N°44/ANNO 4 - AGOSTO 2022
L'EDITORIALE DI GIANFRANCO LO CASCIO
QUINDICIMILA LITRI D'ACQUA PER UNA BISTECCA
ESTATI D’ANIMO NEL PIATTO
Hot Dog Burnt Ends, Insalata di Riso e Shimofuri, Avocado Burger, Tacos con Pico de Gallo, Tramezzino alla veneziana e Pit Beef, Tartare e Gazpacho, Riso e gamberi marinati, Carpaccio, Noodles e Tri Tip, Pit Beef Sandwich
COME SI FANNO
I GRISSINI
PHILLY CHEESESTEAK
LA RICETTA SCIENTIFICA
Direttore Editoriale Rossella Neiadin
Redattore Capo Michela Bongiorni
Redazione
Enio Berton Virgilio Brunetti Tommaso Buccafurri Nunzia Clemente Roberto Dal Bosco Salvatore Di Mento Luca Gallozza Marco Gerometta Mariangela Ibba Chiara Lo Cascio Gianfranco Lo Cascio Giancarlo Madonna Riccardo Meniconi Giovanni Minelli Emiliano Nencioni Elena Ninotti Francesca Pappacena Raffaele Persichetti Andrea Spaggiari Alessandro Trezzi Carlo Trono Paolo Tucci Alex Vasile Caterina Vianello Alberto Zonghetti Marco Zorzan
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Realizzazione Grafica Impaginazione Carlo Trono Illustrazioni di Eleonora Castagna e Ozzy Bellesi Fotografie di Rossella Neiadin, Luca Gallozza, Tommaso Buccafurri, Elisa Giuli, Emiliano Nencioni
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IN DI Rubriche
Editoriale - La bufala dei 15000 litri di acqua
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Lo speziale del barbecue - Il basilico, profumo d'estate
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Nice to meat you - Il Tri Tip
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Ricette
Würstel e patate
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Ravioli cinesi con gamberi
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Riso venere, Shimofuri Salami, Franks Würst e drogarossa
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Burger di Chianina e Avocado fries
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Ne ho facoltà - NY Strip Tacos con pico de gallo
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El tramezin con Baltimora Pit Beef
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Insalata di petto di pollo con spinacini
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Riso con blend di marinate e Gambero Rosso di Mazara
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Tartare con gazpacho
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Santa Maria noodles salad
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Pit Beef tapenade sandwich
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Approfondimenti
I contorni da bistecca - L'insalata
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Arte Bianca - I grissini
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Across the pond - L'America è il regno del ghiaccio
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From Zero to Hero - È tutta una questione di temperatura
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La ricetta scientifica - Philly Cheesesteak
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Seguo - Capacità, resistenza, impedenza, reattanza.
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Editoriale di Gianfranco Lo Cascio
Perché la storiella dei
15.000 litri di acqua per produrre un chilo di carne
È UNA STRONZATA!
”
Sono mesi che vedo circolare in rete una cosa che mi irrita più degli slip di poliestere: la storiella che parla di consumo idrico e allevamento. I post sui social si moltiplicano come i Gremlins, si va dal semplice meme filo-vegano a scritti incompleti tipo questo qui:
15.000 litri di acqua per produrre 1 kg di carne di manzo, ripeto, 15.000 litri di acqua per produrre 1 kg di carne di manzo. Eppure, la priorità adesso è introdurre limitazioni all’utilizzo dell’acqua nel contesto domestico. Beh, certo, gli sprechi sono da evitare, ma non sarebbe opportuno che tutti passassero a un’alimentazione a base vegetale? Perché non vengono mai dette le cose come stanno? Perché ci “beviamo” tutte le manfrine che ci vengono proposte? E non commentate che ci sono cose più importanti degli animali, perché il pianeta è al collasso proprio per l’inquinamento causato dagli allevamenti. Idem la fame nel mondo. E tanto tanto altro ci sarebbe ancora da scrivere! #failacosagiusta #veganfortheanimals #veganfortheplanet #veganforthehealt
Avrei altre decine di esempi corredati da infografica delirante.
”
QuaI è il messaggio di questi contenuti? Semplice: per produrre 1 kg di carne ci vogliono 15.000 litri d’acqua, quindi noi esseri umani illuminati , soprattutto in queste fasi di sensibile carenza idrica, dovremmo tutti evitare di mangiare carne, e magari “cambiare alimentazione” diventando vegani o perlomeno vegetariani, per ridurre i consumi di questa preziosissima risorsa.
No.
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Ma è davvero così?
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La prima cosa da evidenziare è quella che risulta lapalissiana dalla stessa infografica sfruttata dai nazi-vegan: non è un generico chilo di carne a “usare 15mila litri d’acqua”, ma un chilo di carne bovina. Anzi, andando a scartabellare negli studi scientifici che l’hanno riportata è un chilo di carne di manzo. Per un chilo di pollo serve praticamente lo stesso quantitativo d’acqua che serve per ottenere un chilo di legumi. Con la carne di maiale il numero cresce un po’, e ancora di più con gli ovini. Prendere ad esempio sempre e solo i bovini dimostra un grosso bias cognitivo, in altre parole un pregiudizio. Nel 2020 il professor Giuseppe Pulina, esperto zootecnico laureato in Scienze agrarie e presidente dell’associazione Carni Sostenibili, aveva realizzato un breve video dove tentava di fare chiarezza su questa vicenda. Sì, mi direte voi, è come chiedere all’acquaiola se l’acqua è fresca. E non avete mica torto, eh. Per questo riporto per intero anche una dichiarazione del dottor David Vagni, fisico teorico, ricercatore presso il CNR, che su Facebook ha pubblicato un post completo di fonte:
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“15000 litri per un kg di carne? Doccia = 100 litri?
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Questo è un post che non mi piace fare ma che non ce la faccio più a non fare. Sono convinto che il consumo di carne vada ridotto, per mille ed uno motivi e sono altrettanto convinto che globalmente sia importante evitare di sprecare l’acqua. Detto questo smettiamola di diffondere questa fake news dei 15000 litri d’acqua per un kilo di carne. In primo luogo, se le riserve da cui pesca l’acquedotto di casa vostra sono a secco, evitate di prosciugarlo non sprecando l’acqua del rubinetto. Evitare di mangiare la bistecca importata dall’Argentina non ha assolutamente nessun impatto sull’acqua disponibile - oggi- nella zona in cui abitate. In secondo luogo, 15.000 litri / kg si riferisce all’uso globale di acqua (ad esempio il valore per l’Argentina è di 3000 litri / kg). Non quantifica l’impatto ambientale associato all’utilizzo d’acqua, ma soltanto la quantità di acqua utilizzata, mettendo insieme acque blu (irrigazione), acque verdi (piovane) e grigie (residue/ di scarto). Presenta inoltre dati a livello globale e indipendenti dal tipo di allevamento. I famosi 15.000 si riferiscono alla carne di manzo che è quella che ne spreca di più. In Italia si impiega il 25% in meno di acqua nell’allevamento rispetto
alla media mondiale. L’uso di acqua è di 11.500 litri. Di questi 11.500 litri, l’87% è semplicemente acqua piovana che poi rientra nel circolo, è acqua che cade dal cielo e cadrebbe con e senza mucche e che nutre il pascolo. Non è l’acqua del rubinetto. Non è l’acqua che beve la mucca. Non è acqua di irrigazione estratta dalla falda o dai fiumi. Una stima realistica dell’acqua “sprecata” realmente in Italia per un kg di carne, è intorno ai 1000 litri e parliamo di manzo, perché un kg di pollo ne consuma un quinto. Di sicuro non 15.000 e altrettanto sicuramente rinunciare all’hamburger non aumenterà la portata d’acqua nel vostro rubinetto.
La fonte di questo post la trovate nel rapporto fatto dall’Istituto per l’educazione all’acqua dell’Unesco,
“Lo abbiamo sentito tutti centinaia di volte: per produrre un chilo di manzo servono 15.000 litri di acqua. Ma è davvero così? Se si va oltre i luoghi comuni o le prese di posizione ideologiche, no. Ci sono infatti molti aspetti che vengono inutilmente considerati, nel calcolo dell’impronta idrica della carne. Altri, invece, vengono ignorati con una superficialità che sarebbe meglio accantonare. In altre parole, il calcolo della Water footprint, di cui sono già state fatte diverse revisioni critiche, presenta non poche aree di miglioramento.”
PRODUZIONE DI CARNE E SALUMI: L’IMPRONTA IDRICA Gli animali da allevamento hanno bisogno di acqua non solo per abbeverarsi, pensate forse che operazioni come la crescita dei foraggi, la gestione delle stalle, la mungitura, la macellazione, la trasfor-
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Detto questo, ci sono tanti buoni motivi per ridurre il consumo di carne, l’acqua non va sprecata comunque, ma smettetela di dire che in Italia la siccità c’è perché la gente mangia la carne ed evitate post con cartelli che dicono di farsi la doccia ma non mangiare la carne, non ha alcun senso. Dire cose completamente inesatte, non aiuta la causa ambientale (e neanche quella veg* per chi di voi lo è)."
dal titolo: “The green, blue and grey water footprint of farm animals and animal products.” Vi basta cercarlo su Google e trovate tutto: le tabelle con i numeri e l’abstract dello studio. Che poi a dirla tutto, di questa storia ne aveva già parlato Il Fatto Alimentare nel 2014:
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mazione dei cibi, non abbiano altrettanto bisogno di acqua? Quando però si fanno i calcoli per tener conto del consumo d’acqua per la produzione di carne e altri cibi di origine animale, si tende però a ignorare alcuni aspetti importanti, come la differenza fra acqua “grigia”, “verde” e “blu”. E ancor più a credere alle fesserie di cui parlavamo prima.
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L’impronta idrica degli alimenti presa in considerazione è generalmente quella del Water Footprint Network (WFN) di cui sopra, anche se questo studio presenta diverse lacune. Innanzitutto, non quantifica l’impatto ambientale associato all’utilizzo d’acqua, ma soltanto il volume di acqua utilizzato. Non solo, ignora del tutto il contesto specifico in cui avvengono la produzione e l’allevamento, che, guarda caso, si sono sviluppati laddove c’è una maggiore disponibilità di acqua. L’essere umano, anche se da alcuni decenni non fa altro che sovra-sfruttare l’ambiente che lo ospita, nel corso dei millenni è riuscito a sviluppare diverse pratiche agricole ed economiche a seconda del luogo in cui si è stanziato. In tutte le aree a maggior densità zootecnica, secondo i dati raccolti a livello globale attraverso il Water Stress Index, (parametro che esprime il rapporto tra acqua utilizzata e acqua disponibile tenendo conto della variabilità mensile e annuale delle precipitazioni) la presenza del bestiame non ha mai comportato un impoverimento delle riserve idriche sotterranee. In altre parole, prendendo in esame il valore complessivo (medio mondiale) e ignorando il contesto locale
in cui avvengono la produzione e l’allevamento, non si mette in relazione il prelievo di acqua con la disponibilità di quel territorio.
ACQUA BLU, ACQUA VERDE E ACQUA GRIGIA Con il Water Footprint si calcola di solito la quantità di acqua che viene utilizzata nei diversi processi produttivi. È la cosiddetta “acqua virtuale” che, quando si parla di carne, include anche quella usata per produrre i mangimi, per l’allevamento del bestiame e nella fase di macellazione. Questo metodo di valutazione dei consumi di acqua nel settore zootecnico calcola l’impronta idrica di un prodotto sommando appunto l’acqua “blu”, quella che si usa per irrigare, l’acqua “verde”, quella piovana evaporata e traspirata dal terreno durante la crescita delle colture, e l’acqua “grigia”, il volume d’acqua necessario a diluire e depurare gli scarichi idrici di produzione. I punti deboli e le incongruenze presentati dal calcolo dell’impronta idrica nascono dal fatto che questa non distingue i tre tipi diversi di acqua, sommandoli come se avessero lo stesso impatto sulla disponibilità idrica. Per i prodotti agroalimentari, la componente di “acqua verde” è di gran lunga la più significativa delle tre, arrivando a costituire la quasi totalità dell’impatto. In altre parole, quasi tutta l’acqua utilizzata per produrre carne torna nel suo ciclo naturale. Affermare che venga tutta
“consumata”, quindi, significa o non avere ben compreso quali siano gli effettivi consumi idrici zootecnici, o essere in malafede. A livello complessivo, l’intero settore delle carni italiano (bovino, avicolo e suino) impiega per l’80-90% risorse idriche che fanno parte del naturale ciclo dell’acqua e che vengono restituite all’ambiente come l’acqua piovana; solo il 10-20% dell’acqua necessaria per produrre 1 kg di carne viene quindi effettivamente consumata. Tenendo dunque conto del consumo effettivo d’acqua per 1kg di carne in una filiera efficiente possiamo affermare che in Italia per produrre 1Kg di carne bovina e nelle migliori condizioni agronomiche di coltivazione di foraggi e mangimi, sono consumati effettivamente 790 litri. Tuttavia, anche quando il coltivatore dei foraggi non si distingue per efficienza, il consumo si attesta poco al di sopra di 5.000 litri, meno della metà di quanto comunemente viene stimato. In Italia, di norma, si impiega rispetto alla media mondiale il 25% d’acqua in meno per produrre un chilo di carne bovina.
hanno un'impronta idrica maggiore nel totale ma tenendo conto del consumo di acque verdi, blu e grigie, le cose cambiano leggermente: i legumi impattano molto più della carne bovina, stesso discorso per i frutti a guscio. Le mucche sono solo quinte in classifica, a pari merito con le uova, e poco più del burro.
Ma lo sapevate che per caffè e cioccolato sfondiamo i 20.000 litri d’acqua? A conti fatti, ogni tazzina ne costa al pianeta più di 130 litri. I prodotti di origine animale come carne e formaggi
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Insomma, parlare di impronta idrica della produzione di carne non è così banale come si pensi. E i fattori da prendere in considerazione, se si vogliono ottenere stime vicine alla realtà dei fatti, sono molti, e variano in base al tipo di allevamento, all’aera geografica e a molto altro. Se si vuole avere realmente rispetto dell’ambiente, il trucco sta sempre nell’equilibrio. Considerando la quantità di carne bovina consigliata in una dieta bilanciata, emerge infatti che mangiare carne di qualità e nella quantità giusta non comporta un aumento significativo dell’impatto ambientale, arrivando ad un consumo effettivo di circa 300 litri di acqua alla settimana. E voi per farvi una doccia ne impiegate mediamente 350.
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IL BASILICO profumo d'estate
Lo speziale del barbecue a cura di Alberto Zonghetti
Con l’arrivo della bella stagione, del caldo e delle meritate ferie, ritorna la rubrica “lo speziale del barbecue”. Dopo mirto e rosmarino, in questa tappa ci dedicheremo ad approfondire l’erba aromatica associata per eccellenza all’estate: il basilico. È innegabile il potere evocativo di questa erba aromatica che io abbino con un po’ di nostalgia alle vacanze estive che trascorrevo al mare tra infanzia e adolescenza: sul portico dei bungalow in cui alloggiavamo, venivano servite da mia madre pietanze semplici, fresche e veloci caratterizzati dalla presenza costante del basilico: sughi al pomodoro, pesto, caprese, bruschette, friselle. Prima di muoverci tra fornelli e barbecue fermiamoci un attimo ad esaminare la carta di identità della nostra amata piantina. CLASSIFICAZIONE E CARATTERISTICHE Dominio: Eukaryota (Con cellule dotate di nucleo) Regno: Plantae Sottoregno: Tracheobionta (Piante vascolari) Superdivisione: Spermatophyta (Piante con semi) Divisione: Angiospermae o Magnoliophyta (Piante con fiori) Classe: Magnoliopsida (Dicotiledoni) Sottoclasse: Asteridae Ordine: Lamiales Famiglia: Lamiaceae Il basilico, noto in tutto il mondo, è una pianta originaria dell’Asia tropicale che attraverso il Medio Oriente si è diffusa in Europa, in particolare in Italia e nel sud della Francia e da questi paesi in tutta l’Europa. In America iniziò a diffondersi con le prime spedizioni in quanto, essendo considerata una pianta medicinale, accompagnava sempre i viaggiatori. Appartiene al genere Ocimum e alla famiglia delle Lamiaceae. E’ una pianta annuale erbacea che presenta i fusti eretti che può raggiungere un’altezza di 60 cm. Le foglie sono provviste di picciolo, ovali lanceolate, di dimensioni molto variabili a seconda della specie così come il colore che varia dal verde intenso al verde cupo al viola o al porpora a seconda delle varietà. Le foglie sono ricche di oli essenziali che conferiscono il caratteristico aroma. I fiori di Ocimum normalmente sono bianchi o rosei riuniti in spighe, bilabiati con il labello superiore lobato. Fiorisce da giugno fino a tutto agosto.
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Nel genere Ocimun ritroviamo numerose specie ma quella più coltivata in tutte le parti del mondo è l’Ocimum basilicum, della quale esistono diverse varietà: Ocimum basilicum var. cinnamon, originaria del Messico con i fiori di colore rosa-malva e gli steli di colore bruno. Le foglie di colore verde oliva - marrone, lucenti, con un sapore e aroma molto speziato che ricorda la cannella. Ocimum basilicum var. dark opal, simile alla precedente e con un sapore molto speziato. Ocimum basilicum var. minimum, che è il basilico greco, ha un portamento cespuglioso compatto con foglie molto piccole, verdi e ovali. L’aroma è di media intensità. E’ una
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in quest’ultimo caso, con le dovute cure, si potranno utilizzare le prime foglioline di basilico già dopo un solo mese.
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varietà che si adatta meglio ai climi freddi. Ocimum basilicum var. purple ruffles, con steli rosso scuro e foglie piegate lungo la nervatura centrale. Molto aromatico, ha un aroma dolce ed un po’piccante, si può usare nelle insalate Ocimum basilicum var. crispum, con grandi foglie dalla superficie increspata e dal profumo intenso. Ocimum basilicum var. anise, che ha una delicata fragranza di anice. Ocimum basilicum var. thyrsiflora, la variante thai: l’aroma delle sue foglie ricorda la menta e il chiodo di garofano, e si utilizza con i frutti di mare e nelle minestre esotiche. Ha un profumo di liquirizia per il suo contenuto di estragolo.
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COLTIVARLO IN CASA SI PUO’! Il basilico è piuttosto facile da coltivare: in mancanza di un vero orto è possibile farlo anche sul nostro balcone, in vaso. Il clima più adatto per questa pianta è proprio quello mediterraneo, con molto sole e temperature mai troppo rigide. Pur necessitando di innaffiature regolari, teme i ristagni d’acqua: per questo motivo il terriccio del nostro vaso deve essere molto drenante. È possibile partire sia trapiantando una piantina che, per chi ha più pazienza, direttamente da un seme. Anche
STORIE, LEGGENDE, CURIOSITA’ Partiamo dal nome, che si ritiene possa derivare dal termine greco “basileus” e dal latino “basilicum”, ovvero erba del re: già dall’antichità era considerata tra le piante più importanti proprio a causa del suo profumo. Il basilico è nativo dell’Asia tropicale e dell’India; si diffuse dal Medio Oriente in Grecia e in Italia dai tempi di Alessandro Magno, intorno al 350 a.C.. Dal XVI secolo iniziò a essere coltivato anche in Inghilterra e, con le prime spedizioni migratorie, anche nelle Americhe. Per gli antichi greci e ancor prima per gli egizi il basilico era legato a doppio filo con la morte. Esso era utilizzato nei processi di imbalsamazione, come buon auspicio per l’aldilà. In epoca romana troviamo numerose testimonianze, tra le quali cito quella di Lucio Columella, scrittore che si occupava principalmente di agricoltura (vissuto nel I secolo d.C.): egli ne parla più volte come di una pianta da seminare in abbondanza dopo le idi di maggio fino al solstizio d’estate. Sempre all’interno dell’Urbe ricordiamo che il basilico era ritenuta una pianta magica e sacra a Venere, come molte altre erba fragranti, da raccogliere seguendo precisi rituali. Anche se c’era qualcuno che gli attribuiva poteri malefici, chi la doveva tagliare indossava abiti candidi e si purificava la mano destra con un ramo di quercia bagnato d’acqua di tre fonti diverse. Alcuni autori affermavano che non dovesse essere recisa con strumenti di ferro perché il metallo avrebbe annullato ogni sua qualità. Plinio il vecchio, celebre scrittore e naturalista, autore della Naturalis Historia, era convinto che i semi del basilico, e non le foglie, fossero potenti afrodisiaci, proprietà attribuitagli anche dai contadini contemporanei che la somministravano ad asini e cavalli nel periodo della monta. Al basilico sono ricollegate altre dicerie e leggende. Una fa riferimento all’Imperatrice Elena, madre di Costantino (IV sec. d.C.), che trovato la pianta sul luogo della crocifissione di Cristo, l’avrebbe poi diffusa per tutto l’impero. Nel Medioevo il basilico era utilizzato anche per cacciare i diavoli dagli invasati, e si riteneva che facesse miracoli in caso di pestilenza e di debolezza fisica dell’uomo.
