BBQ4All Magazine numero 33 - Settembre 2021

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N°33/ANNO 3 - SETTEMBRE 2021

L'EDITORIALE DI GIANFRANCO LO CASCIO

Glicolisi e frollatura della carne

SPECIALE CUCINA FRANCESE

Gratin dauphinois, Ratatouille, Soup à l’oignon, Bœuf bourguignon, Bouillabaisse, Coq au vin, Quiche Lorraine, Foie Gras, Tournedos, Saint Honoré NICE TO MEAT YOU

Hanger steak COME SI FANNO

Croissant

LA RICETTA SCIENTIFICA

Cacio e pepe

Gricia, Mac and Cheese, Nacho cheese sauce


Direttore Editoriale Rossella Neiadin

Redattore Capo Michela Bongiorni

Redazione

Enio Berton Virgilio Brunetti Tommaso Buccafurri Nunzia Clemente Roberto Dal Bosco Salvatore Di Mento Luca Gallozza Marco Gerometta Mariangela Ibba Gianfranco Lo Cascio Riccardo Meniconi Giovanni Minelli Emiliano Nencioni Elena Ninotti Andrea Spaggiari Alessandro Trezzi Carlo Trono Paolo Tucci Alex Vasile Caterina Vianello Alberto Zonghetti

Realizzazione Grafica

Impaginazione Carlo Trono Illustrazioni di Eleonora Castagna e Ozzy Bellesi Fotografie di Rossella Neiadin, Luca Gallozza, Tommaso Buccafurri, Elisa Giuli, Emiliano Nencioni

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IN DI Rubriche

Editoriale - Glicolisi e frollatura della carne

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Nice to meat you - Hanger steak

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Porfolio gastronomico #1- La nouvelle cuisine

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Porfolio gastronomico #2- La cucina francese

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Ricette

Gratin dauphinois

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Ratatouille 32 Soupe d'oignon

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Bœuf bourguignon

38

Bouillabaisse 42 Coq au vin

46

Quiche Lorraine

50

Foie Gras

54

Tournedos à la Rossini

58

Saint Honoré

60

Approfondimenti Arte Bianca - Croissant

70

Across the pond - It’s Halloween, be afraid!

76

From Zero to Hero - La cottura indiretta sui dispositivi a gas

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De Gustibus - Smoked pepperoni

84

La Ricetta Scientifica - Cacio e Pepe

90

Seguo - Una questione di -ismi desueti

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Editoriale di Gianfranco Lo Cascio

Conoscere la lavorazione della carne per scegliere quella più buona:

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GLICOLISI E FROLLATURA

uante probabilità ci sono di sfregare la monetina sul gratta e vinci giusto e farselo fregare agilmente dal tabaccaio? Sicuramente, ci sono più possibilità di trovare in giro una bistecca succulenta, saporita ma soprattutto tenera.

Eppure, il concetto che sta alla base del processo è molto semplice: compro la carne, la porto a casa, la cucino e la mangio di gusto. Ma è davvero sempre così? Di solito, l’iter è il seguente: recupero la carne, mi dirigo verso il domicilio, la schiaffo in padella e la bastarda invece di cuocere, comincia a sobbollire mestamente nella sua malmetta grigia. Quando poi inizio a degustarla, mi accorgo che devo lussarmi le mascelle per poterla masticare e buttare giù. Via con le dichiarazioni: quante volte vi è successo di assistere a questa scena? O di viverla in prima persona, addirittura. La notizia fantastica che sto per darvi è che potete smettere immediatamente di mangiare carne dura, semplicemente imparando a riconoscere quella tenera. Il grado di tenerezza di una bistecca è direttamente proporzionale al suo grado di frollatura. La frollatura della carne è il tempo di permanenza in cella frigo che intercorre tra l'abbattimento dell'animale e la sua vendita sul banco. PIÙ LUNGO È IL PERIODO DI FROLLATURA, PIÙ TENERA E SAPORITA SARÀ LA CARNE.

La prima cosa da chiarire è che, specie per il bovino, parlare di carne freschissima non ha senso. Dopo

Ma allora come mai i fasci muscolari non si induriscono subito? Facile, perché l’ATP non finisce subito: in una prima fase si rigenera dalla fosfocreatina (una molecola che agisce come accumulatore di energia) e dalla glicolisi anaerobica (processo del metabolismo durante il quale una molecola di glucosio viene scissa al fine di generare molecole a più alta energia), ma man mano le riserve di glicogeno, i depositi di glucosio, finiscono, e non si ricreano perché la glicolisi si arresta in seguito all’abbassamento del pH. L’aumento del livello di acidità è infatti un altro fenomeno che interessa le carni in questa fase: il pH da 7,3-7,5 passa nel giro di poche ore a 5,3-5,5 per accumulo di acido lattico; ma solo temporaneamente, perché poi torna su fino a stabilizzarsi a valori di 5,6-5,8. A cosa serve questo pistolotto di biologia animale? Serve a capire che la velocità del processo descritto incide sulle caratteristiche finali della vostra bistecca! Infatti, se durante la fase di macellazione non c’è sufficiente glicogeno nei muscoli, questo condiziona l’inizio del rigor mortis e impedisce il raggiungimento del pH acido, con la formazione di difetti visibili sulla carne, a livello di colore e struttura.

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Ma facciamo un passo indietro per capire cosa succede al suo interno prima del processo di frollatura. I muscoli vanno infatti incontro a una serie di cambiamenti biochimici e fisici molto importanti.

alcune ore dalla morte dell’animale compare l’irrigidimento o post-mortem: quindi la carne appena macellata è letteralmente immangiabile. Come mai i muscoli si irrigidiscono? Non arrivando più l’ossigeno e le altre sostanze portate dal sangue, si esaurisce l’ATP, la sostanza che permette all’animale vivo di muoversi, facendo contrarre i muscoli.

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I motivi che portano l’animale a consumare troppo glicogeno muscolare possono essere diversi e tutti riconducibili allo stress in fase di macellazione: i fattori sono la temperatura dell’ambiente in cui vive, lo stato di nutrizione dell’animale e il grado di affaticamento. Le carni che ne risultano hanno difetti di aspetto e struttura, generalmente descritti con due acronimi: PSE e DFD. PSE (dall’inglese pale, soft, exudative) sta per pallida, molle ed essudativa (che rilascia liquidi); la struttura della carne è in pratica crollata, così come la sua capacità di trattenre l’acqua all’interno. Pensate che danno può fare quando si tratta di carne per produrre insaccati. DFD (dall’inglese dark, firm, dry) sta per scura, dura e asciutta; la carne al contatto con l’aria è rosso porpora scuro anziché rosso brillante, ha un pH superiore a 6.0 e si contamina rapidamente poiché la bassa acidità favorisce una crescita batterica molto rapida.

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Le carni PSE e DFD sono certamente commestibili,

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ma tremende da mangiare: le prime rilasciano acqua in cottura, la famosa melma grigia di cui parlavamo all’inzio; mentre le seconde ha un sapore molto debole e risultano insipide, sia cotte che trasformate in salumi.

FROLLATURA Immaginiamo quindi che in fase di macellazione tutto vada liscio e la carne risulti perfetta: la carne non è ancora pronta per essere consumata perché, finché persiste la rigidità, è troppo dura. Ricordatevelo quando vorranno propinarvi la fettina fresca fresca e rossa rossa. Il muscolo si può quindi chiamare carne solo dopo la frollatura, un processo che conferisce aroma, tenerezza e succosità. Il giusto grado di frollatura, anche detta maturazione, è un requisito qualitativo fondamentale. LA STORIA La frollatura della carne non è certo un’invenzione dei tempi moderni. Già nel Medioevo si lasciava frollare la carne per renderla tenera e darle sapore.


Alla fine del XIX secolo, l'ingegnere francese Charles Tellier mise a punto delle celle frigorifere in cui si poteva regolare la temperatura in maniera precisa. Acquistò e adattò una nave, installò al suo interno le celle frigorifere e riuscì a trasportare un carico di carne di manzo da Rouen a Buenos Aires in 105 giorni. La carne, conservata fra -2°C e 0 °C, arrivò in perfetto stato. WET AGING e DRY AGING Si può frollare la carne in due modi: sottovuoto, in ambiente umido, o a secco, oppure in una cella frigorifera, con una temperatura e un grado igronometrico (umidità) controllati. L’aumento di tenerezza raggiunta è identico in entrambi i casi, ma la carne sottovuoto è sicuramente più pratica e facile da conservare.

Entrando nel dettaglio, nel processo di frollatura intervengono due meccanismi fondamentali: enzimatici e fisico-chimici. Gli enzimi, rilasciati da particolari strutture nelle cellule chiamate lisosomi, sono responsabili della scomposizione delle fibre muscolari. Questa scomposizione permette ai muscoli non solo di recuperare l’estensibilità che avevano durante la vita dell’animale, ma di aumentarla, rendendo la carne tenerissima. Tutte le proteine vengono attaccate e parzialmente disgregate dagli enzimi: prima quelle sarcoplasmatiche (proteine di membrana), poi le contrattili (actina, miosina) e per ultimo le proteine dello stroma (collagene, elastina). Queste ultime fibre connettive, se non ammorbidite a sufficienza,

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LA SCIENZA Come abbiamo detto prima, durante la fase di rigidità del capo abbattuto, le cellule della carne consumano il glicogeno (uno zucchero) contenuto nei muscoli e producono acido lattico: questo modifica

il pH della carne, che diventa acida. In seguito alcuni enzimi, le calpaine e le catepsine, iniziano a frammentare la struttura contrattile delle fibre muscolari, e avviene la proteolisi (degradazione delle proteine). Segue la lipolisi, che ossida i lipidi e sviluppa il sapore.

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risultano particolarmente ostiche da masticare (i cosiddetti “nervetti”). Ma non finisce qui: gli enzimi attaccano anche i grassi. La lipolisi (scissione) che i grassi compiono inizialmente a bassa temperatura conferisce aroma e sapore, idrolizzando i trigliceridi insaturi e gli acidi grassi saturi a catena corta. È solo col passare del tempo o con temperature non sufficientemente basse che può iniziare anche l’ossidazione dei grassi, che però va evitata in quanto responsabile dell’irrancidimento. Avete presente l’ingiallimento esterno delle parti grasse? Ecco, quello è un indizio di irrancidimento. Questa attività enzimatica è strettamente collegata al pH (che, abbiamo detto, è correlato alla quantità di glicogeno inizialmente presente nel muscolo) e alla temperatura: la riduzione dell’intensità di raffreddamento nei locali di frollatura accelera infatti l’attività delle proteasi (enzimi). Anche l’età dell’animale influisce sulla maturazione, in base al carico di collagene: per questo motivo è più veloce e intensa nei capi giovani.

IL METODO DI SOSPENSIONE INFLUENZA LA FROLLATURA

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Dopo la macellazione, le carcasse vengono sospese con un gancio inserito nel tallone di Achille.

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SOSPENSIONE DAL TALLONE D’ACHILLE Questo tipo di sospensione è effettuato per guadagnare spazio,


ma i muscoli del dorso che sostengono tutto il peso della carcassa vengono compressi durante il rigor mortis. Muscoli compressi significa lieve aumento della tenerezza della carne. Alcune realtà praticano invece la sospensione pelvica. SOSPENSIONE PELVICA In questo caso si sospende la carcassa per l’osso iliaco del bacino: è la colonna vertebrale che sostiene la carcassa appesa al gancio, i muscoli sono in posizione di stiramento e diventano molto più teneri. In questo tipo di aggancio, i muscoli del dorso acquisiscono una forma diversa dal solito. Per esempio, la bavetta è molto più lunga e sottile, sicuramente migliore. I muscoli stirati apportano grande tenerezza alla carne.

FROLLATURA: PERCHÉ È COSTOSA? - Ci vuole del tempo per realizzarla. - Ci vuole spazio, molto spazio, per metterla in pratica. - Nel caso del dry aging, si verifica una considerevole perdita di peso: una parte dell’acqua contenuta dalla carne evapora e si taglia via la parte di carne asciugata all’esterno. Insomma, si perde fra il 40% e il 50% del peso iniziale.

PERCHÉ LA CARNE FROLLATA È PIÙ BUONA? La carne ben frollata è più tenera e succosa perché le proteine frammentate hanno una struttura che conferisce masticabilità e consente alle fibre di mantenere i succhi durante la cottura. Questa carne offre un ventaglio di sapori ben più ricco di una carne normale: il sapore è più concentrato e al suo interno si sono sviluppati nuovi aromi. La carne frollata è destinata ad un'utenza consapevole, che sa cosa vuole e ne riconosce il valore. La frollatura è uno dei parametri fondamentali necessari a stabilire, con precisione, il livello di qualità di una data partita di carne. Ed è importantissimo conoscerla per poi avere almeno la libertà, la facoltà e la possibilità di scegliere quale prodotto comprare. Cosa abbiamo mangiato fino ad oggi e cosa mangeremo domani, dipende dalle nostre scelte, non dalle nostre possibilità. E ora sapete tutto, ma proprio tutto, sulla frollatura.

Gianfranco Lo Cascio

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Le selezioni Gianfranco Lo Cascio Top Selection, dal Giappone agli Stati Uniti, dall’Irlanda all’Australia, le trovi in esclusiva su

Selezioniamo la tua carne La carne frollata offre un con il periodo ventaglio di sapori ben più ricco più lungo di di una carne normale: il sapore frollatura, per è più concentrato e, dopo il elevare l’esperienza processo, al suo interno si ai massimi livelli. sviluppano nuovi aromi. megastore.bbq4all.it

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La bistecca del mese

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HANGER STEAK


“Hanger is The New Rib Eye”, potrebbe affermare qualche fortunato che abbia avuto modo di assaggiare questa prelibatezza cucinata a dovere. Parliamo di un taglio unico ed inconfondibile, abbastanza sconosciuto fino a poco tempo fa, che sta lentamente spopolando in tutto il mondo negli ultimi anni. Il connubio perfetto tra il sapore beefy intenso che lo caratterizza e una morbidezza spropositata, data dalla marezzatura presente in abbondanza tra le enormi fibre, lo rendono un taglio davvero formidabile. Conosciuta anche come: Lombatello (Italia), Onglet (Francia), Butcher’s steak, Bistro steak (USA) Entraña, Fajitas arracheras (Sudamerica) Deve la sua fama anche all’utilizzo sempre piu massiccio dei social e alla curiosità delle persone: la voglia irrefrenabile di assaggiare qualcosa di diverso, di migliore. In effetti il suo sapore è davvero intenso e la sua morbidezza fa impazzire gli amanti delle bistecche. Anni fa la si poteva trovare occasionalmente sul menu dei pochi ristoranti che sapevano cucinarla, ma nella grande maggioranza dei casi diventava carne trita o spezzatini. Ad oggi, in alcuni casi costa più dei tagli di prima scelta ed è addirittura difficile da reperire.

DESCRIZIONE

aperti. Nella carcassa ce n’è uno solo e lo trovate tra la dodicesima e la tredicesima costola, decentrato sul lato destro. Per quale motivo? Perché a sinistra c’è il rumine.

Per Hanger si intendono i pilastri del diaframma, ogni pilastro è composto da una parte destra e una parte sinistra. In mezzo passa proprio l’aorta. I pilastri sono la continuazione del diaframma, che si apre per far passare l’esofago, e si collegano alla colonna vertebrale.

È ricoperto da una membrana relativamente traslucida (la stessa che copre l'inside e l’outside skirt), e pesa in media dai 400 g ai 900 g. Apparentemente si presenta come un pezzo unico ma sotto la membrana si notano effettivamente due muscoli ben distinti (crus sinistrum diaphragmatis, crus dextrum diaphragmatis), uniti da un tendine spesso e bianco, che il più delle volte viene eliminato prima della cottura. Quando viene tagliata in singole bistecche, presenta una parte

La Hanger è un taglio molto irrorato di sangue, per questo molto saporito, ed è caratterizzato da una forma (quasi a V, o addirittura) a X quando entrambi i lombi sono un po’

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Considerato parte del diaframma, insieme all'Inside e all’Outside Skirt, il nostro taglio (Crus del Diaframma) è situato nella zona lombare, dove finiscono le ultime costole

all’interno della cavità toracica, appesa- come il nome suggerisce “to hang” “appendere”- in prossimità dei reni sulle prime vertebre lombari. Pende letteralmente dalla pancia.

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un po’ più bassa, per questo è difficile cuocerla in maniera omogenea. Le sue fibre mostrano una struttura molto “lenta” una volta trimmata (ripulita), con una grana particolarmente marcata, simile alla Skirt o Flap, ragion per cui a volte viene confusa con i tagli menzionati. Inizialmente era collocata nella cosiddetta categoria delle “Butcher's Steak”: difficilissima da reperire proprio perché il macellaio non la metteva proprio in vendita, tenendola per sé.

PREPARAZIONE

Per un’accurata e opportuna pulizia dela Hanger serve sopratutto sapere che risultato finale si vuole ottenere, o in

che tipo di ricetta la si vuole utilizzare. I fattori che possono influenzare radicalmente il modo in cui trimmiamo il nostro pezzo sono il quantitativo di grasso intramuscolare e superficiale e la grandezza effettiva del pezzo. Un taglio di Black Angus cucinato intero sarà pulito/ sgrassato diversamente da uno di Wagyu cotto in stile Yakiniku. Ipotizzando che il nostro taglio non abbia subito alcun trattamento di pulizia, possiamo iniziare il trimming armati di un coltello ben affilato e, con molta attenzione, possiamo rimuovere prima di tutto il grasso superficiale in eccesso, per poi proseguire rimuovendo la membrana che lo ricopre.

Il passo successivo è dettato, come abbiamo già detto, dalla scelta della ricetta che vogliamo preparare. In questo caso, immaginando di volerlo cucinare intero ma diviso in due parti, procederemo nel rimuovere il tessuto centrale con cautela, dato che in cottura le elevate temperature potrebbero farlo accorciare con conseguente deformazione della bistecca. Dopo aver eseguito i passaggi sopra elencati a dovere, la nostra Hanger Steak dovrebbe essere porzionata perfettamente e pronta per la griglia.

COTTURA

Fortunatamente la cottura ideale per la Hanger Steak è anche la piu semplice, ed è senza ombra di dubbio una diretta su calore più feroce che potete alimentare, con l'accortezza di non andare mai oltre i 50°C 52°C al cuore.

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Che voi usiate una padella in ghisa oppure la griglia, il risultato sarà eccezionale se la cauterizzazione avverrà nel modo giusto: non dimenticate di asciugare bene prima la carne e di ungerla con olio o burro chiarificato, per sviluppare una migliore crosticina.

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Potete anche sbizzarrirvi con le marinature (la fibra lassa e larga è perfetta per essere marinata), con cotture veloci ma anche lente, che possono aggiungere una nuova dimensione al taglio. La sua elevata morbidezza, rispetto ad altri pezzi più nobili, è dovuta al fatto che, pur facendo parte del diaframma, è principalmente un muscolo di sostegno, che si contrae ben poco durante la vita dell’animale.


Tuttavia, non bisogna sottovalutare il modo in cui affettiamo il pezzo prima del servizio. Come sempre è molto importante tagliare contro fibra e fare delle fette sottili non prima di averlo fatto riposare per almeno cinque minuti.

CONSIGLI PER IL SERVIZIO

Potreste accostare una salsa al gorgonzola con erba cipollina per contrastare le forti note manzose della Hanger, e servire con una spadellata di cavolo nero con aglio, uvetta e pinoli. Allo stesso modo, potete usare la Hanger per riempire delle Fajitas insieme ai condimenti e alle verdure che più preferite.

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e l l e v u on cuisine

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L’evoluzione della cucina classica Portfolio gastronomico #1 a cura di Nunzia Clemente


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o sentito una quantità di battute imbarazzante sulla nouvelle cuisine. Che fa spendere molto, che non riempie, è cotto puoi scolare, eccetera. Almeno nella nostra fetta di mondo, l’atto del mangiare si è (per fortuna!) “scollato” dal mero bisogno fisico di saziarci. Certo è che la memoria gustativa, la famosa madeleine di Proust che ci farà sembrare sempre il sugo della nonna più buono di qualunque ragù scientifico, resterà sempre. Ma non deve essere, necessariamente, l’unico modo di leggere e di fruire della gastronomia. La nouvelle cuisine è, molto semplicemente, un movimento di pensiero e di azione gastronomico che ha rivoluzionato il mondo delle cucine (a tutti i livelli, dai ristoranti alle case dei privati cittadini) a partire dalla Francia, per poi estendersi in tutto il mondo. La teorizzazione di questo movimento (ma dire movimento è riduttivo) la dobbiamo a due critici gastronomici che almeno la metà del pubblico non conosce. Nella fattispecie, parlo di Henri Gault e Christian Milau. Ma la storia della nouvelle cuisine non può che partire, appunto, dalle cucine. La guida ne è solo la teorizzazione, ma la messa in pratica è altra cosa.

Nouvelle cuisine. Un po’ di nomi. Difficile è stabilire quando, effettivamente, sia nato il termine nouvelle cuisine; se già il filosofo Voltaire ne attesta l’utilizzo dai suoi contemporanei. Già dagli anni Sessanta del ‘900, i giovani cuochi francesi trovano strette le maglie della cucina tradizionale: per cucina tradizionale s’intende quella codificata dalle grandi scuole classiche che fanno capo a Marie Antoine Carême (1784-1833) e Auguste Escoffier (1846-1935). Carême, possiamo dire con una certa tranquillità, fu il codificatore di una cucina borghese, democratica, alla portata di tutti; è figlio della Rivoluzione francese, dopotutto. Ed è anche il primo chef ad essere universalmente riconosciuto in quanto tale.

