatura rimane costante, evitando sbalzi termici improvvisi quando s'immerge il cibo. Preferitene una dal fondo spesso, la termoregolazione sarà ottimale. Inoltre, è un materiale adatto a qualsiasi tipo di riscaldamento (tranne il forno a microonde!): mentre il ferro è molto utilizzato per i classici piani cottura, a gas o elettrico, è ideale per la cottura a induzione e può essere messo tran-
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quillamente in forno. In quest’ultimo caso, non mettetela fredda nel forno già caldo perché non sopporta forti sbalzi di temperatura; lasciatela raffreddare nel forno per la stessa ragione. Controllate che il manico - se non è di ferro - sia adatto alla cottura in forno. Ricordate di utilizzare sempre la padella su un supporto e un fuoco adeguato alla dimensione, per non rischiare che il fondo si pieghi. 03. Cucinare nel ferro non rilascia sostanze dannose nel cibo 04. Il suo smaltimento non reca alcun danno all’ambiente circostante. 05. La padella in ferro ha un costo relativamente basso e una durata nel tempo ottimale. Se poi avete la fortuna di avere tra le mani la fedele padella in ferro della nonna e ancora non la state usando, qualche attenzione e cure speciali la riporteranno all’antico splendore. Se la usate già, sappiate che le sue prestazioni migliorano man mano che viene utilizzata, purché ci si prenda cura di lei.
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LA CORRETTA MANUTENZIONE DELLA PENTOLA DI FERRO
I nemici principali di questa padella sono l‘ossidazione e la ruggine che ne consegue: ecco cosa fare per evitare che si formino.
01. Condizionamento di una nuova pentola.
Quando è nuova o leggermente arrugginita, la padella in ferro va “condizionata”. L’operazione si chiama brunitura e la pulirà, rendendola antiaderente. A. Il procedimento consiste nell’immersione della lionese nuova in acqua molto calda e poco detergente per piatti per 10 minuti; sfregatela bene con una spazzola per piatti, risciacquatela e asciugatela bene. B. Ungetela poi con olio di semi di arachidi (anche le pareti interne) – gli oli vegetali hanno un alto punto di fumo - e trasferitela nel forno a 200°C fino a quando la superficie interna avrà preso una colorazione grigio-blu. C. Quando è ancora calda (attenti a non scottarvi), passatela con carta assorbente da cucina unta di olio di semi prima e asciutta poi; rimarrà comunque un po’ unta. D. Versatevi uno strato di sale grosso e rimettetela in forno qualche minuto, fino a quando il sale inizia a imbrunire. Smuovete il sale ogni tanto. E. Versate il sale nel lavandino (si scioglierà con l’acqua) e passate nella padella un foglio di carta da cucina asciutto per levare i residui. Appena si sarà raffreddata, ungete tutto l’interno con carta da cucina. La padella sarà pronta e potrete utilizzarla subito.
Qualunque sia il tipo di cottura, con la lionese si dovranno sempre utilizza-
Bisogna evitare che i cibi vi sostino a lungo; cercare di trasferirli prima possibile in modo che si formino poche incrostazioni nella padella e la pulizia risulti più facile. Una volta brunite, le padelle in ferro non vanno mai lavate con detersivo e mai messe in lavastoviglie. Dopo la cottura, aspettate che la lionese sia tiepida; se del cibo si fosse attaccato al fondo, grattatelo pure con una spatola. Per pulirla poi basterà passare fogli di carta da cucina all’interno, tre o quattro passate; poi ungetela di nuovo con poco olio di semi e carta assorbente e mettetela via. Se volete essere sicuri di non trasferire gli odorini fra una cottura e l’altra, ripetete l’operazione con il sale grosso al passaggio D prima di ungerla - oliate accuratamente sia l’interno sia l’esterno - e riponetela in un luogo asciutto. Il sale pulisce bene ed esercita un’azione anti-muffa.
03. Manutenzione ordinaria e straordinaria.
Deve rimanere sempre leggermente unta al tatto e va riposta in un luogo fresco e asciutto, lontana dall’umidità. Se impilate più padelle, separatele con fogli di carta assorbente. Nel caso di padelle molto arrugginite: eseguite il passo A, mescolando all’acqua la stessa quantità di aceto di vino bianco e immergetevi la lionese; l'intera padella dovrà essere coperta dal mix di acqua e aceto. Lasciatela immersa diverse ore (il tempo dipenderà dallo strato di ruggine), ma controllate spesso: una volta sciolta la ruggine, l’aceto intaccherà il ferro. Proseguite poi con le successive operazioni di brunitura (da B a E).
