N°37/ANNO 4 - GENNAIO 2022
L'EDITORIALE DI GIANFRANCO LO CASCIO
CARNE DI BISONTE
la cottura spiegata bene
SPECIALE
STEAKHOUSE Caesar Salad, Pork Belly glassato, Martini butter New York Strip, T-bone con salsa al rafano, Tomahawk ai tre burri, French Onion Tower Ribeye, Filetto al whisky, Chuleton con salsa Bernese, Denver Steak con jacket potato NICE TO MEAT YOU
Guida ai tagli da bistecca FROM ZERO TO HERO
La bistecca perfetta
LA RICETTA SCIENTIFICA
Pizzoccheri
alla valtellinese
Direttore Editoriale Rossella Neiadin
Redattore Capo Michela Bongiorni
Redazione
Enio Berton Virgilio Brunetti Tommaso Buccafurri Nunzia Clemente Roberto Dal Bosco Salvatore Di Mento Luca Gallozza Marco Gerometta Mariangela Ibba Gianfranco Lo Cascio Riccardo Meniconi Giovanni Minelli Emiliano Nencioni Elena Ninotti Andrea Spaggiari Alessandro Trezzi Carlo Trono Paolo Tucci Alex Vasile Caterina Vianello Alberto Zonghetti
Realizzazione Grafica
Impaginazione Carlo Trono Illustrazioni di Eleonora Castagna e Ozzy Bellesi Fotografie di Rossella Neiadin, Luca Gallozza, Tommaso Buccafurri, Elisa Giuli, Emiliano Nencioni
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IN DI Rubriche
Editoriale - Bisonte, la cottura spiegata bene
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Portfolio gastronomico - Steakhouse: : nascita, mito e presente
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Nice to meat you - La fai facile a dire bistecca, i tagli spiegati bene
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Le ricette Caesar salad
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Jambalaya cajun nella piadina romagnola
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Pork belly glassata all'aceto di mele, carote e ribes
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New York strip steak con burro al Martini
38
T-bone di vaca vieja galiziana
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Tomahawk ai tre burri
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French onion steakhouse tower
48
Filet steak con crema di Irish whiskey
50
Chuleton con salsa bernese
54
Denver steak e jacket potato
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Key lime pie
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Approfondimenti
Arte Bianca - Il pane artigianale alla conquista dell'america
64
Across the pond #01 - Gli americani e la carne
70
Across the pond #02 - Surf and Turf
74
From Zero to Hero - La bistecca perfetta
76
Infografica - Dove posizionare la sonda del termometro
80
La Ricetta Scientifica - Pizzoccheri alla valtellinese
84
Seguo - Non per informazione, ma per ispirazione
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Editoriale di Gianfranco Lo Cascio
BISONTE
La cottura di questa carne straordinaria
SPIEGATA BENE
“Se oggi vado a letto non avendo fatto niente di nuovo rispetto a ieri, allora oggi è stato sprecato.” Ah, come suona bene. Questa è senza dubbio una delle citazioni di Guglielmo Cancelli che preferisco. Perché la considerazione di quello che è il mogul dell’informatica si applica a tutte le sfumature del vivere contemporaneo. Cucina compresa. Avete mai sentito parlare della carne di bisonte? Per alcuni sarà senz’altro una novità, una nuova fonte di succulente proteine che va necessariamente scoperta, conosciuta e soprattutto capita. Per prima cosa, però, proviamo a visualizzare la bestia quando ancora muggisce. Il bisonte è uno degli animali terrestri più pesanti al mondo. Un bisonte non mangia chili di cibo: ne mangia ETTARI. Sì, ettari, arrivando in età adulta a una tonnellata di peso. Al garrese, cioè dove iniziano le vertebre, è alto quasi 1,90 m ed è lungo quanto un furgone da traslochi (fino a 3,5 m). Appartiene alla famiglia dei bovidi proprio come i bovini; ma il bisonte, il bison bison per essere precisi, è essenzialmente un brucatore nomade, è uno un po’ gipsy in pratica. Nella cricca dei Bovis è come lo zio americano che preferisce il ranch all’appartamento a Manhattan.
QUAL È LA DIFFERENZA TRA BISONTE E BUFALO? NON SONO LA STESSA COSA? Ma manco per idea. Prima di tutto, Il bisonte vive in climi più freddi: Canada, Nord America e Nord Europa. Il bufalo preferisce le temperature più calde di Asia e Africa, mica scemo: infatti, si pensa che decine di migliaia di anni fa il bufalo sia migrato lentamente dall'India al Mediterraneo, seguendo i climi miti. Il bisonte ha la gobba e le corna corte, il bufalo non è gobbo ma ha le corna mooolto più lunghe e rivolte verso il basso. Il bisonte è pelosissimo, il bufalo ha il pelo raso che fa scivolare via l’acqua in cui ama sguazzare. Il bisonte corre fino a 70km/h, il bufalo piglia la macchina per andare in soggiorno. Indovinate chi muore prima? Il bisonte. L’ho sempre detto che lo sport fa male. E la differenza tra i due tipi di ciccia? Quella di bufalo è più magra, più dolce e difficile da reperire.
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PERCHÉ LA CARNE DI BISONTE È COSTOSA? Tanto per cominciare, di tutte le carni presenti sul mercato, è una delle più rare. Tenete presente che questi carrarmati fatti di carne e pelo trascorrono la maggior parte dell’anno scorrazzando per le pianure, mangiando germogli ed erbe selvatiche. Solo 90-120 giorni prima della macellazione passano ad una dieta a base di cereali e insilati, per cui il loro spazio vitale non è paragonabile a quello dei bovini. Insomma, il bisonte è più costoso perché gli animali disponibili sono ancor meno che i grillini dichiarati, e perché necessita di una superficie di prato zampettabile che il manzo se la scorda.
BISONTE VS MANZO, COSA CAMBIA TRA I DUE? La carne di bisonte è più rossa, più raffinata. È meno marezzata e il suo grasso tende al giallo, dato che la bestia mangia erba in quantità da contare ad ettari, come dicevamo prima.
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Secondo errore: schiaffare la carne ancora fredda sulla piastra Questo vale per tutti i tipi di carne a dire il vero. Avete quattro strade per evitare che la bistecca si lessi e sappia di materassino da campeggio:
SÌ, MA: LA CARNE DI BISONTE DI CHE SA? Il bisonte ha lo stesso sapore del manzo come le coscette di rana hanno lo stesso sapore del pollo - cioè più o meno uguale, ma non proprio la stessa cosa. Tanto per iniziare, è visibilmente più magro ed ha un colore tendente al vinaccia (dovuto ad una grande quantità di mioglobina) e un aroma più delicato. Ricchissimo di proteine, vitamina B12, B6, ferro e zinco, all’assaggio risulta meno unto e più minerale. Se cotta a dovere, una ribeye di bisonte è quasi indistinguibile da una di manzo. A contatto col calore sviluppa una crosta di cauterizzazione molto saporita, ma avendo una quantità di grasso infiltrato minore, è meno indulgente con chi cuoce la carne a sentimento.
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QUALI SONO GLI ERRORI CHE FANNO TUTTI QUANDO SI CUOCE IL BISONTE?
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Primo errore: non ungere la carne prima della cottura L’ho scritto prima, la carne di bisonte è magra. Tenera, delicata, ma pur sempre magra. Quindi necessita di un aiutino: pennellatela con abbondante olio o burro fuso prima di cuocerla.
1. La mettete in forno a 52°C. Sì, esatto, la fate asciugare lentamente, sempre sospesa su una griglietta o una teglia forata 2. La chiudete in un sacchetto sottovuoto e la calate in un bagno termostatico a 52°C, per almeno un’oretta. La tirate fuori e la asciugate con carta assorbente, fin quando non vi fa più la pozza sul fondo. 3. Riempite il lavandino della cucina con qualche centimetro di acqua calda, prendete la carne in skin o nella confezione che si ritrova e ce la buttate dentro, con disinvoltura. Una volta che avrà preso calore, vi basterà toccarla per rendervene conto, la asciugate come sopra. 4. Potete controllare la reazione di Maillard intervenendo sulla quantità di zuccheri riducenti e la disponibilità di aminoacidi. E che intendiamo per zuccheri riducenti? glucosio, fruttosio, lattosio, maltosio e ribosio. L'aggiunta di uno di questi zuccheri sulla superficie di un pezzo di carne (di bufalo, ma anche di manzo) aumenterà la reazione e migliorerà il profilo del sapore.
È possibile cambiare le sorti di una bistecca di bufalo anche aumentando il pH, perché questo rende gli amminoacidi più disponibili a reagire. Elaborando queste informazioni, potete preparare un’acqua di Lourdes per i vostri pezzi di ciccia. Prendete il 100% di acqua in peso, aggiungete dall'uno al quattro per cento di zucchero riducente, come lo sciroppo di glucosio o di mais, e lo 0,25% di bicarbonato di sodio. Mescolate bene e spennellate sulla carne prima di farla cuocere. Per farla breve: 200 gr d’acqua, dai 2 agli 8 gr (1/4 di cucchiaino o un cucchiaino) di sciroppo di glucosio/malto/ miele di acacia, e 0.5 gr di bicarbonato di sodio (un pizzico in pratica).
Quarto errore: servire la carne senza una salsa a base grassa Che può essere il burro con cui abbiamo fatto il “basting”, ovvero l’intingolo. Che volendo potremmo arricchire, facendo così: togliamo la carne dal fuoco e le facciamo fare un 5 minuti di rest (di riposo) su un tagliare. Aggiungiamo nella padella 150 ml di Madeira o di Porto e lo facciamo sfumare, quindi arricchiamo con 150 ml di panna fresca, sale e pepe (anche in grani se ci piace). Aspettamo che la salsa si addensi fino a velare il cucchiaio e serviamo sulla carne o in una ciotolina, magari evitando di inguacchiare il piatto come un Pollock comprato su Wish. Tutto chiaro, no? Chi ci prova a cuocere il bisonte alla perfezione?
Gianfranco Lo Cascio
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Terzo errore: superare i 55°C al cuore Quello che vi consiglio di fare è utilizzare la tecnica del pan frying, che è un modo più metropolitano per dire che la dieta la iniziate lunedì del prossimo anno. Prendete una padella in ghisa o in ferro e fatela scaldare fin quando non vi apparirà un pentacolo. Io di solito ci butto due gocce d’acqua per vedere se evapora e fa *Psttt*. Prendete la carne, leggermente tiepida e asciutta, ungetela con olio o burro fuso e fate un primo searing da entrambi i lati, aspettate cioè che si formi una bella crosta di cauterizzazione. Trascorsi questi pochi secondi, aggiungete due
belle noci di burro, un rametto di rosmarino o di timo e uno spicchio d’aglio in camicia (schiacciato). Prendete un cucchiaio, inclinate la padella di 20° e cominciate ad innaffiare la carne col burro sciolto, facendo attenzione a non superare mai i 55°C al cuore.
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Nascita, mito e presente dei ristoranti di carne… ma non solo
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Dici steakhouse e pensi agli Stati Uniti. Sempre più di frequente, i feed dei nostri canali Instagram sono invasi da influencer o pseudotali che “ci portano” a conoscere le vere steakhouse americane. Sicuramente, dal nome, vi potrà sembrare semplice risalire allo scopo di questi ristoranti, spesso con tantissimi coperti: nelle steakhouse la portata principale è rappresentata dalla carne, spesso declinata in diverse ricette: si va dal grilling e
Portfolio gastronomico a cura di Nunzia Clemente
barbecue duro e puro fino alle Filet Steak, alle Steak Diane e altre preparazioni (che avremo modo di vedere tra le pagine del Magazine). Ma il ruolo delle steakhouse non si esaurisce certo qui: alla carne di vario taglio e preparazione vi si affiancano molti piatti di tradizione spesso anglosassone, sia per quanto riguarda le portate uniche che i cosiddetti “sides”, cioè quelli che volgarmente chiamiamo contorni, oppure ancora appetizers, antipasti.
università dedicata al cibo. Normalmente, in queste taverne, si servivano pezzi di carne (perlopiù bistecche o ancora carne di maiale), accompagnati da boccali di birra e liquori vari diffusi nella Londra del XVII secolo. La frequentazione era riservata essenzialmente al pubblico maschile. La più antica steakhouse (al tempo, molto più famosa come chophouse) attualmente in attività è la Simpsons Tavern di Londra. La data di apertura è fissata al 1757 (!) ed ancora oggi vede un menu semplice ma ugualmente articolato secondo tradizione: gli antipasti vedono toast con pollo grigliato, bacon, pollame preparato in vari modi, bistecche in padella o alla griglia, rognoni di vitello e una selezione di wine e spirits storici. Sulla qualità degli stessi, poi, faremo un passaggio in seguito.
La storia delle steakhouse è lunga ed articolata: va da sé che si tratta di una tipologia di ristoranti molto più diffusa in luoghi dove la carne è un oggetto di culto tra il divino e l’umano, quindi il Nord Europa (con epicentro nel Regno Unito) e gli States ne sono quasi la patria incontrastata. Ciò non ha vietato, nel corso dei secoli (soprattutto lungo i decenni del secolo scorso) il diffondersi di questa tipologia di ristoranti fuori dalle cosiddette mura domestiche, con la creazione di ibridi lontani dalle terre natie, nonché di catene dedicate. DEFINIZIONE DI STEAKHOUSE. Andiamo con ordine. Vi abbiamo già dato spoiler su cosa sia una steakhouse, ma definirla con criterio non è mai cosa sbagliata. Una steakhouse, chiamata altrimenti chophouse, è un ristorante dedito al servizio di bistecche di carne bovina o suina, generalmente di alta qualità. Ciò non vieta ai suddetti ristoranti di servire anche altro tipo di carne in diverse tipologie di preparazione, come il pollame, in alcuni casi selvaggina, oppure ancora crostacei di alto pregio come astici ed aragoste, o ancora ostriche.
L’immaginario che abbiamo oggigiorno delle steakhouse non si allontana molto da ciò che era all’epoca, almeno per quanto riguarda l’arredamento: prevaleva l’utilizzo del legno, con tavoli grezzi e panche atte
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Le steakhouse – o chophouse, molto diffuso questo termine soprattutto in passato e riferito alle vere e proprie “costolette” – sarebbero nate nella Londra di fine Seicento, almeno stando alla ricostruzione storica operata dalla Oxford Companion to Food, l’enciclopedia della omonima
Ma le chophouse londinesi, all’epoca, offrivano tutta una serie di cibarie tradizionali inglesi. Nell’ordine, in una chophouse del XVII secolo si trovava facilmente la sogliola di Dove fritta, la torta di piccione, cosciotto di montone, controfiletto scozzese con verdure, cacciagione in salmì. Piatti anche abbastanza elaborati volendo, ma che rispecchiavano in toto ciò che la popolazione inglese (maschile, ricordiamolo) ricercava in una taverna dedita al cibo sostanzioso.
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Con l’emancipazione delle colonie dalla madrepatria, vediamo anche un fiorire delle steakhouse – con proprie ricette, evoluzioni di quelle “tradizionali” – anche nei nascenti Stati Uniti. Verso la metà del Novecento – grossomodo, tra gli anni Trenta e dopo la Seconda Guerra Mondiale – si iniziarono a diffondere le steakhouse chains. Da piccole realtà locali, magari di quartiere, il fenomeno si replica su larga scala con una certa standardizzazione del prodotto e dei gusti: ad esempio, la catena di steakhouse di ispirazione texana vedrà bene o male i suoi prodotti e le sue preparazioni replicate lungo tutti gli States nello stesso modo, con menu molto simili tra di loro… e via discorrendo con altre tipologie.
ad accogliere quante più persone possibili intorno, arredamenti votati alla condivisione e pesanti tendaggi.
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Insomma: le chophouse ci tenevano dannatamente a restare così, tradizionali. A proporre vivande tradizionali, nel modo più autenticamente inglese possibile. Persino nell’ “ammissione” di donne all’interno di queste taverne: c’è da ricordare che l’ultima taverna inglese a mantenere la tradizione per “soli gentiluomini” – la Stone's Chop House in Panton Street, a Londra – capitolò soltanto nel 1921, quando finalmente si rese conto che forse condividere una sogliola di Dover o un arrosto di montone con la controparte femminile poteva arricchire e rendere più interessante la cena, non togliere valore.
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Il reale motivo per il quale le chophouses erano dedicate esclusivamente agli uomini era il loro “reale” utilizzo: queste ampie taverne con piatti sostanziosi erano destinate perlopiù a rifocillare i lavoratori di passaggio, agricoltori, minatori, lavoratori del carbone, delle ferrovie e delle primissime fabbriche. La manodopera era essenzialmente maschile e, da qui, la visione quasi da “club” privato.
VALE LA PENA ANDARE IN UNA STEAKHOUSE OGGI? A domanda precisa, ci vorrebbe una risposta precisa. Senza voler fare troppo i Ponzio Pilato della situazione, l’unica risposta possibile è: dipende cosa vi aspettate da una steakhouse dei nostri giorni. Solitamente, le steakhouse americane sono affollate da famiglie, avventori della spicciolata che hanno bisogno di pranzare in un luogo tranquillo e di comprovata sicurezza alimentare; oppure, ancor più semplicemente, turisti che vivono nel sogno americano fatto di diners e steakhouse e che pensano di trovare ricette autenticamente americane in uno di questi punti ristoro. Se vi state chiedendo, ancora, se l’appassionato di carne va in una steakhouse… la risposta è no, soprattutto se siamo negli Stati Uniti. L’esempio più calzante, che vi permetterà di capire la situazione, è quello riguardante la tipologia di carne utilizzata: nelle steakhouse americane la carne utilizzata per le preparazioni non è di primissima qualità. Viene, infatti, utilizzata la così chiamata USDA Choice Beef, secondo il loro particolare sistema di schedatura che prevede tre “gradi” per la carne: USDA Prime Beef (molto marezzata e pregiata), USDA Choice Beef e USDA Select Beef (davvero poco marezzata e con molto meno sapore). La tipologia Choice Beef è una carne non particolarmente marezzata, non molto tenera e che è adatta a cotture dirette. Per ottenere maggiore tenerezza da questi tagli, sarà necessario prestare loro cotture differenti per farle divenire brasati, ad esempio. I costi di questa carne tendono ad essere contenuti e, quindi, accessibili anche a fasce ampie della popolazione.
QUALI SONO LE STEAKHOUSE CHAINS PIÙ FAMOSE DEGLI STATES? Come dicevamo poco più su, il fenomeno delle steakhouse chains (che in italiano, sarebbero semplicemente catene di steakhouse, niente di molto dissimile dai format McDonald’s) ha fatto sì che format molto simili di steakhouses si diffondessero a macchia d’olio negli States e non solo. Di seguito, vi menzioniamo alcune delle steakhouse chains più diffuse negli Stati Uniti, con qualche nota a margine.
Capitol Grill: la steakhouse “sofisticata” della lista, con sedi in più di venti Stati. Da Capitol Grill potete trovare bistecche con marinatura al caffè, o ancora con aceto balsamico invecchiato quindici anni. Fogo de Chao: presente in più di dieci Stati, il brand Fogo de Chao è diventato l’ambasciatore della churrascaria brasiliana negli Stati Uniti. Le carni vengono tipicamente infilzate e servite su spiedi e spade da camerieri molto ben vestiti ed educati.
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Benihana: si tratta di una delle catene di steakhouse più longeve (è nata nel 1964) e diffuse degli Stati Uniti, nonché una delle più interessanti. Infatti, riesce ancora tutt’oggi a coniugare la cultura della carne statunitense a quella giapponese.
Black Rock Bar & Grill: pare sia il regno del food porn, sia per la carne che per il pesce. Diffusa in cinque Stati, prevede preparazioni fantasiose come ad esempio la zuppa di aragosta con una chela direttamente infilata all’interno, oppure filetti di Angus ripieni di funghi champignon.
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COME SI COMPONE UN MENU TIPICO DI UNA GRANDE STEAKHOUSE AMERICANA? Il menu tipico di una grande steakhouse d’Oltreoceano non è molto lontano da quello che ci immaginiamo, ma si differenzia enormemente tra catena e catena: se – ancora una volta – la steakhouse sarà di ispirazione texana, troveremo piatti unici ed appetizers ispirati a quella tradizione culinaria e così discorrendo. Solitamente, nel menu standard di una steakhouse non potranno mai mancare gli anelli di cipolla fritti (in vari gusti), i peperoncini Jalapeño panati e fritti (e spesso ripieni di formaggio, come il Cheddar), patate ripiene, le famose Jacket Potatoes. Per quanto riguarda la carne, solitamente il menu di una steakhouse vede la presenza di ribs di maiale preparate al barbecue, bistecche di manzo di svariata pezzatura al grill (alcune molto scenografiche), oppure ancora piatti misti completati con verdure, pannocchiette e colate di burro fuso che da queste parti non si risparmia.
Come accennavamo, molte steakhouse non hanno solo carne di manzo, pollame o maiale nei loro menu, ma anche una selezione abbastanza buona di pesce. Soprattutto nelle steakhouse sul mare, la protagonista di questa parte del menu è l’aragosta oppure l’astice; a seguire, selezioni di gamberi e granchi, tutti essenzialmente cotti alla brace e serviti con del burro fuso accanto per insaporire. Per quanto riguarda le bevande, in questo tipo di locali viene fatto largo uso e larga promozione degli analcolici: via libera a bibite gassate come Sprite, Coca Cola e Fanta, spesso proposte in XXL size (e ricordiamo che negli States questa taglia può raggiungere tranquillamente anche il litro!) con refill gratuito. Per quanto riguarda gli alcolici, lo spazio è occupato essenzialmente dalle birre nazionali statunitensi, a bassa gradazione alcolica e di tipo pils o lager. Qualche etichetta di vino talvolta è presente, perlopiù vino californiano, argentino e soltanto negli ultimi tempi qualche referenza italiana o francese.