Pietro Andrea Mattioli, grande umanista, medico e botanico vissuto nel Cinquecento, scriveva a proposito della diffusione del basilico: “poche sono quelle case, e massimamente nelle città, che non habbiano l’estate il basilico in su le finestre, in su le loggie e nei giardini”. Del resto Cosimo I de’ Medici lo inserì tra le fragranze del “Giardino dei Semplici” (1545), il più importante orto botanico dell’epoca. A CONTATTO CON I SENSI “Il basilico è l’erba aromatica più profumata, più bella, più fresca e assurdamente gradevole”. Così Niki Segnit, giornalista ed esperta di gastronomia – autrice del fondamentale “La grammatica dei sapori”, definisce il nostro protagonista. All’analisi sensoriale e gustativa troviamo forti note calde di spezie - chiodi di garofano, cannella, anice, dragoncello - uniti a quelle erbacee e di menta che risaltano soprattutto quando viene lavorato in grandi quantità per il pesto.
fidato freezer. IN CUCINA… Questa sezione è potenzialmente infinita, ma non voglio offendere la vostra pazienza ed intelligenza elencando abbinamenti che conosciamo sin da bambini e che entrano nella dimensione dell’ovvio. Intendo sughi al pomodoro, caprese, pizza, insalate, tartine, focacce etc…; per non parlare del pesto, già trattato in maniera esauriente e direi monumentale con la versione scientifica di Gianfranco Lo Cascio. Ricordiamo un concetto basilare, ovvero che il basilico, come erba aromatica fresca, non ama il calore e metallo che ne mortificano i suoi delicati oli essenziali. Per questo si utilizza preferibilmente crudo dato che le lunghe cotture ne attenuano il profumo; pertanto nelle pietanze calde si consiglia di aggiungerlo appena prima di servirle, spezzettato con le mani. In insalata con pomodoro e mozzarella il basilico enfatizza tutta la sua dolcezza e leggerezza; ma è possibile accompagnarlo anche a formaggi più intensi, come quelli di capra ad esempio.
Sì, lo so della diatriba del basilico di Prà (troverete in giro anche la versione Pra') che non deve avere sentore di menta eccetera eccetera eccetera, ma da persone ragionevoli possiamo vivere bene anche con le pianticelle che abbiamo cresciuto sul nostro terrazzo invece di andare a caccia della varietà che cresce in qualche chilometro quadrato della riviera ligure, non credete?
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Le varietà di basilico hanno numerose sfumature di sapore, come limone, lime, cannella, liquirizia (il basilico thai, detto anche sacro), ma a tutte sono comuni una ricca nota speziata e una freschezza intensa. Il basilico essiccato non sostituisce il fresco, perché nel processo le nostre note profumate scompaiono. Se viene essiccato con cura, rivela comunque note di spezie, menta e liquirizia, ottime negli stufati di pesce o nei piatti di agnello al forno. Se le foglioline vengono congelate, mantengono la loro fragranza e il profumo per almeno un paio di mesi, per cui se avete grande disponibilità d’estate non esitate a utilizzare il vostro
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Nel panino è eccellente, poiché sostituisce le spezie, scomode da usare in questo caso, permette durante il morso il rilascio dei suoi profumi e ci appaga sentendolo tra i denti, cedevole ma presente. Provatelo con i classici abbinamenti, ma secondo me dà il meglio all’interno di un bel sandwich con verdure grigliate e una spolverata di Montreal rub.
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Con le carni gli accostamenti sono meno immediati e non sempre appaganti, ma una buona salsa al basilico non tradisce il sapore di arrosti e grigliate. Vi consiglio però un modo veloce ed estivo: preparate una maionese al basilico e limone, sposatela con un’insalata di pollo, un roast beef, una steak salad. Vi stupirà.
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Questa salsa è ottima anche per molluschi e pesce bollito, al vapore o sapientemente grigliato. Però c’è di più: gli aromi di agrume e anice presenti nel basilico lo rendono perfetto per i frutti di mare. Senza complicarci la vita nel riproporre la celebre insalata aragosta con mango e basilico dello chef Alain Senderens – eccellente, nulla da dire - vi suggerisco qualcosa di semplice. Quando preparate gli spaghetti con le vongole, mentre queste ultime si stanno aprendo, aggiungete un rametto di basilico con abbondanti foglie: in quei pochi minuti darà un profumo stupendo alla vostra acqua di cottura e
renderà la pasta ancora più aromatica ma senza coprire i nostri frutti di mare. Io aggiungo anche un pezzetto di zenzero, se vi piace renderà ancora più variegato lo spettro gustativo. L’abbinamento basilico-verdure alla griglia è sempre eccezionale, soprattutto con le melanzane; o, meglio, con le bistecche di melanzane viola con gremolada al basilico già presentate in qualche numero precedente del nostro magazine. Per il dolce vi consiglio il gelato al limone e basilico: freschissimo, leggero, assolutamente appagante. Nella versione sorbetto è ottimo anche per “pulire il palato” tra portate dal gusto molto diverse tra loro (lo so, è molto anni’80 ma ci sono affezionato). Chiude il pasto il verde liquore dissetante e digestivo, il “basilicello” o basilichello, ottenuto con procedura simile al limoncello, ma utilizzando le preziose foglie della nostra pianta. UN PROFUMO CONSOLATORE, CONTRO LA MORTE Il nostro protagonista mi trasporta anche tra i ricordi legati ai miei studi umanistici e alla mia passione per la letteratura. Tantissimi sono i riferimenti letterari, ma vorrei sottolinearne un paio.
Il primo rimanda a Giovanni Boccaccio, eminente poeta e scrittore italiano del Trecento nonché autore del celeberrimo “Decameron”: nella V novella, IV giornata, viene narrata la drammatica storia di Lisabetta da Messina che conservava la testa dell’amante Lorenzo, decapitato dai suoi fratelli, contrari al loro amore, in un vaso nel quale era piantata una profumatissima pianta di basilico. Annaffiata con acqua, fiori di arancio e le sue lacrime, essa cresceva in modo assai rigoglioso. L’autore rimarca l’odore intenso, capace di coprire anche il lezzo della putrefazione: un vero profumo contro la morte.
PROPRIETA’ VERE O PRESUNTE Il basilico è una pianta ritenuta ricca di proprietà, che derivano principalmente dalla medicina medievale e dagli studi empirici tipici del tempo. Si crede che abbia un'azione antiinfiammatoria e sia prezioso alleato per la bellezza di pelle e capelli. Ha effetti benefici anche sull’apparato digerente e stimola l’appetito. L’olio essenziale, distillato dalle foglie fresche, grazie alla presenza di eugenolo, ha un effetto calmante sulle mucose gastriche, e in questo modo favorisce la digestione. Ha effetto rilassante sul sistema nervoso e può essere utile a chi soffre di insonnia o di emicranie.
Il secondo ricordo mi conduce invece ad una delle mie liriche favorite, “ La signorina Felicita ovvero la felicità” scritta dal poeta crepuscolare Guido Gozzano agli inizi del Novecento, che forse ricorderete dagli studi liceali del quinto anno:
Per concludere vi propongo un delizioso sonetto in romanesco di Aldo Fabrizi, grandissimo attore, regista, sceneggiatore, nel quale riesce sintetizzare in modo egregio il sapere popolare circa le proprietà della nostra pianticella:
”…m’era più dolce starmene in cucina tra le stoviglie a vividi colori: tu tacevi, tacevo, Signorina: godevo quel silenzio e quegli odori tanto per me consolatori, di basilico d’aglio e di cedrina.”
A parte che er basilico c’incanta perché profuma mejo de le rose, cià certe doti medicamentose che in tanti mali so’ ‘na mano santa. Abbasta ‘na tisana de ‘sta pianta che mar de testa, coliche ventose, gastriti, digestioni faticose e malattie de petto le strapianta. Pe’ via de ‘sti miracoli che ho detto, io ciò ‘na farmacia sur terrazzioni, aperta giorno e notte in un vasetto. Dentro c’è ‘no speziale sempre all’opera, che nun pretenne modulo e bollino e nun c’è mai pericolo che sciopera.
Il poeta associa invece l’odore al ricordo evocativo e consolatore delle verdi foglie profumate, assieme a quello d’aglio e cedrina: aromi che spessissimo sono abbinati anche in cucina.
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IL TRI TIP
NICE TO MEAT YOU
CONOSCIAMOLO MEGLIO
Dal quarto posteriore del manzo, spostandosi verso la parte finale del loin (lombata), troviamo la zona che il disciplinare della macellazione americana definisce sirloin. Nella sua parte finale alta (top sirloin), si ricavano delle bistecche chiamate Pin Steak. Sono anatomicamente la prosecuzione naturale delle PorterHouse, ma il nuovo taglio, passando dalla zona delle vertebra lombare a quelle sacrali, pur rimanendo simile al precedente, cambia nella sua composizione per i diversi muscoli interessati. Da una parte troviamo ora la testa del filetto, che sostituisce il filetto vero e proprio, e nella parte opposta non più il controfiletto, ma lo scamone. Si aggiunge, oltre alle vertebre, la parte ossea che compone le ossa del bacino: prima l'ileo, che scendendo via via verso il posteriore assume la forma di un birillo (pin, da cui appunto Pin Steak), per diventare poi, proseguendo, l'osso ischio. Nella zona del quadricipite, attaccato al gruppo del muscolo noce (knuckle), si trova il Tri Tip, muscolo tensore della fascia laterale, con il suo particolare nome derivato da Triangle Tip, ovvero vertice del triangolo. Questo taglio è conosciuto nella macelleria italiana con il nome di spinacino o fianchetto. È un taglio anatomico dalla tipica forma triangolare, magro ma molto saporito. In Italia viene generalmente destinato a preparazioni lesse, arrosto, farcito a tasca o come semplice macinato, contrariamente a ciò che avviene Oltreoceano.
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Nell’ovest degli Stati Uniti, ed in particolare nella zona della California, il Tri Tip è da sempre usato per preparazioni in tipico stile Barbecue, ed è pertanto diventato l’emblema dello stile gastronomico della zona. L’origine del taglio viene fatta risalire agli inizi dell’800 quando, durante la transumanza delle mandrie di manzo, i Cowboy della California si facevano aiutare dai Vaquero del Centro America. Durante le tipiche feste che si tenevano alla fine del viaggio, i Vaquero, seguendo la loro tradizione, mettevano a cuocere grossi tagli provenienti dal sirloin (Top Sirloin Block) ricchi della loro copertina di grasso superiore.
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I pezzi di carne, infilati su lunghi spadoni, venivano cotti sopra a delle fosse riempite di braci, con il risultato di un prodotto che aveva sempre una gustosa crosta fuori e un interno rosato, perché mantenuto sempre non oltre il grado “rare”. La preparazione aveva un sapore molto semplice in virtù del Rub che veniva usato (uno SPG, un classico SPOG ma senza cipolla), ma con un particolare profilo aromatico, regalato in primis dal tipo di carne usata, ma anche e soprattutto dal legno utilizzato per la cottura: il Red Oak (Quercia Rossa), largamente diffuso nella zona. Questo particolare tipo di cottura, diede il via a quello che poi nel tempo
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sarebbe diventato lo stile gastronomico dell’area, conosciuto ora con il nome di Santa Maria Style BBQ.
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Dalle sue origini, lo stile del Barbecue di Santa Maria si è evoluto molto e forse il cambio più notevole lo apportò attorno al 1950 un macellaio della zona, un certo Bob Schulz. Proprietario del mercato di Santa Maria, egli fu il primo a estrarre dal sirloin il taglio del muscolo nella forma che conosciamo oggi, sostituendo il top sirloin usato fino ad allora nelle preparazioni in griglia. I l Tri Tip, che da queste parti viene chiamato pure "California's Cut" o “Santa Maria Steak”, viene messo in cottura senza particolari condizionamenti preventivi, rendendo questa preparazione di fatto più vicina al Grilling che al Barbecue. La stessa cosa si può dire della preparazione omologa tipica della costa opposta Est degli Stati Uniti, il Baltimora Pit Beef, con la quale il Tri Tip, oltre alla cottura, condivide le umili origini. Possiamo trovare per gli stessi motivi analogie anche
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con la Picanha, sia per la parte di manzo interessata (top sirloin) sia per la cottura. Per ragioni estetiche, la copertina di grasso che un tempo veniva lasciata sopra al muscolo del Tri Tip viene tolta, lasciando le fibre a “nudo”, ma ancora oggi in alcune parti della California centrale, non è raro trovare macellerie che servono il Tri Tip con il grasso ben evidente all'esterno del taglio, per un bel tuffo nel passato. Molta attenzione va posta in sede di servizio. È facile affettare il muscolo nel senso errato, facendo così perdere al boccone tutta la morbidezza che dovrebbe esprimere. Il Tri Tip contiene due fibre muscolari che corrono in senso diverso tra loro: le prime verticalmente e le seconde orizzontalmente. Una volta individuate le due zone diverse di intersezione dei muscoli (si intersecano più o meno a metà del pezzo) basterà dividere il Tri Tip in due e tagliare entrambe le metà controfibra, perpendicolarmente al loro verso.
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WÜRSTEL E PATATE
La coppia perfetta
Per questa ricetta ci siamo ispirati a un piatto tipico della cucina peruviana: la Salchipapa. Si tratta di un fast food tipico di quelle zone: würstel e patate che vengono fritti insieme e poi serviti in un piatto con abbondanti salse. D’altronde, anche senza scomodare il Perù, i würstel con patate sono un grande classico: tutti prima o dopo nella vita ci siamo buttati su questa accoppiata vincente per cucinare qualcosa che fosse veloce, gustoso e appagante. Spesso diciamo di farlo per i bambini, ma sotto sotto non ci dispiace affatto dover mangiare un comfort food del genere, magari spaparanzati sul divano mentre guardiamo la nostra serie tv preferita. La differenza tra il mangiare un piatto poco buono e di scarsa qualità e il consumare invece una chicca gustosa, saporita e da capriole sulla sedia la fa soprattutto il würstel. Sappiamo tutti che quelli che si trovano in commercio nei banchi del supermercato non sono certo sinonimo di genuinità e di ottima qualità; spesso infatti vengono prodotti carne separata meccanicamente (csm), cioè con un impasto realizzato con i residui di carne rimasti attaccati alle ossa – e molto spesso anche pezzetti delle ossa stesse!- dopo precedenti lavorazioni. Se volete andare sul sicuro, dunque, fate come noi e utilizzate i Franks Würst del nostro Megastore, col 100% carne di Black Angus americana Blue Ox. Già cotti e affumicati con metodo tradizionale, quindi esposti a vero fumo di legna con essenza di ciliegio e hickory, si rigenerano in acqua calda senza toglierli dalla busta. A quel punto, da caldi, si può decidere di utilizzarlo come meglio si crede. Noi abbiamo fatto delle hot dog burnt ends, ovvero li abbiamo tagliati a pezzetti, conditi con la salsa bbq, ripassati in cottura indiretta e fatti caramellare. Poi, dato che ci piaceva l’idea di servire dei bocconcini deliziosi ed eravamo ispirati, abbiamo fatto anche dei piccoli involtini sempre utilizzando i Franks Würst: abbiamo avvolto ogni bocconcino in una fetta di pancetta, li abbiamo conditi con il famoso formaggio spalmabile aromatizzato a peperoncini jalapeño e poi li abbiamo messi in cottura indiretta per far diventare il bacon croccante. Come contorno, abbiamo presentato delle patate tagliate a spicchi e poi condite con il nostro Ancho Habanero Chili Mex. Oh, e adesso veniamo alle dolenti note: abbiamo lasciato la buccia alle patate. E già sentiamo sollevarsi il coro degli indignati: la buccia contiene solanina! Fa male! Non pensate ai poveri bambinih? Va bene, diciamolo subito: la questione della solanina e di altri glicoalcaloidi presenti nella parte edibile della patata è parecchio gonfiata rispetto alla realtà. Innanzitutto, la presenza di solanina nella patata è influenzata da diversi fattori: la varietà che viene coltivata (non tutte contengono la stessa quantità), la modalità di stoccaggio (per alcune varietà è stato rilevato che la presenza di solanina aumenta quando lo stoccaggio avviene a temperature basse, intorno ai 4°C) e l’esposizione alla luce (il tasso di formazione di solanina di un tubero conservato al buio è circa il 20% di quello conservato tenendolo esposto alla luce). Inoltre alcuni trattamenti termici, come la frittura, la cottura in forno e la bollitura, possono determinare una diminuzione del contenuto di solanina che arriva fino al 65%.
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Mettiamo da parte, dunque, le paure immotivate e gli scenari apocalittici: una conservazione adeguata, lontano dalla luce, unita allo scarto delle patate che si presentano malate, danneggiate, o germogliate, consentono di consumare un prodotto con dei livelli di solanina contenuti, senza aver paura di intossicazioni.
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A questo punto, non ci resta che buttarci a capofitto nella ricetta!
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Ingredienti per 4 persone
2 confezioni da tre di Frank Würst del nostro Megastore / 200 g di pancetta tagliata a fette non troppo sottili / una confezione di formaggio spalmabile / tre peperoncini verdi o jalapeño / 1 kg di patate / tre cucchiai di salsa BBQ / due cucchiai di Ancho Habanero Chili Mex della linea Sal’s Seasoning / un cucchiaio di Ultimate SPOG della linea Sal’s Seasoning / due noci di burro / olio extravergine di Oliva GLC Top Selection q.b. PREPARAZIONE Immergete i würstel nella loro confezione in abbondante acqua fredda e poi portateli a bollore; quando saranno caldi, toglieteli dalla confezione, tagliateli a pezzetti, conditene la metà con un po’ di rub, con le due noci di burro e con due o tre cucchiai di salsa bbq.
2.
Preparate anche gli involtini: prendete l’altra metà dei würstel tagliata a pezzetti, avvolgete ogni pezzetto in una fettina di pancetta, richiudete bene la pancetta su se stessa, poi mettete un cucchiaino di formaggio spalmabile e una fettina di peperoncino. Metteteli dentro una teglia di alluminio.
3.
Predisponete il vostro dispositivo per una cottura indiretta a circa 180°C e lasciate che i würstel caramellizzino bene, sia quelli nella salsa bbq che quelli avvolti nella pancetta. Se non doveste avere lo spazio necessario in griglia, dividete la cottura in due momenti differenti. Toglieteli dalla griglia e teneteli in caldo fino al momento del servizio.
4.
Nel frattempo pulite le patate con un panno senza sbucciarle, mettetele in acqua fredda leggermente salata e portatele a ebollizione: lasciatele bollire per pochissimi minuti, quindi toglietele dall’acqua, avvolgetele in un canovaccio e tenetele in frigo per circa tre ore.
5.
Predisponete il dispositivo per una cottura indiretta a circa 180°C, tagliate la patate in spicchi, conditele con abbondante olio e con il rub (potete aggiungere anche della paprika piccante a piacere) e poi, in una teglia di alluminio, ponetele in cottura indiretta. Giratele spesso quando cominceranno a fare la crosticina. Saranno pronte quando saranno belle dorate e l’interno sarà morbidissimo.
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Servite i würstel con il contorno di patate e qualche salsa di accompagnamento a vostro gusto. Ma fidatevi: il piatto è buonissimo anche gustato “in purezza”.
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RAVIOLI CINESI CON GAMBERI
Prendeteli per la coda!
I ravioli al vapore sono un grande classico delle cene in stile fusion. Ormai ci siamo abituati a fare un po’ un miscuglio di culture gastronomiche differenti: sushi, spaghetti di soia, involtini primavera, ravioli al vapore, patatine fritte e magari per finire un bel tiramisù. Se fermassimo per strada il primo italiano medio che passa, e gli chiedessimo di dirci se i tipici ravioli dalla forma ad orecchio che troviamo negli All you can eat, spesso ripieni di verdure e carne, siano giapponese o cinesi, molto probabilmente non saprebbe rispondere. Probabilmente sarebbe difficile già trovare qualcuno che conosca il loro nome: jiaozi.
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Diciamolo subito dunque: sono cinesi, perlomeno la loro origine è sicuramente cinese (poi è vero, sono conosciuti anche in Giappone col nome di Gyoza e differiscono un po’ nel sapore). Chiamati inizialmente Tiao (corno) per la loro forma, sono stati in seguito denominati anche Bianshi (cibo piatto) grazie al loro aspetto appiattito. Solo dopo molto tempo il nome è stato cambiato in Jiaozi; questo termine indica quel lasso di tempo che va dalle 23,01 alle 23,59 prima del Capodanno cinese, in cui pare che mangiare ravioli sia di buon auspicio. Vengono chiamati così soprattutto nel nord-est della Cina, ma al sud sono conosciuti anche come Hum Tun o Won Ton.
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Secondo la tradizione cinese tutta la famiglia deve partecipare alla loro preparazione, dalla lavorazione dell’impasto sino alla cottura, per poi consumarli con grande gioia e chiasso su un grande tavolo circolare. Secondo molte testimonianze pare sia stato Zhang Zhongjing, medico cinese che scrisse il Trattato sulle malattie febbrili e malattie varie, ad inventare il delizioso fagottino. Quando Zhang si ritirò dal servizio, tornò nella sua città natale e ne divenne il sindaco, aprendo anche una piccola clinica. A causa del forte freddo, molte persone soffrivano di geloni molto dolorosi alle orecchie, ma la sua clinica era veramente minuscola per poter ospitare tutta quella gente. Installò così una tenda al centro del paese, posizionò un calderone lì davanti e cominciò ad offrire una zuppa fatta con erbe mediche a tutti coloro affetti dai geloni, per proteggere le loro orecchie. Era una minestra fatta con carne di pecora, peperoni piccanti e molte altre erbe. Successivamente questi ingredienti sminuzzati furono messi all’interno di dischi di pasta, buttati poi nella zuppa di erbe e cotti. Nacquero così i ravioli, offerti
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ad ogni paziente insieme a una scodella di minestra. I malati, bevendo la zuppa e mangiando ravioli, si accorsero che tutto il corpo cominciava a riscaldarsi, comprese le orecchie. Per questo motivo, per molti anni a seguire, la popolazione decise di festeggiare il ricordo di questo evento creando ravioli a forma di orecchio.
