BBQ4All Magazine numero 36 - Dicembre 2021

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N°36/ANNO 3 - DICEMBRE 2021

L'EDITORIALE DI GIANFRANCO LO CASCIO

Cucinare per molti, ma senza stress

IL MENU DELLE

FESTE

LE RICETTE Tutto sul brodo di manzo, Agnolotti con guancia di manzo affumicata, Paccheri al ragù napoletano, Spezzatino di Wagyu con funghi, Linguine al limone e caviale, Busiate con pesce spatola, Risotto agli scampi, Aragosta alla catalana, Orata e sarde grigliate, Giardiniera ARTE BIANCA

Il pandoro ACROSS THE POND

L’arrosto americano di Natale

LA RICETTA SCIENTIFICA

Omelette


Direttore Editoriale Rossella Neiadin

Redattore Capo Michela Bongiorni

Redazione

Enio Berton Virgilio Brunetti Tommaso Buccafurri Nunzia Clemente Roberto Dal Bosco Salvatore Di Mento Luca Gallozza Marco Gerometta Mariangela Ibba Gianfranco Lo Cascio Riccardo Meniconi Giovanni Minelli Emiliano Nencioni Elena Ninotti Andrea Spaggiari Alessandro Trezzi Carlo Trono Paolo Tucci Alex Vasile Caterina Vianello Alberto Zonghetti

Realizzazione Grafica

Impaginazione Carlo Trono Illustrazioni di Eleonora Castagna e Ozzy Bellesi Fotografie di Rossella Neiadin, Luca Gallozza, Tommaso Buccafurri, Elisa Giuli, Emiliano Nencioni

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IN DI Rubriche

Editoriale #01 - Cucinare senza stress

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Editoriale #02 - La tartare di manzo perfetta

08

Editoriale #03 - Mille e una tartare

14

Come si fa - Il brodo di carne

16

Portfolio gastronomico - Il Natale ieri e oggi

23

Le ricette - il menù delle feste Agnolotti con guancia affumicata

20

Il ragù napoletano

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Spezzatino di Wagyu con funghi

35

Tagliolini con limone e caviale

38

Busiate con la spatola

42

Risotto agli scampi

44

Aragosta alla catalana

48

Orata e sarde alla piastra

52

Giardiniera classica e in cbt

54

Panettone grigliato e marmellata di arance

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Approfondimenti

Arte Bianca - Il pandoro perfetto

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Across the pond #01 - It's Christmas time

68

Across the pond #02 - Prime rib roast

72

Across the pond #03 - Yorkshire pudding

74

From Zero to Hero - L'importanza del seasoning

76

La Ricetta Scientifica - Omelette

80

Seguo - Clip Show!

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Indice 2021 101

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Cucinare stress

Editoriale di Gianfranco Lo Cascio

Un piccolo manuale di sopravvivenza per arrivare sereni alle tavole delle feste

senza

Quest'anno ricominciamo finalmente a respirare quell’arietta piacevole che sa di convivialità natalizia. L’odorino del sughetto coi crostacei, il profumo impregnante di frittura, l’aroma caramellato di arrosto e il solletico frizzante dei mandarini sbucciati. Negli ultimi due anni certe fragranze le abbiamo dovute mettere da parte, ci siamo dovuti accontentare di tavolate ridotte, salotti meno rumorosi e cuori debitamente distanziati. Quest’anno è diverso, perché potremo finalmente tornare a goderci le festività, a mangiare vicini, magari rinunciando al servizio da 24, ma senza scendere sotto quello da 12. Anche se, pensandoci bene, cucinare per una tavolata di parenti e amici affamati non è soltanto calore ed effluvi di manicaretti. Fare il cuoco di famiglia, a Natale, significa andare spesso in iperventilazione, bruciare l’arrosto e cannare miseramente il dolce, specialmente dopo due anni di riposo gastronomico forzato. Non si può nemmeno ripiegare sulla pizza a domicilio, che in quei giorni la pizzeria è chiusa. Per questo motivo, e per preservare la vostra stabilità emotiva, ho pensato di stilare un piccolo manuale di sopravvivenza salva-stress, frutto di anni e anni di banchetti luculliani preparati dal sottoscritto per le persone care. Che si cucini per pochi o per una folla, tenete a mente queste poche e semplici regole, e arriverete a fine pasto senza aver detto nemmeno una parolaccia:

Per prima cosa fate una lista degli invitati e prendete nota delle necessità alimentari dei vostri ospiti. Chi

Dividete il menu in portate e determinate quanti piatti preparerete - un piatto per portata andrà benissimo. Quattro piatti fatti bene sono meglio di 8 fatti così così. Evitate di strafare, che poi i parenti se la legano al dito. Fate una lista della spesa intelligente: dividete gli ingredienti da acquistare in base alla disposizione degli scaffali del vostro supermercato o gastronomia di fiducia. In modo da poter riempire il carrello in un unico giro, piuttosto che andare avanti e indietro come i pesci rossi, e magari scordarsi quell’ingredienti fondamentale per la riuscita della pasta.

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Pianificate, pianificate, pianificate: non saltate questo passaggio e vi risparmierete sorprese e musi lunghi. Prima di iniziare a cucinare dovete avere tutto sotto controllo.

di noi non ha in famiglia una persona intollerante al glutine o allergica ad un particolare ingrediente? Siate accorti e premurosi. E sforzatevi di creare dei piatti equivalenti o quanto più simili tra loro, perché è spiacevole sentirsi esclusi a tavola e magari desiderare il piatto del vicino. Sono gesti d’amore sempre apprezzati, abbiate cura di chi siede alla vostra tavola. Non vorrete mica rovinare tutto per delle di tracce di frutta secca?

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La pratica rende perfetti: suddividete ogni piatto del menu in una tabella con gli step di preparazione. Non dovete tagliare, pesare o cucinare tutto il giorno di festa, perché combinereste senz’altro qualche casino. Potete tranquillamente fare in anticipo gli impasti per torte e biscotti e avviare le cotture in sous vide (sottovuoto in un bagno termostatico). Mondate le erbette e le verdure, pesate e miscelate le spezie, tagliate tutto a cubetti o a listarelle e spremete il succo degli agrumi per tempo. Usate la carta gommata e un pennarello per etichettare i contenitori in frigorifero e per mantenere la mise en place bella organizzata. Vi garantisco che gli ingredienti puliti e porzionati sembrano tutti uguali, e voi non volete mettere la crema pasticciera nell’insalata russa.

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Scegliete i piatti da portata in anticipo: se state cucinando molte pietanze diverse, assicuratevi di aver scelto in anticipo le porcellane, i piatti, i vassoi o le ciotole. Sinceratevi che ogni stoviglia sia pulita e pronta per essere usata, nessuno vuole vedervi con la testa nella credenza mentre il sugo sta bruciando sul fuoco.

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Rimanete lucidi e non fatevi prendere dall’ansia. Il segreto per la buona riuscita di un pranzo o una cena è anche arrivare rilassati a tavola e divertirsi insieme agli ospiti. Come si fa? Seguendo le semplici regole che avete appena letto. Se arrivate cotti a cena rischiate di guastare la festa a tutti, la suocera se lo ricorda e lo racconta alle amiche del burraco.

La pianificazione step by step •

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DURANTE IL MESE DI DICEMBRE Fate scorta di carne e pesce. Tagli specifici e carni pregiate, pesce selezionato, ingredienti che trovate solamente online. Considerate sempre quei due-tre giorni per la consegna e non abbiate paura di tenere tutto al fresco in congelatore. Cominciate a fare scorta di vini e liquori, in modo tale da avere una riserva consistente per le serate alcoliche. Preparate o acquistate dei piatti salva-cena e metteteli in freezer, nel caso dovessero piombarvi in casa degli ospiti a sorpresa (pulled pork, costine già pronte, stinchi). UNA SETTIMANA PRIMA DEL NATALE O CAPODANNO Andate al supermercato e in gastronomia ad acquistare tutti gli ingredienti secchi, la pasta, le farine, le spezie, le cose che potete tenere in dispensa. Meglio fare le provviste con calma che prendere a gomitate la vicina per l’ultima pacco di lenticchie. Assicuratevi di avere tutte le pentole e le padelle necessarie, recuperate gli utensili che vi occorrono e soprattutto controllate di avere abbastanza piatti, bicchieri (soprattutto calici) e posate. Non mi fate vedere qui boccali che vi hanno regalato col 3x2. Se avete surgelato grossi tagli di carne, scongelateli due giorni prima del pranzo o della cena in frigorifero. In questo modo torneranno a temperatura in maniera graduale. Individuate uno spazio dedicato in cucina, uno scaffale o una credenza, per stoccare le quantità extra di cibo che inevitabilmente comprerete (occhio a non buttare niente che mi arrabbio!). Il 23 dicembre uscite a comprare tutti gli ingredienti freschi che vi occorrono: uova, latticini, salumi, verdura e frutta. Le uova “vecchie” sono più difficili da trattare e i tuorli più delicati, le verdure mosce e rovinate dal frigorifero non piacciono a nessuno, la frutta avvizzita andante, nemmeno. IL GIORNO PRIMA DEL PRANZO O DELLA CENA Preparate tutti gli step iniziali e intermedi dei vostri piatti: impasti, ripieni, sughi, salse. Bollite, pelate e schiacciate le patate in anticipo, potete conservarle coperte in frigorifero. Preparate tutto il preparabile: se avete ortaggi o verdure che si anneriscono, potete conservarli in acqua acidulata con del succo di limone. Se invece il vostro menù prevede verdure a foglia, sbollentatele per pochi secondi, tuffatele in acqua e ghiaccio e conservatele in un contenitore a chiusura ermetica. Conserveranno consistenza e colore e saranno pronte per essere saltate in padella con un filo d’olio e gli aromi che più vi piacciono. Stilate una lista delle cose da fare il giorno dopo, con accanto gli orari, per non arrivare impreparati al momento clou.


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E adesso l'antipasto LA

TARTARE DI MANZO PERFETTA

Un classico delle festività sempre apprezzato e appagante. La tartare di manzo mi piace moltissimo perché è un piatto perfettamente bilanciato tra condimento, aroma, consistenza e acidità, oltre a prestarsi ad un numero infinito di personalizzazioni. Prepararne una perfetta, però, è tutt’altro che un compito semplice. Gli errori più comuni sono tutti legati alla scelta della carne. Taglio sbagliato ricco di connettivo e cartilagini, poco frollato, poco marezzato, spesso troppo lavorato o scondito. Non preparate mai una tartare col primo pezzo di ciccia fetente che vi capita a tiro, perché avrà un sapore deludente, ve lo garantisco. Mangiare qualcosa nella sua forma più schietta, più sincera, fa trasparire le sue caratteristiche senza filtri. E se questi tratti caratterizzanti sono tutti difetti, mangerete senz’altro una pessima tartare. La materia prima, quando si assaporano i crudi, deve essere tassativamente di qualità. Quando serviamo una tartare dobbiamo assicurarci di avere sotto le mani la carne migliore, per ragioni di sicurezza sì, ma anche di gusto. Prediligete tagli teneri e privi di tessuto connettivo. Trattandosi di ciccia in purezza, non possiamo affidarci al calore né per renderla più morbida, né per trasformare il connettivo in gelatina. Scegliete carni marezzate, mi raccomando, perché il gusto sta sempre nel grasso e non altrove.

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Tenderloin (filetto), Sirloin (controfiletto) e Eye of Round (girello) sono i tagli più utilizzati, ma io vi suggerisco di provare anche con il Teres Major (filettino di spalla), che è tenerissimo e molto saporito.

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INGREDIENTI 1 filoncino di pane o una baguette 8 uova freschissime 400 g di Eye Round o Teres Major 80 g di senape 16 g di scalogno tritato 16 g di capperi dissalati 12 g di erba cipollina 8 g di sale 4 g di pepe macinato Cetriolini sottaceto q.b. Succo di limone fresco q.b.


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#01. PREPARATE I CROSTINI I crostini serviranno per raccogliere la tartare e creare il mix di consistenze perfetto. Per ottenere delle fette piatte e perfettamente tostate, mettete il pane in congelatore per facilitare il taglio e poi tostatelo tra due teglie da biscotti. Il peso della teglia superiore impedirà al pane di imbarcarsi, di fare la cupoletta insomma, e il calore si propagherà in maniera uniforme, favorendo una tostatura dorata e omogenea.

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1. Iniziate avvolgendo il filone di pane nella pellicola e mettendolo in freezer. 2. Preriscaldate il forno a 200°C. 3. Tagliate le fettine di pane ad uno spessore di 5mm, non fatele troppo sottili o potrebbero spezzarsi se usate come “cucchiaio”. Psst! Vi svelo un segreto: io uso l’affettatrice. 4. Prendete una leccarda, capovolgetela e foderatela con della carta forno. Sistemate le fettine di pane sulla teglia capovolta, coprite con un secondo foglio di carta forno e poggiateci sopra la seconda leccarda. Dovete preparare un sandwich di teglie con del pane nel mezzo in pratica. Sulla teglia superiore poggiate qualcosa di pesante che possa resistere al calore.

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A dire il vero a me piacciono anche i crostini ondulati, potete tranquillamente evitare la cottura a strati se non avete la necessità di ottenere delle fettine perfettamente piatte. 5. Tostate per 4-7 minuti, in base alla potenza del vostro forno di casa. 6. Sfornate il pane e fatelo raffreddare, scoperto, finché non diventa croccante. 7. Servite immediatamente oppure conservate in un contenitore a chiusura ermetica.

#02. PREPARATE I TUORLI IN SOUS VIDE La tartare viene generalmente servito con il tuorlo crudo, ma perché rischiare di beccarci un’intossicazione quando possiamo portarlo a 62°C-65°C col sous vide? Questo passaggio non solo renderà il piatto totalmente sicuro da mangiare, ma migliorerà sapore, consistenza e aspetto del rosso d’uovo, riuscendo anche a preservare la sua forma originaria. 1. Preparate il bagnetto termostatico del sous vide scaldando l’acqua, in base alla consistenza che volete ottenere: a 62°C il tuorlo risulterà più liquido, a 65°C più denso. 2. Procuratevi un piccolo contenitore dal fondo


#03. PREPARATE LA CARNE Per prima cosa ripulite la carne, se necessario, dalla silver skin, la membrana argentea che fascia i muscoli. Vi basterà togliere quel velo che vedete all’esterno del pezzo. Finita il trimming (la pulizia), mettete la carne in freezer, per compattarla leggermente; potrebbero volerci 30 minuti fino a due ore, dipende dalla potenza del vostro congelatore. L’obiettivo è ottenere un tocco di ciccia che sia congelato esternamente e ben freddo internamente (non duro fino al cuore, solo in superficie). Questa operazione serve per effettuare un taglio più veloce, pulito e semplice. Molto spesso le persone si sottraggono all’assaggio di carne cruda perché hanno paura di beccarsi un brutto mal di pancia, o qualcosa di più fastidioso. Volete un trucchetto per convertire anche i più scettici? Cambierà leggermente la consistenza finale della pietanza, ma sono sicuro che farete breccia nel cuore della zia più riluttante. Fate così: prendete il pezzo di carne da utilizzare per la tartare, asciugatelo e ungetelo con un velo d’olio extravergine di oliva. Scaldate molto bene una padella antiaderente o in ghisa e metteteci

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piatto che potrete sistemare all’interno della vaschetta con l’acqua, largo abbastanza per farci stare i tuorli belli comodi e distanziati (almeno 2 cm l’uno dall’altro). Riempite il contenitore con 5 cm di olio extravergine di oliva, di semi di girasole, di arachidi, di riso, quello che preferite. L’olio servirà solo per distanziare e proteggere i tuorli e per veicolare il calore in maniera uniforme. 3. Separate I tuorli dagli albumi usando le mani come “colini”, facendo attenzione ad eliminare la calaza, quel tessuto filamentoso che sospende il tuorlo all’interno dell’uovo. Fate scivolare i rossi nel contenitore con l’olio, facendo attenzioni a non romperli e mescolando delicatamente, per ricoprirli in maniera uniforme. 4. Immergete il contenitore nella vasca, facendo attenzione che il livello dell’acqua superi quello dell’olio ma non finisca nei tuorli. Coprite con un coperchio, un tappo o della stagnola. Cuocete per un’ora. 5. Terminata la cottura potete servire i tuorli fino a due ore dopo. Trascorso quell’intervallo di tempo, diventeranno troppo densi e collosi. Se siete parecchio in anticipo, abbassate la temperatura a 60°C e teneteli in cottura per un massimo di due ore.

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dentro la carne, scottandola leggermente su ogni lato. Toglietela dal fuoco e mettetela in freezer per 30 minuti/2 ore prima di tagliarla. In questo modo avrete abbattuto completamente la carica batterica esterna, oltre ad aggiungere una nota tostata al piatto. Se invece amate la carne completamente cruda, l’importante è utilizzare strumenti puliti e avere a portata di mano una ciotola a bagnomaria in acqua e ghiaccio dove trasferire la carne appena battuta al coltello. Per sterilizzare le lame e il tagliere, che devono essere lavati ed asciugati, utilizzo molto spesso l’alcol alimentare a 90°, quello che si usa per fare i liquori. Lo verso in uno flacone spray e lo spruzzo sulle superfici all’occorrenza. Facile, no? Ma torniamo alla preparazione della ciccia, che a questo punto si sarà raffreddata per bene. 1. Tagliate il pezzo di carne in fette da 0.5 cm, poi tagliate ogni fetta in striscioline da mezzo centimetro e quindi a cubetti. 2. Trasferite in una ciotola sistemata su un bagnomaria di acqua e ghiaccio 3. Fate questa operazione 20 minuti/un’ora prima del pranzo o della cena. In questo modo darete il tempo alla mioglobina di legarsi con l’ossigeno e diventare ossimioglobina, quella sostanza che conferisce il colore rosso rubino alla carne. Volete qualche alternativa per ottenere una grana della carne più fine o rustica? Per una grana medio/fine: tagliate la carne in fette sottili, poi a striscioline e quindi in piccoli pezzi da 3-4mm senza badare alla forma, non devono essere dei cubetti precisi. Avrete la classica tartare battuta al coltello, il taglio tipico da bistrot francese o americano. Per una grana fine: Tagliate la carne in cubi da 2-3 cm per lato e mettetela in freezer. Prendete il tritacarne e trasferite anche questo in congelatore, deve essere ben freddo. Passate la carne una sola volta, o rischiereste di preparare un omogeneizzato. Mettete il trito nella consueta ciotola a bagnomaria in acqua e ghiaccio.

#04. CONDITE La vostra carne è nella boulle con il fondo a mollo in acqua e ghiaccio. Aggiungete l’olio extravergine di oliva ed il pepe. Non mettete ancora il sale ed il succo di limone, perché sale e acidi denaturano le proteine della carne, rendendola grigia, gommosa e umidiccia. Fatelo poco prima di servire il piatto, oppure mettete il succo di limone in una piccola ciotolina, che gli ospiti potranno versare in base ai propri gusti.

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#05. IMPIATTATE E SERVITE

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Sistemate la carne al centro del piatto e disponete tutto intorno, a raggiera, uno spicchio di limone o un piccolo bricchetto con del succo di limone fresco, l’erba cipollina tritata, lo scalogno sminuzzato, i cetriolini battuti al coltello, il tuorlo cotto in sous vide, il sale, il pepe, i crostini di pane, la senape e i capperi. Semplice, vero?


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Spazio alla fantasia

MILLE TARTARE ED UNA

Facciamo un riassunto per rinfrescare la lista degli ingredienti e individuare altri cibi perfetti per questo piatto. CARNE DI MANZO Filetto - Tenderloin : È il taglio più magro, costoso e tenero di manzo che possiate trovare. Controfiletto - Sirloin : meno costoso ma più beefy, più “manzoso” del filetto, perfetto per lo scopo. Eye Round - girello : morbido, facile da ripulire, non avrete nemmeno un briciolo di scarto. Oltre ad avere (per natura) la forma perfetta per essere tagliato a cubettini. Teres Major - filettino di spalla: tenerissimo, al pari del filetto, e poco conosciuto. È praticamente perfetto per essere gustato crudo. PESCE E CROSTACEI La pancia dei pesci da lisca sarà la parte più grassoccia, la coda quella più gommosa e fibrosa e il dorso quella più morbida e pregiata. Prediligete quei pesci che hanno dei bei filetti, come il tonno, il salmone, la ricciola, l’orata, lo scorfano (ma pure la triglia, anche se è piccina). I crostacei sono perfetti per la tartare, che sia Gambero Rosso di Mazara o scampo, sarà il piatto che rimarrà impresso nella memoria della tavolata.

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Potete provare anche con polpo, calamaro o seppia, dovete però sbianchirli prima in acqua bollente per pochi secondi e poi raffreddarli in acqua e ghiaccio

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FUNGHI Porcini (Boletus), Ovoli (Amanita

caesaria), Prataioli (Agaricus hortensis), Cardoncelli (Pleurotus eryngii) tartufo nero o bianco. Si possono mangiare crudi e sono perfetti anche come complemento alla carne di manzo VEGETALI Rape, carote, radici in generale, si prestano ad essere trattate come la carne. Certo, l’aroma di terriccio caratteristico non riuscirete ad annientarlo manco con la magia del Natale. FRUTTI Quelli densi come la banana, il lychee, la fragola e il mango sono l’ideale per una tartare di frutta. Immaginate un pre-dessert coloratissimo con crema inglese, Lime o Lemon curd, qualche meringhetta o biscotto di frolla. Ho già l’acquolina. PER ACCOMPAGNARE Crostini di pane, nachos, chips di patate, grissini, pane carasau. La parte croccante non deve mai mancare. Insomma, l’antipasto è al sicuro, ora non vi resta che preparare le liste degli invitati, quelle con i quadratini da spuntare della spesa e le scorte di carne e pesce da fare online. Più avanti trovate tante altre idee e spunti per i vostri piatti delle feste, ma sbrigatevi a fiondarvi sulle selezioni del Megastore, il calendario dell’avvento è iniziato e gli invitati hanno già fame!

Gianfranco Lo Cascio


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IL

BRODO Cos'è e come si fa

Il brodo è amico di tutti: in tante cucine stellate, da qualche parte, c’è un pentolone di brodo che borbotta, così come nelle cucine domestiche di – più o meno! – tutto il mondo. Il brodo, infatti, è un alleato insostituibile per tantissime preparazioni di cucina e, sovente, costituisce anche la base per un buon piatto unico, spesso consumato in inverno. Purtroppo il brodo è spesso collegato al famoso dado, con il quale si può ottenere molto ma molto velocemente: il concentrato di glutammato monosodico più diffuso delle case dal secondo Dopoguerra in poi ci permette di ottenere un brodo puramente aromatico, senza alcuna distinzione. Il brodo è diffuso grossomodo a tutte le latitudini: laddove c’è la possibilità di far borbottare un pentolone ficcandoci dentro, indistintamente, verdure, pesce o carne, c’è brodo. Qualche anno fa, ci fu anche un curioso fenomeno di isteria collettiva: tutti volevano il brodo, in particolare Brodo (marchio registrato!) Bone Broth, cioè il “brodo da passeggio” di ossa che per molti mesi impazzò tra le strade statunitensi. Un sacco di star amavano farsi paparazzare con un cup bello ricolmo di brodo. Ad esso, sono state attribuite fantastiche proprietà. Di sicuro, un brodo fatto bene apporta ottimi elementi nutritivi all’organismo. Nel caso del brodo di carne, questo diventa una miniera di sali minerali importantissimi per l’organismo come il ferro, il selenio, lo zinco e il potassio. Questi, grazie alla solubilità in acqua, rendono il brodo un cibo difficilmente sostituibile ed altamente nutriente.