Nella Parigi degli anni Sessanta – bisogna ricordarlo, una Parigi in pieno fermento, con tantissimi movimenti culturali in atto, uno tra tanti quello cinematografico della nouvelle vague, che tanto ha segnato per più di mezzo secolo la cultura europea e mondiale, ma anche il movimento del Noveau roman, della nuova letteratura – iniziarono ad agire questi nuovi chef e ristoratori (quindi, anche imprenditori) che proponevano un nuovo modello ristorativo. Tre sono i nomi che hanno maggiormente influenzato e diffuso il concetto di nouvelle cuisine: Paul Bocuse, Michel Guérard e Fernand Point. Sì, ma: in cosa consiste la nouvelle cuisine? Come ogni movimento nuovo che si contrappone a quello già esistente (e la Francia, in tal senso, insegna!), c’è un momento di “rottura” e successivamente di affermazione. Non si esime la nouvelle cuisine. Gault e Milleau teorizzarono che la nouvelle cuisine fosse la cucina dei giovani cuochi dell’epoca che andava in contrapposizione alla grande cucina classica allora ampiamente diffusa. Gli chef volevano prendere il loro momento di ribalta proponendo ricette nuove, che andassero oltre al numero limitato delle grandi preparazioni della tradizione francese, come ad esempio i Tournedos à la Rossini, Canard au sang, Poisson au beurre blanc. Inoltre, si notò che l’utilizzo di intingoli, salse e fondi – preparati molte e molte ore prima del servizio – andava limandosi in questo nuovo tipo di cucina. Gli ingredienti erano perlopiù freschi, di stagione e – per quanto possibile – preparati al momento per il commensale. In estrema sintesi, l’idea era quella di semplificare il più possibile tutti i processi per la creazione di un piatto, con un occhio alla dietistica, scienza che stava diventando sempre più importante. Nel 1973, Gault e Milleau – in piena contrapposizione con la critica gastronomica classica – fecero circolare il Manifesto della nouvelle cuisine, che ebbe da subito un effetto prorompente tra la nuova guardia di cuochi francesi.

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Per quanto riguarda Escoffier, le sue eco arrivano sino ad oggi, influenzando ancora una buona fetta di cucina. Il fine dining deve a lui un certo tipo di codificazione dello stesso, che è ancora usato oggi in moltissime cucine. Se lo stile sfarzoso di Carême

è molto più semplice da minare e, in un certo senso, da mettere da parte, Escoffier capì che la strada che gli si parava davanti era quella di iniziare ad eliminare il superfluo, di “ridurre all’essenziale”. C’è da dire che ci aveva visto giusto.

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IL DECALOGO DELLA

NOUVELLE CUISINE Con piccole note didattiche e culturali a cura della sottoscritta.

1. Tu ne cuiras pas trop. Non cuocerai troppo le pietanze. Finalmente, si stava iniziando a prendere in considerazione ciò che noi pratichiamo ormai come un mantra: un cibo è cotto quando è cotto. Complici, all’epoca, l’avvicendarsi di cibo più sicuro (e quindi, che necessitava di meno cottura) e di nuove tecnologie. 2. Tu utiliseras des produits frais e de qualité. Utilizzerai prodotti freschi e di qualità. La stagionalità e la ricerca del prodotto iniziano a far capolino. Temi che, nei decenni successivi, terranno letteralmente banco. 3. Tu allégeras ta carte. Alleggerirai il tuo menu. Una diretta conseguenza di un menu che segue la stagionalità è un menu con una scelta considerevolmente ridotta. Poche proposte, studiate e calibrate secondo gli ingredienti di stagione. 4. Tu ne seras pas systématiquement moderniste. Non sarai sistematicamente modernista. 5. Tu rechercheras cependant ce que t’apportes les nouvelles techniques. Ricercherai tuttavia il contributo di nuove tecniche. 6. Tu éviteras marinades, faisandages, fermentations, etc. Eviterai marinature, frollature, fermentazioni, ecc. Beh, possiamo dire che questo punto al giorno d’oggi è stato abbondantemente sorpassato. Non credete? 7. Tu élimineras les sauces riches. Eliminerai le salse e i sughi ricchi. L’eliminazione dei condimenti particolarmente ricchi è sicuramente un atto molto grande di ribellione nei confronti della cucina tradizionale francese, di gran lunga tra le grandi cucine del mondo più ricche di sughi, salse e fondi di cottura. 8. Tu n’ignoreras pas la diététique. Non ignorerai la dietetica. Negli anni a venire, l’impatto sul corretto regime alimentare avrà sempre più peso. Possiamo dire che, in tal senso, Gault e Milleau sono stati dei veri e propri anticipatori.

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9. Tu ne truqueras pas tes présentations. Non truccherai la presentazione dei tuoi piatti.

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10. Tu seras inventif. Sarai inventivo. … mica poco, per concludere!


Com’è che la nouvelle cuisine si è diffusa in tutto il mondo? Le cose nascono quando è il momento giusto di nascere. Nulla capita per caso: una nouvelle cuisine nell’Ottocento sarebbe stata impraticabile oppure relegata ai pochi, fortunatissimi fruitori. Gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso furono quelli del boom economico nel mondo Occidentale: i vari piani di ripresa economica varati nel Secondo dopoguerra stavano dando i frutti, spinti anche da una eccezionale voglia di primeggiare da parte dei Paesi appartenenti all’orbita NATO rispetto a quelli orientali.

Questo vagare di persone, merci ed idee favorì notevolmente e velocemente la diffusione della nouvelle cuisine: da non dimenticare l’importanza primaria dei mezzi di comunicazione in questo frangente. Ormai, grazie al benessere diffuso, in ogni casa c’era un televisore. Il momento propizio per portare gli chef in tv era giunto e, con essa, la nouvelle cuisine. Non mancarono certo i detrattori, così come gli accademismi sterili in cui questa tendenza cadde. Ma, a quasi cinquant’anni dalla creazione del Manifesto da parte di Gault e Milleau, possiamo dire che alcuni principi cardine della nouvelle cuisine sono rimasti: l’utilizzo di prodotti freschi e di stagione, tempi di cottura precisi, salse leggere e presentazione studiata, non pacchiana.

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LA CUCINA

FRANCESE

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elle città e persino nei paesi si trovano fornai e rosticceri che vendono ogni sorta di piatti pronti, o quanto meno già preparati che si devono solo cuocere. I capponi, le pernici e le lepri costano meno lardellati e arrostiti che ad acquistarli vivi al mercato fuori Parigi. I prezzi degli alimenti non sono alti, perché non vi è cosa per cui i francesi spendono più volentieri il loro denaro che per il buon cibo. Per questo vi sono talmente tanti beccai, rosticceri, rivenditori e osti che non ci si raccapezza letteralmente più. I rosticceri e i fornai in meno di un‘ora preparano un pranzo o una cena per dieci, o anche per cento persone. Il rosticcere fornisce la carne, il fornaio le sfogliate ripiene, le torte e gli antipasti, mentre il cuoco prepara le gelatine, le salse e i condimenti." Così scriveva nel 1577 l’ambasciatore di Venezia presso la corte francese: e dire che doveva intendersi di cibo, in quanto la città lagunare, a quel tempo, era considerata la Mecca dei buongustai. Tuttavia, la Francia e la sua capitale stavano iniziando a diventare protagonisti dell’universo culinario. Oggi associamo la cucina francese a ricchezza, varietà, raffinatezza, secondo un immaginario ben diffuso tra gli intenditori stranieri: champagne, caviale, foie gras, tartufi, ostriche sono spesso associati al lusso della tavola transalpina e della sua capitale. Ma, si sa, stereotipi (per quanto spesso si avvicinino per certi versi alla realtà), diventano riduttivi; anche nel nostro caso, tale immagine non rende affatto l’idea della straordinaria complessità dell’universo gastronomico d’Oltralpe. Difatti sono pochi i Paesi che durante i secoli hanno dimostrato tanta creatività e varietà in cucina, oltre all’esaltazione delle “sensualità gustative”; ancora meno, sono quelli che hanno sviluppato uno spirito di assoluta eccellenza riguardo al vino. Certo, la rivalità con il nostro Paese – che perdura ancora oggi allargandosi anche ad altri ambiti, si pensi ai recenti contest musicali o agli Europei di calcio – non sempre aiuta ad osservare con distacco ed equilibrio le vicende culinarie dei nostri cugini, soprattutto in materia di enogastronomia. Ma, ormai lo sapete, noi siamo soliti superare ogni pregiudizio in materia: pertanto iniziamo il nostro viaggio.

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AGLI ALBORI: DA… ASTERIX AL MEDIOEVO

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I Galli erano una popolazione, così chiamata dai Romani, che abitava l’odierna Francia; ma altro non erano che i Celti, i quali dalla Britannia si erano spostati verso Sud. Quindi, a scanso di equivoci, Celti e Galli sono lo

Portfolio gastronomico #2 a cura di Alberto Zonghetti Illustrazioni di Eleonora Castagna

stesso popolo. Chi ha superato le quaranta primavere ricorda sicuramente il fumetto e poi i cartoni animati - ma anche i film, purtuttavia di minore rilevanza - di Asterix. Oltre alle vicende molto divertenti, che vedevano impegnato un villaggio sperduto della Gallia contro l’invasione dei Romani, memorabili sono i banchetti con i quali terminavano gli episodi: enormi fuochi con spiedi monumentali e decine di cinghiali arrostiti, innaffiati da birra a fiumi. Ma cosa mangiavano veramente i nostri GalliCelti? Sicuramente carni cotte su grandi spiedi, maiali e cinghiali, e qui il nostro fumetto si dimostra storicamente coerente. Ma non dobbiamo dimenticare che sul focolare bolliva sempre un calderone, oggetto principale e quasi sacro della cucina: base dell’alimentazione quotidiana era la zuppa. Brodo caldo, fatto con ossa e parti di scarto, lardo salato, selvaggina minuta, erbe di campo, cavolo, rapa, lenticchie, fave, piselli. Il calderone non si svuotava quasi mai, ma quando accadeva si recuperava il fondo per realizzare delle polpette particolarmente saporite. Insomma, stiamo parlando dell'antenato di una vivanda basilare per l’alimentazione europea, ovvero il bollito con


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verdure preparato con numerose varianti nazionali: la petite marmite o il pot-au-feu francesi, l’olla potrida iberica, il lesso misto italiano. I Galli erano anche abili allevatori, per cui troviamo abbondanza di burro e di formaggi; la loro bevanda era la cervogia, birra ottenuta con orzo e frumento. Nei secoli successivi alla caduta dell’Impero romano, tutta l’Europa medievale, pur con qualche differenziazione, condivideva l’usanza – presso i nobili e i signori - di indire fastosi banchetti dominati principalmente da carni sontuose fortemente speziate, simbolo di benessere e di prestigio, accompagnate da salse ricche, grasse e dense, consumate portando il cibo direttamente alla bocca senza posate.

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Nel XIV secolo in Francia si distinse un tal Guillaume Tirel, soprannominato Taillevent per il gran naso con il quale sembrava fendere il vento e per l’olfatto

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leggendario, considerato il primo cuoco transalpino di professione e uno tra i più importanti d’Europa. Ricevuta nel 1381 dal re Carlo VI la nomina di Maestro di cucina, ci ha tramandato la sua arte culinaria attraverso un’opera manoscritta, Le Viandier redatto in forma poetica pare nel 1380, contenente quarantasei ricette raffinate e non comuni. Ma per la Francia erano tempi duri: la peste, le carestie, la guerra dei Cent’anni (1337-1453) avevano decimato la popolazione e messo a dura prova le risorse della nazione. Dobbiamo attendere la seconda metà del Quattrocento per


assistere ad una rinascita: nei celeberrimi mercati coperti di Parigi era possibile acquistare in abbondanza tutti i prodotti che il paese offriva grazie all’ampliamento – per decreto reale – delle vie commerciali: grano, verdure, carne e pesce. Erano maturi i tempi per il Rinascimento dell’arte culinaria: fu tradotto il testo fondamentale della cucina italiana ad opera di Mastro Martino, il Liber de arte coquinaria; i sovrani iniziarono ad occuparsi personalmente di gastronomia (a tal proposito, si dice che Carlo VIII, dopo l’invasione in Italia e la ignominiosa ritirata, si fosse consolato

recenti tendono a ridimensionare questa narrazione). Pare che Caterina eliminò l’usanza di servire tutte le portate assieme, introducendo la sequenza dei piatti e distinguendo il dolce dal salato. Ma l’ambiziosa regina, dotata di vorace appetito e gusti molto raffinati, si servì dell’arte culinaria per aumentare il proprio potere: faceva allestire banchetti che valevano più di centomila monete d’oro, suscitando le critiche dei suoi numerosi detrattori, ma anche lodi incondizionate per le prelibatezze che faceva servire agli invitati: polpettine di pollo, carciofi ricoperti di salse raffinate, prelibate creste di gallo, salsicciotti di fegato di vitello o di maiale. Nel 1549 la città di Parigi diede un pranzo di gala in onore della regina. Tra le altre cose vennero serviti “33 arrosti di capriolo, 33 lepri, 66 conigli e 6 maiali, 9 gru, 21 pavoni, 33 aironi grigi e 33 aironi argentati, 99 tortore, 66 galline da brodo, 66 tacchini, 66 fagiani, 30 capponi e 99 galletti marinati nell’aceto, 3 staia di fagioli, 3 staia di piselli e 12 dozzine di carciofi”. Niente male, neanche per poco meno di mille invitati. Naturalmente, in onore della cattolicissima e superstiziosa Caterina, tutti i cibi dovevano essere divisibili per tre. il numero perfetto.

affermando di avere portato con sé “parmigiano e maccheroni”). Mancava però un impulso dall’esterno che proiettasse la gastronomia francese verso l’eccellenza: spinta che arrivò da una persona, guarda a caso, italiana: Caterina de’ Medici.

LA GRAND CUISINE INIZIA… DALL’ITALIA La giovane Duchessa di Urbino, educata a Firenze, culla del Rinascimento, andò in sposa ad Enrico II Re di Francia attraverso un’intricata ed elaborata operazione diplomatica.

Le testimonianze letterarie ci raccontano con precisione questi cambiamenti avvenuti lungo tutto il Cinquecento, nei quali si riconoscono gli influssi della cucina toscana. Le spezie, rispetto al Medioevo, venivano usate con più parsimonia, a vantaggio delle erbe aromatiche che esaltavano il sapore dei singoli

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Al seguito della sovrana, grande appassionata di cucina, giunsero alla corte parigina numerosi cuochi toscani e italiani (anche se in verità studi più

Al di là degli aneddoti, con l’arrivo della principessa italiana cambiò anche l’aspetto della mensa: non più pesanti boccali ma delicati bicchieri in vetro ad imitazione di quelli di Murano; piatti e scodelle in terracotta smaltata per non usare sempre costose stoviglie in oro e argento. E, grande rivoluzione, Caterina introdusse l’utilizzo di un oggetto che a Firenze era stato da tempo utilizzato: la forchetta. Avviò, insomma, un vero e proprio rinnovamento all’interno della cucina francese del Cinquecento, proprio mentre un altro notevole impulso venne ricevuto dal Nuovo Mondo: nuovi prodotti vennero introdotti nelle tavole di tutta Europa (si veda il Magazine n. 19/luglio 2020), soprattutto il grano spagnolo – ovvero il granturco - e il pollo indiano, cioè il tacchino, particolarmente amato dai buongustai e che non mancò mai nei banchetti di Parigi.

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alimenti. Non mancavano affatto, intendiamoci, le sontuose piramidi di carni e di arrosti volte a celebrare il prestigio di coloro che organizzavano i banchetti, ma il tutto risultava più leggero. Non ci si limitava più solo a bollire e ad arrostire: ora si stufava, si cuoceva a vapore, si marinava. Il sugo degli arrosti iniziò a sostituire come base le salse piccanti e speziate, l’insalata e il melone erano serviti come antipasti. I cuochi iniziarono a utilizzare la frutta per rendere le salse più delicate, la minestra francese si stava avvicinando a ciò che oggi intendiamo, mentre dal minestrone si sviluppò il pot-au-fe apprezzato ovunque Grande interesse destarono i dolci italiani; soprattutto vennero elaborate tecniche, per preparare marmellata e frutta candita, da un certo Michel de Notre-Dame (questo nome vi dice qualcosa? Si, è proprio lui, Nostradamus… quello delle profezie e dei misteri!).

DALL’ANCIEN REGIME ALLA NOUVELLE CUISINE Nella seconda metà del Seicento, la cucina francese subisce un’ulteriore impulso di rinnovamento e di ampliamento, divenendo sempre più varia e ricercata. Da questo momento in poi troviamo il periodo dei grandi cuochi e del fiorire dei testi gastronomici: il primo protagonista fu Pierre de la Varenne (1618-1678), autore de Le cuisinir francois, capace di compendiare la cucina rinascimentale diventando, di fatto, il padre della gastronomia moderna.

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La sua luce fu oscurata da giovani cuochi più creativi di lui: Béchamel (1630-1703), chef di Luigi XIV, inventore della salsa che prese il suo nome; Vatel (1631-1671), cuoco del Principe di Condè, la cui intensa storia è ben raccontata dall’omonimo film. Segue poi Anthelme Brillat Savarin (1755- 1826) autore de La fisiologia del gusto, fondatore della figura dell’intellettuale gastronomo.

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La Rivoluzione francese vede la nascita dei primi ristoranti ad opera dei rinomati cuochi precedentemente al servizio di Corti e famiglie aristocratiche: decisero, giustamente, di reinventarsi dopo che i loro datori di lavoro ben pensarono di fuggire in esilio all’estero. Marie Antoine Careme (1784-1833), autore dell’Art de la Cuisine francaise in cinque tomi e figlio

della rivoluzione borghese, è il fondatore dell’Haut cuisine (alta cucina) e padre della cucina francese moderna. Ma l’Ottocento è anche l’epoca della tradizione che, facendo leva sulle regionalità, pone le fondamenta dell’odierna cucina francese. All’inizio del secolo scorso, in piena Belle Epoque, troviamo Auguste Escoffier (1836-1945), geniale capocuoco ed imprenditore, inventore di ristoranti mitici nonché padre, insieme a César Ritz, del concetto stesso di ristorazione alberghiera di lusso. Il dopoguerra vede la trasformazione della Francia da paese rurale a nazione industrializzata; l’avvento dei nuovi mezzi di comunicazione di massa sembra dare un colpo fatale alla campagna e alle tradizioni. Tuttavia, la morte programmata delle usanze alimentari locali non ha avuto pieno compimento, poiché le identità hanno resistito all’invasione del cibo già pronto; gli eccessi della globalizzazione hanno addirittura provocato il risveglio delle regionalità, e lo scadimento della alimentazione industriale ha ridato smalto e importanza ai prodotti del territorio. La semplicità è tornata a essere un valore culinario, quale espressione di schiettezza e di autenticità, mentre il discorso gastronomico ha enfatizzato volentieri le virtù delle cucine del territorio. Questa evoluzione ha portato alla cucina francese che conosciamo oggi, passando da una tappa importante che ha definitivamente rivoluzionato e decretato la fama della cucina francese conosciuta in tutto il mondo: la Nouvelle cuisine, ultima frontiera dell’egemonia francese teorizzata da Alain Ducasse e Paul Bocuse. Era basata su quattro regole fondamentali: prodotti freschissimi, e di qualità; tempi di cottura brevi e precisi; salse leggere; l’estetica della presentazione, tanto importante quanto il sapore e la leggerezza.

DI REGIONE IN REGIONE Un aspetto che accomuna la cucina della Francia e quella dell’Italia è il fatto che ogni regione possieda una tradizione culinaria propria, differente da quella delle altre, la cui base sono materie prime naturali e stagionali . Ogni ricetta ha origine dallo studio attento delle caratteristiche degli ingredienti, sapientemente abbinati per creare un equilibrio di sapori straor-


dinario. Per accompagnare tutti i tipi di carne (dal maiale al manzo), le varietà di pesce, le insalate e la maggior parte delle portate, la cucina francese offre una vasta gamma di salse, differenti da zona a zona, con ingredienti sapientemente combinati per esaltare le specialità tipiche stagionali. La composizione delle portate è solitamente orientata in questa modo: un piatto unico (entrée) che svolge il ruolo di antipasto e primo contemporaneamente; l’assenza del primo piatto in stile italiano, dato che la pasta o il riso sono usati spesso senza condimento come contorno od accompagnamento; l’importanza delle zuppe; il piatto principale, carne o pesce; grande utilizzo di insalate accompagnate da salse (spesso all’inizio del pasto); enorme importanza dei formaggi; presenza fissa del dessert. Il vino ha un posto di assoluta preminenza tra le bevande alcoliche, ma non sono affatto trascurabili le birre o, nelle regioni settentrionali, il sidro. Per vivere un’esperienza gastronomica appagante è d’obbligo consumare i propri pasti, a pranzo o a cena, almeno una volta nei tipici e famosi bistrot: l’atmosfera di casa che si crea con le luci soffuse,

gli arredamenti classici, i piatti della tradizione popolare parigina, un servizio informale e simpatico (e un’ampia scelta di vini) rendono il tempo passato all’interno del locale indimenticabile. Anche le brasserie sono un’altra tappa fondamentale della cultura culinaria francese: nacquero come luoghi di produzione e consumo della birra ma sono diventate posti dove si cucinano i piatti tipici della tradizione, e alcuni sono diventati locali piuttosto raffinati.