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Ovviamente noi non abbiamo preparato questi ravioli per proteggere le nostre orecchie dai geloni, considerando che stiamo vivendo l’estate più calda degli ultimi 70 anni, ma certamente lo abbiamo fatto per proteggere noi stessi dal malumore: è scientificamente provato, infatti, che il consumo di questi ravioli migliori di gran lunga l’umore e faccia tornare il sorriso. No, non è vero:non andate alla ricerca di presunti studi scientifici. La nostra esperienza è solo empirica. A noi hanno fatto tornare il sorriso.
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Veniamo agli ingredienti: abbiamo deciso di riempirli con le verdure, saltate nel wok sul nostro adorato dispositivo a carbone, e con un gambero intero marinato. Esatto, intero. La codina che fuoriesce li rende perfetti per essere presi e mangiati con le dita, senza scomodare piatti, bacchette o, peggio, forchette. Abbiamo marinato gamberi (che possono essere quelli di Mazara per un’esperienza più gourmet, o anche i semplici argentini) con la nostra marinata perfetta...per i volatili. Eh sì, la Fowl in love andrà bene per il pollastro, ma provatela sui crostacei, acida al punto giusto, dolce al punto giusto: una bomba!
Ingredienti per 4 persone: 20 sfoglie già pronte per ravioli cinesi / mezzo cavolo cappuccio / un cipollotto / una carota tagliata alla julienne / 20 gamberi Mazhara GLC Top Selection / tre cucchiai di marinata Fowl in love / pepe q.b. / salsa di soia a piacere / olio extravergine di oliva q.b. PREPARAZIONE 1. Affettate il cavolo e il cipollotto in strisce sottili. Predisp onete il vostro dispositivo per una cottura diretta posizionando il wok in corrispondenza della fonte di calore o nell’apposito spazio in griglia. 2.
Versate un filo d’olio nel wok e poi saltate le verdure, comprese le carote, insaporendole con un po’ di salsa di soia. Togliete le verdure e tenentele da parte.
3.
Pulite i gamberi lasciando le codine, poi marinateli per un’ora nella marinata (ricordate che deve essere diluita in acqua).
4.
Farcite i ravioli con le verdure e inserite all’interno di ognuno un gamberone, richiudendoli in modo che la codina fuoriesca. Per chiuderli, potete anche usare l’apposito strumento, utilissimo, che si trova in vendita per pochi euro. Fate attenzione a richiudere il raviolo per bene intorno al gambero che fuoriesce.
5.
Cuocete i ravioli al vapore, utilizzando l’apposito cestello di bambù o un cestello di acciaio; dop o diché, utilizzando una piastra, piastrateli (potete farlo anche sul dispositivo all’aperto) con la salsa di soia. Serviteli caldi e per mangiarli utilizzate la mani!
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Si fa presto a dire insalata di riso: provate questa!
RISO VENERE
SALAME SHIMOFURI, FRANKS WÜRST E DROGAROSSA
Negli ultimi anni il riso Venere è diventato un must della cucina, una moda che ha preso piede e che resiste al passare degli anni anche grazie al sapore intenso di questo cereale dal retrogusto nocciolato. La sua fortuna è stata velocissima, poiché questa qualità di riso è molto giovane. Infatti nasce solo nel 1997 in Italia, più precisamente a Vercelli, dal centro di ricerca SA.PI.SE. Questo centro si occupa del miglioramento della varietà genetica del riso, senza l’utilizzo di OGM. I ricercatori hanno come scopo principale la creazione di nuove varietà che riescano a resistere ai cambiamenti climatici e che richiedano al contempo minori trattamenti chimici in risaia. Tutto questo per ottenere una coltivazione più ecocompatibile possibile. Il riso Venere è il risultato di questi studi: nasce dall’unione di un tipico riso della Pianura Padana con il riso nero cinese. I territori di produzione sono Vercelli, Novara ed Oristano. Le coltivazioni del riso nero (riso integrale), compaiono in Cina nel XIX secolo. La difficoltà di coltivazione rende questa qualità molto rara, per cui viene riservata alla sola all’alimentazione dell’ imperatore. Inoltre, con molta probabilità, sempre per evitarne il consumo da parte della popolazione cinese, viene dichiarato proibito per la sua qualità afrodisiaca. Da qui prende forma la strategia del marketing italiano nel chiamarlo riso Venere, dea romana della bellezza e dell’amore, e madre di Cupido.
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Il riso Venere è una qualità integrale, la sua colorazione scura è data dalla presenza di molecole polifenoliche e degli antociani (antiossidanti e antitumorali). Oltre ad essere ricco fibre, ha un alto contenuto di fosforo e potassio e anche delle vitamine del gruppo B che proteggono l’apparato cardio-circolatorio e gastro-intestinale. Un alimento così pieno di virtù ha un elemento a suo sfavore: la cottura. Infatti questo cereale ha un tempo di cottura di 40 minuti circa, quasi il doppio del riso bianco (15-20 minuti). Per eliminare questo problema spesso viene venduto già cotto o precotto.
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Per valorizzare ancora di più il sapore deciso del riso nero, abbiamo deciso di creare un’insalata con un grande must delle nostre preparazioni: i pomodorini drogarossa. Abbiamo poi arricchito il tutto con il salame shimofuri e i würstel blue ox. Il salame stagionato di carne di Wagyū giapponese della selezione Shimofuri GLC Top Selection, darà al riso un’intenso sapore aromatico e donerà alla ricetta quel tocco di umami che lo rende eccezionale. I würstel, che in una insalata di riso non possono mai mancare, aggiungeranno al piatto una nota più importante di fumo. Il tutto sarà incorniciato dal tocco agrodolce dei pomodorini drogarossa che, esplodendo in bocca, esalteranno i singoli sapori del piatto
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Ingredienti per 4 persone: 500 g
di riso venere / 3 Franks würst Blue Ox / 250 g di Shimofuri Salami 100% Japanese Wagyū / 50 g di mais bollito / 100 g di olive verdi / 500 g di pomodorini pachino / olio extra-vergine di oliva q.b. / zucchero di canna q.b. / tabasco q.b. / alcune gocce di salsa Worcestershire / una stilla di aceto di mele / tre/quattro foglie di basilico / uno spicchio d’aglio / sale q.b. / pepe nero macinato q.b.
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PREPARAZIONE 1. Bollite il riso in abbondante acqua calda salata.
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2.
Mentre il riso cuoce, preparate i pomodorini drogarossa. Pre-riscaldate il dispositivo per una cottura indiretta a 180°C. Disponete i pomodorini su una teglia, senza accavallarli e senza togliere peduncoli e rami. Condite con lo zucchero di canna, il sale e il pepe nero, infine aggiungete qualche goccia di tabasco, di Worcestershire e di aceto di mele. Ponete in cottura indiretta e lasciate andare per un’oretta. Saranno comunque pronti quando saranno appassiti e tenderanno a esplodere.
3.
Dopo aver scolato il riso, in una padella grande buttate il salame tagliato a rondelle, in modo da far sciogliere il grasso, dopodiché buttate i würstel prima fatti rinvenire in acqua bollente e poi tagliati grossolanamente.
4.
Saltate il riso con la carne, affinché si aromatizzi bene. Togliete tutto dal fuoco e lasciate che la temperatura scenda.
5.
Quando il tutto sarà a temperatura ambiente, aggiungete qualche oliva verde e del mais per dare colore e un tocco di croccantezza.
6.
Al momento del ser vizio aggiungete qualche pomodorino drogarossa, condendo il riso con il loro sughetto delizioso.
Non solo patatine: friggete l’Avocado!
POI SERVITELO CON IL
BURGER
DI CHIANINA
L’avocado è un frutto dalla storia millenaria ( 5000 a.C.): era un ingrediente base dell’alimentazione dei Maya e degli Atzechi che attribuivano al frutto proprietà afrodisiache, tanto da averlo battezzato con il nome di ahuacatl “frutto dell’amore”. Ricordando anche in certa parte i genitali maschili, durante il periodo della raccolta tutte le vergini erano costrette in casa per sfuggire alla tentazione. I primi europei che conobbero l’avocado furono i Conquistadores spagnoli, durante le loro esplorazioni del Nuovo Mondo. Lo descrissero come un frutto non dolce, dalla polpa burrosa con un buon sapore. In special modo rimasero colpiti dal potere afrodisiaco che gli indigeni gli avevano attribuito. Per ricavare il più possibile dal commercio di questo nuovo alimento, gli spagnoli puntarono moltissimo su questa sua decantata caratteristica. Naturalmente, la cosa incontrò l’opposizione della Chiesa Cattolica spagnola, che definì l’avocado un frutto del peccato, troppo esplicito anche nella forma. A credere fortemente nella capacità afrodisiache del nuovo alimento fu il re di Francia Luigi XIV. Si diceva che ne mangiasse grandissime quantità per tenere alto il livello delle sue prestazioni, viste le numerose amanti che popolavano la corte di Versailles.
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Oggi sappiamo che le qualità dell’avocado sono molte, nell’ambito della cosmesi viene usato per nutrire i capelli e la pelle secca; ha una grandissima capacità di sviluppare il colesterolo buono, contiene acido folico importante nella prevenzione delle malattie cardio-circolatorie. Inoltre è ricco di vitamina E.
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L’avocado è una pianta tropicale, quindi ha bisogno di un clima molto umido, soffre le temperature al di sotto dei 4°C e il vento, perché quest’ultimo va a disidratare i fiori e di conseguenza incide sul frutto, ma anche sull’impollinazione. Infatti, la maggior produzione si trova in Sud Africa, Messico, Repubblica Dominicana, Colombia, Perù, Indonesia. Kenya, Cile, Brasile, Florida, California e Hawaii.
Ingredienti per 4 persone: 3
In Italia la produzione è ancora minima. Il primo ad importare questa pianta nelle coltivazioni italiane fu Mario Calvino, il padre di Italo, botanico di fama internazionale che era sempre alla ricerca di piante che potessero adattarsi al clima di Sanremo, la sua città natale. Al momento, esistono coltivazioni in Sardegna, in Puglia, in Calabria e in Sicilia sulle falde dell’Etna. Una produzione ancora così scarsa comporta che gli avocado presenti nei supermercati siano di importazione estera (spesso araba), il che ci fa spesso correre il rischio di acquistare frutti acerbi o, al contrario, troppo maturi.
PREPARAZIONE 1. Sbucciate l’avocado
Riconoscere un avocado maturo da uno acerbo non è molto difficile, ci vuole solo un po’ di attenzione. Il metodo più intuitivo, che potete fare ancora prima di acquistarlo, è prendere il frutto in mano e fare una leggera pressione con le dita. Se è maturo al punto giusto lo sentirete leggermente morbido senza ammaccarlo, se è duro è acerbo; se invece è troppo maturo sentirete di poterlo ammaccare. Provate a togliere il picciolo, se viene via subito è pronto, se oppone resistenza è ancora acerbo Il colore della polpa è un grande indicatore del grado di maturità del frutto. Se è gialla è acerbo; se è verde è maturo; se è marrone è troppo maturo, ma rimane buono magari per una guacamole o un avocado toast. In cucina l’avocado ha avuto un discreto successo, proprio per il suo carattere non dolce e burroso si adatta a diverse preparazioni salate, la più conosciuta è sicuramente la Guacamole, ma esistono altre ricette come gli Avocado Fries ovvero l’avocado fritto, piatto tipico della California. Sono definite anche patate di avocado, perché una volta fritte potrebbero essere scambiate per tali, croccanti fuori e morbide dentro.
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Dividetelo in due e togliete il nocciolo.
3.
Tagliate le due parti in bastoncini non troppo sottili
4.
Infarinate l’avocato
5.
Preparate la pastella solo con acqua, farina e un pizzico di sale. Aggiungete l’acqua poco per volta e mescolate con una frusta, per evitare la formazione di grumi.
6.
Immergete l’avocado nella pastella e poi nel pangrattato.
7.
Ricordatevi di aromatizzare il pangrattato con il rub e il sale
8.
Mettere in frigo una mezz’ora, affinché la panatura si saldi bene all’alimento
9.
Riscaldate abbondante olio in una padella grande. Quando è arrivato alla temperatura di 180°C immergete pochi pezzi alla volta. Sono pronti quando la panatura risulta dorata e croccante.
10. Predisponete il vostro dispostivo per una cottura diretta ad alta temperatura. Tamponate bene il burger di Chianina, ungetelo con un filo d’olio, scaldate una padella o una pistra e cuocete il Brick fino al grado di cottura desiderato, ma senza superare i 65°C interni. 11. Servite la tagliata di burger con il lime pepper e la salsa Alabama, accompagnando il tutto con l’avocado fritto.
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Per questo abbiamo deciso di prepararle come contorno goloso della nostra tagliata di Brick di Chianina, per proporre un’alternativa esotica e sfiziosa alle classiche patatine fritte. Abbiamo arricchito la panatura con il nostro Sal’s Seasoning Ancho Habanero Chili Mex. La sua piccantezza unita ad un leggero gusto di affumicato esalterà il sapore delle Avocado fries.
avocado maturi / 200 g di farina 00 / 200 ml di acqua / sale q.b / Ancho Habanero q.b / pangrattato q.b. / olio di semi di arachide q.b. / 2 Brick di Chianina / Alabama White Premium sauce a piacere / Lime Pepper Steack Booster q.b.
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Ne ho facoltà – a cura di Chiara Lo Cascio
NY STRIP TACOS CON PICO DE GALLO
Chi mi conosce sa che amo utilizzare il pane per fare la scarpetta. In primis il pane con il pomodoro e poi tutte le altre varianti provenienti anche da altre tradizioni, come quella indiana, araba o greca. Quest’amore viscerale per la scarpetta è intrinsecamente legato anche all’amore per lo street food ed il finger food; questo perché certi modi di mangiare, quelli più informali e svincolati dall’Etiquette, sono anche i più confortanti a mio avviso. C’è stata una fase della mia pre-adolescenza caratterizzata da aperitivi tex-mex fatti in casa, il che ha contribuito ad accrescere la mia immensa voglia di conoscere cibi nuovi. Sono diventata presto amante dei nachos con tanto cheddar e tanti jalapeños, delle fajitas e dei tacos. Ricordo che da piccola li chiedevo continuamente, ed ogni volta che li trovavo lì, sul tavolo della cucina, la giornata prendeva una piega diversa. Era bello coinvolgere anche i miei amichetti del tempo, che scoprivano per la prima volta quei piatti tra stupore e curiosità.
Riguardando delle vecchie foto ritrovo questi tacos che ricordo di aver adorato: in questa variante venivano conditi con una salsa chiamata “Pico de Gallo”. Viene chiamata salsa seppur non sia liquida, densa o frullata: è più simile ad un’insalata tagliata in pezzi molto piccoli e piccante. Non esiste una versione ufficiale pare che si chiami così per due motivi: • Perché è tagliata in pezzi talmente piccoli da sembrar tagliati così da un gallo col proprio becco (“pico de gallo” vuol dire letteralmente “becco del gallo”) • È un riferimento alla piccantezza della salsa (pico): i messicani dicono che bisogna essere “un gallo” (impavido, senza paure, capace di qualsiasi cosa) per poterla mangiare. Ok, dopo aver fatto razzia dello stand tex-mex del supermercato mi sono cimentata in questo ritorno al passato. Vi presento qui la mia idea di taco ideale: voi aggiustate i sapori a vostro piacimento e buon divertimento!
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Mi catturavano più di tutto i tacos. Avevano una forma particolare, mi davano l’impressione di essere davvero qualcosa di diverso e distante da quello che vedevo attorno a me. Li avevo visti solo in televisione, ne disconoscevo completamente le origini: si dice che la parola taco provenga dalla parola in lingua náhuatl “thlaco” che vuol dire “metà” o “nel mezzo”, riferendosi dunque alla forma che ha. L’origine di questo piatto ha due influenze: la prima dall’Imperatore Montezuma, sovrano azteco degli inizi del 1500, che utilizzava la tortilla come una sorta di cucchiaio per mangiare le pietanze; la seconda dal modo in cui i lavoratori dei campi portavano con sé i loro cibi per poterli consumare con praticità.
I taco che conosciamo noi sono una delle molteplici varianti: sono tipicamente preparati con la farina di mais e possono essere cotti su una griglia, in padella, al vapore o anche fritti. Vengono poi conditi con carne, pollo, pesce, frutti di mare, verdure, fagioli o dei mix dei precedenti. Alcuni utilizzano dei preparati di carne macinata, come ad esempio il chili. Il che però non ha nulla da invidiare ai taco in cui si utilizzano dei pezzi di carne in purezza. Vengono infine guarniti con delle salse come guacamole, panna acida, prezzemolo o coriandolo. Hanno infinite possibili varianti: c’è poco da fare, sono tanto buoni quanto facili da preparare; sono anche a prova di pigri.
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Ingredienti per 4 persone: 8 tortillas di mais / 4 pomodori rossi maturi / 1 cipolla rossa / 2 lime / 1/2 peperone dolce rosso / coriandolo fresco a piacere / sale e pepe nero macinato / un peperoncino tritato a piacere / 2 NY strip dal Megastore
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PREPARAZIONE 1. Per preparare il pico de gallo occorre tritare finemente i pomodori privati della loro polpa, la cipolla, il peperone, il coriandolo ed il peperoncino.
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2.
Condite quindi con sale e pepe ed abbondante lime. Se vi piace, anche se non è previsto nella ricetta, potete aggiungere dell’olio d’oliva per dare un boost di sapore.
3.
Potete proseguire con la cottura della bistecca: va prima asciugata accuratamente da ambo i lati. Nel frattempo si può mettere sul fuoco una padella antiaderente e quando sarà rovente si potrà cuocere la bistecca, un paio di minuti per lato, finché non sarà avvolta da una crosticina uniforme. Una volta pronta va tagliata a fette spesse circa mezzo centimetro, per non risultare invadente al morso.
4.
Infine, assemblate il taco, scaldando prima la tortilla e poi farcendola con la carne, il pico de gallo e la panna acida a piacere. Sì può aggiungere anche del guacamole o dell’avocado a cubetti condito semplicemente con olio e limone.
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DA SANDWICH A
EL TRAMESIN
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È tutto in un attimo
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Spuntino ideale, aperitivo perfetto e volendo anche colazione salata: il tramezzino è un panino dalla tipica forma triangolare ad uno, due o tre strati realizzato con fette di pane morbido al latte (non tostato), privo di crosta. Non ci sono limiti agli ingredienti per la farcitura (uova, tonno, insalata, verdure, carne, salumi, formaggi, pesce, crostacei e così via), l’importante è che la combinazione al palato risulti gradevole. Il tramezzino è un po’ come il gelato: è buono sempre. Perfetto come aperitivo accompagnato da uno spritz, è ideale per un pranzo veloce, per una merenda golosa o per una pausa di metà mattinata. È una preparazione tipica del Nord e del Centro Italia, dove è un elemento immancabile tra i salati nel banco frigo di bar e pasticcerie. Questa preparazione, a differenza di molte altre presentate nel Magazine, non ha dietro di sé una storia antica; non fu ideata dai greci che solevano gustarla durante le discussioni di filosofia, matematica o letteratura, ma ha una storia molto più recente. Nasce in Inghilterra nel 1700 da un’idea del Conte di Sanwich, Jhon Montagu, il quale non volendo abbandonare il tavolo da gioco per cena, ordinò al suo cameriere un panino composto da due fette di pane morbido imburrato e farcito con il roast beef. Sembra che alla richiesta si unirono anche gli altri giocatori. Il panino piacque talmente tanto da diffondersi in tutto il paese tra il ceto aristocratico e benestante con il nome del suo ideatore. Permetteva di mangiare continuando a svolgere altre attività, poiché era facile al morso e non si sbriciolava. Anche le nobildonne rimasero piacevolmente sorprese da questa idea, ma la prima ad inserirlo nell’attività femminili fu la Duchessa di Bedford nel 1850 la quale, stufa di attendere l’ora della cena per mangiare qualcosa di salato, inserì il sandwich nel tè delle cinque. Nacquero così i tea sandwiches. In principio i erano farciti solo con burro e cetrioli. Con il tempo furono create altre varianti con salumi e formaggi.
Fu comunque a Venezia che il tramezzino o meglio el tramesin conobbe più fortuna, acquisendo anche una forma caratteristica, che ricorda un pancione prominente risultando godurioso alla vista, ma anche all’assaggio proprio per la ricca quantità di farcitura. La bombatura è ottenuta concentrando il ripieno nella parte centrale e schiacciando i bordi del pane. I gusti classici e quindi più diffusi del tramezzino alla veneziana sono: lattuga e pollo, prosciutto e carciofini, funghi e prosciutto, mozzarella e pomodoro, tonno e uovo sodo, rucola e gamberetti o granchio, formaggio e prosciutto. Tutti arricchiti da abbondante maionese. Comunque esistono tantissime altre versioni gustosissime Inoltre un’altra peculiarità del tramezzino alla veneziana è data dalla morbidezza del pane, dovuta non solo all’abbondante presenza della maionese, ma anche all’umidità della città lagunare. In generale, per mantenere la giusta morbidezza i tramezzini dovrebbero essere ricoperti da un canovaccio di puro cotone umido. La ricetta che andiamo a proporvi è quasi un’unione tra l’origine della preparazione e la sua evoluzione alla veneziana. Per far ciò utilizzeremo come farcitura uno dei nostri straordinari prodotti cooked: il Baltimora Pit Beef, che trovate sempre sul nostro Megastore. Il Baltimora è sicuramente l’unica preparazione barbecue che non richiede una cottura lunghissima. La cottura sulla griglia dona alla carne una crosta esterna saporita, lasciando l’interno lasciando l’interno rosa e succoso. Il tutto accompagnato da un aroma di affumicato. Comprando il prodotto già cotto potrete prepararlo in qualsiasi momento, senza bisogno di mettere in atto grandi organizzazioni, perché vi basterà aprire la confezione ed eseguire pochi passaggi per avere uno strepitoso Baltimora Pit Beef. Ecco a voi la ricetta.