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Ma cos’è un brodo? In buona sostanza, un brodo è un liquido in cui sono stati disciolti degli aromi liberati da alcuni ingredienti, uniti ad alcune verdure, erbe e spezie. Viene da sé, quindi, che il brodo è un qualcosa di declinabile secondo i propri desideri, le voglie e i bisogni. Brodi di verdure (usati sia come fondi per altre preparazioni, sia come piatto unico), brodi di carne come quelli con manzo, con carne di gallina, con cappone.

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E come “funziona” un brodo? Prendiamo l’esempio a noi più vicino: il brodo di carne. Il brodo di carne e null’altro che un liquido composto dagli aromi rilasciati dalla carne, dopo lunga ed adeguata cottura, aromatizzato con spezie varie.


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Va da se che esistono brodi e brodi. Il nostro obiettivo del mese è fare un brodo che sia al massimo delle sue possibilità, che non sia mortificante, carico di sapore, che ci ristori magari dopo una lunga giornata.

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SCEGLIERE BENE LA CARNE Scegliere i tagli “giusti” per il brodo è il primo passo necessario. Coda, punta di petto, garretto, sono tutti tagli duri molto giusti per il brodo. La cottura prolungata di tagli del genere permette una buona estrazione del collagene. Vi lasciamo qualche idea per i tagli di carne di manzo da utilizzare.

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I tagli di spalla. Per alcuni si tratta di tagli bovini di seconda categoria, ma non per noi: Chuck Flap, Chuck Eye, Chuck Roll, Top Blade, Denver steak o le stesse Short Ribs andranno benissimo. Shank/Geretto. Un taglio ricco di sapore, utilizzato anche per l’ossobuco, che comprende ossa, muscolo e tendini. Ossa. Le ossa sono un jolly da non sottovalutare. In cottura, rilasciano sali minerali e sapore come poche altre cose. Brisket/Punta di petto. Noi l’adoriamo e voi lo sapete bene. Comprende i muscoli pettorali, adiacenti allo sterno. Potremmo dire, il taglio più indicato per il nostro scopo.

Chuck roll. Il Reale di bovino, che voi lettori del Magazine conoscerete, è un taglio ricco di ossa e grasso. GLI ODORI Tra i più usati: gambi di prezzemolo, sedano, carote, cipolle, pepe. Tra i più particolari, i chiodi di garofano, l’alloro. Tutto ciò ha qualcosa in comune: vanno a braccetto con la carne e sono perfetti per i brodi. Inoltre, sono gettonatissimi anche nella cosiddetta cucina di recupero: infatti, i gambi di alcuni ortaggi sono addirittura più saporiti delle foglie. LA PREPARAZIONE DEGLI INGREDIENTI Per quanto riguarda le verdure, come dicevamo, spesso vengono utilizzate quelle parti che altrimenti finirebbero nel cestino dell’umido. Un taglio grossolano ai gambi darà buone soddisfazioni. La carne va tagliata in modo accurato, sgrassata ed eliminata PARTIRE DA ACQUA FREDDA Partire dall’acqua fredda permetterà una buona estrazione dei sapori, in combo con la cottura prolungata. Per ogni chilo di carne avrete bisogno di circa tre litri d’acqua. Certo: la carne del brodo non sarà saporita come quella del lesso e – viceversa – il


brodo del bollito non sarà saporito come questo. È una questione di scelte nella vita. UNA QUESTIONE DI TEMPERATURE E TEMPO La capacità di estrazione degli aromi da un ingrediente dipende dall’equilibrio tra temperature e tempo. Solitamente, un brodo viene lasciato a sobbollire per 4 o 5 ore ad una temperatura che raramente supera i 100°C. Più è alta la temperatura, minor tempo servirà al brodo per arricchirsi degli aromi rilasciati dagli ingredienti. Molti utilizzano anche una pentola a pressione per ottimizzare tempi e temperature. ATTENZIONE AL SALE Il sale potrebbe rovinare una buona preparazione. Per questo motivo, sarebbe opportuno unirlo a cottura quasi ultimata, quando il nostro brodo si sarà quasi del tutto ristretto. Fatte tutte le dovute premesse, non ci resta che fornirvi una nostra ricetta di brodo: utilissima di questi tempi come piatto unico.

Ingredienti per 8 persone: 1,2 kg di carne di

manzo (tra ossa, brisket e chuck roll)/ 2 carote / 2 cipolle rosse intere/ 2 pomodori tondi interi / 1 costa di sedano / 1 patata / pepe in grani q.b./ sale q.b./ olio extravergine d’oliva q.b. / 5 chiodi di garofano PROCEDIMENTO 1. Per prima cosa, pulire e lavare le verdure. Ricordate che nel brodo potete utilizzare anche parti di verdure che solitamente non utilizzereste. Quindi, tagliate a tocchetti grossolani le verdure prescelte. 2. Nel frattempo, prendete anche la carne che avete scelto e riducetela in pezzi grossolani, ma delle misure adatti per ficcarli in pentola e coprirli di acqua poi. 3. In un tegame basso e ampio, con un filo d’olio extravergine d’oliva, fate tostare le verdure tagliate a tocchetti, non più di una trentina di secondi per lato. 4. Dopodiché, trasferite in una pentola i tocchetti di verdura, aggiungete ancora olio extravergine d’oliva, i chiodi di garofano e i grani di pepe. 5. È giunto il momento di aggiungere la carne e le ossa. 6. Dopo aver aggiunto la carne, è il momento di aggiungere l’acqua fredda, ricordando la nostra proporzione di carne:acqua di 1:3. Per il nostro 1,2 kg di carne dovremo aggiungere circa 3,5 litri di acqua ben fredda. 7. Dopo aver aggiunto l’acqua, controllate che la temperatura del vostro brodo si stabilizzi sui 95°C/100°C e lasciate sobbollire per circa 2 ore e mezzo. 8. Stabilizzando a questa temperatura, trascorse circa due ore e mezzo, il brodo dovrebbe essersi ridotto a quasi la metà della quantità di partenza. 9. Lasciate sobbollire per un’altra ora. 10. Dopo questo tempo, in superficie, sarà affiorata la schiuma: si tratta di grasso ed impurità.

12. A questo punto, potete decidere se servirlo, in accompagnamento, oppure congelarlo per utilizzarlo con altre preparazioni.

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11. Con l’aiuto di un chinois, potrete filtrare il brodo, che risulterà così più chiaro e ristretto.

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AGNOLOTTI

CON GUANCIA AFFUMICATA

Buon Natale, da veri griller! Tortellini, ravioli, agnolotti, tortelloni, cappelletti: di tutte le forme, di tutte le grandezze, con svariati ripieni, in brodo o asciutti, con condimenti tradizionali o alternativi… in qualunque modo vogliate prepararla la cosa certa è che non può esistere un Natale senza che la pasta ripiena faccia bella mostra di sé sulle tavole italiane, specie della zona centro-settentrionale.

pasta ripiena non è facile. A dar retta, dovremmo dedicare un numero intero solo a questo argomento, e forse non basterebbe. C’è però un’annosa questione che dobbiamo affrontare: considerando che agnolotti e ravioli hanno la stessa forma, che differenza sostanziale c’è tra l’una e l’altra preparazione? Possono di fatto essere considerati sinonimi?

Parliamo tradizionalmente di una sfoglia di pasta, perlopiù all’uovo, che viene riempita con un composto a base di carne, di pesce, di verdura o di formaggio (ma ormai le varianti sono molteplici e non mancano quelle con la frutta o addirittura quelle dolci). Questo modo di cucinare la pasta, nato con il duplice scopo di contenere e cuocere un ripieno, risale al Medioevo. La pasta ripiena nacque come cibo per benestanti e signori (e chi altri poteva permettersi una cosa simile?); le prime notizie certe che si hanno su questa preparazone riguardano il raviolo, comparso sulle tavole dei nobili tra il XII e il XIII secolo e citato anche dal Boccaccio, nel Decameron (VIII giorno, III novella “Calandrino e l'elitropia”): i protagonisti del racconto arrivano nel Paese di Bengodi dove “ (…) eravi una montagna tutta di formaggio parmigiano grattugiato, sopra la quale stavan genti che niuna altra cosa facevan che far maccheroni e raviuoli, e cuocergli in brodo di capponi, e poi gli gittavan quindi giù, e chi più ne pigliava più sen’aveva (...) ”.

Abbiamo appurato che i primi a vedere la luce sulle tavole siano stati i ravioli, dato che la loro nascita viene datata ai primi del 1200, e fino al 1800 nei ricettari esiste solo ed esclusivamente la parola raviolo. Il termine agnolotti debutta per la prima volta nel 1814 e a farne menzione è Vincenzo Agnoletti, chef di Maria Luigia d’Austria duchessa di Parma e Piacenza, che li cita (chiamandoli agnellotti) in La nuovissima cucina economica. Agnolotti, agnellotti e agnoletti. Ci rendiamo conto che la faccenda diventa difficile. In ogni caso, per farla breve, sono nati prima i ravioli. In Piemonte poi li hanno chiamati agnolotti (non ci addentriamo sull’etimologia del nome, perché altrimenti festeggiamo qui il Capodanno). Secondo il Dissionari piemontèis (Sergio Seglie,1972) L’agnolotto è “essenzialmente di carne”, mentre il raviolo viene definito “pezzetto di pasta con ripieno di verdura o ricotta”.

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Nel tempo, la bontà della pasta ripiena è stata riconosciuta un po’ ovunque e la sua popolarità è cresciuta velocemente, tanto da essere presente nei ricettari di quasi ogni regione già nel XV secolo. Le paste ripiene più diffuse in Italia (con le relative varianti nei condimenti e nei ripieni, non solo a livello regionale, non solo a livello locale, ma anche a livello familiare) sono tortellini e tortelloni, cappelletti, agnolotti, ravioli e casoncelli. Ognuna con una propria storia legata alle vere origini, spesso motivo di litigi fra le varie città che ne rivendicano le paternità.

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AGNOLOTTI O RAVIOLI? Districarsi fra i nomi, le forme e i condimenti della

In pratica, sempre per amore della sintesi, la differenza sostanziale riguarda il ripieno: se è di sola carne (specie arrosto) siamo mangiando un piatto di agnolotti; se è di verdura, di carne e verdura, di verdura e formaggio (specie ricotta) e infine di pesce, stiamo gustando un piatto di ravioli. I nostri, considerato il ripieno di carne cucinata alla maniera del vero serial griller, sono dunque da considerarsi agnolotti, ma chiamateli pure ravioli, anzi, chiamateli come volete. Avrete una sola certezza: più buoni di così sarà difficile che ne troviate. Noi li abbiamo presentati in brodo (considerato anche il lungo articolo su come preparare il brodo perfetto), ma provateli anche col ragù scientifico dello Zio (ce l’avete tutti il Codice Lo Cascio, vero? No? Ahi ahi ahi!) e vi emozionerete.


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Ingredienti per 4 persone:

per la guancia brasata: 2 guance di manzo del nostro Megastore / 2 cucchiai di Ultimate SPOG Sal’s Seasoning / 1 l di vino rosso / una cipolla rossa / una carota grossa / due gambi di sedano / due foglie di alloro / olio extravergine di oliva q.b. per la pasta : 400 g di farina / 4 uova / un pizzico di sale per il ripieno : 80 g di Parmigiano Reggiano 40 Mesi GLC Top Selection / un uovo / sale e pepe q.b. PREPARAZIONE 1. Ripulite la carne eliminando gli eventuali brandelli e la membrana che la riveste. Tamponate con carta assorbente per eliminare l'eccesso di umidità. 2. Spennellate con olio extravergine e condite con il rub . 3. Preparate il setup del vostro dispositivo per una cottura indiretta a 170°C, poi adagiate le guance in griglia, affumicando con l’essenza di legno che preferite, chiudendo il coperchio del dispositivo. 4. Una volta formato il bark mettete la carne in cottura diretta, installate la cocotte in ghisa nell’apposito spazio in griglia oppure adagiatela sulla griglia in corrispondenza delle braci o della fonte di calore, versate l'olio extravergine di oliva e rosolate le cipolle, le carote ed il sedano tagliati grossolanamente. Aggiungete il vino e trasferite le guance affumicate all'interno del tegame. Coprite con il coperchio e terminate la cottura della carne portandola a 95°C al cuore. Recuperate i succhi di cottura e filtrateli. 5. Tagliate la carne a fette e mettetele nel mixer, aggiungete un cucchiaio di salsa del brasato, il parmigiano e l’uovo. Eventualmente aggiustate d sale. 6. Amalgamate bene il composto ottenuto e mettetelo da parte. 7. Preparate la sfoglia: disponete 400 g di farina nella classica forma a fontana, unite le uova e un pizzico di sale. Lavorate bene il composto, fino a quando non otterrete una palla omogenea e compatta (aggiungete farin se vi sembra troppo molle). Trasferite la vostra palla in frigo per un’oretta.

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8. Tirate la sfoglia con il mattarello o con una macchina per tirare la pasta, prendete il ripieno e disponetelo a mucchietti non troppo grossi, distanziandoli fra loro di circa due cm.

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9. Ripiegate la sfoglia sui mucchietti di ripieno, fate uscire l’aria aiutandovi con le dita e poi tagliate gli agnolotti, chiudendoli bene. 10. Cuocete gli agnolotti nel brodo di manzo oppure serviteli asciutti con il ragù.


Storie e tradizioni

IL NATALE

ieri e oggi Portfolio gastronomico a cura di Alberto Zonghetti

22 dicembre di qualche anno fa, ore 18, saluto i miei colleghi uscendo dall’ufficio. Collega: Allora ciao Alberto, stammi bene, riposati! Io: Sì certo, lo farò sicuramente. Ti auguro di cuore un felice Natale e… Collega: (stizzito) Ah no, niente Natale, non sono credente… Io: vabbè dai, è una nostra tradizione, è bello… Collega: no, dai, non iniziare con ‘sta roba qua: tutti buoni, i parenti, la messa, i pranzi lunghi inutili non li sopporto. Vado che devo finire ‘sti regali, che palle! Ci si vede tra quindici giorni, se c’è necessità di rientrare in ufficio prima fammi sapere che tanto a casa mi stufo presto di tutto questo.

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atale: da una parte, alcuni si gettano con entusiasmo nel clima della festa, altri lo subiscono con passività, come una ricorrenza inevitabile; c’è anche chi lo detesta e lo ignora, lo boicotta arrivando addirittura a proporsi per turni straordinari di lavoro. Oggi è molto strano il rapporto che noi, in questa ipertecnologica società globalizzata e secolarizzata del XXI secolo, abbiamo con questa ricorrenza. Oltre ad essere vissuto, giustamente, secondo la storia e la personalità di ognuno, da una parte sembra costituire la coda delle feste consumistiche che iniziano con Halloween, proseguono con il Black Friday e sfociano appunto con le vacanze, che iniziano il 24 dicembre e terminano con la festa dell'Epifania; dall’altra, lo spettro del politicamente corretto lo sta trasformando in una anonima quanto generica festività dell’in-

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verno, della neve o di non so cos’altro nella quale la parola “Natale” sembra essere quasi un’offesa. Entrambe le direzioni tendono a svuotare in maniera insensata il senso, la storia, la tradizione. Non serve essere credenti o devoti per comprendere ed apprezzare il significato di questa festività; potrebbero bastare il buon senso, il rispetto per le tradizioni e la conoscenza delle fonti storiche. Io amo il Natale e non lo nascondo, ma non per questo voglio convincervi ad apprezzarlo di cuore, ci mancherebbe. Mi interessa ricostruirne brevemente i frammenti che costituiscono le origini, le simbologie, i valori universali che trascendono le esperienze e il credo religioso di ognuno.

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LE ORIGINI Il Natale, come lo conosciamo noi oggi in Italia, è la risultante delle numerose stratificazioni culturali occorse in oltre duemila anni di storia ma, dal punto di vista storico, si tratta di una festa cristiana nata tra III e IV secolo d.C. per celebrare la nascita di Gesù Cristo avvenuta a Betlemme di Giudea circa 2000 anni fa. Non è propriamente corretto affermare che il cristianesimo abbia “rubato” questa festività ai pagani: semplicemente è stato istituito all’interno di un arco temporale nel quale erano festeggiati in precedenza i Saturnali e, successivamente, la celebrazione del solstizio d’inverno e del Sol Invictus. Non sappiamo se Gesù sia effettivamente nato il 25 dicembre – anche se alcuni studiosi, nelle loro ricerche, hanno stabilito che possono esserci delle ragioni storiche in questa datazione - ma non è

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importante ai fini della comprensione di quanto è accaduto. È interessante sapere invece che in età imperiale i romani, tra il 17 e il 23 di dicembre, celebravano i Saturnali, festività in onore di Saturno, il dio dell’agricoltura e del raccolto. Tali eventi, che per le loro caratteristiche ricordano da vicino il nostro carnevale, si svolgevano in concomitanza con il solstizio d’inverno, il periodo più oscuro dell’anno, quando il sole sorge più tardi e tramonta prima. In quel periodo i lavori nei campi venivano interrotti e i contadini e gli schiavi potevano godersi un po’ riposo dalle fatiche quotidiane. Gli antichi romani di tutte le classi sociali approfittavano per celebrare grandi banchetti pubblici, per far visita a familiari e agli amici e per scambiarsi dei regali, proprio come succede al giorno d’oggi durante le festività natalizie. Nel 274 d.C. l’imperatore romano Aureliano istituisce, il 25 dicembre, la festività del Sol Invictus, un culto monoteistico di origine orientale che celebrava la vittoria della luce sulle tenebre in onore al dio del sole Helios; tale usanza è riscontrabile fondamentalmente in tutti i popoli antichi, i quali, per scongiurare paure primordiali legate alla morte e alle calamità, celebravano una serie di festività annuali e stagionali legate al ciclo della natura. Fra i loro timori maggiori, c’era quello che il Sole non sorgesse più, dato che in inverno il suo corso nell’orbita celeste si riduce. Da questo si avvertì la necessità di celebrare diversi riti propiziatori, connessi anche con la fertilità e la riproduzione, volti a scongiurare il pericolo che il mondo sprofondasse nelle tenebre, essendo il sole un elemento indispensabile per la vita. Il Sol Invictus, va detto, si inseriva all’interno di un Impero in decadenza, in forte crisi di valori etici, politici, morali; molti culti orientali e intimistici si stavano diffondendo, e un tentativo per risollevare la situazione da parte degli imperatori fu quello di istituire un culto monoteistico.


Dopo il riconoscimento del Cristianesimo nel 313 d.C. da parte dell’imperatore Costantino, la Chiesa scelse la data del 25 dicembre sulla base dell’antica data solstiziale, per coglierne il significato spirituale primigenio. Il Sole diventa dunque la Luce di Cristo, il quale si è definito Luce del mondo egli stesso, così come la simbologia solare è presente nella letteratura profetica. Si tratta, in sintesi, del normale fenomeno di assimilazione e sostituzione che troviamo frequentemente negli incontri tra diverse culture, chiamato sincretismo. Nulla di sconvolgente. DA SAN NICOLA A BABBO NATALE Il mito di Babbo Natale nasce dalla leggenda di San Nicola, vissuto nel IV secolo in Turchia, che si festeggia il 6 dicembre. Secondo la tradizione, San Nicola è legato principalmente a due episodi: regalò una dote a tre fanciulle povere perché potessero andare spose invece di prostituirsi e - in un’ altra occasione - salvò tre fanciulli. Tra VII e VIII secolo, San Nicola diventò il punto di riferimento dei marinai bizantini e divenne il loro protettore, trasformandosi da santo locale a santo internazionale. Il suo culto si espanse lungo le rotte marittime del Mediterraneo, arrivando a Roma e a Gerusalemme, poi a Costantinopoli, in Russia e nel resto dell’Occidente. Nel Medioevo si diffuse in Europa l’uso di commemorare questo episodio con lo scambio di doni nel giorno del santo (6 dicembre). L’usanza è ancora in diffusa nei Paesi Bassi, in Germania, in Austria e in Italia (nei porti dell’Adriatico, a Trieste e nell’Alto Adige): la notte del 5 dicembre in groppa al suo cavallino San Nicola fa concorrenza a Babbo Natale. I bambini cattivi se la devono vedere con il suo peloso e demoniaco servitore, mentre il pio uomo lascia doni, dolciumi e frutta nelle scarpe dei più meritevoli.

L’ALBERO E IL PRESEPE I Celti rispettavano la tradizione di decorare le querce con frutta e candele durante il solstizio d’inverno. Era un modo di riportare alla vita l’albero e, così facendo, di assicurarsi che, dopo l’inverno, il sole e la vegetazione avrebbero fatto ritorno. Anche allora infatti, l’albero era considerato il simbolo di fertilità e di rigenerazione per eccellenza. Il cristianesimo adottò e trasformò queste usanze, collegandole alla propria simbologia. Secondo la leggenda, nell’VIII secolo, nella regione di Hesse nel centro della Germania, esisteva un’enorme quercia consacrata al dio Thor. Ogni anno, durante il solstizio d’inverno, le veniva offerto un sacrificio. Ma, davanti agli sguardi attoniti degli abitanti del posto, un missionario di nome Bonifacio abbatté l’albero e, dopo aver letto alcuni passi del vangelo, offrì in cambio un abete, un albero di pace che «rappresenta la vita eterna perché le sue foglie sono sempre verdi» e perché la sua cima «indica il cielo».

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Nei Paesi protestanti San Nicola perse l’aspetto del vescovo cattolico ma mantenne il ruolo benefico col nome di Samiklaus, Sinterclaus o Santa Claus. La devozione a San Nicola sarebbe poi stata

“esportata” dai protestanti che s’imbarcarono per gli Stati Uniti. L’omone con la barba bianca e il sacco pieno di regali, infatti, nacque proprio in America dalla penna di Clement C. Moore, che nel 1822 scrisse una poesia in cui lo descriveva come ormai tutti lo conosciamo. Questo nuovo Santa Claus ebbe molto successo, grazie anche all’illustratore americano Haddon Sundblom che nel 1930 ne codificò l’abito biancorosso. Lo fece per la Coca-Cola, che usò Santa Claus come testimonial fisso della sua bibita. Dagli anni Cinquanta conquistò anche l’Europa diventando, in Italia, appunto Babbo Natale.

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Due città baltiche si contendono il primato di aver posto il primo albero di Natale in piazza: Tallinn (Estonia) nel 1441 e Riga (Lettonia) nel 1510. In questa seconda località il primo albero di Natale venne decorato con rose artificiali da un gruppo di commercianti, che scelsero di porlo nella piazza del mercato. Grandi e piccini ballarono intorno all’albero e poi gli diedero fuoco, ma ormai la tradizione natalizia più magica era penetrata nella cultura popolare.

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Il presepe, invece, è la rappresentazione scenografica in tre dimensioni della Natività di Betlemme. Secondo la tradizione si crede che l’inventore del presepe sia stato San Francesco d’Assisi che per primo lo realizzò nel 1223 a Greccio: non fu un modellino con le statuette, quanto una celebrazione liturgica allestita dentro una grotta, con la mangiatoia, la paglia, l’asino e il bue, le fiaccole…e i personaggi. Un presepe vivente, insomma. Il primo presepe con le statuette risale invece al 1283 ed è opera di Arnolfo di Cambio, celebre scultore che realizzò otto statuette in marmo rappresentanti i personaggi della Natività e i re Magi. A partire da questi avvenimenti la tradizione si diffuse dapprima nelle chiese e, successivamente nelle case, dando origine ad un fenomeno di grande interesse artistico e devozionale.