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2. Utilizzo in cucina
re grassi come olio, burro chiarificato o strutto; man mano che si utilizzerà la padella, il ferro si velerà e si ungerà, e sarà possibile diminuirne la quantità usata.
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LA RICETTA SCIENTIFICA
SPAGHETTI ALL'ASSASSINA INGREDIENTI dosi per 6 persone • 500 g di spaghetti o spaghettoni di Gragnano • 750 ml di acqua di pomodoro • 1 l di passata di pomodoro (usate il concentrato ottenuto dalla preparazione del consommé) • olio extravergine di oliva • 1 spicchio d’aglio • peperoncino fresco o secco q.b. PROCEDIMENTO Preparate un sugo ristretto con la passata di pomodoro e il concentrato ottenuto dal filtraggio del consommé. Tegame, olio extravergine, spicchio d’aglio a soffriggere. Versate la passata e fate cuocere fin quando non diventa bella densa. Salate e aggiungete foglie di basilico spezzate con le mani. Mettete sul fuoco una padella antiaderente o una padella tipo lionese, è importante che il diametro sia maggiore della lunghezza degli spaghetti, così che la pasta cuocia comodamente e bella distesa. Coprite gli spaghetti con l’acqua di pomodoro e portate a metà cottura. Quando gli spaghetti avranno riacquistato elasticità, aggiungete una mestolata di sugo di pomodoro pronto e spadellate. A questo punto spostate gli spaghetti sui bordi della padella, affinché stiano ben a contatto con la superficie riscaldante, fate un giro d’olio sui bordi (tra gli spaghetti e la padella si intende) e fateli sfrigolare per bene. Al centro aggiungete la salsa avanzata, basteranno un paio di mestolate. Tenetene un po’ da parte da usare nella fondina. Servite gli spaghetti in questo modo: mestolata di sugo sul fondo del piatti, spaghetti croccanti e fogliolina di basilico ribelle (nella ricetta originale non è prevista). Mettete a tavola il peperoncino, lasciando la libertà ai commensali di vivere un’esperienza gastronomica sbalorditiva, o di morire per colpa della capsaicina. Li farete secchi in ogni caso.
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Gianfranco Lo Cascio
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Non fare caso al disordine Seguo
a cura di Emiliano Nencioni
Benvenuti alla Seguo più bollente dell’anno, la rubrica Seguo estiva, quella di Agosto! Bollente non per l’audacità dei temi trattati, per le controversie che per sua natura normalmente attirerà: tutt’altro, l’appuntamento estivo, scritto quest’anno sotto la morsa dell’anticiclone Lucifero e una dirompente canicola, è tradizionalmente quello più all’acqua di rose, mite, redatto tenendo i piedi in un catìno di acqua gelata, scritto con un dito solo sullo smartphone da una ripida scogliera del litorale livornese. Si ma quindi?
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E quindi mi erano venute in mente tutta una serie di cose odiose o semplicemente inducenti livore e frustrazione, legate all’usanza di “andare in vacanza sui social”, un fenomeno di massa per cui in abbinamento ai momenti di svago personali si percepisce l’esigenza di urlare in testa a tutti i propri follower che sì, adesso è il tuo momento di mandare al diavolo tutti i problemi (pare ci siano persone abili nel farlo - non ne conosco), stai alla grande, te la godi, alla faccia di chi ti vuole male (sei un dittatore di un piccolo stato? Sei in regime di 41bis?).