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NICE TO MEAT YOU
La fai facile... a dire
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I tagli del bovino spiegati bene
Non tutte le bistecche sono uguali. Se ci seguite da un po’, ormai, questo mantra dovrebbe esservi chiaro. Ad ogni “pezzo” il suo utilizzo. Per quanto riguarda poi la bistecca, sarebbe più opportuno parlare di bistecche. Sì, al plurale. Le bistecche più costose si ricavano tutte dalla stessa parte del bovino, cioè la sezione dorsale del costato e dalla colonna vertebrale. Questo perché il Longissimus dorsi ed il muscolo grande Psoas - si muovono poco o nulla durante la vita di un manzo. Sono pezzi di carne estesi, teneri ed estremamente facili da tagliare in succose bistecche.
Queste carni sono potenziate nel sapore a causa della funzione che svolgono, ed essendo poco appetibili dal punto di vista commerciale, e necessitando di abilità particolari nella manipolazione e nella cottura, sono parecchio più economiche dei più in voga presso i carnivori. Ma “taglio povero” non equivale necessariamente a poco godimento. C’è bisogno del modo giusto di tagliare la sezione di carne e – fattore importantissimo – di studiare la cottura adatta. Vi presentiamo, quindi, tutti i tagli dai quali è possibile ricavare bistecche, spiegandovi le caratteristiche di ognuno.
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I tagli poveri, invece, provengono dall’animale nella sua interezza, e non sono così semplici da sezionare. Molti consistono in muscoli interi, che devono essere necessariamente trimmati e lavorati dal macellaio per sublimarli in bistecche. In più, non
sono così abbondanti: per ogni 9 kg di Ribeye e di T-bone che si possono estrapolare da un bovino, abbiamo circa 1kg di questi tagli apparentemente tristi e disadorni.
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COLLO/SPALLA Chuck Steak: il Chuck è il collo del bovino, da noi corrisponde principalmente al reale. Si tratta di un taglio di seconda categoria, ricco di tessuto connettivo e grasso; la tradizione culinaria italiana lo considera ottimo per il bollito, per i piatti in umido e per la carne macinata. La cucina americana lo utilizza ricavandone bistecche saporite, tenere ed economiche: appunto, le Chuck steak.
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7 Bones Steak: la 7 Bones Steak è una bistecca molto saporita e ricca di collagene; si chiama così perché il suo osso ha la forma di un sette e perché è ricavata dalla parte del collo composta da sette fasci muscolari. Manco a dirlo, in Italia questo taglio è praticamente sconosciuto. Essenzialmente succede perché considerato un taglio estremamente tenace, buono solo per i brasati, per la carne macinata e per gli spezzatini.
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Denver Steak – Chuck Flap – Zabuton Steak: la Denver Steak è una bistecca ricavata da un gruppo muscolare molto tenero del sottospalla, estremamente difficile da ottenere senza rovinare l’intero collo. La sua ricca infiltrazione di grasso dona alla carne sapore e morbidezza. La si può trovare intera, chiamata Chuck flap o copertina del reale, ricavandone le bistecche Denver dello spessore preferito. Zabuton è il nome di origine giapponese quando ci si riferisce al taglio ricavato da animale di razza Wagyu. Vegas Strip: La Vegas Strip è un taglio di collo abbastanza difficile da isolare e trimmare dal resto dei gruppi muscolari ma anche uno dei tagli dal gusto di manzo più solido e robusto. L’ “inventore” di questo taglio è il veterinario Tony Mata: dopo moltissimi tentativi, ha con successo estratto e fatto conoscere questo taglio strepitoso.
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Teres Major: Il Teres Major, normalmente chiamato Fusello di spalla in Italia e destinato ad altri usi, è un taglio praticamente identico al più blasonato filetto, quindi definibile come il secondo taglio più tenero di tutto il manzo. Viene estratto da un insieme di altri muscoli ricchi di tessuto connettivo ma, come il filetto, è un gruppo muscolare funzionale alla postura del collo quindi scarico di connettivo. Se frollato a dovere, è un taglio strepitoso.
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Top Blade Steak: la Feather Blade, in Italia comunemente conosciuta come Cappello del prete o Copertina di spalla, è un muscolo anteriore della spalla non di principale utilizzo durante la vita dell’animale e quindi molto morbido ma anche molto saporito per la vicinanza ai muscoli del collo. Caratterizzata dalla presenza di un’aponeurosi (la sottile fascia fibrosa che ricopre il muscolo e si interseca nel tendine) che corre lungo il suo centro, se tagliata verticalmente le bistecche ottenute prendono il nome di Top Blade Steaks.
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Flat Iron Steak: se separiamo la Feather blade per la sua lunghezza, seguendo lo strato centrale (l’aponeurosi di cui sopra) si ottengono due grandi sezioni chiamate in gergo Flat Iron steaks. Da qui, si può ulteriormente porzionare queste in 2 o 3 parti ottenendone delle bistecche più comode da gestire. Entrambi i tagli ricavati dalla Feather blade, Top blade e Flat Iron, sono estremamente morbidi e gustosi e maggiori sono le infiltrazioni di grasso presenti, maggiori saranno le note gustative amplificate. Scegliere tagli provenienti da selezioni particolari di razze come il Black Angus o il Wagyu significa ottenere bistecche dal gusto esplosivo e dalla morbidezza impareggiabile.
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Asado de Tira: taglio trasversale e mediamente sottile delle costole di manzo. Di stile argentino, classico dell’asado, se caratterizzato da una marezzatura ottimale e trattato con l’opportuna cottura è molto morbido e saporito. Da razze di Black Angus o Wagyu si ottengono tagli ottimali da esaltare grazie alla cottura ibrida.
Finger Steaks: le Finger steaks sono le strisce di carne comprese tra le ossa che si prolungano dal tronchetto di costate. Sono da sfruttare con la classica tecnica di cottura ibrida per ammorbidire la tenacità del tessuto connettivo. Molto saporite e grasse se ricavate da animali Black Angus o Wagyu.
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Inside Skirt: l’Inside Skirt, detto anche il falso diaframma, è un muscolo dell’addome coinvolto nella respirazione, più precisamente l’espirazione. Si tratta di un taglio molto saporito e ricco di infiltrazioni di grasso, caratterizzato da una fibra grossolana. Quest’ultima caratteristica permette al calore, che in cottura deve essere alto, di penetrare rapidamente a sciogliere il grasso mantenendo il pezzo morbido. Se si vuole il massimo risultato in morbidezza e succulenza sarebbe opportuno non esagerare con la cottura interna.
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PANCIA Outside Skirt: l’Outside skirt (diaframma esterno) è il taglio che si ricava dal muscolo diaframmatico che separa la cavità toracica dalla cavità addominale e che normalmente trovate completamente ricoperta da una membrana protettiva chiamata peritoneo. Ottimo taglio da marinare e da cuocere in Flip&brush con l’accortezza finale di scaloppare le porzioni controfibra per un miglior riscontro al morso.
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Hanger Steak: la Hanger steak, comunemente chiamata lombatello in Italia, è un muscolo che pende dal diaframma nella parte anteriore del bovino. Presenta una fibra molto larga e visibile e per questo adatta all’uso delle marinate. È composta da due sezioni, una più larga e una meno, collegate tra loro. Dividendo queste sezioni si ottengono ben due bistecche dall’intenso sapore manzoso. Per un risultato ottimale ed evitare un’eccessiva flaccidità vi consigliamo di adoperare una cottura media.
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Flank Steak: conosciuta come bavetta piccola o tasca, la Flank Steak è un taglio che sta prendendo piede perché, oltre ad essere tra i tagli meno costosi, se ben marezzata è morbida e gustosa. Quando proviene da animali di razze come il Black Angus e il Wagyu ci si rende subito conto che il prodotto è di tutt’altro livello. Caratterizzata da fibre piuttosto importanti e spesse, è consigliato ricorrere a tecniche che la esaltino, come la cottura ibrida o il flip&brush.
Flap Meat: la Flap Meat è un taglio di pancia, da noi chiamata bavetta alta, caratterizzata da un gusto di manzo dolce, quasi minerale, e da una fibra flaccida ma morbida e tenerissima. Simile alla struttura del diaframma, necessita di un calore più moderato per consentire di ottenere una buona cauterizzazione esterna con una cottura interna un po’ più avanzata in confronto alle classiche bistecche.
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LOMBATA Ribeye Steaks: le Ribeye steaks, o costate, sono le bistecche che si ricavano dal tronco di coste subito dietro al collo, più precisamente dalla sesta alla dodicesima costa (taglio USA, in Italia è tra la sesta e la decima). La carne della zona delle costole è arricchita da una buona quantità di grasso che diluisce il contenuto di connettivo rendendola tenera, ma soprattutto saporita. Le Ribeye possono essere disossate (boneless) o mantenute con l’osso (bone-in). Mantenere l’osso aiuta la coesione tra le fasce muscolari che, durante la cottura, tendono un po’ a staccarsi in conseguenza al grasso di collegamento che si scioglie. Una Ribeye steak bone-in, quindi con osso, può chiamarsi anche Cowb oy steak o Tomahawk, se l’osso viene lasciato intero per una grigliata molto scenografica.
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Dal tronchetto disossato si può ottenere il Cuberoll, l’intera sezione delle Ribeye boneless e, sezionando ulteriormente questa composizione di tagli differenti, si possono estrarre i 2 più conosciuti oltre oceano: l’Eye of the rib, il cuore della costata, e la Ribeye cap, il muscolo più morbido e saporito della sezione. Come cuocerlo? Cottura tradizionale, Revit, flip&brush: tutte queste tecniche si prestano a questo taglio incredibilmente morbido e saporito.
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T-bone Steak – Porterhouse steak - Roastbeef – NY Strip Steak: dalla lombata del manzo, si estraggono le due bistecche più blasonate del repertorio: la T-Bone steak e la Porterhouse steak. Sono tagli con l’osso della vertebra lombare, dalla caratteristica forma di una “T” rovesciata, ancora attaccato. Anche se in Italia sono entrambi denominate Fiorentina, queste due si differenziano per la posizione da dove vengono prelevate nella lombata e dalla conseguente dimensione del filetto. La T-Bone è la bistecca con il filetto più piccolo e il controfiletto più largo, posizionata nella sezione più anteriore. La Porterhouse è l’opposto: filetto grande, controfiletto appena più stretto. La lombata, oltre che porzionata bone-in, può essere disossata ottenendo 2 sezioni molto importanti: il roastbeef e il filetto. Il roastbeef è il taglio anatomico che corrisponde al nostro “controfiletto” o “sottofiletto”. Si tratta di un muscolo con poco collagene, anche questo poco utilizzato dall’animale. Non è tenero come il filetto ma è relativamente più saporito. Dal controfiletto si porzionano le singole bistecche chiamate, tra vari nomi, New York Strip, in pratica la porzione più grande e disossata, della T-Bone.
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Tenderloin: Prelevato dalla regione lombare del manzo, il Tenderloin, il nostro filetto, è un muscolo conico, ha una base larga che salendo si restringe. La gastronomia francese divide il filetto in tre sezioni: Chateaubriand la parte più larga, Tournedos la parte centrale e Filet mignon quella finale più stretta. È un taglio estremamente tenero, magro, con poco tessuto connettivo essendo un muscolo quasi inutilizzato. Trovare un filetto che abbia una buona infiltrazione di grasso è complicato; se proprio volete, dovrete scegliere razze come il Black Angus o Wagyu. Lo Chateaubriand viene tagliato con uno spessore consistente, almeno 5 o 6 centimetri, e servito appena scottato in superficie e crudo all’interno. Qualora non ci sia grasso a sufficienza, si “barda” o “lardella” il filetto.
COSCIA
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Rump cap: il Rump cap, o picanha, è un taglio che gli estimatori del churrasco brasiliano adorano. Conosciuto con molti nomi, tra i quali codone o copertina dello scamone, è un taglio caratterizzato da una forma triangolare, ricoperto da una spessa coltre di grasso duro (tra 1 cm e 3 cm). Il grasso per questo taglio è importantissimo, soprattutto durante la cottura: da preferire quella ibrida perché, sciogliendosi, andrà ad insaporire la carne magra. Taglio dal sapore molto intenso.
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Rump Cap Steak: normalmente si taglia in fette molto spesse che vengono infilate in spade agevolando la tecnica dello spit roast o spiedo. È oltremodo possibile sezionare la picanha in fette più sottili e trattarle come delle classiche bistecche da cuocere in griglia o piastra. Ottimo il risultato nell’utilizzo del Revit con tagli di Black Angus o Wagyu.
Tri-tip: il Tri-tip, da noi chiamato Spinacino, si consuma normalmente arrosto o farcito. È saporito, sufficientemente tenero e marezzato: senza dubbio, può essere la bistecca con il miglior rapporto qualità/ prezzo. Come altri tagli del basso ventre preferire la cottura ibrida è la via più certa per ottenere una crosta saporita e profumata contrapposta a un interno morbido e succulento. Anche tagliato a bistecche, come nell’esempio dello scamone, si ottiene un ottimo risultato con l’utilizzo del Revit.
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Spider Steak: la Spider steak è un piccolo muscolo ad arco intrecciato con una rete di grasso intramuscolare che si trova all’interno dell’anca, sull’osso. È piccolo, saporito grazie all’ottima infiltrazione naturale di grasso e facile da preparare con una rapida cottura in griglia o padella. Come tutte le bistecche sottili, la tecnica del flip&brush è la scelta ottimale per ottenere un risultato perfetto.
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CAESAR SALAD
L’insalata di un italiano, trasferito in Messico, amata in tutto il mondo! Conoscete bene l’attenzione che noi del BBQ4All Magazine abbiamo nei confronti delle insalate. Abbiamo cercato (riuscendoci, speriamo!) di spazzare via l’idea del contenuto tristolino di una busta piena di foglie verdi non meglio identificate, sperduta e recuperata tra i meandri di un supermercato. L’insalata ha una sua dignità, un suo gusto ed una sua giustissima platea di estimatori. Vi abbiamo fornito, tra le pagine del Magazine, tantissime ricette di insalate con ingredienti e dressing differenti, che rispettassero ed invogliassero ad un pasto magari più veloce ma non meno gustoso.
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Il concetto di “insalata” spesso non si associa a quello di un cibo comfort. Purtroppo, la stragrande maggioranza delle persone continua a riferirsi a questa preparazione come qualcosa di sacrificato, da regime alimentare ristretto. Tutto questo, però, non capita con la Caesar Salad. La Caesar Salad non solo è amata in tutto il mondo, ma al solo menzionarla fa venire davvero l’acquolina e il desiderio di mangiarla. Di cosa sarà il merito? Probabilmente, delle striscioline di lattuga romana, dei crostini di pane adeguatamente fritti, dei cubetti di Parmigiano Reggiano saporiti e con quel tocco di delizioso umami, il pollo passato alla piastra (che da cibo da dieta passa ad essere delizioso!) e per concludere una emulsione di olio, succo di limone, uova e salsa Worchestershire. Fresca, pratica e nutrizionalmente molto valida, la Caesar Salad ha avuto moltissimo successo sin dalla sua nascita. In questo caso, abbiamo addirittura nome e cognome del suo inventore. Caesar Salad, cioè l’insalata di Cesare.
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Calmi, calmi: come tutte le storielle e le leggende, c’è il fondo di verità storico e la “sovrastruttura” narrativa data dal popolo. In questo caso, però, abbiamo davvero un personaggio cui potenzialmente attribuire la nascita della Caesar Salad: si tratta dello chef Cesare Cardini, originario della zona del Lago Maggiore, in Piemonte. Cardini, come moltissimi altri all’inizio del Novecento,
dopo una serie di esperienze in Italia decise di emigrare negli States: siamo circa nel 1910. In California, ebbe maggiore fortuna, sia come cuoco che come imprenditore: qui, aprì almeno un paio di ristoranti di cucina italiana (conosciuti come Cardini’s Restaurant, con prime testimonianze datate 1919) e il suo nome era molto conosciuto nell’ambiente quando si parlava di cucina del Belpaese. Fu la (presunta o veritiera, deciderete voi!) creazione della Caesar Salad a consacrarlo alla storia. La Caesar Salad nacque da un periodo molto sfortunato: parliamo del Proibizionismo. Moltissimi ristoratori, a partire dal 1920, videro infrangere i propri sogni contro il muro molto alto della giustizia americana. L’alcol – liquori, distillati, vini – rappresentavano la voce più alta all’interno dei conti dei ristoranti. Cesare Cardini e i suoi ristoranti non furono esenti da questa crisi: ancora una volta, lo chef emigrante fu costretto a spostarsi. La meta prescelta fu il Messico, precisamente a Tijuana, città libera da certe costrizioni e sicuramente molto più libera e libertina in usi e costumi, tanto da essere apprezzata come meta vacanziera da milionari, ereditieri e divi di Hollywood. In occasione delle festività del 4 luglio, Cardini fu messo alla prova: preparare un piatto con pochi ingredienti, in un altro Paese straniero, che potesse però soddisfare le aspettative di tutti. Ed ecco la lattuga romana condita con i crostini di pane fritti all’aglio, l’emulsione di olio, uova e succo di limone, le uova sode, la cipolla, il Parmigiano ed il pollo. Siamo tra il 1920 e il 1925. Successivamente, pare che il fratello di Cardini – un certo Alessandro, Alex – nel 1926 arrivò a Tijuana ed aggiunse le acciughe alla ricetta originale, modificandola ma rendendola ugualmente famosa. Ci sono diverse storielle intorno alla creazione: c’è chi dice che il fratello di Cesare gli rubò soldi e gloria, altri che incolpano i suoi collaboratori e dipendenti di aver letteralmente portato la ricetta ovunque.
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Una bella testimonianza riguardo la diffusione della Caesar Salad ci viene fornita dalla critica culinaria e chef televisiva Julia Child. “[…] I miei genitori, ovviamente, hanno ordinato l'insalata. Lo stesso Cesare fece rotolare il carrello fino al tavolo, gettò la lattuga romana in una grande ciotola di legno, e vorrei poter dire di ricordare ogni sua mossa, ma non lo ricordo. L'unica cosa che vedo di nuovo chiaramente sono le uova. Lo vedo rompere 2 uova su quella lattuga romana e versarle, le verdure diventano tutte cremose mentre le uova scorrevano su di esse. Due uova in un'insalata? Due uova alla coque da un minuto? E crostini all'aglio e parmigiano grattugiato? Era una sensazione di insalata che raccoglieva ingredienti da costa a costa, e c'erano persino le eco suo successo in Europa.”
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Come potete immaginare, esistono mille varianti della Caesar Salad: molte sono accreditate come quella “autentica”. Noi vi forniremo la preparazione per una Caesar Salad semplice, senza la variante delle acciughe (ma nulla vi vieta di prenderne di buona qualità ed aggiungerne), con l’uovo presente soltanto nell’emulsione con cui condire l’insalata.
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Ingredienti per 4 persone: 150 g di lattuga
romana / 300 g di petto di pollo da animali allevati a terra / 80 g di Parmigiano Reggiano 40 mesi GLC Top Selection / Il succo di un limone intero / 1 uovo intero crudo/ 5 g di salsa Worcestershire / 2 uova sode /Olio extravergine d’oliva quanto basta / 100 g di pane raffermo (un pezzo di un filone casereccio andrà benissimo) / sale Maldon q.b.
PREPARAZIONE 1. Per prima cosa, tagliate a cubetti il pane raffermo. Preparate una padella con un fondo di olio. Quando è ben calda, fate rosolare il pane, tostandolo quanto basta per renderlo croccante. Mettete il pane ad asciugare su un foglio di carta assorbente e lasciate da parte. 2. Prendete i petti di pollo, asciugateli bene, avendo cura di controllare che le fette non siano né troppo spesse, né troppo sottili, onde evitare cotture disarmoniche e bruciacchiature. 3. Portate una piastra a temperatura elevata e piastrate i vostri petti di pollo. Dovete arrivare ad una temperatura di 74°C al cuore Dopodiché, lasciate raffreddare il pollo. 4. È il momento di preparare la vostra emulsione. Prendete la salsa Worcestershire, il succo del limone, l’uovo, 3 cucchiai abbondanti di olio extravergine d’oliva, mescolate. 5. Prendete la lattuga romana. Lavatela per bene, poi asciugatela. 6. Tagliatela a listarelle grossolane, non ci occorre essere troppo precisi. 7. Prendete il Parmigiano 40 mesi GLC Top Selection. Tagliatelo a cubetti non troppo grandi. 8. Riprendete ora i vostri petti di pollo piastrati. Tagliateli a listarelle o cubetti grossolani.
10. Aggiustate di sale, aggiungete pepe se ne sentite il bisogno, mescolate e servite fredda.
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9. In una ciotola molto capiente, aggiungete la lattuga romana tagliata a listarelle, i cubetti di pane fritto, il petto di pollo piastrato, le due uova sode tagliate grossanamente e i cubetti di Parmigiano. Condite con la vostra emulsione preparata al passaggio n.5.