LE SPECIALITÀ Il mio primo approccio con la Francia risale alla gita dell’ultimo anno di Liceo, però… in Germania. Mi spiego meglio: eravamo ospitati proprio al confine con l’Alsazia, vicino a Strasburgo, e una sera i nostri amici tedeschi ci portarono a varcare la frontiera per mangiare qualcosa di speciale dai nostri cugini transalpini. All’interno di una locanda che ci portava indietro nel tempo, ci servirono una pietanza che sembrava una pizza, sottile, croccante, farcita con carni di qualche tipo: all’epoca non mi preoccupai di cosa fosse, ne mangiammo una quantità che definirei incomprensi-

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bile dato che era deliziosa ma, lo scoprimmo la notte, un pochino indigesta. Era la famosa Flammenkuche, ossia torta flambé, un piatto popolare di antiche origini: una sorta di pizza guarnita con un soffritto di cipolle e di panna, e disseminata di dadini di lardo e di pancetta affumicata. Non volendo e senza saperlo, avevo incontrato la cucina alsaziana, famosa per la sua robustezza e per la generosità nonché per la caratteristica di sfiorare diversi registri culinari, dal più semplice e rustico al più elaborato.

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Terra di incontro e di mescolanza, l’Alsazia ha coltivato la sua doppia identità fin nella sua cucina, che partecipa tanto del mondo germanico che della cultura francese. Il suo piatto emblematico, molto consistente e decisamente invernale, è la choucroute, cavolo sottoposto a fermentazione lattica (crauti) guarnito con carne di maiale salata e lardo affumicato, il tutto cotto a fuoco lento per alcune ore. Troviamo anche gli spatzle, di orgine tedesca, e alcune varietà di tagliatelle; ma è sua maestà, il foie gras, che domina la gerarchia gastronomica alsaziana . E’ la città di Strasburgo che lo ha fatto conoscere ai parigini sotto forma di pâté en crozte (paté in crosta) alla fine del secolo XVIII. Il paté e la terrina di foie gras sono i piatti tradizionali dei pranzi dei giorni di festa, ed è raro che non siano presenti nei cenoni di Capodanno. Inoltre non è affatto un caso che l’Alsazia sia, dopo Parigi, la regione che conta il maggior numero di ristoranti a tre stelle Michelin; i cuochi spesso propongono rivisitazioni di alcune grandi specialità regionali.

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La seconda esperienza in terra d’oltralpe mi vede di ritorno da una crociera sul Mediterraneo occidentale: sbarcato al porto di Genova, decisi di visitare un paio di giorni la Costa Azzurra, zona che di fatto fa parte della Provenza. La cucina di questi luoghi, sapiente mescolanza di aromi e di sapori decisi, è un trionfo dei nobili prodotti dell’orto - pomodori, peperoni, melanzane, zucchine, aglio - e delle erbe aromatiche: timo, alloro, rosmarino, santoreggia, anice, menta, salvia, basilico. E’ la terra dell’olio dato che, ricordiamolo, esiste una dicotomia tra Francia dell’olio d’oliva e quella del burro, distinzione culturale già presente fin dal XVII secolo. Per intenderci, il primo è l’ingrediente grasso tradizionale delle regioni mediterranee, mentre il secondo esercita un predominio quasi assoluto sul resto del paese, con una preponderanza nelle regioni dell’Ovest.

Ho avuto poche occasioni, purtroppo, per sperimentare la cucina del luogo, ma sufficienti per assaporarne l’emblema, ovvero la ratatouille, un contorno a base di verdure tipico della città di Nizza, molto profumato e saporito. Il nome del piatto vi dirà certamente qualcosa: è il titolo di un celebre film di animazione nel quale un topo particolarmente amante della cucina si troverà, dopo divertenti e curiose peripezie, a diventare un vero chef. Orto e cucina mediterranea, ma non dimentichiamoci il mare: la celebre bouillabaisse marsigliese, zuppa di pesce profumata con zafferano, spesso accompagnata da una salsa che ha come base la aioli – ovvero l’aglio ridotto in pasta e montato con l’olio d’oliva sino a raggiungere la consistenza della maionese - con aggiunta di peperoncino e zafferano (viene chiamata in questo caso rouille, letteralmente ruggine). I n f i n e voliamo a Parigi, viaggio che mi ha consentito di vivere l’esperienza di un tour gastronomico che ha abbracciato tutta la Francia: la capitale racchiude il cuore della cultura culinaria offrendo varietà e qualità veramente incredibili. Prima della partenza, i racconti dei miei suoceri, fieri tradizionalisti tutti d’un pezzo che scelsero Parigi come meta del loro viaggio di nozze, erano orrendi: niente spaghetti e pasta, lasagne affogate nella panna, salse dappertutto, aglio a volontà… insomma non c’era da stare tranquilli. Ma il benvenuto dato dal profumo di pane e dolci nell’aria


mattutina, poetico e mai invasivo, mi ha accolto con sontuosa delicatezza, rassicurandomi. Ora passiamo agli assaggi. Per iniziare, i prodotti delle boulangerie (i nostri forni) e delle patisserie, poi il cibo di strada per un pasto veloce o una merenda gustosa: baguette, croissant, pan ou chocolat. crepes, quiche, pommes frites (molte volte servite con le cozze, come accade in Belgio con le moules frites). E poi, via con i pasti principali. La soupe à l’oignon, la zuppa di cipolle, diffusa in tutta la Francia, è una sorta di evoluzione rivisitata delle minestre contadine. Se vi capita sottomano, due consigli: è servita caldissima in ciotole di terracotta, quindi il rischio ustione di mani e palato è altissimo, mentre la sua digeribilità non è proprio agile, consideratelo se pensate di accompagnare il pasto con altre leccornie ipercaloriche. Le classiche escargots à la bourguignonne, saporite lumache di terra farcite con un burro aromatizzato

da un trito di prezzemolo e aglio, sono originarie della Borgogna, con i suoi vigneti di grandi cru e la sua tradizione culinaria: è una specialità decisamente per stomaci forti (anche se mia figlia, all’epoca intorno ai sette anni, ne mangiò di gusto una quantità non trascurabile). Questa regione offre una cucina “carnivora” e consistente, se pensiamo anche al Baeuf bourguignon, magnifico spezzatino al vino rosso, o la robusta Potée bourguignonne, carne di bue lessata con lardo e verdure, eredità della cucina contadina; così come le Beursades, preparazioni di avanzi di grasso di maiale cotto che si trovano in questa regione sotto nomi diversi e che danno il loro tocco rustico alle frittate e alle insalate alla maniera borgognona. In compenso il Saupiquet, salsa

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fatta con il sugo di carne arrosto e soffritto di cipolla, bagnata di vino rosso, legata con mollica di pane tostata e fortemente speziata, rappresenta un lascito della cultura medievale. Prima di partire, una delle mio ossessioni era quella di gustare il confit, carne di pollame salata e cotta nel suo grasso a fuoco dolce e conservata in vasi sterilizzati. Senza esitazioni ho assaggiato l’anatra, non conservata in barattolo ma cotta in casseruola di rame, affiancata da patate e senape di Digione. Nel menù era specificata la provenienza del volatile, ovvero il Périgord, secondo i francesi la regione più gastronomica della Francia. Questa reputazione si deve certamente alla sua cucina abbondantissima e saporita - priva di burro ma ricca di grasso di oca e di anatra, di strutto e di olio di noci - ma soprattutto al tartufo e al foie gras. Quest’ultimo è un vero e proprio “boccone del re”, cucinato in modi differenti – saltato, in court boullion, in terrina, ma tutti appaganti e gustosi. La regione ha mantenuto anche l’usanza medievale dell’agresto, succo di uva verde che viene tuttora prodotto e il cui sapore acidulo e l’aroma delicatissimo conferiscono un tocco originale a taluni piatti perigordini, tra i quali in particolare l’ormai classico pollo all’agresto.

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E per quanto riguarda il pesce? Dalla Normandia e dalla Bretagna giungono profumi di aringa grigliata, di prodotti dell’Atlantico e le suggestioni del plateu royal, ormai diffusissimo anche in Italia: piatti a castello sovrapposti, cosparsi di ghiaccio tritato, sul quale vengono adagiati i coquillages, ovvero ostriche, frutti di mare, molluschi, crostacei, tutti rigorosamente crudi, accompagnati da salsine, pane e burro.

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In queste zone , con buona pace dei gastrotalebani italici, è molto usata la panna, diffusa poi in tutta la nazione, e si beve molto il sidro, usato con sapienza anche in cucina.

Non può mancare una menzione per l’altra capitale gastronomica, ovvero Lione, famosa per le mères lyonnaise, una leggendaria dinastia di donne che si sono succedute ai fornelli dei ristoranti della città e delle locande della regione per tutto il ventesimo secolo. Si dice, a mo’ di battuta, che Lione è bagnata da tre fiumi: il Rodano, la Saona e il Beaujolais, vino che scorre a fiotti nei popolari locali della città. In effetti, Lione è particolarmente ben servita grazie alla vicinanza con i grandi vigneti di Borgogna e della Valle del Rodano, e per essere posizionata al centro dei territori nei quali l’allevamento di carne bovina (la famosa razza charolaise) e di pollame è una tradizione. Il bouchon lionese, piccola trattoria di quartiere è diventato celebre grazie al suo abbondantissimo machon, un insieme di piatti consistenti in specialità a base di trippa e stomaco bovino accompagnate da un pot di vino (all’incirca mezzo litro), generalmente di Beaujolais. Siamo arrivati alla fine del pasto: non può mancare la vastissima selezione di formaggi, dei quali i celebri e graditi sono sicuramente il Brie, il Camembert e il Roquefort, che risultano esaltarsi maggiormente quando abbinati a vini bianchi o rosé. E’ usanza concludere servendo una torta o dolci esclusivi tipici della pasticceria francese come ad esempio il croquembouche, composto da tanti bignè assemblati a forma di piramide, riempiti di crema e ricoperti di caramello o i petit four, piccole paste a base di farina e cotte al forno ideali da gustare insieme a un ottimo champagne. Ma anche tra i dolci la tradizione francese lascia il segno con i deliziosi macarons, con le torte tradizionali come la tarte tatin, la Saint Honoré, la Tarte tropézienne o i profiteroles, dolci che fanno del design e della raffinatezza il loro punto di forza. Ma questo è un capitolo a parte.


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GRATIN DAUPHINOIS La patata? Gratinata! Il Delfinato era un’antica provincia della Francia, oggi corrispondente ai quattro dipartimenti di Isère, Drôme, Hautes-Alpes e parte del Rodano: le saremo per sempre grati perché, dalla sua tradizione culinaria, abbiamo il gratin dauphinois. È un piatto unico, consolidato nella cucina francese; si tratta di un gratin di patate con aggiunta di formaggio Gruviera ed una tipica, morbidissima salsa a base di latte e panna. L’origine del piatto è probabilmente è legata alla diffusione della coltura della patata in Europa dopo la seconda metà del ‘500, ma il piatto è mensionato, così come lo conosciamo oggi, in uno dei giorni fondamentali per la Rivoluzione francese: il 7 giugno 1788. Il duca di Clermont-Tonnerre, comandante in capo del Delfinato, ritirò le truppe contro gli insorti per evitare un massacro, e per l’occasione offrì un pasto agli ufficiali: fu servito appunto il gratin dauphinois. Sappiamo cosa state pensando: è ideale per il periodo invernale, per i bei pasti ristorativi in locande di posti che non conosciamo, magari mentre sorseggiamo un buon vino locale. Che dire: avete ragione. Sappiate però che il gratin dauphinois (o gratin savoyard, se si utilizzano formaggi diversi dalla gruviera) è un vanto dei francesi tanto quanto è difficile reperire la ricetta che la maggior parte reputa “autentica”. Esistono mille e più versioni di questa preparazione: quella più antica prevede la presenza di sole patate e panna acida. Con il tempo,il piatto si è arricchito con il formaggio. Chi siamo noi per non offrirvi la nostra ricetta del gratin dauphinois? Vi basterà mettere in gioco il kettle al momento giusto ed utilizzare una lieve affumicatura al legno di pecan.

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Questo piatto è perfetto per accompagnare la polenta o dei sostanziosi piatti di carne.

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Ingredienti per 4 persone: 750 g

di patate / 350 ml di latte fresco intero / 175 g di formaggio Gruviera / 175 g di panna fresca / 3 uova / 25 g di burro / 1 spicchio di aglio / sale q.b. / pepe q.b. / noce moscata q.b. PREPARAZIONE 1. Lavate e sbucciate le patate e tagliatele con una mandolina a fette molto sottili, non lavatele dopo il taglio, in quanto perderebbero l’amido che favorisce l’addensamento della pietanza. 2. Scaldate il latte in un pentolino e, non appena sarà caldo, aggiungete l’aglio, il sale il pepe e la noce moscata. 3. Settate il dispositivo per una cottura indiretta a 180°C. 4. Lasciate insaporire per qualche minuto, togliete il pentolino dal fuoco ed eliminate l’aglio, lasciando raffreddare il composto. Sbattete le uova in una ciotola, unite la panna fresca e aggiungete il latte aromatizzato e mescolate per bene. 5. A questo punto, imburrate la pirofila e cominciate con il primo strato di patate, ricoprite con il composto di latte, panna e uova, aggiungete il formaggio Gruviera grattugiato e continuate con gli strati fino a terminare gli ingredienti. 6. Aggiungete per ultimo il formaggio grattugiato e qualche fiocco di burro e cuocete nel dispositivo già caldo a 180°C per circa 90 minuti. Il risultato sarà di avere le patate morbide e la superficie dorata, lasciate raffreddare per qualche minuto fino ai 70°C e il vostro gratin dauphinois è pronto per essere servito.


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Il buon cuoco si vede dalla

RATATOUILLE!

Ci sono film d’animazione contemporanei che sono riusciti a diventare grandi classici. Tipo, ve ne facciamo capire uno senza nominarlo. Quel-film-lì del topino che, in barba a tutto e tutti, inizia a cucinare in uno scantinato diventando dannatamente bravo, così bravo che riesce nell’intento di servire un piatto umilissimo della cucina francese ad un temibile critico gastronomico. Parliamo di Ratatouille, l’avrete capito, no?

e super conosciuto della cucina è ratatouille niçoise.

Ecco, sì: un nome di un piatto, che è il nome di un film d’animazione ed entrambi sono decisamente famosi in tutto il globo terracqueo. Anche se quello proposto nel film, non è proprio la ricetta originale ma una rivistazione diventata famosa tanto quanto quella storica.

La nostra ratatouille nasce dalle grandi tradizioni contadine che si sono codificate, a mano a mano, a partire dal Settecento. I contadini provenzali si ritrovavano, a fine stagione, una grande quantità di verdure da smaltire nel modo più utile possibile. Ed ecco qui, fresche fresche, le grandi zuppe e le grandi minestre arrivate fino ai giorni nostri.

La ratatouille è un piatto tipico francese, diventato negli anni iconico. Si tratta di una minestra di verdure di estrazione popolare, prevalentemente estiva e a base di zucchine, peperoni, pomodori e cipolla. Va da sé, poi, che l’estate e le sue primizie permettono di arricchire la ratatouille con ciò che di meglio c’è a disposizione. Oggi, la ratatouille è riconoscibile al naso grazie al ricco bouquet aromatico dato dalle cosiddette herbes de Provence, un misto di erbe aromatiche composto (in percentuali differenti) da rosmarino, timo, finocchio, salvia, maggiorana, santoreggia e menta. Sebbene le herbes de Provence siano state messe a punto (come ricetta definitiva) soltanto negli anni Settanta del Novecento, già sono entrate fortemente nella cultura gastronomica tradizionale francese.

Dal Sud della Francia ai confini spagnoli, il passo è stato breve: la ratatouille, ben presto, entrò a far parte anche degli usi e dei costumi baschi e in Catalogna. Ad oggi, viene ancora servita in questi territori ed altri ancora, sia come portata principale sia come accompagnamento a piatti di carne oppure a del riso. Come anticipato, la versione del film d’animazione non è quella classica provenzale: dopotutto – e noi lo sappiamo bene! – le ricette vivono di interpretazioni e rivisitazioni, per fortuna. La ricetta di Ratatouille è una variante della turca zeytinyağlı, parente molto prossima della nostra caponata e con ingredienti del tutto sovrapponibili. In particolare, la versione per il film è quella dello chef Thomas Keller: un mosaico di verdure lamellate, che è ben più di un piatto “solo” provenziale; infatti, sembra abbracciare l’intero bacino del Mediterraneo, grazie alla presenza di differenti tipi di ortaggi che nella versione classica non dovrebbero esserci.

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La ratatouille poi , con il tempo, è passata a rappresentare l’intera cucina francese, ma è tipica della regione provenzale, in particolare di Nizza e dintorni. Infatti, il nome completo di questo piatto bellissimo

La Provenza è un territorio meraviglioso della Francia, dove gli influssi mediterranei si fondono a meraviglia con quelli dell’entroterra, dando vita a ricette dai profumi e colori spettacolari. Qui hanno dimora tantissime erbe aromatiche, così come una moltitudine di verdure. L’ideale, appunto, per creare zuppe e minestre cariche di sapore.

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I ngredienti per 4 persone: 3 peperoni (gialli, rossi e verdi) / 2 pomodori / una cipolla / 2 zucchine / una melanzana / misto di erbe provenzali q.b. / una cipolla / 3 cucchiai di olio extravergine di oliva / basilico a piacere / 2 cucchiai di aceto di mele / sale e pepe q.b. / Smoky Red della linea Sal’s Seasoning a piacere PREPARAZIONE 1. Predisponete il dispositivo per una cottura diretta. 2. Lavate affettate con cura tutte le verdure, poi mettetele in un ciotola. Conditele con un olio, poco sale, pepe, il misto di erbe provenzali tritato e l’aceto di mele. Girate bene le verdure, poi versate il tutto nell’apposito basket forato che posizionerete sulla griglia in cottura diretta. Potete, se volete, chiudere il coperchio, ma fate attenzione sempre che le verdure non si brucino. Giratele di tanto in tanto. 3. Quando le verdure saranno pronte e avranno raggiunto il grado di cottura desiderato, toglietele dal fuoco, date un’altra girata e poi servitele con lo Smoky Red, che darà loro un retrogusto affumicato più accentuato molto piacevole. (Nulla vi vieta di cuocerle nelle classiche terrine, ponendole in cottura indiretta)

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SOUPE D’OIGNON La zuppa di cipolle, a prova di lacrime!

La soupe d’oignon (o ancora, soupe à l’oignon), cioè la zuppa di cipolle, è un piatto molto povero diffuso praticamente in tutto il continente europeo e che gode di un’ottima fama. Saporito, saziante e poco costoso, facile immaginare come abbia avuto una gloria eterna praticamente dalla sua nascita. L’origine - ci credereste? - è controversa. Alcuni studiosi affermano che provenga dall’antica Roma quando i plebei potevano nutrirsi solamente di cipolle, ortaggi e poco altro. Intorno al XVIII secolo venne modificata, quando i francesi inserirono il brodo di carne e i crostini. La tesi più accreditata sull’origine di questa zuppa afferma che essa derivi dalla carabaccia toscana, importata in Francia da Caterina dei Medici sposa di Enrico II d'Orléans. Secondo una leggenda – onestamente inverosimile - questa zuppa sarebbe un’invenzione di Luigi XIV: pare che il sovrano una sera,non avendo nulla in dispensa da cucinare se non cipolle, burro e champagne, li mise insieme e ne fece una zuppa. Voi ce lo vedete Luigi XIV a cucinare in prima persona? La versione ordinaria della soupe d’oignon pare sia stata codificata nel XVIII secolo. In ogni caso, fu la celeberrima Julia Child, (a proposito, la stiamo citando tantissimo in questo numero del Magazine, ma voi l'avete visto il film con Meryl Streep?), a proporla nel suo libro e rilanciarla definitivamente. Julia Child nel suo Mastering the Art of French Cooking suggerisce di cuocere le cipolle “a fuoco lento, in abbondante olio e burro e poi di continuare a cuocere in una dose generosa di brodo, da mescolare delicatamente“.

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Anche in Italia, ovviamente, abbiamo diverse versione di questa zuppa: due su tutte, la versione piemontese – chiamata zuppa mitonata, con brodo di gallina e formaggi grattugiati – nonché appunto la toscana carabaccia, sia con cipolle bollite e servite su fette di pane (versione povera), sia fatta con cipolle di Tropea (versione “ricca”).

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Profumata, calda, sostanziosa: la soupe d’oignon godrà sempre di ottima fama grazie al costo contenuto ed alla facilità di reperimento degli ingredienti. Ora, per avere la vostra soupe d’oignon, non vi resta che armarvi di un buon coltello. Zero lacrime, piangerete al massimo dalla felicità.