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Con molta probabilità da questi momento la moda si diffuse in tutta Europa. In Italia arrivò nel 1925 al Caffè Mulassano di Piazza Castello a Torino, dove fu servito per la prima volta come accompagnamento del tè delle cinque. In questo locale acquisì il nome di Tramezzino grazie al poeta
Gabriele D’annunzio, estremamente ghiotto di questa squisitezza. Per ordinare un altro paninetto, si rivolse al cameriere chiedendo “se c’era un altro di quei golosi tramezzini”. Il nome gli sarebbe venuto in mente perché alla vista gli aveva ricordato le tramezze delle persiane della sua casa di campagna e perché, secondo lui, il nome ben si adattava ad indicare qualcosa mangiato tra due pasti.
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Ingredienti per4 persone: Baltimora
Pit Beef del nostro Megastore q.b. / 8 fette di pane bianco / 4 uova / 200 g di maionese al tartufo / insalata mista a piacere / pomodorini cigliegini a piacere / olio extravergine di oliva q.b. / sale e pepe q.b. PREPARAZIONE 1. Preriscaldate il forno, modalità ventilata, a 120°C. 2.
Tirate la carne fuori dalla confezione e tamponate l’umidità in eccesso con della carta da cucina.
3.
Posizionate la carne direttamente sulla griglia per 15-20 minuti al massimo per stemperare la carne. Vi consigliamo di posizionare sotto il Baltimora una teglia per non sporcare il forno.
4.
Mentre la carne è in forno lessate le uova. Dal bollore lasciate cuocere 6/8 minuti. Raffreddate le uova con l’acqua fredda e sbucciatele.
5.
Tornando al Baltimora, passato il tempo necessario, togliete la carne dal forno e lasciatela riposare per una decina di minuti, in modo che il calore intiepidisca l'interno.
6.
Tagliate la carne a fette sottile, l’ideale sarebbe l’utilizzo dell’affettatrice.
7.
Prendete il pane, schiacciatelo leggermente con il mattarello.
8.
Spalmate una generosa quantità di maionese al tartufo su tutta la fette.
9.
Posizionate metà del ripieno al centro della fetta, dopodiché posizionate l’uovo e ricoprite con la carne restante.
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10. Chiudete il tutto con il pane schiacciando bene ai bordi, in modo che aderiscano bene per dargli la forma bombata.
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11. Con un coltello ben affilato, tagliate in due il panino in modo da formare due triangoli ben panciuti e perfetti. Servite i panini con l’insalata, per un pranzo estivo veloce e gustoso.
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E... state freschi!
INSALATA
DI PETTO DI POLLO CON SPINACINI Spinaci e petto di pollo sono considerati nell’immaginario collettivo ingredienti legati all’alimentazione cui si è costretti per motivi di salute , oppure di dieta ipocalorica e povera di grassi. La maggior parte delle persone ignora però che, se opportunamente trattati e arricchiti di sapori e percezioni, possono dare vita a grandi piatti in grado di unire con successo gusto e salute. In questa ricetta vi presentiamo un’ insalata a base di pollo cotto al barbecue e spinacini con l’aggiunta di frutta fresca, cipolla e pinoli. Un gustoso piatto unico che ben si adatta al clima estivo. Questo piatto unisce in perfetta armonia la leggera pungenza della cipolla rossa, la croccantezza e l’acidulità della mela granny smith, il vivo colore arancione e la dolcezza dell’albicocca, il delicato e aromatico sapore dei pinoli tostati in padella, una base di croccanti foglie di spinaci freschi e la speziata corposità del petto di pollo cotto al barbecue. Il tutto è perfettamente amalgamato e bilanciato grazie alla salsa Alabama White Premium Sauce, che si aggiungerà al momento di servire. Prima di iniziare, focalizzate alcuni obiettivi. Vediamo quali.
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La carne: l’interno del petto di pollo deve rimanere morbido e succoso, pertanto è necessario fare delle iniezioni di salamoia. Il sale presente nella soluzione, oltre che dare la giusta sapidità, degraderà le proteine rendendo la carne morbida, mentre il liquido distribuendosi all’interno delle fibre muscolari ne aumenterà la succosità. Il petto è notoriamente la parte meno saporita del pollo quindi, volendo una carne ben gustosa, dovrà marinare per qualche ora nella nostra Fowl in love Marinade, la marinata perfetta per il pollame.
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Metodo di cottura: sulla superficie del petto di pollo si deve formare un bel bark, gradevole alla vista, croccante e saporito. Sarà quindi fondamentale dare il tempo alla superficie della carne di disidratarsi per sviluppare un’adeguata reazione di Maillard. Si utilizzerà pertanto una cottura indiretta
a temperatura moderata, la carne sarà posizionata lontano dalla fonte di calore, sotto le ventole di scarico e si cuocerà per convezione; il flusso di aria calda la asciugherà e cuocerà lentamente sviluppando una bella crosticina esterna senza stracuocere l’interno che rimarrà succoso. La scelta del rub: si utilizzerà il Dallas Mild Rub il cui sapore di senape si sposa perfettamente con il pollo, si aggiungerà inoltre della paprika, spezia ricca di Umami, che ne amplierà i sapori e donerà alla carne un gradevole colore rosso. La salamoia: visto lo scarso spessore del petto di pollo, è necessario tenere conto che solo una parte della salamoia iniettata verrà trattenuta dalla carne, per questo vi consigliamo di fare le iniezioni ponendo il pollo all’interno dello stesso contenitore dove poi lo farete marinare. Al termine delle iniezioni eliminate la salamoia in eccesso prima di aggiungere gli ingredienti della marinata. L’affumicatura: il fumo è uno degli ingredienti di questa ricetta, deve essere presente ma non invasivo, pertanto ci si orienterà su essenze leggere come il melo o ciliegio. Per un giusto dosaggio sarà sufficiente buttare sulle braci un paio di manciate di chips. Tale operazione andrà fatta solo una volta aggiunta la carne e nel momento in cui il dispositivo sarà ben stabilizzato e a coperchio chiuso già da diversi minuti. L’aggiunta delle chips dovrà essere fatta velocemente e in modo da evitare che la camera di cottura si possa riempire di ossigeno. Una eccessiva ossigenazione infatti farebbe schizzare in alto la temperatura e permetterebbe al legno appena aggiunto di sviluppare la fiamma liberando fumi tutt’altro che aromatici. Il rub: quando vi troverete a condire la carne, fate attenzione a non esagerare con la quantità di rub. L’obiettivo è avere sulla carne un leggero velo uniforme di condimento: una quantità eccessiva durante la cottura tratterrebbe l’umidità e invece di un bel bark vi ritrovereste con una pappetta umida intorno alla carne.
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Ingredienti per4 persone: 1 petto di pollo
intero (circa 500 g) Per la salamoia: 200 g di acqua / 10 g di sale. Per la marinata: 1 cucchiaio di marinata Fowl in love Marinade / un cucchiaio di vino bianco. Per il Rub: Sal’s Seasoning Dallas Mild Rub q.b.; paprika dolce in polvere q.b. 80 g di pinoli / 300 g di spinacini / una mela varietà Granny Smith / una cipolla rossa / 4 albicocche, salsa Alabama White Premium a piacere. PREPARAZIONE Il giorno prima: 1.
Sciogliete il sale nell’acqua, se necessario scaldandola un minimo, raffreddatela e tenete la in frigo fino al momento dell’utilizzo in modo che sia ben fredda;
2.
Pulire il petto di pollo, dividendolo in due parti e eliminando cartilagine, forcula e eventuali parti di grasso;
3.
Mettete i petti di pollo in un contenitore inerte e con una siringa iniettate la salamoia.
4.
Emulsionate la Fowl in Love Marinade e il vino bianco. Distribuite uniformemente la marinata ottenuta sui petti di pollo.
5.
5. Riponete in frigorifero per qualche ora, meglio se per tutta la notte.
Il giorno del servizio: 6.
Mettete in accensione mezza ciminiera di bricchette.
7.
Togliete i petti di pollo dalla marinatura, asciugateli perfettamente con l’aiuto di carta assorbente e riponeteli in frigo non coperti su una grata affinché possano continuare a perdere umidità.
8.
9.
Una volta acceso il carbone disponetelo su un lato del vostro kettle, posizionate il coperchio con le bocchette sul lato opposto. Regolate afflusso d’aria e quantità di bricchette fino a stabilizzare il dispositivo su una temperatura di circa 120°C/ 130°C alla griglia.
11. Aspettate che la temperatura del dispositivo si stabilizzi nuovamente e quindi aggiungete la prima manciata di chips di legno aromatico. Se siete riusciti a gestire bene l’afflusso di aria nella camera di cottura vedrete uscire un velo di fumo blu, indice che la temperatura di combustione delle chips è corretta. Ripetete l’operazione una seconda volta quando si sarà consumata la prima manciata di chips. 12. Lasciate cuocere lentamente il pollo fino al raggiungimento dei 75°C al cuore. Utilizzate un termometro a sonda per evitare di aprire il barbecue in continuazione. Mentre il pollo è in cottura: 13. Tagliate ad anelli finissimi la cipolla, sciacquatela sotto l’acqua corrente per un paio di minuti e lasciatela quindi ammollo in acqua fredda e sale fino al momento di utilizzarla per stemperarne la pungenza. 14. Lavate e tagliate gli spinacini, conditeli con un filo di olio e metteteli da parte. 15. Tostate i pinoli in una padella antiaderente. 16. Sbucciate la mela Granny Smith e tagliatela a listarelle finissime. 17. Lavate e tagliate in listarelle le albicocche. 18. Quando la carne avrà raggiunto la temperatura target toglietela dalla cottura e mettetela in rest per una decina di minuti. 19. Affettate il petto di pollo a listarelle di spessore uniforme. 20. Assemblate le insalate nei piatti e servite accompagnate da una dose abbondante di salsa Alabama White Premium Sauce. generosa dose di caponatina sopra.
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Mentre il dispositivo si stabilizza condite il pollo: se necessario asciugatelo ulteriormente con la carta assorbente, ungetelo con un velo di olio extravergine di oliva e cospargetelo di Dallas Mild Rub e paprika.
10. Posizionate la carne sulla griglia sul lato opposto a quello del carbone. Il petto di pollo ha una forma irregolare, fate in modo che la parte più alta della carne sia rivolta verso l’esterno del kettle dove riceverà maggiore calore per irraggiamento grazie alla vicinanza con il metallo incandescente del dispositivo.
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RISO FACILE
CON BLEND DI MARINATE E GAMBERO ROSSO Chi ha detto che le marinate del Megastore si possono usare solo per condire le proteine? L’incredibile equilibrio e la complessità aromatica delle marinate della linea Sal’s Seasoning le rendono alleate impareggiabili anche per la preparazione di altri alimenti, un vero e proprio segreto in cucina che vi permetterà di risparmiare tempo ed energia. In questa ricetta, che si distingue per la sua facilità e velocità, vi mostreremo come usare un blend di Red Flash Crash e Fowl in love per fare un ottimo riso con i gamberi, in questo caso Gambero Rosso di Mazara. Grande pregio di questa ricetta, oltre alla semplicità, è che volendo può essere in parte preparata il giorno prima: per come viene cotto, il riso può essere cucinato al momento o il giorno prima e conservato in frigorifero. Non si tratta solo di una ricetta che ben si presta come piatto unico nel periodo estivo, ma di un vero e proprio metodo per la preparazione facile e veloce di un buon riso. Vi invitiamo, come sempre, una volta appreso il metodo, a personalizzare la ricetta secondo i vostri gusti modificando le proteine e le marinate di riferimento.
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Volendo il meglio per questa ricetta si utilizzerà il Gambero Rosso di Mazara GLC Top Selection, un crostaceo pescato nel Mediterraneo nelle cristalline acque del canale di Sicilia dove vive in profondità che vanno dai 400 ai 1300 metri. Il Gambero Rosso di Mazara si caratterizza per le sue carni particolarmente burrose e aromatiche dovute all’importante concentrazione di sali minerali presenti nelle acque a elevata evaporazione in cui vive. Viene pescato e subito surgelato a bordo delle imbarcazioni dei pescatori per preservarne le qualità organolettiche; BBQ4All ne garantisce la consegna in corriere refrigerato alla temperatura di -18°C per tutta la durata del viaggio, senza interruzione. .
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Tra le marinate della linea Sal’s Seasoning quella più adatta per il pesce è la Fowl in Love, alla quale si affiancherà in pari proporzioni la Red Flash Crash per dare alla ricetta maggiore complessità aromatica grazie ai suoi sentori di paprika e affumicato. Le marinate andranno unite a un buon vino bianco secco e alla salsa Tabasco.
Ingredienti per4 persone: 350 g di riso basmati di buona
qualità / un cucchiaio di olio di semi / 500 grammi di Gamberi Rossi di Mazara GLC Top Selection / un cucchiaio di Fowl in Love Marinade / un cucchiaio di Red Flash Crash Marinade / due cucchiaini di tabasco / mezzo bicchiere di vino bianco secco / un cucchiaio di triplo concentrato di pomodoro / due cucchiai di brandy / 70 g di burro PREPARAZIONE 1. Pulite i gamberi liberando la polpa dalla testa e dal carapace, rimuovendo il budello con l’aiuto di pinzette da cucina. In un contenitore inerte unite i gamberoni con le marinate, il vino e il Tabasco; Lasciate riposare in frigo per qualche ora o meglio ancora per tutta la notte.
3.
Il giorno della cottura predisponete il vostro barbecue per una cottura diretta con la skillet di ghisa.
4.
Mentre si accende il carbone potete cucinare il riso: predisponete almeno un litro di acqua bollente; in un tegame a fondo spesso rosolate il riso a fiamma viva insieme ad un cucchiaio di olio di semi; salatelo e copritelo con un dito abbondante di acqua bollente; chiudete il coperchio e lasciate andare a fiamma bassa per una decina di minuti senza girarlo; controllatelo di tanto in tanto, all’occorrenza aggiungete altra acqua bollente o prolungate la cottura se necessario. Una volta cotto ponete il riso in un contenitore, aggiungete un paio di cucchiai di olio extra vergine di oliva e girate per distribuire l’olio al fine di evitare che i chicchi si incollino tra loro.
5.
Mettete la skillet di ghisa sul calore diretto, se avete la griglia GBS potete utilizzare l’apposito spazio, altrimenti appoggiatela sopra la griglia, andrà benissimo lo stesso. Attendete che diventi incandescente.
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Versate i gamberi e tutta la marinata nella skillet di ghisa, girate di tanto in tanto; appena i gamberi avranno raggiunto la temperatura di 58°C rimuoveteli e metteteli da parte.
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Aggiungete il concentrato di pomodoro, il brandy, il burro e fate ritirare il tutto girando per evitare che si attacchi.
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Versate il riso nella skillet e girate per fare in modo che il condimento si distribuisca uniformemente;Togliete la skillet dal fuoco, posizionate i gamberoni sopra al riso in maniera simmetrica e scenografica;
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Servite in tavola direttamente nella skillet e affiancate un buon bianco, magari pescato dalla selezione Vini del Megastore.
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TARTARE CON GAZPACHO Un matrimonio felice D’estate, si sa, è il gossip pret-à-porter a farla da padrone, quello che innesca profonde riflessioni sotto l’ombrellone. Ci avete fatto caso che i matrimoni felici o presunti tali naufragano quasi sempre in estate? Un tempo si diceva:“Agosto, moglie mia non ti conosco”. Insomma, questa stagione è ricca di divorzi, per la felicità dei giornali scandalistici e per la gioia delle sciure in astinenza da Barbara D’Urso. Ma non non siamo un giornale scandalistico, per cui andando controtendenza vogliamo parlarvi, invece, di un matrimonio felice. Cosa c’è di più comodo e gustoso di una perfetta tartare di carne cruda da preparare per una fresca cena estiva? Piatto simbolo della gastronomia francese, servito da sempre in moltissimi bistrot e ristoranti d’Oltralpe, la tartare secondo la leggenda deve, in realtà, la sua origine ad antiche tradizioni dei Tartari dell’Europa Orientale. Questi erano dei gruppi di guerrieri turchi che si spostavano frequentemente a cavallo durante le conquiste dei territori, i Tartari usavano trasportare le loro provviste di carne sotto la sella dei cavalli. Durante il viaggio la carne veniva “macinata” in un modo poco ortodosso, per poi essere consumata durante le soste. Questa antichissima preparazione fu in seguito ripresa e perfezionata dai cuochi della corte zarista in Russia, per poi trovare la sua moderna patria in Francia, durante il tragico epilogo della dinastia, agli albori del Novecento. Condizione fondamentale per la riuscita del piatto è la qualità estremamente alta della materia prima, visto che la tartare subisce una manipolazione minima prima di essere servita ai nostri commensali. La Tartare di Chianina del nostro Megastore farà decisamente al caso nostro.
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Ricavato da animali di razza Chianina Full Blood; è priva di cartilagini, connettivo e perfettamente frollata. Regalerà al piatto tutto il suo gusto esplosivo e, allo stesso tempo, sofisticato. In questa ricetta la serviremo assieme a un profumatissimo gazpacho, la zuppa fredda originaria dell’Andalusia che in tutto il mondo è considerano uno dei simboli della Spagna, perfetto per l’estate perché fresco e benefico per la salute grazie alle sue proprietà. Insomma, questo matrimonio felice tra la tartare e gazpacho s’ha da fare (semicit.): siamo sicuri che sarà un’unione duratura e felice.
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Ingredienti per 4 persone:
4 confezioni di Tartare Chianina BBQ4All Megastore / Salsa Tabasco q.b. / sale q.b. / sale Maldon a piacere / pepe Tellicherry macinato al momento a piacere / olio Extra Vergine D’oliva Sicilia Riserva GLC Top Selection a piacere / un cucchiaino di Rub Ultimate SPOG / 250 g di pomodorini pachino / 2 cetrioli / un mazzetto di prezzemolo / basilico fresco q.b. / un limone / pane abbrustolito a fette condito con olio extra vergine di Oliva e SPOG / due germogli di daikon varietà Sakura Cress per decorare. PREPARAZIONE 1. Mescolate la carne con sale, pepe macinato al momento, gocce di tabasco e generoso giro d’olio extravergine d’oliva. Tenete in frigo. 2. Tagliate i pomodorini a spicchi, pelate i cetrioli e tagliateli a fette. Tritate finemente il prezzemolo e le foglie di basilico. Usate un buon frullatore e lasciate andare fino a ottenere una vellutata omogenea (non deve rimanere traccia della buccia dei pomodorini). Aggiungete alcune gocce di limone e poi un generoso giro di SPOG. 3. Emulsionate con un cucchiaio di olio per ottenere ulteriore brillantezza. Non serve filtrare il composto, che dovrà in questo caso risultare simile a una salsa vellutata. Riponete in frigo per almeno una mezz’ora per dare in modo alla salsa di raffreddarsi. 4. la Tartare va servita rigorosamente ben fredda. Preparate il piatto aiutandovi con due ring di dimensioni diverse. All'esterno mettete la carne con sale Maldon sopra, decorando con i germogli e, nel ring interno, il Gazpacho in salsa con alcune gocce d’olio sopra. 5. Mettete la parte rimasta del Gazpacho in una ciotola, in modo che i commensali possano servirsi. Finite con i cubetti di pane abbrustolito attorno. La salsa rimasta può essere gustata in relax al tramonto, con delle buone chips di Tortilla di mais e un ottimo Bloody Mary.