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Un incontro di culture
JAMBALAYA CAJUN
...SERVITA NELLA PIADINA Pochi piatti come la Jambalaya, di cui vi abbiamo già parlato in un vecchio numero del Magazine, riescono a riflettere tanto bene l’identità del luogo in cui sono stati creati: così come New Orleans è un miscuglio di culture e di etnie differenti, anche il piatto simbolo della sua cucina è il frutto di contaminazioni nate dalla volontà – e anche un po’ dalla necessità - di mischiare i prodotti locali a disposizione. La Jambalaya è, infatti, un piatto creolo (vi ricordate cosa si intende per creolo? E’ il nome con cui si indicavano nell’America latina i nati da genitori francesi e spagnoli, per distinguerli sia dagli indigeni sia dagli immigrati nati in Europa) tipico dello stato della Louisiana, a base di riso, verdure, gamberi e carne. Si tratta di una pietanza dalle origini antiche in cui nel tempo si sono incontrate diverse culture: quella africana, quella caraibica, quella spagnola e quella francese. L’utilizzo del riso e la cottura in una sola padella, possibilmente in ghisa, ci riportano subito alla mente il nordafricano cous cous ma anche la famosa paella iberica. Anzi, a dirla tutta, la Jambalaya nasce proprio nel tentativo di ricreare la paella con ingredienti diversi, poiché quelli originali erano irreperibili in Louisiana. Esistono due versioni di questo piatto: la Jambalaya rossa, molto popolare nei ristoranti di New Orleans, che si differenzia dalla Jambalaia Cajun, tipica del sud della Louisiana, per la presenza del pomodoro. Infatti più ci si allontana da New Orleans e più raro è l’uso dei pomodori. La carne viene soffritta in una padella di ferro o ghisa, i pezzetti di carne che si attaccano al fondo della padella sono ciò che dona alla Jambalaya Cajun il suo colore bruno. Viene aggiunto un po di olio per soffriggere i Gamberoni, si fa lo stesso con le verdure, e poi il tutto viene messo da parte, per far spazio alla tostatura del riso, con l’aggiunta del brodo e dei condimenti. A questo punto si uniscono tutti gli ingredienti (tenendo i soli gamberoni da parte per ultimare il servizio) e si lascia sbollire a coperchio chiuso per circa 30 minuti, senza mescolare. La preparazione è pronta quando è cotto il riso.
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Se volete assaporare l’essenza dell’America più vera, lasciatevi trasportare dalle note di un disco di Blues e mettetevi all’opera per realizzare una delle ricette più emblematiche di questa cultura dalle mille sfaccettature.
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Noi, a questo giro, abbiamo aggiunto anche un tocco di italianità, perché abbiamo deciso di servire la Jambalaya nella piadina, aggiungendo un altro arricchimento gastronomico e culturale a un piatto che è già un insieme di tradizioni. Provate e non ve ne pentirete!
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Ingredienti per 4 persone: 400 g di petto di pollo / 200 g di Pepperoni
salami del nostro Megastore / 15 gamberi rossi di Mazara del Vallo GLC Top Selection (già puliti) / 200 g di gamberetti sgusciati / 3 spicchi di aglio / una cipolla / 2 gambi di sedano / 2 peperoni dolci / un litro di brodo di verdure / 400 g di riso a grani lunghi / 2 cucchiaini di salsa Worcesteshire / 2 cucchiai di miscela di spezie Cajun / 1 cucchiaino di origano essiccato. / 1 cucchiaino di Pepe di Cayenne / 1 cucchiaino di tabasco / mezzo mazzetto di prezzemolo / olio di oliva q.b. / sale e pepe q.b. / 4 piadine di ottima qualità, , preferite quelle con olio extravergine di oliva o strutto. Per la miscela di spezie Cajun: un cucchiaio di paprica affumicata / mezzo cucchiaino di cipolla in polvere / mezzo cucchiaino di peperoncino Ancho Habanero / mezzo cucchiaino di peperoncino chipotle jalapeño / pepe nero a piacere / coriandolo (facoltativo) / semi di senape q.b. / mezzo cucchiaino d’aglio / noce moscata a piacere / un pizzico di cumino / un pizzico di zenzero / pepe della Jamaica a piacere / mezzo cucchiaino di origano / mezzo cucchiaino di timo / zucchero di canna grezzo q.b. / curcuma q.b.
PREPARAZIONE 1. Settate il vostro dispositivo sui 180°C per una cottura indiretta e ponete a riscaldare il wok (oppure la Cocotte o la Dutch Oven, basta che siano dotate di coperchio) 2. Tritate grossolanamente il pollo e il Pepperoni Salami, quindi lavate il sedano e i peperoni, e riduceteli a pezzi tipo brunoise media; sbucciate l’aglio e la cipolla e tritateli finemente. 3. Scaldate un cucchiaio di olio nella pentola in ghisa, aggiungete il salame e il pollo e fateli saltare per circa 7 minuti, non vi preoccupate se qualche pezzetto si attaccherà alla pentola è questo che darà carattere e colore alla vostra pietanza; poi toglieteli e metteteli da parte. 4. Mettere i gamberetti e i gamberoni a soffriggere fino ai 65°C (se avete le teste dei gamberoni chiaramente mettete anche quelle) lasciate che rilascino il succhi e poi toglieteli. Eliminate le teste e tenete da parte i crostacei. 5. Mettete un altro cucchiaio di olio e fate soffriggere le cipolle, i peperoni e il sedano, infine aggiungete l’aglio tritato e lasciate dorare il tutto. Aggiungete il pepe di Cayenna, l’origano, la salsa Worcestershire, il tabasco il rub Cajun e aggiustate di sale. Fate cuocere per 5 minuti e poi mettere da parte. 6. Mettete a tostare il riso e aggiungete il brodo di verdure caldo, unite le verdure, la carne e i gamberetti (i Gamberoni tenerli per il servizio) e fate cuocere a coperchio chiuso fino alla cottura del riso. 7. Lavate e tritate il prezzemolo e guarnite il piatto di Jambalaya assieme a i gamberoni e BBQ4All Magazine
8. Scaldate le piadine e riempitele con la Jambalaya, avvolgendo la piadina e ottenendo un rotolo che a sua volta avvolgerete nell’alluminio ottenendo una caramella: tagliatele a metà e mangiatele con gli amici, magari sorseggiando una buona cerveza.
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La pancia è sexy!
PORK BELLY
GLASSATA ALL’ACETO DI MELE, CAROTE E RIBES Trasformare un taglio ricco di grasso in una prelibatezza da leccarsi i baffi è semplice, basta seguire alcune piccole indicazioni. Sì, stiamo parlando della Pork Belly, meglio conosciuta da noi come pancia di maiale croccante. E’ un secondo di carne rubato alla tradizione gastronomica cinese ma che la fa da padrone anche in molti BBQ joint americani. Il maiale Duroc del Megastore è perfetto per questo tipo di ricetta. La qualità inizia con la giusta razza: Duroc, come ci è capitato di ripetere spesso, è il "Black Angus" dei maiali! La genetica della razza Duroc genera una carne di suino di alta qualità con un sapore più intenso grazie a una percentuale più elevata di grasso intramuscolare (marmorizzazione) e ad un pH più elevato, il che significa che ha un colore più scuro, più compattezza, maggiore tenerezza e minore perdita di gocciolamento che porta indiscutibilmente a risultati migliori dopo la cottura. Il fattore pH più elevato significa anche che il maiale Duroc tende a essere più tenero e succoso. Questi attributi unici si traducono in un'esperienza culinaria superiore. Per bilanciare la grassezza e l’opulenza di questo taglio abbiamo deciso di utilizzare una glassa acidula a base di aceto di mele e di ribes rossi, che saranno delle piccole bombe di acidità che andranno a ripulire e a sgrassare la bocca, morso dopo morso.
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Ad ammorbidire ed arrotondare ulteriormente il boccone ci saranno delle gustose carote arrosto ripassate in burro e timo, che andranno a dare completezza al piatto.
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Ingredienti per 4 persone: 1 pork belly Duroc del nostro Megastore / mezzo cucchiaio di sale / pepe q.b. / 500 g di carote viola, arancioni e gialle / 100 g di burro / timo a piacere per la glassa: 200 g aceto di mele / 200 g succo di mela limpido / 200 g di miele 1000 fiori / 20 g salsa di soia per i ribes: 200 g ribes / 100 g zucchero / 400 g fondo di carne (facoltativo)
PREPARAZIONE 1. Per prima cosa dovete incidere a cotenna e poco del grasso sottostante praticando dei tagli con la punta di un coltello molto affilato, o con un taglierino, a circa mezzo centimetro l’uno dall’altro. 2. Predisponete il vostro dispositivo per una cottura indiretta a 150°C. 3. Ponete la pancia condita con sale e pepe sulla griglia con la cotenna rivolta verso l’alto e cuocetela fino al raggiungimento degli 85°C al cuore, affumicando con del legno di ciliegio o melo. 4. Intanto in un pentolino preparate la glassa di aceto di mele, unendo tutti gli ingredienti e riducendoli fino ad una consistenza sciropposa e brillante. 5. In un altro tegame mettete i ribes e lo zucchero freddo e fate cuocere a fiamma bassa per circa 10 minuti. Se avete a disposizione del fondo di carne potete aggiungerlo adesso, a fiamma spenta, altrimenti potete farne a meno. 6. Preparate ora le carote: vi basterà farle cuocere in forno o nel vostro dispositivo in cottura indiretta fino a quando non saranno totalmente bruciacchiate all’esterno, poi dovrete tagliarle a metà e ripassarle in burro e timo. 7. Quando siete prossimi alla temperatura interna desiderata preparate del carbone per l’incremento di temperatura: questo ultimo passaggio farà evaporare quasi istantaneamente la piccola parte d’acqua rimasta sotto la cotenna ormai disidratata dalla lenta cottura e la farà esplodere letteralmente come un pop-corn. 8. Una volta cotta la pancia, aggiungete il carbone e portate il dispositivo a 230°C/250°C.
10. Tagliate le fette seguendo le incisioni precedentemente fatte e guarnite con le carote arrosto e un paio di cucchiai di salsa al ribes.
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9. Girate la pancetta, spennellate la cotenna d’olio e dopo che sarà diventata croccante, spennllatela con la glassa di aceto di mele.
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NEW YORK STRIP STEAK
WITH MARTINI BUTTER
Più americano di così, non si può! Se pensiamo a un grande classico dell’aperitivo in stile americano, il Martini Cocktail - conosciuto anche come Martini Dry o ancora soltanto, il Martinifinisce al primo posto. L’origine di questo famoso cocktail è dibattuta: c’è chi dice debba il suo nome a quello di un barista ligure, precisamente di Arma di Taggia- che per primo lo avrebbe servito addirittura a John D. Rockefeller, in quel di New York, agli inizi del secolo scorso. Ancora, secondo un’altra tesi molto diffusa, il cocktail sarebbe nato a metà Ottocento a Martinez, una città della California, che quindi gli avrebbe dato il nome. Quello che sappiamo per certo è che il cocktail è nato in America e che gli ingredienti sono pochi ma immancabili: gin e vermut dry, più l’oliva o la scorza del limone come guarnizione. Non entrambi, o l’uno o l’altro (anche se l’oliva va per la maggiore, di solito).
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Dovendo preparare questo speciale dedicato alle Steak House americane, ci è piaciuta molto l’idea di abbinare, a una bella bistecca cotta alla nostra maniera, un burro aromatizzato che avesse il sapore del Martini Cocktail. Se siete amanti dei gusti secchi e decisi, è decisamente la ricetta che fa al caso vostro. La scelta della bistecca è stata facile: una New York steak non può mai deludere. Si tratta di quella che in italiano conosciamo come controfiletto o anche come lombata, ed è la bistecca ideale che garantisce un giusto rapporto tra sapore e morbidezza. Grande classico delle steakhouse statunitensi, è caratterizzata da un sapore deciso e persistente e da un’estrema tenerezza. I più raffinati arrivano a suddividerla in lombata alta (carvery) e lombata bassa (rib loin); ebbene, la lombata bassa è quella su cui ci dobbiamo concentrare per ricavare il nostro controfiletto (striploin) Per capirci meglio: prendete una fiorentina, togliete il filetto e il fantomatico osso a T, ed otterrete il controfiletto. Per ricavare le nostre amate New York Striploin, si porzionano le bistecche tagliando perpendicolarmente alle fibre del longissimus dorsi.
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La selezione delle New York Strip del nostro Megastore è ampia e variegata: potete scegliere quella di Wagyu, caratterizzata da più grasso infiltrato e quindi più saporita, ma anche una bistecca di Black Angus non vi deluderà in quanto a morbidezza estrema e a sapore intenso. A voi la scelta. Noi abbiamo optato per il Black Angus e il risultato è stato decisamente esplosivo, specie quando abbiamo accostato una carne così saporita al gusto secco del Butter Martini. Tutto molto americano, tutto molto da Steak House. Provateci subito anche voi, ecco la ricetta.
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Ingredienti per 4 persone: 2
New York Strip Steack di Black Angus del nostro Megastore / 100 g di burro / 50 g di olive verdi denocciolate / due cucchiai di vermut dry / due cucchiai di gin / un cucchiaino di pasta di acciughe / sale Smoky Red della linea Sal’s Seasoning q.b. / olio d’oliva q.b. / mezzo peperoncino Jalapeño (facoltativo) PREPARAZIONE 1. Togliete le bistecche dalla confezione e tenetele avvolte nella carta assorbente per qualche ora prima della cottura. Durante questo lasso di tempo, cambiate la carta assorbente, se necessario. 2. Nel frattempo, con un frullatore a immersione frullate le olive con un filo d’oliva, poi aggiungete i due liquori, la pasta d’acciughe e infine il burro fuso. Lavorate il composto finché non avrà raggiunto una consistenza cremosa. Potete a questo punto aggiungere del peperoncino, se vi piace il piccante. 3. S c a l d a t e m o l t o b e n e una piastra in ghisa e poi spennellate la carne con un filo d’olio. Buttate le bistecche sulla piastra e lasciate che la superficie si cauterizzi bene, a quel punto giratele e ripetete l’operazione dall’altra parte. Fate attenzione a non stracuocere la carne, al cuore non dovrà superare i 55°C e dovrà essere rosata.
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4. Togliete la carne dalla piastra, lasciate che riposi per qualche istante, poi conditela con lo Smoky Red della linea Sal’s Seasoning; infine servitela insieme al Butter Martini e a qualche oliva.
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Dimenticatevi la Fiorentina!
T-BONE DI VACA VIEJA GALIZIANA
CON VERDURE ALLA GRIGLIA E SALSA AL RAFANO
Immaginate una prateria, provate a sentire l’odore dell’erba fresca e il gusto intenso del manzo. Tutto questo è racchiuso nella T-Bone di Vaca Vieja selezionata da Gianfranco Lo Cascio. Stiamo parlando di una bestia che può andare dai 12, ai 15, ai 18 e finire anche sui 20 anni, che è arrivata “a fine carriera”, smettendo di produrre latte. Se non l’avete mai assaggiata, è difficile descrivervi il sapore tipico della Vaca Vieja, ma ci proviamo. Ad ogni boccone si sentono note di formaggio, di lievito di birra, di erba appena tagliata, di burro. Sicuramente non è un gusto per tutti. È opulento, invadente e potente. Soprattutto il grasso, che si presenta di colore giallo, è un concentrato di sapore manzoso e straordinario. Grazie alla qualità eccezionale di questa carne selezionata dallo Zio, abbiamo deciso di cuocerla in purezza su carbone, senza l’utilizzo di altre tecniche: solo una corretta gestione del calore e l’aiuto prezioso del nostro fidato termometro da cucina.
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Sì, perché questa carne non necessita di nessun trattamento per essere intenerita o preparata alla cottura: è perfetta così. Le uniche accortezze da avere sono due: lasciarla un’oretta a temperatura ambiente per evitare che sia fredda e asciugare con cura la superficie con carta assorbente. Come accompagnamento, abbiamo pensato a delle semplici verdure cotte in griglia e ad una frizzantissima salsa al rafano, ma nulla vi vieta di sbizzarrirvi coi contorni e le salse che preferite. Potreste ad esempio sostiuire le verdure con delle gustose patate al forno e la salsa al rafano con un buon chimichurri dominicano. Date pure spazio alla fantasia, oppure non fate proprio nulla e gustatevi la carne in purezza: la Vaca Vieja, da sola, vale il prezzo del biglietto!
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Pronti a godere di un esperienza commovente? Bene, partiamo!
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Ingredienti per 1 bistecca: 1 T-bone di Vaca Vieja
GLC top selection / Sal’s Seasoning Lime Pepper q.b. / 2 zucchine / 200 g di cavoletti di Bruxelles / 500 g pomodorini / un radicchio di Chioggia / 200 g di zucca Violina / sale e pepe q.b. / olio extravergine di oliva q.b. / erbette aromatiche a piacere (timo, origano, rosmarino) per la salsa al rafano: 150 g senape / 40 g rafano / la scorza di un limone scorza / 2 cucchiaini di succo di limone PREPARAZIONE 1. Per prima cosa lasciate la carne a temperatura ambiente per circa un’oretta asciugando con cura entrambe le superfici aiutandovi con la carta assorbente. 2. Intanto potete dedicarvi alla preparazione delle verdure. Predisponete il vostro dispositivo per una cottura indiretta poi, usando il basket per verdure forato, grigliate le zucchine tagliate a fettine e conditele con olio sale pepe ed erbette aromatiche. Fate saltare in una padella molto calda i cavoletti di Bruxelles tagliati a metà e il radicchio di Chioggia per pochi minuti con un filo di olio extravergine d’oliva. I pomodorini vi basterà condirli con olio, sale, pepe e cuocerli nel vostro dispositivo a carbone, in cottrua indiretta, per circa mezz’oretta a 200°C. 3. Per la realizzazione della salsa al rafano unite tutti gli ingredienti in un mixer da cucina ed omogenizzate il composto fino ad ottenere una consistenza liscia e vellutata. 4. Grigliate in cottura diretta la T-Bone di Vaca Vieja rigirandola spesso per una Reazione di Maillard più omogenea, oppure un paio di volte per ottenere dei grill marks più precisi e marcati. La scelta è vostra. 5. Ogni due minuti circa fate qualche istante di rest spostando la carne nella “zona fredda”della griglia e poi tornate in cottura diretta. Questo vi permetterà di ottenere una cottura perfettamente omogenea all’interno perché il calore penetrerà più dolcemente fino al cuore della carne.
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6. Fermatevi in prossimità dei 50°C e con il carry over arriverete sicuramente alla temperatura di servizio ideale, perché il riposo è parte fondamentale della cottura.
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7. Servitela scaloppata con qualche cristallo di Sal’s Seasoning Lime Pepper, e servite anche i contorni di verdure e la salsa
La bistecca che ti fa fare “wow”!
TOMAHAWK
AI TRE BURRI
TIMO, LIMONE E SENAPE
Se esiste una bistecca dall’incredibile effetto scenico, che fa fare davvero un lungo e ammirato wooooooow ai commensali ogni volta che la portate in tavola, questa è senza ombra di dubbio la Tomahawk. Grazie al suo aspetto imponente, riesce a stuzzicare la fantasia dei griller più puristi e primitivi, quelli che amano ancora divertirsi con la gestione del fuoco e delle fiammate e che associano la grigliata a una cosa per veri uomini duri in stile “Wilmaaa, la clava!”. Scherzi a parte, il nome di questa pittoresca bistecca deriva dall’ascia da battaglia dei Nativi americani, perché in effetti la forma ricorda esattamente quel tipo di arma bianca: stiamo parlando di una Rib Steak il cui intero osso superiore viene lasciato intatto. Praticamente introvabile in Italia, si tratta di
uno dei tagli più pregiati nelle steakhouse americane, dove spesso ordinata per essere mangiata in due, ed è presente nei menù perché la sua presenza scenica è veramente di impatto. Quando l’osso viene tagliato un po’ più corto, è conosciuta anche come Cowboy Steak. Essendo dunque una bistecca che potremmo definire “primitiva”, abbiamo pensato di cuocerla “alla vecchia”: solo fuoco e fiamme. Sappiamo che molti di voi, in fondo, sono attirati sempre dal richiamo ancestrale del fuoco, per questo motivo abbiamo acceso un bel cesto di carbone per cuocere questa prelibatezza. Non contenti della sua già importante marezzatura, abbiamo ben pensato di presentarla con un tris di burri aromatizzati. Gli americani, si sa, non sono così famosi per la cucina salutare. E per quale motivo ci saremmo dovuti tirare indietro? Come diceva Lino Banfi in un famoso film degli anni ‘80: colesterolo? Tiè! (con tanto di gesto – vi lasciamo immaginare quale- ad accompagnare).
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I burri aromatizzati sono molto usati nei menu delle steakhouse, usanza che a loro volta hanno copiato dai francesi, che appunto usano servirli con la carne. In Italia è un modo di fare che stenta a prendere piede, un po’ perché tradizionalmente utilizziamo il burro per altri tipi di preparazioni e tendiamo a sostituirlo nelle salse di accompagnamento con l’olio extravergine di oliva; un po’ perché i nutrizionisti e i dietologi hanno fatto una vera e propria campagna di demonizazzione del burro, spingendo la gente a vederlo come un ingrediente pericolosissimo per la salute. In realtà, accompagnare una bistecca come la nostra Tomahawk con dei burri aromatici è una soluzione veloce e di grande effetto, che farà felici voi e i vostri ospiti e vi proietterà nell’Olimpo dei Griller.
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Ingredienti per 2 persone: una Tomahawk
del nostro Megastore / Sal’s Seasoning Smoky Red q.b. / 300 g di burro / un cucchiaio di senape / un cucchiaio di timo fresco / la buccia edibile di un limone bio / sale q.b. / olio d’oliva q.b. PREPARAZIONE 1. Togliete a carne dalla confezione e mettetela in forno ventilato senza superare i 52°C; tenetela qualche ora in forno a questa temperatura, finché la carne non avrà raggiunto i 52°C al cuore e sulla superficie non sarà completamente asciugata. 2. Nel frattempo preparate i tre burri aromatizzati: lasciate ammorbidire il burro fuori dal frigorifero e quando sarà morbidissimo prendete 100 g, spremete un limone e grattugiatanene la buccia; con l’aiuto delle fruste unite il succo di limone e la scorza al burro, mescolando bene. Mettete il burro così ottenuto in un recipiente e riponetelo in frigo. Fate la stessa identica cosa con gli altri 200 g di burro: a 100 g aggiungete la senape, agli ultimi 100 g aggiungete il timo lavato e tritato finemente. Poi ripenete tutto in frigo per far di nuovo indurire il burro. 3. Quando la carne sarà pronta, accendete il carbone e predisponete il vostro dispositivo per una cottura diretta ad alta temperatura, lasciandovi una zona “fredda” della griglia.
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4. Quando le griglie saranno roventi, spennellate la carne con un filo d’olio e cuocetela facendo cauterizzare la bistecca da ogni lato e facendo attenzione che non si alzino le fiamme durante la cottura: se dovesse capitare, spostate la carne nella zona “fredda” della griglia e aspettate che le fiamme si abbassino primo di spostare di nuovo la ciccia in cottura diretta.
