BBQ4All Magazine numero 46 - Ottobre 2022

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N°46/ANNO 4 - OTTOBRE 2022

L'EDITORIALE DI GIANFRANCO LO CASCIO

I TAGLI DEL MANZO

CARVERY STEAK

COME SI FA

IL PANE DI SEGALE

DALLE TAVOLE BAVARESI, IL COMFORT FOOD AUTUNNALE:

Stinco alla birra, Funghi ripieni, Ribs e patate, Rouladen mit Spätzle, Currywurst, Salsicce e crauti, Zuppa di patate

LA MAPPA DEL POMODORO DI GASTRONOMICA-MENTE

I PRETZEL PIÙ BUONI MAI MANGIATI

POLPETTE AL SUGO LA RICETTA SCIENTIFICA


Direttore Editoriale Rossella Neiadin

Redattore Capo Michela Bongiorni

Redazione

Enio Berton Virgilio Brunetti Tommaso Buccafurri Nunzia Clemente Roberto Dal Bosco Salvatore Di Mento Luca Gallozza Marco Gerometta Mariangela Ibba Chiara Lo Cascio Gianfranco Lo Cascio Giancarlo Madonna Riccardo Meniconi Giovanni Minelli Emiliano Nencioni Elena Ninotti Francesca Pappacena Raffaele Persichetti Andrea Spaggiari Alessandro Trezzi Carlo Trono Paolo Tucci Alex Vasile Caterina Vianello Alberto Zonghetti Marco Zorzan

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Realizzazione Grafica Impaginazione Carlo Trono Illustrazioni di Eleonora Castagna e Ozzy Bellesi Fotografie di Rossella Neiadin, Luca Gallozza, Tommaso Buccafurri, Elisa Giuli, Emiliano Nencioni

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IN DI Rubriche

Editoriale - I Pretzel più buoni che abbiate mai mangiato

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Portfolio gastronomico - Oktoberfest, l'evento che tutti attendono

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Nice to meat you - Carvery steak

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Ricette

Uno stinco, due ricette

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Funghi champignon ripieni di pulled pork

26

Ribs e pasticcio di patate

29

Rouladen mit Spätzle

32

Currywurst

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Salsicce con patate e crauti

39

Filetto di vaca vieja con burro alle acciughe del Cantabrico

42

Carvery steak e patate apparecchiate

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Brotsuppe e Pork Sausage Cheddar Jalapeno

47

Ne ho facoltà - Bife de chorizo con riduzione di birra e chips di patate dolci

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Approfondimenti

From Zero to Hero - Il girarrosto

54

Gastronomica-Mente - Tomatolandia, come scegliere il pomodoro

58

Arte Bianca - Il pane di segale

70

Approfondimento - Il Jerky

78

La ricetta scientifica - Polpette al sugo

84

Seguo - Di shitstorm e d’altri allerta meteo

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Editoriale di Gianfranco Lo Cascio

I PRETZEL PIÙ BUONI CHE ABBIATE MAI MANGIATO

Fare i pretzel come fanno i panettieri tedeschi combina scienza, artigianato e un pizzico di rischio in polvere. Il processo è divertente. E il risultato? spettacolare.

Fare i pretzel come fanno i panettieri tedeschi combina scienza, artigianato e un pizzico di rischio in polvere. Il processo è divertente. E il risultato? spettacolare. Il pretzel tedesco è una nobile creazione, venerata nel suo paese d'origine alla stregua della baguette in Francia. Forse è per il seducente involucro color mogano, la sua lucentezza satinata o per il suo sapore minerale e distintivo, tutte caratteristiche generate da un veloce bagno alcalino prima della cottura. La mollica è fine ma soddisfacentemente gommosa, peculiarità che rende questo prodotto da forno estremamente versatile: potete abbinare il pretzel a salsiccia e senape, per una colazione sostanziosa come si fa a Monaco, mangiarne un paio sorseggiando birra, oppure affettarlo in orizzontale e riempirlo di carne, formaggio, oppure burro. La ricetta è relativamente semplice, ma c’è un passaggio particolare che ha solleticato il mio interesse come una doccia con l’acqua frizzante: il battesimo dei pretzel nella soda caustica o liscivia, ovvero la polvere che si usa per sturare i tubi. Dovevo capire il perché di quell’ingrediente, relativamente pericoloso da maneggiare, e soprattutto elaborare una procedura che rendesse la preparazione sicura da eseguire, per tutti.

PRETZEL PER PREGARE E PROMUOVERE

PRETZEL E PH: LA REAZIONE DI MAILLARD Perché si immergono i pretzel in un pericoloso miscuglio corrosivo a base di liscivia? Che cos'è la reazione di Maillard e come possiamo controllarla? Quando si preparano i pretzel, l’impasto viene modellato nel tradizionale intreccio e immerso nella liscivia (NaOH, idrossido di sodio) prima di cospargerlo di sale e infornarlo. Questo battesimo è ciò che fa di un lievitato qualsiasi un pretzel e gli conferisce quel sapore speciale e inconfondibile. Ma in che modo l'immersione dell'impasto in una soluzione corrosiva e alcalina influisce sul sapore di quello che è essenzialmente un nodo di pane? In queste pagine vi illustrerò la reazione di Maillard, responsabile del colore marroncino e dei sapori complessi che si sviluppano quando si cuociono gli alimenti ad alta temperatura, analizzerò come questi vengono influenzati dalla soda e condividerò con voi un piccolo esperimento (e la ricetta!). Reazione di Maillard La reazione di Maillard, che prende il nome dal suo scopritore Louis-Camille Maillard, è una reazione chimica tra un amminoacido (i “mattoni” delle proteine) e uno zucchero, come il glucosio o il fruttosio. Spesso definita anche reazione di imbrunimento non enzimatico, crea una molecola in cui

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È dal Medioevo che i pretzel vengono raffigurati nell'arte religiosa accanto a crocifissi e acquasantiere. Nati dalla creatività dei monaci, avevano una simbologia tutta loro: gli spazi vuoti tra i fili di impasto rappresentavano la Santissima Trinità, mentre le corde incrociate raffiguravano le braccia conserte in preghiera. Erano lo snack ideale per la Quaresima, perché non contenevano ingredienti di origine animale, proibiti dall’austera Chiesa dei tempi durante il digiuno primaverile.

Nella Freiburger Münster, la cattedrale medievale di Friburgo, in Germania, i pretzel sono stati incorporati nelle vetrate che rivestono la navata centrale per un motivo ben più laico: promuovevano la corporazione dei panettieri, che aveva fortemente contribuito a finanziare la costruzione della struttura. I pretzel sono fieramente esposti accanto ad emblemi altrettanto gloriosi di boccali di birra per i birrai, stivali per i calzolai e forbici per i sarti. Donazioni di devoti a sfondo pubblicitario.

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l'amminoacido e lo zucchero sono legati. Il risultato dipende dallo zucchero e dall'amminoacido utilizzati. Queste molecole di zucchero e amminoacido (glicosilammine) reagiscono poi con altre molecole creando dei nuovi composti. Questi composti sono ciò che conferisce agli alimenti cotti ad alte temperature il loro sapore complesso e “biscottato” e il loro colore ambrato. Badate bene, non si tratta di caramellizzazione, come molti erroneamente pensano. Sebbene entrambi i fenomeni conferiscano agli alimenti colorazioni simili e sapori complessi, la caramellizzazione è sostanzialmente la scomposizione degli zuccheri e di solito avviene a temperature ancora più elevate (la reazione di Maillard avviene tra l'ammina di un amminoacido libero e il gruppo carbonilico di uno zucchero). Rapido ripasso sulle reazioni Le reazioni chimiche avvengono quando una o più molecole (reagenti) si trasformano in una o più molecole (prodotti). Tutte le reazioni avvengono a una certa velocità. Questa velocità è influenzata da diversi fattori e dipende dalla temperatura, dal numero di molecole presenti e dal pH.

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La reazione di Maillard e la temperatura Bene, ora che abbiamo fatto il veloce ripasso, cosa possiamo fare di utile con i concetti appena acquisiti? Per iniziare, possiamo capire perché molte persone associano la reazione di Maillard alle temperature infernali. La risposta è semplice: la velocità di reazione è maggiore ad alta temperatura. In particolare, la reazione di Maillard aumenta notevolmente al di sopra dei 150 °C, il che spiega perché a queste temperature il pane cuoce, le patate friggo e gli hamburger si grigliano.

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Ma c'è un altro aspetto importante da tenere presente: la velocità di reazione non è pari a zero alle temperature più basse. Questo significa che le reazioni di Maillard possono avvenire anche a temperature più basse, sono soltanto più lente. Ad esempio, se fate bollire una lattina di latte

condensato per due ore (100°C), si trasforma in una crema caramellata marroncina e ricca, non molto diversa dal Dulce de leche, il dolce argentino. E potete abbassare la temperatura ancora di più! L'aglio nero acquisisce il suo colore scuro e il suo sapore complesso grazie alle reazioni di Maillard che si verificano nell'arco di diverse settimane a 60-90°C. Anche il miso e la salsa di soia diventano scuri e saporiti grazie a queste reazioni, ma vengono lavorati a temperatura ambiente per circa un anno. Pretzel, pH e reazione di Maillard Ora sapete qualcosa in più sulla reazione di Maillard e su come genera sapori complessi. Affinché si verifichi la reazione di Maillard tra l'amminoacido e lo zucchero, questo amminoacido deve perdere un protone (passare da -NH3+ a -NH2). E possiamo fare qualcosa per far sì che questo avvenga? C'è qualche trucco da scienziato che possiamo sfoderare? Ebbene sì! Dobbiamo lavorare sul pH. Il pH è un indicatore inverso del numero di protoni liberi, ovvero un pH basso significa molti protoni liberi; un pH alto significa pochi protoni liberi. Per fare dei pretzel saporiti e abbronzati dobbiamo eliminare questi benedetti protoni. Li immergiamo quindi nella soda caustica o liscivia (NaOH, idrossido di sodio), una soluzione a pH alto. Questa soluzione, che ha pochissimi protoni liberi, inizierà a rubare protoni da ogni parte, creando scompiglio e caos. Le proteine dell’impasto verranno distrutte, gli amidi inizieranno a rompersi e gli aminoacidi liberi perderanno alcuni dei loro protoni. Il nostro obiettivo è proprio quest'ultima reazione: privare gli aminoacidi dei loro protoni di riserva per farli reagire più facilmente con gli zuccheri. In questo modo si abbasserà la soglia energetica. O in parole (quasi) povere: la soda caustica renderà gli amminoacidi più inclini a reagire con gli zuccheri e la reazione di Maillard avverrà più velocemente. Di conseguenza, si otterranno reazioni di Maillard significative anche a temperature più basse e tempi di cottura brevi, con il caratteristico sviluppo della doratura e del sapore.