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FRESCO E GOURMET
IL CARPACCIO
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non può mai mancare sulle tavole estive
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Si sa: la calura dei giorni di Agosto non invoglia quasi mai di accendere il fuoco e a mettersi a cucinare. Questo però è proprio il periodo dell’anno migliore per gustare, all'aperto e nelle ore più fresche della giornata, quei piatti semplici e gustosi preparati con il nostro fido dispositivo a carbone o a gas, meglio se accompagnati da un calice di vino ghiacciato. Abbiamo già parlato nell’articolo di macelleria del taglio Tri Tip che verrà usato per questa ricetta estiva di carne fredda e verdure. Nello specifico, serviremo un carpaccio. Giuseppe Cipriani, personaggio eclettico e colto che ha dato un grosso contributo alla cultura gastronomica italiana e al mondo della ristorazione, dell’Harry’s Bar di Venezia, nel libro L’Angolo dell’Harry’s Bar, scrive a proposito del carpaccio: “Con il carpaccio gli imbrogli sono proibiti. Il suo segreto è nell’essere interamente svelato, nudo come mamma l’ha fatto.” Ed è proprio in questo luogo che il carpaccio è nato: è il 1950, mentre nel Palazzo Ducale di Venezia è in corso la mostra del talentuoso pittore rinascimentale Vittorio Carpaccio, all’Harry’s Bar viene creato il piatto omonimo, per accontentare le richieste di una contessa, fedele cliente del ristorante, a cui il medico ha prescritto di non mangiare carne cotta. Dopo diverse prove, l’intuizione è di proporre un filetto di manzo tagliato a fettine leggerissime e sottili.
un Trip tip Creekstone Choice Megastore BBQ4All / rub Dallas Mild Rub q.b. / rubTennessee Mild Dry Rub q.b. / rub Ultimate Spog q.b. / 8 ravanelli / una mela Granny Smith / 100 g di barbabietola cruda / il succo di 1⁄2 limone /Olio extravergine d’oliva Sicilia GLC Top Selection / sale q.b. / pepe Tellicherry macinato al momento a piacere PREPARAZIONE 1. Preparate il Tri Tip nel dispositivo esterno a carbone o gas, inumidendo la superficie con salsa Worcestershire e poi il Rub (Dallas + Tennessee + Spog) in modo uniforme. Se il dispositivo esterno è un Kettle a carbone andrà preparato con Minion stabilizzato a 115°C al coperchio leggermente più basso in griglia. Se invece si usa un dispositivo a gas, questo andrà preparato per una cottura indiretta con un solo bruciatore acceso. 2. Aggiungete un po' di chips (scegliendo l'aroma preferito e mettendone poche sulle bricchette accese e un po' sul Minion di bricchette spente, appena dopo, per far durare l’affumicatura un po' di più senza aprire il coperchio). Nel caso di dispositivo a gas usate la scatola di affumicatura ponendola prima da vuota sulle barre per farla scaldare bene e poi inserendo le chips necessarie. Lasciate cuocere la carne fino ai 58°C interni. 3. Togliete la carne posizionandola dentro un foil di alluminio in doppio strato, chiuso stringendo bene in maniera ermetica stretta. Lasciatela raffreddare fuori dal dispositivo fino al raggiungimento dei ai 54°C interni. 4. Nel frattempo tempo va fatta alzare la temperatura del dispositivo, facendo innescare molte più bricchette nel caso di dispositivo a carbone, o accendendo almeno due bruciatori alla massima potenza in quello a gas. 5. Togliete il Tri Tip dal foil e rosolatelo in diretta per pochi minuti, lasciandolo poi riposare per alcuni minuti coperto con il foglio di alluminio appoggiato sopra. 6. Abbattete velocemente di temperatura e mettete in frigo. 7. Tagliate i ravanelli, la mela e la barbabietola a dadini. Raccogliete in una ciotola capiente e condite con un’emulsione preparata con il succo di limone e l’olio (tre parti di olio, una di limone), sale e pepe macinato al momento. Mescolate bene e mettete in frigo a maturare. 8. Affettate sottilmente il Tri Tip ricercando la controfibra (attenzione che a un certo punto le fibra cambiano verso, leggete bene l’articolo di macelleria!). 9. Disponete le fette di Tri Tip sul fondo del piatto piatto di servizio e servite con la macedonia di frutta e verdura sopra.
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Va da sé che scegliere una carne di qualità superiore è sicuramente il primo passo per servire un carpaccio senza trucco e senza inganno. Noi non useremo un filetto, ma appunto il Tri Tip: è perfetto per una preparazione fatta in anticipo, che potrà essere riproposta altre numerose volte, avendo l’accortezza, dopo l’uso, di riporre il pezzo intero sempre in sottovuoto. La morbidezza e il gusto esplosivo del Tri Tip Creekstone Choice del Megastore BBQ4All usato per la preparazione, unite alla freschezza della mela e del ravanello, faranno di questo piatto un must delle vostre cene sotto le stelle.
Ingredienti per 4 persone:
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SANTA MARIA
NOODLES SALAD
FREDDA O CALDA?
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Va bene lo stesso!
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L’Italia è riconosciuta a livello internazionale la Patria della pasta, una ricerca di qualche anno fa diceva addirittura che due piatti di pasta su tre siano consumati in Italia. Ma siamo sicuri che sia proprio così? Al di là della domanda volutamente polemica, se pensiamo alla sola “pastasciutta” allora i dati corrispondono alla realtà ma se nel mucchio inseriamo tutti quei prodotti formati da un impasto di farina di cereali ed acqua, senza lievito, da consumare dopo la cottura, allora i conti potrebbero essere un po’ differenti. La cosa certa è che tra tutti i tipi presenti nel mondo, gli spaghetti sono sicuramente quello più diffuso. Seguendo le evidenze storiche questo formato, con molta probabilità, potrebbe essere nato in Cina e successivamente essersi diffuso verso Ovest nel corso dei secoli. Per quanto riguarda l’Italia, invece, è opinione comune che sia stato Marco Polo ad “importare” gli spaghetti di ritorno dal suo viaggio descritto ne “Il Milione”; anche se, se vogliamo proprio dirla tutta, già un secolo prima, in Sicilia, si raccontava di una pasta di farina di frumento, tirata in fili ed essiccata, figlia, con tutta probabilità, della dominazione araba. Che siano asiatici, arabi o italiani, ciò non toglie che gli spaghetti, e la pasta in generale, siano amati a livello globale. È sicuramente vero che, nella Patria della pasta, essa trovi la sua massima espressione solo come piatto caldo; ma nel resto del mondo, in particolare in Oriente, la pasta viene valorizzata in tantissimi modi, consistenze e temperature differenti. Probabilmente il problema risiede nell’idea tutta italiana di “pasta=primo piatto”, concetto che non è presente nel resto del mondo visto che la pasta (ma vale lo stesso per il riso) è considerata un cibo da accompagnamento.
Utilizzando proprio il concetto di contorno applicato alla pasta, abbiamo la possibilità di aumentare la rosa delle “insalate” estive senza dover ricadere nella monotonia e nella tristezza del solito mix in busta con tonno e uova sode. Facile a dirsi direte voi. In realtà lo è anche a farsi. La parola d’ordine naturalmente è barbecue. La cottura di grandi pezzi di carne che, se opportunamente e correttamente porzionati, conservati e rinvenuti, possono dare vita a tante ricette, anche a distanza di tempo, con il minimo sbattimento. Per questa ricetta utilizzeremo un Santa Maria Tri Tip avanzato dall’ultima grigliata. Si tratta di un taglio di manzo dalla forma triangolare, si trova sotto la noce ed è uno dei responsabili del movimento della coscia. È un taglio considerato “povero” e solitamente viene imbottito e cotto arrosto. Quelli che trovate sul Megastore hanno una marezzatura incredibile che li rende estremamente succosi, saporiti e teneri e sono perfetti per creare i famosi Santa Maria Tri Tip Sandwich. Sul procedimento del Santa Maria Tri Tip perfetto troverete tantissime informazioni quindi vi illustrerò velocemente il mio procedimento. Dopo aver trimmato il Tri Tip spalmate un velo di miele o di sciroppo d’acero su tutta la sua superficie, come rub vi consigliamo di mixare due parti di Ultimate SPOG con una parte di Memphis Dry Rub per dare una nota piccantina. Fanno parte entrambi della linea Sal’s Seasoning di BBQ4All che trovate sul Megastore. Mettetelo in cottura indiretta molto bassa, diciamo non più di 100°C, quando la temperatura interna avrà raggiunto i 50°C aggiungete altro carbone o alzate al massimo il bruciatore e spostatelo in cottura diretta per qualche minuto girandolo spesso in modo da cauterizzare la superfice. Non dimenticate mail di lasciarlo in rest per 10 minuti circa. P.S. Fatene sempre almeno due… o non vi avanzerà mai nulla!
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Per quanto mi riguarda, con la calura estiva, la nostra capacità di consumare piatti caldi inizia a ridursi fino ad arrivare a livelli quasi nulli, per cui ci limitiamo a cuocere e a raffreddare per poi consumare tutto freddo o al massimo a temperatura ambiente: il piatto di pasta non scappa da questa regola. Fa eccezione solo la nostra ossessione per la griglia e il fumo (di legna) per i quali arriveremmo anche a
passeggiare con passo deciso sulle sabbie di Arrakis.
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Ingredienti per 4 persone
Per i noodles: 400 g di spaghetti di riso / 400 g di Santa Maria Tri Tip / 1 peperone rosso / 1 cipolla bianca / 1 cetriolo / mezzo lime / 2-3 cm di zenzero / prezzemolo q.b. / sale se necessario. per la salsa: 3 cucchiai di olio d'oliva / 6 cucchiai di salsa di soia / 1 lime (solo il succo) / 1 cucchiaino di zenzero grattugiato / 1 cucchiaio di BBQ4All Honey Mustard sauce. PREPARAZIONE 1. Cominciate con il preparare due ciotole con acqua e ghiaccio, in una metterete a bagno le cipolle tagliate a rondelle sottili per in modo da limitarne la pungenza, mentre nella seconda aggiungerete il mezzo lime e lo zenzero tagliati a fette e la userete per fermare la cottura dei noodles. 2.
Preparate gli spaghetti seguendo le indicazioni della confezione ma facendo attenzione a non aggiungere troppo sale nell’acqua visto che il condimento sarà molto sapido.
3.
Una volta raggiunto il punto di cottura desiderato, scolateli ed immergeteli nell’acqua fredda aromatizzata.
4.
Appena raffreddati scolateli nuovamente e conditeli con un filo di olio di sesamo per evitare che si attacchino.
5.
Preparate le verdure rimaste tagliandole a julienne o comunque fette molto sottili, le consumerete crude.
6.
In un recipiente abbastanza ampio mischiate verdure e noodles, condite il tutto con l’emulsione preparata e mettete il tutto in un piatto da portata in modo da eliminare la salsa in eccesso.
7.
Solo prima di servire posizionate il Tri Tip, tagliato a fette, sui noodles aggiungendo qualche goccia della salsa per insaporire la carne.
8.
Guarnite il piatto a con prezzemolo a pioggia.
9.
Per la salsa, aggiungete tutti gli ingredienti e mixate fino ad ottenere un’emulsione stabile.
Per una versione calda, in autunno… Per una versione calda procedete come per la versione fredda fermandovi al punto 5. Scaldate il wok o un saltapasta.
2.
Aggiungete l’olio, la salsa di soia e lo zenzero grattugiato presi dagli ingredienti della salsa.
3.
Aggiungete le verdure, fate saltare rapidamente ed infine aggiungete i noodles facendo sempre saltare il tutto giusto il tempo di amalgamare gli ingredienti (ricordatevi che le verdure dovranno restare croccanti).
4.
Impiattate, aggiungete tagliata a fette non troppo sottili e condite con il succo di lime e la BBQ4All Honey Mustard.
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1.
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PIT BEEF
TAPENADE SANDWICH
“Domenica d’agosto, che caldo fa” recitava il ritornello di una canzone di qualche anno fa... ma non è che gli altri giorni si stia meglio, verrebbe da rispondere! Certo è che nella calura estiva la voglia di stare ai fornelli un po’ si riduce quindi che ne dite di un panino fresco, laido quanto basta, e capace di farvi fare le famose capriole sulla sedia? Mentre pensavamo a come farcire il nostro panino super sfizioso, abbiamo avuto un miraggio, ricordo probabilmente di un viaggio fatto secoli fa: la tapenade. È una salsa a base di olive, olio e acciughe, perfetta da sola sul pane fresco, ma anche su quello abbrustolito o persino su verdure, sull’erba del giardino come in quella pubblicità dei primi anni 2000 o più semplicemente dentro un Pit Beef Sandwich alternativo. È tipica della Provenza ed è utilizzata in tutto il Midi francese; il suo nome deriva dalla parola provenzale tapeno che significa cappero, anche se, a detta di molti francesi, il cappero nella tapenade non ci va. È una ricetta che affonda le sue radici nell’occupazione romana (e te pareva): riscontri storici indicano infatti il consumo di un battuto di olive, olio, aceto, miele ed erbe aromatiche che, si sa, in Provenza certo non mancano. Fatto sta che nel corso dei secoli la ricetta originale si è evoluta, ogni famiglia ha aggiunto ingredienti o modificato le quantità fino a rendere ogni ricetta l’originale. Mentre vagavamo tra i ricordi, la fame ci ha ricordato che ormai si era fatta ora di pranzo, che non avevamo ancora preparato nulla e, soprattutto, che in frigo c’era un Pit Beef Blue Ox già perfettamente cotto ed affumicato da BBQ4All.
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Il Pit Beef BBQ4All è perfetto, potreste tirarlo fuori dal frigo, prenderlo a morsi così com’è e non restereste delusi, ma se cercate la sua massima espressione allora dovrete fargli fare un giro di pochi minuti in forno in modo da riprendere il bark ed amplificare profumi e sapori. Il connubio Angus Blue Ox-Tapenade provenzale aveva già attivato tutte le nostre ghiandole salivari quindi, detto fatto, partiamo con la check list. Fortunatamente gli ingredienti per la tapenade c’erano tutti e la ciccia, come detto, anche, un pecorino semi stagionato per dare supporto senza arroganza, lo spinacino (inteso come piccolo spinacio e non come Tri Tip) per sgrassare, un pizzico di menta che rinfresca e non impegna e SBAM! Da zero a puro godimento in quindici minuti netti.
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Non c’è storia, agosto per noi resta il mese degli “avanzi”, quelli belli e fatti bene. Se invece voleste cimentarvi nella cottura del Pit Beef, vi consigliamo di recuperare il Magazine n. 7 di Luglio 2019 dove, un anticonformista Coach Nencioni, descrive come ottenere un Baltimora Pit Beef sandwich da manuale. Nel megastore non solo troverete sia il Tenderloin Butt che l’Eye Round, che sono i tagli perfetti per questa preparazione, ma potrete scegliere anche tra diverse razze e selezioni, tutte diverse in quanto a carattere ma tutte sempre al top per quanto riguarda il gusto e la tenerezza.
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Ingredienti per 4 panini: circa 500g di
Tenderloin Butt, un Eye Round o, per una versione #zerosbatti e #zeroSBAGLI, un Pit Beef Blue Ox già pronto del Megastore / 8 mezze fette di pane tipo pugliese o “cafone” / Pecorino semi stagionato q.b. / / 100g di spinacino / cucchiaio di olio evo / 1 cucchiaino di aceto balsamico GLC Top Selection / qualche foglia di menta fresca / BBQ4All Ultimate SPOG q.b. per la tapenade: 100 g di olive nere snocciolate / 50 g di mandorle pelate / 50 g di capperi dissalati / 50 g di acciughe marinate / 1 spicchio d’aglio / 50 ml di olio extravergine di Oliva Riserva GLC Top Selection / un cucchiaio di succo di limone / sale e pepe q.b.
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PREPARAZIONE 1. Togliete il Baltimora Pit Beef Blue Ox dalla confezione tamponando delicatamente l’esterno con della carta, per eliminare l’umidità in eccesso.
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Scaldatelo in forno ventilato alla temperatura di 100°C per alcuni minuti in modo da riprendere il bark e farlo salire di qualche grado.
3.
Spennellate le fette di pane con dell’olio EVO su entrambi i lati ed insaporitele con un pizzico di Ultimate SPOG.
4.
Tostate le fette su brace diretta o in padella.
5.
Nel frattempo tagliate qualche fetta di pecorino non troppo sottile.
6.
Tritate grossolanamente le foglie di menta ed aggiungetele allo spinacino condendo il tutto con olio Extravergine di oliva Riserva GLC Top Selection ed aceto balsamico.
7.
Per la salsa: mettete gli ingredienti in un mixer e tritate tutto fino ad ottenere una salsa compatta, con la consistenza simile a quella del pesto genovese. Aggiustate di sale e pepe se necessario.
8.
Preparate il panino stratificando (dal basso verso l’alto), la salsa tapenade, il Pit Beef, il Pecorino e lo spinacino condito.
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L'
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a t a l a ins
Genesi, storia, composizione di un piatto unico, tecnico e colorato allo stesso tempo
a cura di Francesca Pappacena
Fin dai primi anni di vita ci imbattiamo nella conoscenza delle insalate: solitamente è fatta da erbette, ma non manca mai di colori: spesso è colorata, vivace: sappiamo benissimo che i colori incidono su quanto il nostro gusto possa gradire una data pietanza. Ortaggi e verdure colorate, sicuramente, ci invogliano di più. Molti, tra noi, hanno però cattive esperienze con le insalate: se i nostri genitori solevano nasconderci cibi “poco graditi” sotto le foglie verdi, l’insalata ha molto più potenziale rispetto a quello che hanno voluto far crederci. Non è solo un concentrato di vitamine, fibre. Secondo l’Enciclopedia Treccani si definisce insalata quella “pietanza formata di verdure, generalmente crude, condite con aceto o limone, sale, olio e, talvolta, pepe”. L’etimologia di questa parola, nella nostra lingua ha una genesi più recente, risale infatti al XIV secolo, e viene dal participio passato del verbo insalare, cioè cospargere di sale: facile intuire che per estensione questo vocabolo sia stato poi usato come riferimento per tutti gli ortaggi presenti nel piatto.
MA DA DOVE ARRIVA L’INSALATA? QUAL È LA SUA STORIA? La storia dell’insalata si perde nella notte dei tempi: pensate che già con i Greci e poi con i Romani si hanno testimonianze di piatti riconducibili alle nostre insalate, con la presenza di verdure a foglie larghe e verdi. Non si tratta di piatti elaborati, ma di ricette molto semplici: lattuga (o similari diffusi al tempo) olio, aceto, sale. Nulla di così diverso da quello a cui siamo abituati ora, almeno nella versione super-classicheggiante, non vi pare?
Andando indietro nel tempo, troviamo anche tracce di “insalate” negli scritti di Ippocrate, ma questa volta lo scopo della menzione è terapeutico; secondo il famoso medico, vissuto nell’antica Grecia nel IV sec. a.C. questa pietanza andava ad arrecare beneficio alla fase digestiva se consumata ad inizio pasto: a testimonianza di questo in alcuni ordini religiosi vige ancora questa usanza. Saltando ancora avanti nel tempo, come Ippocrate, della stessa scuola di pensiero è anche Galeno, medico romano, vissuto tra il 120-130 d.C. circa, che aveva come abitudine quella di non andare a dormire senza aver prima mangiato un copioso piatto di insalata (lattuga), visto che a questo prodotto attribuiva proprietà tranquillanti e di conseguenza il raggiungimento di un sonno tranquillo e senza interruzioni. A quanto pare almeno parte della scienza moderna sembra dargli ragione: l’insalata mangiata di sera concilia il sonno. Riguardo questa sua caratteristica, ovvero le sue proprietà psicotrope, ci sono documenti che attestano l’uso - durante la seconda guerra mondiale - delle insalate a base di lattuga selvatica (di questa fanno parte due varietà: la lactuga virosa, che è bene precisare che è velenosa e la lactuga serriola che è commestibile) come sedativo da dare ai soldati feriti per aiutarli a dormire. Era prassi quando non si riusciva a reperire l’oppio come anestetico, che i medici nel XIX secolo usassero per l’appunto la lattuga selvatica come rimedio, più precisamente la varietà lactuga virosa. Interessante sapere che da questa varietà velenosa per il suo contenuto di cumarine si ricava anche la metilfenilalanina (che in pratica è uno dei principali composti dell’aspartame). Occhio ad andare a raccogliere erbette per le vostre
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Non è chiaro a chi attribuire le origini di questa pietanza; ma la cosa certa è che, ovunque si andasse, anche in terre orientali, l’insalata era molto conosciuta. Infatti per arabi e persiani condire verdure crude non era affatto un mistero, una cosa inusuale. A conferma di ciò abbiamo numerose testimonianze che sono arrivate a noi, grazie agli scritti degli intellettuali romani: ad esempio Marco
Gavio Apicio, gastronomo, cuoco e scrittore, vissuto circa fra il I sec a.C. e il I sec. d. C. in uno dei suoi testi (una raccolta di ricette molto corposa perché composta da dieci libri, chiamata De re coquinaria) aveva nominato le insalate “acetaria,” ed è facile intuirne il perché: il loro principale condimento era a base di aceto.
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insalate senza avere le competenze per farlo, potreste non sapere cosa state mettendo nel piatto. A riprova di questo, basti pensare che anche nel gambo e nelle parti lattiginose della l. serriola, che è la lattuga selvatica non velenosa, si trovano in parti cospicue queste stesse sostanze e gli effetti attribuiti non sono solo ipnotici, ma anche diuretici, narcotici, sedativi e antipiretici (!). Curioso sapere che, in concentrazioni davvero molto basse ed esigue, queste sostanze le ritroviamo anche nella lattuga che usiamo frequentemente nelle nostre insalate.