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5. Una volta raggiunto il grado di cottura desiderato (quello ottimale è di 55°C al cuore), togliete la Tomahawk dal fuoco, lasciatela riposare qualche istante e poi servitela su un piatto da portata caldo, condendola col sale Smoky Red e presentandola insieme ad una selezione dei vari burri aromatici che avete preparato.
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FRENCH ONION
STEAKHOUSE TOWER In bilico, tra manzi e toast al formaggio!
Il French Onion Steakhouse Tower è un piatto a dir poco scenografico, capace di far colpo su tutta la platea di ospiti a tavola senza impegnarvi molto tempo. Partiamo letteralmente dalle “basi” della nostra torre. Si tratta di un gustoso French Toast, guarnito successivamente con del tenerissimo manzo, cucinato a modo nostro ovviamente e ancora sormontato sulla sommità da cipolle caramellate. Un piatto molto scenografico, che a sol vederlo fa venire l’acquolina in bocca: infatti, è molto proposto nelle steakhouse americane, mentre è poco conosciuto al di fuori degli States.
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Portarlo a tavola potrebbe incuriosire i vostri commensali: è insolito trovare il French Onion Steakhouse Tower tra i menu nostrani. Farlo con ingredienti di alta qualità, inoltre, può darvi notevoli soddisfazioni gustative. Con pochi trucchi del mestiere, potrete ritrovare in un piatto tipicamente da steakhouse americano un gusto unico. 1. Scegliete un buon pane in cassetta: farselo da sé sarebbe l’opportunità migliore ma, in mancanza di tempo, si può tranquillamente ripiegare su prodotti da scaffale. Impiegate qualche minuto per leggere gli ingredienti: preferite quelli con olio extravergine d’oliva. 2. Per quanto riguarda la cipolla, se possibile, scegliete la rossa di Tropea: ha un sapore mediamente intenso, che ai più non disturba ed è ottima da caramellare. 3. La selezione di carne, ovviamente, fa la parte del leone: noi qui vi consigliamo il nostro Eye of Round del Megastore.
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Ingredienti per 4 persone: 1 filone di pane in
cassetta / 2 Eye of Round del nostro Megastore / 2 cipolle rossa di Tropea / 2 uova intere / 500 ml di latte / 50 g di burro / sale q.b. PREPARAZIONE 1. Il primo step consiste nel preparare i french toast, la base della nostra "torre". Prendete il filone di pane in cassetta. Tagliate alcune fette (noi ne abbiamo considerate 4) dello spessore di circa 2 dita l'una, così da dare corpo e sostanza al nostro toast, che è la base. 2. In una pirofila a parte, aprite le uova e un pizzico di sale. Iniziate a sbattere con vigore, aggiungendo il latte a filo. 3. Prendete una padella, imburratela senza risparmiarvi troppo e ponetela sul fuoco. 4. Prendete singolarmente le vostre fette di pane in cassetta ed immergetele nel composto di uova e latte. 5. Una volta ben imbevute su tutti i lati, adagiate una fetta per volta in padella. Se c'è spazio, anche due fette per volta. 6. Friggete le fette di pane fino a doratura delle stesse, poi mettete da parte. 7. È il momento di caramellare la cipolla. Sbucciatela con cura, eliminando entrambi i piccioli. Affettate finemente, a rondelle. Prendete un pentolino, versate lo zucchero di canna e quello bianco, con l'acqua. 8. Aggiungete le cipolle a rondelle e mescolate per bene. Il composto inizierà a scurirsi, cioè a caramellare. Con un termometro da cucina, a lavoro ultimato, dovreste avere una temperatura del composto pari a 108°C. Mettete le cipolle caramellate da parte. 9. Passiamo al pezzo forte della nostra torre, cioè la carne. Abbiamo scelto l'Eye of Round del nostro Megastore, perfetta per cuocerla rapidamente con la tecnica del pan frying. Predisponete la padella su fuoco, con un minimo di olio. Quando la padella sarà rovente, predisponete 1 Eye of Round per volta. Girate più volte, fino a raggiungere la temperatura di 52°C al cuore. 10. È giunto il momento di assemblare la nostra torre: su un piatto piano, posizionate il vostro French Toast, in successione l'Eye of Round del Megastore ed un cucchiaio abbondante di cipolle caramellate.
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FILET STEAK CON CREMA DI
IRISH WHISKEY Un comfort food, però da steakhouse!
Le steakhouse americane e i ristoranti di un certo tipo dell’Europa continentale presentano, nei propri menu, un bel numero di piatti su cui andare sul sicuro. Piatti comfort, preparati con ingredienti di prima qualità ma molto Oggi noi vi presentiamo una variante un po’ meno fancy e retrò, ma di sicuro effetto: stiamo parlando del piatto che ad oggi è conosciuto come Filet Steak con crema di Irish Whiskey. Questo piatto è una variante molto diffusa e conosciuta della molto più classica Steak Diane, che con il tempo è diventata sinonimo di ristorante certamente di alto lignaggio, ma anche un po’ retrò… diremmo boomer, con il linguaggio odierno!
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La Steak Diane – che potrebbe prendere il nome sia dalla dea Diana, protettrice della caccia presso gli antichi Romani, sia molto verosimilmente come dedica alla principessa Diana – era molto diffusa nei ristoranti di cucina anglo-americana durante il secolo scorso, specialmente tra gli anni Quaranta e Ottanta, soprattutto nei caffè newyorkesi dove era ritenuta una valida pausa pranzo tra uomini d’affari. Nelle steakhouse di ispirazione americana, in tutto il mondo, c’era quasi sempre una Steak Diane. Questo piatto è composto essenzialmente da una bistecca di manzo pestata oppure tagliata in maniera molto sottile, successivamente fritta in maniera veloce; nella stessa padella, poi, viene preparata una salsa con pochi ingredienti, tra i quali non deve mai mancare lo sherry oppure brandy, l’erba cipollina, la salsa Worcestershire. Questa salsa viene flambata al momento ed aggiunta alla bistecca. Tra le varie storie raccontate sulla nascita della Steak Diane, sicuramente è molto bella quella che vede attribuire il nome ad una non precisata bellezza del cinema degli anni Venti che soleva passare le serate nei ristoranti più belli di New York.
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La nostra Filet Steak con crema di Irish Whiskey andremo a prepararla utilizzando un filetto di Vaca Vieja Gallega del nostro Megastore; i jus e i fondi di cottura saranno sostituiti da una crema fatta in padella a base di whisky irlandese, come il Jameson (o altri equivalenti, se ne avete a disposizione).
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Ingredienti per 4 persone: 2 filetti di Vaca Vieja
Gallega del nostro Megastore / sale Maldon q.b / .pepe in grani da macinare q.b. / 50 g di burro / ½ tazza da tè di whiskey irlandese, tipo Jameson o ancora brandy / 50 g di olio extravergine d’oliva / 1 scalogno bello grosso / 1 l di brodo di carne / 2 cucchiaini di senape di Digione / 1 cucchiaino di salsa Worcestershire / il succo di 1 limone intero Facoltativo: 4 fette di bacon per la bardatura PREPARAZIONE 1. Pretrattate i filetti facendoli asciugare in forno a 52°C per almeno un’ora. Se volete, potete bardare ogni filetto con due fette di bacon. 2. Imburrate una padella e mettetela sul fuoco a calore molto alto. 3. Spennellate i filetti con olio su ambo i lati e tuffatele in padella. 4. Girate più volte le bistecche di Tenderloin. Con l’ausilio di un termometro da cucina, quando la temperatura interna della carne è di 52°C, potrete toglierle dalla padella. 5. Trasferite le bistecche di Tenderloin su un piatto caldo e mettetele da parte. 6. Passiamo ora alla preparazione della nostra crema di whiskey irlandese fatta in padella. Lasciate la padella, con i succhi delle Tenderloin, su fuoco medio, non lavata. 7. Affettate e tritate finemente lo scalogno. 8. Buttate lo scalogno tritato in padella e mescolate fino a doratura dello stesso, stando attenti a non bruciarlo. 9. Inserire pian piano la mezza tazza di whiskey irlandese e il brodo di carne. 10. Mescolate lentamente e con cura, per evitare che lo scalogno si attacchi e affinché tutti i sapori si possano amalgamare con cura. 11. Aggiungete la senape di Digione, il succo di limone e la salsa Worchestershire.
13. Servite le bistecche ancora calde, versando la salsa a filo direttamente davanti ai commensali.
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12. Sempre restando a fuoco medio, dovrete continuare a mescolare con cura dai 3 ai 5 minuti. La salsa dovrebbe cambiare consistenza, diventando meno liquida e molto più cremosa.
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CHULETON
CON SALSA
BERNESE
amore a primo assaggio! E’ molto amata negli USA, ma anche qui da noi. Certo, chiamarla Chuleton e servirla in tavola dicendo ai propri ospiti che stanno per mangiare della pregiatissima Vaca Vieja Galiziana ha tutto un altro sapore. Per la precisione la vacca vecchia (fa più chic dirlo in spagnolo, eh?) ha proprio un gusto intenso e caratteristico, un sapore deciso e persistente e un’estrema tenerezza. Grande classico delle steakhouse statunitensi, di che taglio parliamo per la precisione? Per dirla all'italiana, parliamo della classica costata con osso. O se vi piace la versione inglese, della bone-in Ribeye Steak. Insomma, la bistecca per eccellenza. Alta, saporita, morbida, succulenta e bella da vedere.
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Questo mese, nella nostra redazione che si è improvvisata una steakhouse d’oltreoceano, la serviamo con una salsa bernese. Questo condimento, chiamato anche salsa bearnaise o semplicemente la bernese (in lingua originale sauce béarnaise), è di origine francese, ed è abbastanza simile alla salsa olandese. Di colore giallo paglierino, è preparata con burro chiarificato, tuorlo d’uovo, scalogno, dragoncello e cerfoglio. Si presenta molto cremosa e densa e ha un sapore leggermente aspro: insomma, è perfetta per accompagnare carni e pesci alla griglia. Il nome potrebbe trarre in inganno e far pensare che c'entri qualcosa la città di Berna, in Svizzera. In realtà, come dicevamo, la salsa è nata in Francia. Secondo l’ipotesi più accreditata questo condimento fu inventato nella regione francese del Béarn, nella parte meridionale del paese, da uno chef transalpino di nome Jean-Louis-François Collinet. Il cuoco lavorava nel ristorante Le Pavillon Henri IV e nel 1836 ebbe l’idea di creare la salsa in memoria del sovrano francese Enrico IV, noto buongustaio: il re, vissuto tra il ‘500 e l’inizio del ‘600, era nato proprio nella regione del Béarn e il ristorante in cui lavorava Collinet, situato a Saint-Germain-en-Laye (poco distante da Parigi) era intitolato guadacaso a Enrico IV. Anche se nel tempo altri cuochi hanno cercato di attribuirsi la paternità di questo famoso condimento, pare ormai scontato accostare il nome della bernese a Collinet (inventore, oltretutto, anche delle patate soufflé, cioè fritte a palloncino... insomma, our daily hero).
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La bernese è spesso usata anche come base per altre salse: ad esempio aggiungendo purea di pomodori si ottiene la salsa Choron; aggiungendo invece il fondo bruno si ottiene la salsa Foyot; infine aggiungendo purea di pomodori e estratto di carne si ottiene la salsa Rachel. Buttiamoci dunque a capofitto nella ricetta.
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Ingredienti per 2 persone: un Chuleton di Vaca Vieja Gallega del nostro megastore / Sal’s Seasoning Pick a Pepper q.b. / olio d’oliva q.b. Per la salsa: 200 g di burro fuso / 1 dl di aceto di mele / 3 scalogni / 2 cucchiai di dragoncello fresco / 3 tuorli / il succo di un limone / pepe a piacere / sale q.b.
PREPARAZIONE 1. Togliete la ciccia dalla confezione e mettetela in forno a 52°C, tamponandola con carta assorbente di tanto in tanto, finché non avrà raggiunto i 52°C al cuore; a quel punto prolungate un po’ la permanenza in forno a questa temperatura. 2. Nel frattempo preparate la salsa: in un pentolino versate l’aceto di mele, unite gli scalogni tritati e metà del dragoncello. A questo punto salate e poi lasciate ridurre il liquido. Togliete dal fuoco, schiacciate un po’ il tutto facendo filtrare l’aceto rimasto e lasciate intiepidire. 3. Montate i tuorli aiutandovi con una frusta elettrica e versate a filo il preparato di aceto e scalogni che avate tenuto da parte. Una volta che il composto sarà ben montato e spumoso, mettetelo a bagnomaria e continuate a lavorarlo. Una volta che sarà perfettamente montato, aggiungente, sempre continuando a lavorare con le fruste, il burro fuso. 4. Una volta che il composto avrà raggiunto una consistenza cremosa, vellutata e omogenea, mettetelo in una ciotola e poi aggiungete il dragoncello che vi è rimasto, un po’ di succo di limone e, se volete, del pepe. Ponete poi la salsa in frigo fino al momento del servizio
6. Una volta raggiunto il grado di cottura desiderato, condite la carne con il Pick a Pepper e servitela con la salsa bernese.
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5. Scaldate una piastra in ghisa oppure predisponete il vostro dispositivo per una cottura diretta. Una volta che la piastra o le griglie saranno roventi, ungete la ciccia con poco olio e poi buttatela in cottura, lasciando che si formi la crosticina prima da un lato e poi dall’altro.
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Il manzo va a braccetto con la patata!
DENVER STEAK
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E JACKET POTATO
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Moltissime ricette americane, ovviamente, hanno origini anglosassoni. Una di queste è sicuramente la Jacket Potato, ovvero la patata intera cotta al forno e poi farcita. Stiamo parlando di una preparazione che, nel tempo, ha conosciuto uno straordinario successo: si dice che agli inizi del Novecento, nella sola città di Londra si vendessero ben dieci tonnellate di patate al giorno.
con una salsa a base di wiskey. Anche la variante texana, con carni alla griglia e affumicate, piacerebbe molto a voi lettori del Magazine, ne siamo sicuri.
La storia della patata con la giacchetta risale alla seconda metà del XIX secolo in Inghilterra: questo piatto veniva consumato dalla working class operaia per una pausa pranzo calorica e a basso costo. E’ nel 1974 che nasce a Edimburgo la prima catena di Jacket Potato. Tradizionalmente viene farcita con fagioli, formaggio, a volte maionese, pollo e bacon. Ma ovviamente ne esistono mille varianti (ve ne abbiamo presentata una anche noi, su un vecchio numero del Magazine, col polpo). Interessante è la variante scozzese, servita con l’haggis, un insaccato tradizionale a base di fegato, cuore e polmone di ovino, e accompagnata
La Denver steak è una delle bistecche più buone che ci siano: è ricavata dal quarto muscolo più tenero situato nel Chuck Roll (il collo del bovino). È generosamente marezzata, succosa e tenera, molto saporita e versatile, adatta ad ogni occasione. Servita insieme alla nostra patata con la giacchetta (a proposito, avete capito perché si chiama così? Per via del fatto che viene cotta con la buccia e avvolta nell’alluminio: di fatto con una “giacca”), vi farà fare le ormai leggendarie capriole sulla sedia.
Noi abbiamo deciso di accostare la Jacket Potato a una Denver del nostro Megastore, e come condimento per la patata siamo andati sul sicuro: bacon e cheddar.
Vediamo insieme come preparare questo piatto molto gustoso e... calorico.
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Ingredienti per 4 persone: 3 Denver Steak del nostro Megastore / Sal’s Seasoning Pick a Pepper a piacere / olio d’oliva q.b.
Per le Jacket Potatoes: 4 patate grandi a pasta gialla / 150 g di bacon a cubetti / 4 fette spesse di formaggio Cheddar / sale e pepe q.b. / 50 g di burro / due bicchieri di latte / 100 g di Parmigiano Reggiano grattugiato
PREPARAZIONE 1. Togliete la carne dalla confezione, e tenetela avvolta per qualche ora nella carta assorbente, a temperatura ambiente, fino al momento della cottura. 2. Nel frattempo, sbollentate le patate per qualche minuto ancora con buccia, poi toglietele dall’acqua e avvolgetele nell’alluminio. 3. Predisponete il vostro dispositivo per una cottura in ember roasting, quindi a contatto diretto con le braci, e mettete le patate sotto il carbone o sotto le bricchette. Dimenticatele lì per almeno un’ora. 4. Passato il tempo necessario, verificate con uno stecchino di legno che siano cotte e perfettamente penetrabili in tutte le loro parti. Toglietele dalle braci, aprite il cartoccio, praticate un’incisione nella buccia di ogni patata e scavatene la polpa. Tenete da parte i gusci. 5. In un pentolino, scaldate il burro e il latte, mettete la purea di patate schiacciata, aggiustate di sale e aggiungete il parmigiano lasciando così insaporire questa specie di purè. 6. Spegnete il fuoco e rimettete dentro ogni patata il purè ottenuto. Fate saltare in padella i cubetti di bacon e poi adagiateli sopra ogni patata. Terminate il tutto con cheddar a pezzetti. 7. Utilizzando il forno o il vostro dispositivo, mettete le patate in cottura indiretta a circa 100°C per fare in modo che si scaldino e che il cheddar si sciolga.
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8. Cuocete ora la vostra carne, scaldando bene una padella in ghisa e ungendo la Denver con l’olio prima di metterla in cottura: aspettate che si formi la Maillard da tutti i lati, poi toglietela dal fuoco, lasciatela riposare un attimo, conditela con il Sal’s Seasoning Pick e Pepper, infine servitela a fettine insieme alle Jacket Potatoes.
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KEY LIME PIE
il dolce simbolo della Florida La Key Lime Pie è una deliziosa torta composta da tre strati: una base di biscotto, una farcitura di latte condensato, uova e succo di lime, e una copertura morbida e lussureggiante di meringa. Il tutto cotto in forno. Questa delizia dal gusto fresco ed esotico è sicuramente uno dei simboli più noti della tradizione culinaria statunitense, al pari dell’American Pie e degli Hot Dog.
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Perché si chiama Key Lime Pie e non semplicemente Lime Pie? Nel nome viene indicato esplicitamente il luogo di nascita, l’Arcipelago delle isole Keys situato davanti alla costa della Florida. Su questi atolli cresce una particolare varietà di lime, molto più aspra ed aromatica nel gusto e più piccola nelle dimensioni rispetto alla ben più nota qualità persiana presente negli scaffali dei nostri supermercati. Vi anticipiamo già che i Key lime sono introvabili in Italia.
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Sicuramente, il piccolo agrume fu un alimento basilare, nella dieta dei pescatori di spugne di Key West durante i lunghi periodi in mare, per combattere lo scorbuto: la malattia tipica dei marinai causata dalla mancanza di vitamina C. Durante i giorni di pesca gli uomini preparavano una mistura con uova di uccelli selvatici o di tartaruga e il succo del frutto verde, dopodiché versavano il composto su una fetta di pane raffermo, lasciando il tutto sotto il sole affinché cuocesse. Sembra strano che da una preparazione così poco invitante, nata come una sorta di medicina, affondi le proprie origini la golosa Key Lime Pie. Il merito sembra andare alle mogli dei pescatori che dopo la metà del 1850, con l’entrata in cucina del latte condensato, trasformarono la ricetta rustica dei mariti in un dolce squisito. Ovviamente ognuna lo realizzò alla propria maniera.
Esistono infatti moltissime versioni della gustosa leccornia con più o meno latte condensato per calibrarne la dolcezza, con più succo per renderla quasi piccante nel gusto; ci sono addirittura varianti con bacon, altre con i jalapenos. Gli studiosi hanno ipotizzato l’esistenza di circa 150.000 ricette della Keys Lime Pie. La torta diventò famosa verso il 1930 grazie alla cuoca di William Curry, ricco possidente della Florida. La torta servita durante le feste del riccone riscosse un tale successo che iniziò ad essere venduta prima nelle bancarelle di strada e successivamente anche nei ristoranti. Questo fenomeno fece sì che venisse attribuita di fatto alla donna la creazione della Key Lime Pie che tutti conosciamo Il primo Luglio del 2006 il Parlamento della Florida incoronò questa torta come dolce ufficiale dello Stato. Nonostante questa ufficializzazione, negli ultimi tempi è nata un’accesa diatriba sulle vere origini della torta. Tutto è nato da uno studio storico che ha portato alla luce un dubbio sulle vere origini della preparazione, ipotizzando che la Key Lime Pie sia la scopiazzatura della Magic Lemon, lanciata per fini pubblicitari alla fine del 1800 dalla ditta casearia Borden di New York per incrementare la vendita del latte condensato (di cui erano anche gli ideatori). Essendo un dessert tipico americano è immancabile nei menu delle steakhouse. Sebbene non sia un dolce leggero, il suo gusto fresco, acidulo e agrumato è la degna conclusione di un pranzo o di una cena composta da carni cotte sulla griglia o al barbecue, dai sapori forti, corposi e burrosi. Ecco la nostra versione della mitica torta della Florida.
Ingredienti per 6 persone: 250 g di biscotti secchi
(tipo Digestive) / 125 g di burro / 4 uova / 400 ml di latte condensato / 200 ml succo di lime / 25 g di zucchero PREPARAZIONE 1. Sbriciolate i biscotti all’interno di un sacchetto alimentare schiacciando il tutto con un mattarello, dopodiché sciogliete il burro ed amalgamate insieme i due ingredienti. 2. Prendete una tortiera a cerniera e rivestitela con la carta forno. Con i biscotti create una base omogenea con bordo, premendo bene il composto perché risulti compatto. 3. Mettete la base in frigo per almeno un’ora. 4. Preriscaldate il forno a 180°C in modalità statica. 5. Grattugiate la scorza di un lime e poi spremete i frutti per ricavarne il succo.