Un buon esperimento Ho provato a preparare dei pretzel e a immergerli in soluzioni diverse dalla soda caustica. In molte ricette viene infatti sostituita dal bicarbonato di sodio, e per 3 motivi: 1 è più facile da reperire, 2 non è così pericoloso e 3 ci permette di ottenere una soluzione con un pH elevato. Ho quindi preparato dei pretzel e li ho immersi in acqua con l'8% di bicarbonato di sodio (pH 10) o il 4% di liscivia (pH 12). Poiché riteniamo che il pH sia il parametro di riferimento, ho provato a immergere i pretzel anche in acqua potabile (pH 7) e in acido acetico (pH 3). Ricordate

che la scala del pH è un po' strana (logaritmica), infatti il pH 12 ha 100 volte meno protoni liberi rispetto al pH 10. Ho preparato un semplice impasto per pretzel (la ricetta è riportata di seguito). Dopo averlo lasciato lievitare, ho modellato i pretzel e li ho messi in frigorifero per 30 minuti (per farli asciugare un po' senza farli lievitare ulteriormente). Poi li ho immersi nelle soluzioni, li ho cosparsi di sale e li ho infornati per 12 minuti a 205°C. I risultati sono riportati in questo grafico:

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L'aceto e l'acqua non hanno sortito nessun effetto e i pretzel non hanno preso colore. Il pretzel al bicarbonato di sodio si sono scuriti di più ed erano buoni, ma non avevano quella nota inconfondibile e amarognola dei pretzel autentici. Il pretzel immerso nella soda, invece, era perfetto. Inoltre, la “pellicina” esterna era è molto più morbida ed elastica, mentre quella del pretzel al bicarbonato risultava più spessa e croccante. Un'interessante nota a margine: alcune ricette utilizzano il bicarbonato di sodio cotto al forno. In pratica, si sparge il bicarbonato di sodio su una teglia e lo si inforna a 175°C per 2-5 ore. In questo modo l'idrogeno viene espulso e il bicarbonato di sodio si trasforma da NaHCO3 a Na2CO3, una sostanza alcalina molto più forte. Quando viene successivamente sciolto in acqua, si ottiene una soluzione con un pH molto più alto rispetto al bicarbonato di sodio puro. Provate anche questo metodo! Conclusioni Ora abbiamo imparato qualcosa di nuovo sulla reazione di Maillard, la reazione chimica tra gli aminoacidi liberi e alcuni zuccheri che sviluppa il

colore dorato e i sapori ricchi degli alimenti cotti ad alta temperatura. Abbiamo anche imparato che, sebbene la reazione di Maillard avvenga soprattutto ad alta temperatura, si verifica lentamente anche a temperature più basse ed è responsabile di alcuni cibi come l’aglio nero, il miso e il dulce de leche. Per fare dei buoni pretzel, il trucco segreto consiste nell'aumentare il pH per forzare la reazione a verificarsi più velocemente. In questo modo si ottiene una doratura saporita dopo soli 12 minuti a 205°C. Come lavorare con la liscivia in modo sicuro L'immersione dell'impasto in una soluzione di liscivia o soda caustica conferisce ai pretzel tedeschi la loro caratteristica salinità, la masticabilità e la superficie liscia e color mogano. Questa miscela, però, è parecchio corrosiva e può letteralmente bruciarvi la pelle. Deve essere quindi maneggiata con estrema cautela, ma qui sotto trovate una guida per preparare i vostri pretzel in totale tranquillità. Psst! Niente panico, la liscivia dopo la cottura è totalmente sicura da mangiare, perché il calore la neutralizza.

La verità, vi prego, sulla soda caustica Immergere l'impasto in un intruglio di acqua e soda è una cosa curiosa, ma l'impatto di questa soluzione sull'impasto è davvero eccezionale:

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1. Aumenta la doratura accelerando la maillardizzazione e la caramellizzazione degli zuccheri nell'impasto. 2. Conferisce l'odore e il sapore unici dei pretzel inibendo la creazione dei composti aromatici tipici dei prodotti da forno e stimolando la formazione di altri, oltre ad aggiungere l'inconfondibile sapore minerale 3. Gelifica l'amido in superficie, in modo che i pretzel durante la cottura diventino lisci e lucidi.

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Quanto più forte è l'alcale, tanto più intensi e impressionanti saranno i risultati, ed è per questo che i panettieri tedeschi usano la soda caustica, che ha un pH di circa 14 e produce il massimo dell'esperienza in fatto di pretzel.


TIPS: MANEGGIARE LA SODA IN TOTALE SICUREZZA Lavorate in una stanza ben ventilata, su un piano di lavoro stabile e spazioso vicino a un lavandino vuoto, se possibile. Non usate la soda se avete bambini piccoli attorno o animali domestici.

di soda, ci poggerete i pretzel a scolare. Sistemate i pretzel da bagnare a sinistra della soluzione di liscivia e procedete con la ricetta. (Pulite il bancone mentre i pretzel cuociono; leggete sotto).

Cosa vi serve: • Liscivia alimentare/soda caustica (nota anche come idrossido di sodio), disponibile nei negozi di pasticceria o online. • Una ciotola di vetro • Una teglia d’acciaio a bordi alti • Una frusta d’acciaio • Maniche lunghe e guanti di gomma lunghi (come quelli per lavare i piatti; prima di indossarli, gonfiate ogni guanto come un palloncino per assicurarvi che non ci siano buchi) • Occhiali da vista o occhiali di sicurezza • Bilancia digitale di precisione • Panni in cotone in caso di fuoriuscite o gocciolamenti • Protezione per il banco (qualche strato di pellicola o sacchetto di plastica grande)

Pulizia 1. Sempre indossando guanti e occhiali, trasferite la soluzione di liscivia nel lavandino. 2. Fate scorrere acqua fredda nella ciotola con un getto delicato per diluire la soluzione. Versate la soluzione nello scarico. Sciacquate e risciacquate accuratamente la bacinella e il lavandino con abbondante acqua fredda. 3. Sciacquate le teglie e la gratella con abbondante acqua fredda. Buttate il sacchetto di plastica e sciacquate i guanti prima di toglierli. Una volta tolti i guanti, via gli occhiali.

Procedura: 1. Coprite il bancone con un grande sacco di plastica. Indossate dei guanti di gomma che coprano anche le braccia. Inforcate occhiali da vista o occhiali di sicurezza. 2. Pesate 40 grammi di cristalli di soda caustica esatti in una piccola ciotola. Mettetela da parte. Conservate la confezione di soda in un luogo sicuro secondo le istruzioni del produttore. 3. Versate un litro d’acqua fredda in una ciotola e scioglieteci dentro 40 grammi di soda sbattendo delicatamente con una frusta (non vi schizzate!). L'ordine delle operazioni è importante: aggiungete sempre la soda all'acqua invece di aggiungere l'acqua alla soda. Versate la soluzione in una teglia a bordi molto alti (almeno 5-6cm). La soluzione di liscivia nella ciotola si riscalderà leggermente ed emetterà alcuni vapori appena percettibili. Voi non ci mettete la faccia dentro… 4. Sciacquate bene la frusta con acqua fresca e rimuovete le incrostazioni. 5. Sistemate una gratella in una teglia con bordi alti e posizionala a destra della soluzione

Se la soluzione di soda vi finisce sulla la pelle, sciacquate immediatamente con acqua corrente fresca per 15 minuti.

Se la soda vi finisce sulle mani Prima di tutto, evitate di toccare qualsiasi cosa tranne che i pretzel mentre lavorate con la soluzione di liscivia.

Se toccate i cristalli di liscivia: spazzolate via i cristalli con un panno asciutto e poi sciacquate la pelle con acqua fresca corrente per 10 minuti. È l’ora del bagnetto Un bagno alcalino è ciò che rende un pretzel un pretzel e non solo un pezzo di pane fulminato. La soluzione reagisce con le proteine, gli zuccheri e gli amidi sulla superficie del pretzel per intensificare la doratura e donare alla supeficie esterna la sua lucentezza. Inoltre, conferisce un sapore salino e minerale inconfondibile.

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Paura di utilizzare la soda? Come vi ho già detto, potete usare il bicarbonato! Tutto ciò che dovete fare è sciogliere 110 grammi di bicarbonato di sodio in 2 lt d'acqua, portare la soluzione a ebollizione, abbassare il fuoco (il riscaldamento della soluzione la rende più reattiva ed efficace) e immergervi ogni pretzel per pochi secondi. Quindi non vi resta che salare e cuocere.

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LA FORMATURA DEL NODO Dopo aver fatto una U rovesciata con la corda di pasta, formare l’intreccio è semplice: 1.

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2.

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Incrociate le estremità della corda una volta e poi di nuovo Sollevate le estremità e attaccale alla parte curva della U rovesciata a ore 10 e a ore 2 circa. Premete con forza le estremità per farle aderire bene.


La ricetta

LAUGENBREZELN

(BRETZEL TEDESCHI ALLA SODA) Per l'impasto 500 g di farina per pane 250 g di acqua 60 g di burro 30 g di zucchero semolato 15 g di lievito di birra fresco Per la soluzione 2 lt di acqua 80 grammi di soda caustica o 110 g di bicarbonato di sodio Per la finitura Cristalli di sale per pretzel 01. Unite la farina setacciata, il sale, il lievito e lo zucchero nella ciotola dell'impastatrice e fate girare per amalgamare il tutto. Aggiungete 250 grammi di acqua a temperatura ambiente e il burro. Montate lil gancio per gli impasti e fate girare a bassa velocità fino a quando tutta la farina si sarà inumidita, (circa 1 minuto). Aumentate la velocità a medio-bassa e continuate a far lavorare fino a quando l'impasto non sarà liscio ed elastico (circa 6 minuti) raschiando la ciotola e il gancio a metà impasto. Formate una palla e trasferitela in una ciotola leggermente unta. Coprite e lasciate lievitare fino a quando non triplica di volume (1o 2 ore). 02. Dividete l'impasto in porzioni da 150 grammi l’uno. Lavorando con 1 pezzo di impasto alla volta, formate delle palline lisce. Coprite con un canovaccio umido e lasciate riposare per 10 minuti. Mentre l'impasto riposa, foderate una teglia con bordo in carta da forno. 03. Posizionate una pallina di impasto con il lato della chiusura rivolto verso l'alto su un bancone non infarinato e appiattite con la mano, facendo fuoriuscire quanta più aria possibile.