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L’IMPORTANZA DELLE FESTIVITA’ In tutte le culture, il cibo è la prima espressione della festa, nell’insolita abbondanza e nelle specialità particolari che si preparano per l'occasione. I motivi? Il cibo è l’espressione della vita, gli alimenti rituali identificano la festa, l’abbondanza propizia la fertilità e allontana lo spettro della fame, paura atavica ed ancestrale degli uomini. Pertanto non può esserci festa senza banchetto, dato che la tavola è l’immagine della socialità, della convivialità; e poiché storicamente la religione è stata l’occasione per scandire il calendario con le sue maggiori e minori festività, il sacro si mescola inevitabilmente al profano. Le feste sono ricorsive all’interno della concezione ciclica del tempo e si celebrano sia con rituali che con il cibo, che deve essere specifico dell’evento e consumato con le giuste tempistiche e modalità. Prendetemi in giro, ma io il panettone e il pandoro che ho acquistato per la festa non li apro prima del 24 dicembre. Intendiamoci, se sono ospite in casa d’altri, soprattutto con i figli, non mi sognerei mai di sottrarre loro il prezioso dolce in nome di un dogma ritual-culinario. E’ un segno per ricordare la festa, un modo per distinguere i giorni speciali da quelli ordinari. Siamo abituati, nell’era che viviamo,


a rendere fluido e spesso impercettibile lo scorrere dei giorni, delle settimane, delle stagioni, come un eterno presente nel quale possiamo ottenere tutto ciò che vogliamo. Eppure il senso delle feste è quello di ricordarci che l’esistenza ha un tempo ciclico, una sua sacralità. Per questo, ogni cultura mette in atto alcune strategie e la festa è la principale di esse. Suo scopo è rassicurare e proteggere, funzionare da valvola di sfogo e contenitore delle aspirazioni mai realizzabili nel tempo ordinario. In questo senso, la festa assume i connotati di un”non tempo”una sospensione in cui tutto può accadere. Al termine di questo periodo, la vita della comunità può riprendere il suo corso normale, riappropriandosi dei tempi e dei ruoli che le sono usuali. MANGIARE A CREPAPANCIA Il Natale era una delle feste più trasgressive in una società costretta, per necessità, a essere morigerata. Si lavorava per un intero anno per consumare il “peccato” a tavola. Il rito iniziava il 24 dicembre, la Vigilia, giorno “di magro”che doveva preparare all’abbuffata del giorno dopo, quando sulla tavola sarebbero transitate solo bombe caloriche. Queste festività erano, nei secoli passati, un’occasione per un meritato riposo dalle fatiche quotidiane e per socializzare ai pranzi di famiglia, quando il tipico menù frugale e triste dei poveri veniva sostituito da rarità come la carne e il pesce, mentre sulle tavole dei ricchi si potevano trovare cibi esotici e ancora più insoliti , ricercati, scenografici. Prevaleva, insomma, la soddisfazione di poter mangiare a crepapancia. Abbiamo detto che il cibo e la tavola sono parte fondamentale in ogni festa; l’abbondanza, la ricchezza ed addirittura lo spreco servono a propiziarsi un anno favorevole. La profusione delle carni farcite e dei dolci mielati - che in una situazione di penuria rappresentavano anche una parentesi agli stenti quotidiani – si contrappone alla normale frugalità dei farinacei e sottolinea la separazione fra alimento rituale e cibo nutritivo. I pranzi di Natale o di Capodanno non si risolvono con un semplice elenco di portate; ciò che li rende speciali è l’insieme delle attenzioni che si rivolgono loro.

Ultima curiosità: che ne pensava San Francesco, il poverello di Assisi, celebre anche per la frugalità dei suoi pasti? Raccontano le fonti che, una volta, i suoi discepoli discutevano se, capitando il Natale di venerdì, bisognava festeggiarlo come grande festa (e con la consueta mangiata di carne, cibo festivo per definizione) o praticare l’astinenza e la penitenza tipiche del venerdì. Gli chiesero un parere e lui si infuriò: “Ma come? - disse - voi vorreste fare penitenza nel giorno in cui è nato il nostro Signore? In un giorno come questo - continuò - vorrei che non solo gli uomini, ma anche tutti i nostri amici animali godessero l’abbondanza del cibo, e anche questi muri, se potessero mangiare, dovremmo rimpinzarli... ma poiché questo non è possibile, almeno spalmiamoli di lardo.” Un grande banchetto universale, a cui uomini, animali, perfino i muri delle case partecipano. Ecco l’immagine della festa secondo Francesco, interprete di un sentire comune che ha sempre attraversato la cultura degli uomini. NOI E IL NATALE Ognuno festeggia l’evento attraverso una serie di cerimonie e riti vissuti con parenti stretti e, a volte, anche lontani: la preparazione del presepe e dell’albero addobbato l’8 dicembre, la cena della Vigilia, solitamente “di magro”, la Messa di mezzanotte per chi è credente, il sontuoso pranzo del 25 dicembre, lo scambio dei regali, la tombola e i vari giochi con le carte.

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Cucinare i piatti dettati dalla tradizione, apparecchiare curando dettagli insignificanti in altri momenti (nell’Est Europa, ad esempio, si mette della paglia sotto la tovaglia), fermarsi a tavola più

a lungo del solito trasforma il pasto in banchetto rituale. Anche i tempi dell’assunzione del cibo non seguono i ritmi che il nostro corpo ha imparato a considerare come naturali; sono dilatati, surreali, cosicché la percezione delle pause tra i banchetti risulta un tempo al di fuori dell’ordinarietà nel quale si alternano giochi in famiglia, visione di cartoni animati o film tematici, necessarie pennichelle ristoratrici, salutari passeggiate digestive. I caratteri di un cibo per la festa non sono legati solo all’extra-ordinario e all’opulenza, ma a volte riprendono quelli di un cibo quotidiano che viene sublimato, come ad esempio, il panettone: grande pane a cui si aggiungono degli ingredienti speciali: zucchero, uvetta, candidi, burro. Alimenti simbolici come legumi, granaglie e frutta secca indicano invece il desiderio di prosperità e fecondità e, se ci pensiamo bene, si ritrovano in tutti i menu tradizionali.

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Ora che ho superato da qualche anno la soglia dei quaranta, ai fornelli me la cavo decisamente bene (preparo circa cinquecento pasti all’anno per la mia numerosa famiglia, e mi aggiorno di continuo grazie allo Zio e al nostro Magazine). Ebbene, mai mi sono proposto come cuoco per la Vigilia o il giorno di Natale, sostituendomi a mia madre o a mia suocera. La mia casa e i miei servigi culinari sono a disposizione di parenti ed amici dal 26 dicembre in poi. Perché? Non solo perché si arriva verso queste date stanchissimi a causa dei ritmi frenetici della nostra quotidianità e, banalmente, non si hanno tempo e voglia di dedicare così tante energie alla organizzazione e realizzazione dei banchetti natalizi. No, non è questo il punto. Spesso mi accade, ispirato dalla lettura del nostro amato Magazine, di vagheggiare menu festivi particolari ed innovativi; riflessione che, alla fine, mestamente trascolora e svanisce. La risposta risiede nell’amore verso le tradizioni, nella voglia di ripercorrere un rito antico.

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Ma cosa cerchiamo noi, davvero, nel cibo di Natale? Alla fine, nonostante le differenze che caratterizzano gli esseri umani, in questa ricorrenza le persone cercano ciò che conoscono, ciò che le rassicura: la tradizione.

Anche i più rivoluzionari quel giorno, soltanto quel giorno, vogliono essere rassicurati e sapere che nulla è cambiato. Che ritroveranno ciò che conoscono. Alcuni psicoterapeuti affermano che i loro pazienti ricercano nel Natale momenti di pace dagli eccessi, dall’incerto, dalla tempesta esteriore. Sono a caccia di punti fermi per ritrovare se stessi, anche a tavola, nei cappelletti e persino in quel brodo di cappone uguale a quello della mamma, della nonna, della zia. Oggi, per molti, il Natale è diventato una tradizione interiore che si esprime allontanandosi dalle visioni pantagrueliche da banchetto dei signorotti, con piatti elaborati e stoviglie pretenziose che affollano le tovaglie. Lo vedo anche nella mia esperienza: gli anni’80 e nei primi ’90 vedevano alla Vigilia una partecipazione parentale massiccia, ci si riuniva dopo la cena, consumata intorno alle 18.30, per giocare, festeggiare, scambiarsi i regali: eravamo oltre cinquanta persone. Oggi siamo sempre più affini a piccole tavole dove convivono ricordi, sapori e gusti, in modo meno caotico ma più misurato ed intenso.


TRADIZIONI E STRANEZZE DAL MONDO Il Natale negli Stati Uniti meriterebbe un capitolo a parte, nel quale non oso addentrarmi, dato che la nostra Elena Ninotti ci illuminerà in questo stesso numero in maniera piacevole ed esaustiva. Ma, lo confesso, ho trascorso le festività Oltreoceano, in visita alla sorella di mia moglie temporaneamente domiciliata tra Philadelphia e New York! Non dimenticherò mai l’atmosfera magica che regnava nelle strade, soprattutto nelle vie secondarie appena lontani dalla Downtown: la neve, le luci suggestive, le decorazioni dei giardini – veri e propri allestimenti artistici, le musiche dolci e nostalgiche diffuse nell’aria, le celebrazioni liturgiche in inglese con i cori gospel…sembrava veramente di vivere dentro ad un film! In Canada, a Labrador City, si svolge la gara della casa meglio decorata con l’utilizzo di luci e la presenza di statue di ghiaccio in giardino. In Nova Scotia, le tradizioni natalizie prevedono il consumo di aragosta e frutti di mare al posto del classico tacchino. In Germania la tradizione dei mercatini è ormai così famosa che sono diventati meta turistica primaria di molti viaggi tra novembre e dicembre; cosa si mangia? Tante pietanze, tra le quali ricordiamo l’oca arrosto ma, soprattutto, la carpa di Natale. In Russia invece c’è una tradizione che riguarda la cena della vigilia. La tavola viene preparata rigorosamente dopo il tramonto, con una copertura di paglia e grano. Sopra questo primo strato viene stesa la tovaglia, poi si ripone ad ogni angolo uno spicchio d’aglio, che si pensa sia un rimedio e protezione contro le malattie.

Anche in Giappone, una delle culture più distanti dalla nostra, il periodo natalizio è però

Nei Paesi africani la coesistenza di culture religiose differenti e la massiccia presenza di Missioni Cattoliche, ha fatto sì che anche in un continente apparentemente così lontano da quello che consideriamo Natale si sviluppasse una vera e propria tradizione natalizia. In Africa centrale la festività coincide spesso con la fine della raccolta del cacao ed i lavoratori delle piantagioni hanno la possibilità di tornare dalle famiglie per festeggiare. La notte viene trascorsa in compagnia di parenti ed amici fino a quando, il giorno dopo, iniziano i preparativi per il pranzo di Natale; è anche consuetudine lasciare la porta di casa aperta in modo che chiunque si senta il benvenuto. L’usanza vuole che ci si scambino regali consistenti in cibi, sia crudi che cotti, con un’abbondanza che è considerata di buon auspicio. In Polonia, nella cena della Vigilia, una tradizione antichissima vuole che ci sia un posto vuoto per qualcuno che può arrivare all’improvviso, per uno sconosciuto; segno dell’accoglienza di chi si trova nel bisogno. Non abbiamo pensato all’altro emisfero del globo: mentre nella maggior parte del mondo il Natale è associato alla stagione invernale, al freddo, alla neve, alle stufe e al caminetto, che faranno in Australia? Laggiù è estate, quindi.. auguri in spiaggia e si festeggia con un barbecue sotto al sole! Carne, pesce, verdure alla griglia e, per finire, il pavlova, famoso dolce a base di meringa, panna e frutta estiva. Siamo giunti al termine, con la speranza che non vi mostrerete risentiti o indifferenti se dal nostro Magazine vi diremo Buon Natale e buone feste! Concludiamo la nostra lettura con un sonetto del Grande Giuseppe Gioacchino Belli, poeta che scrisse indimenticabili componimenti in vernacolo romanesco:

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In Slovacchia e in Ucraina, nel periodo delle festività natalizie, viene acquistata o preparata la loksa, un liquore invernale piuttosto forte. Secondo la tradizione, il capofamiglia riempie un cucchiaio di loksa e lo lancia ai commensali. I presenti a tavola devono rimanere fermi a ricevere la cucchiaiata, ma c’è un lato positivo: chi si bagna di più avrà fortuna garantita per tutto l’anno nuovo!

abbastanza sentito anche se in modo differente rispetto all’occidente. Il Natale è visto come un periodo di felicità diffusa piuttosto che una celebrazione religiosa, destinata principalmente agli innamorati e alle famiglie con bambini piccoli. Si mangiano pollo fritto e la famosa Christmas Cake, ossia una semplice torta di pan di spagna con panna montata e decorata con fragole e immagini di Babbo Natale.

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LA VIGGIJA DE NATALE Ustacchio, la viggija de Natale Tu mmettete de guardia sur portone De cuarche mmonziggnore o ccardinale, E vvederai entrà sta priscissione. Mo entra una cassetta de torrone, Mo entra un barilozzo de caviale, Mo er porco, mo er pollastro, mo er cappone, E mmo er fiasco de vino padronale. Poi entra er gallinaccio, poi l’abbacchio, L’oliva dorce, er pessce de Fojjano, L’ojjo, er tonno, e l’inguilla de Comacchio. Inzomma, inzino a nnotte, a mmano a mmano, Tu llí tt’accorgerai, padron Ustacchio, Cuant’è ddivoto er popolo romano. Giuseppe Gioacchino Belli Roma, 30 novembre 1832

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LA VIGILIA DI NATALE Eustachio, la vigilia di Natale mettiti di guardia sul portone di qualche monsignore o cardinale, e vedrai entrare una processione. Ora entra una cassetta di torrone, ora un barilotto di caviale, ora il maiale, ora il pollastro, ora il cappone, e ora il fiasco di vino padronale. Poi entra il gallinaccio, poi l’abbacchio, le olive dolci, il pesce di Fogliano, l’olio, il tonno, e l’anguilla di Comacchio. Insomma, fino a notte, a poco a poco, tu lì ti accorgerai, padron Eustachio, quanto è devoto il popolo romano.

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IL RAGÙ NAPOLETANO Storia, miti e ricetta della salsa regina di Napoli Voi, lettori del Magazine, sapete benissimo che il tempo è un ingrediente fondamentale per la riuscita di un buon piatto. Il ragù napoletano, poi, di tempo ne necessita parecchio: una delle parole più belle, in riferimento al ragù napoletano, è proprio peppiare (oppure pippiare, dipende dalla zona). Il ragù deve peppìare, si dice. Il ragù deve sobbollire a fuoco lento, per ore ed ore. Tra queste pagine del Magazine, cercheremo di darvi una ricetta per il ragù napoletano che vi porti via il tempo giusto, adoperando gli ingredienti giusti.

un antenato illustre: stiamo parlando del “Daube de boeuf”, cioè lo stufato di carni di bue con parti molto coriacee, lasciato sobbollire per lunghissime ore con l’aggiunta di verdure in tocchetti in un grosso recipiente di creta. Siamo nel XIV secolo all’incirca: questo sostanzioso piatto unico era nutrimento gustoso dopo lunghe giornate nei campi provenzali. Il “ragout”, molto posteriore al Daube de boeuf, era uno stufato di verdure, però con carne di montone. Ma come ci arriva il ragù, in qualche modo, sulle tavole del popolo napoletano?

RAGÙ, RAGOUT, RAGOUTANT La lingua napoletana è magnifica: ha una pronuncia propria per tutte le parole importate da altre lingue e – fidatevi – queste ultime sono parecchie. Dal francese, poi, hanno preso a piene mani: ragù è solo la pronuncia di ragout; molti vocaboli francesi importati a Napoli hanno pronunce simili: si veda, ad esempio, il gattò, il sartù di riso, il purè. Il termine “ragù” deriva dal medio francese “ragoutant”, che significa allettante, appetitoso, stuzzicante.

Spostiamoci nel XVIII secolo: i rapporti commerciali e diplomatici tra il Regno delle Due Sicilie e la Francia erano quanto mai floridi. La capitale, Napoli, era tutto un fiorire di caffetterie e pasticcerie di stampo francese, a segnalare la grande influenza che i cugini d’Oltralpe avevano sui sudditi borbonici. La corte borbonica, appunto, molto affascinata dagli usi e costumi differenti, non tardò a chiamare le maestranze francesi per arricchire la propria cucina. Fu così che a Napoli approdarono i monsù (adattamento di monsieur, signore), cioè i cuochi francesi che apportarono sensibili novità alla cucina partenopea, finora scarna di condimenti e salse. Il ragù – che, al momento della sua apparizione a Napoli, non prevedeva ancora l’utilizzo del pomodoro – si limitò a comparire nelle mense ricche, in

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Dopo questa piccola parentesi linguistica, andiamo al sodo con la storia: da dove nasce, questo benedetto ragù? Ci converrà spostare i nostri pensieri, per un po’, in Francia: siamo all’incirca in Provenza. Il ragù napoletano ha

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lauti banchetti dove era previsto l’utilizzo di carni bovine di alta qualità. Una prima citazione del ragù napoletano l’abbiamo a metà del Settecento, nell’arcinoto Il cuoco galante del gastronomo Vincenzo Corrado. Corrado, nella sua opera, si limita a citare appunto lo stufato di carni pregiate. Chi va un po’ più a fondo nella questione è Ippolito Cavalcanti, Duca di Buonvicino, nel suo trattato Cucina teorico-pratica, pietra miliare della gastronomia italiana, apparso nei primi decenni dell’Ottocento e aggiornato di volta in volta. Qui, Cavalcanti non cita soltanto lo stufato di verdure e manzo, ma anche dei maccheroni conditi con sugo di manzo e formaggio; addirittura nelle ultime edizioni del trattato compare finalmente la parola ragù, in particolare: “...li frammezzerai in zuppiera con once 12 di parmigiano grattuggiato e sugo di carne ovvero brodo di ragù”.

IL RAGÙ IERI, IL RAGÙ OGGI Dobbiamo prendere atto di una cosa: poche altre città hanno una tradizione di salse e sughi così forte come Napoli, anche al giorno d’oggi, dove la sovrabbondanza lascia spazio a ben altra tendenza gastronomica. Il ragù resta la salsa regina delle tavole partenopee, dividendosi la tavola con la genovese ma… vincendo di gran lunga per testimonianze storiche, odorino invitante, spettacolarità della preparazione e fama. Di ragù scientifico il nostro Zio ha abbondantemente parlato nel suo nuovissimo libro, Codice Lo Cascio: lì vi proponiamo una ricetta magniloquente, con ben tre giorni di preparazione. Qui, andremo a proporvi una ricetta “condensata” nel tempo, ma di buona efficacia e con altrettanti consigli mirati per un’ottima riuscita. Partiamo dalle basi. La scelta del pomodoro per il vostro ragù è fondamentale: solitamente, ci si butta sulla scelta di un’ottima passata di pomodoro, unita a del doppio o triplo concentrato di pomodoro, per aggiungere sapidità e colore. Qualora possibile, scegliete delle passate di pomodoro lavorate dal pomodoro fresco; non tutti hanno a disposizione scorte di passate da

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Non abbiamo ancora, però, la certezza matematica che ci fosse il pomodoro. Certezza che ci viene data soltanto dalla lettura di Carlo Dal Bono che, nella sua opera “Usi e costumi di Napoli” (datata 1857), parla appunto del ragù come condimento dei maccheroni. “Talvolta poi dopo il formaggio si tingono di color purpureo o paonazzo, quando cioè il tavernaio del sugo di pomodoro o del ragù (specie di stufato) copre, quasi rugiada di fiori, la polvere del formaggio”. I conti tornano: infatti, il periodo è coevo alle altre prime attestazioni del pomodoro in accoppiata con la pasta, soprattutto con gli spaghetti.

La nostra salsa di ispirazione francese era, ormai, alla portata di tutti: da un bel po’ ormai i tagli pregiati erano stati sostituiti con tagli più popolani, con tutte le variazioni del caso: dal vitello al maiale, dal diaframma alla cotica.

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pomodoro San Marzano, ma la GDO in tal senso non delude e mette a disposizione buoni prodotti, a patto di spendere un po’ (ma nemmeno tanto). Con foglioline di basilico? Massì, crepi l’avarizia. La scelta della carne è, ovviamente, tassello fondamentale: e non solo perché siamo BBQ4All Magazine, ma anche perché una scelta di tagli troppo poveri, secchi e duri darà irrimediabilmente risultati lontani dall’essere ottimi, figurarsi buoni. Nelle macellerie partenopee (notoriamente avvezze ai tagli più poveri, nonché alle interiora) è tutto un fiorire di “annecchie”, “colarde”, “locene” et similari. Una giusta proporzione tra tagli grassi (ricchi di tessuto connettivo che, sciogliendosi, daranno la “base” grassa al sugo) e tagli magri (che servirà a “rimpolpare” il sugo) di bovino è la scelta migliore da adoperare. Di “contorno”, i napoletani usano mettere anche le cosiddette “cotiche” (cioè cotenna suina) imbottite con prezzemolo, impasto per le polpette, uvetta passa e pinoli. Più grasso metterete, più grasso troverete. O ancora, troverete le “tracchie” di maiale, cioè le costine. Un leggero soffritto di verdure iniziale vi conferirà una nota erbacea, rustica e casalinga che non guasta.

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Il ragù è, a tutti gli effetti, una portata principale: ma che pasta caliamo nella pentola, visto che siamo a Napoli e senza primo piatto non sappiamo stare? Voce di popolo vorrebbe le candele, opportunamente spezzate, come pasta perfetta per il ragù. Probabilmente, i frammenti delle candele depositati sul fondo e pieni di sugo ingolosiscono molto i napoletani; per noi andrebbe bene anche un più semplice pacchero liscio, trafilato al bronzo ed essiccato a basse temperature in celle statiche, in modo tale da conservare alto valore proteico e favorire il rilascio di amido durante la cottura nella pentola casalinga. Insomma, fate un po’ voi: però la pasta corta riesce molto meglio; se è di Gragnano IGP, un plus da non sottovalutare. Ma ormai in qualunque punto d’Italia è possibile tirar fuori dell’ottima pasta, che sia ad alta quota o a livello del mare.

Ingredienti per 4 persone: 1 kg di Brisket GLC Top Selection

/ 800 g di Eye Round del Megastore / 1,5 l di passata di pomodoro (da pomodori freschi) / 1 cucchiaio ben colmo di triplo concentrato di pomodoro / 1 cipolla rossa di media grandezza / 1 carota / 500 g di paccheri lisci / olio extravergine d’oliva q.b. / sale q.b. / pepe q.b. / Parmigiano Reggiano 30 mesi GLC Top Selection Tagli di carne alternativi: Picanha GLC Top Selection, Top Blade SRF 6+, Stinco Irlanda Emerald Green, Denver Black Angus Blue Ox PREPARAZIONE 1. Preparate un soffritto leggero tagliando la cipolla a tocchetti e la carota, unendoli all’olio extravergine d’oliva. Scegliete un tegame molto ampio, perché dovrà contenere anche la carne. 2. Preparate la carne: tagliate il brisket in tocchetti grossolani, all’incirca in cubi di 3x3 cm e tritate al coltello l’eye round. 3. Poco per volta, aggiungete tutti i pezzi di carne e abbiate cura di farli rosolare su tutti i lati. 4. Quando la carne è ben rosolata su tutti i lati, aggiungete il cucchiaio di triplo concentrato di pomodoro. Rimestate e fate sciogliere completamente nel tegame. 5. Quando il triplo concentrato si è sciolto, aggiungete la passata di pomodoro a filo. 6. Regolate di sale. Da ora in poi, entra in gioco il fattore tempo che noi griller conosciamo molto bene. Aggiustate la fiamma: a fuoco basso, il ragù dovrà cuocere lentamente, permettendo alla carne più grassa di sciogliersi, al collagene di arricchire il sugo di pomodoro e alla carne più magra di dare “struttura” al nostro ragù. In questo frangente si svolge il “peppiare” tanto caro ai napoletani, quel pop-pop del sobbollire che tanto li fa impazzire. 7. Socchiudete con un coperchio il vostro tegame e lasciate così per circa sei ore. Di tanto in tanto, vi converrà controllare che tutto vada bene, aiutandovi con un mestolo. Munitevi di tozzetto di pane da intingere. 8. Passate le sei ore, il vostro ragù dovrebbe avere una patina di grasso sulla superficie e dovrebbe aver cambiato tonalità di rosso: mentre il grasso in superficie è più chiaro, tendente all’arancio, il sugo sotto dovrebbe essere molto scuro, quasi caramellato. 9. Una mezz’oretta prima del servizio, iniziate a portare a bollore l’acqua per la vostra pasta selezionata. Abbiamo scelto, nel nostro caso, paccheri lisci. Una riscaldata al ragù, mescolando con cura, non fa male. Scolate la pasta, impiattate e condite con una dose generosa di ragù fumante.Grattugiate a piacere del Parmigiano Reggiano 30 mesi GLC Top Selection.