6. Versate in una ciotola capiente il latte condensato, insieme a 3 tuorli, al succo e alla scorza. Lavorate il tutto con le fruste elettriche fino a formare una crema omogenea. 7. Versate il composto nella base di biscotto ed infornate per 15 minuti, in modo che la crema si rapprenda. 8. Montate gli albumi di 4 uova con lo zucchero. Gli albumi devono essere montati alla perfezione. Decorate la torta con la meringa con l’aiuto di una spatola o con un sac à poche. 9. Prendete un cannello da cucina e fiammeggiate la meringa in modo da imbiondire le punte. Se la meringa vi spaventa, potete sostituirla con la panna montata. 10. Fate riposare la torta in frigo per almeno 8 ore. Servitela fredda e decorate ogni porzione con una sottile fetta di lime.
BBQ4All Magazine 063
L'Arte Bianca a cura di Alessandro Trezzi
e n partiagianale
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alla conquista dell'America
S
iamo stati abituati ad una versione alquanto semplicistica del cibo in America. Il nostro vizio di generalizzare e di attenerci alle attitudini storiche ci impedisce anche di percepire il cambiamento, di valutarlo e di abbracciarlo. Ci si è convinti che negli Stati Uniti si mangi esclusivamente junk food, che non esista la qualità, che non si possa trovare alcuna espressione di gastronomia moderna ed eccelsa. Nulla di più sbagliato. Grazie a BBQ4All abbiamo anzitutto imparato quanto sia profondamente diversa, ampia e variegata la cultura della carne, ma è un discorso che non vale solo per le proteine. Nel mondo della panificazione, sono stati fatti passi da gigante per la pizza (ormai tradizione secolare) e non è raro trovare. specialmente a Brooklyn, prodotti incredibili che fanno impallidire la maggior parte delle nostre decantatissime pizzerie. Se vi dicessi inoltre che alcuni panificatori locali sono stati in grado di rivoluzionare non solo il pane artigianale negli USA, ma in tutto il mondo occidentale, di sicuro stentereste a credermi. Eppure è la verità: oggi il buon pane sta vivendo un periodo di rinascita, e la percentuale di americani che sceglie un’ottima forma in un panificio è in netta crescita. Ma non è sempre stato così, decisamente; per secoli il capitalismo ha letteralmente bloccato gli Stati Uniti ad abitudini statiche ed insane, relegando i consumatori all’acquisto di chilotoni di pane bianco in cassetta, venduto in buste di plastica.
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Per comprendere meglio la situazione attuale del pane americano, è fondamentale quindi ripercorrere insieme i principali passi storici che hanno portato alla rivalsa dell’artigianalità.
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piena di crusca fosse meno nutriente, composta da fibre indigeste; per centinaia di anni quindi la convinzione popolare rimase la medesima, che la crusca era fastidiosa e non necessaria.
L’era industriale (1800 – 1970)
L’era pre-moderna (500 – 1799) È facile immaginare come, da alimento costoso e meno reperibile, il pane sia passato ad essere un bene primario, economico e alla portata di tutti. Se un tempo la disponibilità di materia prima e la capacità di produzione erano molto limitate, con l’era industriale una serie di eventi concatenati cambiò radicalmente il panorama mondiale. Prima di questi due secoli di scoperte e di incentivi, il mestiere del fornaio era reputato tra i più prestigiosi nel ceto medio borghese; una donna promessa in sposa a un ragazzo del forno era considerata fortunata, in quanto sicuramente non le sarebbe mancato il pane.
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Generalmente in ogni città era presente un solo forno, gli agricoltori coltivavano il loro campo, in famiglia si impastava e si portavano le forme da cuocere al fornaio. Parliamo di tecnologie retrograde, ovviamente, nulla a che vedere con l’evoluzione a cui siamo abituati oggi: i mulini erano a pietra e sfruttavano l’energia cinetica di un canale deviato dal fiume per aumentare la pressione e molire i chicchi raccolti in farina “a tutto corpo”, quindi con ogni parte del chicco.
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Vi stupirà sapere che l’apprezzamento quasi modaiolo delle materie prime integrali è un movimento tremendamente recente; per centinaia di anni, l’uomo ha considerato il pane bianco non solo come prestigioso, ma persino più salubre. Ippocrate, considerato il padre della medicina occidentale, nei suoi scritti spiegava quanto la farina
Nel 1800, il governo americano iniziò a distribuire terre libere per incoraggiare la migrazione, e i pionieri cominciarono a piantare milioni di ettari di grano. Al contempo, nel 1810 in Austria vennero sviluppati dei “purificatori” in grado di togliere una parte della crusca dal grano durante la macinazione, rendendo la farina bianca più economica. Con l’aumento della sicurezza nei mulini e l’arrivo nel 1865 della molitura a cilindri d’acciaio (inventata in Ungheria), la crusca fu sempre più facile da rimuovere e il prezzo della farina bianca scese sempre di più. Nei decenni successivi, il panorama del grano cominciò a divenire via via sempre più esteso, divenendo un business a tutti gli effetti ed estendendosi anche ai prodotti correlati; nel 1857 il microbiologo francese Louis Pasteur pubblicò uno scritto spiegando il funzionamento dei lieviti, e nel
1868 Fleishmann introdusse nel mercato il celebre lievito compresso creandone un vero e proprio brand. Anche la stessa farina, da sempre denominata come tale, da 1880 cominciò ad essere brandizzata dalla General Mills con il nome di Gold Medal Flour. Agli inizi del ventesimo secolo, il prezzo del pane rispetto al reddito era definitivamente crollato. Tre furono gli avvenimenti cruciali: l’introduzione in commercio del primo tostapane elettrico nel 1909, la sintetizzazione di fertilizzanti industriali più efficienti e meglio distribuiti, e l’invenzione nel 1928 di una macchina per affettare ed impacchettare il pane. Ufficialmente, poco prima degli anni ’50 questa meraviglia creata da acqua, farina, sale e lievito era diventato un prodotto di largo consumo, al punto che nel 1939 (per la prima volta nella storia) i soldati inglesi ricevettero razioni di pane durante la guerra. Con l’aumentare dell’offerta e della produzione, cominciò a venire meno il concetto “tradizionale” di pane così come si era sempre inteso, e così come lo intendiamo oggi. Di fatto, l’imprenditoria statunitense iniziò a distaccarsi dalle modalità e dai prodotti europei; se vi mostrassi l’evoluzione del pane in ordine cronologiche, vedremmo l’avvento della baguette in francia, delle grandi forme in UK, Austria, Turchia Belgio, dei pani bassi in Egitto o della ciabatta italiana, mentre per decenni una sola tipologia negli Stati Uniti: il pane bianco in cassetta.
Il caso più eclatante è quello di Wonder Bread, considerato dagli esperti come la sintesi perfetta tra intensificazione dell’agricoltura, meccanizzazione dei processi e industrializzazione della panificazione. Il suo avvento, nel 2021, fu percepito come una meraviglia tecnologica: venne mostrato ad ogni casalinga in un pane privo da qualsiasi impurità e sporcizia (associate alla crusca scura), soffice e perfetto per i sandwich. È celebre il manifesto degli anni ’30, raffigurante il pane in cassetta nell’iconica confezione bianca, qualche vignetta ma soprattutto una casalinga felice che urla “Hollywood knows! Vitality – not a pretty face – is the real secret of popularity!”, ovvero “Hollywood lo sa! La vitalità – non un bel viso – è il vero segreto per la popolarità!”.
L’era dell’informazione (1970 – oggi) Wonder Bread dettò l’inizio ufficiale della diffusione del pane economico e di bassa qualità, ma fu anche la base per la rivoluzione americana che ancora oggi gli Stati Uniti stanno vivendo. Nel 1970, Raymond Calvel si lamentò pubblicamente riguardo la bassa qualità del pane in Francia, e nello stesso anno venne pubblicato in USA “The Tassajara Bread Book”, sancendo la rinascita dell’interesse per il pane artigianale.
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Il ragionamento americano è di base molto semplice e non è mai cambiato: trovato un bisogno, ne risponde nella scala più ampia possibile. La popolazione cercava del pane comodo per i sandwich del pranzo
e della colazione, da farcire, tostare e su cui spalmare il burro d’arachidi, necessità che trovarono ampio sfogo nel diffusissimo pane bianco in cassetta, economico e sempre più diffuso, specialmente dopo la meccanizzazione totale della molitura negli anni ’60, che introdusse per altro equipaggiamenti specializzati per testare miscele e aggiungervi proteine e altri additivi. Parliamo di un alimento che, nell’era moderna, era in grado di dettare la stabilità economico-politica del mondo occidentale: se il prezzo del pane cresceva, i popoli insorgevano e i governi crollavano. Divenne quindi una necessità sempre più alta, al punto che veri e propri brand nacquero al fine di convincere la gente che il pane bianco non era solo meno costoso, ma persino più nutriente e soprattutto sicuro.
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Tassajara era un gruppo di monaci parte di un movimento culturale, che abbracciava la panificazione come parte del loro percorso spirituale. Nel movimento stesso si erano create due scuole di pensiero, la prima riteneva che il pane industrializzato non avesse buon sapore, la seconda che non fosse salutare. Entrambe, in ogni caso, realizzavano pane di farina integrale o di grani di varietà antica, e in forme grandi e irregolari per distinguersi dalla statica produzione di massa. Il movimento iniziò a diffondersi nel mondo occidentale, e a gettare le basi per la svolta artigianale. L’alimentazione povera di fibre e di sostanze nutritive cominciava a farsi sentire nella popolazione, specialmente con il sopraggiungere di malattie collegate. Wonder Bread cercò di rispondere all’esigenza, creando miscele sempre più intense che contenevano grandi quantità di proteine, vitamine e pubblicando manifesti che invitavano i genitori ad assicurarsi la crescita dei loro figli grazie a pasti completi e nutrienti. Il posizionamento era cambiato: da pane privo di impurità, divenne “il pane che costruisce forti corporature”, indicato anche per atleti. Il pane, da alimento fatto inizialmente di 4 ingredienti, veniva venduto affettato e realizzato da ben 31 materie prime diverse.
La vera rivoluzione in America, tuttavia, arrivò negli anni ’90; nel 1993 venne fondata una vera e propria gilda di appassionati, “The Bread Bakers Guild of America”, con l’obiettivo di riunire tutti gli appassionati del paese e condividere ricette e conoscenze per ampliare la realizzazione di pani artigianali. Una delle personalità che contribuì maggiormente a tale evento fu la celeberrima chef Nancy Silverton di Los Angeles; ossessionata dalla perfezione, dalla manualità e dalla creazione di versioni personali dei piatti più amati, scoprì la panificazione nel laboratorio della cucina di Wolfgang Puck, ma iniziò ad accrescere il suo grande amore per il pane nei viaggi in Italia. Tornata in America, cominciò a lavorare per creare una sua interpretazione con grani locali, da tempo ritenuti non adatti alle realizzazioni artigianali europee, una probabile scusa per proteggere il business del pane in cassetta; nel 1995 fondò “La Brea Bakery”, una ventata d’aria fresca in una città senza alternative di pane di alta qualità. Dopo un primo periodo di diffidenza (dovuto al prezzo più alto o alla presenza di più buchi che rendevano meno agevole spalmare le creme), nel 1996 l’attività esplose letteralmente; le persone cominciarono a fare ore di coda per avere il pane di Nancy, considerato persino come un regalo prestigioso da fare ai propri cari.
Silverton aveva perfezionato un processo di cottura del pane per poterlo vendere ad una clientela più ampia ma senza compromessi sulla qualità. Aumentando l’operatività meccanica tuttavia, si assottigliò anche l’interesse di Nancy, da sempre amante del “mettere le mani personalmente in pasta”, che decise di vendere l’attività; in ogni caso, fu un vero e proprio colpo al cuore per il pane bianco industriale, che cominciò a perdere punti. Negli anni ’90 e 2000 tantissimi piccoli panificatori si recavano in Europa per assaggiare e studiare, per poi tornare a casa e fondare i propri locali; questa nuova generazione tornava di fatto indietro nel tempo con la tecnologia, per spingere la produzione del pane ancor più indietro negli anni. Alcuni di questi restituirono poi il favore al mondo europeo; nel 2002, un certo Chad Robertson fondava a San Francisco “Tartine Bakery”, oggi considerato come uno dei templi della panificazione moderna. Chad cominciò a lavorare su un concetto nuovo di pane: forme grandi, rustiche, con lievito madre, molto idratate e quindi molto aperte e leggere, e con una crosta molto bruna. I suoi prodotti furono impressionanti al punto che oggi tantissimi dei nostri più grandi maestri (come Davide Longoni) si sono ispirati nel percorso personale alla scuola californiana per perfezionare il loro operato.
Lo stato del pane artigianale oggi Tanto si è fatto, tanto ancora si può fare, tanto non si dovrebbe fare. Con la diffusione delle informazioni corrette per quanto riguarda l’assorbimento delle sostanze contenute della crusca e nel germe, il movimento artigianale continuò a crescere; ma il consumo di pane stava per subire un drastico calo a causa della diffusione di problematiche di salute a causa dell’alimentazione scorretta.
Se guardiamo i numeri, la situazione potrebbe suggerire messaggi diversi da quelli attesi: negli Stati Uniti la maggior parte del pane ancora oggi viene prodotto in massa, e solo il 15% della quota di mercato è relegata ai panettieri artigiani. I dati sono simili in UK e in Olanda, mentre altrove sono al rovescio: in Turchia gli artigiani hanno l’88%, in Grecia persino di più. È vero però che stiamo parlando di un contesto che da sempre ha abitudini completamente contrapposte alle nostre; gli americani mangiano spesso fuori, pochissimo a casa, e la necessità di avere sempre qualcosa di comodo ed economico è valida per qualsiasi grande realtà nella sfera gastronomica, come la diffusione dei fast food. In realtà, in una nazione grande come l’America, quel 15% è un dato importantissimo, soprattutto se consideriamo la presenza di personalità come Nancy Silverton e Chad Roberson, in grado di rivoluzionare l’intero settore della panificazione moderna. Ed è anche grazie a tali personalità che oggi i panificatori si ritrovano sempre più a fianco dei grandi chef, per progettare insieme pane e companatico e riscoprire un ventaglio di sapori che sino a quel momento non erano nemmeno stati concepiti. È innegabile quanto si stia vivendo una vera e propria età d’oro per i panificati; anno dopo anno, gli studi sui mulini permettono di trovare tecnologie sempre migliori per la pulizia del grano e l’utilizzo consapevole e corretto di crusca e germe. Ne è un chiaro esempio la selezionatrice ottica, un macchinario posto al termine del ciclo di pulizia delle sementi, di tecnologia NASA, che permette di scartare i chicchi malati mantenendo solo i sani. Il fallimento per bancarotta di Wonder Bread nel 2012 è stata una delle dimostrazioni più lampanti di questa nuova tendenza; nonostante avesse tentato negli anni precedenti di rinnovare il posizionamento, aggiungendo più calcio e vitamina D nelle sue fette, questa volta la nuova strategia non gli ha permesso di rimanere ai vertici del mercato come un tempo. Insomma, non si può certo dire che il mondo del “pane” chimico e bianco in cassetta sia un lontano ricordo, anzi; ma la cultura americana non solo ha saputo rinnovarsi, ha persino contribuito a far evolvere il mondo intero.
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Negli anni ’90 i nutrizionisti cominciarono ad associare il consumo di pane all’aumento di pane, mentre negli anni 2000 iniziò a diffondersi la dieta Paleo e ad aumentare i casi di celiachia in America e nel mondo.Come è normale aspettarsi, simili situazioni hanno generato nuove mode, rendendo fin troppo comune il termine “artigianale” o “integrale”, spesso in modo poco veritiero o contraddittorio. Di certo possiamo dire però che gli avvenimenti di fine ventesimo secolo hanno aperto le porte al
mondo odierno del pane, quello che tanto amiamo e che ha letteralmente invaso prima i ristoranti, poi le case.
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Gli americani e la carne amore o ossessione? Across the Pond a cura di Elena Ninotti
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he gli Americani siano mangiatori di carne è un luogo comune abbastanza diffuso. In realtà non è esattamente un luogo comune, visto che ha un fondo di verità davvero solido. In generale, amano mangiare e, se possibile e le finanze lo permettono, amano mangiare bene. Non amano però passare molto tempo a fare la spesa, per cui, se girate per un supermercato americano, scordatevi la scelta di tagli che abbiamo noi in Italia. Più il supermercato è di alto livello e costoso, meno scelta si trova. Grosse catene come Walmart, che servono un po’ tutti, dagli immigrati meno abbienti ai più benestanti, hanno una buona scelta: grossi pezzi di Boston Butt e fettine per la Milanesa sudamericana (una cotoletta), arrosti da 5 lb e quinto quarto, per abbracciare tutte le tradizioni culinarie.
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Supermercati posh, come Whole Food e Fresh Market, con una clientela più esclusiva e fighetta, hanno un banco carne davvero striminzito, composto da NYstrip, Ribeye, beef ribs, filetto e arrosti per il manzo; arrosti di boston butt, ribs, filetto intero e pork chop da tre cm per il maiale. Qualche pezzo di agnello, rigorosamente neozelandese, qualche salsiccia, petti e cosce di pollo completano il
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banco.Per Natale, fanno la comparsa sua maestà il Prime rib roast e lo spiraled Ham. Che non vi venga in mente di richiedere o cercare del vitello: prezzi assurdi (più del doppio del manzo) per una carne spesso verdognola e putrescente, visto che non ha praticamente mercato.
Cosa hanno in comune i tagli dei supermercati per fighetti? Che si cuociono sulla griglia, o nel bbq: quindi, minima fatica e massima resa, secondo la più spiccia filosofia americana. I tagli che richiedono più lavorazione, invece, sono presenti nei canali della ristorazione o, appunto, nei supermercati che coprono una fetta più ampia di popolazione. I ristoranti specializzati in carne, le cosiddette Steakhouse, sono presenti praticamente ovunque nei 50 Stati. Le prime furono aperte a New York nel XIX secolo, seguendo la tradizione delle Inn Inglesi, ma prendendo poi una loro connotazione. Come dicevo all’inizio, gli americani amano la carne. Una ricerca del 2018 dice che arrivano a mangiarne anche 220 lb (circa 100 kg) /pro capite in un anno. Ovviamente l’America è grande, per cui ci sono anche aree meno colpite da questo fenomeno: in California, in South Florida e nelle grandi città prosperano diete salutiste, ci sono ristoranti veg e c’è una particolare attenzione verso quello che si mangia. Ma in certe zone, l’unico cibo considerato degno di essere consumato è la ciccia.
Quando in nuovi immigrati arrivavano, nel XIX secolo,
Anche oggi, le catene dei supermercati vendono solo select cut, ma i (pochissimi) macellai sono disponibili a fornire qualunque parte dell’animale. Questo eccesso di richiesta ha portato a intensificare le tecniche di allevamento in modalità non sempre etiche e corrette, che ancora oggi fanno storcere il naso agli europei sulla qualità della carne americana. Purtroppo, come in tutti i campi, spendere poco porta ad acquistare un prodotto di scarso livello. Le catene di supermercati più famose dichiarano di non vendere carni e latticini da animali trattati con ormoni della crescita e antibiotici, ma i prodotti processati, tipo i surgelati, spesso usano carni di dubbia provenienza. Un consumo di carne così alto non poteva che mettere in allerta il mondo medico, visto che in USA c’è una incidenza di malattie metaboliche molto più elevata che altri stati. Dagli anni ’80, quindi, è stata promossa una campagna di sensibilizzazione alimentare, volta a diminuire il consumo di carne rossa a favore sempre di più della carne bianca. Attualmente, tutte le catene di ristorazione hanno in menu non solo dedicato al pollo, ma anche un’alternativa vegana, come la Impossible Meat. Tuttavia, come si vede anche dal numero del Magazine che avete in mano, il fascino della bistecca di manzo mangiata alla steakhouse, continua a perdurare nel tempo. Per questo motivo, voglio proporvi la mia idea di cena alla Steakhouse, presentandovi il piatto principe delle bisteccherie americane e dei ristoranti di alto livello, quello che viene messo nei menù delle feste: Il Surf and Turf (o Surf’n’turf). BBQ4All Magazine
L’origine di questo amore è da ricondursi al processo di emigrazione nei nuovi mondi. Non per niente, si riscontra la stessa ossessione per le proteine animali anche nelle popolazioni argentine, brasiliane e australiane. In Europa, da sempre, la carne era appannaggio dei ricchi. I poveri si accontentavano di castagne, verdure, patate e polenta. Sono gli stessi poveri che poi, affrontando il viaggio in mare coi loro pochi beni, arrivarono nelle coste americane. Qui, la loro fortuna cambiò radicalmente. L’abbondanza di cibi in America gli premise di avere carne facilmente reperibile. Le terre oltreoceano erano libere (a parte qualche fastidioso indigeno rapidamente rimosso) e ricche di selvaggina facilmente catturabile o addomesticabile per l’allevamento. Questo portò I coloni di fine ‘700 a consumare quasi 90 kg di carne a testa.
trovarono già una cultura alimentare consolidata, anche nelle città. Parenti e amici sbarcati venivano sopraffatti dalla quantità di carne presente. E, se non era bistecca, era comunque lo spezzatino, per gli irlandesi; il brisket, per gli ebrei, le polpette, per gli italiani. Essere americani significava mangiare carne. Era un passaggio del processo di naturalizzazione, un modo per appartenere al territorio, anche se in città non si caccia per avere la carne, ma si va dal butcher, il macellaio, che provvede a vendere la carne allevata dalle fattorie nelle campagne circostanti.