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Dall’incursione in campo terapeutico, passiamo a quello sui costumi quando nel 1699 in Inghilterra viene pubblicato un libro, dedicato alle sole insalate fatte con verdura cruda e condimenti, da John Evelyn, autore di “Acetaria: A Discourse of Sallets” (1699), quivi
si sostiene che le insalate verdi andassero a dare benefici sulla temperanza e sulla morale, oltre che sull’evitamento dei pensieri impuri. Questo testo, per quel tempo, fu molto importante anche per il grande apporto che diede al vegetarismo e al vegan. Nel XVII secolo si diede libero sfogo alla creatività per quanto concerne la creazione di insalate variopinte e ricche di ingredienti, e numerosi furono i ricettari che documentarono tutto ciò: Robert May nel 1660 in un suo libro dal titolo “The Accomplisht Cook” illustra come fare una ricca insalata con circa una ventina di ingredienti, non escludendo tra questi la frutta e i tuberi. Quest’attenzione per le insalate non va scemando con il passare dei secoli, anzi si alimenta sempre di più, tanto che numerosi sono i libri di ricette che si realizzano e ogni territorio si specializza con l’utilizzo di verdure legate alla propria
sede di appartenenza, non evitando di dare quel quid di esotico aggiungendo commistioni e influenze di prodotti provenienti da regioni e da popoli diversi: siamo dopotutto in piena era coloniale, anche se ancora di là dall’avere commistioni vere e proprie, ma si riportavano in patria le “novità” scoperte nel Nuovo mondo. A dimostrazione di questa cosa abbiamo la Caesar Salad (insalata di Cesare) famosissima ormai in tutto il mondo, che si dice sia stata inventata da un ristoratore di origini italiane, emigrato negli Stati Uniti d’America, di nome Cesare Cardini, il quale creò questa insalata, per la festa del 4 luglio 1924. Ottima come pasto unico, come è facile notare quando si guarda da vicino la sua lista ingredienti: lattuga romana, formaggio Parmigiano Reggiano e crostini di pane fritti all’aglio, uova sode, pollo, condita con una emulsione di olio, succo di limone, uova e salsa Worcester. Potete trovare un articolo
approfondito su questa insalata nel numero 37 di gennaio 2022 di BBQ4All Magazine, se vi va di provare la nostra versione.
L’INSALATA: PIATTO UNICO, MA ANCHE ACCOMPAGNAMENTO L’insalata è un accompagnamento fantastico anche in caso di grigliate di carne estive. Bisogna saper comporre una buona insalata da accompagnamento, però. Quindi cosa occorre per rendere la vostra insalata da lode e bacio accademico? Lo Zio, nel corso degli anni, ci ha fornito mille e più spunti per le insalate: le ama, ne adora l’architettura e le ha studiate, provate e riprovate a fondo. Vi regaliamo qualche consiglio che ci ha lasciato lungo gli anni, più qualche tips segreta che gli è scappata qua e là e di cui abbiamo fatto tesoro. Calibrare la nostra insalata di accompagnamento
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in virtù della portata principale è fondamentale: se la nostra portata principale è, appunto, una preparazione di carne, dobbiamo valorizzare la carne accompagnando con un’insalata sapientemente costruita. La prima cosa da fare, per un’insalata che prevede la componente vegetale, è scegliere. Oltre a scegliere ortaggi freschi e di stagione, la frutta che meglio si addice, la parte umami più interessante (e qui avete l’imbarazzo della scelta tra salumi, formaggi, funghi, sottoli o sottaceti, prodotti sotto sale, legumi e tanto altro… sempre da calibrare con la nostra portata principale!), la parte croccante migliore (crostini, frutta secca, verdura e frutta disidratata), e dulcis in fundo il giusto dressing, vi servono alcuni consigli ben mirati. Lo Zio, inoltre, ci aiuta a capire quali aree bisogna “colpire”: l’area sensoriale; quella salutistica (tener ben presente dell’apporto in fibre, minerali, vitamine e antiossidanti); quella nutrizionale (giusto bilanciamento tra proteine, carboidrati e grassi); quella gourmet (deve essere organoletticamemte buona… possiamo dire anche, irresistibile). Con queste nozioni potete sbizzarrirvi ad ideare delle buone insalate, bilanciate, rispettando i vostri gusti e le vostre esigenze. Emulsioni, dressing, note crunchy sono tutte ben accette: l’importante è tener presente il piatto che vanno ad accompagnare.
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Vi lasciamo, in ultimo, una lista di insalate che possono andar bene accanto alle vostre grigliate. Impegnatevi a cercare le combo più stuzzicanti e ricordate… ci sono quattro aree da colpire!
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L’insalata di mais e pomodori è perfetta per accompagnare i vostri piatti di carne. Sia i pomodori, che il mais sono facilmente reperibili da freschi e di ottima qualità durante la stagione estiva. I pomodori perfetti per questo tipo di insalata sono i pomodori Cuore di Bue, o in alternativa la varietà Sorrento: sono pomodori molto grandi, tondi, particolarmente dolci, con una nota di acidità molto gradevole, che non sempre si avverte, contengono pochissimi semi, che sono facili da togliere. La polpa è compatta e croccante, nota che sicuramente non dispiace nelle nostre insalate. Per il mais potete usare tranquillamente quello in scatola, ma visto che la stagione permette non è una cattiva idea aggiungere i chicchi delle pannocchie grigliate. Un buon condimento a base di olio evo, sale e pepe e l’insalata è pronta da gustare.
L’insalata di cetrioli, pomodori, cipolle rosse e foglie di menta: ottima quando si ha la necessità di pulire il palato da preparazioni molto grasse; infatti rimanda una sensazione di freschezza, grazie alla menta e ai cetrioli, inoltre quest’ultimi hanno un buon potere depurativo, un alto contenuto di acqua e di sali minerali, sono leggeri e hanno una polpa soda con pochi semi. In questa insalata la nota croccante non mancherà, grazie ai cetrioli, ma anche grazie alle cipolle. Vi consigliamo di usare quelle di Tropea o quelle di Partanna, sono entrambe cipolle molto dolci e dal gusto delicato, facilmente digeribili, differiscono per dimensioni, quella sicula a differenza di quella calabra ha dimensioni molto grandi, può arrivare a pesare anche 1kg. In questa ricetta c’è bisogno di pomodori che siano tondi e ben maturi. Mescolate tutto con una buona vinaigrette ed il gioco è fatto. L’insalata di finocchi e sedano: insalata molto balsamica ottima per essere abbinata con pesce, carne e agnello. Il sedano bianco e il finocchio hanno pochissime calorie, sono ricchi di vitamine e minerali e hanno proprietà diuretiche. Il finocchio più adatto per le insalate è quello maschio, dalla forma tondeggiante ed estremamente carnoso, ha un profumo che ricorda quello dell’anice, da qui la nota balsamica. Vi consigliamo di inserire la giusta dose di Pick a Pepper (Sal’s Seasoning), che trovate sul nostro store, nella vinaigrette e resterete sorpresi dal bouquet aromatico che si sprigionerà. L’insalata di patate e fagiolini: semplice e disarmante, si presta bene in abbinamento con quasi tutti i secondi piatti. E pensare che prima della fine del XVIII secolo questo tubero, la patata, veniva considerata solo come pianta ornamentale, e invece grazie alle sue caratteristiche nutrizionali e al grande apporto di amido è stata capace di arginare varie carestie. Nell’insalata, e quindi da fare lessata è bene preferire una patata a pasta gialla o una a pasta rossa (un po' più salina rispetto alla pasta gialla). Contributo di successo viene dato anche dai fagiolini, ricca fonte di folati, fibra e vitamina C. Se si vogliono preservare tutte queste caratteristiche è bene non farli cuocere troppo a lungo e non usare troppa acqua, l’ideale sarebbe anche optare per una cottura a vapore. Potete optare per un condimento a base di olio evo, sale e basilico fresco, oppure usare un buon dressing allo yogurt. Et voilà, le jeux sont faits.
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L'Arte Bianca a cura di Alessandro Trezzi
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ivere senza mai aver visto, toccato, assaggiato o almeno sentito nominare i grissini pare fondamentalmente impossibile. Surrogato del pane, di forma allungata, croccantissimi e saporiti, in lungo ed in largo vengono messi a tavola per spezzare la fame in attesa della portata principale. Nondimeno, le loro caratteristiche li rendono perfetti per un aperitivo, magari avvolti da qualche affettato, o semplicemente da utilizzare per arpionare morbidi tocchetti di formaggio. Tipico piatto torinese, il nome grissino, deriva dalla parola piemontese ghërsa, che indica il classico pane della tradizione di forma allungata. La loro nascita è strettamente legata alla città sabauda e alla
sua storia. Tradizione vuole che Antonio Brunero, fornaio della corte, su indicazione del medico reale dovette ingegnarsi per poter far mangiare il piccolo Vittorio Amedeo II nel 1679. Il futuro re infatti, di salute cagionevole, non digeriva la mollica del pane normale. Il fornaio allora si ingegnò inventandone qualcosa che non prevedesse la mollica: nacque così il grissino. Il metodo di lavorazione dei grissini era tutt’altro che semplice, ed occorrevano ben quattro persone: lo Stiror (colui che stira), il Tajor (colui che taglia), il Coureur (colui che introduce) e il Gavor (colui che toglie). Ognuna di queste figure aveva un lavoro ben preciso: lo Stiror stirava l’impasto, il Tajor dopo la manipolazione del primo tagliava la pasta in pezzi di circa 3 centimetri, il Coureur deponeva su una paletta strettissima e lunga (anche 4 metri) due bastoncini e poi la introduceva nel forno alla piemontese (ovvero riscaldato con legna di pioppo) ed infine il Gavor estraeva i bastoni dal forno e di spezzarli in due. Grazie alla loro alta digeribilità e alla facilità nella conservazione il successo di questa golosa invenzione fu quasi immediato e divennero diffusissimi in Piemonte e nel resto d’Italia e consumati ad ogni ora del giorno: al mattino a colazione inzuppati nel latte, a pranzo nel brodo e nelle altre ore del giorno come stuzzichino salato o dolce.
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Tra i vari estimatori ci furono tanti personaggi importanti. Si dice che Re Carlo Felice li amasse così tanto da sgranocchiare in grande quantità, anche durante gli spettacoli al Teatro Regio. Napoleone Bonaparte invece, creò, all’inizio del XIX secolo, un servizio di corriera fra Torino e Parigi dedicato quasi esclusivamente al trasporto di quelli che lui chiamava “les petits bâtons de Turin” (i bastoncini di Torino). La forma più antica e tradizionale del grissino è il robatà (si pronuncia rubatà e significa “rotolato”), lungo dai 40 agli 80 centimetri che si riconosce facilmente dalla caratteristica nodosità, dovuta alla lavorazione e all’arrotolamento fatto a mano. Più recente, il grissino stirato
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differisce dal rubatà in quanto la pasta viene invece allungata, il che conferisce al prodotto finale maggiore friabilità. Nel corso degli anni, la famiglia dei grissini si è allargata tantissimo e sono arrivate le varianti integrali, al kamut, al sesamo, al finocchio, al peperoncino, alle olive, alle noci fino ad arrivare alle varianti dolci con il cioccolato, con gli zuccherini o caramellati. Possiamo noi esimerci dal farne una versione Nerd?
L’OBIETTIVO Il nostro scopo non è semplicemente quello di sfornare tre o quattro grissini, ma di far letteralmente esplodere i vostri aperitivi. Vogliamo dei bastoncini di 30-40 cm (a seconda delle vostre necessità), friabilissimi, croccanti, mai secchi e gommosi, e tremendamente saporiti.Li faremo stirati a mano, per concentrare le forze su un effetto crunch che farà cappottare i vostri ospiti dalla sedia.
IL MIX DI FARINE Considerando che il nostro obiettivo primario è quello di mettere il punto esclamativo sulla croccantezza del grissino, l’impasto dovrà essere povero di glutine, in modo da creare catene proteiche corte e rendere la masticazione praticamente inesistente. Va da sé, che complice una bassissima percentuale di idratazione la complessità del grissino è praticamente irrisoria, e possiamo inoltre divertirci a miscelare più farine per creare un effetto rustico e aumentare sapori e profumi del prodotto finito.
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A fronte di una buona base di farina di grano tenero (che serve comunque per evitare di complicarci troppo la vita), ecco le scelte predilette: • Una parte importante di semola di grano duro, ricca di carotenoidi e quindi delle componenti aromatiche essenziali per il nostro mix; • Una parte di farro bianco, per accelerare il tempo di fermentazione permettendoci di ottenere lo stesso risultato in tempi molto più brevi; • Una parte di grano saraceno, che conferirà un boost di rusticità non indifferente; • Una piccola aggiunta di mais integrale a grana grossa, che ci permetterà di avere delle note scricchiolanti sotto i denti di tutto rispetto.
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Ovviamente, consolidata la base, siete liberi di sostituire quà e là con le farine che più vi aggradano, come segale, riso e integrali di vario genere. Fate attenzione però: con una percentuale così alta di farine deboli e/o prive di glugine, la fermentazione non potrà che essere breve. In caso contrario otterrete un impasto stracciato, umido e poco arioso, con risultati contrari al nostro obiettivo principale.
INGREDIENTI 130 g di farina di grano tenero di tipo 00 o 0 (240-260 W); 130 g di farina di farro bianco; 120 g di semola rimacinata di grano duro; 60 g di farina di grano saraceno; 60 g di farina integrale di mais a grana grossa; 340 g di acqua; 12 g di lievito di birra fresco; 12 g di sale fino. N.B. Con queste dosi otterrete circa 850 g di impasto; è difficile dire quanti grissini otterrete, perché dipende tanto dallo spessore del taglio. Indicativamente, spezzando file di circa 1 cm, riempirete 3 teglie 30x40.
IMPASTAMENTO Questo impasto è semplicissimo e può essere realizzato tranquillamente anche a mano. Versate tutte le farine in una ciotola, mescolatele bene tra loro per uniformare il mix, aggiungete il lievito sbriciolato e successivamente 300 dei 340 g di acqua. Impastate fino a che non avrete raggiunto una massa liscia e uniforme, dopodiché aggiungete il sale e a filo l’acqua rimanente.Chiudete quando la massa sarà omogenea e a una temperatura di circa 22°C-24°C.
Tagliate quindi delle strisce di circa 1 cm di larghezza, e allungatele delicatamente prendendo le estremità con le dita, facendo attenzione a non rompere l’impasto; appoggiate le strisce su una teglia (senza carta forno) cosparsa di farina di mais, leggermente distanziati tra loro. Potete stirarli a piacere, fino alla lunghezza massima della teglia (40 cm).
PUNTATA Mettete l’impasto in un contenitore oliato a chiusura ermetica (o nella ciotola coperta dalla pellicola) e lasciate lievitare per 1 ora a temperatura ambiente.
COTTURA Pre-riscaldate il forno a 180°C, e cuocete i vostri bastoncini per circa 20 minuti. Utilizzate ovviamente una teglia per volta, terminando la cottura per il tempo indicato; dopodiché, se i grissini dovessero risultare ancora morbidi, abbassate il forno a 150°C e fateli asciugare per qualche minuto, fino a che non diventeranno croccanti. Sfornate e lasciate raffreddare su griglia rialzata, dopodiché servite in un cestino il vostro capolavoro per l’aperitivo.
STAGLIO E FORMATURA Spolverate il piano da lavoro con della farina di mais, che vi aiuterà a rendere ancora più croccante il vostro prodotto finito. Rovesciate l’impasto, create un filone rettangolare e “impanatelo” nella farina.
APPRETTO Spolverate la parte superiore dei grissini di farina di mais e lasciateli riposare per 30 minuti circa.
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Il regno del ghiaccio?
Frozen? No, gli USA
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Across the Pond a cura di Elena Ninotti
e iete mai stati in un hotel americano, è possibile che, al momento del check-in, assieme alle altre informazioni, vi sia anche stato comunicato dove è ubicata la Ice Maker. Sinceramente le prime volte questo mi lasciava un po’ spiazzata. A meno di non avere una bottiglia di Champagne da mettere in fresco, qualche utilità avrebbe mai dovuto avere? In realtà non avevo fatto i conti con una popolazione ossessionata dalla presenza del ghiaccio. Dai cubetti al tritato, dalle confezioni piccole per i cocktail alle borse da 5 kg, non c’è supermercato, distributore o convenience store che non venda questo “prezioso” prodotto. Una delle cose che resta impressa agli americani in vacanza in Europa, oltre alla bellezza dei panorami, alla bontà del cibo e agli orari (molto) ristretti dei ristoranti, c’è proprio l’assenza dellamacchina del ghiaccio negli hotel, per non parlare della parsimonia con cui viene utilizzato nei bicchieri al bar. Per noi, cresciuti con acqua a temperatura ambiente, tè freddo servito a temperatura di infusione e coca cola bevuta tranquillamente anche se tenuta fuori frigo, la loro è quasi una mania. Devo però dire che ci si abitua facilmente, sia alle bibite ghiacciate sia ad avere disponibili grosse quantità con cui riempire le ghiacciaie e, quando ne ho avuto bisogno in Italia, mi sono davvero indispettita che non fosse reperibile al supermercato.
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Evidentemente anche Mr Frederic Tudor, un uomo d’affari del New England del primo Ottocento, aveva subodorato l’affare. Conosciuto come The Ice King, il giovane Tudor, a soli 23 anni, andava in giro per la città a offrire il suo ghiaccio durante la torrida estate bostoniana. Nel 1806, avere a disposizione gelati e bibite fredde era sinonimo di lusso e benessere e il suo commercio diede presto i suoi frutti. Tanto da convincere Fredreric a esportare il ghiaccio nelle colonie, partendo con un primo carico da Charlestown in Martinica. Il prezioso carico arrivò quasi intatto, per poi squagliarsi velocemente al caldo dei Caraibi. Imparato da questa esperienza, si adoperò per costruire depositi coibentati dove conservare la merce e espanse il proprio commercio anche a Cuba, nonostante l’embargo. Data la deperibilità del prodotto, divenne presto un materiale ambito e prezioso e non c’era famiglia delle colonie che non ambisse a possedere del ghiaccio di Tudor, le cui tecniche di trasporto erano ormai perfezionate.
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Questo era il momento di espandere i propri confini. Nel 1833 partirono i primi carichi per la lontana India (2600 km e 4 mesi di viaggio), dove il ghiaccio arrivò con una perdita del 30%, ma
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ancora in condizioni per trarne un profitto. Per i 20 anni successivi, la tratta Boston Calcutta contribuì a portare il ghiaccio a milioni di Indiani desiderosi di refrigerio e fece diventare Mr Tudor uno degli uomini più ricchi del proprio tempo. Il ghiaccio proveniva dai freddi stagni del Massachussetts, dove veniva raccolto tagliandolo secondo criteri ben precisi e poi veniva conservato in apposite ghiacciaie coibentate, dove restava disponibile per il commercio. Lo stesso porto di Boston deve gran parte del suo sviluppo proprio alla tratta del freddo. Le navi che trasportavano ghiaccio divennero presto navi a doppio utilizzo: assieme al freddo carico, era possibile trasportare carne e pesce verso destinazioni lontane.
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L’utilizzo nelle bevande, che era così popolare presso gli indiani e gli americani, era invece mal visto dagli Europei, che non mancavano mai di stupirsene. Confesso che, anche ora, gli italiani in vacanza in Florida restano sempre molto colpiti dalla quantità di ghiaccio che viene servita nei bicchieri. Ma, a parte questo aspetto voluttuario, il ghiaccio trovava largo utilizzo anche per la produzione di gelati, per la conservazione nei magazzini dei prodotti deperibili come carne, pesce e latticini e, soprattutto, in campo medico-ospedaliero, per anestetizzare i tessuti, ridurre i traumi oltre a essere utile per refrigerare gli ambienti, in modo da rendere più sopportabile il ricovero.
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Per restare in tema di ghiaccio, vi propongo un cocktail analcolico, il preferito a casa nostra, opera di quel barman di mio fratello!
COCKTAIL ELEONORA
Ingredienti
200 ml di succo di mirtillo nero / 100 ml di ginger beer/ mezzo lime a spicchietti/ 1 cucchiaino di zucchero di canna/ ghiaccio a cubetti o tritato PREPARAZIONE: 1. Prendete un Tumbler o uno shaker 2.
Mettete dentro mezzo lime tagliato in quattro cubetti (se bello succoso, altrimenti anche qualche cubetto in più), aggiungete un cucchiaino di zucchero di canna (opzionale, è già tutto molto dolce ma da un po' di corpo al cocktail)
3.
Pestate con un pestello da barman
4.
Aggiungete il ghiaccio spaccandolo a mano col pestello oppure ghiaccio tritato
5.
Aggiungete mirtillo e ginger beer, mescolate delicatamente e servite come uno spritz in un balloon decorato con uno spicchio di lime e un rametto di menta fresca
6.
Nota: strofinate un paio di foglie sul bordo del bicchiere e sullo stelo del calice e sentirai il profumo di menta ad ogni sorso!
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FROM ZERO TO HERO È TUTTA UNA QUESTIONE DI
TEMPERATURA a cura di Michela Bongiorni
Ce lo avete sentito ripetere fino allo sfinimento: il cibo è cotto quando è cotto, non esistono tempi di cottura, ma solo temperature di cottura. Non vogliamo però che questo diventi un mantra da ripetere all’infinito fino a perdere il suo significato, un po’ come quando i bambini ripetono una parola tante volte fino a scomporla e a svuotarla di senso. Torniamo dunque a parlare di questo aspetto fondamentale, sia nel mondo delle griglie ma anche in quello della cucina in generale, ai fini di un risultato sempre ottimo e sempre replicabile.
PERCHÉ NON HA SENSO PARLARE DI TEMPI DI COTTURA? Le variabili in gioco sono troppe per poter stabilire a priori quanto ci metterà il Pulled Pork a pullare o il Brisket a trasformarsi in quell’arrosto gelatinoso e succulento che tutti amano.
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A che temperatura inseriamo la carne in cottura? Qual è la temperatura esterna al nostro dispositivo (grigliare d’agosto in Sicilia non è uguale a grigliare in inverno in Trentino)? La carne è marezzata? Non lo è? E’ frollata o no? Qual è il suo peso? Qual è la sua forma? Potremmo continuare, ma il concetto è chiaro: non si può dare un tempo preciso di cottura per ogni tipo di preparazione, perché non siamo a conoscenza di ogni singola variante che si verifica ogni volta che ci mettiamo a grigliare. Potremmo dare un tempo approssimativo (che sicuramente aiuta a districarsi nel labirinto delle cottura) ma come sapete non è l’approssimazione il nostro obiettivo. Noi qui vogliamo raggiungere la perfezione.