Ingredienti per 4 persone: 1 kg

abbondante di cipolle dorate / 50 g di burro / 8 cucchiai di Parmigiano Reggiano grattugiato / 2 cucchiai di farina / 1 litro di brodo di carne / sale q.b. / Sal’s Rub Mount Nimba q.b. / 4 fette di pane casereccio belle spesse / 100 g di formaggio gruviera PREPARAZIONE 1. Tagliate le cipolle a fettine e mettetele in una padella con il burro, cuocere a fuoco basso per 10 minuti. 2. Iniziate ad aggiungere un mestolo di brodo e la farina. Dopo qualche minuto versate tre cucchiai di Parmigiano nella pentola e lasciate cuocere a fuoco basso per altri 20 minuti, aggiungendo il brodo quando la zuppa diventerà troppo asciutta. 3. Giunti a questo punto, versate lentamente la zuppa in 4 terrine e copritele di nuovo con il formaggio gruviera. 4. Predisponete il vostro dispositivo per una cottura indiretta a circa 180°, ma prima tostate in diretta le fette di pane. Provate a sagomarle a forma di terrina, per appoggiarle in modo che vadano a coprire la zuppa. Ricoprite tutto di formaggio gruviera grattugiato grossolanamente e una spolverata di rub Mount Nimba. 5. Mettete per qualche minuto in cottura indiretta, fino a quando il formaggio si sarà sciolto creando una crosta dorata. Non vi resta che godere della vostra soup d’oignon. Ah, e se vi resta un po’ di brodo, via subito ad un bel risotto!


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BŒUF BOURGUIGNON Lo stufato, tra gli stufati! Julia Child: se non la conoscevate, la state conoscendo ora, tra le pagine del nostro Magazine. È stata uno dei personaggi di spicco della gastronomia (televisiva e narrativa) americana, nonché fautrice della grande conoscenza e diffusione della cucina francese negli States. La Child, moglie di funzionario di ambasciata, visse in Francia per decenni, lavorando ed intrattenendo relazioni con personaggi di spicco. Definì così il boeuf bourguignon: “[…] è lo stufato di carne più stufato di carne tra tutti. Una delle preparazioni più deliziose mai concepite dalla mente umana”. Ecco, ora noi ammetteremo la grandissima conoscenza culinaria di Julia Child, ma ovviamente non possiamo tirare conclusioni così semplici. Però ve lo presentiamo a dovere, questo bœuf bourguignon, nel nostro speciale numero dedicato alla cucina d’Oltralpe, con qualche nostro suggerimento. Prima un po’di carta d’identità di questo piatto, vi va? Perché come ogni piatto che si rispetti, porta con sé un bel carico. Pensate voi se poi questo è uno dei piatti sul serio più cari ai cugini francesi, una di quelle preparazioni con le quali si coccolano nei lunghi fine settimana invernali. Come diceva la Child, con il nome bœuf bourguignon ci riferiamo ad uno stufato tipico – forse, davvero il più tipico – di carne della cucina francese. È originario della Borgogna, come ci dice il nome e, come buona parte dei piatti tradizionali, lo si cucina in occasioni di festa, ad esempio il pranzo domenicale. Lo stufato è composto da carne, vino rosso di Borgogna, sovente accompagnato da molteplici varietà di funghi (anche se i più presenti sono quelli champignon), piccole cipolle e pancetta di maiale. Ovviamente, non mancano le varianti: l’accompagnamento spesso varia e vira su carotine, patate oppure altri ortaggi tipici della zona in cui lo si cucina, visto che è diffuso non solo in Francia ma anche in altri territori francofoni, con declinazioni squisitamente locali.

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La carne viene solitamente brasata in cocotte, con una salsa a base di vino rosso; i tagli preferiti sono il reale, il collo, ma anche quello che in Italia è noto come cappello del prete. Tradizionalmente, lo si serve caldo (se non bollente!) con dei crostini o delle fette di pane grigliate ed aromatizzate all’aglio.

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Le origini di questo piatto sono facilmente rintracciabili: i contadini hanno da sempre bisogno di piatti sostanziosi e caldi per sopportare le lunghe giornate di lavoro e i duri inverni. Gli stufati nascono per questo e, quindi, si cerca di renderli più appetibili, più deliziosi possibile. Grazie a queste caratteristiche, questi piatti cambiano letteralmente ruolo e diventano pietanze… di festa! Prepariamoci dunque ad assaggiare questo stufato più stufato di tutti!

INGREDIENTI 4 persone

1,2 kg di Chuck Roll del nostro Megastore una bottiglia di Pinot Grigio Batic 2019 del Megastore Ultimate SPOG della linea Sal’s Seasoning q.b. una carota un gambo di sedano una cipolla 3 spicchi di aglio un rametto di timo 150 g di burro 150 g di lardo 300 g di funghi champignon 1 l di brodo di carne due foglie di alloro prezzemolo q.b. mezzo bicchiere di brandy 15 cipolle borettane


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PREPARAZIONE 1. Riducete la carne a pezzetti, poi insaporitela con un po’ di SPOG. In un sacchetto o in una ciotola, infilate la carne, l’aglio e il timo. Bagnate tutto con mezza bottiglia di vino, sigillate il sacchetto (o chiudete la ciotola con pellicola trasparente) e mettete a marinare in frigo per circa 8-10 ore. 2. Predisponete il vostro dispositivo per una cottura diretta, adagiate una cocotte in ghisa nell’apposito spazio in griglia, fate un soffritto con sedano, carota e cipolla utilizzando il burro, poi affettate finemente il lardo e lasciate che si sciolga nel soffritto. Aggiungete la carne prima sgocciolata dalla marinata, poi infarinata. Bagnate con un po’ di brandy e lasciate evaporare l’alcol, staccando l’eventuale crosticina che si sarà formata nella cocotte. Togliete la carne e tenetela da parte. 3. Pulite le cipolline, affettate i funghi e mettete tutto nella cocotte; lasciate che funghi e cipolle si appassiscano bene, poi unite la carne, ricopritela col vino, aggiungete un po’ di brodo, aggiustate di sale e di pepe, aggiungete il timo e l’alloro, e lasciate che il tutto riprenda il bollore, coprendo la cocotte col suo coperchio.

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4. Una volta che lo stufato avrà ripreso a bollire, spostate la cocotte in cottura indiretta alla temperatura di circa 150°C, chiudendo ovviamente il coperchio del vostro dispositivo. Lasciate che la cottura continui per un paio d’ore, o comunque finché la carne non sarà diventata morbidissima. Controllate di tanto in tanto che non si asciughi troppo e, nel caso dovesse essere necessario, bagnatela con un po’ di brodo. Servite il vostro Bœuf bourguignon con il prezzemolo tritato.

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BOUILLABAISSE Lo stufato di pesce perfetto, se a farlo sono i francesi… o no? Bouillabaisse. Lo sappiamo, sembra uno scioglilingua; infatti partiamo dalla pronuncia, che dovrebbe essere qualcosa di simile a boo-yuh-bès, tutto attaccato e con una suadente cadenza francofona, ovviamente. Questa dorata zuppa di pesce è, probabilmente, uno dei piatti più iconici di Francia, con origini in Provenza: dorata, profumata, si è prestata benissimo lungo i secoli ad essere descritta e decantata (oltre che mangiata, ovviamente): da Emile Zola a William Thackeray, tutti sono rimasti conquistati dalla difficoltà e dalla bontà della bouillabaisse. Proprio Thackeray, scrittore britannico di epoca vittoriana e gran viaggiatore, compose addirittura una Ballad of Bouillabaisse, dove descriveva i vicoletti sordidi ed il piacere di mangiare la zuppa di pesce in una taverna tipica. Andiamo a conoscere un po’ più da vicino origini, leggende e storie di questo stufato, prima di proporvi la nostra ricetta.

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BOUILLABAISSE = MARSIGLIA Come dicevamo poco più su, le origini della bouillabaisse sono collocate in Provenza, con precisione a Marsiglia. Data la vicinanza con la Liguria, questo piatto si è diffuso con il tempo anche in Italia con il nome italianizzato di boiabessa.

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Il nome bouillabaisse trova etimologia nella lingua occitana e letteralmente significa “bollire, cuocere a fuoco lento”. Le origini della bouillabaisse si perdono nel tempo: possiamo rintracciare una zuppa di pesce molto simile fatta dai Focesi, una popolazione greca che si stabilì sulle coste dell’odierna Francia intorno al VI secolo a.C. e che soleva preparare la katavia, una zuppa di pesce particolarmente condita e fatta con il pesce che restava invenduto al mercato.

Una ricetta imparentata è anche la Quatara, la zuppa di pesce fatta con le pezzature minime ed invedute dei pescatori di Porto Cesareo, nel Salento. La bouillabaisse è composta da almeno quattro pesci: scorfano, gallinella, grongo e triglia, ma ovviamente non vengono disdegnate aggiunte e sostituzioni del caso, come l’aggiunta di dentice, rombo, nasello e similari. Trovano posto anche i mitili, nonché polpo ed aragosta nelle versioni ancora più elaborate (e come potrete immaginare, esistono mille e una versione della bouillabaisse… più la nostra). Basti pensare che, già nel 1789 (una data che vi ricorda qualcosa?) il ristorante parigino “Les Trois Frères Provencaux” includeva appunto l’aragosta. Chissà che tra una presa della Bastiglia e l’altra, non ci fu tempo anche per una bouillabaisse tutta borghese! Questa gustosa zuppa di pesce viene successivamente servita con la rouille, una gustosa e piena salsa d’accompagnamento fatta con pangrattato, aglio, fumetto di pesce, uovo, zafferano, scorza d’arancia e peperoncino. Ha un colorito tra il dorato e l’arancione, con brodo ristretto. Il profumo sprigionato è inconfondibile: lo zafferano e la scorza d’arancia esaltano il profumo del pesce. Si dice che nessuno sappia cuocere bene una bouillabaisse come i francesi. Magari ci sarà qualche nostro lettore del Magazine con progenitori francofoni, ma la versione che vi proporremo oggi non avrà nulla da invidiare, se seguirete alla lettera tutti i passaggi. Pronti per sentirvi come tra i vicoli di Marsiglia, e forse ancora di più? Via!


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Ingredienti per 4 persone: 3 kg di pesce (tra cui scrofano,

gallinella, gronco triglia, ma anche pesce San Pietro, rombo, dentice) / 1 kg di Gamberi di Mazara GLC Top Selection / 2 porri / 3 cipolle / 2 spicchi d’aglio / una costa di sedano / 350 g di pomodori pelati / un cucchiaio di concentrato di pomodoro / una bustina di zafferano / mezzo cucchiaino di semi di finocchio / un mazzetto di prezzemolo / olio extravergine di oliva q.b. / sale e pepe q.b. Per l’assoluto di gamberi (bisque): due cucchiai di trito di sedano, carote e cipolle / due cucchiai di olio extravergine di oliva / le teste e i carapaci dei Gamberi Rossi di Mazara / mezzo bicchiere di cognac / mezzo cucchiaio di concentrato di pomodoro / mezzo lime / abbondante ghiaccio. PREPARAZIONE 1. Pulite i gamberi e tenete da parte le teste e i carapaci; a questo punto potete cominciare a preparare il vostro Assoluto di Gamberi. 2. In una padella, fate soffriggere il trito di verdure e poi spadellate tutte le rimanenze dei gamberi a fiamma alta. Sfumate col cognac. 3. Evaporato l’alcol, aggiungete il concentrato di pomodoro, la spremuta di mezzo lime e il ghiaccio, in modo che i carapaci e le teste non si brucino in cottura; 4. Fate ridurre il tutto, frullatelo con un mixer a immersione e filtratelo con un colino cinese, ottenendo un concentrato molto denso. Tenetelo da parte. 5. Pulite il pesce e mettete gli scarti (lische e teste) in un tegame ampio. Tostate bene gli scarti del pesce e poi ricoprite tutto con il ghiaccio. Preparate il brodo di pesce portando il tutto a ebollizione e schiumate di tanto in tanto. Lasciate sobbollire per mezz’ora, poi filtrate il brodo e mettetelo da parte. 6. Affettate finemente la cipolla e il porro e lasciateli rosolare in una pentola ampia, insieme a un filo d’olio, agli spicchi d’aglio sbucciati e schiacciati e al sedano tagliato a rondelline. 7. Sciogliete lo zafferano in acqua tiepida, poi schiacciate i pomodori pelati con una forchetta e aggiungeteli al fondo di verdure. Unite il concentrato di pomodoro, i semi di finocchio, il brodo di pesce e lo zafferano. Aggiustate di sale e di pepe, poi lasciate andare a fuoco dolce per una quarantina di minuti. 8. Unite i pesci puliti, tagliati a piccoli tranci e accuratamente spinati e fate cuocere per 5 minuti. BBQ4All Magazine

9. Fate rosolare i gamberi in padella con un po’ d’olio e aggiungete la bisque. Saltateli bene poi unite i gamberi alla zuppa. Fate insaporire il tutto per qualche minuto e poi servite il vostro stufato di pesce con abbondate prezzemolo tritato e con delle fette di pane tostato.

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Un pollo per ogni pentola! Si, ma solo se è

COQ AU VIN!

Di leggende è piena la gastronomia. In questo nostro speciale sulla cucina francese, non poteva mancare una ricetta dedicata al Coq au vin, piatto iconico dei cugini francesi. Per darvi l’idea di quanto siano importanti i galletti per i francesi, si narra che Enrico IV di Francia, in un discorso con il Duca di Savoia, avrebbe sentenziato così: “Vorrei che nel mio regno, per ogni lavoratore ci fosse un pollo in ogni pentola la domenica”. Come molte degli auspici dei potenti, anche questo fu difficile da mantenere, ma i francesi continuarono ad amare molto il pollo, fino ad inventarsi molteplici ricette che poi – grazie alla pollicultura e in generale al benessere – si sono diffuse a tutto tondo e non solo durante le occasioni di festa soprattutto durante il Ventesimo secolo.

Sono diverse le regioni che vedono il Coq au vin, il galletto brasato nel vino, un piatto tipico delle loro tradizioni: tra queste, annoveriamo l’Alsazia, l’Alvernia, la Champagne e la Borgogna tra quelle più caldeggiate.

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Il polletto di solito viene lasciato marinare una notte intera nel vino, per chi preferisce un sapore meno intenso, soltanto alcune ore. Successivamente, la cottura viene ultimata con pancetta, carote, cipolle ed altri aromi.

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Incerte le origini, ça va sans dire. Sicuramente, fin dall’antichità si sarà brasato un polletto (così come un miliardo di altre cose) insieme ad altri ingredienti sostanziosi, primo tra i quali il vino (e in generale, altri tipi di alcolici). Si dice che anche Giulio Cesare fosse ghiotto di polletto al vino, e che egli stesso lo servì durante i banchetti di festeggiamento per la conquista della Gallia.

In tempi più recenti e verificabili, prime testimonianze di un poulet au vin blanc (polletto cotto nel vino bianco) si trovano nel Cooking for English Households, edito nel 1864 e che in pratica era una guida alla cucina francese agli stranieri, scritto da un’anonima “French Lady”. Ma il Coq au vin divenne realmente famoso grazie all’opera immensa di Julia Child, dilvugatrice della cucina francese negli Stati Uniti grazie ad innumerevoli pubblicazioni ed apparizioni in trasmissioni a tema. Proprio questa ricetta era uno dei simboli della Child, che ne codificò una ricetta propria ed adatta ai gusti dei lettori e spettatori (e soprattutto… mangiatori!) del XXesimo secolo. Gli ingredienti base del Coq au vin sono – manco a dirlo – un polletto e del vino. Questo, tutto sommato, non lo rende molto dissimile da un’altra preparazione che vi presentiamo questo mese, cioè il boeuf bourguignon. Il vino d’elezione per il Coq au vin dovrebbe essere un vino di Borgogna; ma, visto che diverse regioni si contendono la maternità della ricetta, teoricamente tutti i vini potrebbero andare bene. Ad esempio, in Alsazia, c’è l’usanza di utilizzare i riesling locali. Noi abbiamo usato un vino presente nella selezione del nostro Megastore: il Brol Grande - Le Fraghe (2018). un Bardolino che si presta perfettamente a sostituire un Borgogna, perché ha la stessa raffinezza, la stessa eleganza e la stessa fragranza. Non ci resta che tuffarci nella ricetta e cucinare il polletto alla moda dei francesi, ma col nostro stile da griller incalliti.


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Ingredienti per 4 persone: uno o due galletti (in tutto circa un kg e mezzo) / 100 g di pancetta a cubetti / 200 g di funghi champignon / 200 g di cipolline borettane / una carota / uno spicchio d’aglio / due foglie di alloro / sale e pepe q.b. / burro q.b. / olio extravergine di oliva q.b. / 2 cucchiai di farina / prezzemolo q.b.

Per la marinata: due bottiglie di Brol Grande - Le Fraghe / Ultimate SPOG della linea Sal’s Seasoning q.b. / due rametti di timo / qualche chiodo di garofano

PREPARAZIONE 1. Fiammeggiate il galletto per eliminare penne e piume residue; spuntategli il collo e le zampe, poi tagliatelo in pezzi che metterete a marinare per una notte nel vino rosso aromatizzato con un due cucchiai dello SPOG, il timo e i chiodi di garofano. 2. Preparate il vostro dispositivo per una cottura diretta e adatta all’utilizzo della cocotte in ghisa. Fate quindi rosolare la pancetta tagliata a cubetti fino a renderla croccante. 3. Eliminate la pellicola esterna delle cipolline, pulite bene i funghi champignon, e tagliate le carote a rondelle. Poi trasferite il tutto nella cocotte con la pancetta. fate cuocere insieme per un paio di minuti. Togliete poi le verdure dalla cocotte e tenetele da parte. 4. Sempre nella stessa pentola in ghisa, fate sciogliere una o due noci di burro e fate soffriggere uno spicchio d’aglio schiacciato. Trasferite i pezzi di galletto nel tegame dopo averli fatti sgocciolare dalla marinata, e fateli rosolare. Eliminate l’aglio. 5. A questo punto aggiungete le verdure e la pancetta tenute da parte e cospargete la superficie del galletto con la farina.

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6. Bagnate con la seconda bottiglia di vino, aggiustate di sale e di pepe, mettete due foglie di alloro e coprite la cocotte con il suo coperchio.

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7. Fate cuocere il galletto controllando di tanto in tanto che non si asciughi (nel caso aggiungete acqua calda) e a fine cottura (quando sarà morbidissimo e avrà raggiunto i 78°C-84°C, non prima di un’ora) fate ridurre il sughetto se dovesse risultare troppo liquido. Servite con un pizzico di prezzemolo tritato.


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C’è quiche e

QUICHE LORRAINE!

La quiche Lorraine è una variante che – come ci suggerisce il nome – si diffuse nella regione della Lorena, Francia. Tradizionalmente, è una torta salata con base di pasta brisé, aperta e guarnita con spessi strati di ingredienti golosi, come formaggio Gruviera, cipolla, pancetta e noce moscata.

Come sempre, quando si parla con piatti popolari, ricercare l’origine e l’esatta paternità è veramente difficile. Nel caso della quiche, dobbiamo innanzitutto cambiare epoca e catapultarci nel Medioevo. Ci siete? Ecco. Giunti nel Medioevo, calatevi nella modalità Europa Universalis (gli amanti dei giochi di strategia per pc, intenderanno al volo) e immaginate Francia, Germania, Austria e parte dell’odierna Polonia (che allora, si chiamava Prussia) come un mosaico di piccolo staterelli, ognuno (o quasi) con il suo sovrano e le proprie leggi, in pace e guerra continua. Da un momento all’altro, questi Stati cambiavano governo e governanti, spesso per accordi presi sottobanco, altrettanto spesso per guerriglie.

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In questo clima di sostanziale “incertezza”, le popolazioni non potevano far altro che adattarsi e familiarizzare con i vicini di casa, che talvolta diventavano conquistati o conquistatori. Il clima, pertanto, era particolarmente fertile: gli scambi culturali e culinari erano all’ordine del giorno, quindi il passamano di ricette e preparazioni era praticamente la prassi.

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Detto ciò, ci tocca distruggere il mito: la quiche – così famosa in Francia – sembra essere nata in territorio tedesco. Cioè, ci spieghiamo meglio. I primi esempi di

quiche – al tempo, chiamata kuchen, cioè “torta” – si hanno ai tempi del piccolo regno di Lothringen, nome tedesco della Lorena. Andando a consultare una cartina, potrete facilmente notare che la Lorena è una bellissima regione di confine e che, quindi, gli influssi culturali giocavano facilmente a ping pong, stimolando continuamente la fantasia e la necessità degli abitanti di questi posti. Persino in Italia, già dal XIII secolo, abbiamo notizie di torte cotte con uova, quindi risulta ancora più complicato capire dove sia iniziato il tutto. Possiamo, però, capire dove sia stata codificata la ricetta e pare che la Lorena sia proprio la madre designata. La ricetta più antica di quiche Lorraine vede come protagonista la panna, la pancetta e le uova. Il fondo era composto da uno spesso strato di pastafrolla salata, sostituita in tempi più recenti con la più leggera, unticcia e golosa pasta brisé. Dato che in rete si trova di tutto, dalla quiche Lorraine fatta al Bimby fino a quella fatta col microonde, probabilmente la nostra versione fatta al bbq vi piacerà di più. No, anzi, togliete il probabilmente. Ne siamo più che certi. Dato che siamo dei ribelli, ma anche viziosi, abbiamo messo nella farcia, al posto della pancetta, il nostro mitico salame affumicato. E dato che abbiamo cotto la quiche nel dispositivo a carbone, l’abbiamo anche affumicata un po’. Non ditelo ai francesi, che sono leggermente permalosi: è probabile che rispolvererebbero la ghigliottina per l’occasione, ma solo perché non l’hanno assaggiata. Vi diamo anche la ricetta per la pasta brisée; ovviamente voi potete scegliere di usare quella già pronta.