LO SPEZZATINO DI WAGYU CON FUNGHI

... piace anche alla nonna! La nostra memoria gustativa, lo sappiamo, è un mezzo potentissimo. Influenza praticamente gran parte della nostra vita a tavola (e anche fuori). Quanti, tra di voi, ricorderanno lo spezzatino di carne della propria famiglia come il migliore – e forse, anche l’unica tipologia – mai assaggiato? Lo spezzatino è, solitamente, una tipologia di stufato composto da tagli non molto pregiati di manzo e suino, lasciati cuocere senza molte tecniche sopraffine in brodo e con accompagnamento di verdure varie, a loro volta lessate o al massimo saltate in padella.

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Il nostro piatto oggetto d’esame è diffuso trasversalmente nella cucina di quasi tutte le regioni d’Italia, con ovvie declinazioni territoriali, sia negli ingredienti che nella nomenclatura, e con una decisa presenza nelle regioni del Centro-Nord Italia. Possiamo affermare che lo spezzatino di carne italiano sia un parente più o meno prossimo del gulash consumato nei Paesi dell’Est Europa, anche se quest’ultimo presenta un carico di spezie notevole, rispetto alle ricette diffuse nel Belpaese. L’origine del nome è abbastanza intuitiva: la carne viene ridotta in tocchetti grossolani, pezzi grossi, per essere calati nella pentola e sottoposti a cotture prolungate. Si può prevedere l’aggiunta di pomodoro, oppure lasciarlo in bianco. Le carni utilizzate sono le sopracitate manzo e suino, ma ciò non vieta di trovare in giro degli spezzatini con carne di cinghiale o altra selvaggina varia, come la lepre o il più domestico coniglio.

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Sì, lo sappiamo cosa state pensando: è il classico comfort food da impiattare in un bel piatto fondo, da mangiare piano piano, magari con qualche fetta di pane casereccio. Cosa si potrà mai sbagliare, in uno spezzatino? Beh, in realtà molte cose. Ve ne elenchiamo tre, che sono gli errori più comuni che potete commettere nel fare uno spezzatino, così da derubricare definitivamente il nostro dai piatti “semplicioni”, così da ottenerne uno a regola d’arte 01. Scegliere la carne sbagliata. Quante volte vi sarà capitato di trovare pezzi duri, o troppo molli, o con un saporaccio? L’errore, spesso, è a monte. Una selezione sbagliata delle carni per lo spezzatino darà spesso risultati decisamente dimenticabili. Una selezione giusta, invece, con le proporzioni adatte di grasso:magro, vi darà risultati più che soddisfacenti. 02. Metodi di cottura non adatti. L’altro tasto dolente, dopo la selezione non accurata della carne, è utilizzare metodi di cottura non adatti al nostro scopo. Lo spezzatino si deve letteralmente “sfaldare” sotto la lingua, non deve attaccarsi ai denti, deve essere caldo ed avvolgente, non essere stoppaccioso tipo foglio di cartone. 03. Calcolare male i tempi. Questa è la diretta conseguenza (e qualche volta, anche la causa) del nostro spezzatino venuto male: carni lasciate stracuocere, nel tentativo di renderle morbide e succose allo stesso tempo, senza criterio alcuno.

CRIMSON CREST 5+ Wagyu F1 Crossbred del Megastore / 1 l di brodo di manzo / un cucchiaio di rub Tennessee della linea Sal’s Seasoning / un gambo di sedano / una carota / una cipolla / un gambo di sedano / mezzo bicchiere di passata di pomodoro / un cucchiaio di concentrato di pomodoro / 500 g di funghi misti / due spicchi d’aglio / prezzemolo a piacere / sale e pepe q.b. / olio extravergine di oliva q.b Tagli di carne alternativi: Top Blade SRF 6 o Flat Iron SRF 6+ ; Top Blade o Flank Shimofuri Farms

PREPARAZIONE 1. Asciugate bene i cubi di carne, poi ungeteli bene e cospargeteli col rub, poi preparate il vostro dispositivo per una cottura diretta, utilizzando il wok o la cocotte. Versate poco olio anche nel tegame scelto, poi rosolate la carne in modo che si formi un po’ di crosticina ma dentro rimanga completamente cruda. Togliete la carne dal tegame e. con un po’ di brodo caldo, togliete i residui, che terrete da parte insieme alla carne. 2. Tritate sedano, carote e cipolla e nello stesso tegame in cui avete cotto la carne versate un filo d’olio e soffriggete le verdure tritate. Aggiungete a questo punto i cubi di ciccia, poi il pomodoro, il concentrato e un poco di brodo caldo. Aggiustate di sale e di pepe e poi coprite il tegame e lasciate che prenda il bollore. Fate attenzione a non usare calore troppo elevato perché lo stufato deve sobbollire e non cuocere in modo troppo violento. Lasciatelo andare. Se dovesse asciugarsi troppo in cottura, continuate a bagnarlo con un po’ di brodo. 3. Pulite i funghi e riduceteli a fettine e a pezzetti. Tritate bene i due spicchi d’aglio e poi, in un pentolino a parte rosolate i funghi, con aglio e olio. Salate, pepate e lasciateli cuocere per circa venti minuti. 4. Quando la carne sarà tenera (impossibile darvi i tempi, ma ricordate che stiamo parlando di ciccia extra marezzata che ridurrà significativamente iI tempo di cottura, poiché la carne è già morbida in partenza), aggiungete al tegame con lo spezzatino anche i funghi, lasciate che il tutto si amalgami bene, poi se è necessario fate ritirare un po’ il sugo e servite lo spezzatino caldo con tanto pane tostato e abbondate prezzemolo tritato.

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Ora: prendete questi errori e DIMENTICATELI, perché qui sul Magazine vi daremo la ricetta per lo spezzatino definitivo. Faremo uno spezzatino di Wagyu, utilizzando la carne del nostro Megastore, accompagnandolo con funghi. Siete pronti ad assaggiare la nostra versione dello spezzatino? Siamo certi che la porterete a tutte le cene di famiglia. Garantiamo noi.

Ingredienti per 4 persone: 500 g di Stew AUS

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Un primo semplice e raffinato?

TAGLIOLINI

CON LIMONE E CAVIALE

Proporre un primo piatto durante le festività non è proprio una faccenda semplicissima: spesso i pasti sono lunghi e mal si potrebbe sopportare la presenza di un primo piatto invadente. Come accontentare, poi, gli irriducibili dei primi? Solitamente, serve una soluzione che permetta a tutti un assaggio, senza appesantire in vista dei secondi piatti, sovente ancora più ricchi. Bisogna trovare una soluzione che non sacrifichi il gusto: i tagliolini al limone e caviale potrebbero fare al caso nostro. La preparazione non è delle più complesse, ma non sarete tacciati di essere frettolosi e poco attenti. Inoltre, la selezione e l’aggiunta del giusto caviale renderà questo assaggio prelibato e raffinato.

I tagliolini sono un formato di pasta che vede l’aggiunta di uovo tra gli ingredienti. Tipici di gran parte delle regioni italiane, in Molise e Piemonte sono così diffusi da aver guadagnato un posto tra i Prodotti Agroalimentari Tipici, su apposito registro. I tagliolini sono, solitamente, di diametro molto piccolo: non dovrebbero superare i 3 millimetri. Non di rado, si fanno in casa: chi in famiglia ha un provetto pastaio non si esime dal cimentarsi nel “tirare” i tagliolini più sottili possibili. In ogni caso si trovano tranquillamente sugli scaffali dei supermercati, prodotti sia da pastifici su larga scala che dai piccoli produttori locali. L’abbinamento di questa tipologia di pasta con il limone è molto comune, poiché si presta bene per sughi leggeri: in questo caso, la cremosità e l’acidità data dal succo e scorza di limone sono perfetti.

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Visto che non andremo ad utilizzare il solo succo di limone ma anche la sua scorza, è importante che i limoni abbiano la buccia edibile, cioè non trattata con farmaci che potrebbero arrecare danni alla salute. Per quanto riguarda la tipologia, sarebbero perfetti i limoni di Sorrento, con la polpa non troppo tenace, il profumo medio e il gusto non troppo acido. Per quanto riguarda la nota amplificatrice, cioè il caviale, grazie ai rivenditori di eccellenze abbiamo l’imbarazzo della scelta… scelta che, ad onor del vero, non è sempre così semplice. Al di là di quegli invitanti barattolini da pochi grammi che spesso si trovano nei banchi frigo dei supermercati, esiste un mondo sommerso di commercio e conoscenza del caviale. Queste piccole uova di storione, lavorate e salate, sono state da sempre oggetto di scambio molto pregiato.

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Senza scendere particolarmente nel dettaglio (ne avremo modo), vi lasciamo sei facili consigli su come scegliere il caviale: che vi rivolgiate ad un rivenditore di specialità gastronomiche oppure in un punto vendita gourmet, queste indicazioni potrebbero aiutarvi nell’amena attività dello spendere al meglio i vostri soldi.


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01. Prezzo Il caviale rosso può costare anche dai 5€ / 100 g, a salire. Si tratta, come intuibile, della varietà meno pregiata, ottenuta dalle uova della famiglia Salmonidae, cioè dei salmoni rosa. Il caviale nero (cioè quello ottenuto dalle uova di storione), decisamente più pregiato, parte da un prezzo di circa 60 € / 100 g. Diffidate da prezzi che si discostano molto da questo range, a meno che il venditore non sappia darvi sufficienti e comprovate motivazioni riguardo ai prezzi troppo alti oppure ingiustificatamente al ribasso. La qualità si paga – e voi lettori del Magazine lo sapete bene – e il sottocosto ci piace sempre poco. 02. Data di produzione. Sulla vostra confezione di caviale, troverete sia la data di lavorazione che quella di confezionamento. Tra queste due, sarà necessario un intervallo di massimo sei mesi. Se notate anomalie, desistete ed andate altrove a spendere i vostri soldini per il caviale. 03. Il caviale nero non va a peso. Sorpresa! Non potete rovinarvi le finanze acquistando mezzo chilo di caviale nero così, come se fosse una spigola. Viene venduto in vetro oppure in barattoli di latta. Meglio rivolgersi a rivenditori o brand di comprovata fiducia. 04. Quello rosso, invece, va a peso. Ma occhio: spesso è salato e pieno di conservanti, quindi la probabilità di essere fregati c’è. Anche stavolta, c’è da affidarsi a brand e rivenditori di fiducia. 05. L’occhio vuole la sua parte. Beh, come deve essere il caviale? I granuli (le uova, insomma) possono differire leggermente le une dalle altre, tondeggianti ed elastiche. Sul caviale “autentico” deve esserci il cosiddetto occhiolino, cioè un puntino di colore leggermente più scuro rispetto al resto.

Ora che sapete come scegliere un buon caviale, passiamo alla preparazione dei nostri tagliolini!

per i tagliolini: 400 g di farina / 4 uova / un pizzico di sale per il condimento: 50 g di burro / 3 limoni grandi / 3 cucchiai di panna fresca liquida / sale e pepe q.b. per terminare: 4 cucchiaini colmi di caviale (o più, secondo i vostri gusti)

PREPARAZIONE 1. Versate la farina su una spianatoia, formate la fontana e unite le uova. Mescolate prima con la forchetta, quindi proseguite con le mani, fino ad ottenere un impasto liscio, sodo e compatto. 2. Mettete l’impasto in frigo per un’ora circa, poi stendete la pasta con il matterello in una sfoglia molto sottile (oppure utilizzate il tirapasta): la sfoglia non dovrà superare i 5 mm. 3. Una volta che la sfoglia avrà raggiunto la grandezza giusta e il giusto spessore, arrotolatela su se stessa con l’aiuto di un canovaccio infarinato. Poi con un coltello con la lama lunga e liscia affettate il rotolo senza superate i 3 mm di spessore. Una volta pronti i tagliolini, spolverizzateli con altra farina e srotolateli, infine fateli asciugare sullo stendi pasta. 4. Tagliate a listarelle le scorze dei limoni ben lavati, poi mettetele in un pentolino con un po’ di acqua fredda, portatele ad ebollizione e fate cuocere per cinque minuti con coperchio; ripetete l’operazione due volte. 5. In un tegame largo, fate sciogliere il burro, poi untule le scorze del limone, la panna, il sale e il pepe. 6. Cuocete i tagliolini, scolateli al dente e fateli saltare nel sugo al limone con un po’ della loro acqua di cottura. Aggiungete anche il succo del limone e mescolate bene. Aggiustate di pepe e poi servite i taglioni con uno o due cucchiaini di caviale.

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06. Sapore e odore. Dopo aver acquistato, si passa alla prova gustativa. Un buon caviale non deve avere retrogusto di pesce; al contatto con le mucose della bocca, deve letteralmente scoppiare per poi sciogliersi.

Ingredienti per 4 persone:

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A signurina du mari

BUSIATE CON LA SPATOLA CAVOLICELLI, POMODORINI E PINOLI

Non si può tornare da un viaggio nel trapanese senza qualche pacco di busiate in valigia. Chi le ha assaggiate non può più farne a meno! Si tratta di un formato di pasta fatta solo con farina, acqua e un pizzico di sale, una sorta di maccheroni attorcigliati su se stessi, con la tipica forma a spirale cava al centro. Questo fa sì che la pasta cuocia alla perfezione e che trattenga benissimo il condimento. L’origine del nome è incerto: secondo alcuni deriva da un particolare ferro da maglia detto buso, che veniva utilizzato nel trapanese per lavorare lana e cotone, col quale si dava la forma a spirale alla pasta; secondo altri, il nome deriva dalla busa, ovvero lo stelo molto sottile dell’Ampelodesmos mauritanicus, graminacea tipica della macchia mediterranea, che veniva utilizzato sia per legare i fasci di spighe che per realizzate le busiate. In ogni caso, per preparare questi maccheroni basta avvolgere l’impasto intorno al ferro e poi dargli la forma desiderata attraverso la pressione col palmo della mano. Se non si possiede il ferro adatto, si può utilizzare anche uno spiedino di legno. Di solito vengono condite con il pesto alla trapanese, di cui vi abbiamo già parlato in passato, ma si prestano ad essere condite nei più svariati modi.

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Come sapete amiamo tantissimo la Sicilia e non potevano certo mancare mancare nel nostro menù delle feste perfetto! Questa volta abbiamo pensato di condirle con il pesce spatola, conosciuto anche come pesce sciabola e pesce bandiera. E’ inconfondibile, con quel corpo lungo e nastriforme, il colore argentato e la tipica espressione “arcigna”. Chiamato nel Messinese “a signorina du mari”, viene pescato soprattutto tra Campania, Calabria e Sicilia. Le sue carni sono gustose, delicate ma compatte, facilmente separabili dalla pelle e dalle lische, che comunque sono poche. E’ un pesce magro, ricco di proteine e, essendo appartenente alla famiglia del pesce azzurro, ricco di Omega 3.

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La nostra signorina si è trovata bene a braccetto coi cavolicelli, i pomodori ciliegini e i pinoli, per questo primo piatto ricercato e raffinato, che vediamo bene per il cenone di Capodanno.

Ingredienti per 4 persone: 500 g di busiate

corte / 350 g di pesce spatola gia sfilettato / 200 g di pomodori ciliegini / 100 g di pinoli / 150 g di cavolicelli già lessati / 2 spicchi d’aglio / sale e pepe q.b. / olio extravergine di oliva q.b. PREPARAZIONE 1. Scaldate in una padella l'olio con i due spicchi d'aglio schiacciati. Lavate e tagliate i pomodorini a metà. Non appena l'aglio inizia a sfrigolare, unite i pomodorini alla padella e lasciateli soffriggere a fiamma alta fino a quando non saranno appassiti e avranno formato il sughetto. 2. Tagliate i filetti di spatola in pezzetti piccoli, poi uniteli al sughetto, insieme ai cavolicelli. Aggiustate di sale e di pepe e lasciate cuocere il sugo per qualche minuto. Fate tostare i pinoli in una padellina a parte. 3. Lessate le busiate in acqua salata e poi saltatele in padella col sugo ottenuto, aggiungendo alla fine i pinoli tostati. 4. Servite immediatamente il vostro primo piatto e buon 2022!


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Un comfort food d’autore

RISOTTO AGLI SCAMPI

Il risotto agli scampi è un piatto delizioso e d’effetto. Semplice da preparare, si presta benissimo sia alle serate da passare in casa senza troppi impegni, sia alle cene più impegnative, come primo piatto non molto costoso. La ricetta può prevedere più varianti: quella classica prevede gli scampi per intero, ma esiste anche la versione con crema di scampi; altre versioni prevedono l’inserimento di vino nella ricetta o anche di cognac, rievocando gli anni Ottanta. Per quanto riguarda il riso, un’ottima scelta è rappresentata dal Vialone Nano: è un riso molto pregiato, uno dei nostri preferiti quando si tratta di preparare risotti. Infatti, grazie alle sue caratteristiche, si presta molto bene alle cotture dolci e prolungate, “catturando” i sughi e permettendo una buona cremosità del risultato finale. Originario del Veneto, ha guadagnato anche la denominazione IGP “Vialone Nano Veronese”. Per ottenere questa denominazione, il riso deve essere coltivato nelle zone bagnate dal fiume Tartaro. Per quanto riguarda la scelta e la cottura degli scampi, dovrete sceglierli molto freschi, visto che deperiscono subito. Per essere buoni, dovranno essere belli lucidi e rigonfi, la testa ben attaccata al corpo e essere privi di odore di pesce: l’odore giusto è quello dell’acqua di mare, salino. Qualora doveste affidarvi agli scampi surgelati, ne esistono di ottima qualità che garantiscono un piatto a base di crostacei gustoso e senza sacrificare troppo il portafogli. Tenete ben presente che la parte edibile è sensibilmente inferiore rispetto a quella acquistata: togliendo il carapace e le parti da eliminare, resta poco. Ad esempio: da un chilo e mezzo di scampi vi resterà, grosso modo, circa 600 grammi di cibo edibile. Gli scarti, però, possono essere utilizzati per un brodetto molto saporito.

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E da abbinare ad un buon risotto agli scampi? Un bel vino bianco: la scelta potrebbe ricadere su un Vermentino di Sardegna, mediamente strutturato e con note fruttate molto piacevoli.

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Ingredienti per 4 persone: 500 g di riso Vialone

Nano / 300 g di scampi sgusciati e puliti / una cipolla bianca / 8 scampi grandi interi / prezzemolo q.b. / succo di limone q.b. / olio extravergine di oliva q.b. / sale e pepe q.b. per la bisque: due cucchiai di trito di sedano, carote e cipolle / due cucchiai di olio extravergine di oliva; / le teste e i carapaci degli scampi; / mezzo bicchiere di cognac; / mezzo cucchiaio di concentrato di pomodoro; / mezzo lime; / abbondante ghiaccio per il brodo di pesce: una cipolla / tre spicchi d’aglio / un mazzetto di prezzemolo / 5 g di sale grosso / pepe in grani a piacere / 400 g di pesce (gallinella di mare, scorfano, triglie, sgombri ecc…) / mezzo cucchiaio di concentrato di pomodoro / olio extravergine di oliva q.b. / 2 litri di acqua PREPARAZIONE 1. Pulite gli scampi. In una padella, fate soffriggere il trito di verdure e poi spadellate tutti gli scarti dei crostacei a fiamma alta. Sfumate col cognac. 2. Evaporato l’alcol, aggiungete il concentrato di pomodoro, la spremuta di mezzo lime e il ghiaccio, in modo che i carapaci e le teste non si brucino in cottura. 3. Fate ridurre il tutto, frullatelo con un mixer a immersione e filtratelo con un colino cinese, ottenendo un concentrato molto denso. 4. Preparate il brodo di pesce: fate un soffritto con aglio, cipolla e prezzemolo, fate insaporire i pesci e poi aggiungete il concentrato di pomodoro. Unite l’acqua, il sale e il pepe e fate sobbollire il tutto per circa tre ore. Infine frullate i pesci e filtrate il tutto con un colino a maglie fini. 5. In un tegame aggiungete un filo d’olio e due o tre cucchiaini di bisque, mettete il riso e cominciate a banarlo col pesce. Aggiustate eventualmente di sale e di pepe.

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6. In un altro tegame, con altri due o tre cucchiaini di bisque e mezzo cucchiaio d’olio, saltate gli scampi puliti. Aggiungeteli al riso quando sarà a fine cottura. Nel frattempo grigliate gli scampi interi sul vostro dispositivo o piastrateli.

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7. Servite il riso caldo con due scampi interi per ogni piatto e aggiungete prezzemolo tritato a piacere, insieme al succo di limone per dare brillantezza al sapore.


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ARAGOSTA ALLA CATALATANA Così bella, così mediterranea.

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L’aragosta alla catalana è un piatto che, quando presente, catalizza letteralmente tutti gli ospiti del pasto. Monumentale, invitante, colorata: impossibile non notarla. Sovente, viene sacrificato il cuginetto astice al posto dell’aragosta, in quanto meno costoso e facilmente più reperibile. Il nome potrebbe facilmente suggerirci che le origini di questo piatto siano da collocare in Spagna: ma lo sappiamo bene, in un bacino così fertile di scambi culturali come il Mar Mediterraneo, che le ricette fanno viaggi immensi fin quasi a perdere le tracce della propria origine. L’aragosta alla catalana, in realtà, vedrebbe origine in Sardegna: durante il XIV secolo, infatti, gli spagnoli occuparono l’isola. In particolare, la città di Alghero assorbì così tanto gli usi e i costumi spagnoli da essere chiamata Barceloneta, cioè piccola Barcellona. Gli ingredienti locali si mischiarono piacevolmente per secoli, portando queste gustose ricette ai giorni nostri. Che sia aragosta oppure astice, l’impiattamento tradizionale di questo piatto è molto scenico: infatti, viene utilizzato il mezzo carapace del nostro prescelto beniamino come piatto di portata per contenere la polpa e i condimenti. Oltre al nostro crostaceo, gli ingredienti fondamentali sono olio extravergine d’oliva, cipolla bianca, pomodori, pepe, sale e succo di limone. Per l’aragosta e l’olio extravergine d’oliva, date piuccheunosguardo (semi-cit) al nostro Megastore: la linea Mazhara propone delle aragostelle mediterranee deliziose (o se volete esagerare, utilizzate una bestiola da 2 kg e mezzo, come abbiamo fatto noi per lo shooting di questo meraviglioso piatto!); la nostra selezione di olio extravergine d’oliva da sole olive siciliane, poi, parla da sola. Come non mai, è molto importante che gli ingredienti siano di qualità eccezionale: il crostaceo deve subire una lavorazione minima (deve essere soltanto sbollentato), quindi freschezza e qualità degli ingredienti giocano un ruolo determinante. Per quanto riguarda le cipolle, qualora fosse possibile, scegliete quelle di Giarratana: sono cipolle bianche molto grandi, croccanti, dal gusto medio non particolarmente persistente, amato anche da chi non ne mangia abitualmente. Per ciò che riguarda i pomodori, comprendiamo che non sia esattamente la stagione, ma cercate di scegliere quelli tondi da insalata non troppo maturi. L’aragosta alla catalana è perfetta come antipasto principale all’inizio di un pranzo o di una cena elaborati; senza troppe forzature, potrebbe essere anche un secondo piatto leggero, se lo prevedete in combo con altre pietanze più ricche. BBQ4All Magazine

E per l’abbinamento vino? Un buon Greco di Tufo sarebbe da manuale; anche se, visto pink trend, cioè il trend dei vini rosati, potreste concedervi qualcosa di più modaiolo ma di sicura qualità.