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SURF AND TURF
Ingredienti per 1 porzione: una fetta di Tenderloin del
nostro Megastore da 2-2,5 cm / 3 grosse noci di capasanta senza il corallo / 6 code di gambero rosso di Mazara del Vallo GLC Top Selection private del carapace, dell’intestino e con la codina attaccata / 60 g di burro / pepe verde pestato al mortaio / sale q.b. / mezzo bicchiere di brandy / il succo di mezzo limone / 40 g di burro fatto a cubetti e conservato in congelato PREPARAZIONE: 1. Mettete le capesante su un foglio di carta assorbente ripiegato, coprite con un altro foglio e appoggiate sopra un peso leggero. Asciugate benissimo le code di gambero e mettetele da parte. 2. In una padella di ferro o di ghisa, ben scaldata, aggiungete 20 g di burro. Quando spumeggia, appoggiate la carne e cuocete circa 5 minuti. 3. Girate la fetta e rosolate l’altra parte, raccogliendo il burro con un cucchiaio e versandolo sulla carne in cottura. Levate la carne dal fuoco, salatela e mettetela in un piatto tiepido, da parte. 4. Aggiungete 20 g di burro nella padella e appoggiate le capesante. Lasciatele 3 minuti e giratele, cercando di appoggiarle su una parte della padella non usata scottando il primo lato. Cuocete altri 3-4 minuti a fuoco molto alto, aggiustate di sale e levate dalla padella. Deve caramellarsi leggermente la superficie. 5. Mettete da parte e scottate in egual modo le code di gambero. Non cuocete eccessivamente né il gambero né la capasanta, perché rischiate che diventino gommose. 6. Levate i gamberi dalla padella e metteteci gli altri 20 g di burro. Sfumate con uno spruzzo di brandy cercando di grattare eventuali residui nella padella. Sfumato l’alcol, versate in padella eventuali liquidi residui presenti nei piatti dove state conservando il cibo cotto e il pepe tritato e fate ridurre a fuoco vivo. 7. Aggiungete il succo di mezzo limone e, piano piano, i cubetti di burro ghiacciato, mescolando con una frusta il fondo di cottura.
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8. Mettete la carne e il pesce in un piatto di servizio, irrorate con la salsa e servite, accompagnato da broccoli leggermente scottati (5 minuti in microonde saranno sufficienti), patate lesse guarnite con prezzemolo e aglio o purè di patate mescolato con aglio arrostito.
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LA BISTECCA
PERFETTA
Gradissimo banco di prova per ogni griller, cucinare la bistecca (e intendiamo cucinarla in modo perfetto), non è affatto semplice. Repetita iuvant, dicevano i latini: negli anni vi abbiamo detto e ridetto cosa fare e come farlo per portare in tavola un risultato che facesse fare wow a voi e ai vostri commensali, ma un ripassino non fa certo male. Per cui, eccoci qua di nuovo a parlare di questo mito.
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REQUISITI PER LA BISTECCA PERFETTA 01. Lo spessore è un fattore importante, poiché permette di poter protrarre il tempo di cottura fino al raggiungimento della perfetta Maillard, senza stracuocere l’interno. Dimenticatevi però i vecchi meme “sotto le 4 dita è carpaccio!” e via discorrendo. Due dita di spessore bastano per raggiungere un risultato più che perfetto. 02. La marezzatura è la distribuzione del grasso tra le fibre muscolari dell’animale. Maggiore è questa infiltrazione, maggiore sarà la qualità della carne. Black Angus e Wagyu sono le razze che annoverano la maggior marezzatura. Questo grasso, in fase di cottura, si scioglierà completamente e conferirà estrema morbidezza e un inteso sapore alla bistecca. 03. La frollatura è un processo di maturazione della carne. L’animale appena macellato presenta carni difficilmente commestibili a causa
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a cura di Emiliano Nencioni
dell’estrema durezza. Con la frollatura, la ciccia sviluppa tenerezza, sapore ed aroma. Maggiore è il tempo di frollatura, migliore sarà il risultato dopo la cottura. Per effettuare una buona frollatura abbiamo bisogno di un ambiente ad umidità e ventilazione controllata, con temperatura compresa tra -1° e +4°C. Conviene sempre affidarsi agli esperti del settore ed evitare i sistemi home made: la proliferazione batterica causata da una tecnica scorretta può portare a seri rischi per la salute. GLI OBIETTIVI DELLA BISTECCA PERFETTA La bistecca dei nostri sogni è sicuramente tenera e succulenta all’interno, ma con una bella crosta croccante e col tipico sentore di affumicato caratteristico della grigliata. Per ottenere la crosta esterna ci viene incontro la chimica con un fenomeno che prende il nome di Reazione di Maillard. Essa avviene tramite l’interazione tra le proteine e gli zuccheri riducenti naturalmente presenti nella carne ad una temperatura di almeno 160°C ed in assenza di umidità. Affinché avvenga la reazione, è assolutamente necessario eliminare tutta l’umidità presente sulla carne. Come sappiamo, l’acqua ha il punto di ebollizione a 100°C, temperatura troppo bassa per permettere l’inizio delle reazioni di cauterizzazione ma comunque sufficiente a cuocere l’interno. Se cuocessimo la bistecca senza togliere l’umidità, dunque, otterremmo una bistecca dall’aspetto anemico e con profilo gustativo simile a quello del bollito. Quindi, quello che faremo sarà tamponare la nostra bistecca con della carta assorbente per disidratarne la superficie. Siate molto scrupolosi in questa fase e, se necessario, sostituite la carta più volte finché non vedrete la superficie completamente asciutta. La fase successiva sarà spennellare la superficie con un velo di olio extravergine d’oliva. Questo ci aiuterà a trasferire in maniera ottimale il calore
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dalla griglia alla carne e velocizzerà il processo di cauterizzazione. Ricordatevi sempre di preriscaldare la griglia, meglio se in ghisa o in spesso acciaio inox, per almeno 30 minuti. Maggiore sarà il calore accumulato, maggiore sarà la capacità di trasferire calore alla carn
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Ponite la carne in cottura diretta. Non punzecchiatela mai, non la toccate, non la girate, semplicemente chiudete il coperchio e lasciate in cottura per un minuto. Trascorso questo tempo, sollevate un lembo di carne e controllate che siano presenti le righe di cauterizzazione (grill marks). In caso contrario, continuate a cuocere fino alla loro formazione. Quando appariranno le righe e la superficie inizierà ad imbrunirsi, è il momento di ruotare la bistecca di 60° sull’asse verticale, questo vi permetterà di avere il caratteristico motivo a rombo tipico delle steak house. Ovviamente la cosa va ripetuta da entrambi i lati.
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A questo punto potete iniziare a monitorare la temperatura interna della bistecca aiutandovi con un termometro a sonda, che vi accerterete di aver inserito in parallelo alla griglia e non perpendicolarmente. Infilando la sonda dall’alto ri-
schiereste di trapassare completamente la carne, falsando la misurazione. Ma quali sono le temperature che ci interessano per determinare il grado di cottura della nostra carne? La nostra finestra di temperature spazia dai 55°C ai 75°C, laddove i 55°C sono una perfetta cottura rosata all’interno e i 75°C rappresentano per molti il male assoluto, ovvero la completa cottura della carne. Ovviamente esistono diversi tagli di bistecche, e non sono certo tutti uguali tra loro, né per conformazione, né per struttura: il che incide spesso sulla morbidezza e sulla succosità del risultao finale. Questo fatto ci porta a dover scegliere processi di preparazione e di cottura differenti a seconda del pezzo di ciccia che ci troviamo davanti. Vediamo velocemente quali sono le principali tecniche da utilizzare. DRY BRINING E’ una procedura che prevede di salare la carne alcune ore prima della cottura, utilizzando la stessa quantità di sale che si userebbe dopo la cottura. La proporzione è la seguente: mezzo cucchiaino di fior di sale per ogni 400 g di carne. Il sale, come noto, ha diversi effetti sul cibo. Per prima cosa, amplifica il gusto perché è un naturale esaltatore
di sapore. Il cloruro di sodio è formato da reticoli cristallini, all’interno dei quali si alternano ioni di sodio e ioni di cloro. Gli ioni, caricati elettricamente, attaccano le proteine della carne, in un processo chiamato denaturazione. Dunque le proteine alterate dal processo di denaturazione avranno maggiore capacità di trattenere acqua, e la carne trattata col sale avrà maggiore umidità anche dopo la fase di cottura. REVIT Adatto per le bistecche più alte. Nasce dal Reverse Searing, traducibile con cauterizzazione dopo la cottura in forno. È una procedura che si contrappone alle convinzioni diffuse del nostro paese. Il Reverse searing, quello tradizionale, è stato introdotto la prima volta da Chris Finney. L’idea di base era quella di scaldare prima la bistecca in forno a 100°C per poi passarla sul fuoco diretto. Idea che è stata ripresa e diffusa da Meathead Goldwyn che però di nuovo ha parlato di esposizione della carne a 225°F, cioè 107°C. Dopo di lui, anche J. Kenji Lopez, chef e autore della famosa rubrica The Food Lab by Serious Eats, rielabora il Reverse di Meathead, esponendo la carne ad una temperatura compresa fra 93° e 110°C.
FLIP&BRUSH Il revit funziona alla grande sui tagli più spessi, ma come si fa per le bistecche sottili e per quelle sottilissime tipo la skirt steak? Come per i tagli più corposi, l’obiettivo è lo stesso: un esterno marroncino scuro e un interno tenero, succoso e “al sangue”. Per le bistecche alte 25 mm o meno, il segreto è usare calore molto elevato e muoverle in continuazione. Togliete il grasso superficiale e la silver skin, se necessario. Cospargete di sale e fate un dry brining nel frigo per una o due ore prima di cuocere. Appena prima di metterla sulla griglia, asciugate con cura la carne usando carta assorbente, poiché l’umidità crea vapore e ostacola la caramellizzazione superficiale. Mettete la carne sulla parte più calda della griglia. Dovrete rimanere nei pressi del dispositivo e girarla ogni minuto, o anche più spesso, in modo da far raffreddare la superficie calda della bistecca, impedendo al calore di accumularsi troppo e scongiurando la possibilità di stracuocere l’interno. Mirate ad una superficie marrone scuro uniforme senza grill marks e ad una temperatura di 52°C - 54°C al cuore. Tutto sarà molto veloce, per cui state all’erta.
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Col Revit (Reverse searing all’italiana) ideato da Gianfranco Lo Cascio, teniamo invece la carne in forno a 52°C per poter scaldare l’interno e per favorire la reazione di Maillard. Ponete le bistecche su una gratella all’interno del forno in modalità ventilato, regolato a una temperatura non superiore ai 52°C. Meglio ancora se riuscite a collegare una sonda che rilevi la temperatura interna. Arrivati a questo punto, inizia la magia. Il punto non è arrivare a 52°C, ma prolungare la permanenza della carne a quella temperatura: questo processo rende la ciccia più morbida alla masticazione. Le bistecche rimangono in questa condizione fino al momento di andare sul grill o in padella per il searing finale. A questo punto, il tempo di permanenza sul grill è molto inferiore, la reazione di Maillard avviene prima perché la bistecca, pur
essendo cruda, parte da una temperatura più che doppia rispetto al normale. La cottura della carne a quel punto sarà uniforme e all’interno la bistecca sarà tutta rosata, quindi priva della sfumatura che va dal grigio al rosa, con una crosta esterna ben cauterizzata, croccante, saporita e profumata.
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DOVE POSIZIONARE LA SONDA Gennaio 2022
Illustrazioni a cura di Eleonora Castagna
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Pizzoccheri
La ricetta scientifica a cura di Gianfranco Lo Cascio
Vuris spiegaf cume’s fa a fa i taiadin, che pei furest e fina pei martocher (I) I saris poeu gnent otro ch’i pizzocher. Büter fresch de muntagna stagn e sciütt e miga margarina e gnanca strütt. Verze rizze che i sìes coeuce a part (per istà prope a medro el sarà bè ch’i sìes de Castelvedro) (II) e sferzada de ài, facia cun art (III) El furmentùn però ch’el sìes del nos, miga de quel che i butegàr balòs i fa rivà de Tito o i Piemuntès (IV) e che ‘l po’ giüsto es bun pei milanès perché lur i g’arà la Madunina ma quanto a cana i ghe l’à miga fina, (V) …el furmentùn ch’el sìes masnat bel fin cume i fa amù a la val di mulin. La pasta la va facia cun impegn Cun la scarela sur en as de legn (VI) Fin che l’impast el resti ‘po’ tiregn (VII) Miga gnücch come ‘n plott gnè moll affatt (VIII) ensema embaldegàt. Facc la pasta, tajela miga giò Cui machine che i usa al dì d’incoeu, ma cul curtèl tajei bei lung e fin, fii coeus in tanta d’aqua e sculèi ‘ d’en cadin cun la cazza furada (IX) ed ad ogni sculada metech sü tanta feta e tant furmaài (X) e in ultum el büter sferzàt cu l’ài. I diseva i nos vecc ch’el furmentùn El g’ha dent en po’ d’oppio perché el fa Vegnì voeja de mètes, dopo ‘l past, a runfà. Nò ‘nvece s’è scupert ch’el cundiment l’è quel che met adòs l’intuntiment, e che ‘l g’à envece la rutina (XI) che val de più che la penicillina, perché la sbassa fina la pressiun. E forse l’è per quest che quand a Tèi i se cürava cun el furmentùn i scampava più sacc e cuntentùn….
alla valtellinese Vorrei spiegarvi come si fa a fare le tagliatelle che per i foresti e perfino per i più ignoranti sarebbero nient'altro che i pizzoccheri. Burro fresco di montagna compatto e asciutto e non margarina e neanche strutto. Verze ricce che devono cuocere a parte (Per essere proprio giuste è bene che siano di Castelvetro) e la sferzata di aglio deve essere fatta ad arte. Il formentone però che sia del nostro non quello che i bottegai fanno arrivare dalla Iugoslavia che può essere buono giusto per i Milanesi perché loro avranno la Madonnina ma quanto al palato non l’hanno fino, …il formentone deve essere macinato bel fine come fanno ancora alla Valle dei Mulini. La pasta va fatta diligentemente con il mattarello su un asse di legno fin che l’impasto resti elastico Non gnucco come un sasso neanche molle tutto ben amalgamato. Fatta la pasta, non tagliatela con le macchine che si usano oggigiorno ma con il coltello, tagliati bei lunghi e fini fateli cuocere in tanta acqua e scolateli in una biella con il mestolo bucato e ad ogni scolatura mettete su tanta féta e formaggio e in ultimo il burro sferzato con l’aglio. I nostri vecchi dicevano che il formentone ha dentro un po’ di oppio perché fa venire voglia dopo il pasto di sonnecchiare. Invece si è scoperto che è il condimento che fa venire l'intontimento e che ha invece la rutina che vale più della penicillina, perchè abbassa perfino la pressione. E forse è per questo che quando a Teglio si curavano con il formentone campavano meglio e contenti...
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Note I “Martocher”: stupidi, come “tamàzzi” o “taramòt” II Castelvetro: frazione a metà strada fra Tresenda e Teglio. III “Sferzada” Significa far soffriggere degli spicchi d’aglio in una gran quantità di burro. IV Negli anni Sessanta inizia l’importazione di grano saraceno dalla Jugoslavia e da alcune località del Piemonte. V “Cana”: gola, bocca. VI “Scarela”: mattarello per stendere la pasta. VII “Tiregn”: compatto ma elastico, che si può tirare e allargare con le mani. VIII “Plott”: ciottolo. IX “Cazzafurada”: mestolo con grossi fori. X “Féta” e “furmai” sono due diverse qualità di formaggio, la “féta” è giovane e deve sciogliersi al calore dei pizzoccheri; il “furmai” è formaggio vecchio di casa, saporito, quasi piccante. XI Rutina è un flavonoide che rinforza i vasi sanguigni.
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Bruno Besta, pneumologo e poeta dialettale, ci dà un assaggio di quanto i pizzoccheri siano sacri e intoccabili e di quanti dogmi siano conditi, oltre a chilate di burro e formaggio. La poesia mi ha fatto ridacchiare, lo ammetto, ma l’idea di dovermi attenere a tutta una serie di regole rigidissime mi sta dando i sintomi da rush cutaneo. I pizzoccheri alla valtellinese sono un piatto di montagna corroborante e unto, pasta fresca di farina di grano saraceno bella turgida, morbide patate sbollentate, verza appena scottata, scorzette di formaggio Bitto che devono obbligatoriamente fondere, una tormenta di Grana Padano e una innaffiata di burro sfrigolante con lamelle di aglio croccante. Questi sono gli ingredienti della ricetta ufficiale e tradizionale, una pietanza storica che serviva ad apportare una scarica di calorie per chi sudava su in montagna. Un piatto che, per noi animali da laptop, va a mio parere alleggerito e “scomplicato”. Quali sono i procedimenti da domare in questa preparazione? #01 IMPASTARE I PIZZOCCHERI Fare un impasto con farina di grano saraceno è più difficile, più avanti vi spiegherò il perché. La pasta tende a sbriciolarsi, ha poca elasticità e va lavorata per tempi più lunghi. Ma noi che amiamo la cucina scientifica sappiamo come superare l’ostacolo. #02 IL FORMAGGIO CHE NON FONDE In giro vedo troppo spesso piatti di pizzoccheri che sembrano usciti dalla lavatrice, con gli ingredienti tutti separati, la verza fradicia e gocciolante e il formaggio ancora a tocchi. Quando invece ogni singola fettuccia di pasta dovrebbe essere avvolta e abbracciata da uno strato di formaggio cremoso e fuso, e verza e patate incastrate in una maglia fitta di formaggio filante. Perché, a volte, il formaggio non fonde alla perfezione e non si distribuisce in maniera omogenea? Perché la temperatura degli elementi che compongono il piatto potrebbe non essere abbastanza caldi e perché, agitando la pasta prima del servizio come di consueto, potrebbe non bastare per mantecare uniformemente i pizzoccheri.
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#03 L’AGLIO FRITTO Potrebbe risultare invadente oppure ostico da digerire. Ma lo Zio ha una soluzione anche per questo.
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Siete pronti per preparare i pizzoccheri sempre buoni e sempre filanti? Allora iniziamo.
PIZZOCCHERI ALLA VALTELLINESE: LA STORIA Tutto nasce grazie coltivazione di uno pseudocereale rappresentativo della regione della Valtellina, il grano saraceno, chiamato in qui luoghi “furmentùn”, “fraina” o “farina negra”. Col passare del tempo, è diventato un alimento portante nella dieta del territorio, conquistando il ruolo di prodotto storico e iconico. Nel resto dell’Italia la coltivazione di questa pianta è quasi scomparsa, tranne che in Valtellina. Sebbene in misura ridotta, qui continua a preservare la sua attrattiva, poiché si tratta dell’ingrediente basilare dei piatti tipici valtellinesi: pizzoccheri, sciàt, polenta taragna e chisciöi. L’origine dei pizzoccheri possiamo desumerla da una serie di riferimenti culinari riportati da H.L. Lehmann nella sua opera Die Republik Graubündeni, uno scritto che riguarda l’area dei Grigioni, di cui faceva parte la Valtellina in quell’epoca. L’autore parla di “Perzockel”, tagliatelle fatte di farina di grano saraceno e uova: la pasta veniva lessata in acqua, poi si aggiungeva il burro e il formaggio grattugiato. Nelle case contadine e su nei pascoli si preparavano degli gnocchi con gli stessi ingredienti, poiché le famiglia erano così povere da non potersi permettere nemmeno un tavolo o una spianatoia per stendere la sfoglia. Nel Prodromo della flora valtellinese (1834) Giuseppe Filippo Massara, tra le piante raccolte nel corso di varie escursioni botaniche in provincia di Sondrio, cita il fagopiro, meglio noto come grano saraceno, e afferma che: “Colla stessa farina si fanno più altre ragioni di vivande, siccome “gnocchi” e “tagliatelli”, chiamati sì gli uni che gli altri pizzoccheri”.
Nella seconda metà dell’Ottocento il medico Ludovico Balardini scrive che in Valtellina “vi si fa grand’uso di farinacei e di certe paste grossolane che si cospergono con butirro (burro) e formaggio a guisa di tagliatelli, dette Pizzoccheri, delle quali vanno assai ghiotti i Sondriesi”. I pizzocheri sono stati e sono senz’altro il piatto più rappresentativo della zona che va da Grosio a Castione, con epicentro a Teglio, dove si è creato un legame quasi affettivo tra questo piatto e i suoi abitanti. Da una testimonianza descritta nel suo viaggio gastronomico con un gruppo di amici nelle grotte e nelle cantine della provincia di Sondrio dal barone professor Emilio Giani De Valpo (1884-1956), medico e letterato, si comprende come il piatto tradizionale, nel XX secolo, sia diventato un richiamo gastronomico potentissimo: “… I pizzocher sono il piatto tradizionale della media Valtellina e vengono ammanniti ovunque, ma i pizzocher veramente tali, si mangiano a Teglio, e a Teglio, da Berti Gimmy (Albergo Teglio) che li interpreta con intelligenza ed amore. Basta un nonnulla per sciuparli, come tutte le cose che devono risultare dalla perfetta armonia delle parti che la compongono. La gente ne parla in casa, all’osteria, al lavoro: chi vanta la superiorità della farina di Teglio meglio macinata e non contenente sabbiolina come quella di Montagna; chi discute sull’età del formaggio, la stagionatura del semigrasso casalingo per condire e insaporire, chi parla sul modo di friggere l’aglio; ognuno vuol dire la sua, ed alla fine ognuno rimane nella propria opinione. Ecco come Berti Gimmy prepara i pizzocher: prende prima fior di farina nera (grano saraceno) e vi aggiunge un pugnetto di farina bianca di frumento; impasta il tutto con acqua e sale e maneggiando la pasta con le mani ne fa una massa piuttosto dura; poi col mattarello la stende in sfoglia alta circa 4 millimetri; taglia la sfoglia per tutta la lunghezza in strisce larghe 6-7 cm, pone 4 o 5 di queste strisce per volta l’una sull’altra e ne taglia tante striscioline della larghezza di ½ centimetro. Su
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Ma è nei primi dell’Ottocento che si materializza sulle tavole dei contadini meno acciaccati il piatto più simile ai pizzoccheri moderni: tagliatelle grossolane di grano saraceno impastate con una parte di farina bianca, cotte in abbondante acqua salata e condite con patate, verze o coste o fagiolini, a seconda delle stagioni. I pizzoccheri venivano poi scolati con un mestolo bucato (cazafuràda) e messi in una “biella” con strati di due tipi di formaggio a scaglie: uno più magro chiamato “féta” ed un semigrasso più stagionato. La pasta veniva poi condita con una
doccia di strutto scuro e aglio. In alcune zone si preferiva (e si preferisce) usare cipolla e salvia al posto dell’aglio.