05. Mettete la griglia del forno in posizione centrale e preriscaldate a 230°C. Foderate una seconda teglia con tappetino in silicone o con carta da forno. Se usate la carta da forno, spruzzate generosamente con olio di semi. 06A. Per l'immersione nella soluzione di soda caustica: preparate la postazione come descritto nel paragrafo "Come lavorare con la liscivia in modo sicuro". Afferrate un pretzel con le mani guantate e trasferitelo nella soluzione molto delicatamente, “a faccia in giù”. Lasciate il pretzel in ammollo per 15 secondi, premendo con una schiumarola per farlo bagnare bene. Con le mani sempre guantate, riprendete il pretzel e mettetelo a faccia in su sulla gratella. Ripetete l'operazione con i pretzel rimanenti. Trasferite i pretzel sulla teglia foderata di silicone o carta. 06B. Per l'immersione nella soluzione di bicarbonato di sodio: sciogliete il bicarbonato di sodio in 2 litri d’acqua e portate a ebollizione a fuoco medio-alto. Riduci il calore e “lessate” i pretzel per 30 secondi, premendo di tanto in tanto con una spatola per immergerli. Con le mani sempre guantate, riprendete il pretzel e mettetelo a faccia in su sulla gratella. Ripetete l'operazione con i pretzel rimanenti. Trasferite i pretzel sulla teglia foderata di silicone o carta. 07. Cospargete i pretzel in modo uniforme con il mio Microsphere salt o con fiocchi di sale Maldon. Infornate fino a quando non saranno ben dorati, ci vorranno circa 25 minuti. Trasferiteli su una seconda griglia e lasciateli raffreddare per almeno 5 minuti prima di servirli. Si dice spesso che la lingua tedesca abbia una parola per tutto. Quella che vi verrà in mente addentando un pretzel imburrato sarà “wunderbar".

Gianfranco Lo Cascio

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04. Create dei filoncini lunghi 50 centimetri e avvolgeteli per formare il pretzel. Formate una U rovesciata con le estremità rivolte verso di voi. Incrociate le estremità del cordoncino per due volte. Solleva le estremità e attaccale sulla parte curva della U rovesciata a ore 10 e a ore 2. Premete con forza sulle giunture. Trasferite i pretzel su una placca

foderata con carta forno e lasciateli lievitare coperti per almeno un’ora, dopodiché posizionateli in freezer per mezz’ora.

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OKTOBERFEST a cura di Nunzia Clemente

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l’evento che tutti i bavaresi (e non solo) attendono per un anno intero

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Su Gastronomica-Mente , il “Costume” non è mai banalmente costume: storie, ricette e tradizioni vengono analizzate e scardinate, sempre col solito tono irriverente e preciso allo stesso tempo. Ho avuto la fortuna di essere in quel di Monaco di Baviera sia durante l’Oktoberfest, sia in periodi neutri, come il mese di Febbraio. Vi aspettate che io vi dica che è qualcosa di “totalmente diverso”, immagino. Indubbiamente, lo è: ma l’energia che si respira è pressappoco simile, come se l’evento ottobrino - ormai vecchio di più di duecento anni e quasi altrettante edizioni - riuscisse a penetrare e restare durante tutto l’arco dell’anno. Una buona dose di entusiasmo ce la mettono, ovviamente, gli storici birrifici della città. In questo articolo, ci proponiamo di conoscere meglio l’Oktoberfest e lo faremo attraverso la città di Monaco di Baviera, i suoi birrifici, com’è fatta la festa e conoscendo qualche piatto tipico.

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MONACO DI BAVIERA: UNA CITTÀ DI CAMPAGNA E DI FRONTIERA Barocco e rococò sono gli stili predominanti di Monaco, capitale della Baviera: e, nonostante sia nel bel mezzo delle campagne bavaresi, è una città “di frontiera”. Si tratta, infatti, del primo grande nucleo abitativo tedesco sulla rotta balcanica e questa sua caratteristica ne ha fatto uno dei principali approdi dei migranti provenienti dall’Est Europa. Ha sempre avuto, lungo i secoli, un ruolo predominante: dapprima come città militare, successivamente come capitale della Baviera. Inoltre, è una città di cultura ed arte: numerosi i musei di arte classica, così come le università che spaziano dall’economica alle belle arti. Una città poliedrica, adatta anche al divertimento.

LA NASCITA DELL’OKTOBERFEST: BANALMENTE, ERA PARTE DI UN MATRIMONIO… E che matrimonio, verrebbe da dire. Catapultiamoci per un attimo nella Baviera del 1810: Monaco era nello splendore più fulgido che può avere una capitale. Il 12 ottobre di quell’anno, per celebrare il matrimonio del principe ereditario di Baviera - il futuro re Ludwig I - con la principessa Teresa Di Sachsen-Hildburghausen. Il festival, all’epoca, durò cinque giorni, culminato in un’attesissima corsa di cavalli tenutasi in un’area ancora ad oggi chiamata Theresienwiese (il Giardino di Teresa,

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Prima di addentrarci nel vivo del nostro articolo, vi lascio una manciata di curiosità con le quali bullarvi rapidamente con i vostri interlocutori e grazie alle quali capirete come questa ricorrenza sia una geniale introito commerciale per tutta la Germania. 1. L'edizione 2022 dell'Oktoberfest è la numero 187. Alcune sono state saltate, a causa di guerre o, più recentemente, per la pandemia. Quella di quest'anno è programmata tra il 17 settembre e il 3 ottobre. 2. Sarà possibile prenotare posti e tavoli presso le tende dell’Oktoberfest direttamente dal sito ufficiale della manifestazione, mettendosi in waiting list. 3. Così come alla nascita della festa, soltanto i birrifici di Monaco di Baviera possono spillare e vendere birra all’Oktoberfest. Non sono ammessi birrifici situati fuori dalla città. 4. Nel 2011 è stata registrata l’edizione con più visitatori: 7 milioni (6,9 milioni, ad essere pignoli). Più di alcune edizioni recenti dei mondiali di calcio. 5. I Paesi con il più alto numero di partecipanti, oltre la Germania, sono l’Italia ed i Paesi anglofoni (Australia, USA, Regno Unito). 6. Altri numeri da paura: ad ogni edizione, vengono

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spillati intorno ai 6 milioni di litri di birra, vengono mangiate circa 100.000 salsicce e più di mezzo milioni di polli arrosti (chiamati brathendl). Albert Einstein, nel 1896, partecipò come avvitatore di lampadine presso una delle tende dell’Oktoberfest (!) Il boccale di birra da un litro (chiamato in gergo bavarese Maßkrüge) costa tra i 10 e i 12… ed ogni cameriere può portarne fino a dieci boccali pieni contemporaneamente, per un peso di circa 30 kg!

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tradotto letteralmente), e dove ancora oggi si tiene la contemporanea Oktoberfest. Già dall’anno successivo, vista la grande partecipazione del popolo , la corsa di cavalli fu affiancata ad una fiera agricola. Ancora, nelle edizioni immediatamente successive, furono introdotte delle postazioni dove acquistare e consumare cibo e birra, bevanda altamente prodotta a Monaco di Baviera sin dal Medioevo e che contribuiva sensibilmente all’economia cittadina. Ancora oggi, è il sindaco di Monaco di Baviera a dare avvio all’Oktoberfest battendo su un barile di birra.

COM’È FATTA L’OKTOBERFEST E QUALI SONO I BIRRIFICI PARTECIPANTI Come anticipato qualche paragrafo fa, Monaco di Baviera pullula di birrifici storici, che sono letteralmente tra i più antichi del mondo; sulla partecipazione all’Oktoberfest di questi birrifici si basa l’ossatura della manifestazione.

Sono sei, carichi di storia: vi suggerisco, casomai abbiate l’opportunità come la sottoscritta di vivere Monaco di Baviera in un periodo diverso dall’Oktoberfest, di fare un tour per le sedi dei birrifici. Ogni birrificio ha il proprio locale aperto al pubblico: qualcuno ha mantenuto arredi e struttura dell’epoca in cui sono stati fondati, qualcun altro ha un’aria decisamente più internazionale e moderna. In gergo familiare ed amichevolmente brassicolo, i birrifici di Monaco vengono denominati Le sei sorelle. Li conosciamo brevemente di seguito, uno ad uno. AUGUSTINER Si tratta del birrificio più antico di Monaco di Baviera, avendo iniziato la propria attività nel lontanissimo 1328 nel monastero agostiniano. I monaci ottennero una licenza sia per produrre birra, sia per venderla all’esterno e così continuò per circa cinque secoli. Durante l’invasione napoleonica del 1803, tutti i beni ecclesiastici passarono sotto proprietà dello Stato; fu in questo momento che subentrarono Anthon e Therese Wagner, che acquistarono l’attività brassicola e fecero diventare Augustiner un’impresa esclusivamente privata.

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HOFBRÄUHAUS Tradotto, il nome è “birrificio di corte” ed infatti la proprietà è dello Stato Libero della Baviera. Ha diverse sedi in tutto il mondo e una fama che ha decisamente valicato i confini, soprattutto tramite il nome HB. Per gli appassionati di storia recente, la curiosità più ghiotta riguarda l’avvenimento che vede protagonista Adolf Hitler, che qui proclamò i 25 punti programmatici per il Partito dei Lavoratori tedeschi. Purtroppo per gli amatori della birra, questo valse all’edificio storico HB la distruzione da parte degli Alleati nel 1945; quindi, ad oggi, ci ritroviamo un moderno ed appariscente edificio al centro di Monaco.

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PAULANER Conti alla mano, Paulaner risulta essere un gigantesco produttore a livello mondiale ed il più grande a Monaco di Baviera. Prende il nome dallo stabilimento dov’è nato, cioè quello di San Paolo Primo Eremita,


fondato da un gruppo di monaci provenienti dall’Italia. Le birre prodotte dai monaci Paolini erano particolarmente forti, tanto da dover creare una birra “sorella”: la Salvator, ad oggi ancora in commercio ma che all’epoca era necessaria a supportare in maniera costruttiva la “fame” dei monaci. HACKER-PSCHORR Probabilmente nato nella prima parte del 1400, è dal 1700 che prende forma il nome attuale, grazie all’acquisto da parte di Simon Hacker e all’opera del birraio Joseph Pschorr. C’è da dire che oggi Hacker-Pschorr non ha uno stabilimento di produzione, perché la sua birra viene prodotta da Paulaner. LÖWENBRÄU Per quasi un cinquantennio, nell’Ottocento, Löwenbräu era tra i più grandi birrifici di Monaco, arrivando a possedere circa il 25% del mercato cittadino. Tuttavia, ha subito diverse battute d’arresto, soprattutto dovute alla Prima Guerra Mondiale (prima aveva raggiunto numeri incredibili) e successivamente all’utilizzo di prodotti secondari del malto d’orzo (andando in contravvenzione al Reinheitsgebot, l’Editto di Purezza promulgato da Guglielmo IV di Baviera nel 1516).