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I ngredienti per 4 persone: 1

aragostella del Mediterraneo Mazhara (circa 1 kg) / 1 cipolla di Giarratana abbastanza grande / 8 pomodori tondi insalatari non troppo maturi / olio extravergine d’oliva q.b. / il succo di 2 limoni interi / pepe nero in grani q.b. / sale q.b. PREPARAZIONE 1. P r o c u r a t ev i u n a p e n t o l a abbastanza capiente, riempitela di acqua e salatela. Poi, portate a bollore. 2. Una volta giunta a bollore l’acqua, calate all’interno della pentola l’aragosta. Dovrà sbollentare per circa 25 minuti. 3. Una volta sbollentata l’aragosta, lasciarla raffreddare nel liquido di cottura. 4. Una volta ben raffreddata, prelevate l’aragosta e tagliatela in due parti, incidendo con decisione il carapace per il senso della lunghezza. 5. Prelevate con cura la polpa dell’aragosta, tagliatela a tocchetti e riponetela in un’insalatiera. Conservate un mezzo carapace per il servizio. 6. Prendete la cipolla. Dopo averla sfogliata degli strati superficiali, tagliatela a rondelle grosse. 7. Fate la stessa cosa con i pomodori, tagliati a rondelle grosse. 8. In una ciotola, preparate un’emulsione di olio extravergine d’oliva, il succo dei due limoni, sale e pepe. 9. Versate l’emulsione nella ciotola, insieme ai pomodori e le cipolle a rondelle. Mescolate bene. 10. Con l’ausilio di un cucchiaio, “riempite” il mezzo carapace che avevate messo da parte con l’insalata di polpa di aragosta. BBQ4All Magazine

11. Servite su un piatto da portata MONUMENTALE, da mettere al centro tavola.

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ORATE E SARDE ALLA PIASTRA Non il solito pesciolino triste! Lo sappiamo, lo sappiamo: i pesciolini alla piastra hanno il sapore e il ricordo dell’ospedale. Ma solo perché ve li hanno sempre cucinati senza criterio! In questo numero del Magazine, vi proponiamo due pesci che, cotti sulla piastra, danno il meglio di sé: parliamo di orate e di sarde. L’orata è un pesce medio, non particolarmente grande: raramente raggiunge i 50 cm di lunghezza, con un massimo di mezzo chilo di peso. Il suo nome scientifico è Sparus aurata; vive generalmente lungo le coste del Mar Mediterraneo e dell’Oceano Atlantico, ma non è raro trovarlo stanziato in prossimità di laghi oppure alle foci dei fiumi. Sia il suo nome comune che il suo nome scientifico fanno riferimento alla sottile linea dorata che si trova fra gli occhi. Dal corpo ovale e compresso, ha il muso tozzo, e gli occhi grandi.

L’orata è un pesce dalle notevoli proprietà nutrizionali. La sua carne è magra e saporita, ricca di Omega3, fonte di proteine e ad alto contenuto di amminoacidi essenziali. Tutte queste caratteristiche rendono l’orata un pesce ideale per le diete a regime ipocalorico. Per quanto riguarda le sarde, invece, si tratta di uno dei pesci più diffusi nei nostri mari, soprattutto il Mar Mediterraneo. Il nome scientifico è Sardina plichardus. Se un occhio poco esperto può scambiarle con le sorelle alici, i più avvezzi ne riconosceranno subito le differenze. La sarda ha un corpo più tozzo e meno slanciato rispetto alle alici, ma sono più lunghe e generalmente più grandi. Per quanto riguarda le proprietà nutrizionali, le sarde sono una vera e propria miniera d’oro: ogni 100 grammi di sarde hanno ben 64 grammi di proteine, vitamine in quantità notevoli (tra le quali, la vitamina B12), notevole dose di calcio e fosforo. Inoltre, il basso tenore di carboidrati e colesterolo, le rendono perfette per regimi dietetici particolari. Le sarde rappresentano da secoli un notevole introito per chi ne commercia: infatti, agli albori delle industrie conserviere, furono tra i primi cibi ad essere inscatolati e venduti. Nel 1822 nacquero le famose sardine in latta di Nantes, cibo esportato in tutto il mondo e noto per l’abile manifattura. Sarde ed orate alla piastra rappresentano un secondo piatto completo e senza troppi intoppi: se trattate nel modo adeguato, le carni di questi pesci non diventeranno secche e bruciacchiate, ma riusciranno a conservare morbidezza e gusto.

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E’ una ricetta velocissima, semplicissima, con ottimo rapposto velocità/rendimento. Gli ingredienti sono essenzialmente due: il pesce e il limone (più olio e sale a piacere). Ma l’esplosione di sapore che avrete, una volta assaggiato il pesce in tutta la sua purezza, non potete nemmeno immaginarlo.

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Ingredienti per 4 persone: due orate di circa un kg l’una / un kg di sarde / due limoni / sale e pepe q.b. / olio extravergine di oliva q.b.

per la maionese rosa: la testa di un’aragostella / la punta di un cucchiaino di concentrato di pomodoro / olio extravergine di oliva q.b. / il succo di un lime / due cucchiai di maionese PREPARAZIONE 1. Pulite i pesci, senza desquamarli. 2. Scaldate la piastra, affinchè sia davvero rovente. 3. Asciugate bene i pesci, poi metteteli sulla piasta rovente facendoli rosolare qualche minuto per lato. Togliete i pesci dalla piastra e serviteli su un letto d’insalata e con abbondante limone da spremere.

Potete abbinare una salsa di accompagnamento: noi vi suggeriamo una maionese rosa 4. P r e p a r a t e i l vo s t r o d i s p o s i t i vo p e r u n a cottura diretta e grigliate la testa dell’aragostella. Poi scavatela, frullatela e mettetela in un pentolino con un po’ di concentrato di pomodoro e un pizzico di sale.

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5. Dopo qualche minuto spegnete il fuoco, lasciate raffreddare e poi emulsionate il tutto con olio e lime. Dovete ottenere un composto omogeneo e denso che aggiungerete alla maionese.

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Ma quanto è bona la

GIARDINIERA

No, non la signora che cura le vostre piante, ma quel contorno fatto da un assortimento di verdure in agrodolce, fresco, croccante e sgrassante. È il simbolo della conservazione del cibo, un grande esempio di non spreco degli alimenti, o di sostenibilità, coma va di moda dire oggi.

La giardiniera nasce principalmente in tempi antichi come metodo di conservazione per salvare la materia prima dei campi in eccesso al raccolto e per consentire al cibo più fragile di durare nel tempo, in modo che nei periodi invernali, quelli in cui si faceva più fatica a reperire alimenti, si avesse una scorta sicura di verdure in dispensa. Inizialmente pare venisse realizzata con le verdure crude in agrodolce, senza olio, solo con aceto e salamoia. La ricetta poi venne perfezionata nelle corti aristocratiche del Rinascimento. Era un metodo in uso già nei secoli X-XII nei monasteri e nei conventi della pianura padana, principalmente piacentini e cremonesi, ma anche mantovani, ferraresi e piemontesi. Questo delizioso insieme di verdure in agrodolce era considerato uno degli alimenti più salutari di tutto il Medioevo.

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Come veniva fatta? Prima si lavavano accuratamente le verdure in acqua preventivamente bollita e acidificata, poi si asciugavano bene ben asciugate. Si lasciavano appassire su canovacci (non espsosti direttamente al sole) per qualche giorno in modo che perdessero consistenza e si ammorbidissero, infine venivano tagliate a pezzi piccoli, messe nei vasetti e coperte abbondantementedi salamoia, aceto di vino bianco, zucchero e con varie erbe e spezie tipo cannella, chiodi di garofano e foglie di alloro. I vasi poi venivano conservati in un luogo fresco e buio, chiusi con tappi di legno e stracci. Fino al XVI-XVII° secolo non vi era altra sterilizzazione o creazione di sottovuoto: la colmatura e l’aceto dovevano bastare.

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La giardiniera era amatissima anche da figure illustri della cultura italiana, come Giuseppe Verdi e Giovanni Guareschi: rispettivamente, l'abbinavano a spalla cotta e cotechino lesso. Certamente non può mancare una nostra versione, perché è perfetta come antipasto ma anche come abbinamento ai cibi tipici delle tavole natalizie, quando vengono serviti i vari capponi ripieni o i bolliti misti, specie sulle tavole del centro-nord Italia. Anzi, invece di una versione ve ne diamo due: una classica e una in cbt del coach Virgilio Brunetti. Poi non dite che non siamo generosi! Vediamo dunque come realizzarle entrambe


GIARDINIERA CLASSICA

GIARDINIERA IN CBT

Ingredienti per 4 persone

Ingredienti per 4 persone

per le verdure: 2 peperoni rossi e gialli / 2 zucchine grandi / 2 cipollotti / 2 carote / 4 coste di sedano / 300 g di fagiolini / 4 litri di acqua / 200 g di aceto di vino bianco.

per le verdure: 500 g di verdure miste (peperoni, zucchine, rape rosse, carote, cavolo cappuccio, sedano rapa...).

per il liquido di conserva: 1,5 l di acqua / 115 g di glucosio / 0,5 l di aceto / 50 g di sale (grosso) / 5 foglie di alloro / grani di pepe a piacere / chiodi di garofano a piacere.

per il liquido di conserva: 100 g di acqua / 100 g di aceto di mele / 100 g di vino bianco / 30 g di zucchero / 20 g di sale

PREPARAZIONE

PREPARAZIONE

1. Per realizzare una giardiniera a regola d’arte, è fondamentale ricordare che l’acidità del prodotto deve essere inferiore a pH 4,5. E’ dunque altresì fondamentale dotarsi di cartine tornasole, in grado di misurare con precisione il pH.

1. ll vino bianco deve essere di ottima qualità e deve essere dealcolato per bollitura prima di assemblare il liquido di conserva. Dopo aver dealcolato il vino, preparate dunque il liquido di conserva.

2. Selezionate le vostre verdure, eliminando quelle troppo acerbe e quelle troppo mature. Date insomma la preferenz a quelle freschissime e turgide. Lavatele accuratamente e pulitele, poi tagliatele cercando di formare pezzi che si eguaglino in grandezza.

2. Tagliate tutte e verdure e poi dividetele con qualche accorgimento: i peperoni devono essere cotti a parte, perché altrimenti il loro sapore coprirebbe tutte le altre verdure; le rape rosse, il cavolo viola e altre verdure colore rosso devono essere cotte anch’esse in una busta separata altrimenti tutta la giardiniera si colora di viola.

3. Scottate le verdure in acqua acidulata (50 g/l) un tipo per volta: fatele bollire per pochi minuti (non più di 4) e poi fermate la cottura in abbondante ghiaccio. 4. Preparate il liquido di conservazione facendo bollire tutti gli ingredienti per un quarto d’ora. 5. Sterilizzate i vasetti facendoli bollire per mezz’ora in abbondante acqua (che deve ricoprirli completamente), insieme ai loro coperchi. Poi metteteli ad asciugare a testa in giù, su uno strofinaccio pulito. 6. Una volta che le verdure saranno tutte sbollentate e raffreddate col ghiaccio, mettetele nei vasetti insieme al liquido di conserva, riempiendoli fino al collo ( non andate oltre) e aiutandovi con un pressino per fare in modo che nessun ortaggio rimanga scoperto. 7. Chiudete bene i vasetti, poi avvolgeteli negli stracci e copriteli interamente con l’acqua fredda, mettendoli in un pentolone capiente. Portete il tutto a ebollizione e fateli bollire per mezz’ora.

Dal giorno successivo la vostra giardiniera sarà pronta e potrete conservarla in frigo (consigliamo di non superare un anno di conservazione).

4. Cuocete a 82° per due ore in acqua, suddividendo però la fase di cottura in due parti: 60 minuti a 82°, poi abbattete con ghiaccio e cuocete di nuovo per altri 60 minuti, sempre 82°. 5. Alla fine del processo il prodotto sarà conservabile a 4° per sei mesi, sarà perfettamente acidificato e pastorizzato. Questa Giardiniera è ottima per il consumo dopo una settimana dalla cottura: può essere mangiata così, come accompagnamento di bolliti e arrosti, ma anche scolata e fatta saltare nel wok con poco olio e servita come contorno sfizioso in agrodolce. BBQ4All Magazine

8. Trascorso il tempo necessario, il sottovuoto si dovrà essere formato: a quel punto estraete i vasetti, verificate che il centro del coperchio, una volta premuto, non si muova e non faccia alcun rumore, e mettete i vasetti a raffreddare a temperatura ambiente a testa in giù.

3. Una vota tagliata la verdura e separata come consigliato, mettetela nelle buste (non è necessario possedere una macchina per il sottovuoto a campana, basta saldare le buste con una macchina ad estrazione) insieme al liquido di governo. Se non avete le buste, potete metterle nei vasetti.

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Con le mani nella

MARMELLATA Sì, ma di ARANCE e poi spalmata sul PANETTONE GRIGLIATO

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Mettiamo subito le carte in tavola: marmellata e confettura non sono la stessa cosa. E’ vero che entrambe sono prodotti a base di zucchero e frutta, ma la prima è il risultato dell’unione tra l’elemento dolce e i soli agrumi (limone, arancia, bergamotto, pompelmo, mandarino, e cedro), mentre la seconda utilizza la restante vasta gamma fruttifera. Questa differenza è sancita ufficialmente dalla direttiva europea 79/693 del 1979, recepita in Italia tre anni dopo con il DPR n. 401 del 1982, dove si stabilisce che possono definirsi (in parole povere e brevemente) marmellate tutti i prodotti a base di zucchero e agrumi dove la polpa superi il 20% del totale e che possono definirsi confetture tutti prodotti a base di zucchero e frutta la cui polpa superi il 35% del totale.

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Questa informazione sembra non aver mai oltrepassato la cerchia degli addetti ai lavori, visto l’uso indiscriminato della parole marmellata e confettura, considerate l’una il sinonimo dell’altra. In parte questa confusione ha una sua giustificazione: il metodo di cottura di entrambe è praticamente identico se non per qualche piccola variazione. L’arte di conservare in questo modo gli alimenti, nata dalla necessità di preservare i raccolti fruttiferi per l’alimentazione invernale (momento dell’anno più scarno di colture), ha origini molto antiche: il Faraone Ramses II il Grande apprezzava le composte realizzate con frutta miele ed erbe aromatiche; i greci le realizzavanodi mele cotogne, cuocendole lentamente con il miele, mentre i romani aggiunsero al processo di preparazione il vino (per amore della precisione, ad oggi la composta si differenzia dalla confettura per il minor quantitativo di zucchero e per la maggior presenza di frutta).

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La ricetta conobbe la sua svolta nel Medioevo con l’arrivo dello zucchero di canna, rendendo di fatto la realizzazione dell’epoca non molto dissimile dall’attuale. Ovviamente era un prodotto dedicato alla classe privilegiata, visto l’elevato costo degli elementi dolcificanti.

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Nello specifico la marmellata di arance quando è nata?

Ingredienti per 4 persone: 1 Panettone Classico alle

Secondo una leggenda cantata dai menestrelli nelle corti europee nacque nel rinascimento per curare una grave carenza di vitamina C della regina Maria de’Medici (sposa di Enrico IV re di Francia). Dopo che il medico emise la diagnosi furono inviati degli uomini in Sicilia per recuperare le arance, ma durante il lungo viaggio di ritorno i frutti iniziarono a deperire, per cui furono trasformati in un dolce composto. Sempre secondo la leggenda, su ogni vasetto fu posta l’etichetta “pour Marie malade”, da cui si dice nasca la parola marmellata associata alle preparazioni con gli agrumi. Secondo altri invece il termine viene dal portoghese marmelada, con cui si indicava un preparato a base di mele cotogne. Dal latino melimēlu(m), derivato a sua volta dal greco melímēlon: miele e mele. Questo, ovviamente, prima che la Comunità Europa facesse la distinzione rigorosa di cui parliamo all’inizio.

per la marmellata: 1 kg di arance Navel già pulite / 500 g di zucchero semolato / il succo di un limone

Sicuramente, la marmellata è un alimento molto versatile (come la confettura): ottima come farcitura di biscotti, crostate e brioche, ma anche mangiata sul pane imburrato e, perché no, spalmata su una bella fetta calda di panettone appena grigliato. Sì, avete letto bene, grigliato. Per mangiare al meglio il panettone si consiglia di scaldarlo in forno: noi vi proponiamo di andare oltre grigliando sul fuoco ogni singola fetta. Il calore diretto creerà sulla superficie una deliziosa e dorata crosticina croccante (grazie alla sempre nota reazione di Maillard); inoltre amplificherà il profumo del panettone e ,ammorbidendo il burro, renderà la pasta sofficissima. Il tutto sarà incorniciato dalla dolcezza della marmellata di arance che, sposandosi alla perfezione con i sapori dell’uvetta, della frutta candita, della vaniglia e delle nocciole, renderà meravigliosa l’esperienza gustativa.

Nocciole GLC Top Selection

PREPARAZIONE 1. Sbucciate le arance rimanendo il più possibile in superficie, evitando di tagliare la parte bianca (perché amara). Tenete da parte solo la buccia di 2 arance. 2. Terminate di sbucciare l’agrume e poi suddividetelo in tanti tocchetti. 3. Pesate le arance, ricordate per ogni kg di frutta ci vuole mezzo kg di zucchero. Mettete gli agrumi, lo zucchero e i succo di limone in una padella ampia e capiente e lasciate cuocere a fiamma medio bassa per 45 minuti, ricordandovi di mescolare spesso. 4. Nell’attesa prendete le bucce messe da parte e tagliatele a striscioline sottili, dopodiché bollitele per due volte in acqua calda per tre minuti, in modo che perdano in parte il loro sapore amaro. 5. Terminato questo passaggio inseritele nel composto sul fuoco. Fate molta attenzione all’ultima fase di cottura, perché il composto potrebbe attaccarsi sul fondo e bruciarsi. 6. Prendete dei vasetti precedentemente sterilizzati, versate la marmellata all’interno, chiudete e capovolgete il tutto, in questo modo si creerà il sottovuoto. Se volete però essere ancora più sicuri, dopo aver proceduto con la sterilizzazione potete effettuare la pastorizzazione dei vasetti già riempiti, avvolgendoli in panni di cotone e mettendoli in una pentola. Riempite con dell’acqua non calda (a temperatura ambiente va benissimo) fino al raggiungimento del tappo. Portate sul fuoco e dal momento della bollitura calcolate 25 – 30 minuti di pastorizzazione. Passato il tempo spegnete il fuoco e lasciateli nella pentola fino al raffreddamento, in cui dovrete sentire il tipico “clack” del coperchio: vuol dire che la pastorizzazione è andata a buon fine. 7. Preparate il vostro dispositivo per una cottura diretta, mezza ciminiera di bricchette sarà più che sufficiente.

9. Servite la fetta calda agli ospiti, fornendo ad ognuno una coppetta di marmellata. Non solo la finiranno ma vi chiederanno anche il bis.

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8. Tagliate il panettone a fette e grigliatelo qualche minuto per lato, deve solo acquistare una leggera doratura.

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L'Arte Bianca a cura di Alessandro Trezzi

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eam pandoro o team panettone? Sicuramente, almeno una volta nella vita, vi sarete trovati davanti a questo enorme dilemma, a dover scegliere tra l’uno e l’altro per qualsiasi motivo. Amici e parenti vi avranno chiesto cosa avreste preferito per cena, e avrete magari partecipato a qualche insulsa battaglia per gridare il vostro insindacabile parere sul vostro grande lievitato preferito. Di guerre e di campanilismi il nostro Paese è fin troppo pieno, anche quando non è necessario. Sebbene ammetta di preferire l’incredibile complessità del panettone, il pandoro non è certo un dolce banale, anzi; semplicemente, non è comparabile in quanto a celebrità, ed è quindi ben più stretta la differenza tra una versione buona e una meno buona. Come tutte le cose “semplici e non banali”, tuttavia, un pandoro perfetto può farvi letteralmente cappottare dalla sedia.

Storia e leggenda L’origine certa del pandoro è commerciale. Il signor Melegatti, allora proprietario di una drogheria nel centro di Verona, richiede ed ottiene l’attestato di privativa industriale (il brevetto dell’epoca) dal Ministero di Agricoltura e Commercio del Regno d’Italia per la sua nuova invenzione dolciaria, il pandoro. Era il 14 ottobre 1884.

La leggenda vuole che l’etimologia sia nata da un grido di stupore di un garzone dell’allora drogheria Melegatti alla vista di questo dolce, dal colore dell’impasto simile all’oro: “L’è proprio un pan de oro!” Sebbene di storie si tratti, il nome “pandoro” fa chiaramente riferimento al colore di questa pasta lievitata molto gialla. Il riferimento al Pane d’oro era però già stato utilizzato commercialmente anni prima rispetto all’anno del brevetto: nel 1871 un certo Cesare Capri di Verona lo aveva portato ad un’esposizione regionale descrivendolo come “un panettone di pasta dolce”. Il nome pandoro potrebbe anche derivare dal pan de oro della Serenissima, di cui non abbiamo tuttavia notizie certe; sembra che nelle case dei patrizi veneziani si consumasse, durante le feste, un pane ricoperto da una foglia d’oro. In ogni caso, il riferimento all’oro deriva sicuramente dal colore del pane: il consumo di pane bianco era di norma destinato solo ai più ricchi, e lo stesso lievitato bianco appariva come cibo lussuoso. Moltissimi fanno discendere il pandoro dall’antico dolce veronese chiamato Nadalin; si tratta di un lievitato ricoperto da un impasto di pinoli lavorati con lo zucchero (la pignocada) e granella di mandorle. Secondo gli studi di Andrea Brugnoli, si trovano menzioni di questo dolce già a partire dalla metà del Settecento nei documenti delle corporazioni dei festari o scalettéri, ovvero le corporazioni dei produttori di dolci che potevano preparare una

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Per realizzarlo aveva perfezionato una ricetta secolare delle famiglie veronesi, un dolce a cui spesso si dava la forma di una stella a otto punte. Melegatti affidò la realizzazione di un disegno per uno stampo ad un amico, il pittore impressionista Angelo dall’Oca Bianca, che aveva partecipato diverse volte alla Biennale veneziana ed era stato premiato all’Esposizione universale di Parigi. Melegatti si impegnò così tanto per il lancio commerciale che propose addirittura un concorso con in palio mille lire (una discreta somma per l’epoca) che sarebbe andata da chi fosse riuscito a riprodurre il dolce perfetto in casa. Fu l’inizio di qualcosa di grande; oggi, nella vecchia sede veronese della sua pasticceria, c’è lo storico

palazzo Melegatti-Turco-Ronca, e sopra la balaustra delle terrazze laterali due pandori in tufo.