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Per questo motivo, l’unico modo che abbiamo per gestire bene le nostre cotture grilling e barbecue essendo sicuri di raggiungere sempre un risultato eccezionale è quello di conoscere le temperature target di ogni singola preparazione: sappiamo che il Brisket è pronto quando,
con certe condizioni e con certi accorgimenti che oggi non tratteremo nel dettaglio, raggiunge i 95°C; che il Pulled Pork pulla al raggiungimento dei 98°C, che una bistecca non può superare i 55°C al cuore se la si vuol servire ancora ben rosata all’interno. Ovviamente, ci sarà uno strumento che sarà sempre il miglior alleato in tutte queste situazioni: il termometro. In commercio ne esistono di tutti i tipi, da quelli più essenziali a quelli più complicati e tecnologici. Semplificando un po’, possiamo dirvi di scegliere un termometro a spillo che misura la temperatura istantaneamente (come quello Weber, per intenderci) per le preparazioni grilling veloci (una bistecca, un hamburger, un filetto di maiale, il pesce), e di optare per un termometro a sonda per le praprazioni più lunghe e per le cotture barbecue: lasciando sempre inserito il termometro all’interno non sarete costretti ad aprire il coperchio del vostro dispositivo rischiando di far avere continui sbalzi di temperatura al cibo, che invece come sappiamo in questi casi necessita di una cottura stabile e costante.
TEMPERATURE DI COTTURA: AD OGNUNO LA SUA Come abbiamo detto, quasi ogni preparazione prevede una temperatura target: il Pulled Pork 98°C, Il Brisket e le Beef Ribs 95°C, le Pork Ribs oscillano tra una temperatura di 85°C (qualora le si preferiscano più tenaci) e una di 95°C (se le preferiamo talmente morbide che si stacchino dall’osso); sarebbe impossibile fare una lista completa delle temperatura di ogni singola preparazione. Possiamo però darvi delle indicazioni di massima, in modo che possiate cominciare a comprendere qual è il range di temperatura che dovete tenera a mente quando state per griglare un pezzo di ciccia, un bel pesce o un crostaceo. Vediamole insieme.
Pollo e tacchino: sono carni rischiose a causa della contaminazione batterica, per cui la temperatura ideale è quella di 75°C. Per essere sicuri che sia effettivamente cotto nel modo corretto, nel caso in cui si voglia cuocere il volatile intero il termometro va infilato nel punto in cui il calore fa più fatica ad arrivare: la parte interna della sovracoscia. Maiale: alcune preparazioni di tagli tenaci richiedono temperature interne altissime, per permettere lo scioglimento del collagene presente (il Pulled Pork); in utti gli altri casi il maiale non può essere servito al sangue o poco cotto: la temperatura deve essere di 72°C. Il filetto può anche essere servito più rosato e quindi una temperatura inferiore che si attesti intorno ai 65°C.
da 50°C a 55°C: carne al sangue da 55°C a 65°C: carne a media cottura da 66°C a 70°C: carne ben cotta
Agnello: La temperatura minima consigliata per l’agnello è di 65°C. Dal tipo di taglio e secondo i gusti è possibile raggiungere anche gli 80°C circa Pesce e crostacei: il pesce ha una caratteristica particolare: più viene cotto, più tende a sfaldarsi. Anche se la misurazione potrebbe risultare in alcuni casi difficile, una temperatura interna sui 63°C garantirà succosità e sicurezza alimentare. Per i gamberi, e per i crostacei in generale, la temperatura ideale è compresa tra 58°C e 62°C.
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Manzo: lasciando da parte casi specifici come il Brisket o le Beef Ribs che necessitano di lunghissimi tempi per far sciogliere il collagene, nel caso di bistecche, hamburger, roast beef, pit beef ab-
biamo possibilità di scegliere il grado di cottura interna che preferiamo, quindi più che una singola temperatura, abbiamo fasce di temperatura alle quali attenerci:
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y l l i h PCheesesteak
La ricetta scientifica a cura di Gianfranco Lo Cascio
LA RICETTA SCIENTIFICA
P
er parlare di questo panino che potrebbe sostituire un pasto unico, cioè l’unico pasto della settimana, dobbiamo partire necessariamente dalla città di Philadelphia e dalla storia di due fratelli italo-americani. Il fagotto tostato e ripieno di carne croccantella e formaggio filante che voglio insegnarvi a preparare, nasce infatti dallo stupefacente e inesauribile genio italico. Era il 1930 quando Pat e Harry Olivieri si inventarono il Philly Cheesesteak.
Tutto nasceva un po’ per caso: gli Olivieri erano intenti a vendere hot-dog ai lati delle strade quando un giorno, esseendo finite le salsiccette, provarono a cuocere sulla piastra delle fettine sottili di manzo. Un tassista di passaggio ne fu ammaliato e, quando lo assaggiò, suggerì ai due fratelli di iniziare a venderlo. Il cambio menù fu così azzeccato che presto Pat ed Harry aprirono una paninoteca tutta loro, ancora oggi in attività, il “Pat’s King of Steaks”.
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Frank Olivieri, pronipote di Pat ed Harry, gestisce ancora quella stessa e leggendaria attività. Ai giornalisti che gli chiedono come si prepari il vero Philly Cheesesteak risponde: “È uno sfilatino di pane leggermente abbrustolito ma non croccante, farcito con straccetti di manzo, più precisameente di ribeye, un taglio molto saporito e tenero. La carne poi viene condita con formaggio fuso e cipolle.”
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LA CISTECCA: DA PHILADELPHIA A MONTE DI PROCIDA Philadelphia e Monte di Procida distano, in linea d’aria, ben 7.193,05 km l’una dall’altra ma la storia non spreca mai occasione per farci notare quanto sia piccolo il mondo. Durante il primo ventennio del 1900 Monte di Procida, come tutte le piccole città costiere di provincia, offre pochi stimoli e nessuna alternativa di vita se non quella di imbarcarsi sulle navi di qualche facoltoso armatore. Ha inizio così un importante flusso di emigrazione verso l’East Coast americana dei montesi in cerca di fortuna. Quelli che sono partiti, conosciuti ai più come “montesi d’America”, sono stati in grado di reinventarsi senza perdersi d’animo, lanciandosi nel settore della ristorazione. Gli anni ‘70 e ’80 sono invece quelli dell’emigrazione di ritorno: dopo aver esportato nei ristoranti americani le lasagne, le polpette di mammà, la parmigiana e la pastiera, chi tornava a Monte di Procida si portava dietro “la cheesesteak”. È proprio in quel periodo che inizia la forte contaminazione tra nuovo continente e piccola cittadina. Nel 1984 i montesi Luigi Coppola, Ernesto Coppola e Luigi Guerrini, dopo una lunga gavetta negli USA, si ritirano a Monte di Procida per aprire una paninoteca tutta loro: Chalet Sunrise. Al Sunrise sono stati i primi a servire la cheesesteak, inizialmente nella versione americana, successivamente “montesizzata”.
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Leonardo, figlio di Luigi Coppola, spiega che non era stato facile trovare la giusta amalgama per riprodurre perfettamente il panino. Vennero consultati i migliori macellai della zona per la ricerca del taglio di carne perfetto, mentre i panettieri dovettero studiare la consistenza e la forma più congeniale per quel panino specifico. Riuscirono non solo a replicare il piatto, ma a renderlo americano. Infatti nel corso del primo anno “di vita” del sandwich importato, anche sul promontorio flegreo la farcia era fatta di semplice carne con formaggio. Tuttavia, non c’è voluto molto tempo per capire che a quella “marenna” (merenda) mancava un po’ di italianità.
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Complici gli usi e costumi locali, il panino si è arricchito dei più svariati contorni: patate fritte, parmigiana, peperoni, melanzane a funghetto, friarielli saltati in padella (cimee di rapa), etc. Non a caso il panino più richiesto era la “Cheesesteak
completa” con formaggio fuso, friarielli, funghi e peperoni. Ancora adesso è tra i più venduti. Così il Philly Cheesesteak è diventato la “Cistecca Montese”, very Italian nel gusto e nel lessico. Oltre al panino, i tre soci hanno introdotto nel menu altre preparazioni prettamente americane: milkshake, macedonie con gelato e banana split, tutte dall’inconfondibile sapore statunitense. Tutte le paninoteche del posto hanno inserito la nuova ricetta del panino americano e accanto al Sunrise hanno aperto vari altri chalet panoramici, primi tra tutti i pub Paradise e Dream View. Grazie a loro la Cistecca è diventata simbolo e parte integrante della vita montese, tanto che negli anni ci si è costruito attorno un vero e proprio rituale. Una grande differenza fra la versione americana e quella campana sta nella carne: qui una volta cotta sulla piastra, si fa a pezzetti più piccoli grazie all’aiuto di due spatole piatte. L’operazione di sminuzzamento della carne prende il nome americanizzato di “ciappiare”, verbo che deriva dall’inglese “to chop”. Per questo a Monte di Procida la cheesesteak si è sempre “ciappiata”, mai sminuzzata. Come quando un montese dice che va ad apparkare la macchina: semplicemente la va a parcheggiare, “to park”. Frank Olivieri spiega che a Philadelphia il Philly viene servito ancora come nel 1930: carne, formaggio e cipolle, e come extra al massimo funghi o peperoni. Nel complesso, è rimasto il panino di una volta: il simbolo dello street food più fast che possa esserci in giro. La gente passa a prenderlo e lo mangia in strada mentre cammina. Per facilitare la degustazione, gli americani tagliano una delle due estremità del panino; così sulle prime si affondano i denti solo nel morbido e non nella sezione che in Campania si chiama “cuzzetiello”. La parte finale invece serve ad assorbire i sughi della carne e nel formaggio fuso, così diventa bello morbido e succoso. Frank, che odia gli sprechi, confessa che quelle parti non vedono la pattumiera: solitamente le usa per preparare il pangrattato o le dona ai senza tetto. E a chi gli racconta che in Italia esiste una versione del suo panino un po’ stravolta risponde: “Non fa niente, non voglio litigare con qualcuno di Napoli”.
Pat’s King of Steaks di Philadelphia - immagine tratta da wikipedia
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la Cistecca Montese - immagine tratta dal web
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CHEESESTEAK: COME SI FA 01. IL PANE Il pane, in tutte le preparazioni in cui funge da contenitore, viene spesso visto come elemento secondario, di poca importanza. Si compra quel che si trova a buon mercato, tanto serve solo tenere insieme gli ingredienti, giusto? Sbagliato. Il pane è una prerogativa fondamentale per qualsiasi panino. Provate a pensarci: lavorate sodo per realizzare l’hamburger migliore della vostra vita, spendete ore e ore per cuocere minuziosamente un pulled pork da maestri, e poi per colpa di una materia prima scadente vi si sfracella tutto al primo morso, rovinandovi l’esperienza. Non si fa, non è cosa. Ragioniamo quindi sul risultato perfetto che ci interessa ottenere, in modo che sia possibile prepararlo in totale autonomia a casa nostra, aiutandoci a raggiungere il Nirvana boccone dopo boccone. Abbiamo bisogno di un panino estremamente friabile, dalla mollica presente ma leggera, che ceda al morso senza fatica, resista alla tostatura e che sia neutro in quanto a sapore, per lasciare il più completo spazio alla sinfonia di ingredienti che dovrà contenere. Dimenticatevi quindi farine integrali o di cereali diversi dal grano tenero: stiamo cercando un gusto equilibrato, estremamente scioglievole, una mollica che risulti arioso e quasi inesistente al palato pur conservando una sua struttura. Tradizionalmente il Philly Cheesesteak si consuma con un pane strutturato ma soffice, che sostanzialmente è una sorta di baguette più cicciotta, con un’idratazione del 60-62%, senza le classiche estremità appuntite. In mancanza d’altro, spesso è possibile trovare ricette che utilizzano proprio la baguette francese come sostitutivo, ma risulta poco idoneo per i nostri scopi, perfetto come friabilità ma non come mollica. Bassa idratazione, crosta troppo dura e mollica troppo piena; se non stiamo attenti, la resistenza al morso sarà troppo elevata e gli ingredienti ci scapperanno tutti di lato.
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Un altro classico sostituto del Philly Cheesesteak è la nostra ciabatta, un formato ad alta idratazione (75-80%), molto scioglievole ed etereo, che tuttavia presenta i difetti opposti: poca mollica (quasi inesistente a dire il vero), e quindi totale scomparsa dopo la particolare tostatura che il panino deve subire.
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Come fare? Semplice, combiniamo i metodi e facciamo una pratica via di mezzo tra le due soluzioni: un pane friabile e strutturato come la baguette, croccante e scioglievole come la ciabatta.
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L’IMPASTO Come già anticipato, ci servirà una farina bianca, di forza medio-alta e dall’assorbimento farinografico minimo sufficiente per sostenere un’idratazione più elevata della classica baguette. Per aumentare la friabilità e garantire uno sviluppo omogeneo della mollica, ci rifaremo alla tecnica del poolish, un pre-fermento di origine polacca e adottata dalla Francia sin dal XIX secolo. In sostanza si tratta di un impasto liquido ottenuto mescolando farina e acqua in pari quantità, più una percentuale di lievito che dipende dalle ore di maturazione scelte; la temperatura ideale per la lievitazione è di circa 20°C-22°C, e il poolish è maturo quando il volume è raddoppiato e tende a cedere al centro, con una crepa ben visibile. Tale tecnica vi assicura alveoli piccoli e ben distribuiti, un effetto crunch superiore, la maglia glutinica molto estensibile grazie all’acqua in eccesso che accelera l’attività enzimatica. Il sapore è più pungente, a causa della presenza di acido acetico e alcol. Per realizzare l’impasto ci atterremo ad un’idratazione del 70%, ma è fondamentale che la farina utilizzata abbia un assorbimento minimo (verificabile nella scheda tecnica) di almeno il 60-62%; in caso contrario, l’impasto non avrà la consistenza necessaria per lievitare correttamente in forma, allargandosi in cottura e crescendo in larghezza anziché in altezza.
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Poco sale, in quanto utilizzando il poolish abbiamo già gran parte dell’impalcatura necessaria garantita, e una punta di malto diastasico per una carica enzimatica e zuccherina che servirà sia durante la lievitazione che per la reazione di Maillard in cottura.
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Con maturazioni più lunghe causa pre-fermento infatti e la presenza di una farina bianca (tipicamente ad attività amilasica più bassa) tale aggiunta può rendersi necessaria per mantenere alta l’efficienza del vostro prodotto ed evitare di arrivare alla cottura scarichi di zuccheri, ottenendo un prodotto basso, pallido e sgonfio.
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INGREDIENTI
Ingredienti per circa 6 panini
Per il poolish: 400 g di farina di grano tenero di tipo 0 (270-280 W); 400 g di acqua; 1 g di lievito di birra fresco.
Per l’impasto 600 g di farina di grano tenero di tipo 0 (270-280 W); 300 g di acqua; 15 g di sale fino; 5 g di malto diastasico in polvere (o 20 g di malto diastasico in sciroppo); 0.5 g di lievito di birra fresco.
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Preparazione del poolish Mescolate gli ingredienti in una ciotola, fermandovi non appena la farina risulterà completamente idratata. Non dovete impastare e formare glutine, ma solo uniformare il composto. Coprite con pellicola e lasciate maturare a una temperatura di 20°C-22 °C per 12 ore. Il poolish sarà pronto quando prossimo al collasso, ovvero quando inizierete a notare delle crepe sulla superficie. Impastamento In una ciotola o nella vasca della vostra impastatrice o planetaria versate tutta la farina, il malto, il lievito (che servirà come starter per far partire la lievitazione) e i 3/4 dell’acqua della ricetta e iniziate a impastare, fino a ottenere una massa uniforme e asciutta. A questo punto aggiungete il sale, e proseguite mettendo l’acqua a poco a poco, solo quando la precedente risulterà perfettamente assorbita. Chiudete l’impasto quando risulterà liscio, uniforme e ben incordato. Ripiegatelo sul banco per dargli una struttura, oliate un recipiente (possibilmente con i bordi alti e stretti per consentirgli di crescere in altezza), chiudete ermeticamente e mettete a lievitare a una temperatura di 26°C-28°C per un’ora.
Dopodiché, appiattite ogni panetto,
Infarinate un canovaccio (abbastanza lungo) e stendetelo sulla teglia, appoggiate un filone (con il lato della chiusura verso l’alto) e poi il successivo, tirando un po’ il tessuto tra uno e l’altro per tenerli separati. In ogni teglia da 30x40 cm riuscirete a mettere 3 filoni. Appretto Coprite con un altro canovaccio e lasciate lievitare per un’altra ora a 26°C-28°C, o comunque fino al raddoppio del volume. Cottura Preriscaldate il forno statico a 230 °C e preparate un pentolino di acqua bollente. Appena i filoni saranno pronti, capovolgeteli su una teglia foderata con carta forno. Spolverate leggermente con della farina la parte superiore e fate un taglio longitudinale con una lametta o un coltello ben affilato. Infornate per circa 10 minuti con il pentolino nella parte bassa e la teglia in posizione centrale. Trascorso il tempo, togliete il pentolino e cuocete per altri 5-10 minuti con la porta leggermente aperta per far uscire il vapore e asciugare la crosta, che dovrà risultare croccante, friabile e ben colorata. Sfornate, lasciate raffreddare su una griglia rialzata e preparatevi per farcirle a dovere.
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Staglio e formatura Recuperate l’impasto, ribaltatelo sul piano da lavoro e dividetelo in sei parti uguali, formate delle palline e appiattitele delicatamente per formare un ovale, poi ripiegate l’impasto verso il centro fino a ottenere un panetto regolare allungato. Lasciate quindi riposare (con il lato della chiusura in basso) 15-20 minuti per far rilassare il glutine e recuperare estensibilità.
ripiegate ancora i lembi verso il centro per dare forza all’impasto, servirà a dargli ulteriore struttura e permettergli di crescere in altezza durante l’appretto. A questo punto arrotolate tra le mani per avere una forma allungata e uniforme, tenendo come riferimento la dimensione della vostra teglia, tipicamente da 40 cm.
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02. LA CARNE L’abbiamo detto prima, negli USA il Cheesesteak si fa con la ribeye, ovvero la costata, un taglio davvero morbido e gustoso. Io ho preferito cambiare però, e scegliere una parte del collo che trovo più interessante. Come voi carnivori impuniti saprete, dal chuck (il collo) si ricavano bistecche saporite, tenere ed economiche, le chuck steak, tra cui la mia preferita: la Denver Steak. È una bistecca ricavata da un gruppo muscolare molto tenero del sottospalla, estremamente difficile da tagliare senza rovinare l’intero collo. La sua ricca infiltrazione di grasso dona alla carne sapore e morbidezza, se poi è di Wagyū come quelllo che ho usato per il mio panino, le vostre papille cominceranno a ballare il reggaeton. Potete sostituire la Denver steak con la bistecca che preferite (ribeye, New York strip, flat iron, Vegas, Tri Tip, Teres major) l’importante è che la tagliate davvero sottilmente e contro-fibra, magari semi-congelandola e affettandola a freddo con l’affettatrice, eliminando ossa, il grasso in eccesso e il tessuto connettivo.
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Per riempire 6 panini ci vorrà un bel po’ di carne, almeno 1,2/1,5kg, dipende da quanto volete riempirli.