Vi è, inoltre, un certo numero di attrazioni puramente ludiche molto tradizionali. Ad esempio, ci sono ben tre postazioni dove si propone il teatro di ispirazione vaudeville (commedie solitamente ricche di giochi di parole, che fanno leva sulla satira e attualità), oltre una serie di giostre adatte ai grandi e ai bambini. L’Oktoberfest è davvero, davvero il grande festival mondiale che riesce a mettere tutti d’accordo.

QUALCHE PIATTO DA ASSAGGIARE ASSOLUTAMENTE ALL’OKTOBERFEST (O DA FARE COMODAMENTE A CASA) Ci vuole un bel po’ di cibo sostanzioso per supportare i litri di birra che scorrono a fiumi: carne in diverse preparazioni, würstel, pretzel. Ve ne elenco alcuni giusto per farvi venire l’acquolina in bocca e pentirvi

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SPATEN Attivo fin dalla fine del 1300, Spaten è un birrificio importantissimo nella storia brassicola non solo tedesca, ma internazionale. Infatti, è stato il primo birrificio a codificare lo stile Marzen (cioè le lager ambrate), nonché ad attuare ed inventare alcuni macchinari nell’industria brassicola. Ognuna di queste imprese brassicole ha un proprio “tendone” all’interno dell’Oktoberfest. In totale, ci sono venti tendoni grandi e quattordici più piccoli. Al limite massimo di capienza, ogni tendone grande può far accomodare circa diecimila avventori. Calcolate poi per ogni tenda… beh, sì: numeri da capogiro per una manifestazione. Ogni tendone, poi, acquista fama particolare: ci sono quelli votati al turismo internazionale, quelli dove “si cucina meglio”, o ancora quelli delle specialità, come stinco di maiale

o pollo allo spiedo (ma c’è anche una tenda piccola dove viene proposto pesce!), quelle dove ci sono più bande musicali. Per finire, non mancano i tendoni politici, ovviamente.

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di non aver partecipato (oppure, per chi è riuscito, di ricordare con piacere…) all’Oktoberfest 2022. WÜRSTEL IN TUTTE LE SALSE E quando dico in tutte le salse, dico in tutte: dai currywurst ai bratwurst, passando per i weisswurst. Ne troverete a carrettate. I currywurst non sono proprio tipici di Monaco (li troverete in ogni angolo di Berlino) e consistono in salsicce di suino con spolverate di curry e generosissime dosi di ketchup. I weisswurst, invece, sono dei würstel chiari (di manzo e pancetta di maiale) che vanno spellati e solitamente vengono consumati a colazione. KASELSPATZLE Un piatto super sostanzioso, adatto anche a chi non vuole mangiare molti piatti di carne conditi: si tratta di una preparazione a base di gnocchi, letteralmente affogati nel formaggio e conditi con fiocchi di cipolle caramellate. Dicono curi anche la sbornia… PRETZEL Li conoscerete di sicuro: queste ciambelle intrecciate di pane, cosparse di sale, sono buonissimi da mangiare da soli oppure in accompagnamento a piatti fumanti. STECKLERFISCH Il pesce dell’Oktoberfest è a dir poco… pungente. Si tratta di pesce d’acqua dolce vario (trote, salmerini oppure sgombri) che viene dapprima marinato in olio, spezie ed aglio; successivamente, viene infilzato su un bastoncino e messo sulla brace. Dopo la cottura, una generosa dose di burro fuso viene lasciata cascare. SCHWEINHAX Il loro stinco di maiale arrosto, iconico più che mai, messo in un piattone e letteralmente affogato nei suoi succhi e servito bollentissimo. Servito anche a fette, senza pelle e senza osso centrale. HENDL Il mezzo polletto arrosto, adattissimo a smaltire i fiumi di birra.

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MA ESISTE ANCHE… L’OIDE WIESN

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Quello di cui vi ho parlato fino ad ora è l’Oktoberfest in chiave contemporanea. Nel 2010, all’alba dei 200 anni di vita della manifestazione, si sentì l’esigenza di fare una sorta di “rievocazione storica” di ciò che fu l’Oktoberfest: insomma, di riproporla un po’ nel modo in cui era nata. Per questo, dietro la ruota panoramica è stato deciso di implementare l’Oktoberfest con l’Historische Wiesn (tradotto letteralmente, Oktoberfest storico), dove potrete guardare le storiche corse di cavalli, qualche altra attrazione storica con musica d’epoca ed ovviamente… bere altra birra, che domande!


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CARVERY STEAK NICE TO MEAT YOU

Abbiamo avuto già modo di parlare di questo taglio nella parte riservata ai taglio del bovino da bistecca. Oggi ci focalizzeremo in particolare sulla parte della lombata che va dalla sesta alla dodicesima costola, lo Standing Rib, da cui si ricava questa bistecca particolare: la Carvery Steak. Una caratteristica tipica di questa parte del manzo è la presenza di una copertina esterna e questo taglio nello specifico si presenta quindi in tutto e per tutto come una Cowboy (steak), con in aggiunta però di una parte di muscolo e di grasso esterni. In questa porzione del manzo è sempre presente inoltre una buona percentuale di grasso intramuscolare dovuta all’intersecarsi di numerosi muscoli diversi tra di loro. Questo grasso, unito a quello intramuscolare, immancabile nelle selezioni BBQ4All Megastore dalle evidenti marmorizzazioni, sciogliendosi poi in cottura renderà questa bistecca ancora più gustosa. Ogni singolo muscolo che la compone ha una propria consistenza diversa, e ciò contribuisce nel rendere questo taglio complesso e particolare. Vediamo ora nello specifico i muscoli che ritroviamo nella parte presa in esame.

Il Longissimus Dorsi, chiamato occhio della Ribeye, è il cuore del taglio in quanto si trova al centro. Lo Spinalis Dorsi è il muscolo posizionato all’esterno del taglio e nella parte opposta della costola, che diviene via via più sottile all'approssimarsi della 10a - 12a. Il Multifidus Dorsi è un piccolo muscolo posizionato lateralmente sotto le spine dorsali. Il Longissimus Costarum è un altro piccolo muscolo simile ad una corda, posizionato vicino all’osso della costola. Al progredire delle costole verso il Loin, la composizione di questi muscoli all’interno dello stesso taglio cambia. Nello Standing Rib, tra la sesta e la decima costola, dove vengono ricavate le Carvery Steak nella selezione BBQ4All, il rapporto tra i muscoli è alla sua massima espressione. La parte dello Spinalis, con la sua grana morbida simile ad una Skirt (steak), qui è ben evidente, e ciò rende questo taglio al pari del suo omologo spagnolo (il famoso Chuletón di cui abbiamo già parlato) unico nel suo genere. BBQ4All Magazine

Particolare cura dovrà essere posta poi dopo la cottura e prima del servizio, nel riuscire a dividere i singoli muscoli che compongono la bistecca. Questo darà modo ai vostri commensali di poter apprezzare appieno l'incredibile complessità di questa bistecca incredibile.

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UNO STINCO DUE RICETTE! Come utilizzare al meglio questo godurioso taglio del maiale

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Lo stinco di maiale è un taglio di carne che proviene dalla coscia dell’animale. Si tratta di un taglio di carne magro e ricco di tessuto connettivo, per cui viene spesso stufato o brasato per essere reso più tenero e succulento. È un piatto decisamente nordico, o meglio mitteleuropeo, diffuso in Italia sopratutto in Trentino e nelle aree montane. In queste regioni lo stinco di maiale viene affumicato a caldo e servito generalmente con un contorno di patate e di crauti. Si tratta di una preparazione speciale che permette di esaltare il sapore della carne con il tipico sentore di fumo.

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Tuttavia, questo particolare taglio del maiale si trova nelle cucine di tutto il mondo, essendo un

ingrediente popolare ed economico. In Cina, lo stinco di maiale è spesso usato in zuppe e stufati. In Messico, sovente è utilizzato per la preparazione delle carnitas: cucinato assieme a cumino, origano, timo alloro, maggiorana e l’immancabile peperoncino, viene poi servito nelle tortillas con il coriandolo. In Germania viene cucinato alla griglia e servito con patate e senape, ma nella zona di Berlino il contorno è composto da una purea di legumi. In Thailandia il khao kha mu è un piatto molto popolare, anch’esso preparato con lo stinco che viene inizialmente fatto rosolare nell'olio, poi trasferito in un wok per essere bollito a lungo a fuoco lento in un brodo fatto con spezie e verdure. Al momento di servirlo viene tagliato a fettine e


messo sul riso bollito con a fianco listarelle di cavolo cinese bollito e, a richiesta, un uovo sodo. Insomma: in qualsiasi parte del mondo ci si trovi, è molto facile trovare un piatto realizzato con lo stinco di maiale. Come abbiamo detto, sicuramente il suo costo contenuto lo rendono un cibo popolare facilmente reperibile. Si pensa che i primi maiali siano stati portati in Europa dai Romani nel I secolo d.C.. Da allora, la carne di suino è stata una parte importante della cucina europea. Nel Medioevo, la carne di maiale era spesso considerata un alimento della cucina povera, poiché era una delle poche carni che i contadini potevano permettersi. La situazione cambiò nel periodo rinascimentale, quando divenne un ingrediente popolare tra le classi superiori. Oggi rimane una carne sicuramente più abbordabile, in termini di costi, di quella del bovino, ma certamente si deve fare una grande differenza tra tagli: il filetto, per fare un esempio, continua ad essere comunque più pregiato e costoso dello stinco.