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Ingredienti per una quiche

Per la pasta brisè: 300 g di farina / 150 g di burro / 1 cucchiaino di sale. Per la farcia: 150 g di salame affumicato del norcino del nostro Megastore / 3 uova / 130 ml di latte / 130 ml di panna fresca / 100 g di formaggio Gruviera / noce moscata q.b.

PREPARAZIONE 1. In una ciotola unite la farina con il burro freddo tagliato a pezzetti e il sale. Lavorate fino a ottenere un composto di briciole, poi aggiungete 80 ml di acqua e continuare a impastare con le mani fino a formare una palla. Cercate di lavorare il meno possibile la pasta, perché in caso contrario acquisterebbe un’elasticità eccessiva e si deformerebbe nel corso della cottura. 2. Fatela riposare per un quarto d’ora in frigo e nel frattempo preparate la farcia: fate rosolare il salame ridotto a listarelle in una padella. In una ciotola sbattete le uova con il latte, la panna, la noce moscata e il groviera grattugiato grossolanamente. 3. Per stendere la pasta mettetela fra due fogli di carta da forno e appiattitela con il matterello, girandola più volte, fino ad arrivare a uno spessore di circa 4 millimetri. 4. Con la pasta brisée foderate una tortiera imburrata e procedete alla precottura del guscio in bianco, aiutandovi con la carta forno e i legumi; bucherellate il fondo della pasta e infornate a 200°C per circa 15 minuti, che dovrebbero bastare per una precottura.

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5. Distribuite sul fondo del guscio precotto il salame, aggiungete il composto preparato e cuocete nel vostro dispositivo predisposto per una cottura indiretta a 180°C, per 25 minuti circa. In questa fase potete anche decidere di affumicare con chips di legno aromatico.

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FOIE GRAS Tanto discusso quanto buono Dibattuto, vietato, oggetto di litigi e quant’altro: non possiamo negare che, a noi peccatori, il foie gras piace davvero parecchio. Nel rispetto dell’animale, ovviamente. Il foie gras è una preparazione che vede come protagonista principale il fegato – opportunamente “ingrassato” – di oca o di anatra. Il foie gras è periodicamente messo sotto la lente d’ingrandimento di animalisti ed esperti di etica: l’accrescimento della ghiandola avviene attraverso la tecnica del gavage, cioè dell’iper-alimentazione forzata degli animali. Molte legislazioni del mondo stanno man mano vietando questa tecnica di alimentazione di oche ed anatre, di fatto cambiando il mondo del foie gras. Il costo elevatissimo per la produzione, nonché il suo intenso gusto umami, lo eleggono uno dei cibi più richiesti e desiderati di sempre. Tanto oggetto di lusso quanto con una vita difficile: in alcuni Paesi del mondo (come l’Argentina) è vietato o fortemente limitato; alcune catene di supermercati, hanno varato divieti per la vendita dei foie gras negli scaffali e nei banchi frigo. La questione è spinosa, come sempre quando entra di mezzo l’etica e il buon trattamento dell’animale.

DOVE NASCE IL FOIE GRAS?

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Se avete letto con attenzione il numero di Agosto del Magazine, saprete già che il fegato degli animali (insieme ad altre interiora e parti nobili e meno nobili) è utilizzato fin dall’antichità dagli aurispici (figure di connessione tra il terreno e il presunto divino) per leggervi presagi ed interpretare il futuro. Erano abitudini diffuse più o meno in tutto il globo, dall’antica Cina degli imperatori della mitologica dinastia Han, fino all’Egitto dei faraoni.

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Proprio l’Egitto, precisamente l’Egitto del V millennio a.C. , sembra essere l’habitat naturale per oche ed anatre. Il fiume Nilo ha rappresentato un bacino importante per lo sviluppo della civiltà del Mediterraneo e la fauna che lo popolava non fa eccezione. La fertilità delle rive del Nilo è cosa risaputa: basti pensare alla presenza del limo, un fango fertilissimo che permetteva la crescita delle piante di papiro ed altro tipo di flora. Grazie a questa

eccezionale fertilità, era un passaggio obbligato per oche ed anatre in migrazione. Qui, si fermavano durante il lungo viaggio, facendo scorte di prede che riuscivano a pescare, per poi proseguire verso le zone ancora più calde. Gli egiziani, notori gourmand, ebbero l’occasione di assaggiare il fegato di questi animali e lo trovarono a dir poco delizioso. Non ci misero molto a capire che il fegato era ingrossato e delizioso a causa della sovra-alimentazione; quindi, iniziarono a praticarla sulle oche. Ben presto, l’abitudine di ingrassare anatre ed oche si diffuse in tutto il bacino del Mediterraneo, grazie agli scambi culturali, commerciali e alle migrazioni periodiche. Le popolazioni elleniche ed, ovviamente, quelle dell’Impero romano furono grandi fan del foie gras. Plinio il Vecchio rendiconta bene, nel suo De Naturalis Historia, chi fu l’inventore del foie gras per i romani: il celeberrimo cuoco Marco Gavo Apicio sarebbe colui che ha iniziato la pratica dell’alimentazione a base di noci e fichi secchi (molto calorici) per alimentare le oche e le anatre da foie gras. Da qui, il nome iecur ficatum, “fegato alimentato a fichi”, letteralmente. Come ben si può immaginare, il foie gras è stato per moltissimi secoli un cibo per ricchi, un vezzo culinario parecchio costoso. Le scoperte geografiche facilitarono l’andirivieni delle merci tra il Nuovo e il Vecchio Continente e, in generale, un benessere alimentare più diffuso. Grazie all’influenza della comunità ebraica in Francia, qui abbiamo il nucleo più grande di tradizioni ed estimatori di foie gras. Dobbiamo aspettare il XVIII secolo affinché si abbia una diffusione più capillare. Infatti, durante questo secolo, si hanno le prime massicce importazioni e coltivazioni di mais in Europa, soprattutto nel Sud-Ovest della Francia; coltivazione che, ben presto, diviene il perno principale dell’alimentazione di oche ed anatre. Successivamente, l’ingegno di Nicolas Appert permise la conservazione e la diffusione del foie gras in tutto il mondo. Infatti, a lui si deve l’invenzione del metodo per la conservazione ermetica dei cibi. Certamente, distributori di cibi gourmet hanno


favorito largamente la “diffusione” di questo cibo tra le mura domestiche e non solo ai ristoranti, anche soltanto tra curiosi e i fruitori occasionali.

TIPOLOGIE DI FOIE GRAS

In Francia, Paese dove il foie gras ha una legislazione ben precisa, esistono diverse tipologie di foie gras, dal più costoso al più economico. Foie gras entier: è il più pregiato, tutto intero e si trova cotto, semicotto oppure fresco. Foie gras: costituito da diverse parti del fegato, compattate insieme. Bloc de foie gras: si tratta di un blocco, composto almeno dal 98% di puro foie gras cotto. A seconda delle diciture, può contenere diverse percentuali di foie gras di oca e di anatra.

Il foie gras solitamente si degusta a temperatura ambiente. Se intero, viene servito come portata principale. In caso ci si trovi davanti un foie gras porzionato (o ancora, un paté di foie gras), lo si può spalmare sul pane (le baguette francesi andranno benissimo), accompagnato con vini francesi leggeri, frizzanti o ancora vini secchi, come quelli dell’Alsazia. Viene a volte aromatizzato con il tartufo o ancora con liquori, come l’armagnac. Gli americani sono grandi consumatori di foie gras, ma di anatra, che per il palato locale è più accessibile. Durante il XX secolo, i consumi di fegato d’anatra da parte degli americani ha fatto sì che una grande quantità di nuove ricette fosse importata in Francia, con un conseguente florilegio di letteratura culinaria sul genere.

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Come “sottoprodotti”, esistono il patè de foie gras, la mousse de foie gras (entrambi, con almeno il 50% della materia), il parfait de foie gras (con almeno il 75%). Inoltre, esiste una varietà di prodotti

come oli, creme ed altro per le quali non esiste una legislazione precisa in merito.

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Ingredienti per 4 persone: un foie gras intero / 250 g di lamponi / 50 g di zucchero / sale q.b. / un cucchiaio di aceto di mele

PREPARAZIONE 1. Tagliate delle scaloppe (medaglioni) di foie gras dello spessore di un paio di centimetri e cuocetele in una piastra in ghisa rovente a temperatura feroce per 30 secondi per parte. Il grasso contenuto all’interno fonderà istantaneamente e, rimanendo nella piastra, aiuterà a veicolare il calore favorendo le reazioni di cauterizzazione esterne. 2. Lasciate riposare il foie gras per un minuto dopo la cottura per permettere all’interno di diventare morbido ma soprattutto di mantenerlo ben caldo.

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3. Mettete i lamponi in una padella, cospargeteli con lo zucchero e con un pizzico di sale, spruzzateli con l’aceto di mele. Mescolate con cura e appena la salsa si sarà un po’ addensata (i frutti non devono rompersi) servitela calda con il foie gras.

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TOURNEDOS À LA ROSSINI

Col Revit è molto meglio! Letteralmente, i tournedos o tournedò (in qualche libro dell’alberghiero, li troverete ancora scritti così!) vengono tradotti come “giradorso”: sono dei medaglioni di carne di manzo, ricavati dalla parte centrale del filetto ed alti circa 2-3 cm. Anche se solitamente ci riferiamo a carne bovina, in realtà il territorio può essere più vasto: possono essere di maiale, di pollame o ancora di pesce. Le origini dei tournedos sono, manco a dirlo, francesi: ed è in Francia che hanno le idee più chiare di cosa sia, perché appena al di fuori dei confini si dice tutto e il contrario di tutto. Negli Stati Uniti, un nome molto più comune per i tournedos è filet mignon, anche se questo genera un po’ di confusione e si legge un po’ ovunque che le due preparazioni non siano esattamente la stessa cosa. In ogni caso, il filet mignon viene proposto anche in ristoranti fine dining o di chiara ispirazione francese, con questo nome, attirando di fatto una gran fetta di popolazione che non sa cosa siano i tournedos.

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Solitamente, i tournedos vengono prima avvolti in pancetta o similari per conservarne una elevata succosità, per poi essere gettati in griglia. Come contorno, si preferiscono verdure e pane grigliati, ma anche jus e salse varie.

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Una ricetta molto famosa sono i tournedos à la Rossini, intitolati al celebre compositore Gioacchino Rossini. La leggenda narra, infatti, che fu proprio il compositore a suggerirne la ricetta allo chef del celebre Cafè Anglais di Parigi. I tournedos à la Rossini vedono come protagonista, oltre i medaglioni di carne, anche il foie gras: questo li rende un autentico piatto della tradizione gastronomica d’Oltralpe. Ecco la nostra versione della famosa ricetta francese.

Ingredienti per 4 persone: un tenderloin Emerald Green Crossbreed del Megastore / 200 g di foie gras / 100 g di burro / sale e pepe q.b. / 4 fettine di pancarrè o 1 kg di patate bollite e tagliate a fettine / due tartufi neri / mezzo bicchiere di liquore Madeira PREPARAZIONE 1. Preriscaldate il forno a 52°C e tenete in Revit il filetto intero finché non avrà raggiunto al cuore i 50°C circa e fuori sarà perfettamente asciugato. 2. Quando sarà pronto, tagliate il tenderloin a medaglioni altri circa 3 cm. 3. In una padella, sciogliete il burro, poi ricavate dal pancarrè delle fette tonde grosse quanto i medaglioni di carne e friggetele nel burro da entrambi i lati. 4. Ricavate delle fettine di foie gras, dello stesso numero dei medaglioni, e fatele cuocere su una piastra in ghisa a fuoco feroce. Toglietele dal fuoco. 5. Nella stessa padella, mettete a cuocere i medaglioni di filetto (se volete, potete legarli con uno spago da cucina per farli rimanere compatti), 30 secondi per lato. Toglieteli dal fuoco, salate pepate e poi adagiateli sopra le fettine di pane. Mettete poi, sopra la carne, le fette di foie gras e infine delle fettine di tartufo nero 6. Nella padella in cui avete cotto la carne e il foie gras versate il Madera, deglassate i sughi rimasti, poi fate addensare la salsa per qualche istante, aggiungendo il tartufo tritato che vi è rimasto da parte. Versate la salsa ottenuta sui tournedos.


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SAINT HONORÉ

La torta Saint Honoré è tra i dolci più monumentali non soltanto della pasticceria francese, ma di tutta la pasticceria mondiale. Necessita di molta attenzione, di pazienza e di una discreta dose di tempo: non a caso, vi proponiamo di seguito una ricetta che necessita non di uno, non di due, ma di TRE GIORNI. Ma tra voi ci saranno molti griller smaliziati, quindi il tempo per voi non sarà un problema, giusto?

Parliamo di un dolce sontuoso, che vede come protagonisti diverse preparazioni cardine della pasticceria francese: bigné, gli éclairs, pasta sfoglia, crema chantilly e crema pasticciera. Oltre ad un costo che può variare dal medio all’elevato, dipende da quello che deciderete di usare. Ovviamente, le vie facili esistono: dischi di sfoglia (o pan di Spagna, nelle varianti), bigné già pronti et voilà, ci vogliono 30 minuti e un po’ di astuzia. Ancora, possono essere mille le versioni della torta Saint Honoré: noi vi proponiamo, di seguito, quella con pasta sfoglia, che è anche la più diffusa in Francia. In Italia, lo sappiamo bene, è molto più diffusa quella che utilizza il pan di Spagna. La torta Saint Honoré ha anche un inventore (per una volta! Notizie precise!) riconosciuto: si tratta di Chiboust, che creò anche una crema omonima fata di crema pasticciera e meringa. Egli inventò il dolce nella propria pasticceria parigina che si trovava in Rue Saint Honoré. BBQ4All Magazine

Non ci perdiamo troppo in chiacchiere, ché abbiamo tre giorni di dolce da preparare. Siete pronti? Via!

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01. PASTA SFOGLIA DA INIZIARE TRE GIORNI PRIMA DEL MONTAGGIO FINALE

Ingredienti per una torta per circa 10 persone (19x25 cm) per il pastello di burro: 150 g di farina 00 / 25 g di burro morbido / 60 g di acqua / 10 g di aceto di riso o bianco per il panetto: 125 g di burro plastico (morbido, non sciolto né che si spezza ancora, malleabile)

GIORNO 1 1. Impastate gli ingredienti per il pastello; fate attenzione datele la forma di una palla leggermente schiacciata, avvolgetela in un foglio di pellicola alimentare e mettete in frigorifero per una notte. 2. Prendete ora il burro, adagiatelo su di un foglio di carta forno, copritelo con un altro foglio e con un mattarello schiacciatelo fino ad ottenere un quadrato di circa 14 cm per lato. Lasciatelo coperto con la carta forno e mettetelo in frigorifero (che avrete a temperatura bassa) per una notte

GIORNO 2 1. Incidete il pastello con un coltello facendo una croce abbastanza profonda, in modo tale da ricavare quattro ali che aprirete a formare un quadrato. Abbassate la pasta con un mattarello in modo da ottenere un bel quadrato grande circa il doppio del quadrato di burro. 2. Prendete il burro freddo ma già un po’ plastico (lasciatelo fuori dal frigo 5 minuti circa) e appoggiatelo al centro del pastello mettendolo a forma di rombo le cui punte toccano il centro di ogni lato del quadrato del pastello. 3. Risvoltate verso il centro i quattro angoli (quelli ancora visibili del pastello) e otterrete nuovamente un quadrato dove all'interno avete messo il burro. 4. Ora bisogna fare il primo giro di pasta: stendete il quadrato di sfoglia per il lungo senza mai cambiare verso e stendetelo fino ad ottenere un rettangolo lungo almeno 3 volte il quadrato iniziale. Ora piegate un'estremità della sfoglia (uno dei lati più corti del rettangolo) per due terzi e sovrapponete l'altra estremità. Questo è il vostro primo giro semplice.

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5. Ora girate la sfoglia di 90° così da avere il lato della piegatura sempre sul vostro fianco. Mettete la sfoglia in un foglio di pellicola, ponetela su di un vassoio e mettetela 5 minuti in freezer.

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6. Togliete e lasciate riposare in frigo freddissimo per 55 minuti. Passata la prima ora date nuovamente un altro giro e procedete così per un totale di sei giri semplici da un ora di riposo ciascuno (5 minuti di freezer e 55 minuti di frigo) . 7. Terminati tutti i giri potete cuocere la sfoglia, dopo aver atteso 2-3 ore, o rimandare il passaggio al giorno successivo.


COTTURA DELLA SFOGLIA 1. Preriscaldate il forno a 230°C. Stendete la pasta sfoglia su di un piano poco infarinato a circa 3 mm di spessore, ritagliare un rettangolo poco più grande di 19x25 (noi l’abbiamo fatto di circa due dita in più per lato). 2. Prendete un foglio di carta forno, ponetelo sulla placca da forno e inumiditelo con acqua fredda. Mettete sopra il rettangolo di sfoglia, bucherellatela con una forchetta, spolveratela con un velo di zucchero semolato e infornate abbassando la temperatura a 190°C. Lasciate cuocere per 8 minuti. 3. Aprite ponetevi sopra una griglia, schiacciate delicatamente, chiudete e lasciate cuocere ancora 5 minuti. 4. Togliete poi la sfoglia. Giratela e adagiate la parte che prima era sopra su un altro foglio ci carta forno spolverate il lato ancora non zuccherato con zucchero a velo setacciato. Rimettete in forno a 250°C per 5-7 minuti al massimo. Attenzione, perché la sfoglia brucia facilmente! Questo sarà il lato su cui voi poi costruirete il dolce. 5. Sfornate e rifilate con un coltellino la sfoglia, così da ottenere le misure indicate o da voi desiderate. Successivamente, lasciate riposare su carta forno.

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02. PASTA CHOUX PER ÉCLAIRS E BIGNÈ

Ingredienti: 125 g di latte parzialmente scremato / 125 g di acqua / 110 g di burro / 145 g di farina 260 W / 1 cucchiaino raso di sale / 2 cucchiaini di zucchero semolato / 250 g di uova (circa 4 uova) PROCEDIMENTO 1. Preriscaldate il forno a 170°C. Versare il latte, l'acqua, il sale e lo zucchero in una casseruola. Aggiungere il burro tagliato a piccoli pezzetti e portare al primo bollore il burro. Calcolate bene i tempi, perché quando il composto sarà a bollore, il burro dovrà essere del tutto sciolto. 2. Spostate quindi la casseruola dal fuoco, unire tutto d'un colpo la farina precedentemente setacciata. Rimettete sul fornello e far asciugare la pasta rimestandola con una spatola. La pasta è pronta quando il fondo sfrigola e la pasta sarà diventata una palla liscia e omogenea che si stacca completamente dalle pareti. 3. Una volta pronta, toglierla dal fuoco e mettete la pasta nella ciotola della planetaria con gancio a foglia. Impastate fino a far diminuire la temperatura. Sbattete le uova e unitele poco per volta all'impasto, avendo cura di non aggiungerne altro fino a quando i primi non siano stati completamente assorbiti.

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4. Mettete l'impasto in una sac à poche con bocchetta liscia di circa 13 mm. Imburrare a velo una placca da forno, e create delle strisce regolari lunghe 25 cm (o lunghe quanto la misura del lato lungo del vostro rettangolo di sfoglia). Su un'altra teglia formare dei piccoli bignè di circa 2,5 cm con una bocchetta da 10mm. Infornare per circa 30 minuti senza mai aprire il forno. Osservate solo la superficie degli éclairs che dovrà risultare dorata.

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5. Togliete dal forno disponetele su di una griglia e infornate ancora qualche minuti per farli asciugare bene. Toglierli dal forno e disporli su di un piatto a raffreddare per tutta la notte senza coprirli.


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03. CREMA PASTICCIERA ALLA VANIGLIA

Ingredienti: 450 g di latte intero fresco

/ 50 g di panna fresca liquida / 1/2 baccello di vaniglia Bourbon / 4 tuorli (circa 90 g) / 90 g di zucchero semolato / 50 g di burro morbido / 30 g di amido di mais / 10 g di amido di riso / 8g di gelatina in fogli da 2 g ciascuno / 30 g di mascarpone / 30 g di burro di cacao o burro classico PROCEDIMENTO 1. Far bollire il latte con la panna e il baccello di vaniglia privati dei semi e poi lasciare in infusione per circa 30 minuti. 2. Mettete a bagno la gelatina in acqua fredda. Prendete una casseruola capiente, unite i tuorli, mescolare, unire la polpa della vaniglia e lo zucchero. Aggiungete l'amido di mais e di riso e setacciate. 3. Riportate a bollore il latte e la panna e unirli in tre tempi al composto di uova. Rimettete il tutto sul fuoco e portare a bollore e cuocere per un minuto circa. 4. Togliere il composto dal fuoco, aggiungere la gelatina strizzata, il burro di cacao e il burro e mescolare energicamente fino ad ottenere una crema setosa.