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un gran fuoco mette una panciuta pentola piena di acqua e, appena questa entra in ebollizione, vi mette foglie di verza riccia o costole di bietole o patate a pezzi e poco dopo vi getta i pizzoccheri. Mentre cuociono, taglia in piccole fette il formaggio (la féta); cotti a punto li scola col ramaiolo e copre il fondo di un recipiente di maiolica con un primo strato; sopra vi stende uno strato di féta e pezzi di burro; alterna questi coi pizzoccheri; su
tutto versa poi il burro d’alpe fritto di colore oro ma non nero, profumato di spicchi d’aglio dorati e non bruciati…”. I valtellinesi mangiano i pizzoccheri almeno una volta alla settimana e sono un pasto obbligato e imprescindibile nelle feste e nelle tavolate con parenti e amici. “Dai ch’en fa scià du pizzucherin!” (Dai che facciamo un piatto di pizzoccheri!).
GLI INGREDIENTI PRINCIPALI IL GRANO SARACENO
Il grano saraceno, a differenza dei veri cereali appartenenti alla famiglia delle Graminacee (Monocotiledoni), è in realtà uno pseudo cereale della famiglia botanica delle Poligonacee (Dicotiledoni), parente del rabarbaro e dell’acetosa. Il nome scientifico è Fagopyrum esculentum. Originario dell’Asia centrale e delle montagne dello Yunnan (Cina), dove sono state reperite forme spontanee di Fagopyrum esculentum, viene coltivato nell’Asia orientale (Cina, Corea, Giappone) dal 200 a.C. Si è diffuso prima nei Paesi del versante sud dell’Himalaya (Nepal, India Pakistan), poi calcando le vie dei Mongoli dalla Siberia alla Russia è arrivato in Europa Centrale (Germania) intorno al 1400. Per quanto riguarda l’Italia, le prime testimonianze risalgono agli inizi del 1500, epoca nella quale il grano saraceno era già conosciuto in Veneto col nome “frumentone”.
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Il grano saraceno tollera condizioni climatiche difficili e matura in poco più di due mesi, quindi è stato a lungo apprezzato nelle regioni fredde e ostili. I suoi chicchi sono triangolari, misurano 4-9 mm di diametro e sono ricoperti da un guscio scuro (pericarpo). Il seme interno è una massa di endosperma amidaceo che circonda un piccolo embrione ed è contenuto in un rivestimento verde-giallo chiaro.
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Il grano saraceno è composto da circa l'80% di amido e dal 14% di proteine, per lo più globuline solubili in sale. Contiene circa il doppio dell'olio della maggior parte dei cereali, e questo limita la durata di conservazione delle semole e della farina. Le semole decorticate contengono circa lo 0,7% di composti fenolici, alcuni dei quali danno a questo ingrediente la sua caratteristica astringenza. L'aroma caratteristico del grano saraceno
cotto ha note di nocciola, affumicato, vegetale e persino di pesce (dovute rispettivamente a pirazine, salicilaldeide, aldeidi e piridine). La farina di grano saraceno contiene una piccola quantità di mucillagine, un carboidrato complesso che - un po' come l'amilopectina - è composta da circa 1500 molecole di zucchero legate insieme in una struttura ramificata. Sebbene sia un componente secondario della farina, la mucillagine assorbe l'acqua e può fornire parte della viscosità, che però riesce a tenere insieme uno spaghetto a stento. Il grano saraceno è un alimento base in alcune parti della Cina, della Corea e del Nepal. Nella regione himalayana viene usato per fare il chillare, un pane piatto, così come pakoras e dolci simili a frittelle. In Russia si usa per preparare dei piccoli pancake chiamati blini, mentre le semole intere vengono tostate per fare il porridge kasha, dal sapore di tostato. In Bretagna si usa per preparare le leggendarie crêpes, dolci o salate. I giapponesi ci fanno i soba, gli spaghetti scuri, e negli Stati Uniti si utilizza più spesso nelle frittelle, alle quali dona morbidezza e un aroma di nocciola. Tornando in Valtellina, compare in una descrizione del 1616 nell’opera Raetia di Giovanni Guler Von Weinech, governatore grigionese della Valle dell’Adda che, facendo un elendo dei prodotti del Terziere di Mezzo, menziona anche il grano saraceno. Nei secoli successivi, fino ai primi decenni del 1900, la coltura ha continuato ad essere elemento portante per l’alimentazione della comunità valtellinese, ma in seguito è stata in parte soppiantata dacereali considerati di maggior pregio (frumento e mais).
Dagli anni ’90 del secolo scorso si è assistito a una buona ripresa della coltivazione, non solo in Valtellina. Sia sulle Alpi e che sugli Appennini si sperimentano prodotti a base di grano saraceno, che ha suscitato un rinnovato interesse per essere privo di glutine e per le sue importanti proprietà nutrizionali.
Struttura di base
La farina di grano è una roba strana e meravigliosa! Mescoliamo praticamente qualsiasi altro ingrediente in polvere con acqua e otteniamo una semplice massa inerte. Ma mescolate un po' di farina con circa la metà del suo peso in acqua, e la loro combinazione sembrerà prendere vita. All'inizio sviluppa una massa coesa che muta con riluttanza. Con il tempo e l'impastamento, la resistenza lascia il posto alla vivacità, una reattività rimbalzante alla pressione che persiste anche dopo che l'impastatore di turno ha lasciato la presa. Sono queste qualità di solidità e dinamicità che distinguono gli impasti di grano dagli altri cereali o pseudocereali e che rendono fattibili pagnotte di pane leggere e morbide, dolci sfogliati e pasta vellutata.
Chiamiamo una miscela di farina e acqua un impasto o una pastella, a seconda delle proporzioni relative dei due ingredienti principali. In generale, gli impasti contengono
più farina che acqua e sono abbastanza rigidi da essere manipolati a mano. Tutta l'acqua è legata alle proteine del glutine e alle superfici dei granuli di amido, che sono incorporati nella matrice semisolida glutine-acqua. Le pastelle, al contrario, contengono invece, più acqua che farina e sono abbastanza fluide da poter essere versate. Gran parte dell’acqua costituisce un liquido libero, e sia le proteine del glutine che i granuli di amido sono dispersi in in essa.
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Le diverse consistenze dei prodotti da forno e della pasta sono determinate dalle strutture dei loro impasti e delle loro pastelle. Queste strutture sono composte da tre elementi di base: l'acqua, le proteine del glutine della farina e i suoi granuli di amido. Insieme, questi elementi creano una massa omogenea e solida. Questa coesione è
ciò che dà alla pasta la sua consistenza setosa. Il pane e i dolci sono leggeri e soffici perché la massa proteico-amidacea è divisa da milioni di minuscole bolle; i dolci sfogliati si gonfiano e diventano croccanti perché la massa proteico-amidacea è interrotta da centinaia di sottili strati di grasso.
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La struttura di un impasto o di una pastella è temporanea. Quando viene cotta, i granuli di amido assorbono l’acqua, si gonfiano e creano una struttura solida fissa da quella originaria, semisolida o liquida. Nel caso di pane e torte, questa struttura solida è una rete di amido e proteine simile a una spugna, piena di milioni di minuscole sacche d'aria. I panettieri usano il termine mollica per questa rete, che costituisce la massa principale del pane o delle torte. La superficie esterna, che di solito ha una consistenza più secca e densa, è la crosta. Fissate queste nozioni, guardiamo più da vicino gli elementi strutturali degli impasti e delle pastelle.
Il glutine
Masticando un piccolo pezzo di pasta, questa diventa più compatta ma diventa elastica come una gomma, il residuo che i cinesi chiamavano in maniera proverbiale "muscolo della farina” e che noi chiamiamo glutine. È composto principalmente da proteine, e include quelle che potrebbero essere le più grandi molecole proteiche che si trovano nel mondo naturale. Queste straordinarie molecole sono quelle che danno all'impasto del grano la sua vivacità e rendono possibili i pani e gli impasti lievitati. Anche se i cuochi cinesi hanno scoperto le proprietà utili del glutine molto prima di chiunque altro, sono stati due scienziati italiani a portarlo all'attenzione dell'Europa. In un manuale di ottica pubblicato postumo nel 1665, lo studioso gesuita Francesco Maria Grimaldi notò che la pasta di semola di grano duro conteneva una sostanza spessa e appiccicosa che si asciugava fino a diventare dura e fragile. Chiamò questa sostanza gluten, che in latino significa "colla". Nel 1745, Giambattista Beccari studiò più attentamente il glutine e notò la sua somiglianza con ciò che oggi chiamiamo proteine.
Ad ogni estremità della catena gluteninica ci sono sono amminoacidi contenenti zolfo che possono formare forti legami zolfo-zolfo con gli stessi aminoacidi alle estremità di altri catene di glutenina. Per fare questo richiedono la disponibilità di agenti ossidanti (ossigeno nell’aria), alcune sostanze prodotte dai lieviti, o "miglioratori" aggiunti dal produttore di farina o dal panettiere. Il lungo tratto centrale arrotolato della molecola di glutenina consiste principalmente di amminoacidi che formano legami deboli e temporanei (legami idrogeno e idrofobici) con amminoacidi simili. Le catene di glutenina si legano così tra loro da un capo all'altro per formare delle supercatene lunghe alcune centinaia di glutenine, e i tratti arrotolati lungo la loro lunghezza formano molti legami temporanei con tratti simili lungo le proteine del glutine. Il risultato è una vasta rete interconnessa di proteine arrotolate: il glutine.
Plasticità ed elasticità del glutine
Il glutine del grano del pane è sia plastico che elastico; cioè, cambierà la sua forma sotto pressione, ma resisterà alla pressione e tornerà alla sua forma originale quando la pressione scomparirà. Grazie a questa combinazione di proprietà, l'impasto di grano può espandersi per incorporare il gas di anidride carbonica prodotto dal lievito, e tuttavia resistere alla pressione delle bolle interne.
La formazione del glutine
Quando la farina viene mescolata con l'acqua e trasformata in un impasto, le molecole di glutenina si legano da un capo all'altro per formare lunghe e composte molecole di glutine. L'impasto è elastico perché le molecole di glutine sono arrotolate e hanno molte pieghe. Quando una massa di pasta viene allungata, le pieghe si raddrizzano, le spirali si allungano e così anche le proteine. Quando la tensione dello stiramento termina, molte delle pieghe e dei grovigli si riformano, la massa proteica si accorcia, e l'impasto si restringe di nuovo nella sua forma originale.
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Le proteine del glutine formano lunghe catene che si attaccano l'una all’altra e si legano alle molecole d’acqua (non sono solubili). Quando le proteine sono asciutte, sono immobili e inerti. Quando sono bagnate dall’acqua, invece, possono cambiare forma, muoversi, formare e rompere legami tra loro. Le proteine del glutine sono molecole lunghe, formate da molecole più piccole chiamate aminoacidi. La maggior parte di esse, le gliadine e le
glutenine, sono lunghe circa mille aminoacidi. Le catene di gliadina si ripiegano su se stesse in una massa compatta e si legano solo debolmente tra loro e con le proteine della glutenina. Le glutenine, invece, si legano tra loro in diversi modi per formare un'estesa rete a maglie strette.
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La plasticità del glutine deriva dalla presenza delle proteine della gliadina.Le gliadine, essendo compatte, agiscono come dei cuscinetti a sfera, permettendo a porzioni di glutenine di scivolare l'una sull'altra senza legarsi. L'elasticità deriva dalla struttura attorcigliata e a spirale delle proteine del glutine. L'impastamento dispiega e allinea le molecole proteiche, ma conservano anelli e pieghe lungo la loro lunghezza. Allungando l'impasto si raddrizzano queste anse e pieghe, ma quando la pressione diminuisce, le molecole tendono a ritornare nelle loro pieghe originali. Inoltre, la struttura a molla arrotolata delle singole proteine può estendere e immagazzinare parte dell'energia di stiramento, ma quando l'allungamento viene interrotto, le molecole tornano alla loro forma compatta a spirale. Il risultato visibile di questi eventi submicroscopici? L’impasto allungato ritorna come prima.
Rilassamento del glutine
Un'altra importante caratteristica degli impasti di farina di grano è che la loro elasticità si rilassa con il tempo. Un impasto elastico che non si rilassa mai non potrebbe mai diventare un panino o un croissant! In un impasto ben sviluppato, le molecole proteiche sono state organizzate e allineate, e hanno formato molti legami deboli tra loro. Poiché ce ne sono molti, questi legami tengono le proteine saldamente al loro posto e resistono all'allungamento, quindi la palla di pasta risulta bella ferma e tesa. Ma poiché i legami sono deboli, la tensione fisica della palla tesa ne rompe lentamente alcuni, e la struttura dell'impasto gradualmente si rilassa in una massa più piatta e malleabile.
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Il glutine come ingrediente
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Essendo “incollate” e insolubili in acqua, le proteine del glutine possono essere facilmente separate dal resto della farina: basta fare un impasto e poi lavorarlo in acqua. L'amido e le sostanze che si sciolgono in acqua si
lavano via e rimane il glutine duro e gommoso. Il glutine come additivo è stato scoperto dai produttori cinesi di spaghetti intorno al VI secolo, e dall'XI viene chiamato mian jin, o "muscolo della farina”(i giapponesi lo chiamano seitan.) Quando viene cotto, il glutine concentrato sviluppa una consistenza gommosa e scivolosa come quella dei muscoli animali. Il Mian jin divenne un ingrediente imprescindibile nella cucina vegetariana dei monasteri buddisti; esistono ricette risalenti all'XI secolo che imitano la carne di cervo, la carne secca e il glutine fermentato. Poiché il glutine contiene un'alta percentuale di acido glutammico, la fermentazione lo scompone in un condimento che era una versione primitiva dell’MSG, il glutammato monosodico. Oggi il glutine è ampiamente disponibile e utilizzato per preparare una varietà di surrogati della carne. Noi lo utilizzeremo in un altro modo. Ci sono una serie di ingredienti e tecniche con cui i panettieri, i pastai o i pasticcieri controllano la forza del glutine e la consistenza di impasti e pastelle. Essi includono: • Il tipo di farina usata. Le farine per pane ad alto contenuto proteico producono un glutine forte, le farine per pasticceria e dolci a basso contenuto proteico uno debole, la semola di grano duro (per la pasta) uno forte ma plastico. • La presenza nella farina di sostanze ossidanti che possono aumentare il legame delle molecole di glutenina e quindi la forza dell'impasto. • Il contenuto d'acqua dell'impasto, che determina la concentrazione delle proteine del glutine e la loro capacità di legarsi tra loro. Poca acqua dà un glutine non completamente sviluppato e una consistenza friabile; molta acqua dà un glutine meno concentrato e un impasto più morbido e umido.
INGREDIENTI CHE INTERFERISCONO CON LA FORMAZIONE DEL GLUTINE Ingredienti
Tipologia
Comportamento
Effetto
Farina: glutenina
Proteina
Forma reti interconesse di glutine
Rende l'impasto elastico
Farina: gliadina
Proteina
Si lega debolmente con le reti di glutenina
Rende l'impasto elastico
Farina: amido
Carboidrato
Riempie la maglia di glutine, assorbe l'acqua durante la cottura
Ammorbidisce l'impasto, fissa la struttura durante la cottura
Permette alla maglia glutinica di formarsi, la diluisce
Grandi quantitativi ammorbidiscono l'impasto
Produce anidride carbonica negli impasti e nelle pastelle
Alleggeriscono e rendono sofficile l'impasto
Acqua
Lievito, agenti lievitanti
Organismi viventi o additivi
Sale
Minerale purificato Stringe la maglia glutinica
Rende l'impasto più elastico
Grassi e oli
Lipidi
Indeboliscono la maglia glutinica
Ammorbidiscono l'impasto
Zucchero
Carboidrati
Indebolisce la maglia glutinica, assorbe l'umidità
Ammorbisce l'impasto, preserva l'umidità
Uova
Proteine, grassi ed emulsionanti del tuorlo
Le proteine si coagulano durante la cottura, i grassi e gli emulsionanti indeboliscono la maglia glutinica, gli emulsionanti stabilizzano le bollicine dell’impasto e l’amido
Supporta la struttura del glutine con coaguli di proteine, ammorbidisce l’impasto e aumenta la conservabilità
Latte e latticello
Proteine, grassi ed emulsionanti
Proteine, grassi, emulsionanti ed Ammorbidisce l’impasto acidità indeboliscono la maglia glu- e rallenta l’essiccazione tinica, gli emulsionanti stabilizzano le bollicine dell’impasto e l’amido
Mescolare e impastare la miscela farina-acqua, sono azioni che allungano e organizzano le proteine del glutine in una rete elastica. Il sale rafforza notevolmente la rete di glutine: gli ioni di sodio elettricamente positivi e gli ioni di cloro negativi si raggruppano intorno alle porzioni poco cariche delle proteine della glutenina ed impediscono a queste porzioni cariche di respingersi a vicenda, permettendo così alle proteine di avvicinarsi l'una all'altra e di legarsi meglio.
I grassi e gli oli indeboliscono il glutine legandosi agli amminoacidi idrofobici lungo le catene proteiche e impedendo loro di legarsi tra loro. L'acidità dell'impasto - come quella che si viene a instaurare con aggiunta di lievito madre - indebolisce la rete di glutine, aumentando il numero di amminoacidi caricati positivamente lungo le catene proteiche, e aumentando di conseguenza le forze repulsive tra le catene.
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Lo zucchero, alle concentrazioni tipiche dei pani dolci lievitati (il 10% o più del peso della farina),
limita lo sviluppo del glutine diluendo le proteine della farina.
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Il glutine nei pizzoccheri
Tutto questo bello spiegone sul glutine ci è servito per capire come mai gli impasti poveri di questa proteina sono difficili da lavorare. Quello dei pizzoccheri rientra appieno nella categoria, ma noi possiamo risolvere il problema con un barbatrucco. La farina che si utilizza per fare la pasta fresca contiene circa 13 grammi di proteine del grano per 100 grammi. Il grano saraceno non è un cereale, quindi al suo interno contiene sì proteine, ma che non hanno le stesse caratteristiche di quella del grano. Cosa possiamo fare allora per compensare questa mancanza? Aggiungiamo del glutine in polvere! Il calcolo è molto semplice. Il glutine in polvere contiene generalmente 76 grammi di proteine per 100 grammi. La farina per pasta fresca contiene 13 grammi di proteine per 100 grammi. Facciamo quindi questa proporzione per calcolare il termine incognito “x”, che sono i grammi di glutine da aggiungere alla farina di grano saraceno. 100 : 76 = x : 13 Dunque 100 moltiplicato per 13 e diviso per 76 ci dà 17, che sono i grammi di glutine da aggiungere ogni 100 grammi di farina di grano saraceno.
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Chiaro, no?
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E se proprio non riuscite a trovare il glutine (si acquista facilmente online), potete aggiungere 1 parte di farina di grano tenero forte (per panificati) su 4 parti di farina di grano saraceno. Diluirà un po’ il sapore nocciolato, ma vi aiuterà senz’altro a tirare la sfoglia.
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IL BITTO
Dal celtico "Bitu" che significa "perenne" prende il nome sia la valle che il torrente che la percorre in provincia di Sondrio. Perenne come la stagionatura del formaggio, appunto. Furono proprio i Celti a preparare la forma iniziale, mentre le prime testimonianze scritte risalgono agli inizi del 1600.
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Il Bitto è un formaggio d’alpeggio grasso, a pasta semicotta e di media durezza. Si produce esclusivamente con il latte vaccino prodotto negli alpeggi delle Valli delle Alpi Orobie, in Valtellina. Gli ingredienti sono latte vaccino intero e un’aggiunta di latte caprino (10%), che gli dà poi quella particolarità. Il sapore è dolce, delicato e con i profumi tipici del latte di montagna. Diventa poi più intenso con il procedere della maturazione. Le forme sono cilindriche, con diametro di 30-50 cm e altezza di 8-12 cm. Le stagionature sono due: media (da 1 a 6 mesi) e lunga, (da 1 a 3 anni). Alcuni produttori si spingono fino a 10 anni e oltre senza che ne vengano alterate le caratteristiche organolettiche e di struttura. Maturando, la pasta diventa dura e sviluppa un gusto piccante e aromatico. La crosta è sottile e gialla nelle forme più giovani mentre diventa scura e consistente in quelle più stagionate. La pasta è tenera, di colore bianco paglierino con leggera occhiatura.
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Quando è giovano si mangia come un classico formaggio da taglio, si può accompagnare con miele e confetture, noci e aceto balsamico. Dopo l’anno di stagionatura, diventa perfette per le ricette tipiche dei luoghi di produzione. Essendo un formaggio che si fonde facilmente, viene utilizzato per i pizzoccheri della Valtellina, la polenta taragna e
gli Sciatt di Bitto. Spesso è sostituito dal formaggio Casera (altro formaggio tipico della zona insieme al Scimudin) anche se non dà gli stessi risultati. Le condizioni base per ottenere il meglio del formaggio Bitto, e che quindi rendono più favorevole l'impiego dei Calèc (capanne itineranti) sono la trasformazione immediata del latte e la riduzione dello stress animale, che assicura un prodotto migliore e più concentrato. Per utilizzare il latte ancora caldo, le vacche pascolano nelle vicinanze di questa baita ed il latte appena munto trasformato immediatamente. Esaurita l'erba ci si sposta in un altro Calèc. La salatura viene fatta a secco con la distribuzione di sale da cucina ad intervalli di 2-3 giorni per circa tre settimane. La produzione avviene esclusivamente nei mesi estivi, ma nei grandi supermercati è più facile trovarlo durante le festività. La reperibilità è infatti media, non è facile trovare il Bitto fuori dalla Valtellina, magari riuscite nelle gastronomie specializzate. Nel 1995 è stato fondato un Consorzio volontario che attualmente conta oltre 100 associati produttori di Valtellina Casera e Bitto ed alcuni stagionatori. Il Consorzio di Tutela verifica una per una tutte le forme contrassegnate all’origine e, una volta terminata la stagionatura, ne attesta la conformità con un marchio a fuoco, simbolo indelebile della qualità dl prodotto. Il Bitto migliore deve avere pochi fori, la cosiddetta “occhiatura”, e va conservato in frigorifero. Per i Pizzoccheri è consigliabile scegliere un Bitto poco stagionato, tagliarlo a scaglie e non a cubetti, così si fonde completamente.