Una delle ricette più ricercate da voi griller incalliti è sicuramente lo stinco alla birra. Non è difficile, anche

C’è però una soluzione ancora più facile e conveniente: scegliere il nostro Smoked Beer Pork Shank, nella versione già cotta e affumicata nel pieno stile BBQ4All. È pronto da rigenerare e da scaldare, operazione che si può fare in due modi: In forno statico (o anche nel dispositivo) con temperatura di 80°C per un’ ora con la confezione integra. Si apre la confezione con l’attenzione di far defluire i succhi in un recipiente. Si pone il prodotto in una teglia e si rimette in forno ventilato a 120°C per riformare il bark e terminare il riscaldamento interno. In questo frangente è ottimale l’utilizzo di un termometro a sonda per rilevare la temperatura fino ai 65°C. Ci vorrà un’altra mezz'oretta per terminare il riscaldamento. Oppure si può rigenerare in sous vide, immergendo la busta del prodotto in acqua ad una temperatura di 75°C per mezz’ora. Successivamente si apre la confezione con l’attenzione di far defluire i succhi in un recipiente. Si pone il prodotto in una teglia e si rimette in forno ventilato a 120°C per riformare la crosticina. Se volete un modo ancora più rapido, potete anche aprire la confezione, raccogliere i succhi, mettere lo stinco su in piatto e inserirlo nel microonde a media potenza per 10 minuti. Nel frattempo, riscaldate in un tegame i succhi da versare sulla carne e accendete il grill del forno con una temperatura di 200°C. Una volta che la carne è calda rimettete in forno preriscaldato con la resistenza superiore accesa, sempre per riformare il bark in pochissimo tempo. A questo punto, non avete proprio scuse: dovete procurarvi per forza lo stinco e provarlo in almeno uno dei due modi che vi proponiamo. Anche se poi lo sappiamo che li proverete entrambi!

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Economico e popolare, tuttavia, non sono sinonimi di bassa qualità. Come abbiamo ripetuto più volte, lo stinco è un ottimo taglio di carne per cimentarsi nelle prime cotture bbq senza troppa ansia: il suo costo contenuto ci permette di affrontare la cottura con meno preoccupazione; il tessuto connettivo di cui è ricco ci consente di divertirci e di esercitarci con una cottura relativamente lunga, che ci faccia da apripista per quelle che saranno poi le vere cotture bbq in low&slow, fatte con tagli di carne decisamente più impegnativi e costosi. Inoltre, il risultato è davvero soddisfacente e gratificante. Insomma: con lo stinco si ha un minimo sforzo e una massima resa.

se la sua preparazione richiede un po’ di tempo e di manualità. Per prima cosa andrete a procurarvi uno stinco di maiale intero, che poi dovrete marinare per una notte nella birra. Trascorso questo tempo dovrete tamponarlo con della carta assorbente e poi condirlo con un rub a base di rosmarino (provate il nostro SPOG con l’aggiunta del rosmarino in polvere!). Successivamente dovrete metterlo in cottura indiretta nel vostro dispositivo a circa 150°C per un paio d’ore, spruzzandolo ogni tanto con la birra. Infine dovrete alzare la temperatura del vostro dispositivo a circa 200°C in modo da ottenere un bel bark.

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STINCO ALLA BIRRA con zucca grigliata e bieta saltata L’autunno è anche la stagione della zucca e della bietola (o bieta). Per questo motivo siamo andati sul classico e abbiamo accompagnato lo Smoked Beer Pork Shank del nostro Megastore a un doppio contorno fatto di bieta saltata con aglio e condita con pinoli e uvetta, e a medaglioni di zucca grigliata, conditi poi con un po’ di SPOG e di olio extravergine di oliva. Le bietole sono un ortaggio prezioso, dalle mille proprietà. Depurative, disintossicanti, antiossidanti, sono una vera e propria panacea per la salute. E non solo: con appena 17 calorie per 100 grammi, le bietole sono anche alleate per chi segue una dieta. In cucina, poi, si prestano a tantissime preparazioni: lessate, cotte al vapore, gratinate al forno. Può sembrare complicato pulirle, ma è semplice: basta eliminare le foglie del gambo e le parti rotte, quindi lavare le foglie sotto l’acqua corrente per privarle delle impurità terrose. Le bietole a coste vanno invece tagliate prima, privandole della parte basale e successivamente separando la costa bianca centrale dalla parte verde della foglia. Anche la costa può essere utilizzata, privandola delle parti più fibrose e dure e tagliandola a pezzi. Anche la zucca è ricca benefici e di nutrienti; è un ortaggio che può e deve essere consumato regolarmente, rispettando sempre la buona regola della variabilità e stagionalità. Tra i tipi di zucca più utilizzati in cucina troviamo la zucca mantovana, la Delica, la zucca gialla, la zucca violina; e la Butternut. Ognuna di queste zucche presenta delle particolarità e delle proprietà che le rendono uniche e preziose per la nostra salute.

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La zucca inoltre è uno degli ortaggi più amati dai griller, perché è perfetta per essere cotta in ember roasting, ovvero a contatto diretto con le braci. Noi però stavolta la ridurremo in medaglioni e la griglieremo. Se siete fortunati, troverete i medaglioni già pronti al supermercato. In caso contrario, dovrete prima lavarla e sbucciarla, facendo sempre moltissima attenzione.

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Ok, è giunto il momento di vedere nel dettaglio la nostra ricettina.

I ngredienti per 2 persone: uno

Smoked Beer Pork Shank del nostro Megastore / mezza zucca oppure 6 medaglioni di zucca già puliti / 600 g di bietole / 100 g di pinoli di San Rossore / 100 g di uva sultanina / olio extravergine di oliva q.b. / uno spicchio d’aglio / sale e pepe q.b. / Ultimate SPOG Sal’s Seasoning q.b. PREPARAZIONE 1.

Procedete a rigenerare e a scaldare lo Smoked Beer Pork Shank in una delle maniere che abbiamo descritto.

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Nel frattempo pulite la zucca p r i va n d o l a d e i s e m i , p o i sbucciatela e infine ricavate delle fette o dei medaglioni alti un paio di centimentri.

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Pulite anche la bieta e mettetela a lessare per pochi minuti in acqua leggermente salata.

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Una volta pronta la bieta, strizzatela bene, fate scaldare in un tegame l’olio extravergine d’oliva, mettete uno spicchio d’aglio ad appassire, poi saltate la bieta insieme all’aglio, al sale e al pepe. Aggiungete infine l’uva sultanina e i pinoli.

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Predisponete il vostro dispositivo per una cottura diretta, oliate bene le fette di zucca e grigliatele finché non avranno le grill marks e non saranno morbide. Conditele con olio extravergine di oliva e un po’ di SPOG.

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Una volta pronto lo stinco, ricopritelo coi suoi succhi e servitelo coi contorni appena preparati.


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PANINO CON STINCO e cipolle caramellate alla birra Non sarebbe stato un numero completo se non avessimo inserito, in uno speciale che tratta di fiere autunnali, un bel panino! Avendo un altro bello stinco del nostro Megastore a disposizione, abbiamo colto l’occasione ghiotta e ci siamo preparati dei non-hot dog: ovvero, abbiamo usato lo stesso panino dell’hot dog, ma al posto del salsicciotto ci abbiamo infilato lo stinco pullato.

Ingredienti per 2 panini: uno Smoked

Erroneamente, in molti pensano che lo stinco sia una carne molto grassa: in realtà quella succulenta ciccia che vi ritrovate nel piatto è il risultato di una cottura fatta a regola d’arte, in cui il tessuto connettivo di cui è ricco questo taglio si è trasformato in saporita e succosa gelatina.

PREPARAZIONE 1. Procedete a rigenerare e a scaldare lo Smoked Beer Pork Shank in una delle maniere che abbiamo descritto. Poi toglietelo dal forno, disossatelo e pullatelo.

Insomma, potete mangiare questo panino senza troppi sensi di colpa. Per non coprire il sapore già così definito dello stinco siamo rimasti sul classico: un po’ di insalata che è sempre un elemento fresco e sgrassante, le cipolle caramellate alla birra, in modo che il sapore fosse coerente con quello dello stinco, e la senape, che aggiunge la nota acidula. Il tocco di classe? Ci era avanzato un po’ di burro alle acciughe della ricetta del filetto che trovate su questo stesso numero: abbiamo pensato di spalmarlo sul pane prima di grigliarlo un po’. Il risultato ci ha dato ragione. Come sapete, le acciughe apportano una grande dose di Umami.

Beer Pork Shank del nostro Megastore / due panini per hot dog /140 g di burro / qualche filetto di acciuga / due cipolle / 40 g di zucchero / due cucchiaini di aceto balsamico / due bicchieri di birra / sale e pepe q.b. / insalata a piacere / senape a piacere

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Preparate le cipolle, affettandole grossolanamente. In un tegame sciogliete una noce di burro e cuocere le cipolle a fuoco medio fino a che non si saranno leggermente appassite.

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Aggiustate di sale e di pepe, aggiungete la birra, lo zucchero di canna e l’aceto balsamico; cuocete il tutto a fuoco medio fino a che le cipolle non si saranno asciugate bene.

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Tritate finemente le acciughe e unitele al burro, mescolando bene.

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Aprite i panini a metà, spalmate il burro e scaldateli su una piastra o su una griglia, facendo attenzione a non farli annerire.

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Montate adesso i panini: mettete un po’ di insalata sul fondo, poi lo stinco pullato, le cipolle caramellate e infine la senape. Serviteli caldi.

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Beh, non perdiamo altro tempo e vediamo come fare!

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È autunno: se non ora, quando?

FUNGHI CHAMPIGNON RIPIENI DI PULLED PORK e affogati nel formaggio! È la stagione dei funghi! Come ben sapete, questo regno di organismi eucarioti, unicellulari e pluricellulari è enorme: comprende infatti più di 700.000 specie conosciute, benché la diversità sia stata stimata in più di 3 milioni. I funghi sono un gruppo eterogeneo di organismi che sono stati classificati in modo diverso nel corso della storia. Linneo li ha classificati come piante, ma Nees e Whittaker li hanno elevati al rango di regno rispettivamente nel 1817 e nel 1968. Non vogliamo certo entrare in una lunga digressione su tutti i tipi di funghi esistenti; anche perché a noi interessano quelli che si possono mangiare! Come ben sapete, essi si presentano in molte forme, dimensioni e colori. Non tutte edibili. I funghi commestibili, sono un’ampia gamma di macromiceti. Possono crescere in natura o essere coltivati per uso commerciale. Fra le specie di funghi che si possono raccogliere nel loro ambiente naturale per il consumo personale o per la vendita commerciale troviamo i prataioli, le spugnole, i finferli, le trombette, i galletti e i funghi porcini. Questi ultimi in modo particolare sono molto ricercati in questo periodo e il loro costo può raggiungere anche cifre molto alte. Hanno indubbiamente un sapore particolare, decisamente gourmet, che li rende inconfondibili nelle ricette in cui vengono utilizzati. Fra le più comuni varietà di funghi coltivati, invece, troviamo gli champignon: sono funghi piccoli, rotondi e di colore bianco o marrone chiaro. Hanno un sapore molto delicato, molto più neutro rispetto ai funghi porcini, ma questa caratteristica da tante persone è considerata un difetto, li rende sicuramente più versatili e utilizzabili di altri funghi dal sapore più intenso. Quando li acquistate, cercate quelli che sono sodi al tatto e hanno un colore uniforme. Evitate i funghi che sono ammaccati o presentano macchie scure. I prodotti freschi devono essere conservati in un luogo fresco e buio e utilizzati entro pochi giorni. Quelli secchi possono essere conservati fino a un anno.