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LA MARINATURA La marinatura è una tecnica molto complesso anche se apparentemente banale. Spesso il termine viene usato a sproposito, in particolare dai cuochi della TV. Per definirsi marinatura ci devono necessariamente essere delle componenti precise: grasso, acido, sapidità, umami, erbe e spezie. Mettere un pezzo di carne nell'olio e rosmarino (tanto per dire) non vuol dire marinare. Per questa ricetta ho deciso di utilizzare una delle mie marinate, la Black Diamond. È la marinata cazzuta della famiglia. Molto potente, umami, ricorda vagamente la struttura della Teriyaki ma con una punta di affumicato. Va bene per le carni rosse e per il maiale, è perfetta per il quinto quarto e per gli spiedini. L'uso è davvero molto semplice. Partite dal fatto che è estremamente e volutamente concentrata per permettervi di aggiungere il vostro twist personale. Potrete "diluirla" aggiungendo una parte di acqua (o qualsiasi altro liquido a vostro piacimento, non grasso, liquido) e "attivarla" con un pizzico di sale. Immergete la carne e, al solito, più la lasciate lì e più si insaporisce. Per questa ricetta specifica ho aggiunto della birra rossa, in una proporzione di 1:1:3 (1 parte di birra, 1 parte di acqua e 2 parti di marinata). Ho lasciato la carne completamente immersa per 8 ore, ovviamente in frigorifero. Trascorso questo intervallo di tempo ho scolato la marinata, ho asciugato la carne con carta assorbente (più volte) e ho ripassato le mie striscioline sulla griglia fin quando non sviluppavano una bella crosticina. Voi potete scegliere di grigliarle velocemente, cuocerle su piastra in ghisa, lasciarle più croccanti o più morbide. Imparate a calibrare le ricette in base ai vostri gusti, non abbiate timore. A questo punto in America mescolano carne e formaggio sulla fonte di calore, ma io ho avuto un’idea migliore. BBQ4All Magazine 093
03. LA CREMA AL FORMAGGIO Invece di fare una malta di carne e formaggio come da tradizione, o peggio ancora comprare quelle salse schifose che sanno di scarpiera affollata, potete preparare una salsa di formaggio sempre cremosa e che non fila. Chi di voi possiede il “Codice Lo Cascio” lo sa già, ma faccio un ripasso per chi non l’ha mai letto. Si fa in due modi: METODO N°1: LA VERSIONE SEMPLIFICATA CON IL VINO BIANCO Prendete un pentolino, mettetelo sul fuoco 300 ml di vino bianco. Portate a bollore e fate ridurre. Mentre il vino è sul fuoco, grattugiate con una microplane, la grattugia lunga, 400 grammi di formaggio. Aggiungete un cucchiaio di amido di mais al formaggio e mescolate bene, a secco, per amalgamare il più possibile. Quando il vino si è ridotto a 1/3 del suo volume, aggiungete un cucchiaio di succo di limone, abbassate il fuoco e iniziate ad aggiungere il composto di formaggio e amido al vino dealcolato, girando con una frusta. Continuate ad aggiungere, una manciata alla volta, e fermatevi quando la crema si sarà perfettamente addensata. Che cosa abbiamo fatto con questa operazione? L'acidità del vino ha rotto le scatole al calcio che è la colla che "tiene legate" le proteine (caseina). Quando sono legate tra loro, le proteine non vanno molto d'accordo con il grasso. Ma visto che in questo caso il calcio si è sciolto, le proteine si ritrovano a dover dividere la stanza con l'acqua e il grasso in una specie di "brodo" strano. La maizena ad un certo punto dice: "Ma che è sto casino? Dai, su, mettetevi in riga!”. E si mette lì ad unire proteine, acqua e grassi tutti insieme e fa in modo che nessuno si muova. In sostanza stabilizza l'emulsione creata sbattendo con la frusta. Ve la spiego ancora meglio: Il vino contiene acido tartarico, malico e citrico. I sali di questi acidi, specialmente di quello citrico, legano il calcio e allentano i legami delle proteine. In questo modo si crea il "brodo" di caseina, acqua e grasso. Il movimento con la frusta emulsiona questi elementi e l'amido fa da stabilizzante, restituendoci una bella crema. Senza questi "sali di fusione" il calcio impedisce alla proteine di rompersi (denaturazione) e queste, col calore, continuano ad allungarsi ma senza rompersi. Ecco perché il formaggio fuso fila. La mozzarella scaldata fila perché contiene molta acqua e poca acidità. Il calcio non si lega e le proteine si allungano.
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In questa versione "facile" c'è ovviamente una componente aromatica lasciata dal vino e un'acidità presente. Ma il punto è che abbiamo iniziato a capire qual è il processo che ci permette di non far filare il formaggio per ottenere una crema.
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Volendo andare allo step successivo bisognerà necessariamente iniziare a lavorare con i soli sali di fusione, che vi assicuro non avranno ripercussioni aromatiche. Il citrato di sodio, appunto, aprirà le porte a mondi e modalità di cottura fino ad ora impensabili per voi.
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METODO N°2: LA RICETTA CON IL CITRATO DI SODIO Cos'è il citrato di sodio? Il citrato di sodio, comunemente conosciuto anche come sale acido, sale citrico o citrato trisodico, è un sale cristallino che si trova naturalmente negli agrumi. Prodotti da una reazione chimica durante la fermentazione dell'acido citrico, questi cristalli bianchi hanno un sapore salato e leggermente aspro, che viene spesso utilizzato come agente aromatizzante in bevande come succhi, soda e bevande energetiche. Il citrato di sodio è un comune sequestrante che agisce come stabilizzante e migliora la qualità del cibo. Con l'aggiunta di un po' di citrato di sodio possiamo fondere perfettamente quasi tutti i formaggi esistenti sul globo terraqueo. Quali sono gli utilizzi del citrato di sodio? Il citrato di sodio è l'ingrediente segreto di tutte le salse al formaggio presenti in commercio. È molto facile da usare: basta sbatterlo in un liquido e poi mescolarlo al formaggio sul fuoco et voilà, salsa al formaggio liscia e fluida. Riduce l'acidità del formaggio, rende le sue proteine più solubili e impedisce che si separi. Le salse di formaggio preparate col citrato possono essere raffreddate e riscaldate, modellate o tagliate a mo’ di sottiletta. Il citrato di sodio è anche un ingrediente comune della cucina molecolare e viene integrato nella tecnica della sferificazione. Viene spesso aggiunto a liquidi altamente acidi per aiutare a neutralizzarli e promuovere la gelificazione. Inoltre riduce il contenuto di calcio (che previene la gelificazione precoce) in altri liquidi. Nell’industria alimentare viene utilizzato come emulsionante, conservante e come tampone. È un ingrediente chiave nelle comuni bevande a base di soda e previene la coagulazione dei grassi nel gelato. Dove si acquista il citrato di sodio? Online, sugli e-commerce specializzati, oppure nella vecchia e cara farmacia.
Quanto citrato di sodio bisogna usare per la salsa di formaggio? Lo spessore della salsa dipenderà dal rapporto tra liquido e formaggio. 0% - 35% di liquido sul peso del formaggio darà un formaggio sodo, da tagliare a fette 35% - 85% di liquido sul peso del formaggio - darà una salsa di formaggio densa e fluida 85% - 120% di liquido sul peso del formaggio - darà una salsa di formaggio sottile, ideale per condire la pasta 120% di liquido o più - darà una salsa molto lenta e acquosa. L’ingrediente finale da aggiungere è il citrato, grazie al quale il formaggio rimane unito mentre si scioglie. Di solito viene utilizzato in un rapporto tra il 2,0% e il 3,0% del peso totale del liquido, più il formaggio. Dal momento che il citrato di sodio apporta un sapore salato e aspro, è importante usarne una quantità appropriata, tenendo presente il sapore finale del piatto. Come si prepara la crema di formaggio con il citrato di sodio? Ci sono tre componenti principali per fare una salsa di formaggio fuso con citrato di sodio: il formaggio, il liquido, e il citrato di sodio. Variando la quantità di formaggio e di acqua utilizzata cambierà lo spessore risultante del formaggio fuso. Per preparare le vostre salse al formaggio, individuate prima quale sapore debba avere la preparazione. Poi scegliete un formaggio o due che si adattino a quel profilo gustativo. Ricordate, qualsiasi formaggio che non sia super-stagionato andrà benone. Poi, scegliete un liquido che completerà il formaggio: birra, vino, sidro, brodo, latte o succhi di frutta. A seconda della consistenza finale desiderata, potete usare il 35% di liquido, per un formaggio da affettare, fino al 120% per una salsa sottile e fluida.
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Come si aggiunge il citrato di sodio al liquido? Il citrato di sodio si disperde e si idrata facilmente a qualsiasi temperatura del liquido, tuttavia si dissolve più velocemente e più facilmente quando viene riscaldato. Una frusta da
pasticceria è sufficiente per mescolarlo a dovere, ma il frullatore a immersione aiuta molto a emulsionare il formaggio.
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LA RICETTA SCIENTIFICA INGREDIENTI PER 6 PERSONE • 6 panini preparati come da ricetta o 6 ciabatte/sfilatini morbidi • 1,2 kg di Denver Steak di Wagyū GLC Top Selection (sostituibili con ribeye, New York strip, flat iron, Vegas, Tri Tip, Teres major) • 1 confezione di marinata Black Diamond • 1 bottiglia di birra rossa Per la salsa al formaggio • 200 g di Emmenthal • 100 g di Cheddar • 300 g di latte intero • 10 g di citrato di sodio Varianti per la salsa di formaggio Con Cheddar stagionato e formaggio svizzero • 270 g di Cheddar stagionato • 30 g di formaggio svizzero Con Gorgonzola e Fontina • 60 g di Gorgonzola dolce • 260 g di Fontina
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Con Gouda e Cheddar di capra • 150 g di Gouda di capra • 150 g di Cheddar di capra
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PROCEDIMENTO Tagliate sottilmente le bistecche semi-congelate (è più facile affettarle da fredde) e immergetele nella marinata fatta con 100 grammi di birra, 100 grammi di acqua e 200 grammi di marinata Black Diamond. Lasciate in infusione per 8 ore in frigorifero, coprendo tutto con la pellicola. Procedimento per la crema di formaggio Versate l’acqua e il citrato di sodio in un pentolino, dissolvete la polvere aiutandovi con una frusta e portate tutto sul fuoco. Aggiungete il formaggio (o i formaggi) grattugiato finemente, un cucchiaio alla volta, mescolando continuamente. Non vi fermate fin quando la salsa non risulta perfettamente liscia ed emulsionata. Potete eventualmente utilizzare un mixer ad immersione. Conservate la salsa a bagnomaria o comunque al caldo, perché raffreddandosi si addenserà troppo. Oppure: Preparate il bagno termostatico per il sous-vide impostando una temperatura di 75°C. Grattugiata i formaggi, unite il latte e il citrato e chiudete il sacchetto. Fate sciogliere per circa 15 minuti, o quando il formaggio sarà completamente fuso. Trucchetto: se notate che il grasso comincia a separarsi dall’acqua (se l’emulsione si rompe in pratica) portate il composto a bollore e emulsionate a caldo con il mixer ad immersione. Se anche questa operazione non dovesse risultare efficace, barate e aggiungete un cucchiaio di panna fresca e mescolate. ASSEMBLAGGIO DEL PANINO Successivamente asciugate con cura la carne e cuocetela fin quando non sviluppa una crosticina brunita. Tagliate a metà i panini, togliete un po’ di mollica e piastrate l’interno leggermente unto con olio sulla griglia o sulla piastra. Strato abbondante di carne sotto e colata di formaggio a fiotti sopra. Sapete cosa c’è a Philadelphia? Esatto, la famosa scalinata di Rocky. Non ci basterebbe farla tutta per smaltire questo panino, ma in fondo chissene, noi siamo combattenti e combattiamo (cit.). BBQ4All Magazine
Gianfranco Lo Cascio
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Capacità, resistenza, impedenza, reattanza.
Seguo.
a cura di Emiliano Nencioni
Molti di noi hanno passato la prima infanzia a indossare scarpe e indumenti raccomandati dalle autorità genitoriali o scolastiche di turno, affidandosi anche di buon grado a queste indicazioni che erano piccole imposizioni, per poi trascorrere adolescenze tumultuose in completa ribellione stilistica, adottando outfit controversi e impresentabili per il solo gusto di opporsi a scelte provenienti dall’esterno, rivendicando senza un reale bisogno il diritto a un’espressione personale e spontanea delle proprie preferenze.
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Cosa è scattato nel frattempo? Probabilmente è maturata e si è manifestata la reattanza psicologica.
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Esempi adolescenziali a parte, una volta allenati a riconoscerla possiamo trovare manifestazioni di reattanza psicologica in ogni dove. E sì, anche nel barbecue, nel grilling, nella cucina scientifica e in molte altre cose in topic su questa rivista. “Allora i pomodorini me li metti nel forno su una leccarda, con aceto di mele, zucchero di canna, salsa di soia, mi raccomando interi.” “No, li ho aperti tutti a spicchi” “Ma come! Ti avevo detto di lasciarli interi! Perché li hai tagliati?” “Eh, perché mi andava.” “Allora il brisket me lo insaporisci con un rub di solo sale, pepe e aglio, poi quando è arrivato al target di 95°C lo tieni in rest attivo a 75°C per due ore.” “Invece sono arrivato fino a 98°C e poi l’ho portato subito in tavola, era un po’ sfaldato.” “Ma se ti avevo detto 95 e rest per due ore!” “Ma io invece faccio così.” “impanate le melanzane…” “E io non le voglio impanare. Ecco.”
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Tutto così. Quelle che sembrano resistenze ingiustificate o ribellioni infantili in realtà sono per lo più manife-
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stazione di un meccanismo molto importante per tutta una serie di implicazioni sociologiche, non ultima la tenuta democratica di uno stato. Come arriviamo, partendo dalla ripicca di tagliare i pomodorini, ai rovesciamenti di regimi dittatoriali opprimenti? Con una funzione impiantata e inestirpabile nel nostro cervello: la reattanza psicologica. La reattanza psicologica è un bias cognitivo che descrive le reazioni estreme sperimentate quando ci sentiamo come se fossimo spinti a fare qualcosa o come se la nostra libertà di fare scelte fosse minacciata. Studia, copriti, non sudare, entra in ufficio in orario, paga i fornitori in tempo, metti il pulled pork in foil, tutte queste cose qua che qualcuno ci dice “debbano” esser fatte. La reattanza è un meccanismo di difesa psicologica che utilizziamo più o meno inconsciamente per cercare di recuperare la nostra libertà: ah, è la regola? E allora sai che c’è, non lo faccio. Diventiamo "eccitati motivazionalmente", il che significa essere inondati da un eccesso di motivazione che ci porta a lottare per quelle libertà. Una motivazione fatalmente maggiore e più efficace di quella che dovrebbe portarci a seguirla, la regola. O il consiglio. O il buon senso.
I primi studi sull’argomento sono stati svolti, manco a dirlo, per questioni di marketing: una pubblicità che lascia l’impressione di non essere libero di scegliere si è presto rivelata controproducente, così come un distributore di bibite che, una volta inserito le monete, iniziasse a lampeggiare e a incaponirsi sull’erogazione di un prodotto specifico: immediatamente qualcuno preferirà una bibita diversa. Sarebbe come se obbligassimo a mettere nello stesso ordine di una New York Strip solo e soltanto un rub Montreal: vietato comprare rub a base di paprika. Noteremmo ben presto sollevazioni popolari. A parte la nozione di base che le persone sono motivate a ripristinare specifiche libertà comportamentali che sono minacciate o sottratte loro, l'aspetto più innovativo della teoria è il principio di implicazione. Il principio di implicazione presuppone semplicemente che una minaccia a una particolare libertà possa essere spesso vista come una minaccia ad altre libertà. Consueto esempio fra virgolette: “Non puoi andare alla pizzata con i tuoi amici del calcetto, non mi piacciono” …E se un giorno mi proibisse anche di andare al cinema con gli amici della bocciofila e di andare al mare con le amiche del club del libro? E se accettando di volta in volta pensasse di poter decidere di ogni mia serata? “Non si possono postare foto di pietanze senza un minimo di descrizione, non si possono pubblicare foto con marchi di macellerie online” …Stai a vedere che questa moderazione spietata un giorno arriverà a proibirmi di vantarmi dei miei successi in cucina, o peggio limiterà il mio bisogno di svuotare l’intera libreria foto del mio cellulare in un gruppo pubblico - questi aguzzini!
In un supermercato che tendesse a presentare sugli scaffali una presenza massiccia di bibite “a marchio proprio”, relegando in un angolino i prodotti mainstream, potremmo essere portati a percepire il prodotto low cost della catena in questione come invadente, repressivo, inutilmente forzato nei nostri carrelli, e arrivare a detestare il marchio in-house in questione non solo per le bibite, ma anche nella scelta dei prodotti in scatola, dei surgelati, dei tovaglioli e dei detersivi. Una perdita per il supermercato (che probabilmente ha più margine sul suo prodotto) e un’occasione di risparmio persa per il consumatore. Ma c’è molto di più di queste questioni di marketing, che per quanto futili hanno l’indubbio merito di finanziare ricerche socio-psico-economiche che altrimenti non verrebbero mai intraprese.
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In questi esempi ci sono minacce implicite ad un discreto numero di libertà, anche di entità minore: se una persona è in grado di decidere con chi puoi permetterti di mangiare una pizza potrà anche condizionare gli appuntamenti al circolo del tennis, le sessioni di Dungeons&Dragons e non
sia mai che si debba arrivare a vietare le prove col gruppo post-punk fondato ai tempi della terza media. É probabile che le minacce implicite non si applichino solo a “poche” libertà, ma piuttosto a un gran numero di esse, nel corso del tempo, in occasioni future. Da quanto detto sopra si deduce facilmente la probabilità di un nocivo effetto boomerang, in cui la preoccupazione stessa di vedere alcune libere scelte precluse porta ad un autosabotaggio e a tutta una serie di decisioni svantaggiose: non studiare, frequentare brutta gente, non mettersi il cappottino quando è freddo, fare il bagno in mare senza aspettare quattro ore dopo il pranzo, postare foto irrilevanti e altre efferatezze del genere.
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Pensiamo infatti non solo all’immediatamente immaginabile questione del genitore attento che vigila sullo sviluppo culturale e sulla carriera scolastica del figlio, restringendo le distrazioni e inevitabilmente rendendo insopportabile e simile a una tortura immotivata tutto il sacrificio necessario ad uno studio efficace di una disciplina; oltre a queste dinamiche che ognuno di noi può trovare nei propri traumi giovanili, la reattanza psicologica compie danni indicibili anche su altri fronti: complottismo, politica disfunzionale, insorgenza di fake news, ipocrisia. Se siamo costretti (leggi, decreti) a fare o non fare qualcosa finiamo inevitabilmente con una percezione molto negativa riguardo questa imposizione, con un pensiero strisciante fatto di dietrologie e complotti, e con l’esaltante sensazione di essere uno tra i pochi che riescono a percepire tutto l’inganno residente dietro l’obbligo che viene dall’alto. In un capitombolo infinito di paranoia e sfiducia, a molti sembra più logico pensare a interventi alieni, interessi nascosti di una casta supersegreta di pochi individui con il controllo mentale delle masse, strane biotecnologie, impensabili accanimenti contro il tizio che invece asserisce tutt’altro e che - lo puoi cercare su google! - se tu solo ti “svegliassi” capiresti quanto è osannato da tanti siti. Poi magari i siti son tutti di proprietà del tizio in questione ma non essere così fiscale, su.
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Durante gli studi finanziati per i summenzionati scopi di marketing si è concluso, ed era facilmente prevedibile, che più l’individuo sente minacciata la propria libertà di scelta più elevata e feroce sarà la reattanza. Facile dedurre quanto possa variare la gravità del fenomeno passando dall’efficienza di una campagna pubblicitaria di un caffè espresso a qualcosa di più segnante, tipo l’educazione e la cultura di un giovane adulto, la dignità politica di un paese, o la conservazione stessa del nostro pianeta.
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I sempre effervescenti esperti di marketing
sono corsi al riparo, fin da quella che sembra ormai un’era geologica fa, in termini di commercio, con un sapiente uso della psicologia inversa. Non è che ti dico che lo vuoi. Ti dico che la gente che veramente conta lo vuole, fai tu se vuoi continuare a essere una mezza tacca o se vuoi finalmente elevarti. Non ti impongo niente, quindi per piacere non tirarmi fuori quella tua reattanza psicologica altrimenti non vendo nulla e il mio capo fa scrivere il copy vendita a altre agenzie. Non ti dico di comprare il mio prodotto a un prezzo esorbitante. Ti dico che chi lo compra è una persona arrivata e realizzata, che sa come spendere i propri soldi per essere felice, che fa comunella con altre persone arrivate e felici e che mai vorrebbe avere a che fare con chi compra l’altro prodotto a poco prezzo. Vedi tu se fare il salto di specie o rimanere nel tuo brodo primordiale ma affrettati, perchè solo per oggi questo prodotto che ti ricordo costerebbe tantissimo costa, solo per te, il 70% in meno. Ehi, ti ho forse forzato a fare una scelta? No, anzi, prendi pure l’altro prodotto concorrente, non mi interessa, visto che i miei prodotti li comprano solo quelli veramente cool. C’è qualcosa di male in questa strategia? Non direi: forse un po’ manipolatorio, ma sicuramente un escamotage plausibile per continuare pubblicità e vendite senza il paradosso complottista derivato dalla reattanza psicologica. Sfortunatamente, per quanto abbia dei bei risultati nel commercio e nella politica, la psicologia inversa è sempre stata fallimentare quando usata per raddrizzare bighelloni e studenti scaldabanchi. Ad oggi non ci sono evidenze di masse di alunni colpiti nella loro libertà di scegliere di studiare un’oretta in più. Disgraziatamente nello studio sulla reattanza psicologica qualcuno si è dimenticato di considerare l’enorme spinta reattiva della pigrizia, dell’ignavia, del fascino invincibile del complotto alieno presso i cretinetti più comuni.
Emiliano Nencioni
CLUB
Direttam e n t e dalla commu n i ty d i ma e s t r i di barbecue pi ù grande d’Itali a, nas ce i l pres ti gi o s o club ch e t i offre la po s s i bi li tà di avere: acc e s s o p r io r ita r io a l m ega s to re, dove p ot ra i fa re ra zzi e mentre tutti gli altri “ s o no i n coda” ; u na p rogra m ma z i o n e int elligent e dei tuoi acquis t i gra zi e a l cre d i to me ns i le prepagato (s cegli tu quanto ); u n coac h pr ivato che t i guiderà n e l fa r t i vi ve re l’e s peri enza
pi ù ecci tante di s empre
co n la p re paraz i o ne dei tuoi pi atti ; e molto a lt ro a nco ra. . . Av ra i tu tto qu es to s o lo s e t i i s cr i vi s u bito al M EG ASTORE CLUB , l’uni co luogo ri s ervato a una ce rc h ia r is t re tta d i a s p i ra n t i gr i ll ma s t e r c he des i derano apprendere pi ù velocemente e nel modo p i ù accurato po s s i bi le, la s u bli me arte del gri ll . Pu oi d i s i s cri verti quando vuoi e i l tu o c re d i to s a rà s empre dis po nibile.
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H T T PS : / / C LU B M E G ASTO R E . B BQ 4 A L L. I T e ch i e d i i n fo rmaz i o ni pi ù dettagli ate, p r i ma ch e i coach fi ni s cano e le i s cri z i o ni chi udano .
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