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LA VERZA
La verza è una varietà di cavolo, simile al cavolo cappuccio. È un ortaggio invernale, è multitasking e può essere mangiata sia cruda che cotta. È fatta di foglie grinzose, increspate e con nervature prominenti di colore verde intenso, che racchiudono un cuore di foglie bianco-giallastre. La forma della parte commestibile (chiamata testa o palla) può essere sferica, appiattita o conica e il peso varia da 1 a 2 Kg. Il sapore è molto intenso e caratteristico e le foglie sono parecchio croccanti. Il cavolo verza, Brassica oleracea sabauda, è una pianta annuale con radice non molto profonda, ha un fusto eretto, di lunghezza raramente superiore ai 30 centimetri e tantissime foglie stratificate a formare una testa tonda e compatta. Rispetto al cavolo cappuccio ha una maggiore resistenza al freddo e la sua coltura si estende da Nord a Sud. La pianta spontanea originale ha dato origine a moltissime varietà. Tra le cultivar più famose ricordiamo: il Violaceo di Verona (tardivo) di colore verde-violaceo, il cavolo verza di Vetus (tardivo) di colore verde chiaro, il S.Martino d’Asti (tardivo) verde, il Monarch, verde scuro. Accanto ad ibridi come Eco, Prince, Hamasa, Wirosa, Icequeen e Perfection Drum, esistono ancora tantissime varietà locali, quali Pasqualino, S. Giovanni e Agostano di Asti, S. Martino di Asti, Marcellino, Tardivo di Verona e Cavolo di Milano. Viene raccolto prima della fioritura, da ottobre a maggio. Le verze migliori e più tenere sono quelle che hanno subito la prima gelata. Come scegliere la verza migliore? Come per tutte le varietà di cavolo, deve essere pesante e con le foglie ben chiuse. Si conserva ad una temperatura di 0 °C ed un'umidità relativa superiore al 97% fino a 5-6 mesi.
Preservare il colore della verza
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L’ossidazione è un processo noto ed è causato da un complesso di enzimi che si chiamano polifenolossidasi e che vengono attivati durante la manipolazione e la cottura dei vegetali. Per domarli vi basterà immergere le foglie di verza per 10 secondi nell’acqua bollente, poiché l’enzima si disattiva tra gli 80°C e i 95°C, e poi immediatamente in acqua e ghiaccio.
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LA RICETTA SCIENTIFICA INGREDIENTI
(dosi per sei persone) Per la pasta fresca: 500 g di farina di grano saraceno / 85 g di glutine (potete sostituirlo con 100 g di farina di grano tenero forte) / acqua q.b. (io ne ho utilizzata 400ml) Per la salsa al Bitto: 300 g di formaggio Bitto DOP o Casera DOP / 300 g di latte / 9 g di citrato di sodio Per il condimento: 200 g di burro di centrifuga / 200 g di formaggio Grana Padano grattugiato o Parmigiano Reggiano / 250 g di verze / 350 g di patate a pasta gialla/ 1-2 spicchi di aglio / pepe nero q.b.
PROCEDIMENTO
Mescolate la farina di grano saraceno e il glutine in polvere, in modo tale che le polveri si disperdano in maniera omogenea. Impastate con acqua e lavorate l’impasto fin quando non diventa liscio e compatto. È importante aggiungere l’acqua poco alla volta, il quantitativo può variare in base alle polveri utilizzate. Potete farlo a mano, facendo la classica fontanella, o nella planetaria, scegliete voi. Prendete la macchina per tirare la sfoglia e passate i panetti fino ad uno spessore di 2-3 mm. Con il rullo per le tagliatelle da 5-6 mm di larghezza, passate ogni sfoglia e tagliate le strisce con un coltello, per ricavare delle fascette di 7-8 cm. Sistemate la pasta su un vassoio leggermente infarinato. Tagliate le patate in cubetti da 1,5 cm, mettetele in un sacchetto sottovuoto sous vide a 90°C per 80 minuti. Aggiungete due noci di burro e un pizzico di sale. Lasciate raffreddare e mettete da parte.
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Tagliate la verza a metà, eliminate la parte centrale e ricavate delle striscioline o dei quadretti. Lessate la verza in acqua salata per 10 secondi, poi immergetela in acqua e ghiaccio e di nuovo nell’acqua bollente fin quando non diventano morbide. Scolatele su carta assorbente ma non buttate via l’acqua, vi servirà per lessare la pasta.
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Intanto preparate la crema di Bitto versando il latte e il citrato di sodio in un pentolino. Dissolvete la polvere aiutandovi con una frusta e portate tutto sul fuoco. Aggiungete il formaggio tagliato a cubetti o grattugiato, un cucchiaio alla volta,
mescolando continuamente. Non vi fermate fin quando la salsa non risulta perfettamente liscia e vela il cucchiaio. Conservate la salsa a bagnomaria o comunque al caldo, perché raffreddandosi si addenserà troppo. Trucchetto: se notate che il grasso comincia a separarsi dall’acqua (se l’emulsione si rompe in pratica) portate il composto a bollore e emulsionate a caldo con il mixer ad immersione. Se anche questa operazione non dovesse risultare efficace, barate e aggiungete un cucchiaio di panna fresca e mescolate. Ora tocca al burro aromatizzato all’aglio. Ormai lo sapete tutti, ma è bene fare un ripasso. L’aglio contiene alliina, una molecola che ha dentro dello zolfo. Quando la struttura si rompe, grazie ad un enzima chiamato alliinasi, l'alliina si trasforma in allicina, un complesso sulforganico che dà all'aglio il tipico profumo pungente. In uno spicchio integro, l'alliinasi è confinato in sacche (vacuoli) nella cellula, mentre l’alliina fluttua liberamente nel citoplasma. Frantumando e sminuzzando il bulbo di aglio, queste sostanze vengono in contatto e producono l’allicina, che ha quel distinguibile odore sferzante ed intenso. Ad alte temperature, l'alliinasi si disattiva e non è in grado di produrre allicina. Produce invece disolfuro di allile, il composto che ha il confortante odore di "aglio cotto”, per niente aggressivo e più dolciastro. Quindi, per rendere i pizzoccheri più digeribili, cuocete l’aglio intero in poco olio a 65°C, finché diventa morbido, oppure in forno, a secco. Quindi schiacciatelo e ricavate una crema. Lessate la pasta in acqua poco salata, scolatela bella al dente e spadellatela con la crema di formaggio. Aggiungete la verza e le patate, versatene una parte in una teglia ben calda, cospargere con formaggio grattugiato e proseguite alternando pizzoccheri e formaggio. Friggete la crema di aglio nel burro e versatelo sui pizzoccheri, senza mescolare. Servite i pizzoccheri bollenti con una macinata di pepe. Preparatevi a gustare un piatto potente e suberbo, perché come dice il poeta e pittore William Blake, quando uomini e montagne si incontrano, grandi cose accadono. Anche in cucina.
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Object to Be Destroyed - Man Ray (1923)
Non per informazione, ma per ispirazione
Seguo.
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a cura di Emiliano Nencioni
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Se il mese di Dicembre è inevitabilmente rivolto al riepilogo, alla ricapitolazione e alla resa dei conti, destinato alla generazione spontanea di elenchi puntati di obiettivi raggiunti, enumerazioni di achievements e insabbiamento di missioni fallite, Gennaio è sicuramente il mese dei buoni propositi, delle presentazioni, dei tentativi di riscossa inesorabilmente destinati ad essere disillusi. In questo la rubrica Seguo, giunta - parrebbe proprio - al suo terzo anno senza mai mancare una consegna ma andandoci inesorabilmente sempre pericolosamente vicino, non fa molta differenza e si adagia mollemente sulla rassicurante consuetudine: un articolone di riepilogo sul mese di Dicembre e per contraltare un articoletto di buone intenzioni, spiegazioni non richieste e presentazioni ai nuovi abbonati per il mese di Gennaio. E questo è il numero di Gennaio, quindi avete già inteso: presentazioni, spiegazioni, istruzioni. Invece di buttare giù una protoforma di bugiardino della Seguo, ricco di allusioni spigolose, non-detti acrobatici, proverbiali mani avanti e giustificazioni preventive (che lasciano il lettore sospettoso e lievemente prevenuto con quel sapore un po’ alcalino di “ma cosa avrà voluto dire veramente?”), ho deciso di procedere per parallelismi. Sì, cari lettori vecchi e nuovi, perché la Seguo, tipicamente, nella sua stesura va avanti per parallelismi e paragoni, analogie spesso talmente risicate da dover richiedere una certa sospensione dell’incredulità. Abbiamo in passato parlato della lotta fratricida fra diversi metodi di cottura della bistecca, accostandola alla veemenza dello scontro fra Einstein e Bohr agli albori della fisica quantistica; abbiamo dato uno sguardo approfondito alle dinamiche dei bulli da social tirando immeritatamente in ballo Hannah Arendt, l’esistenzialismo, le distopie letterarie di George Orwell e Aldous Huxley, e recentemente parlando dell’ultimo libro di Gianfranco Lo Cascio (“Codice Lo Cascio”, ma a questo punto l’avrete sicuramente già comprato tutti) abbiamo potuto ripassare il mito della caverna di Platone e dire due parole sul rapporto tra genitori e figli adulti. É questo il gimmick della rubrica, il tacito patto non più tanto segreto: fai in modo di avere un qualche legame con l’argomento della rivista. Ed è per questo che spiegherò ai nuovi lettori il senso della presenza di queste pretenziose ultime pagine della rivista parlando di un’artista controversa ed eclettica: Elizabeth “Lee” Miller. BBQ4All Magazine
Rimandandovi - come di consuetudine - ad una veloce e attenta googolata sulla vita e sulle opere di Lee Miller (perché, cari nuovi lettori, ai lettori affezionati della Seguo va stretto il pressappochismo), accennerò solo quello che ci interessa per la nostra trattazione parallela.
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decifrabili, o addirittura perdervi in interminabili momenti di autoanalisi e introspezione. O perché no, saltare a piè pari le pagine e tornare a sottolineare la vostra ricetta preferita, cosa che avrebbe molto più senso. Primo indizio: stiamo già parlando di surrealismo, solo nell’introduzione! E cos’è questa se non una rubrica surrealista? Non solo, sin dall’inizio le foto che accompagnano il testo sono in massima parte frammenti di dipinti o illustrazioni surrealiste di autori vari. Alzi la mano (leggasi: fai un post e tagga il magazine) chi se n’era già accorto.
Nata agli inizi del secolo scorso e maggiorenne proprio alla fine del primo conflitto mondiale, Lee Miller era una bellissima, non convenzionale e “libera” modella, notoriamente algida e sentimentalmente spietata, quasi una versione magrolina di Kate Winslet alla quale si sia tolto ogni dolcezza nello sguardo, per capirsi. In seguito a circostanze fortuite, e per fortuite intendo “il miliardario editore di Vogue e Vanity Fair la salva da un incidente stradale”, Elizabeth si ritrova a posare per i fotografi delle riviste di moda più lette al mondo, a diventare l’ossessione dell’icona del surrealismo dadaista Man Ray, a diventare essa stessa fotografa surrealista, musa e amante occasionale di Picasso, corrispondente di guerra per Vogue, cuoca di piatti assurdi, contadina, madre anaffettiva. E non c’è il lieto fine, ve lo dico subito.
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Sì ma cosa c’entra questa tizia antipatica e altezzosa con la Seguo? Ora ve lo dico.
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In realtà no, non ve lo dico: ve lo farò intuire tramite sottolineature di svariati aspetti. Perché questa, cari nuovi lettori, e anche cari vecchi lettori consapevoli, è un po’ la cifra della rubrica: è la fiera del non detto, della riflessione personale. Vi troverete scritte delle cose, e starà poi a voi scegliere se gustare (se possibile) solo il testo “leggibile”, se voler scavare in un sottotesto, o se addentrarvi alla ricerca di allegorie nascoste e riflessioni in-
La bionda Lee sfrutta un antipatico intoppo nella sua carriera come appiglio per un profondo cambiamento: succede infatti che una sua foto venga usata per una campagna pubblicitaria per un assorbente, e apriti cielo, non si può proprio, nel 1922. Usare l’immagine di una donna per un prodotto femminile sembrerebbe una cosa molto logica ma invece no, ne fanno una tragedia, tanto che alla Miller passa per la testa un pensiero che le cambierà la vita: le fotografie preferisce farle, che farne parte. Si butta così a capofitto a fare una cosa che non sa ancora fare (e in questo noi vecchi lettori della Seguo la sentiamo molto “di famiglia”, no?), fino a farsi “subappaltare” diversi lavori attribuiti al suo compagno/amante, Man Ray. É in questo periodo che la nostra protagonista è artefice di una innovazione diventata famosissima e molto (successivamente, troppo) usata
nel campo della fotografia: la solarizzazione. Il racconto si perde un po’ nel mito ma la leggenda narra che, sviluppando i suoi scatti in camera oscura, Lee sia stata spaventata da un topo e abbia d’istinto acceso la luce; le stampe, tutt’altro che rovinate, avevano un particolare contrasto dei contorni e una caratteristica inversione tonale. In realtà il procedimento è ben più complesso di così, anche se plausibilmente un inconveniente del genere potrebbe aver causato un danno tale da solleticare la fantasia immaginifica della coppia Miller/Ray. Ray, che per i suoi contemporanei era di fatto una celebrità, è stato il primo e più ardente hater dell’amata e detestata Lee Miller. Questo ci è molto, molto utile per tutta la storia dei parallelismi con il mondo del social grilling. Bisogna senz’ombra di dubbio spiegare ai nuovi lettori che nelle ultime pagine del magazine vedrete comparire più e più volte, trattato da svariati angoli e punti di vista, il tema del bullo. Del social bullo. Del grigliatore rosicone odiante. Della personcina da capire perché poverino, sa esprimere solo così il suo malessere. L’esasperato artista, dopo l’ennesimo tradimento o fuga dell’amata, non ha scritto un post, non ha fondato un gruppo segreto “Noi che odiamo Lee Miller”, ha di fatto creato dal nulla un’opera d’arte ripetibile e immortale. Inizialmente chiamato “Object to be destroyed”, era semplicemente un comune metronomo di legno, a cui al posto del pesetto sul pendolo aveva infilato, infilzandolo, il ritaglio di un occhio di Lee, preso da una sua fotografia. Le istruzioni per creare e distruggere infinite volte questa mini-installazione erano: “Tagliare l’occhio dalla fotografia della persona amata e mai più vista; infilare l’occhio nel pendolo di un metronomo, regolando l’altezza per raggiungere la velocità del tempo desiderata; farlo andare avanti fino ai limiti della sopportazione; con un solo colpo di martello ben assestato, tentare di distruggere il tutto.”
L’altro notevole “balzo di carriera” di Lee si presenta in concomitanza con la seconda guerra mondiale: posati i panni della diafana e terribile modella irrequieta, la Miller indossa una divisa militare e diventa una corrispondente di guerra. Non una corrispondente dall’hotel cinque stelle, tutt’altro. È in prima linea, anche quando non dovrebbe. Assiste a mezzi stermìni, documenta le attività dei campi di concentramento, si ritrova in mezzo a circostanze e scene che le causeranno insormontabili PTSD per tutta la vita. Proprio in questi frangenti drammatici Lee porta a casa lo scoop della vita: si introduce, a Monaco, nell’appartamento segreto di Hitler (trovato morto pochi giorni prima nel bunker a Berlino) e si fa fotografare nuda nella vasca da bagno. Lo scatto non è esattamente casuale o improvvisato: c’è un ritratto del Fuhrer sul bordo della vasca, e il tappetino candido sul pavimento è completamente sporcato del fango degli anfibi militari, tipicamente americani, ben visibili nell’inquadratura. La foto, eseguita da David Sherman,
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Adesso mettermi lì a spiegare perché questo abbia pesanti parallelismi con molte passate (e future?) uscite mensili della Seguo e con una certa mia elaboratissima maniera di sfogare le frustrazioni sarebbe, nell’ordine: arrogante, vanaglorioso, compromettente e pleonastico. Quindi, dovrete fare qualche riflessione da soli.
Vi mancano troppi numeri passati del Magazine per capirlo? Avete quel senso di vuoto come quando trovavate un Topolino del 1972 e c’era una storia di Cavazzano a puntate che vi lasciava con l’emozione strozzata a metà? Comprate l’almanacco, no? Volete un almanacco di Seguo, a un prezzo onesto? Chiedete in assistenza! No, scherzo, non fatelo. Oppure fatelo ma io non vi ho detto niente.
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è un palese sberleffo alla figura del dittatore - con tutto quello che ne consegue. Vogue però era una rivista di moda, e giustificare i servizi della Miller, a guerra finita, diventava sempre più problematico: erano ormai svaniti gli echi della gioventù, della bellezza sfrontata, del surrealismo dadaista un po’ ingenuo: Lee stava irrimediabilmente virando da eterea “flapper”, da maschietta anni 30, a un più piazzata e arcigna signora sempre più umida d’alcool e tormentata da cupezza e depressione. A chi le faceva notare il decadimento del suo fisico androgino rispondeva “lo faccio per assomigliare di più al ritratto che mi ha fatto Picasso”. Eh già. Quando si dice avere la risposta pronta. Facile però, quando a giorni alterni hai Pablo Picasso che viene a fare la merendina delle cinque a casa tua. Nel dopoguerra infatti Lee, diventata ormai la signora Elizabeth coniugata Penrose, si rintana nella residenza di campagna Farley Farm nel Sussex e si getta a capofitto nella cucina. Per capofitto intendo proprio fissazione completa. Le sale “la scimmia” (come dite sempre voi giovanotti di oggi) per gli elettrodomestici da cucina, e ne compra in quantità ridicole: ogni mixer, frullatore, pelapatate, impastatore sul mercato finisce nel suo ripostiglio. Roland Penrose fa costruire
una intera dépendance solo per contenere i libri di cucina che la moglie compra e avidamente legge, studia, sottolinea e rielabora. E voi pensavate di avere un problema di acquisto compulsivo per un paio di kettle e tre padelle in ghisa? La cucina diventa non un modo per sfamarsi ma un’arte visiva e plurisensoriale, una scappatoia creativa capace di restituire un po’ di felicità generativa alla mente turbolenta di Lady Penrose: tra le sue ricette più famose si annoverano piatti surrealisti e dissacranti come spaghetti blu, polli verdi, uova che sembrano occhi, tutto in ricette complicatissime e ben documentate, che vi lascio comodamente gugolare in autonomia. Chissà che qualche piatto dadaista non spunti, fotografato, in Community BBQ4All! Si alternano, come da manuale per queste malaugurate condizioni mentali, mesi di feroce produttività e stesura di centinaia di ricette a periodi di vuoto assoluto, apatìa e anedonìa. E, siate gentili, vogliate non fare paragoni con una fantomatica incostanza prestazionale della rubrica Seguo! Che qui si è sempre cercato di fare il meglio possibile, anche senza avere Pablo Picasso a colazione. Elizabeth Miller Penrose si ostinava a pubblicare foto dolorose e di denuncia su spensieratissime riviste di moda e costume, nel nostro piccolo universo ci ostiniamo a ospitare su una rivista di cottura su fiamma tre pagine che parlano di …non si sa: sociologia, filosofia, arte? Onde gravitazionali, fisica quantistica, bistecche? Questo, cari nuovi lettori, troverete in fondo al magazine. Alcune paginette surrealiste, non necessariamente utili o nozionistiche, non sempre di senso compiuto, si spera gradevoli. O almeno così si voleva fare.
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Perché, questo ormai i vecchi lettori già lo sanno, “non sei mai davvero finito finché hai una storia da raccontare”. Nemmeno una rivista lo è!
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Emiliano Nencioni
CLUB
Diretta m e n t e da lla co m m u n i ty di ma e s t ri d i ba rbecue pi ù grande d’I tali a, nasce i l prest i gi oso club c h e ti offre la possi bi li tà di avere: a ccesso p ri or i tar i o al meg astore, dove pot ra i fa re ra zzi e m ent re tutt i gli a lt ri “ sono i n coda ” ; u na p rogra m ma zi o n e i n telli g en te dei tu oi acq u i sti gra zi e a l c re di to m e nsi le prepa gato (scegli tu quanto); u n coa c h pr i vato c h e ti g u i derà n e l fa rt i vi ve re l’ e s p eri enza
pi ù ecci tant e di sem pre
co n la pre p arazi one dei tuoi pi att i ; e molto altro an cora. . . Av ra i tu tto qu es to s o lo s e ti i s c r i vi s u bito a l MEG ASTOR E CLUB, l’uni co luogo ri servato a u na c e rc hia r i s t re tta d i a s pi ra n t i gri ll ma s t e r c he desi dera no a pprendere pi ù velocement e e nel modo p iù accurato possi bi le, la s ubli m e a rt e del gri ll. Pu oi di si scri vert i quando vuoi e i l tu o c red i to sarà sempre di s pon i bi le.
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H T T PS : / / C LU B M E G ASTO R E . B BQ 4 A L L. I T e c h i e di i n formazi oni pi ù detta gli at e, pr i ma c h e i coac h fi ni sca no e le i scri zi oni chi uda no.