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Li abbiamo scelti per due caratteristiche principali: il loro sapore così poco invadente, che non sovrastasse quello ricco, opulento e ciccioso del nostro pulled pork; e la loro forma rotonda, uniforme e compatta, che ci permettesse di avere tanti piccoli bocconi tutti uguali che esplodessero in bocca in un solo morso. Poi, dato che siamo in autunno e abbiamo voglia di cibo confortevole, li abbiamo letteralmente sommersi di formaggio, in modo da rendere il tutto ancora più godurioso.

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Per questa ricetta abbiamo utilizzato il pulled pork in busta, quello comodo, veloce, pratico e buonissimo che trovate sul nostro Megastore: ma se avete voglia di cimentarvi nella cottura di un intero Boston Butt, ricordatevi di tenerne da parte un pochino per poter realizzare nelle giornate uggiose questa ricetta salvacena. Anche i vostri ospiti ve ne saranno grati.


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Ingredienti per 4 persone

per i funghi: 20 funghi Champignon di uguale grandezza / una busta di pulled pork già pullato del nostro Megastore / olio extravergine di oliva q.b. / Ultimate SPOG Sal’s Seasoning q.b.

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per la fonduta: 300 g di fontina / 300 g di groviera / una noce di burro / 200 ml di latte / 200 ml di panna / sale e pepe q.b. / noce moscata a piacere

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PREPARAZIONE 1. Pulite i funghi champignon, togliete i gambi e tenete le capelle. In ogni cappella mettete un po’ di spog e un filo d’olio. Predisponete il vostro dispositivo per una cottura indiretta a circa 160°C, inserite i funghi in una teglia da forno, poi metteteli in cottura chiudendo i coperchio: lasciateli appassire lentamente. 2. Nel frattempo fate rinvenire il pulled pork, poi

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toglietelo dalla busta e tritatelo un po’ grossolanamente con un coltello. Una volta che in fungi saranno appassiti, toglieteli dal dispositivo, riempiteli con il pulled pork e poi rimetteteli in cottura; teneteli lì per una ventina di minuti. Preparate ora la fonduta veloce: scaldate il latte in una casseruola e poi unite i formaggi a cubetti. Una volta raggiunto il bollore, fate sciogliere delicatamente i formaggi mescolando con una frusta. Unite il burro e la panna, continuando a mescolare e facendo addensare bene il tutto. Aggiustate di sale e di pepe, aggiungendo a vostro gusto un po’ di noce moscata se lo desiderate. A questo punto togliete i funghi ripieni dal vostro dispositivo e ricopriteli interamente con la fonduta. Servite immediatamente.


Le costine stufate che non stufano mai!

RIBS e pasticcio di patate

Oktoberfest. E chi non la conosce? È il Valhalla per qualsiasi consumatore di birra, la mamma di tutte le feste della birra. Non c’è quasi italiano che non abbia, almeno una volta nella vita, pensato di parteciparvi. Eppure di prodi e coraggiosi virgulti che hanno intrapreso il viaggio ne abbiamo visti relativamente pochi. Per lo più rimandavano fino a quando la maturità, la famiglia e soprattutto le finanze permettevano loro di organizzare un tranquillo viaggio in Baviera, magari su un camper a noleggio, trasformando la tanto agognata meta adolescenziale in una tappa obbligata da raccontare, con superiorità e falso distacco, ai posteri. Scherzi a parte, l’Oktoberfest è una “fiera popolare” tra le più longeve. Rappresenta l’essenza della Baviera ai limiti dello stereotipo, ed è cresciuta di anno in anno senza mai perdere smalto. La “giostra” si mise in moto il 17 ottobre 1810, cinque giorni dopo il matrimonio dell’allora Principe ereditario Ludwig II con la Principessa Therese di Sassonia ed all’inizio avrebbe dovuto solo essere una corsa di cavalli in loro onore, aperta a tutti i cittadini di Monaco. Mai avrebbero immaginato che quelle cinque giornate di festa sarebbero diventate un evento mondiale, superando, in fama e longevità, gli stessi festeggiati. Anno dopo anno la festa assunse sempre più importanza richiamando persone da tutta la Germania meridionale e il numero sempre crescente di visitatori costrinse gli organizzatori ad aumentarne la durata arrivando alle attuali tre settimane.

Ad oggi, le preparazioni che potete trovare negli stand, si contano, con qualche eccezione, sulle dita di due mani: pretzel, stinco, wurst, costine, patate e crauti sono i campioni indiscussi delle vendite ma per i più ardimentosi c’è anche sgombro alla brace ed alcune zuppe dall’alto potere colesterol-calorico. Le preparazioni “indigene” sono ormai relegate a qualche locale tradizionale, magari poco turistico ma che sicuramente premia i cercatori di tesori culinari. A tal proposito va detto che la cucina bavarese non è per deboli di cuore. I suoi piatti hanno sapori forti, decisi, spesso sono grassi e necessitano di accompagnamenti che fanno abbondante uso di sapori agrodolci. Per questa ricetta andremo a ricreare un classico, un piatto tipico del periodo autunnale a base di costolette di maiale e patate. Come sempre dovremo fare attenzione alla qualità del prodotto e, come sempre, il Megastore ci fornirà la ciccia migliore che possiamo desiderare. La linea Greedy’s Hog ci mette a disposizione due diversi tipi di taglio (St. Louis e Baby Back) la cui scelta dipende dai vostri gusti. Se preferite avere una maggior quantità di carne sull’osso scegliete le baby back, se invece preferite avere a disposizione più tessuto connettivo da idrolizzare allora le St. Louis sono il taglio ideale per voi. Per una preparazione quasi #ZEROSBATTI possiamo optare per le versioni già pronte, perfettamente cotte ed affumicate con il metodo tradizionale BBQ4All e sempre disponibili sullo Store. Piccolo consiglio: questa ricetta prevede un searing iniziale ed una finitura in cocotte o teglia per questo conviene separare le costole prima della stufatura. L’obiettivo è raggiungere una cottura “fall of the bone” delle ribs quindi porzionarle al momento del servizio vorrebbe dire spappolare le slab con sicuro disappunto di quei commensali che avranno nel piatto più ossa che carne.

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Dopo “solo” settant’anni l’Oktoberfest aveva già assunto la forma attuale, con stand gastronomici e vendita di birra, e con l’interesse sempre crescente dei birrifici locali che, alle porte del XX Secolo, decisero di fare le cose in grande istallando enormi padiglioni al posto delle piccole baracche utilizzate fino ad allora. Per mandare giù tutta quella birra però occorre anche del cibo solido, anche in questo caso i bavaresi non si fecero certo cogliere impreparati anche se, nel

corso dei decenni, i menù sono molto cambiati per venire incontro ai gusti, sempre più internazionali, degli avventori.

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Ingredienti per 4 persone

per le ribs: 1 slab di St. Louis Ribs Greedy’s Hog / Rub Ultimate SPOG della linea Sal’s Seasoning / olio extravergine di oliva q.b. / 1 cipolla rossa grande / 2 carote / 1/2 cucchiaino di semi di cumino/ 150 ml di succo di mela / ½ cucchiaino di cannella (facoltativo) / brodo vegetale o acqua se necessario per la fonduta: 50 g di patate / 1 cipolla bionda media / burro chiarificato / sale e pepe q.b. PREPARAZIONE 1. Predisponete il dispositivo per una cottura indiretta medio-alta. 2.

Mondate la cipolla e tagliatela a fette sottili.

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Preparate le costine eliminando la pleura, gli accumuli troppo spessi di grasso.

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Ungete le slab con olio e distribuite sulla superficie il rub.

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Portate le ribs in cottura diretta in modo da scatenare le razioni di Maillard su entrambi i lati.

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Non appena saranno ben dorate separate le ribs; pulite e affettate le carote in modo da lasciarle in pezzi ben visibilli. Mettete cipolle e carote in un tegame, insieme alle costine.

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Coprite bene e cuocete in indiretta per 45 minuti circa.

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Togliete il coperchio e continuate la cottura fino a quando non saranno molto tenere, se necessario aggiungete brodo o acqua calda.

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In questa fase potrete aggiungere del legno aromatico in modo da dare una nota affumicata alla preparazione.

10. Sbucciate le patate e tagliatele a pezzetti. 11. Mettete le patate in una pentola capiente e coprite con acqua. 12. Portate ad ebollizione, riducete la fiamma e cuocete fino che non saranno tenerissime 13. Nel frattempo, in una padella capiente, fate appassire la cipolla tagliata a fette sottili con abbondante burro.

15. Con una forchetta schiacciate grossolanamente il composto, aggiustate di sale e servite caldo insieme alle costine.

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14. Versate le patate nella padella, saltate leggermente per amalgamare il burro e le cipolle.

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ROULADEN MIT SPÄTZLE

Le “bombette” del perfetto bavarese! Era il 1810 quando un ambizioso (ed anche un po’ leccapiedi diciamolo) membro della Guardia Nazionale Bavarese, decise di organizzare una corsa di cavalli per festeggiare il matrimonio dell’allora Principe ereditario, con annessa modesta festicciola alla quale avrebbero potuto partecipare tutti cittadini di Monaco. Quel wedding party durò ben cinque giorni e piacque così tanto, a reali e sudditi, che si decise di ripeterlo anche l’anno successivo e quello dopo... e ancora tutti gli anni da allora ad oggi. Divenne così popolare che le persone giungevano ogni anno sempre da più lontano ed ogni anno gli organizzatori aggiungevano qualcosa di nuovo e fu così che, nel giro di poco, divenne Festa Della Birra per antonomasia, un evento che, ad oggi, attira nella capitale bavarese più di 6 milioni di visitatori l’anno. La Baviera, oltre che per la birra e le generose scollature delle Kellnerin, a livello gastronomico è ricordata per lo più per i crauti e i “würsteloni” di ogni tipo e colore, ma va detto che la Baviera ha una tradizione culinaria estremamente varia ed antica. Con l’Oktoberfest si apre ufficialmente la stagione autunnale e, con lei, tornano le cotture “in umido”, le zuppe e gli stufati tanto cari ai popoli del centro Europa.