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É la versione millennial delle funeste diapositive del matrimonio. Una variante con puntuale consegna porta a porta, con diffusione in streaming, delivery immancabile e personalizzato di queste diapositive: scorri il feed del tuo social preferito per goderti un po’ di cagnolini e gattini e trac, ti arriva la foto dell’amministratore delegato in piscina col drink ghiacciato galleggiante su apposito salvagentino da bicchiere. Cerchi le foto on stage di una rockstar, ma ti suggeriscono di gu-
starti il reel della tua parrucchiera, che invece di darti un appuntamento per sistemarti il taglio è fuggita nella villetta in montagna, perché “abbiamo avuto tanti pensieri quest’anno”. Tutti contenuti, irrimediabilmente, con un retrogusto di “alla facciazza vostra”, come se uno si rilassasse per fare un dispetto agli altri, o come se gli altri fossero minimamente interessati al benessere o alla temporanea spensieratezza degli sconosciuti. Le diapositive venivano proiettate al buio, e anche le agghiaccianti VHS da 240 minuti con il viaggio a Malta dei nonni richiedevano un po’ di penombra, e non era richiesta interazione: potevi metterti lì e semplicemente annullare la tua esistenza corporea per qualche oretta, mettendoti il cuore in pace e aspettando con rassegnazione la fine (un po’ quello che mi capita quando una persona fuori dal mio entourage pretende di parlarmi di un argomento a sua scelta per più di quindici secondi), oppure schiacciare un salvifico pisolino. Adesso no, i microcontenuti frazionati, in realtime e con montaggio frenetico, te li becchi tutti, pro-
Sean Norvet - Waiting For The Pizza Delivery Man (2014)
prio quando sei più vigile, e almeno un pietoso like all’amministratore delegato glielo devi mettere, altrimenti che figura ci fai, poi, mica vuoi sentirti ripetere per tutto l’autunno che tu “eri lì a rosicare invece che divertirti a commentare come tutti gli altri”. É narcisismo, o una sua forma tecnicamente avanzata figlia dei tempi. Nessuno si prenda la briga di criticare il narcisismo, che è un atteggiamento sano, autoconsolatorio e gratificante: la cosa più problematica forse è questo narcisismo iniettivo, che ti arriva porzionato in dosi ben intervallate tuo malgrado, senza aver mai accettato un simbolico invito alla messa in onda della VHS del compleanno del nipotino.
E adesso che come quasi ogni mese siamo arrivati all’adempienza contrattuale con il “parallelismo tra vita quotidiana e mondo del grilling”, giungo al punto cardine della rubrichina conclusiva del numero di Agosto. Da pochi anni a questa parte il consueto e sacrosanto post di narcisismo grigliatorio si è spostato pericolosamente da un “guardate di cosa sono stato capace io” a un deprecabile “guardate di cosa sono stato capace io e voi no”. Un po’ come le foto delle vacanze sbattute sui social prese in esame qualche riga più su: il pacifico “vedete un po’ che bella ciccia mi mangio” adesso ha un’irritante chiosa che suona sempre un po’ come “alla facciazza vostra”. Battutine, frecciatine, asserzioni passivo-aggressive a contorno. Mi risulta difficile fare degli esempi perché ogni individuo ha le sue idiosincrasie e le sue “chiose irritanti”, e il mio è un discorso del tutto sociologico e generale che non ha nulla a che spartire con il particolare e la persona singola: finirei per buttare
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Tocchiamo a mio avviso il fondo quando il narcisismo iniettivo di cui sopra diventa anche competizione paranoica (il mio relax è meglio del tuo!) e voglia di indispettire gli astanti ostentando benessere, ricercando l’invidia di chi guarda - per poi far sentire tutti in colpa per questo verdastro sentimento. L’omologo, in termini di coefficiente di odiabilità, della orrenda “foto dei miei piedi al mare” nel mondo del grilling è stata per molti anni la foto, ormai caduta un po’ in disuso, della fetta di brisket talmente morbido e cotto così bene da piegarsi attorno a un dito.
Alla milionesima reiterazione è diventata antipatica a tutti: era un momento di narcisismo, di auto incensamento, di amichevole sfida verso gli altri patiti di barbecue, ma aveva un gran pregio: non era polemica. Non attaccava, non cercava la rissa o l’umiliazione: affermava solo di aver conseguito un certo risultato.