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5. Far raffreddare in frigorifero su di una teglia e coprendola con pellicola a pelle. Il giorno dopo mettere la crema nella planetaria e far montare per 5 minuti. Unite il mascarpone a temperatura ambiente a piccole cucchiaiate. Mescolare ancora un poco ed è pronta all'uso.

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04. CARAMELLO

PER I BIGNÈ DI DECORAZIONE

Ingredienti: 150 g di zucchero semolato

/ 37 g di acqua / 1 cucchiaio di glucosio PROCEDIMENTO 1. Prendete una casseruola con il fondo spesso. Mettete tutti gli ingredienti e posizionare su un fuoco medio-basso sino a doratura color miele. 2. Prendete i mini bignè non ancora riempiti, forarli sulla base ed intingere la parte superiore nel caramello. Porli a testa in già su un tappetino di silicone o un foglio di carta forno.

05. CREMA CHANTILLY

Ingredienti: 600 g di panna liquida / 180 g di zucchero a velo / 1 baccello di vaniglia Bourbon PROCEDIMENTO 1. Mettere la ciotola della planetaria e la frusta in freezer per almeno 15 minuti. 2. Nel frattempo, con un coltellino affilato (tipo spelucchio) incidere il baccello di vaniglia Bourbon ed estrarne i semi. 3. Trascorsi i 15 minuti, estrarre dal freezer la ciotola fredda, posatela sulla planetaria, aggiungere la panna e la vaniglia. Iniziate a montare.

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4. Aggiungete poco alla volta lo zucchero a velo setacciato e montare sino a quando non avrà assunto una consistenza morbida e setosa. Attenzione ad avere una velocità lenta e costante nel montare e di non eccedere, onde evitare l’effetto “burro”.

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06. ASSEMBLAGGIO PROCEDIMENTO 1. Per prima cosa prendere i tre eclairs forarle nella parte inferiore in 5 punti. Farcire gli éclairs con la crema pasticcera alla vaniglia e poi farcire anche i bignè intinti nel caramello. 2. Prendere la base di sfoglia, adagiarla su di un piatto fissandola alla base con delle gocce di gelatina o miele. Adagiare due eclairs sui lati lunghi del rettangolo ed una al centro fissandole sempre con delle gocce di gelatina o miele. 3. Con la stessa sac à poche usata per riempire i bignè farcite le parti rimaste vuote tra gli éclairs formando così un piano uniforme composta da crema ed éclairs. 4. È il momento di passare alla crema chantilly. Riempite una sac à poche munita di beccuccio per Saint Honoré e decorare la parte centrale della torta. 5. Prendete i bignè caramellati e fissarli con la gelatina o il miele sugli éclairs laterali rimasti scoperti.

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6. Lasciate in frigorifero fino al momento del servizio.

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L'Arte Bianca a cura di Alessandro Trezzi

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a qualsiasi parte del mondo veniate, è altamente improbabile che non abbiate mai fatto colazione con un caldo croissant sfogliato, classico o ripieno di crema, cioccolato o confettura. Si tratta indiscutibilmente del re del mattino, e che se immerso nel cappuccino può regalare gioie indimenticabili e farvi partire con il piede giusto. Secondo dei racconti popolari, tramandati anche ai giorni nostri, origine e forma del croissant sarebbero legate alla celebrazione della sconfitta dell’Impero ottomano nell’assedio di Vienna del 1683, o in quello di Budapest del 1686. La leggenda narra che per due mesi i turchi, abbiano assediato l’impero Asburgico, senza riuscire a sorpassare le difese. Decisero quindi di provare a raggiungere l’obiettivo scavando delle gallerie sotterranee da percorrere durante la notte, per creare un effetto sorpresa e abbattere più facilmente le sentinelle. Quello che gli ottomani non tennero in conto, è che i fornai lavorano proprio nelle ore notturne. Furono proprio gli instancabili artigiani ad avvertire le sentinelle, salvando la città e l’intero Occidente dall’egemonia turca. In particolare, si parla di un pasticcere di nome Vendler, che ricevette il diritto esclusivo di produrre qualcosa di speciale per commemorare l’evento; sarebbero nati così i cornetti, con quella forma di mezzaluna che ricordava il logo della bandiera turca. Ben diversa è ovviamente la storia ufficiale ed accreditata; le origini del croissant vanno ricercate nel kipferl austriaco, una specialità dolce o salata a forma di mezzaluna preparata con farina, burro, uova, acqua e zucchero e tuorlo d’uovo in superficie. Questa pietanza è documentata ampiamente almeno fino al XIII secolo.

Il successo fu pressoché immediato, tanto che la piccola impresa artigianale cominciò ad essere imitata dai francesi, dando vita anche a versioni “alternative” dei dolci; il kipferl francese fu quindi ri-battezzato croissant per la sua forma a mezzaluna. La parola, infatti, letteralmente vuol dire “crescente“, alludendo alla luna crescente e alla forma del tipico dolce. Alcune fonti, tuttavia, sostengono che il primo riferimento al termine “croissant” si ritrovi nel libro, datato 1853, “Des substances alimentaires”. Per avere la prima ricetta si dovrà attendere il 1906, con la “Nouvelle Encyclopédie culinaire”.

Il croissant Le caratteristiche del croissant sono spesso confuse, a causa dell’interpretazione del termine nel nostro bel paese. Il croissant ha una superficie molto friabile e un interno sfogliato, quasi vuoto, con strati alternati e concentrici di pasta che donano una leggerezza e una morbidezza unica; l’esterno è dorato e sottile, la mollica quasi assente e di un bianco tendente al giallo. Si realizza con un impasto molto semplice di farina, pochissimo zucchero, sale, lievito di birra e acqua; una volta lasciato riposare, viene steso e ripiegato più volte insieme ad un panetto di burro, in modo da alternare gli strati ed ottenere una spettacolare ed invitante sfogliatura. Viene spesso confuso con il cornetto all’italiana, che nell’impasto ha uova, burro e più zucchero, e che per tal motivo si presenta meno friabile, più morbido e con un rapporto vuoto/pieno molto più basso del gemello francese. Tutt’altra cosa è poi la brioche, termine genericamente utilizzato per intendere un dolce da forno dorato e con una mollica piena ma soffice, che nel sud Italia viene realizzata con il “tuppo”. Farlo in casa può sembrare complesso, ma è in realtà un’impressione dovuta al lungo processo di sfogliatura richiesto, fondamentale per ottenere il risultato sperato. Vediamo insieme come si fa?

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Tra il 1838 ed il 1839, l’ufficiale di artiglieria austriaco August Zang, in congedo, fondò la Boulangerie Viennoise (“Pasticceria viennese“) in Rue de Richelieu 92 a Parigi. La data è estrapolata da una fotografia del 1909 della pasticceria, ma sembra che la sua esistenza sia ancora più antica e documentata precedentemente. L’intento del locale era vendere specialità viennesi, incluso il kipferl; fu così che nacque la viennoiserie, distinta dalla semplice pasticceria per una focalizzazione ai dolci da forno ripieni di creme (una distinzione che in Italia non esiste, poiché i fornai sono tradizionalmente

autorizzati alla produzione di pani e dolci secchi da forno).

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Il burro La scelta del burro giusto è essenziale perché il tutto si svolga correttamente. Si tratta di un ingrediente che deve conservare la sua plasticità e la sua forma solida fino alla cottura; in caso contrario, sciogliendosi si unirà agli strati adiacenti di pasta, impedendo la sfogliatura stessa. Dev’essere un burro di panna centrifugata, mai da affioramento, e con una buona percentuale di grassi; purtroppo, oggi non è facile trovare delle materie prime di qualità nel nostro paese, perché il burro è considerato un prodotto di scarto della produzione di formaggi pregiati, come il Grana Padano e il Parmigiano Reggiano. All’estero, invece, è considerato un vero e proprio alimento, soprattutto in Francia e in Germania. Non fatevi problemi quindi ad acquistare ingredienti stranieri, nemmeno se i parenti vi accusano di non dare soldi ai vostri compatrioti; si ricrederanno una volta assaggiati i vostri splendidi croissant

La sfogliatura Questa volta ci concentreremo ben poco sull’impasto, in quanto riveste la parte meno importante di tutto il processo. La vera discriminante è invece il particolare processo di sfogliatura, ossia la tecnica per ottenere il caratteristico interno a strati sottili e concentrici, che ne evidenzia l’estrema friabilità. La sfogliatura è un processo di per sé semplice e lineare, ma durante il quale la precisione e l’attenzione alle temperature è d’obbligo. Una volta rovesciato l’impasto sul piano (non infarinato, mi raccomando), viene pressato al fine da ottenere un quadrato, e coperto dal burro per metà lunghezza ma uguale spessore. L’impasto viene quindi ripiegato in modo da coprire il burro con i bordi e racchiuderlo a fagottino; a questo punto, con un mattarello il tutto viene spianato fino ad ottenere un rettangolo di 1 cm di spessore, che viene ripiegato a 3 (il bordo inferiore verso il centro, il superiore a coprire l’inferiore), coperto da pellicola e riposto in frigo 20 minuti.

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I riposi al freddo sono fondamentali per evitare che il burro si sciolga e rovini il lavoro; potete anche utilizzare una sfogliatrice per pasta fresca se ne disponete, ma non è fondamentale.

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Spianatura e pieghe vanno ripetute altre due volte, per poi avvolgere il tutto nella pellicola e riporre in cella 40 minuti; dopodiché, sarete pronti per realizzare i vostri croissant. Sotto con la ricetta completa!

INGREDIENTI circa 8 croissant

per l'impasto 250 g di farina di grano tenero 00 o 0 di media forza (260 W); 20 g di zucchero semolato; 5 g di sale fino; 10 g di lievito di birra fresco; 125 g di acqua;

per la sfogliatura 150 g di burro

per la copertura 1 uovo medio; Un pizzico di sale.


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IMPASTAMENTO

In una ciotola o nella vasca della vostra impastatrice versate la farina, tutto lo zucchero e il sale; a parte sciogliete il lievito nell’acqua, e poi versate il tutto insieme alla farina e iniziate ad impastare. Una volta ottenuta una massa liscia e uniforme a 22°C, mettetela in un recipiente a chiusura ermetica e lasciatela riposare 10 minuti; dopodiché, effettuate 3 giri di pieghe ogni 10-15 minuti al fine di rafforzare la maglia glutinica.

PUNTATA

Riponete l’impasto a 6°C in frigorifero per 12 ore, lasciandolo raddoppiare di volume; se in casa vostra fa troppo freddo, fate partire 30 minuti l’impasto fuori dal frigorifero prima delle 12 ore, in modo che la lievitazione possa avere il suo corso.

SFOGLIATURA

Riponete l’impasto sul piano da lavoro e procedete con la sfogliatura, come descritto nel paragrafo dedicato: create un quadrato di 12 cm, appoggiateci sopra un panetto di burro in diagonale (di metà lunghezza ma egual spessore), e ripiegate i 4 lembi dell’impasto al centro, chiudendolo a fagottino. A questo punto con il mattarello o la sfogliatrice spianate l’impasto, fino a raggiungere 1 cm di spessore, poi chiudete con piega a libro (la parte inferiore verso il centro, la superiore sulla inferiore), coprite con pellicola e riponete in frigorifero 20 minuti. Ripetete spianatura e pieghe 2 volte, poi fate riposare 40 minuti in frigorifero.

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FORMATURA

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Una volta tolto l’impasto dal frigo, stendetelo in un rettangolo di circa 24x38 cm, e ritagliatelo in 8-9

triangoli lunghi e sottili; arrotolate ogni triangolo partendo dalla punta e tirando leggermente, in modo da formare i croissant.

APPRETTO

Disponete i croissant su una teglia 30x40 cm, meglio se in alluminio, ricoperta da carta forno; lasciate un po’ di spazio tra l’uno e l’altro in modo che possano lievitare senza toccarsi. Attendete circa 1-2 ore fino al raddoppio; un segnale molto evidente da tener presente è che le pieghe della pasta devono iniziare a separarsi.

COTTURA

Pre-riscaldate il forno a 240°C, e riponete una teglia sul fondo all’interno della quale versare una tazza d’acqua per generare vapore, impedendo ai croissant di seccare. Spennellate i vostri capolavori con l’uovo (precedentemente sbattuto e addizionato di sale), molto delicatamente; infornate nella parte centrale bassa, abbassando il forno a 220°C, e attendete per 15-20 minuti fino a completa doratura. Non preoccupatevi se durante la cottura vedrete il burro fuoriuscire, in quanto verrà riassorbito durante il raffreddamento. Fate raffreddare i croissant su griglia rialzata, e sbranateli ancora tiepidi, meglio se inzuppati in un buon cappuccino. Vi sconsiglio di congelarli una volta pronti; l’alternativa è quella di congelarli una volta formati, prima dell’appretto. Riponeteli coperti da un panno con la teglia, e una volta induriti potete riporli in un sacchetto per alimenti. Per riportarli in vita, vi basta toglierli dal freezer, riporli sulla teglia con carta forno e attendere che dopo lo scongelamento riparta la lievitazione. Bon appétit!


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Feste a stelle e strisce

It’s

Halloween,

be afraid!

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Across the Pond a cura di Elena Ninotti

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L

o o sappiamo che è il Magazine di Settembre, ma ci portiamo avanti con il lavoro: ci tengo a farvi assaporare un autentico Halloween a stelle e strisce, per cui è bene pensarci per tempo! Le serie tv americane hanno fatto molto, nell’inculcarci l’idea dell’Halloween, tipica festa a stelle e strisce. Ad esempio, uno dei primi incontri con i festeggiamenti della zucca lo ebbi da ragazzina, guardando una puntata di Dawson’s Creek. Ricordo tutto: l’allestimento della casa, ragnatele finte e zombie in giardino... insomma, con le mie poche conoscenze dell’epoca riguardo il mondo americano, il tutto mi sembrò una forzatura cinematografica. Poi sono arrivata negli States e... ho scoperto che la realtà è ancora più estrema. Durante il mese di ottobre, gli esterni delle ville diventano SUL SERIO dei set allestiti come una vera casa degli orrori con manichini semoventi, proiettori, tombe e scheletri. Non ci si risparmia, da queste parti! Un mio vicino, ad esempio, per diverse settimane parcheggia un furgoncino del vialetto di casa con due scheletri dentro. Altri ancora lasciano penzolare gli scheletri, oppure li impiccano ai rami degli alberi del giardino. Negli Stati Uniti, celebrare Halloween è una cosa davvero seria! Prima di tutto, c’è da decidere il costume. A parte alcune località (come, ad esempio, a New Orleans, dove si dà ogni anno una magnifica parata il giorno del Mardi Gras), negli States non si festeggia il Carnevale, per cui questa è l’unica occasione di travestimento. Non solo scheletri e morti, ma anche principesse, draghi, pompieri, ogni personaggio della fantasia (o poco più in là) viene impersonato da bambini ed adulti. Non tutti i travestimenti sono ben accetti, però: ad esempio, meglio evitare tutte le maschere che possono essere cultural appropriation. Qualche esempio? No Black Face, no travestimenti di nativi americani, no asiatici. Insomma, le nostrane mascherine di Toro Seduto o di Bruce Lee, non sopravvivrebbero ad Halloween.

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Lo dia de los Muertos anche è molto diffusa, una sorta di variazione sul tema Halloween. È molto conosciuta come festa anche in Europa grazie alla mediazione del film Coco, che l’ha portata sul grande schermo. In questo caso, si va direttamente a festeggiare sulla tomba dei defunti con banchetti, mascherea

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tema, musica. Si tratta di una festa prettamente messicana e non viene celebrata con la stessa portata di Halloween, ma si iniziano a vedere sempre di più decorazioni e parate che rimandano a ciò. Anche in questo caso, tuttavia, appropriarsi di una festa così intima, di un’altra cultura, non è sempre ben visto. Non c’è festa da scuola il giorno di Halloween, ma il 31 i bambini sono invitati a presentarsi in classe indossando il costume del loro personaggio letterario preferito per parlarne di fronte alla classe.

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Sebbene per tutto il mese vengano organizzate feste a tema, in parchi, musei e location varie, il culmine dei festeggiamenti si ha la sera del 31 Ottobre. A partire dalle 6 pm, le strade si riempiono di bambini e adulti, tra le strade dei quartieri si organizzano banchetti, allestimenti, proiezioni cinematografiche nei giardini e inizia la processione del “dolcetto o scherzetto”.

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Una cosa molto particolare, che si fa spesso nei parchi delle scuole o delle comunità, è il Tailgate Party. Le automobili sono parcheggiate in un’area adibita e i bagagliai aperti vengono decorati come una casa infestata: da qui il nome, visto che “tailgate” significa appunto “bagagliaio”. I bambini passeggiano tra le auto e partecipano a giochi, prendono le caramelle, i gadget...

Verso le 8 pm si rientra a casa e si continuano i festeggiamenti con un buffet a tema. Per questo, questo mese vi lascio qualche idea per poter organizzare in anticipo un menù di Halloween attuabile anche in Italia: laddove mi sono resa conto che potrebbe essere complicato recuperare gli ingredienti originali, mi sono ingegnata per trovare delle sostituzioni. Il menù dovrebbe essere a buffet, già pronto per quando si rientra in casa. Di solito, ci sono sempre le seguenti preparazioni (fra tutte le altre): • • • •

Lasagne cimitero Mummie Devil eggs coi ragnetti Crema al cioccolato con vermi

Per le lasagne, avete più opzioni. Potete farle col ragù scientifico dello Zio, o ispirarvi alla ricetta del Numero del Magazine di Dicembre 2018. In ogni caso, cospargetele con pangrattato abbrustolito (in modo da simulare il terriccio) e decorate con “lapidi” create con una piadina tostata e scritta con un pennarello nero alimentare.


MUMMIE

Ingredienti: un rotolo di pasta sfoglia / 4

salsicce cheddar jalapeño del Megastore / un pacchetto di occhi di zucchero (si trovano nei negozi di cake design e simili) o dei grani di pepe nero. PROCEDIMENTO: Srotolate un foglio di pasta sfoglia e tagliatelo a sottili tagliatelle. Avvolgete le salsicce con la pasta sfoglia, lasciando un piccolo spazio scoperto per gli occhi, Cuocete in forno a 200°C fino a doratura della pasta e fate raffreddare. Mettete un goccio di maionese sulla“faccia” e incollate gli occhietti di zucchero o i grani di pepe.

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DEVIL EGGS

Ingredienti: 4 uova / un cucchiaio di

maionese / 50 ml di panna acida oppure yogurt greco / 5 g di senape / un cucchiaino di tabasco Memphys dry rub / il succo di mezzo limone / 3 o 4 olive verdi per decorazione

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PROCEDIMENTO: Bollite le uova, tagliatele a metà per poi estrarne i tuorli. Mescolateli in una ciotola con un cucchiaio di maionese, uno di panna acida (o yogurt greco), una punta di senape e un goccio di tabasco,. Insaporite con il Memphis dry rub e regolate con succo di limone.

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Mettete la crema ottenuta negli albumi tenuti da parte e decorate con mezza oliva per fare il corpo del ragnetto e con spicchi di oliva per fare le zampette


CREMA AL CIOCCOLATO CON

VERMI

Ingredienti: 2 uova / 180 g di

zucchero bianco semolato / 50 g di maizena / 250 ml di latte intero / un cucchiaio di cacao amaro / 50 g di cioccolato fondente / un pacchetto da 6 di biscotti tipo Oreo PROCEDIMENTO: Preparate in una ciotolina una pastella con le uova intere, lo zucchero, il cacao e la maizena. Portate a bollore il latte. Versare a filo il latte bollente e riportare sul fuoco, fino a nuovo bollore, mescolando continuamente in modo che non attacchi al fondo del pentolino. Quando la crema si è addensata, levare dal fuoco e aggiungere il cioccolato a pezzetti. Assaggiare la crema ottenuta e regolare di zucchero o di cioccolato (a seconda del cioccolato utilizzato può essere necessario più o meno zucchero). Versare in bicchieri di vetro e far raffreddare, poi conservare in frigo almeno 3 ore. Per servire, sbriciolate un paio di biscotti Oreo privati della crema centrale e usateli come terriccio sopra al vasetto. Decorare con vermi di gelatina.

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Se prevedete di assemblare il dolce in un luogo diverso, potete conservare la crema raffreddata in un sac à poche e creare i bicchierini in un secondo momento, spremendo la crema dalla sacca.

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a cura di Emiliano Nencioni

BBQ4All: FROM ZERO TO HERO

La cottura indiretta sul dispositivo a gas

SI. PUÒ. FARE!

Spesso i griller alle prime armi, o comunque non ancora ammanicati a dovere, guardano con sospetto i dispositivi a gas, perché sono convinti che non siano vero bbq. Altrettanto di frequente, di fronte a un macchinario di questo tipo, la domanda che ci si sente porre è: ma darà davvero alla ciccia il sapore tipico della grigliata? Riuscirò ad affumicare? Riuscirò a cuocere un Pulled Pork, oppure lo bollirà?