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versione di pane dolce ricoperta di pinoli e zucchero. Ai pistori (i panettieri) era invece permesso solo aggiungere zucchero alla pasta lievitata. Il Nadalin viene considerato un antenato del pandoro non tanto per la sua ricetta (che prevede anche la frutta secca) ma perché era confezionato a forma di stella ad otto punte, pur trattandosi di un dolce molto meno sviluppato del pandoro, a pasta dura, con le punte formate a mano prima della lievitazione. Se dal Nadalin il pandoro ha tratto la forma, la ricetta probabilmente deriva dal pane di Natale del monastero femminile di San Giuseppe a Fidenzio. Analizzando i registri di spesa della casa veronese Del bene, il 21 dicembre del 1790 si acquistarono 500 uova oltre a una grande quantità di burro e di zucchero per la realizzazione dei pani di natale (la farina, probabilmente, era già presente nella dispensa del monastero). La trasformazione dei dolci di Natale antichi nel pandoro avvenne probabilmente verso la metà dell’800. Dal 1814 Verona cadette sotto il dominio austriaco; e a partire dagli anni ’50 iniziarono a registrarsi cambiamenti nei dolci tradizionali di Natale, che cominciarono a lievitare molto più di quello a cui erano abituati i veronesi in accordo con le peculiarità della pasticceria viennese.

Il pandoro perfetto

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Con il termine “pandoro” oggi intendiamo un dolce lievitato di forma alta e tronco-conica, con basamento circolare e forma del corpo a stella a otto punte. All'esterno è color bruno, mentre all'interno

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rimane giallo chiaro; la pigmentazione è uniforme e solo l'eventuale aggiunta di zucchero a velo ne modifica l'aspetto. Per la realizzazione del pandoro vengono generalmente impiegate farina bianca di grano tenero, lievito naturale, uova, zucchero e burro. Aspetto e consistenza sono i primi parametri di giudizio per valutare un buon pandoro: • La crosta esterna deve essere di color marrone chiaro, uniforme, senza segni di bruciatura; al tatto deve presentarsi morbida ed elastica; • La forma deve essere armonica, geometrica, perfettamente strutturata senza collassi e cedimenti; • La mollica interna deve presentare un’alveolatura fine e diffusa, uniforme, di un colore giallo chiaro tendente al dorato; strappandone un pezzo deve filare, risultare soffice e per nulla asciutta. Inoltre, al gusto il pandoro deve risultare fresco, intenso ed equilibrato, senza eccessi di note grasse, acide opulente. Un vero pandoro profuma e sa di uovo, burro, vaniglia e panna fresca. Vogliamo vedere come si fa?

Il lievito madre Come per il panettone, anche qui c’è poco da fare: potete fare un pandoro con il lievito di birra, ma non avrà mai la struttura e l’effetto cotone di un prodotto realizzato con un lievito madre dalle giuste caratteristiche. L’acidità apportata all’impasto grazie a questo particolare prefermento è in grado di conferire al glutine le caratteristiche necessarie per sostenere la massa durante tutte le fasi, per sorreggere il peso di ingredienti “tosti” come i grassi e le uova, per sviluppare una mollica filante, e per garantire infine una shelf life adatta allo scopo per cui il panettone è stato pensato: essere prodotto in anticipo e consumato anche un mese dopo. Tuttavia, farla troppo semplice è il più grande errore che possiate commettere. Il lievito madre è una coltura complessa di lieviti e batteri con


un delicatissimo ecosistema vivente, che cambia in continuazione ed è direttamente influenzato dalle operazioni fatte per il mantenimento. Di fatto, nient’altro si tratta che un impasto di acqua e farina lasciato maturare per un tempo più o meno lungo; durante questo periodo i lieviti e i batteri presenti nell’aria e nella farina avviano il processo di fermentazione. La sua gestione richiede una pratica di rinfresco costante a intervalli regolari, ovvero il nutrimento di questo organismo con nuova acqua e farina, e quindi nuovi zuccheri per i lieviti e un ambiente stabile per le reazioni enzimatiche. Ciò è fondamentale per mantenere il pH intorno al valore di soglia, ovvero 4.1, che tradotto significa avere un lievito madre dal profumo equilibrato simile a quello dello yogurt. Principalmente ne esistono due versioni, solida (con un’idratazione del 45-50%) e liquida (con un’idratazione del 100%). La forma liquida è la più utilizzata per il pane, in quanto non solo è immediata nel rinfresco e nella gestione quotidiana ma soprattutto perché l’elevata presenza di acqua accelera l’attività enzimatica regalando una maglia glutinica più estensibile e un sapore più pungente a causa della presenza di acido acetico e alcol; l’acidità pronunciata aiuta a far legare le proteine di cereali deboli come la segale e aumenta la croccantezza della crosta.

La strumentazione Se anche voi foste degli abili MacGyver tuttofare, difficilmente potrete scampare dall’obbligatorietà di quanto sto per dirvi: senza lo stampo adatto, non potrete realizzare un pandoro degno di nota. Il motivo pare piuttosto scontato: la forma di questo dolce è talmente particolare che difficilmente potrete replicarla a mani nude. Di importanza essenziale è inoltre il materiale dello stampo, un ottimo alluminio; conducendo il calore in maniera docile ed equilibrata, eviterà di bruciare il vostro capolavoro e donerà una colorazione più uniforme possibile alla crosta esterna. Detto questo, devo sconfiggere anche un’altra convinzione, per quanto sia abbastanza certo di spezzare parecchi dei vostri cuori: l’impasto per pandoro è molto complesso e richiede, per la perfetta riuscita, una maglia glutinica in perfetto stato. Motivo per cui è altamente sconsigliato impastare a mano, in quanto non avreste la forza e la costanza di una macchina che vi consentirebbe di andare sul sicuro. Lavorate con una planetaria o, se la possedete, con un’impastatrice a spirale/braccia tuffanti, e il vostro risultato sarà garantito.

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Per quanto riguarda i grandi lievitati invece, si utilizza la versione solida per lo scopo: una struttura salda, spinta verso l’alto e una maglia glutinica ben sorretta grazie alla prevalenza di acidi organici, mollica morbida e aromatica grazie all’acido lattico. Per questi prodotti tuttavia la vostra pasta madre deve essere in perfetto equlibrio; non basta che un lievito raddoppi in 3 ore per essere considerato pronto, è fondamentale che sia bilanciato nei profumi e senza punte di acidità evidenti. Per questo motivo è importante una pratica di rinfresco serrato nel periodo precedente alla produzione.

Il lievito solido viene spesso avvolto in un panno e legato per rallentare la fermentazione, o lavato in una soluzione di acqua e zucchero per disperdere i microorganismi indesiderati che ne rallentano l’azione, ma se avete rinfrescato correttamente circa 3 volte al giorno non dovreste mai averne bisogno.

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Il riposo

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Come il fratello panettone, anche il pandoro necessita di più fasi di riposo, necessarie per incorporare tutti gli ingredienti mantenendo l’impasto strutturato e carico, pronto per la crescita finale: 1. Si parte dal rinfresco del lievito, che deve mostrarsi in forma perfetta prima di essere inserito nel pandoro; anche in casa spendete non pochi spiccioli per ingredienti di massima qualità, quindi se non siete sicuri del vostro lievito non iniziate nemmeno ad impastare, o potreste dover buttare tutto. Una buona idea è quella di fare, lo stesso giorno, tre rinfreschi consecutivi: uno alle 8.00, uno alle 12.00, uno alle 16.00, per poi preparare il primo impasto alle 20.00; 2. Dopo la preparazione del primo impasto (fatto di lievito, zucchero, farina, uova e burro) si lascia lievitare per 10-12 ore, fino a che non avrà triplicato di volume; è fondamentale che questo requisito sia rispettato per non incorrere in ritardi nelle tempistiche del secondo impasto; 3. Si prepara il secondo impasto (con farina, sale, malto, tuorli e panna) e si lascia riposare per 30 minuti. Dopo le doverose pirlature, si lascia riposare altri 15-20 minuti perché si stabilizzi; 4. Si rovescia l’impasto nello stampo precedentemente imburrato, si copre con pellicola e si attende 4-6 ore che arrivi alla sommità, per poi cuocere. Il riposo non è un lusso, ma un ingrediente; fare di testa propria con i tempi e le temperature di fermentazione è il modo più facile per fallire, tenetelo bene a mente.

INGREDIENTI

per un pandoro da 1 kg Primo impasto 80 g di lievito naturale; 95 g di zucchero semolato; 260 g di uova; 110 g di burro; 315 g di farina 00 (320-350 W). secondo impasto 55 g di farina 00 320-350 W 5 g di sale 4 g di malto 55 g di tuorli 20 g di panna fresca emulsione 120 g di burro 55 g di zucchero semolato 25 g di burro di cacao grattugiato o micronizzato 10 g di miele 1 bacca di vaniglia


EMULSIONE Preparate l’emulsione la stessa sera del primo impasto, per poi conservarla a temperatura ambiente coperta da pellicola fino al giorno successivo. In una ciotola riunite il burro a pomata (tenendolo a temperatura ambiente per un paio d’ore) con tutti gli altri ingredienti e montate fino ad avere una crema omogenea. Coprite con pellicola e lasciate riposare. PRIMO IMPASTO Riunite nella ciotola della vostra macchina la farina, la pasta madre spezzettata e metà delle uova. Nel caso in cui la vostra macchina non sia dotata di gancio a spirale, evitate di usare l’uncino e lavorate con la foglia. Fate partire la macchina per circa 10/15 minuti fino a formare un impasto liscio, omogeneo ed elastico; a questo punto aggiungete poco alla volta le uova rimaste fino al completo assorbimento. Aggiungete lo zucchero in più riprese e successivamente sempre in più riprese il burro a pomata. Fate attenzione a non lavorare troppo l’impasto, misurate costantemente la temperatura con il termometro e se vi accorgete di avvicinarvi ai 26°C fermatevi, riponete il tutto in freezer per 10 minuti e tornate alla carica. Impastate fino ad ottenere un composto liscio, setoso, omogeneo ed elastico, a una temperatura di 24°C-25°C.

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PRIMA LIEVITAZIONE Ribaltate l’impasto sul piano e pirlatelo con un tarocco senza usare farina. A questo punto riponetelo in un contenitore stretto dai bordi alti e dritti, e segnate con un

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elastico il punto di partenza; coprite ermeticamente e lasciate lievitare in un luogo con temperatura costante di 25-26 °C, come il vostro forno spento con luce accesa. L’impasto deve assolutamente triplicare (1+2), e se riusciamo ad avere un ambiente stabile sarà pronto in circa 10/12 ore. Se trascorso Il tempo l’impasto non risultasse pronto, attendere il completo sviluppo, in quanto anticipare i tempi significherebbe ottenere un prodotto finito con un alveolatura irregolare, oltre ad allungarvi le lievitazioni successive costringendovi a cucinare di notte.

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SECONDO IMPASTO Abbiamo realizzato il nostro impasto alle 20.00, e terminato il tutto intorno alle 21.00? Bene, intorno alle 8.00-9.00 di mattina sarà pronto. Se la vostra macchina tende a scaldare parecchio, riponete l’impasto in freezer per 20 minuti, in modo da partire con una massa più fredda. Inserite nella ciotola metà del primo impasto, la farina e il malto, fate partire a velocità minima e alzate successivamente e fate amalgamare bene il composto. Quando avrete una massa liscia aggiungete l’altra metà del primo impasto e il sale. Una volta che l’impasto sarà incordato, aggiungete in più volte i tuorli e lasciate lavorare fino al completo assorbimento; dovremo assolutamente ottenere un impasto liscio, elastico e asciutto A questo punto versate in 3-4 volte la vostra emulsione, senza mai perdere l’incordatura, ed infine regolate la consistenza dell’impasto con la panna, sempre aggiunta in 2-3 volte.

SECONDA LIEVITAZIONE (ed eventuale formatura) Avete impastato intorno alle 9.00 e finito verso le 10.00? To gliete l’imp asto dalla macchina, riponetelo in un contenitore a chiusura ermetica e lasciatelo riposare 30 minuti, a circa 26-28 °C. Dopo questo periodo, ribaltate la massa sul piano, e lasciatela puntare all’aria per circa 15 minuti perché si asciughi. La nostra ricetta ha le dosi esatte per 1200 grammi di impasto; tendenzialmente, per un dolce lievitato da 1000 grammi si calcola un 10% in più, contando il peso perso durante la cottura. L’eccesso è per essere sicuri che, perdendovi per strada delle quantità durante le lavorazioni, non finiate con l’avere masse di peso insufficiente. Se doveste aver bisogno di realizzare 2 o 3 pandori, vi basta moltiplicare ogni ingrediente per la dose desiderata. A questo punto quindi pesate bocce da 1100 grammi, e formate i panetti con il tarocco senza mai usare farina. Lasciate quindi puntare sul banco per altri 15 minuti o più, fino a che la massa non sarà asciutta. Pirlate nuovamente, attendete altri 15-20 minuti e sarete pronti per la fase successiva. TERZA LIEVITAZIONE Dopo circa 1 ora di riposo (tra contenitore e banco), sono le ore 11.00. Ponete il panetto nel vostro stampo precedentemente imburrato, con la chiusura (la parte che prima era appoggiata sul piano (su una faccia laterale; coprite con pellicola e lasciate a lievitare a 26°C-28°C per 4-6 ore. Il nostro pandoro è pronto per

la cottura quando è arrivato a 2 cm dal bordo dello stampo, non uno di più, non uno di meno. COTTURA Pre-riscaldate il forno a 150°C in modalità statica; nel frattempo, riportate il dolce a temperatura ambiente scoprendolo dalla pellicola per lasciare asciugare la base. Prima di infornare, con uno stecchino praticate dei fori sulla cupola per evitare la formazione di grosse bolle d’aria. Infornate in modo che il pandoro non sia né troppo vicino alla base o alla sommità del vano cottura. Ci vorranno circa 50/55 minuti, ma in ogni caso la temperatura al cuore dovrà essere di 9°C. N e gli ul t im i 1 0 m in u t i , socchiudete leggermente la porta del forno, magari aiutandovi con una pallina di stagnola, in modo da far uscire il vapore in eccesso e colorare la base. Se il vostro forno non è professionale e, anzi, fatica a tenere la temperatura, scordatevi di inserirne due alla volta; in quel caso il rendimento potrebbe calare drasticamente. RIPOSO E CONSERVAZIONE Una volta sfornato il vostro pandoro, dovrà rimanere nello stampo per almeno un’ora. A questo punto giratelo, liberatelo delicatamente dallo stampo e lasciatelo raffreddare almeno 10 ore prima di confezionarlo. Per conservarlo per lunghi periodi, nebulizzate all’interno di un’apposita busta alcool puro a 95°, che ridurrà il rischio della formazione di muffe.


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It’s Christmas Time Across the Pond a cura di Elena Ninotti

... anche in Florida!

Il Natale, negli States, segue a ruota i festeggiamenti del Ringraziamento. Come avevo scritto un mese fa, le celebrazioni del Thanksgiving furono addirittura anticipate da Roosvelt al quarto giovedì del mese, in modo da allungare il periodo tra le due festività ed avere più tempo per lo shopping natalizio. Non so se sia perché viene subito dopo una festa così importante, o se dipenda dal fatto che, comunque, festeggiare sotto le palme con almeno 25°C non sia esattamente il mood giusto, ma ho l’impressione che il Natale qui sia commercialmente meno sentito. Meno corsa al regalo per amici e parenti - si preferisce di gran lunga fare i regali ai bambini e ai coniugi - meno assalto al ristorante per il pranzo celebrativo e, soprattutto, di certo non c’è la corsa al supermercato. Ci sono però molte piccole cose che accompagnano le giornate dei più piccoli (e non solo), dal Thanksgiving al 25 Dicembre. Molte di queste tradizioni abbiamo imparato a conoscerle dai film, ma non pensavo che fossero davvero così diffuse.

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Intanto, per preparare l’albero non aspettano la nostra data simbolo, l’8 Dicembre. L’albero (vero, non di plastica) viene preparato il pomeriggio del Thankgiving. Nei giorni precedenti, la famiglia si reca presso uno dei numerosi tendoni che spuntano lungo le strade, sotto cui ci sono migliaia di abeti, pronti per essere caricati sul tetto della macchina e portati a casa. La mattina seguente, fa la sua comparsa Elf on the Shelf. Un folletto dispettoso che combina un sacco di guai e si nasconde per casa, ogni giorno in un posto diverso. Anche la scuola di mia figlia ha un suo elfetto e i bambini, la mattina, fanno a gara a chi lo vede per primo.

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Le decorazioni di Natale prendono il posto di quelle per Halloween, con la stessa intensità e lo stesso sfavillio. Ci sono strade e quartieri talmente decorati, da meritare veri e propri tour turistici a pagamento, magari in calesse guidato da Babbo Natale. Ogni quartiere organizza il proprio Light Up, durante il quale viene acceso l’albero nella

piazza principale, con giochi per bambini, palle di neve (nel mio caso, in Florida, viene portata dai camion e scaricata giusto poco tempo prima), bancarelle e accompagnamento musicale. Albero, decorazioni e quant’altro spariscono poi immediatamente il 26 dicembre, visto che qui non esistono né i Re Magi, né la Befana (di cui ignorano completamente l’esistenza). Gli americani prenotano poi un servizio fotografico, in cui tutta la famiglia (animali inclusi), è vestita uguale, in tema natalizio. Queste immagini vengono poi spedite ad amici e parenti con le Christmas Card per augurare buone feste. In genere è prevista anche la versione Christmas Pijiamas, in cui tutta la famiglia indossa il pigiama natalizio uguale. Un ulteriore esercizio di “stile” (ehm) è indossare l’Ugly Sweater, ossia il Maglione Brutto per la festa aziendale. Molti Christmas Party lo prevedono come dress code e vi assicuro che sono brutti per davvero. Dal filato, assolutamente acrilico, alle applicazioni luminose (che ne impediscono il lavaggio), alle palle dorate... per non parlare dei colori: tutto richiamano, meno che un minimo concetto di eleganza. Non è così per la Location delle


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feste aziendali. Fancy restaurant, bistrot rinomati, sale dei musei, tutto può essere affittato per le feste, che prevedono musica, buffet e, soprattutto, tantissimo alcol. In molte città americane si usa fare il caroling, cioè andare a cantare le canzoni di Natale in giro per la città. Mai visto qui in South Florida, ma sicuramente è una cosa che avete visto in tantissimi film. Un’altra cosa molto sentita è andare a vedere lo spettacolo di The Nutcracker (lo Schiaccianoci) e guardare in TV i film di Natale, mentre si preparano i biscotti. Babbo Natale arriva la notte del 24 Dicembre e mette i regali nelle calze appese sopra al camino. È buona educazione lasciare biscotti, latte e carote per lui e le renne.

Per quanto riguarda il pranzo, ci sono due opzioni. Prendere tutto pronto al supermercato oppure cucinare in casa. Il pranzo di Natale richiama grossomodo quello del Thanksgiving: tacchino, spiral Ham o Prime rib roast. Ad accompagnare, Yorkshire pudding, cavoletti di Bruxelles, purè di patate. Vi lascio la ricetta del Prime rib Roast (non per niente, qui si chiama anche Holiday Roast) , fatto con il Closed Oven Method (ossia metodo del forno chiuso); vi lascio anche la ricetta degli Yorkshire Pudding.

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Se avete mai sfogliato un libro di cucina americano, alla voce Natale troverete moltissime ricette per brunch speciali. Casserole con bacon, uova e patate, pancake speziati, cinnamon rolls...mi sono sempre

chiesta come si potesse mangiare quella roba a colazione per poi affrontare il pranzo natalizio. La risposta l’ho avuta al mio primo invito da una famiglia italo-americana per passare il Natale assieme: orario di pranzo, le 3.00 p.m! In pratica fanno un pranzo/cena che permette di passare la mattina in rilassatezza, aprendo i regali, mangiando cose buone e bevendo cioccolata coi marshmallow.

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PRIME RIB ROAST Innanzitutto avrete bisogno di un trancio di Prime rib, ben marezzato (quindi tipologia Prime o Choice). E’ un taglio specifico che proviene dalla sezione anteriore della spina dorsale di un manzo, dalla prima costola in avanti. Si tratta di uno degli otto primi tagli di carne del manzo e comprende alcuni dei muscoli più teneri di tutto l'animale. Non essendo tipico della cucina italiana, dovrete prenotarlo in anticipo. Tre ribs (circa tre-quattro kg) servono circa 8-10 persone. Noi ne facciamo due per quattro, considerando che gli avanzi sono buonissimi anche il giorno dopo. Due kg di arrosto vi basteranno, con avanzi, per quattro-sei persone. Una volta deciso quanto arrosto volete preparare, staccate parzialmente le costole dalla carne e legatelo, dopo aver trimmato il grasso in eccesso. Lasciatelo fuori dal frigo almeno 3-4 ore, in modo da portarlo a temperatura ambiente.

Ingredienti per 6 persone:

2-2,5 kg di prime rib / 2 cucchiai di burro morbido / 2 cucchiai di Ultimate SPOG della linea Sal’s Seasoning / 4 patate PREPARAZIONE: 1. Accendete il forno a 230°C se ventilato o 250°C se statico. Impastate il burro con il rub e spalmate abbondantemente il pezzo di carne. 2. Inserite il termometro all’interno della carne, lontano dai bordi e dall’osso. 3. Tagliate le patate a fette di circa un cm e fatene un letto per l’arrosto. 4. Calcolate il tempo di cottura. Moltiplicare il peso esatto (in kg) del vostro arrosto per 11. Se, ad esempio, pesa 3,58 kg, dovrete cuocerlo per (3,58*11min) 39 minuti. Cuocete l’arrosto a temperatura settata per esattamente il tempo stimato. Passato questo tempo, spegnete il forno e lasciate riposare per circa 2 ore Tutta questa prima parte della cottura deve essere fatta SENZA MAI APRIRE IL FORNO. 5. Aspettate che il termometro raggiunga 53°C-56°C, a seconda del grado di cottura desiderato. Arrivati a 56°C, levate dal forno e lasciate in rest fino a 50°C.

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6. Tip - se il vostro forno ha una ventola per il raffreddamento, potrebbe essere un problema. Usate un termometro a doppia sonda e, se vedete che la temperatura interna della camera scende troppo, potete accendere il forno a 130°C per 5-6 minuti, in modo da riportare la camera alla temperatura di cottura. Non superate i 56°C, è un taglio che va servito rosato. Chi desidera la carne più cotta, può mangiare le estremità laterali.

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YORKSHIRE PUDDING

Ingredienti per 12 pezzi: 5 uova / 250 ml di panna liquida / 125g di farina / 2 cucchiaini di sale / sugo dell’arrosto filtrato (parte grassa)

PREPARAZIONE: 1. Accendete il forno a 220°C statico. Mescolate uova, sale e panna e poi setacciate il tutto dentro la farina, mescolando per avere una pastella liscia senza grumi. 2. Recuperate il grasso dell’arrosto e versatene un cucchiaino abbondante negli incavi di una teglia per muffin. 3. Mettete la teglia in forno caldissimo per 2 minuti. 4. Versate la pastella fino a riempire l’incavo per 2/3. Infornate per circa 13/14 minuti finchè non si vedono scoppiati. 5. Servite in un cestino, in accompagnamento al Prime rib roast e al restante sugo dell’arrosto sgrassato.

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BBQ4All: FROM ZERO TO HERO

L'importanza del

a cura di Emiliano Nencioni

SEASONING

Trattare un alimento da crudo, preparandolo nel modo migliore alla cottura, specie in griglia, ci aiuta ad avere piatti più complessi, interessanti ed in generale migliori. La serie di pratiche ed ingredienti per migliorare la nostra materia prima si chiama seasoning: tradotto, significa aromatizzare e modificare la struttura del cibo. L'utilizzo di elementi aromatizzanti o di accostamento, come le spezie, il vino rosso o una salsa, ci permettono di migliorare, di rendere più complesso e di equilibrato il gusto e la consistenza dei cibi, in special modo la carne, che vogliamo cucinare.