Per quanto riguarda i Rouladen, la cosa fondamentale è la scelta della carne. Dovrà essere molto saporita in modo che non si perda nella complessità dei sapori del piatto. Noi abbiamo utilizzato un eye round di Black Angus del Megastore, potente quanto basta da fare la voce grossa anche in presenza di condimenti arroganti ma sempre tenero e scioglievole come il famoso cioccolatino. Per quanto riguarda i cetriolini, se decidete di acquistarli vi consigliamo di cercare i barattoli dove, sul fondo, sono presenti semi di senape ed aneto, sono leggermente meno aspri e perfetti per questa preparazione ma, se proprio volete fare i salti sulla sedia, allora recuperate il Magazine n.17 di maggio 2020. A pagina 89 troverete la tecnica per ottenere dei cetriolini espressi che sono perfetti… e non solo per questa ricetta! Provare per credere!

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Tra questi c’è un piatto tanto comune in Germania quanto sconosciuto da noi italiani, i Rouladen. In realtà si tratta di “semplici” involtini di manzo dal caratteristico sapore agrodolce, cotti in umido con vino rosso o birra ed accompagnati da purè o, più tradizionalmente, dagli späetzle (o spätzle).

Gli spätzle rappresentano, per i tedeschi che vivono negli stati della regione meridionale della Germania, quello che la polenta rappresenta per le regioni dell’Italia del nord. Nascono come specialità della cucina sveva nel Medioevo; le loro origini sono umili e derivano dalla classe contadina. Il termine “spätzle” in tedesco significa “passerotto” e sembra che all’origine del nome ci sia la loro forma piccola ed irregolare; tuttavia, potrebbe anche derivare dal fatto che venivano tradizionalmente utilizzati come contorno per sughi o intingoli a base di carne di cacciagione da piuma. Gli spätzle non sono solo uno dei cibi più amati della Germania, ma sono anche tradizionali in Austria, Svizzera e Ungheria.

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Ingredienti per 4 persone

per le bombette: 12-16 fette sottili di eye round (circa 3-5mm) / senape forte o di Digione / cetrioli sottaceto / 6-8 Fette di bacon / 33 cl di birra ambrata / una carota / un gambo di sedano / una cipolla grande / qualche foglia di alloro / rub Ultimate SPOG della linea Sal’s Seasoning / olio extravergine di oliva per gli spätzle agli spinaci: 250g di farina / 170 g di spinaci bolliti / 2 uova grandi /acqua q.b. / sale q.b. . PREPARAZIONE 1. Predisponete il dispositivo per una cottura diretta. 2.

Adagiate le fette di carne su una superficie piana e spennellare con abbondante senape e condite con un pizzico di Ultimate SPOG.

3.

Componete l’involtino mettendo sulla carne il bacon, gli anelli di cipolla e i sottaceti ricordandovi di lasciare libera almeno 1/3 della fetta di carne in modo da rendere più agevole la chiusura.

4.

Piegate 2 lati opposti della fetta verso il centro per circa un centimetro per creare una sorta di rettangolo ed arrotolate.

5.

Fissate gli involtini su degli spiedini o con degli stuzzicadenti.

6.

Ungete leggermente gli involtini e metteteli in cottura in modo da creare la Maillard.

7.

Una volta creata la crosticina manteneteli al caldo, prendete una cocotte ed aggiungete l’olio, le verdure tritate e fatele appassire leggermente.

8.

Aggiungete i rouladen nella pentola, versate la birra a coprire ed aggiungete le foglie di alloro.

9.

Cuocete con coperchio fino a quando la birra non sarà ridotta di 2/3 circa.

10. Togliete la carne dal liquido ed eliminatelo; se volete potete frullare il fondo di cottura oppure lasciarlo così com’è, piu rustico. 11. Mescolate insieme la farina, le uova, gli spinaci ben frullati ed un pizzico di sale. 12. Aggiungete lentamente l’acqua fino a ottenere un impasto liscio ma abbastanza liquido. La consistenza è, più o meno, quella che otteniamo quando facciamo una torta “della nonna”, deve cadere dal cucchiaio. 13. Portate a bollore una pentola di acqua salata. 14. Se non avete in casa uno Spatzlehobel, prendete uno schiacciapatate a fori larghi o una pressa per passatelli, riempitela per ¾ con l’impasto e con un cucchiaio mescolate lentamente in modo da fare cadere l’impasto nell’acqua attraverso i fori.

16. Ripetete il procedimento fino ad esaurire tutto l’impasto. 17. Fate rinvenire le spätzle a fuoco medio in una casseruola e condite con burro fuso. Servite il tutto ben caldo

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15. Quando le spätzle verranno a galla raccoglietele con una schiumarola e mettetele in uno scolapasta.

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Contaminazioni di successo: la storia del

CURRYWURST

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Dalle cucine indiane alle strade della Baviera.

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Se mai vi troverete ad andare all’Oktoberfest in aereo, vi consigliamo di inaugurare il viaggio prendendo la prima birra già all’aeroporto di Monaco, più precisamente al chiosco di Smokey Joe’s: un food truck attrezzato per sembrare un aereo della seconda guerra mondiale posizionato in un’area all’aperto tra i due terminal. Il chiosco di Smokey Joe’s è famoso in città per i suoi currywurst, uno dei tipici piatti dello street food tedesco composto da bratwurst e accompagnato a una salsa a base di pomodoro e curry detta appunto currywurst. La salsa currywurst è stata inventata nel 1949 dalla Signora Herta Heuwer, cuoca e proprietaria di un chiosco nel quartiere berlinese di Charlottenburg. La salsa ebbe grandissimo successo e si diffuse velocemente in Germania e Austria; la signora Heuwer nel 1959 registrò e mise in commercio la sua salsa con il nome di Chillup. Da brava imprenditrice Herta Heuwer non ha mai rivelato la ricetta originale della sua salsa che oggi vanta innumerevoli tentativi di imitazione e personalizzazione. L’ingrediente che caratterizza la salsa è il curry, una miscela di spezie di origine indiana giunta in occidente nel XVIII secolo per opera dei colonizzatori inglesi. In India è conosciuta con il nome di “Masala” e non ha una ricetta ben definita: varia a seconda delle zone del paese e dei gusti familiari. Tra i suoi ingredienti principali si trovano curcuma, coriandolo, cumino, semi di senape, peperoncino e pepe. A seconda della predominanza degli ingredienti il curry può assumere colori, sapori e nomi diversi: tra le diverse varietà disponibili segnaliamo il curry madras, più piccante e tendente al rosso perché ricco di peperoncino macinato e il curry maharajah, più dolce. Se amate il piccante e riuscite a reperirlo per questa ricetta è consigliato l’utilizzo del curry madras; in alternativa utilizzate il classico curry giallo bilanciando la piccantezza a vostro piacimento con l’utilizzo della polvere di peperoncino.

Franks BLUE OX del Megastore / una cipolla / una mela / uno spicchio di aglio / un barattolo di polpa di pomodoro (meglio se fatto in casa) / 3 cucchiai di aceto di mele / 3 cucchiai di zucchero di canna / un cucchiaio di salsa di Worcestershire / ½ cucchiaino di cannella in polvere / un cucchiaino di paprika in polvere / ½ cucchiaino di zenzero in polvere / ½ cucchiaino di anice stellato in polvere / un cucchiaio abbondante di curry / ½ cucchiaino di polvere di peperoncino essiccato / sale e pepe q.b. PREPARAZIONE 1. Partiamo dai Franks BLUE OX del Megastore: metteteli in una pentola con acqua fredda e portatela lentamente ad ebollizione. A questo punto sono già pronti per essere consumati, potete lasciarli nell’acqua fino al momento di servirli o, se avete il barbecue acceso, potete dar loro una passata veloce sulla griglia o sulla piastra (noi lo abbiamo fatto!) 2.

Per la salsa currywurst: tagliate finemente la cipolla e fatela stufare a fuoco basso in olio di oliva insieme allo spicchio di aglio e alla mela sbucciata e tagliata a mirepoix.

3.

Aggiungete le spezie girando il tutto in modo che si distribuiscano uniformemente e che sprigionino il loro aroma grazie al calore.

4.

Alzate la fiamma, aggiungete lo zucchero, l’aceto e la salsa Worcestershire girando in continuazione per un paio di minuti.

5.

Mettete la polpa di pomodoro, amalgamate il tutto e, una volta raggiunto il bollore, lasciate andare a fuoco basso coperto per almeno una ventina di minuti.

6.

Date tempo al pomodoro di cuocersi ma non fate ritirare troppo il sugo.

7.

Assaggiate e aggiustate di sale, pepe, peperoncino secondo i vostri gusti; il sapore dominante dovrà essere quello del curry, se non lo sentite abbastanza (può capitare con i curry da supermercato) aggiungetene altro.

8.

A questo punto potete frullare il tutto utilizzando un minipimer fino ad avere un composto liscio e omogeneo. Ma se avete utilizzato una polpa di pomodoro fatta in casa e quindi più rustica, potete anche lasciarla così.

Ora siete pronti per servire il currywurst: mettete il Franks BLUE OX nel piatto, copritelo con una ricca mestolata di salsa e buon appetito!

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Per i würstel in questa ricetta si useranno i Franks BLUE OX del Megastore, würstel di puro black angus americano realizzati e affumicati per voi da BBQ4All con legni di ciliegio e hickory.

Ingredienti per 4 persone: una confezione di

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TIPS

Come un qualunque sugo al pomodoro la salsa si conserva qualche giorno in frigo; dovete sapere però che esiste un modo per conservare a lungo e tenere pronte all’uso delle fantastiche monoporzioni di currywurst: Tagliate a rondelle il Franks BLUE OX e mettetelo in un barattolo di vetro precedentemente sterilizzato, copritelo con la salsa currywurst ancora bollente, sigillatelo e mettetelo in un pentolone completamente coperto di acqua che porterete e terrete a ebollizione per almeno 120 minuti. Questo importante passaggio di pastorizzazione vi permetterà di conservare i barattoli in frigo anche per diverse settimane.