La risposta a tutte queste domande è sì. Certamente, bisogna avere un po’ di esperienza e ci vogliono alcuni accorgimenti. Ma vi possiamo assicurare che, quando questo tipo di dispositivo è usato bene, è molto difficile distinguere un cibo cotto sul carbone da uno cotto sul gas. In ogni caso, i vostri amici o i vostri parenti che non sono del mestiere non sapranno proprio riconoscerli. Garantito. Come abbiamo spesso ripetuto, scegliere questo tipo di macchinario porta diversi vantaggi, uno su tutti la praticità. E’ infatti il dispositivo preferito per chi ama le grigliate ma non ha tempo, voglia o capacità di gestire quello a carbone. Ma conosciamolo meglio nel dettaglio.

Com’è fatto un dispositivo a gas?

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È costituito da una camera di cottura che può essere di diverse dimensioni, realizzata con materiali refrattari, come ghisa o acciaio, resistenti alle alte temperature. La camera può essere chiusa durante la cottura grazie a un coperchio fissato con due perni laterali. All’interno della camera di cottura sono posizionate le griglie. In alcuni casi, possono esserci supporti laterali fissi o mobili che servono ad appoggiare i condimenti o altri ingredienti.

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Il funzionamento del dispositivo è semplice: basta aprire il rubinetto della bombola e schiacciare un pulsante per accendere il fuoco, che può uscire da due o più bruciatori.


La fiamma può essere regolata dalle manopole, esattamente come si fa con i fornelli di casa. I bbq a gas più avanzati includono le cosiddette barre aromatizzanti: i liquidi della carne o dei cibi in cottura cadono su queste barre e si trasformando in vapore che torna su e investe di nuovo l’alimento, che a quel punto prende il tipico sapore di bbq! Ma anche coi modelli che non montano le barre di aromatizzazione, niente panico: è possibile inserire fra la griglia e le fiamme una lastra di pietra che trasforma i liquidi di cottura in vapore aromatico.

Setup di un dispositivo a gas In realtà il metodo è molto simile a quello visto per il carbone, ma con le opportune varianti. Come abbiamo detto, i grill a gas possono avere un numero variabile di bruciatori indipendenti. A parte quelli con un solo bruciatore, che sono ovviamente adatti alle cotture dirette e basta, quando si hanno due o più bruciatori non si devono temere le indirette. Se un grill è da due o tre fuochi, se ne accenderà solo uno di quelli presenti ad una delle estremità. Se è un grill da quattro fuochi in su, si accenderanno solo i due presenti alle due estremità. In entrambi i casi, l’intensità di calore dopo il riscaldamento dovrà essere ridotta al minimo. Lo spazio della griglia in prossimità dei bruciatori accesi verrà lasciato vuoto, mentre sullo spazio in prossimità dei bruciatori

spenti si disporrà il cibo. Chiudendo il coperchio e lasciando qualche minuto di assestamento avremo ottenuto il nostro setup indiretto. Se il dispositivo a gas è molto grande, la porzione d’aria sopra i bruciatori spenti è maggiore rispetto a quella sopra la fonte di calore. Abbiamo poi l’aria che penetra dall’area sottostante che, investendo la pietanza in cottura, la mantiene più fredda, o in ogni caso la raffredda leggermente rallentando la cottura. Per ovviare a questo inconveniente, basta utilizzare la tecnica del drip pan: una teglia, messa sotto la griglia in corrispondenza dell’alimento e posata sulle barre dei bruciatori spenti, che raccoglie i succhi in caduta. In questo modo l’aria che entra da sotto verrà convogliata verso i bruciatori accesi alle estremità e si ridurrà l’interferenza di aria fredda all’interno della camera di cottura, migliorando la stabilità. Importantissimo: solo le barre dei bruciatori spenti possono essere coperte. Quelli accesi necessitano di flusso d’aria costante e libertà di sfogo per i gas di combustione. La cottura indiretta in un dispositivo a gas sarà un gioco da ragazzi con questi accorgimenti. A questo punto non resterà che regolare l’erogatore di flusso del combustibile e la temperatura rimarrà stabile facilmente.

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P

epperoni. Nella nostra lunga vita a guardare e leggere storie made in USA, l’abbiamo incontrato un mare di volte. E, ad onor del vero, l’abbiamo spesso confuso con i nostrani peperoni. Tutto ciò, fino all’avvento di internet: solo allora abbiamo capito che non si trattata della nostra bacca ben conosciuta, bensì di un salame a macina fina, “codificato” nella New York di inizio Novecento e da allora ampiamente utilizzato dagli americani per condire cibi. In particolare, la pizza. La pizza pepperoni , di cui avrete sentito parlare, è una delle specialità riconosciute della città di New York, ma non solo: questa pizza occupa quasi un terzo delle vendite totali delle pizze negli States. Tutto merito, pare, di questo salame tagliato a rondelle e sfrigolante sulla pizza calda, che ha iniziato a destare sempre più curiosità nei palati nostrani. Il Pepperoni sembrerebbe derivare dalle salsicce essiccate del Sud Italia, portate negli States dagli emigranti: una cosa molto simile alla salsiccia napoletana piccante, oppure alla schiacciata calabra. Rispetto a queste due tipologie, il Pepperoni ha una grana molto più sottile. Più simile ad un salame di tipo Milano, per intenderci.

Piccante

e affumicato come non l'avete mai provato

De Gustibus a cura della redazione

Smoked Pepperoni è il "salamino piccante" presente sul nostro Megastore. Nome americano, qualità e gusto scelti da noi. A dire il vero, definirlo “salamino” sarebbe assolutamente riduttivo. La migliore norcineria che vi possa capitare a tiro, l’abbiamo scelta per voi e messa sul nostro Megastore. Così non dovrete sbattere troppo per trovare ingredienti di altissima qualità in giro per il web. Qualche clicco sul Megastore e siete a posto. Sì, ma: com’è questo Smoked Pepperoni Premium Charcuterie? BBQ4All Magazine

La cosa più facile sarebbe chiedere a “qualcuno dei nostri” che ne ha presi sei in un colpo solo per farci le pizze (Trezzi, non stiamo parlando di te, proprio no).

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Ci abbiamo messo tanta cura ed attenzione per proporvi il nostro Smoked Pepperoni. Per offrirvi un’esperienza nuova, senza preconcetti o pregiudizi. Tu che leggi il nostro Magazine, sarai sicuramente un buon cultore della carne lavorata in Italia; insomma, avrai provato tantissimi insaccati. Forse forse, sei anche un esperto di norcineria della tua zona o di quelle limitrofe. Spogliati di qualunque pregiudizio ed abbraccia quello che, molto probabilmente, diventerà il tuo prodotto preferito da tagliare sulle pizze, o da mettere tra due fette di pane ben tostate. Anche perché, vogliamo dire: in Italia, sebbene il nostro Paese pare gli abbia dato i natali (in maniera diretta ed indiretta), non esiste nessun Pepperoni in Italia. Il Pepperoni proposto sul Megastore è morbido, speziato, leggermente piccante. Ovviamente, affumicato. Poteva mai mancare questa nota? Possiamo dirlo ad alta voce: proprio no. Ovviamente, potete chiamarlo salame. Ma non è quella la sua natura. È Pepperoni, dal primo all’ultimo morso. Oltre la selezione maniacale della carne, il tocco GLC è dato appunto dall’affumicatura, con delle deliziose note di ciliegio. Ma un tocco lo troverete anche nella concia. Ha paprika e chipotle. Dicevamo. Il Pepperoni si presta benissimo ad essere cotto, come ingrediente per succulente focacce, pizze, torte rustiche. Un’altra cosa con cui riesce dannatamente bene è la pizza americana. Sì, abbiamo detto pizza americana.

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Provate a farla con gli ingredienti giusti. Un impasto studiato appositamente per essere farcito con un buon fiordilatte, un buon formaggio, un buon pomodoro. Ed ovviamente, il nostro Pepperoni.

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Come sempre, soddisfatti o rimborsati. Garantiamo noi. Anche con il Pepperoni.


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La ricetta scientifica a cura di Gianfranco Lo Cascio

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o i c a Ce pepe

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D

a quando è nata la cucina, è abitudine dare un "nome ai piatti" per individuarli e incasellarli in una categoria. Il nome di un piatto, però, ha sempre determinato un concetto e non una pietanza specifica. Mi spiego meglio. Cosa vuol dire cacio e pepe?

A quale cacio ci riferiamo? Quale pepe? E anche quando diciamo Pecorino romano, fatto da chi? Quando? Da quali pecore? Cosa hanno mangiato questi animali? E in quale stagione? Pensate davvero che esista un'unica sfumatura di pecorino? Perché la ricetta "originale" della cacio e pepe sarà stata prodotta con uno specifico formaggio. E per quanto impegno ci possiate mettere, voi, la prima cacio e pepe del mondo non l'avete mica assaggiata. Se facessi una cacio e pepe e, per esempio, mi venisse voglia di sbriciolarci dentro mezza salsiccia, quella non sarebbe più una cacio e pepe? Sarebbe una cacio e pepe con salsiccia, semplice. La cacio e pepe non è un piatto, è un concetto. E su questo non ci sono dubbi. Perché due "cacio e pepe" identiche è materialmente impossibile farle, soprattutto se realizzate in due finestre storiche diverse. Se alla cacio e pepe aggiungiamo il guanciale otteniamo la gricia. Quindi la gricia non è più una cacio e pepe perché c'è il guanciale? Con quale guanciale poi? Fatto da chi? E dove? Quanto stagionato? Esistono due gricie identiche a diverse latitudini? La risposta è una sola: no. Se aggiungessi del radicchio stufato alla gricia smetterebbe di essere una gricia? O sarebbe una cacio e pepe con guanciale e radicchio? E se aggiungiamo il pomodoro alla gricia? Diventa amatriciana, giusto. Quindi se volessi un'amatriciana senza pomodoro dovrei chiedere una gricia, o una cacio e pepe col guanciale? L'amatriciana è un concetto. Posso aggiungere dei broccoli spadellati con l'aglio e chiamarla amatriciana ai broccoli? Per me sì. E se alla gricia, invece del pomodoro, aggiungessimo l'uovo? Si otterrebbe la carbonara. Ma quindi posso chiedere una cacio e pepe col guanciale e l'uovo invece della carbonara? Posso ordinare una carbonara senza uovo e guanciale o devo per forza dire cacio e pepe? Il punto focale è che la nomenclatura può essere qualcosa di "comodo" da sfruttare, che non ha alcun bisogno di essere difeso. Perché combinare ingredienti, da quando esistono le pentole, è la cosa più naturale del mondo. Mettere, togliere e sostituire è la base della cucina. E il concetto che voglio affrontare con voi, stavolta, è proprio quello che si cela dietro la pasta cacio e pepe. Ci giro intorno da molto tempo e quando ho iniziato a sperimentare ero solo stuzzicato dall'idea di questo boccone di pasta formaggioso e avvolgente. BBQ4All Magazine

Lo so bene che intorno a voi ci sono centinaia se non migliaia di “pro” della cacio e pepe perfetta "che a Roma so secoli c'a famo mo te ce voi nzegnà a caceppèpe a noi che so dici nartra vorta t'arèstano."

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Ma voi, come sempre, ve ne fregherete altamente e andrete avanti per la vostra strada. Ce ne sono due in realtà, di strade: una facile e una un pochino più rognosetta. Iniziamo con quella semplice e fissiamo l'obiettivo: ottenere una crema densa di formaggio, senza grumi e che non fila mai.

La versione semplificata Come si fa ad ottenere una crema calda di formaggio senza che si metta a filare? La scienza ci aiuta a trovare la risposta, ma ci infila in un tunnel molto tortuoso che io vorrei aiutarvi ad esplorare. Prendete un pentolino, mettetelo sul fuoco con 300 ml di vino bianco. Portate a bollore e fate ridurre. Mentre il vino è sul fuoco, grattugiate con una microplane (la grattugia lunga) 250 grammi di Pecorino Sardo semi stagionato e 150 grammi di Pecorino Sardo Vecchio. Aggiungete un cucchiaio di amido di mais al Pecorino e mescolate bene, a secco, per amalgamare il più possibile. Quando il vino si è ridotto a 1/3 del suo volume, aggiungete un cucchiaio di succo di limone, abbassate il fuoco e iniziate ad aggiungere il composto di formaggio e amido al vino dealcolato, girando con una frusta. Continuate ad aggiungere, una manciata alla volta, e fermatevi quando la crema si sarà perfettamente addensata. Scolate la pasta, rigorosamente di Gragnano, e spadellatela con la salsa e un po’ di acqua di cottura. Impiattate e aggiungete una generosa manciata di pepe nero.

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Che cosa abbiamo fatto con questa operazione?

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L'acidità del vino ha rotto le scatole al calcio che è la colla che "tiene legate" le proteine (caseina). Quando sono legate tra loro, le proteine non vanno molto d'accordo con il grasso. Ma visto che in questo caso il calcio si è sciolto, le proteine si ritrovano a dover dividere la stanza con

l'acqua e il grasso in una specie di "brodo" strano. La maizena ad un certo punto dice: "Ma che è sto casino? Dai, su, mettetevi in riga!”. E si mette lì ad unire proteine, acqua e grassi tutti insieme e fa in modo che nessuno si muova. In sostanza stabilizza l'emulsione creata sbattendo con la frusta. Ve la spiego ancora meglio: Il vino contiene acido tartarico, malico e citrico. I sali di questi acidi, specialmente di quello citrico, legano il calcio e allentano i legami delle proteine. In questo modo si crea il "brodo" di caseina, acqua e grasso. Il movimento con la frusta emulsiona questi elementi e l'amido fa da stabilizzante, restituendoci una bella crema. Senza questi "sali di fusione" il calcio impedisce alle proteine di rompersi (denaturazione) e queste, col calore, continuano ad allungarsi ma senza rompersi. Ecco perché il formaggio fuso fila. La mozzarella scaldata fila perché contiene molta acqua e poca acidità. Il calcio non si lega e le proteine si allungano. Quando sentite che basta solo un po' d'acqua di cottura e "la cremina della cacio e pepe si forma lo stesso" è vero. Perché l'acqua di cottura contiene amido e quindi fa da stabilizzante. Ma se continuate a mescolare sul fuoco e denaturate le proteine, cioè se andate troppo in alto con la temperatura, vedrete che il formaggio tenderà di nuovo ad aggregarsi e tornerà a filare. In questa versione "facile" c'è ovviamente una componente aromatica lasciata dal vino e un'acidità presente. Ma il punto è che abbiamo iniziato a capire qual è il processo che ci permette di non far filare il formaggio per ottenere una crema. Volendo andare allo step successivo bisognerà necessariamente iniziare a lavorare con i soli sali di fusione, che vi assicuro non avranno ripercussioni aromatiche. Il citrato di sodio, appunto, aprirà le porte a mondi e modalità di cottura fino ad ora impensabili per voi.


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LA RICETTA CON IL CITRATO DI SODIO

Il citrato di sodio è un comune sequestrante che agisce come stabilizzante e migliora la qualità del cibo. Con l'aggiunta di un po' di citrato di sodio possiamo fondere perfettamente quasi tutti i formaggi esistenti sul globo terraqueo. COS'È IL CITRATO DI SODIO? Il citrato di sodio, comunemente conosciuto anche come sale acido, sale citrico o citrato trisodico, è un sale cristallino che si trova naturalmente negli agrumi. Prodotti da una reazione chimica durante la fermentazione dell'acido citrico, questi cristalli bianchi hanno un sapore salato e leggermente aspro, che viene spesso utilizzato come agente aromatizzante in bevande come succhi, soda e bevande energetiche. QUALI SONO GLI UTILIZZI DEL CITRATO DI SODIO? Il citrato di sodio è l'ingrediente segreto di tutte le salse al formaggio presenti in commercio. È molto facile da usare: basta sbatterlo in un liquido e poi mescolarlo al formaggio sul fuoco et voilà, salsa al formaggio liscia e fluida. Riduce l'acidità del formaggio, rende le sue proteine più solubili e impedisce che si separi. Le salse di formaggio preparate col citrato possono essere raffreddate e riscaldate, modellate o tagliate a mo’ di sottiletta. Il citrato di sodio è anche un ingrediente comune della cucina molecolare e viene integrato nella tecnica della sferificazione. Viene spesso aggiunto a liquidi altamente acidi per aiutare a neutralizzarli e promuovere la gelificazione. Inoltre riduce il contenuto di calcio (che previene la gelificazione precoce) in altri liquidi. Nell’industria alimentare viene utilizzato come emulsionante, conservante e come tampone. È un ingrediente chiave nelle comuni bevande a base di soda e previene la coagulazione dei grassi nel gelato. DOVE SI ACQUISTA IL CITRATO DI SODIO? Online, sugli e-commerce specializzati, oppure nella vecchia e cara farmacia.

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COME SI AGGIUNGE IL CITRATO DI SODIO AL LIQUIDO? Il citrato di sodio si disperde e si idrata facilmente a qualsiasi temperatura del liquido, tuttavia si dissolve più velocemente e più facilmente quando viene riscaldato. Una frusta da pasticceria è sufficiente per mescolarlo a dovere, ma il frullatore a immersione aiuta molto a emulsionare il formaggio.

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COME SI PREPARA LA CREMA DI FORMAGGIO CON IL CITRATO DI SODIO? Ci sono tre componenti principali per fare una salsa di formaggio fuso con citrato di sodio: il formaggio, il liquido e il citrato di sodio. Variando la quantità di formaggio e di acqua utilizzata cambierà lo spessore risultante del formaggio fuso. Per preparare le vostre salse al formaggio, individuate prima quale sapore debba avere la preparazione. Poi scegliete un formaggio o due che si adattino a quel profilo gustativo. Ricordate, qualsiasi formaggio che non sia super-stagionato andrà benone. Poi, scegliete un liquido che completerà il formaggio: birra, vino, sidro, brodo, latte o succhi di frutta. A seconda della consistenza finale desiderata, potete usare il 35% di liquido, per un formaggio da affettare, fino al 120% per una salsa sottile e fluida. QUANTO CITRATO DI SODIO BISOGNA USARE PER LA SALSA DI FORMAGGIO? Lo spessore della salsa dipenderà dal rapporto tra liquido e formaggio. 0% al 35%

di liquido sul peso del formaggio darà un formaggio sodo, da tagliare a fette

35% - 85% di liquido sul peso del formaggio darà una salsa di formaggio densa e fluida 85% - 120% di liquido sul peso del formaggio darà una salsa di formaggio sottile, ideale per condire la pasta 120%

di liquido o più darà una salsa molto lenta e acquosa.

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L’ingrediente finale da aggiungere è il citrato, grazie al quale il formaggio rimane unito mentre si scioglie. Di solito viene utilizzato in un rapporto tra il 2,0% e il 3,0% del peso totale del liquido, più il formaggio.

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Dal momento che il citrato di sodio apporta un sapore salato e aspro, è importante usarne una quantità appropriata, tenendo presente il sapore finale del piatto.


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GLI INGREDIENTI DELLA CACIO E PEPE

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IL PECORINO SARDO Il Pecorino Sardo Dop (denominazione di cui beneficia dal 1996, nemmeno poi tanto tempo) è prodotto unicamente con latte di pecora intero proveniente dalla zona di origine, ovvero la bella e selvaggia Sardegna. L’alimentazione degli ovini è a base di erba, quella dei pascoli naturali, prati ed erbai. Esistono due tipologie differenti di Pecorino Sardo per tecniche di lavorazione, stagionatura, caratteristiche: il DOLCE e il MATURO. LA LAVORAZIONE DEL PECORINO SARDO Il disciplinare di produzione prevede che il latte intero di pecora, eventualmente pastorizzato, debba essere inoculato con colture autoctone di fermenti lattici e successivamente coagulato con caglio di vitello ad una temperatura compresa tra 35°C e 39°C. Successivamente la pasta viene sottoposta a rottura fino al raggiungimento di granuli di cagliata delle dimensioni di una nocciola per la tipologia dolce, e di un chicco di mais per la tipologia maturo. La cagliata viene quindi semi-cotta ad una temperatura non superiore a 43°C e successivamente posta in appositi stampi di forma circolare, diversi per le due tipologie. Il formaggio così ottenuto è sottoposto a stufatura e/o pressatura in condizioni di temperatura e per tempi tali da consentire l’acidificazione e lo spurgo ottimali. Ultimato lo spurgo del siero, il formaggio viene salato per via umida o a secco, con tempi distinti per le due tipologie. Segue la fase della maturazione – stagionatura che avviene in appositi locali a temperatura ed umidità controllate.

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Tutte le fasi del processo produttivo, dalla produzione della materia prima alla stagionatura del prodotto finito, devono rigorosamente avvenire in Sardegna.