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Facciamo adesso un piccolo excursus tra i vari metodi coi quali si può condizionare e aromatizzare la carne che tanto amiamo cucinare in griglia. L’argomento sarà trattato in modo approfondito

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dai nostri coach nei video della Grill & Smoke to Perfection Masterclass. ERBE E SPEZIE Possiamo utilizzare le erbe sia fresche che essiccate, ricordando però che hanno sapori completamente differenti. Normalmente, la differenza principale nell’utilizzo comune tra erbe e spezie sta nel fatto che cataloghiamo come erbe gli aromi a base di foglie verdi mentre come spezie gli elementi semi, bacche, gemme, foglie, corteccia o radici di piante commestibili, interi o macinati, quasi sempre essiccati. In ambito culinario, le erbe e le spezie sono ampiamente utilizzate fin dall’antichità per conferire al cibo un certo sapore e per attivare precisi stimoli tramite i nostri recettori olfattivi e gustativi.


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SALAMOIA Anche se nel pensiero collettivo è spesso associata al solo apporto di sapidità negli alimenti, è in realtà un'arma molto efficace per aumentare il contenuto di liquidi di un alimento a base di proteine e per migliorare la sua ritenzione idrica durante la fase di cottura. Si tratta di una soluzione di acqua e sale (a cui possono essere aggiunti anche altri aromi) in cui i prodotti alimentari, più comunemente le carni, vengono immersi per un dato periodo di tempo per migliorarne la struttura, per migliorarne il sapore (beneficiando non solo della sapidità ma anche dell'apporto fornito dagli aromi secondari) e infine per aumentare la ritenzione idrica di tagli magri o che devono essere cotti in modo prolungato, al fine di mantenerli umidi fino al termine della cottura.

MARINATURA È sicuramente la tecnica più conosciuta nell’ambito del seasoning e risulta familiare anche ai griller meno esperti. Si tratta di una miscela su base acida che modifica strutturalmente gli alimenti mediante una vera e propria aggressione chimica, che deve essere accuratamente calibrata e controllata mediante il pH. Se nella salamoia il principio attivo ed efficace è esclusivamente il sale, che di fatto è l’unica sostanza capace di generare un incremento di sapidità e un’importante ritenzione di liquidi, nella marinatura, invece, l’effetto principale che otteniamo è la modificazione della struttura delle proteine, mediante uno stress chimico basato principalmente sul pH della componente acquosa della marinata, circoscritto alla superficie dell’alimento; tutti gli altri componenti, come aromi e grassi, compartecipano solo alla funzio-


ne di insaporimento ed aromatizzazione del cibo. Dunque, solo le marinate che contengono sale apportano modificazioni sulla struttura profonda della carne con effetti sovrapponibili a quelli di una salamoia standard. RUB Sembra una parola un po’ strana, ma alla fine con rub si intende un qualsiasi mix di aromi secchi che si distribuisce sugli alimenti da cuoceree e che, con il calore, si fissa a formare la classica crosticina saporita e speziata (in gergo chiamata bark). Già un misto di sale e pepe da distribuire sulla vostra ciccia può essere chiamato Rub. Tuttavia nell'uso comune si tende a considerare Rub un mix appena più complesso, composto da almeno tre o quattro ingredienti, con erbe e spezie saggiamente proporzionate. Ogni mix è adatto a specifiche preparazioni, a tagli e soprattutto a metodi di cottura.

SALSE Sono tutti portati a pensare che la salsa sia solo quella dei fast food, con cui si riempiono i panini allo scopo di mascherare il pessimo sapore di carni di scarsa qualità. In realtà si possono definire salse sia tutti i fondi di cottura opportunamente addensati, legati o emulsionati, sia moltissimi altri condimenti preparati separatamente, costituiti da alimenti vegetali o animali che vengono processati mediante la combinazione di tecniche di estrazione, cottura e fermentazione. Ora sapete dunque che l’intingolo addensato che utilizzava la nonna per accompagnare l’arrosto della domenica era a tutti gli effetti una salsa. Le salse hanno una grande capacità, come gli altri strumenti di seasoning, di equilibrare e migliorare la percezione di un alimento durante il consumo e, come negli altri casi, vanno ovviamente ben calibrate e utilizzate nei modi corretti.

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La ricetta scientifica a cura di Gianfranco Lo Cascio

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e delle buone uova strapazzate richiedono pazienza, una omelette perfetta richiede coraggio - una omelette di due o tre uova si cuoce in meno di un minuto.

Escoffier descrisse l'omelette come delle uova strapazzate tenute insieme in un involucro coagulato, una “pellicola” di uovo cotta che passa dallo stadio umido e soffice a quello asciutto e sodo, in modo tale da contenere e modellare il resto. La preparazione richiede una padella più calda di quella per le uova strapazzate. E una padella rovente, badate bene, implica una cottura veloce per prevenire il disastro.

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Una chiave importante per una omelette di successo è contenuta nel nome del piatto, che dal Medioevo è passato attraverso varie forme - alemette, homelaicte, omelette (lo standard francese) - e deriva in definitiva dal latino lamella, " lastra sottile”. Il volume delle uova e il diametro della padella dovrebbero essere bilanciati affinché la miscela formi uno strato relativamente fine; altrimenti la massa strapazzata impiegherà troppo tempo a cuocere e sarà difficile da tenere insieme. La solita raccomandazione è tre uova in una padella di medie dimensioni, che dovrebbe avere una superficie ben oliata o antiaderente in modo che l’omelette si stacchi senza lasciare residui.

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La “pellicina” di un'omelette può essere formata sia alla fine della cottura, sia fin dall'inizio. La tecnica più veloce è quella di strapazzare vigorosamente le uova con un cucchiaio o una forchetta in una padella calda finché non iniziano a rapprendersi, poi spargere il composto in un disco grezzo, lasciare che il fondo si consolidi per qualche secondo, scuotere la padella per rilasciare il disco e ripiegarlo su se stesso. Si ottiene una massa più consistente e dall'aspetto più uniforme se le uova vengono lasciate indisturbate per un po' per permettere che la base si rapprenda. La padella viene poi scossa periodicamente per sollevare la superficie dello strato esterno, mentre la parte ancora fluida viene mescolata fino a renderla cremosa, e il disco infine piegato e fatto scivolare su un piatto.

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Un altro modo è quello di aspettare che il fondo del composto si solidifichi, poi si solleva un bordo con la forchetta e si inclina la padella per far scorrere sotto la parte liquida dell'uovo. Questo viene ripetuto fino a quando la parte superiore non è più fluida; la massa viene poi ripiegata.

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L’omelette soufflée, una versione dalla consistenza particolarmente leggera, si ottiene montando le uova fino a quando sono belle spumose, o montando gli albumi separatamente e unendoli delicatamente alla miscela di tuorli e aromi. Il composto viene versato in una padella riscaldata e cotto in forno a temperatura moderata.


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3 SEGRETI

per uova più soffici

Le uova strapazzate dei sogni dovrebbero essere un montino di fiocchi di uova soffici e cremosi. Dovrebbero essere abbastanza cotte da mantenere la loro forma quando vengono tagliate ma abbastanza morbide da essere mangiate con un cucchiaio. Un'omelette fatta a mestiere deve risultare abbastanza soda da poter essere arrotolata o piegata, ma le uova devono conservare tenerezza e cremosità. La realtà è che troppo spesso entrambi i piatti si rivelano asciutti, duri o gommosi. La cottura eccessiva è uno degli errori più comuni, ma le uova hanno bisogno di un aiutino - sotto forma di grasso - per rimanere cedevoli e goduriose, anche quando sono completamente cotte.

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Quando le uova vengono riscaldate, l'acqua che contengono si trasforma in vapore. Allo stesso tempo, i filamenti proteici si dispiegano, si attaccano l'uno all'altro e alla fine formano una maglia a reticolo. Idealmente, queste proteine formano un intreccio che è in grado di trattenere l'acqua, il che renderà le uova cotte umide e morbide. Tuttavia, con la cottura prolungata, queste proteine reticolate formano legami molto stretti che striz-

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zano via il liquido. Il risultato finale? uova gommose e secche. La maggior parte delle ricette di uova strapazzate contengono un qualche tipo di latticino, di solito il latte. Il grasso del latte ricopre le proteine e rallenta il processo di coagulazione. L'acqua nei latticini fornisce un'umidità aggiuntiva che aiuta a mantenere le uova strapazzate morbide. Questo liquido aggiunto produce anche più vapore, che si traduce in uova strapazzate più soffici e leggere. La scienza delle omelette è simile ma la tecnica usata per prevenire l'eccessiva coagulazione è diversa. Mentre le uova strapazzate devono essere soffici, un'omelette è più compatta (deve essere arrotolata o piegata). Non c'è bisogno quindi di un liquido aggiuntivo o di vapore. Infatti il liquido extra prolungherebbe il tempo di cottura e renderebbe l'omelette più dura. Molto meglio utilizzare il burro, che contiene molto grasso e pochissima acqua. Il grasso nel burro ricopre le proteine dell'uovo e restituisce un'omelette soda ma ancora tenera.


#01. CUOCERE LE UOVA CON UN GRASSO Ma cosa succede quando le uova cuociono con un grasso? • uova crude: i filamenti di proteine globulari sono aggrovigliati e intervallati da molecole d’acqua. • uova cotte senza grassi: la cottura fa sì che i filamenti proteici si allineino e si leghino insieme. La cottura continua strizza via le molecole d’acqua. • uova cotte con un grasso: i grassi rallentano questo processo, mantenendo le uova soffici e umide. Fate questo esperimento: preparate due omelette, una con il burro all’interno e una senza. Poi prendete due oggetti pesanti e poggiateli al centro di entrambe le omelette. Noterete che l’omelette che contiene burro verrà schiacciata senza pietà, mentre quella senza mostrerà solo una leggere depressione. Perché questa drammatica differenza? Dal momento che le uova nelle omelette senza burro contenevano poco grasso che interferiva con la coagulazione, la rete proteica reticolata era in grado di formare legami più stretti. Questi legami più stretti si sono tradotti in una frittata più dura e resistente, ottima per sostenere un sacco di peso, ma non per essere mangiata. Quando i cubetti di burro si sono sciolti nelle omelette fatte con il burro, il grasso ha impedito ai filamenti proteici nelle uova di formare legami più stretti. Il risultato è un'omelette che mantiene la sua forma ma risulta comunque molto soffice.

#03. PRERISCALDARE LA PADELLA LENTAMENTE La modalità con cui preriscaldate la padella prima di aggiungere le uova è cruciale per ottenere un'omelette cremosa con un esterno uniformemente dorato. Invece di preriscaldare a fuoco medio-alto per due o tre minuti (come fanno tutti), preriscaldate la padella a fuoco basso per ben 10 minuti. Su un fornello a gas, la fiamma alta lambisce i lati della padella, creando punti caldi sui bordi esterni del fondo. Questi punti caldi, a loro volta, possono favorire la formazione di spot, di macchioline marroni bruciacchiate sul fondo della frittata. Preriscaldare a fuoco lento assicura che il calore sia distribuito più uniformemente e vi concede più tempo per aggiungere le uova. A fuoco alto, ci vogliono solo 30 secondi perché la padella passi da una temperatura di 120°C a una temperatura di 150°C gradi (che rassoda le uova). Per dimostrare l'importanza di preriscaldare alla giusta temperatura (bassa), ho distribuito uno strato di Parmigiano grattugiato sul fondo di due padelle, poi ne ho riscaldate una a fuoco medio-alto e l'altra a fuoco basso. Il formaggio riscaldato a fuoco medio-alto si è bruciacchiato sui bordi, mentre il formaggio riscaldato a fuoco basso si è sciolto e ha preso un colore uniforme.

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#02. SALARE LE UOVA PRIMA DELLA COTTURA Non aspettare a salare le tue uova strapazzate. Salare prima della cottura ci dà una cagliata tenera e umida. Alcune fonti suggeriscono di aspettare a salare le uova strapazzate fino a poco prima di servire. Il pericolo, suggeriscono, è che il sale sbattuto nelle uova crude può renderle acquose. Per scoprire se questa idea è valida, abbiamo salato le uova sbattute un minuto prima della cottura e un altro lotto subito dopo averle strapazzate. Ai nostri assaggiatori non sono

piaciute le uova salate dopo averle strapazzate, trovandole gommose e sode. In confronto, le uova salate prima della cottura erano tenere e umide. (Con questi risultati in mano, ci siamo chiesti se salare le uova sbattute un'ora prima della cottura le avrebbe rese ancora più tenere. Non è successo; erano quasi identiche alle uova salate appena prima della cottura). La scienza qui è abbastanza semplice. Il sale influisce sulla carica elettrica delle molecole proteiche nelle uova, riducendo la tendenza delle proteine a legarsi tra loro. Una rete proteica più debole significa che le uova hanno meno probabilità di coagularsi eccessivamente e si cuoceranno tenere, non dure.

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La ricetta scientifica delle

OMELETTE

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Dose per 2 omelette 6 uova grandi, fredde 30 gr di burro non salato, tagliato in 2 pezzi 1/2 cucchiaino di olio extravergine di oliva (2.5 ml) 2 cucchiai di formaggio Gruyère grattugiato (15 gr circa) 4 gr di erba cipollina fresca tritata Sale q.b. Pepe q.b.

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Procedimento 1. Tagliate il pezzo di burro a metà e fondetene una parte. Nel frattempo, scaldate l'olio in una padella antiaderente da 20 cm di diametro a fuoco basso per 10 minuti. 2. Rompete 4 uova in una ciotola media e aggiungete due tuorli; conservate gli albumi per altro. Perché togliamo gli albumi? Perché altrimenti dovremmo aggiungere più burro, e l’omelette risulterebbe pesante. Aggiungete 2 grammi di sale e due pizzichi di pepe. Rompete i tuorli con una forchetta, poi sbattete le uova a ritmo moderato, con circa 80 colpi, fino a quando i tuorli e gli albumi sono ben miscelati. Con una forchetta o una frusta, l’importante è non montarle troppo. Unite il burro fuso. 3. Quando la padella è completamente riscaldata, usate della carta assorbente per pulire l'olio, lasciando un sottile strato sul fondo e sui lati. Aggiungete circa 10 grammi di burro nella padella e scaldatelo fino a quando non si scioglie. Spargete il burro con cura, aggiungete il composto di uova e cuocete a calore a medio-alto. Usate 2 bacchette cinesi o il retro di un cucchiaio di legno per strapazzare le uova (la forchetta righerebbe la padella), facendo un rapido movimento circolare intorno alla padella, raschiando l'uovo cotto dai lati, fino a quando le uova sono quasi cotte ma ancora un po' liquide (ci vorranno dai 45 ai 90 secondi). Spegnete il fuoco, allontanate la padella dal fornello e appiattite le uova in uno strato uniforme usando una spatola di gomma resistente al calore. Cospargete l'omelette con il formaggio e l’erba cipollina. Coprite la padella con un coperchio ermetico e lascia riposare per 1 minuto. 4. Scaldate la padella a fuoco basso per 20 secondi, togliete il coperchio e usando una spatola di gomma, allentate i bordi della “frittata” dalla padella. A questo punto potete procedere in due modi: 5a. Tecnica facile Mettete un foglio di carta forno su un piatto riscaldato e fate scivolare l'omelette fuori dalla padella sulla carta in modo che l'omelette sia piatta e penda circa 2/3 cm dalla carta. Arrotolate l'omelette in un cilindro e mettete da parte. Riscaldate la padella a fuoco basso e scalda 2 minuti prima di ripetere le istruzioni per la seconda omelette, iniziando dal punto 2. Servite. 5b. Tecnica più difficile Sollevate il lembo dell’omelette sul lato sinistro e date un colpetto alla padella per aiutarvi ad arrotolare verso destra. Premete contro il fondo per dare all’omelette la forma di cilindro perfetto. Servite.


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VARIANTE #01

OMELETTE COUNTRY STYLE

Dose per 2 omelette 1 dose di miscela per omelette (vedi ricetta Omelette Scientifica) 100 gr di prosciutto cotto arrostito 100 gr di formaggio svizzero grattugiato

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Procedimento Realizzate la ricetta della Omelette Scientifica fino al punto 4. 5. Dividete idealmente l’omelette in due semicerchi e condite la metà superiore con il formaggio grattugiato ed il prosciutto. 6. Ripiegate l’omelette a mezzaluna e servite immediatamente.

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VARIANTE #02

TAMAGO YAKI aka l'omelette giapponese Dose per 2 omelette 4 uova 60 gr di dashi 10 gr di salsa di soia 7,5 gr di mirin 7,5 gr di zucchero semolato Q.b. di sale Q.b. di olio di semi di arachidi

Dicembre 2021

Procedimento Realizzate la ricetta della Omelette Scientifica fino al punto 4. 5. Con la mano destra, pizzicate l’omelette al centro con le bacchette, mentre con la sinistra ruotate la padella verso destra, avvitandola. Tenete la presa per 30 secondi e adagiate su una porzione di riso saltato.

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VARIANTE #03

OMELETTE TORNADO

Dose per 2 omelette 1 dose di miscela per omelette (vedi ricetta Omelette Scientifica)

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Procedimento 1. In una bacinella, amalgamate le uova con i condimenti. 2. Scaldate una padella quadrata e ungetela con olio di semi. Versate uno strato sottile di miscela d’uovo e distribuitela bene nella padella. 3. Arrotolate la frittata e spingete il rotolo in avanti. Verste altro composto per coprire nuovamente il fondo della padella, sollevando leggermente il primo rotolo in modo che il secondo strato possa aderire al precedente. Procedete fino al termine della miscela di uovo. 4. Avvolgete il rotolo ottenuto nel tappeto di bambù per sagomarne la forma. 5. Lasciate raffreddare a temperatura ambiente e tagliate a fette di 2 cm di spessore. Accompagnate con la salsa di soia e il daikon grattugiato.

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Clip Show! Seguo.

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a cura di Emiliano Nencioni

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È di nuovo quel momento dell’anno: dicembre, la fine di un ciclo, il mese delle rese dei conti e dei progetti per l’anno nuovo, delle giornate corte e buie. Per chi come me va in forte ansia solo al sentire il tipico effetto sonoro di “il tuo contatto sta scrivendo” tipico dei servizi di messaggistica istantanea, è un momento tensivo, ricco di auto esami, come se il solo dover cambiare il calendario appeso alla parete implicasse lo scadere di qualche contratto inconscio. Tradizionalmente, per la rubrica Seguo è il momento di rileggere gli appuntamenti apparsi nei mesi precedenti e tirare le somme di evoluzioni, involuzioni, trend e ripensamenti.

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Una cosa analoga avveniva nelle sit-com fino agli anni ‘90, quando con la scusa di recuperare i ricordi dei protagonisti si costruiva un episodio intero con i ritagli della stagione trascorsa, il famigerato clip show.

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La rubrica Seguo (più precisamente “Seguo.” col punto) nasce assieme al Magazine, nel numero zero, con intenti prettamente canzonatori: è il momento leggero e dissacrante, due paginette a fine numero da utilizzare per prendere bonariamente in giro alcuni comportamenti o idiosincrasie degli utenti della Community che si fossero resi protagonisti di moderazioni particolarmente feroci o di reazioni spropositate. L’appuntamento sarcastico scritto da chi doveva dirigere la moderazione di un gruppo che stava esplodendo in fatto di dimensioni e di volume di post. Con le dimensioni del gruppo però si sono ingigantiti anche i fenomeni riscontrabili, e tutto è diventato un piccolo laboratorio di sociologia, un sottinsieme di sistemi più complessi, con i problemi relazionali che questo comporta.

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Anche la Seguo è diventata più complessa, in un tentativo continuo di comprendere e spiegare alcuni fenomeni tipici, spesso irritanti, riscontrabili nelle migliaia di interazioni quotidiane: rileggere tutto assieme, devo ammetterlo, “fa strano”, specie se, come ho fatto io poco prima di scrivere queste righe, lo si fa a ritroso.

Invece di procedere verso uno scioglimento della tensione, come succederebbe in una narrativa tradizionale, sembra di andare dal particolare al generale, con toni e insofferenza crescente. Se mai si prospettasse il progetto editoriale della pubblicazione di un Almanacco Delle Seguo, è proprio a ritroso che suggerirei di compilare la raccolta. (Calmi, non preoccupatevi: non avverrà.) A un certo punto abbiamo parlato di quelli che iniziano i post attaccando preventivamente eventuali commentatori sgradevoli, e che lo concludono inserendo, loro stessi, la sgradevolezza che inizialmente temevano: L’omologo, in termini di coefficiente di odiabilità, della orrenda “foto dei miei piedi al mare” nel mondo del grilling è stata per molti anni la foto, ormai caduta un po’ in disuso, della fetta di brisket talmente morbido e cotto così bene da piegarsi attorno a un dito. Alla milionesima reiterazione è diventata antipatica a tutti: era un momento di narcisismo, di auto incensamento, di amichevole sfida verso gli altri patiti di barbecue, ma aveva un gran pregio:


non era polemica. Non attaccava, non cercava la rissa o l’umiliazione: affermava solo di aver conseguito un certo risultato. Stessa cosa con i post con le premesse strafottenti e le chiose irritanti. É come servire la polemica su un piatto d’argento: “non solo sono conscio che il mio post ha queste debolezze e che questo aspetto potrebbe farti ironizzare, ti sbeffeggio già prima che tu pensi di intervenire, e mi rendo in qualche modo irresistibilmente insopportabile ai più”. Ed è così che si compie un piccolo disastro. È una mia impressione, o di post così, costruiti con premessa strafottente - chiosa irritante, ne abbiamo visti molti molti meno? Che abbia colpito nel segno? Molto più realisticamente, si sono venuti a noia da soli, come precedentemente letto proprio sulla Seguo. Il venire a noia. L’espressione è evocativa, dinamica, cinematica, è quasi un quadro: il fenomeno stesso di venire a noia è un moto, un’escalation, il raggiungimento di un (nefasto) traguardo, uno spannung circostanziale. Il venire a noia non è semplicemente una constatazione di fastidio, un immediato sen-

so di sgradevolezza, no, è molto più subdolo, è un sentimento mutevole: è una precedente probabilmente innocua sazietà che, eccessivamente alimentata, si trasforma in disgusto. É “ok, bravo, ma basta così” che si trasforma in “Sinceramente, hai rotto”. Era inevitabile, siete venuti a noia. Siamo venuti a noia, un po’ tutti. Non abbiamo saputo fermarci in tempo e i nostri tormentoni sono diventati stantii come una barzelletta di Gino Bramieri (sicuramente eccellente a suo tempo non lo metto in dubbio), le nostre uscite spassosissime si sono evolute in immancabili appuntamenti con l’imbarazzo. [...] Probabilmente, per quanto sia rassicurante e appagante sentirsi parte di un movimento, schierarsi e agire da indomito soldatino, sulla lunga distanza combattere la guerra di altri stanca. Probabilmente dopo l’entusiasmo iniziale dell’affiliazione militante, al comune griller nostrano sarà tornata anche la voglia di mangiarsi il frutto delle proprie tribolazioni senza onorare una bandiera, o quella di scorrere il proprio feed di notizie senza dover spiegare perché l’utilizzo del reverse searing non renda automaticamente meno virili. Quella del volersi sentire parte di un gruppo, ma-

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gari di un gruppo “onorabile” come quello dei maschi alfa è un’altra problematica trattata su queste pagine, sempre con le molle, sempre in punta di piedi per non essere fraintesi o per non essere tacciati di demagogia a buon mercato.