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lì dei riferimenti fin troppo precisi, ed è quanto di più lontano dalle mie intenzioni. Usare una rubrica per accanirsi tramite complicatissime allegorie contro qualcuno: figuriamoci. Zero, proprio. Come siamo arrivati a questo ennesimo abbrutimento di un semplice e innocentissimo post di condivisione di risultati? Ho qualche teoria. •
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l’imitazione del personaggio popolare: lo fa tizio, si becca i like, e allora ricalco l’usanza la voglia di sentirsi parte di un’élite illuminata da contrapporsi a un vasto gregge di grigliatori inconsapevoli le reazioni inutilmente incollerite e a vario titolo rosicanti dei commentatori davanti a ottime tavolate e a risultati degni di nota
Proprio il terzo punto ha scatenato una specie di allerta preventivo, una partenza prevenuta che ha reso molto più antipatici e polemici i post: diamo per scontato che qualche perdigiorno vorrà dedicare dieci minuti del suo tempo ad un commento seccante, e ce lo immaginiamo subito assiso sul trono, pantaloni alle caviglie, intento a scovare qualche debolezza da evidenziare, per farci fare -sia mai, come si permette!- brutta figura. Una carne così bella, e poi servita in quei piatti…
“alla facciazza tua”. Che fastidio. Ma mangia tranquillo, che ti leggiamo tutti scrollando lo schermo con una velocità che non ti immagini. Naturalmente, facendo così, i commenti sarcastici e polemici sono assicurati. Un po’ come quando entra qualcuno in casa, o arriva il tecnico dell’ADSL, svogliato e col tablet marcio in mano, e sentiamo quel bisogno impellente di avvertire: “Non fare caso al disordine eh, sai, scusa, è proprio che è una mattinata… guarda quanto disordine - ma non farci caso, non farci caso” E il tecnico dell’ADSL, o l’amico inaspettato, è in questo modo costretto a rendersi conto del disordine, a notare le mutande lasciate sul divano, le magliette da stirare appoggiate al monitor 55” UHD, la trousse di chiavi a brugola aperta sul cuscino. Stessa cosa con i post con le premesse strafottenti e le chiose irritanti. É come servire la polemica su un piatto d’argento: “non solo sono conscio che il mio post ha queste debolezze e che questo aspetto potrebbe farti ironizzare, ti sbeffeggio già prima che tu pensi di intervenire, e mi rendo in qualche modo irresistibilmente insopportabile ai più”. Ed è così che si compie un piccolo disastro. Il commentatore (che pure lui, via, non ce la fa proprio a tenersela) abbocca, innesca la questione, si creano due schieramenti, e avanti fino a che il primo moderatore chiude tutto. Il grosso bisogno di imitazione fa tutto il resto.
A me sembra un po’ secca
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Hai completamente sbagliato l’annata del vino, rovescerei nel lavandino qualsiasi cosa dell’annata 2012!
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Troppo cibo sprecato E via. Succede, sì sì, succede, effettivamente. Chi posta allora si premunisce con mille premesse un po’ ironiche un po’ strafottenti, cerca di prevenire il commentatore noiosetto compiendo tutti i possibili spoiler sulle battute che potrebbero essere fatte. Autodifesa. Alla fine del post, eccola lì, appare tragicamente la chiosa irritante. Qualche motteggio, una breve massima, ed è subito sapore di
Ancora una volta, evidenzio un problema ma non ho modo di portare nessuna plausibile soluzione: ma ve l’ho detto dall’inizio, è una Seguo estiva, non fateci caso.
Emiliano Nencioni
Anna Reshetnikova - Clean up the mess (2020)
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CLUB
Diretta m e n t e da lla co m m u n i ty di ma e s t ri d i ba rbecue pi ù grande d’I tali a, nasce i l prest i gi oso club c h e ti offre la possi bi li tà di avere: a ccesso p ri or i tar i o al meg astore, dove pot ra i fa re ra zzi e m ent re tutt i gli a lt ri “ sono i n coda ” ; u na p rogra m ma zi o n e i n telli g en te dei tu oi acq u i sti gra zi e a l c re di to m e nsi le prepa gato (scegli tu quanto); u n coa c h pr i vato c h e ti g u i derà n e l fa rt i vi ve re l’ e s p eri enza
pi ù ecci tant e di sem pre
co n la pre p arazi one dei tuoi pi att i ; e molto altro an cora. . . Av ra i tu tto qu es to s o lo s e ti i s c r i vi s u bito a l MEG ASTOR E CLUB, l’uni co luogo ri servato a u na c e rc hia r i s t re tta d i a s pi ra n t i gri ll ma s t e r c he desi dera no a pprendere pi ù velocement e e nel modo p iù accurato possi bi le, la s ubli m e a rt e del gri ll. Pu oi di si scri vert i quando vuoi e i l tu o c red i to sarà sempre di s pon i bi le.
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