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IL PECORINO ROMANO

Il Pecorino Romano è un formaggio a pasta dura, cotta, prodotto con latte fresco di pecora intero, proveniente esclusivamente dagli allevamenti della zona di produzione. Si presenta con una crosta sottile di colore avorio chiaro o paglierino naturale, talora cappata con appositi strati protettivi per alimenti di colore neutro o nero. La pasta del formaggio è compatta o leggermente occhiata e il suo colore può variare dal bianco al paglierino più o meno intenso, in rapporto alle condizioni tecniche di produzione. Il gusto del formaggio è aromatico, lievemente piccante e sapido nel formaggio da tavola, piccante intenso nel formaggio da grattugia. Le forme sono cilindriche a facce piane, con un’altezza dello scalzo compresa fra i 25 e i 40 cm e il diametro del piatto fra i 25 e i 35 cm. Il peso delle forme può variare tra i 20 e i 35 kg; queste riportano impresso su tutto lo scalzo il marchio all’origine (un rombo con angoli arrotondati e contenente al suo interno la testa stilizzata di una pecora) con la dicitura Pecorino Romano. Il Pecorino Romano può essere venduto con una stagionatura minima di 5 mesi come formaggio da tavola e di 8 mesi nella tipologia da grattugia. LA LAVORAZIONE DEL PECORINO ROMANO La lavorazione del Pecorino Romano, limitata alle regioni del Lazio, della Sardegna e alla provincia di Grosseto in Toscana, è il frutto di secoli di esperienza. I passaggi fondamentali sono affidati ancora oggi alla mano dell’uomo, in particolare a quelle esperte del “casaro” e del “salatore”. Il latte fresco di pecora, proveniente da greggi allevate allo stato brado e alimentate su pascoli naturali, viene trasferito nei centri di lavorazione con moderne cisterne refrigerate. Al suo arrivo nel caseificio il latte viene misurato, filtrato e lavorato direttamente crudo o termizzato ad una temperatura massima di 68°C per non più di 15 secondi. Vengono così riempite le vasche di coagulazione dove viene aggiunto un fermento detto “scotta innesto”, preparato giornalmente dal casaro secondo una metodologia che si tramanda da secoli. L’innesto è uno degli elementi caratterizzanti del Pecorino Romano ed è costituito da un’associazione di batteri lattici termofili autoctoni.

Dopo il raffreddamento, le forme sono sottoposte alla marchiatura.

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Aggiunto l’innesto, il latte viene coagulato ad una temperatura compresa tra i 38°C e i 40°C utilizzando il caglio di agnello in pasta. Accertato l’ottimale indurimento del coagulo, il casaro procede alla rottura dello stesso fino a quando i coaguli di cagliata non raggiungono le dimensioni di un chicco di grano.

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IL PEPE

La pianta del pepe è una liana legnosa tropicale originaria dell’India sud-occidentale. Le liane si arrampicano intorno a pali di legno (spesso si tratta di altri alberi) alti 2 metri, che servono da sostegno. Crescono ad una temperatura costante compresa fra 20°C e 30°C. Il pepe matura in grappoli lungo le liane, e ha un colore diverso (verde, nero, bianco o rosso) a seconda del grado di maturazione. Il sapore e l’aroma del pepe si concentrano al centro del grano, mentre la piccantezza si trova sul pericarpo, cioè all’esterno. Quanto più la macinatura è fine, tanto più prevarrà la piccantezza e coprirà il sapore. Per esaltare le sue caratteristiche, macinate il pepe con il mortaio o regolate le lame del macinapepe sulla macinatura più grossa. Macinatura molto fine: prevarrà la piccantezza. Macinatura media: otterrete un mix fra piccantezza e sapore. Macinatura grossa: privilegerete il sapore.

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TIPOLOGIE DI PEPE

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PEPE VERDE Il primo colore dei grani di pepe è il verde. Estremamente fragile nel momento in cui viene colto. Si trova essiccato, in salamoia e talvolta liofilizzato. Ha un sapore fresco, vegetale e poco piccante, che ricorda il chiodo di garofano.

PEPE ROSSO Se si lascia maturare il pepe ancora di più, i grani diventano di colore rosso scuro. Si immergono quindi nell’acqua calda per fissare il colore prima di essiccarli. Si lascia il pericarpo. Il vero pepe rosso è raro, dal sapore caldo e rotondo.

PEPE NERO Se viene lasciato maturare, il pepe verde diventa giallo chiaro. Allora si raccoglie, si fa essiccare e il suo pericarpo, cioè la parte esterna, diventa nero. Il sapore è più intenso, legnoso e piccante. Offre un ventaglio aromatico complesso.

PEPE BIANCO DEGLI UCCELLI In Cambogia, gli uccelli beccano i grani più maturi direttamente sulle liane. Quando il pepe raggiunge il gozzo dei volatili, una reazione enzimatica ne modifica il sapore. Dopo aver consumato il pericarpo (l’involucro), gli uccelli rigurgitano i grani, che verranno raccolti a mano dal suolo. Il prezzo di questo pepe è quindi molto alto.

PEPE BIANCO Se il pepe matura ancora, i grani diventano arancioni. A questo punto si lasciano macerare nell’acqua piovana per circa 10 giorni, si lasciano essiccare e si elimina il pericarpo, scoprendo la parte bianca. Il pepe bianco è un po’ più aromatico e dal sapore meno intenso.

PEPE DI KAMPOT (IGP) Il pepe di Kampot, in Cambogia, è stato il primo, nel 2009, a godere della classificazione IGP (Indicazione Geogra-

fica Protetta). Praticamente scomparso quando i Khmer vi preferirono la coltura del riso nel 1975, il pepe di Kampot è riapparso gradualmente da una ventina d’anni. Viene coltivato sulle coste e risulta fresco ed elegante. PEPE NERO DI KAMPOT Un pepe dal sapore floreale, leggermente dolce, intenso, caldo e dalla lunga persistenza in bocca. PEPE BIANCO DI KAMPOT Ha note vegetali del sottobosco (mentolo, eucalipto) e anche di arachidi tostate. PEPE ROSSO DI KAMPOT Colto quando giunge a maturazione, è un pepe caldo, dal sapore dolce, elegante e piccante. PEPE SELVATICO DI VOATSIPERIFERY Questo pepe cresce selvatico nella parte meridionale dell’i-


sola del Madagascar, su liane che spuntano in cima ad alberi alti fino a 20 metri. La forma ricorda quella del pepe di Java (a coda). Comparso in Europa solo qualche anno fa, è un pepe ancora molto raro. Da degustare intero o leggermente macinato. PEPE SELVATICO NERO DI VOATSIPERIFERY Dal sapore intenso di terra fresca con note legnose, fruttate, agrumate e con una piccantezza decisa, persistente. PEPE SELVATICO ROSSO DI VOATSIPERIFERY Vanta le stesse caratteristiche del pepe nero ma con un sapore più caldo.

PEPE NERO DEL MADAGASCAR In Madagascar, il pepe è stato introdotto all’inizio del XX secolo dal francese Émile Prudhomme. I suoi piccoli grani sprigionano un sapore dolce di brioche, di pinoli, persino di cacao e di pan di spezie, bilanciato da note di frutti verdi aciduli. Molto piccante.

PEPE DI MALABAR Originario della costa di Malabar, a sud-ovest dell’India, fra Goa e il capo Comorin, questo pepe approfitta di due monsoni per sprigionare un sapore molto delicato e persistente in bocca: muschio e legno bruciato. È anche leggermente dolce e con una lieve acidità.

PEPE DI TASMANIA (FINTO PEPE) Questo “pepe degli Aborigeni” è un falso pepe che cresce selvatico in Tasmania, a sud-est dell’Australia. I suoi grani, inizialmente gradevoli e poi più caldi, sviluppano un sapore di alloro, di noci verdi e poi di frutti neri (more, mirtilli e ribes). PEPE DI TIMUT (FINTO PEPE) Si tratta di un altro falso pepe, che cresce selvatico in Nepal. Sviluppa note agrumate (limone e pompelmo), pur essendo dolce e persistente in bocca. Attenzione, questa bacca risulta leggermente anestetizzante sulla lingua e sulle labbra!

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PEPE LUNGO ROSSO Cresce in diversi Paesi (Indonesia, Cambogia ecc.) ma il più sorprendente si trova in Giappone, sull’isola di Ishigaki-Jima. A forma di spiga, questo pepe sviluppa

un sapore di cacao, di caffè, di burro e persino di pomodori essiccati.

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LA RICETTA SCIENTIFICA

CACIO E PEPE

INGREDIENTI dosi per 6 persone • 500 g di spaghettoni di Gragnano • 200 g di Pecorino sardo semi stagionato grattugiato • 100 g di Pecorino sardo stagionato grattugiato • 300 g di acqua • 40 g di vino bianco • 9 g di citrato di sodio (3%) • 2,5 g di pepe Tellicherry Extra Bold • 2,5 g di pepe nero lungo del Bengala • 2,5 g di pepe di Timut • 2,5 g di pepe del Malabar

PROCEDIMENTO Versate l’acqua (300 grammi) e il vino in un pentolino, aggiungete il citrato di sodio e mescolate con una frusta fin quando non si dissolve completamente. Quindi spostatevi sul fuoco (basso) e aggiungete il formaggio grattugiato, un cucchiaio alla volta. Sciogliete a calore moderato e tenete al caldo su un bagnomaria, oppure fate deaolcolare il vino sul fuoco, inserite tutti gli ingredienti in un sacchetto per il sottovuoto e far sciogliere a 75°C per una quindicina di minuti. Emulsionate con il mixer solo se necessario.

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Lessate la pasta in acqua senza sale, mi raccomando, scolatela al dente e tenete da parte due mestoli di acqua di cottura.

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Spadellate la pasta in una padella ampia con la crema di formaggio e un mestolo di acqua di cottura. Amalgamate con cura e servite con una spolverata generosa dei 4 pepi, che avrete schiacciato o macinato poco prima.


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LA RICETTA SCIENTIFICA LE VARIANTI #01

GRICIA

INGREDIENTI dosi per 6 persone • 500 g di spaghettoni o mezze maniche di Gragnano • 200 g di Pecorino sardo semi stagionato • 100 g di Pecorino sardo stagionato • 300 g di acqua • 150 g di guanciale • 40 g di vino bianco • 9 g di citrato di sodio (3%) • 5 g di pepe Tellicherry Extra Bold • Aceto di mele q.b PROCEDIMENTO Preparate la crema di Pecorino come sopra. Nel frattempo tagliate il guanciale a cubetti o petali e mettete sul fuoco una padella. Fate soffriggere il guanciale nel suo stesso grasso, a fiamma flebile, lentamente, fin quando non avrà assunto un bel colore ambrato e la consistenza dei corn flakes. Deve suonare quando lo rimestate. Quindi spruzzatelo con poco aceto di mele e fatelo caramellare. Lessate la pasta in acqua senza sale, scolatela al dente e tenete da parte due mestoli di acqua di cottura.

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Spadellate la pasta con la crema di pecorino e una mestolata di acqua di cottura. Aggiungete il guanciale croccante e tenetene un po’ da parte da spolverare sopra. Servite la pasta con una pioggerella di guanciale e uno sbuffo di pepe macinato fresco.

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LA RICETTA SCIENTIFICA LE VARIANTI #02

MAC AND CHEESE

INGREDIENTI • 300 g di pasta tipo cavatappi • 12 g di citrato di sodio (4%) • 280 g di latte intero o acqua • 300 g di Cheddar di qualità (potete sostituirlo con una Groviera) VARIANTI PER LA SALSA DI FORMAGGIO Con Cheddar stagionato e formaggio svizzero • 270 g di Cheddar stagionato • 30 g di formaggio svizzero Con Gorgonzola e Fontina • 60 g di Gorgonzola dolce • 260 g di Fontina Con Gouda e Cheddar di capra • 150 g di Gouda di capra • 150 g di Cheddar di capra PROCEDIMENTO Versate l’acqua e il citrato di sodio in un pentolino, dissolvete la polvere aiutandovi con una frusta e portate tutto sul fuoco. Aggiungete il formaggio (o i formaggi) grattugiato finemente, un cucchiaio alla volta, mescolando continuamente. Non vi fermate fin quando la salsa non risulta perfettamente liscia ed emulsionata. Potete eventualmente utilizzare un mixer ad immersione. Conservate la salsa a bagnomaria o comunque al caldo, perché raffreddandosi si addenserà troppo.

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Trucchetto: se notate che il grasso comincia a separarsi dall’acqua (se l’emulsione si rompe in pratica) portate il composto a bollore e emulsionate a caldo con il mixer ad immersione. Se anche questa operazione non dovesse risultare efficace, barate e aggiungete un cucchiaio di panna fresca e mescolate.

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Lessate la pasta in acqua poco salata, scolatela bella al dente e conditela con la crema di formaggio. Servitela immediatamente con una grattugiata di formaggio fatta al momento, oppure ripassatela in forno ricoprendola con uno strato di formaggio grattugiato e passandola al grill fin quando non si sarà formata una bella crosticina.


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LA RICETTA SCIENTIFICA LE VARIANTI #03

NACHO CHEESE SAUCE

INGREDIENTI dosi per 600 g • 200 g di Emmenthal • 100 g di Cheddar • 300 g di latte intero • 10 g di citrato di sodio

PROCEDIMENTO Preparate il bagno termostatico per il sous-vide impostando una temperatura di 75°C. Grattugiata i formaggi, unite il latte e il citrato e chiudete il sacchetto. Fate sciogliere per circa 15 minuti, o quando il formaggio sarà completamente fuso. Trasferite in una ciotola, poggiatela su un pentolino riempito di acqua calda ed emulsionate a bagnomaria con un mixer ad immersione. Servite immediatamente con una carriola di nachos, magari guardando la vostra serie preferita.

Gianfranco Lo Cascio

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Una questione di -ismi desueti Seguo

a cura di Emiliano Nencioni

Un gran numero di idiomatismi, continuamente, si intrufolano e sgattaiolano via dal nostro parlato quotidiano, dapprima insediandosi e raccogliendo un certo favore della “base utenti” (chiunque parli una determinata lingua, in questo caso), poi con molta probabilità diventano ingombranti, vengono strumentalizzati, stufano, e a fine carriera vengono rigettati dalle masse e visti come modo demodè e non up-to-date di esprimersi.

Sono modi di dire, frasi codificate in maniera non necessariamente letterale, espressioni che aiutano a veicolare, con estrema sintesi, un pletora di stati d’animo o di stratificazioni successive di significato.

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Non mi pare nessuno voglia più sfoggiare in conversazione il nefasto “ciaone proprio”, reso super popolare da un trailer cinematografico nel 2014, con l’irresistibile presenza di Caterina Guzzanti e Pietro Sermonti - ma diventato ben presto stantìo e banalotto. Sopravvive in alcune frange estremiste l’uso sbagliatissimo e avversativo di “piuttosto che”, stigmatizzato però da una nutrita schiera di illuminati pronti a fare polemiche infinite sotto ogni commento. Combatto fieramente questa barbarie almeno dal 2010, e qualche risultato inizia a vedersi.

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Certamente l’era del digitale non limita più la provenienza di molte espressioni idiomatiche o locuzioni a certi fenomeni molto italiani, come potevano essere in passato Carosello o l’intervista a qualche calciatore un po’ ingenuo: non penso proprio che nessuno si arrischi più a impreziosire i propri contenuti con “non sei nero, sei soltanto sporco” (Calimero, per il detersivo Ava) o “e che, c’ho scritto Joe Condor?” (Nutella). Si rischia di passare per boomer per molto molto meno. Alcune espressioni dei fertilissimi e social-issimi Stati Uniti però non fanno a tempo ad arrivare da noi e a prendere piede che diventano già, in patria, obsoleti, strumentalizzati, connotati diversamente dalle intenzioni originali e, in linea di massima, deprecabili. Prendiamo ad esempio Virtue Signalling.


Rafał Olbinski - The Superiority of Consequences

Nasce per indicare chi, per il solo gusto di mostrarsi “dalla parte giusta della controversia”, moralmente elevato o in definitiva meglio di voialtri, compie facili e assolutamente inutili azioni di pura visibilità, come mettere un piccolo banner sul proprio avatar, ripubblicare contenuti impegnati o schierati, in generale prendere gratuitamente e senza sforzo o rischio una posizione di comodo o di prestigio.

Quanto è italiano il concetto, ma anche il suono stesso, di Bella Figura? Gareggia ad armi pari con mamma mia, pizza margherita, spaghetti bolognese e altre tipiche interiezioni di ogni personaggio stereotipato italiano dei cartoni animati d’oltreoceano. Proprio l’espressione “bella figura” suscitò un mezzo scandalo negli States, rimasto abbastanza sconosciuto da noi, quando comparve in un carteggio della Corte D’Assise in relazione al delitto Meredith Kercher, dove le forze dell’ordine italiane

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Intendiamoci: schierarsi dalla parte dei “buoni” (entriamo nel campo della soggettività, ovviamente) e manifestare il proprio sdegno per qualcosa di brutto, o il cordoglio per qualche disgrazia, non è certo una cosa brutta o stigmatizzabile di per sé. Si sfocia tuttavia nel Virtue Signalling quando l’oggetto delle proprie preoccupazioni

e delle proprie attenzioni non è più il fenomeno sociale o di costume che stiamo evidenziando, quanto l’imperiosa voglia - e di certo il gusto - di fare bella figura.

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raccomandavano ai loro investigatori di fare bella figura con i colleghi americani. Ma non voglio divagare, vi consiglio solo una rapida googolata. Il frizzante mondo del grilling ha avuto i propri inevitabili momenti di Virtue Signalling. Ricordo cose abbastanza disturbanti nei tempi in cui le gare di barbecue KCBS andavano per la maggiore e congratularsi con i vincitori delle varie specialità era un atto dovuto e irrinunciabile. Suonava tutto piuttosto spiazzante se la sera prima avevi udito, nella risicata privacy di un gazebo di PVC del campo di gara, anetemi, grida e stridor di denti contro lo stesso team definito poi enfaticamente “fatto da amici veri”, “nel nome della passione che ci unisce”, “giustamente trionfanti” e compagnia bella. Poco tempo dopo, una semplice temperatura di cottura è diventata un simbolo di affiliazione: “in reverse fino a 52°C!” e tutti sapevano che eri un accolito di BBQ4All, ma non un semplice lettore bensì un assimilato, capace di rispettare (almeno, a parole) i dettami di mail class, corsi e dispense fino nei dettagli più sottili. Anche solo - volendo volontariamente rimanere in ambito BBQ4All - il continuo riferirsi a Gianfranco Lo Cascio come “lo Zio” o il continuo commentare con cuoricini e fiammelle ogni contributo del proprio Coach assegnato in Club è, al di là di una ripetitiva dichiarazione d’affetto e di appartenenza, un voler segnalare a chiare lettere di essere “dei nostri”, di essere tra quelli bravi, di essere un eccellente cliente da coccolare, di essere un supporter in perenne contrapposizione con i detrattori, con “quelli là”.

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Ed è un male? Non necessariamente. É una forma di vanità, ricoperta da uno strato glassato di altruistico impegno sociale.

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Come dicevo all’inizio della rubrica, negli Stati Uniti il termine Virtue Signalling è già “cosa brutta”, indica un atteggiamento disprezzabile ed è strumentalizzato specie da una corrente politica, un po’ come è accaduto in italia con “buonismo”, un vocabolo di per sé

innocentissimo ma ormai ahimè simbolo di ipocrisia e scomodo altruismo. Da noi, l'attività di Virtue Signalling non ha mai preso veramente piede, quindi per adesso possiamo vivercelo senza tutti i risvolti negativi e politicizzati. Insomma, è troppo facile additare e sbeffeggiare chi si schiera, o chi rende nota la propria affiliazione, solo per il fatto di averlo fatto in pubblico. Sì, ogni tanto è esibizionismo; sì, ogni tanto è un gesto completamente vuoto e privo di una vera partecipazione interiore o fattiva. E non è forse come la grandissima maggioranza dei gesti, post, esternazioni, commenti presenti in rete dai tempi di MySpace in poi? Da un certo lato anche l’esibizionismo è bello, perché offre ai voyeur telematici e ai commentatori compulsivi qualcosa di fresco e nuovo da sbirciare e di cui godere indisturbati. Il problema è ancora una volta relativo a un cattivo sillogismo. • Marco scrive qualcosa di giusto e illuminato; • Chi scrive qualcosa di giusto e illuminato sui social spesso lo fa per apparire migliore e fare Virtue Signalling; • Ergo Marco fa Virtue Signalling. Che sarebbe un po’ come dire: • Luca e Nicola fumano; • Tutti i camini fumano; • Luca e Nicola sono due camini.

Emiliano Nencioni


Rafał Olbinski - So Close To Satisfaction

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CLUB

Diretta m e n t e da lla co m m u n i ty di ma e s t ri d i ba rbecue pi ù grande d’I tali a, nasce i l prest i gi oso club c h e ti offre la possi bi li tà di avere: a ccesso p ri or i tar i o al meg astore, dove pot ra i fa re ra zzi e m ent re tutt i gli a lt ri “ sono i n coda ” ; u na p rogra m ma zi o n e i n telli g en te dei tu oi acq u i sti gra zi e a l c re di to m e nsi le prepa gato (scegli tu quanto); u n coa c h pr i vato c h e ti g u i derà n e l fa rt i vi ve re l’ e s p eri enza

pi ù ecci tant e di sem pre

co n la pre p arazi one dei tuoi pi att i ; e molto altro an cora. . . Av ra i tu tto qu es to s o lo s e ti i s c r i vi s u bito a l MEG ASTOR E CLUB, l’uni co luogo ri servato a u na c e rc hia r i s t re tta d i a s pi ra n t i gri ll ma s t e r c he desi dera no a pprendere pi ù velocement e e nel modo p iù accurato possi bi le, la s ubli m e a rt e del gri ll. Pu oi di si scri vert i quando vuoi e i l tu o c red i to sarà sempre di s pon i bi le.

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H T T PS : / / C LU B M E G ASTO R E . B BQ 4 A L L. I T e c h i e di i n formazi oni pi ù detta gli at e, pr i ma c h e i coac h fi ni sca no e le i scri zi oni chi uda no.


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