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I maschi alfa sui social network, una categoria completamente autoreferenziale di cui si può comodamente entrare a far parte con il solo sforzo di scrivere “maschi alfa come me” o “noi maschi alfa” commentando un’altra persona in odore di alfosità. Categoria a cui suppongo si potrà appartenere a vita, visto che non si è mai visto nessuno ritirare un tesserino da alpha male, e nessuno si è mai preso la briga di considerare se azioni, propositi, atteggiamenti fossero effettivamente omologabili e afferibili a questa élite di virile socialità.

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Ce ne fosse mai uno onestamente fiero e soddisfatto di appartenere all’invidiabile classe beta, o a proprio agio nel dichiararsi un rispettabile gamma. Sono tutti ben adulti, quasi vecchiotti. Magari, forse, dico forse, c’è dietro una mamma che ha affermato per anni “sei bello sei bravo tu sì che puoi fare tutto quello che vorrai”, e allora li vedi tutti convinti di far parte di una casta superiore, per poi coniugare i verbi con procedure non deterministiche - anzi direi altamente stocastiche.

Vogliono essere Alfa, ma non tanto per il prestigio: è più una cosa virile, pseudo-sessuale, c’entra più l’arroganza, una strana voglia di allontanarsi dalla sensibilità, dalla delicatezza e dalla sincerità. Viene premiato l’insulto, l’ostentazione (di cosa?), la costruzione di una stage persona piena di autocompiacimento. La giustificazione sta nel branco. Fanno gruppo, e si giustificano l’un l’altro l’attribuzione dell’etichetta Alfa: più che una casta, un organismo-alveare, una coscienza collettiva autoalimentata e autoverificata, potente in massa e insignificante nei termini del singolo individuo. Che fatica stare sui social e doversi sempre comportare da persone di successo, arrogantelli, machissimi. Solo vittorie, solo successi, solo conferme di “avercela fatta”, una tensione agonistica dilaniante. Eppure, è matematico, se è sempre una gara e qualcuno vince, gli altri perdono: che fine fanno? Avranno i mezzi per elaborare la sconfitta? In un Giugno particolarmente intimistico e introspettivo la Seguo si è occupata anche di questo: Vi diamo i mezzi per essere i migliori, ma forse non ci siamo concentrati troppo sullo strutturarvi ad affrontare il fallimento: nutriamo il vostro ego, fabbrichiamo senza sosta gli esperti di fiamma più (legittimamente?) tronfi d’Italia isole compre-


se, e mai una parola su come non farsi sopraffare dal naufragio e dal tracollo dei vostri gloriosi propositi. [...] Da autorità incontrastate della griglia, beniamino delle folle e dei commensali che volevate essere, vi ritrovate ad essere il rovinatore di pomeriggi, l’indignatore di zie, il piangitore di bambini, la delusione incarnata. Scatta un meccanismo perverso: l’ipotesi della fuga. Spiego meglio: “Basta, chi me lo fa fare, quasi quasi smetto con queste cotture, tanto non vengo apprezzato, smetto anche di grigliare, partecipo solamente alle grigliate di altri, borbottando in un angolo” Buone notizie! Se avete questa reazione non avete voglia di farla finita con le grigliate, avete solo voglia di farla finita con le delusioni. [...] Ma la fuga non è dalla grigliata, la fuga non è dalla passione della cottura scientifica, e accorgersi di questo particolare è di fondamentale importanza. La fuga che il vostro animo vi implora di attuare è quella dalle reazioni tossiche. Volete che a sparire nel più breve tempo possibile siano gli sguardi di disapprovazione, non quei tre chili di Denver Steak in congelatore. Ripetete ad alta voce: non è voglia di farla finita con le grigliate, è la stanchezza, è la voglia di vincere; non volete smettere di grigliare, volete smettere di grigliare “non capiti”. Non è una resa, è una fuga!

La quantità di substrato e di allegorie presenti qui sopra è lasciata alla vostra libera interpretazione, e alla gravitas che pensate di poter attribuire a una rubrica scemotta che riempie le ultime le pagine di un bellissimo magazine che parla di cottura su fiamma. Il procedere a ritroso si fa sempre più interessante, illuminante e chiarificante, quando risalendo al mese precedente ci imbattiamo nel concetto di perdono e della sua parte soverchiante, il perdono vendicativo (ti perdono affinché tu possa sentirti in colpa in maniera più pesante, perchè perdonandoti implico che la colpa sia veramente tua), ovviamente con necessari parallelismi al mondo del grilling. Probabilmente il principale precursore di un perdono sensato è il pentimento. No, non parlerò di aspetti mistici o morali. Quando una parte annuncia un pentimento, l’altra parte può perdonare senza che si sospetti di perdono vendicativo; a questo punto l’atto può essere ripetuto anche a parti inverse, portando a una dissoluzione reale e (ottimisticamente parlando) definitiva del torto e del sentimento di vendetta. Senza pentimento non c’è ammissione di colpa, e il perdono è in questo modo imposto, diventando di fatto l’ennesima soverchieria, l’ennesimo sopruso di cui lagnarsi in interminabili commenti ripetitivi, reiterati, pleonastici, mortalmente noiosi. É quasi inevitabile che l'unica reazione “digitalmente attuabile” e minimamente avvicinabile al

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perdono, in un contesto di social network, di continui copia incolla e screenshot che riportano a galla vecchie ferite, sia l’ignorarsi. Continuare così a scrivere, a leggere, a sperimentare tecniche e convinzioni, mantenendo la ferrea volontà di non rispondere, non immischiarsi, non continuare ad alimentare la fornace delle ripicche e dell’odio; passare oltre, rendersi impermeabili, ignifughi.

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Che l’uso sconsiderato di tormentoni e espressioni inflazionate irriti i lettori superstiti della Seguo è ormai appurato, ma nella primavera passata mi sono particolarmente incistito su un motteggio che tardava troppo a diventare desueto e demodè: “ma lo fanno anche da uomo?”

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Davvero siete così a disagio con la vostra percezione di mascolinità da voler rimarcare che una cosa, un bene, un oggetto, un servizio, esista specificatamente “da uomo”? Qualsiasi cosa ricordi una dimensione più delicata, meno assertiva, più attenta alle necessità altrui, appare ad alcuni “poco da uomo”: alcuni esempi famosi possono essere il monopattino elettrico, la sigaretta elettronica, la birra piccola, i pantaloni con l’orlo eccessivamente alto. “Molto da uomo” sembra configurarsi, da una veloce ricerca, il menefreghismo, la mancanza di attenzioni verso l’ambiente o le minoranze, l’”ignoranza” (in questo contesto intesa come genuina rozzezza e mancanza di scrupoli) e una serie di atteggiamenti satelliti tipici da sitcom americana dei primi anni 60. [...]Si usa “perché si usa”: Per imitazione, spesso con nessuna o pochissima volontà di nuocere o screditare qualcuno. Ne ho le prove: svariate volte, lamentandomi dell’uscita poco felice, mi sono visto rispondere “ma lo dico solo come una battuta fra noi, lo diciamo sempre”, “ma quel tizio lo scrive e riceve vagonate di like” e ovviamente il passepartout della vita digitale “ma fattela una risata ogni tanto”. [...] “Si fa per scherzare” non esclude che la cosa dia fastidio, offenda, secchi, stufi, irriti, in moltissime occasioni di cui, beninteso, la sconsiderata “lo fanno anche da uomo” funge solo come esempio e capro espiatorio. Chi non è cattivo volontariamente è solo fastidioso inconsapevole. Dice cose, scrive cose,

e non capisce quanto stia irritando o adombrando il prossimo. Ed ecco che ancora una volta giunge a noi in aiuto la deflagrante sconquassante e megatonica arma della disapprovazione, micidiale presso qualsiasi avatar digitale in piena crisi tecnoesistenziale. Niente commenti, niente like, niente strizzatine d’occhio o gomitate complici. Solo “smetti”. Non cattivi dei fumetti in completino viola e guanti verdi, quindi, ma fastidiosi inconsapevoli. Nel nostro percorso a ritroso troviamo questo concetto trattato all’inizio dell’anno, dove si scandaglia la fauna, sorprendentemente banale e ordinaria, di un gruppo di “odiatori incalliti”. La fauna umana che ti aspetteresti di trovare in un gruppo facebook completamente dedito alla derisione e all’insulto continuo e reiterato non è esattamente quella che, all’atto pratico, in realtà si rivela. Al posto di disagiati e incattiviti personaggi ai margini della società, complottisti, diseredati, non è raro trovare paciosi commercialisti, pasticcieri, fustacchioni pseudobellocci con le sopracciglia ad ala di gabbiano, serafici padri di famiglia col profilo di coppia e gigantografie di prole adorata, analisti informatici competenti e di chiaro successo personale e lavorativo. Nessun volto emaciato e spigoloso alla Nosferatu di Murnau, nessun reietto abbrutito autocostrettosi davanti allo schermo a cibarsi solo di patatine e Nutella, in un trionfo di acne e barba tempestata di briciole. Gente normale, che al riparo da occhi indiscreti - e voglio sperare anche dalla moglie/madre della prole - si prende una breve e incolpevole pausa dalla dignità personale. Si esaurisce qui un anno di equilibrismi narrativi e funamboliche passeggiate sull’orlo del non detto, giocato, con alterne fortune, tra l’inaspettato e il sottinteso. D’altronde, come scrivevo nell’unica parte riutilizzabile della Seguo di Gennaio 2021, “Per sconfiggere il bullo serve una sorpresa.” (Alejandro Jodorowsky)

Emiliano Nencioni

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IN DI CE 2021

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L’Editoriale di Gianfranco Lo Cascio Le basi della cottura sous vide spiegate bene - parte I Le basi della cottura sous vide spiegate bene - parte II Le basi della cottura sous vide spiegate bene - parte III Assaggiare la carne - introduzione Assaggiare la carne: la bistecca Assaggiare la carne: la vista Assaggiare la carne: l'olfatto Assaggiare la carne: il gusto Glicolisi e frollatura della carne L'hamburger perfetto in 5 mosse Beef Short Ribs per principianti Cucinare per molti - la tartare perfetta

Gennaio Febbraio Marzo Aprile Maggio Giugno Luglio Agosto Settembre Ottobre Novembre Dicembre

4 4 4 4 4 4 4 4 4 5 5 5

Gli speciali Fritto - parte I Fritto - parte II Com Ricette ibride Cucina indiana Noodles Menu piccante

Gennaio Febbraio Marzo Aprile Giugno Luglio Agosto

22 28 23 20 21 27 30

Cucina francese Hamburger Ribs Brodo di manzo Menù delle feste

Settembre 30 Ottobre 20 Novembre 28 Dicembre 16 Dicembre 20

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Antipasti

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Waffle americani Mozzarella in carrozza Supplì Pasta fritta toscana Fiori di cipolla BBQ Bacon Wrapped Onion Bomb Gamjia hotdog Bruschetta al polpo, 'nuja, stracciatella e limone Smoked beef jerky Pomodori ripieni alla romana Samosa Torta salata Coxinhas Griller com dip Bresaola di Wagyu Miyabi A5 con gelato all'aglio Salty Smoked Almonds Crema di melone in ember con salamini affumicati Crostone con salsiccia Girasoli di pasta sfoglia con brie affumicato e Franks Würst Peperoncini ripieni con salsa al tonno Taquito ripieno di pulled pork Bacon Pepper Twist Quiche Lorraine Mummie di sfoglia Devil Eggs Tortini di zucca bruciata Caldarroste Cubetti di mortadella affumicata

Gennaio 70 Gennaio 22 Gennaio 25 Febbraio 38 Marzo 23 Marzo 26 Marzo 29 Maggio 22 Maggio 26 Maggio 30 Giugno 30 Giugno 36 Giugno 45 Giugno 65 Luglio 27 Luglio 30 Luglio 32 Luglio 36 Luglio 40 Luglio 48 Agosto 46 Agosto 48 Settembre 50 Settembre 79 Settembre 80 Novembre 48 Novembre 51 Novembre 54


Primi piatti Spaghetto con latte di aringa affumicata e peperone crusco Raviolo fritto con scampo e crema al limone Pasta 'ncasciata Risotto ostriche, carciofi e Parmigiano Reggiano Timballini di riso con ragù di pesce Tagliatella al basilico, gambero rosso e burrata Insalata di riso Riso al curry Tagliatelle di gambero Insalata di pasta con frutti di mare Spaghettoni con i ricci di mare Pasta con pesto alla trapanese Jambalaya Pasta con ragù di pork ribs Agnolotti con guancia affumicata Paccheri al ragù napoletano

Gennaio Febbraio Marzo Aprile Aprile Aprile Maggio Giugno Giugno Luglio Luglio Luglio Agosto Novembre Dicembre Dicembre

29 35 32 32 36 52 42 28 39 18 21 24 30 28 20 32

Secondi piatti Gennaio Gennaio Gennaio

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Cordon Bleu Frico Gamberi fritti Baccalà in tempura Sogliola fritta Frittura di pesce Fish&Chips Spicy Grilled BBQ Pork Salsiccia in crosta Rosticciana "al pastor" Sovracosce ai cinque pepi Pepper stout beef Aragoste gratinate con mollica al basilico Involtini di cernia ripieni con contorno di cipollotti Coscia di agnello marinata El puerco asado con mojo criollo Tonno di manzo Pulled pork shank Catalana di granseola o granciporro Tartare di manzo e peperoni imbottiti

Gennaio Gennaio Febbraio Febbraio Febbraio Febbraio Febbraio Marzo Marzo Aprile Aprile Aprile Aprile Aprile Aprile Aprile Maggio Maggio Maggio Maggio

45 48 28 31 40 43 55 36 40 20 24 40 44 48 56 72 33 35 39 48

Tagliata di manzo con Parmigiano Reggiano Pollo Tandoori Beef Korma Lomo al trapo Jalapeno pepper with cream cheese and bacon Kartoffelsalat con Franks Würst Galletto marinato alle erbe con salsa honey mustard Filetti di pesce blackened Zuppa thai di pollo e latte di cocco Chili con carne Filetti di salmone con zenzero, peperoncino e limone Calamari ripieni con sugo piccante ai pomodori secchi e scamorza Bœuf bourguignon Bouillabaisse Coq au vin Foie Gras Tournedos à la Rossini Tacchino del ringraziamento al bbq

Maggio 52 Giugno 21 Giugno 25 Giugno 42 Giugno 68 Luglio 38 Luglio 50 Agosto 76 Agosto 36 Agosto 39 Agosto 42 Agosto 44 Settembre 38 Settembre 42 Settembre 46 Settembre 54 Settembre 58 Ottobre 75

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Fried chicken Polpette fritte Corn Dog

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Short Ribs al forno e al barbecue Beef Ribs Meatballs in molasses barbecue sauce Fried pork ribs with mashed potatoes Ribs alla Trinità Ribs con zuppa di funghi e patate Coniglio alla cacciatora Spezzatino di wagyu e funghi Aragosta alla catalana Orata e sarde alla piastra Prime Rib Roast

Novembre Novembre Novembre Novembre Novembre Novembre Novembre Dicembre Dicembre Dicembre Dicembre

5 18 66 31 40 42 45 35 48 52 72

Verdure e contorni Carciofi fritti Melanzane fritte in due maniere Kimchi Patate Hasselback Potatoes of the gold digger Zucchine tonde ripiene alla ligure Seven layer salad Gratin dauphinois Ratatouille Soupe d'oignon French fries con tripla cottura Sweet potatoes french fries Tostones Sedano rapa fritto Yuca Frita Yam fritto Taro fritto Giardiniera

Gennaio 38 Febbraio 50 Marzo 84 Marzo 56 Aprile 60 Giugno 33 Giugno 48 Settembre 30 Settembre 32 Settembre 36 Ottobre 58 Ottobre 63 Ottobre 64 Ottobre 65 Ottobre 65 Ottobre 66 Ottobre 66 Dicembre 54

Panini e pizza

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The Ultimate Burger Pizza con cornicione ripieno di pulled pork Il panino con il roast beef Panino con polpo grigliato, crema di patate e cialde di corallo Baguette con Black Angus Pizza fritta Auber burger Hot burger Friul burger Baby back ribs burger The Beast burger Tropea Burger Double Shimofuri burger Umami burger Fiòl Burger Champion's burger Honey Jalapeno burger Lobster burger Zen burger Carbo burger Murgese burger Granny smith burger Giant rib sandwich Taco Beef ribs

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Basi, fondi e salse Per il fritto

Marzo Marzo Aprile Maggio Luglio Luglio Ottobre Ottobre Ottobre Ottobre Ottobre Ottobre Ottobre Ottobre Ottobre Ottobre Ottobre Ottobre Ottobre Ottobre Ottobre Ottobre Novembre Novembre

44 49 28 39 34 42 20 22 24 26 28 30 32 34 36 38 40 42 44 46 48 50 33 35

Gennaio

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Spinach Artichok dip Salsa mexicana Piccanti La cunserva mara e Frate Focu Brodo di manzo

Dolci e frutta

Crema fritta Gelato fritto Sorbetto al limone Torta Sacher Muffin al cioccolato Cheesecake alle fragole Gelato fatto in casa Crostata con crema e frutta Frutta al bbq Tiramisù Budino al latte con pesche e mandorle Saint Honoré Crema al cioccolato di Halloween Mousse alla ricotta Panettone con marmellata di arance

Bevande

Limonata all'americana

Lievitati

Pizza fritta Panzerotto barese Pita Pizza in doppia cottura Ravazzate Pane Naan Kaiser roll Pepperoni Pizza Croissant Potato roll Ciabatta Pandoro

Formaggi

Mozzarella Raclette Yogurt Assaggiare il formaggio

Portfolio

66 67 58 64 16

Gennaio Gennaio Febbraio Marzo Aprile Maggio Giugno Giugno Luglio Luglio Agosto Settembre Settembre Novembre Dicembre

52 57 58 59 62 56 51 76 56 78 54 60 81 56 56

Giugno

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Gennaio 58 Febbraio 62 Marzo 62 Aprile 66 Maggio 60 Giugno 56 Luglio 58 Agosto 66 Settembre 70 Ottobre 52 Novembre 60 Dicembre 60

Febbraio Marzo Aprile Maggio

76 75 78 72

Gennaio Febbraio Marzo Aprile Maggio Maggio Giugno Luglio Agosto Settembre Ottobre Novembre Dicembre

10 14 10 10 12 80 12 14 8 16 14 18 23

BBQ4All Magazine

Friggendo verso Sud Fritture nel mondo antico Storia della cucina sul fuoco Affumicatura Picnic Chef della realtà instagrammata Cucina indiana Grigliare d'estate Anteprima - Grill&Smoke to Perfection Masterclass - Intervista Cucina francese Hamburger Beef Ribs Natale ieri e oggi

Giugno Giugno Agosto Agosto Dicembre

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Le razze e i tagli

Chuck Roll Steak Stinco Flap steak - Flap Meat Quinto Quarto - il cuore Quinto Quarto - Fegato e rognone Infografica - i tagli giapponesi Hanger Steak Tenderloin Beef Ribs Quinto quarto - frattaglie bianche

Aprile Maggio Giugno Giugno Agosto Agosto Settembre Ottobre Novembre Novembre

16 18 18 70 78 84 12 78 18 72

Setup dispositivo Cuocere l'hamburger Sfatiamo i miti del barbecue Cotture ibride Cottura diretta Affumicatura Cottura indiretta sul kettle Cottura indiretta su kamado e pellet Cottura indiretta sui dispositivi a gas

Gennaio Febbraio Marzo Aprile Maggio Giugno Luglio Agosto Settembre

84 84 87 90 83 83 84 85 82

Foil Seasoning

Novembre 83 Dicembre 76

BBQ4All From Zero to Hero - Cottura sul fuoco

Across the pond

Fried chicken Waffle americani Gli americani e il pesce Tailgate Party Puerco asado con mojo criollo La dispensa americana - parte I Menù del 4 Luglio La dispensa americana - parte II Ristoranti in America Filetti di pesce blackened Ricette di Halloween Tacchino del ringraziamento Ketchup Natale negli USA

Approfondimenti

Corso di cucina - fornelli e forni Corso di pasticceria - 10 strumenti indispensabili Ristorante Acquerello e ricetta del kimchi Corso di cucina - 10 piccoli elettrodomestici indispensabili Corso di cucina - coltelli Consumi di carne bovina Corso di pasticceria - crostata di frolla e crema Corso di pasticceria - tiramisù Dispositivi e accessori - tris di coltelli

The Chemical Griller

Dicembre 2021

Gli oli da frittura Pastella o panatura Padelle e usi Patatine fritte scientifiche e alternative

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Gennaio 66 Gennaio 70 Febbraio 68 Marzo 70 Aprile 72 Maggio 67 Giugno 62 Luglio 64 Agosto 72 Agosto 76 Settembre 76 Ottobre 72 Novembre 66 Dicembre 68

Gennaio Marzo Marzo Aprile Aprile Maggio Giugno Luglio Novembre

80 81 84 82 86 76 76 78 76

Gennaio Febbraio Marzo Ottobre

16 22 19 58


De Gustibus

Parmigiano Reggiano Ostriche Wagyu Wagyu - reportage dal Giappone Smoked pepperoni Mini burger

La ricetta scientifica

Carbonara 2.0 Cheeseburger Spezzatino Guancia brasata Pasta al pomodoro Insalata di riso Tabuleh Spaghetti all'assassina Cacio e pepe Risotto al Parmigiano Reggiano Frittata di patate Omelette

Seguo

Il bullo ti tormenta La banalità del bullo Bello, ma lo fanno anche da uomo? Di rancore vive il mondo del grilling Sono stanco e stufo di essere stanco e stufo Aspettative, delusioni, allegorie Too good is to be Gamma, to be Gamma is to be good! Non far caso al disordine Una questione di -ismi desueti Concedersi un fiasco Il mito della caverna di Platone Clip show

Gennaio Febbraio Marzo Luglio Settembre Ottobre

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Gennaio 88 Febbraio 88 Marzo 90 Aprile 94 Maggio 88 Giugno 88 Luglio 86 Agosto 90 Settembre 90 Ottobre 82 Novembre 86 Dicembre 80

Gennaio Febbraio Marzo Aprile Maggio Giugno Luglio Agosto Settembre Ottobre Novembre Dicembre

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CLUB

Diretta m e n t e da lla co m m u n i ty di ma e s t ri d i ba rbecue pi ù grande d’I tali a, nasce i l prest i gi oso club c h e ti offre la possi bi li tà di avere: a ccesso p ri or i tar i o al meg astore, dove pot ra i fa re ra zzi e m ent re tutt i gli a lt ri “ sono i n coda ” ; u na p rogra m ma zi o n e i n telli g en te dei tu oi acq u i sti gra zi e a l c re di to m e nsi le prepa gato (scegli tu quanto); u n coa c h pr i vato c h e ti g u i derà n e l fa rt i vi ve re l’ e s p eri enza

pi ù ecci tant e di sem pre

co n la pre p arazi one dei tuoi pi att i ; e molto altro an cora. . . Av ra i tu tto qu es to s o lo s e ti i s c r i vi s u bito a l MEG ASTOR E CLUB, l’uni co luogo ri servato a u na c e rc hia r i s t re tta d i a s pi ra n t i gri ll ma s t e r c he desi dera no a pprendere pi ù velocement e e nel modo p iù accurato possi bi le, la s ubli m e a rt e del gri ll. Pu oi di si scri vert i quando vuoi e i l tu o c red i to sarà sempre di s pon i bi le.

collegat i a

H T T PS : / / C LU B M E G ASTO R E . B BQ 4 A L L. I T e c h i e di i n formazi oni pi ù detta gli at e,

Dicembre 2021

pr i ma c h e i coac h fi ni sca no e le i scri zi oni chi uda no.

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