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Il piatto più iconico della cucina tedesca

SALSICCE con patate e crauti

Oggi vi presentiamo una rivisitazione in chiave barbecue di uno dei piatti più tipici della cucina tedesca: la salsiccia accompagnata da crauti e patate. La parte del leone in questa preparazione sarà fatta dalle salsicce Smokehouse Chorizo Casero Pork Sausage, salsicce di puro suino speziate, già cotte e affumicate, leggermente piccanti. Le salsicce saranno accompagnate da cavolo rosso cotto alla maniera tedesca: stufato in agrodolce con una nota fruttata dovuta alla presenza di mela e marmellata di mirtilli e insaporito con spezie dolci come anice stellato, cannella e chiodi di garofano. Le patate saranno un contorno di grande impatto visivo: novelle o rosse di piccolo taglio, condite in maniera classica e cotte al barbecue con una tecnica che vi permetterà di averle perfettamente cotte all’interno e incredibilmente croccanti all’esterno. La ricetta è molto facile, ma è bene tenere a mente che: 1. La verza andrà cucinata all’interno di una cocotte; se il vostro barbecue è sufficientemente capiente potrete cuocerla insieme alle patate, in alternativa potrete prepararla sul fornello anche il giorno prima e scaldarla nel forno a microonde prima di servirla. 2. Le patate richiedono una cottura in due fasi: la prima fase può essere fatta al barbecue, nel forno a microonde o sottovuoto a bassa temperatura; la seconda fase di rifinitura è da farsi in cottura diretta sul barbecue nella skillet di ghisa.

Ingredienti per 3 persone:

una confezione di Smokehouse Chorizo Casero Pork Sausage. per le patate: un kg di patate di patate novelle / olio extravergine d'oliva q.b. / Sal’s Seasoning Ultimate Spog / uno spicchio di aglio in camicia / un peperoncino / rosmarino in polvere o tagliato finissimo / sale q.b. per i crauti: 500 grammi di cavolo verza rosso / 1 mela rossa / 1 cipolla / 1 foglia di alloro, 1 stecca di cannella / qualche bacca di ginepro / 2 chiodi di garofano / un paio di bacche di anice stellato / un cucchiaino abbondante di Sal’s Seasoning Ultimate Spog / 3 cucchiai di zucchero di canna / 4 cucchiai di aceto balsamico / 2 cucchiai abbondanti di marmellata di mirtilli / mezzo bicchiere di acqua / sale q.b. PREPARAZIONE 1. Predisponete le spezie per fare in modo che possano insaporire in cottura la verza senza perdervisi all’interno: fate un sacchettino di garza e all’interno mettete la foglia di alloro, la stecca cannella, l’anice stellato, i chiodi di garofano e le bacche di ginepro. Chiudetelo con dello spago da cucina e mettetelo da parte. Rimuovete le foglie esterne del cavolo rosso e tagliatelo radialmente in 4 grossi spicchi, rimuovete il gambo tagliando via la parte bianca al centro dello spicchio, affettate gli spicchi in strisce molto fine con il coltello o con l’aiuto di una mandolina.

3.

Affettate la cipolla, ponetela in cottura nella cocotte in abbondante olio di oliva insieme alla garza con le spezie e lo spog.

4.

Quando sarà sufficientemente stufata aggiungete la mela sbucciata e tagliata a mirepoix e il cavolo.

5.

Aggiungete quindi lo zucchero, l’aceto, l’acqua e la marmellata di mirtilli e amalgamate il tutto.

6.

Abbassate la fiamma e fate andare a fuoco coperto finché il cavolo non sarà ben cotto, giratelo e controllatelo di tanto in tanto per essere sicuri che non si attacchi al fondo, all’occorrenza aggiungete altra acqua.

7.

Eliminate il sacchetto delle spezie, aggiustate di sale, pepe e, se occorre, zucchero.

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2.

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8.

Lavate con cura le patate e pelatele (oppure potete lasciarle anche con la buccia). Se sono piccole lasciatele intere.

9.

Mettetele in una ciotola piena di acqua fredda e sciacquatele finché non smetteranno di perdere l’amido, lasciando l’acqua dove sono immerse limpida.

10. Asciugatele con cura, a questo punto potete passare alla prima fase di cottura secondo una delle seguenti modalità: a. Nel forno a microonde alla massima potenza per almeno 15 minuti avendo cura di girarle un paio di volte durante la cottura. b. A bassa temperatura: 30 minuti a 88 gradi. c. Nel barbecue: conditele con abbondante olio EVO, sale, spog, rosmarino e mettetele all’interno di una skillet di ghisa con lo spicchio di aglio in camicia; sigillate con cura la skillet usando dei fogli di alluminio, come se fosse un texas crunch: dovete fare in modo che durante la cottura l’umidità persa dalle patate non esca dalla skillet; mettete la skillet di ghisa in cottura diretta nel vostro barbecue e lasciatela lì per almeno 20 minuti. 11. Una volta terminata questa prima fase di cottura: a. Se avete usato il forno a microonde o la cottura a bassa temperatura: condite le patate con abbondante olio EVO e tutti gli altri ingredienti, posizionate la vostra skillet di ghisa nel barbecue a calore diretto, metteteci le patate e fatele rosolare girandole di tanto in tanto. b. Se avete usato la skillet di ghisa rimuovete la carta stagnola e continuate a farle rosolare a calore diretto, sempre girandole di tanto in tanto. 12. Proseguite la cottura finché le patate non saranno ben dorate.

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13. Mentre rifinite le patate potete cuocere le salsicce, facendole rinvenire in acqua bollente e poi piastrandole per avere una finitura più asciutta e scrocchiarella.

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Siete pronti per impiattare il tutto!


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Pochi ingredienti, risultato eccezionale!

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FILETTO DI VACA VIEJA con burro alle acciughe del Cantabrico

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Può succedere, dopo aver passato un bel pomeriggio assieme, che gli amici decidano di rimanere a cena quando non lo si era assolutamente previsto o che si decida di imbastire, cosi all'improvviso, una cenetta veloce ma che sia d’impatto per sorprendere chi si ama. Molto spesso si va nel panico o si decide di rinunciare, nella errata convinzione che certi eventi debbano essere prima di tutto perfettamente pianificati. Invece in questi casi perché tutto risulti perfetto, servono innanzitutto due cose: materia prima eccellente e un pizzico di passione. Per realizzare questo piatto ci siamo molto liberamente ispirati a un grande glassico della cucina francese: il filetto alla Rossini, che unisce la tradizione francese con un tocco di eleganza italiana. Gioacchino Rossini era un compositore famoso per la sua musica lirica e per la sua passione per la buona cucina. Per preparare il filetto alla Rossini di solito si utilizzano solo materie prime di altissima qualità, come un tenero filetto di manzo, foie gras e tartufo nero. Questi ingredienti conferiscono al piatto un sapore unico e raffinato, rendendolo perfetto per un’occasione speciale. Nel nostro caso siamo andati a semplificare il piatto, lasciando però il tocco “alla francese”, attraverso l’utilizzo del burro. E ovviamente anche noi abbiamo scelto una materia prima di altissima qualità: il filetto di Vaca Vieja Gallega che trovate sul nostro Megastore. È una carne selezionata di vacche da latte a fine carriera che, durante i pascoli, hanno beneficiato di un’erba grassa, ricca di iodio, fenomeno dovuto alla salsedine nell’aria atlantica. È caratterizzata da una spessa coltre di grasso giallo e una buona quantità di grasso infiltrato. Di certo non ha un gusto tipico di "bistecca" a cui siamo abituati. È una vera esperienza.

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Le acciughe che abbiamo aggiunto al burro con cui nappare il filetto hanno dato poi una grande dose di Umani. L'umami è un sapore "buono" che invoglia a dare un altro morso al cibo che lo contiene. È un sapore che si aggiunge a dolce, salato, amaro, aspro (da qui la definizione di "quinto sapore") e grasso (se si considera anche quest'ultimo, l'umami diventa il “sesto sapore"). L'umami si trova in coda alla lista dei gusti proprio perché, storicamente, è l'ultimo ad essere stato scoperto e riconosciuto: l'identificazione dell’umami è avvenuta nel 1908 ad opera del chimico giapponese Kikunae Ikeda e solamente nel 2003 sono stati identificati i ricettori presenti in bocca capaci di decodificarlo.

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Insomma, pochi ingredienti per un risultato eccezionale: provatelo e fateci sapere!

Ingredienti per 4 persone: 4

medaglioni di Vaca Vieja Gallega del Megastore / 150 g di burro / 1 mazzo di prezzemolo / uno spicchio d'aglio / una confezione di acciughe del Cantabrico / 1 limone non trattato / sale q.b. / pepe Tellicherry macinato al momento q.b.. PREPARAZIONE 1. Togliete i medaglioni di filetto dalla confezione e asciugateli bene, tenendoli anche per qualche ora avvolti nella carta assorbente; legate la circonferenza con dello spago da cucina in modo che rimangano poi il più possibili in forma rotonda anche dopo la cottura. 2.

Tenete il burro a temperatura ambiente e lasciatelo ammorbidire, poi tritete i filetti di acciuga scolati dal loro olio, insieme a uno spicchio d’aglio e al prezzemolo.

3.

Aggiungete al burro il trito di acciughe, di aglio e di il prezzemolo. Mescolate in modo da ottenere un composto omogeneo.

4.

Scaldate una padella in ghisa con bordo, quando è ben calda adagiate i medaglioni di Filetto ricercando la Maillard in entrambi i lati. Aggiungete il burro aromatizzato e nappate la superficie dei medaglioni aiutandovi con un cucchiaio in modo che la carne si insaporisca bene.

5.

Togliete subito dalla padella e regolate di sale e pepe. Spruzzate poche gocce di limone in superficie.

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Servite immediatamente, con un buon calice di vino rosso, magari di un ottimo Esimo Rosso Failoni 2015 sempre disponibile nel Megastore BBQ4All.


Un autunno in agrodolce

CARVERY STEAK e patate "apparecchiate" Nell’articolo dedicato ai tagli di manzo di questo mese, abbiamo trattato della Carvery Steak ricavata dallo Standing Ribs. Ora è il caso di provare, con una ricetta semplice semplice, le sensazioni uniche che questo taglio incredibile sa regalare. Useremo per la ricetta un taglio del Megastore BBQ4All, il Carvery Rib Steak Irlanda Emerald Green Crossbreed, con il suo perfetto rapporto tra sapore e morbidezza. Ci muoveremo ancora all’esterno, in questo scorcio di autunno, con il nostro fidato dispositivo a carbone: oltre che per la cottura della carne, ce ne serviremo per preparare un contorno dalle note agrodolci tipico della terra siciliana, le patate

apparecchiate, che accompagneranno al meglio il carattere deciso della carne. Si tratta di un contorno sfizioso e semplice da preparare. La particolarità di questo piatto è la nota agrodolce, data dall'utilizzo di olive nere, capperi e cipolla rossa. Come avrete notato, questo particolare sapore agrodolce si ritrova in altre preparazioni che provengono dalla stessa zona e che sono a base di verdura come la Caponata, le Cipolline glassate o le Melanzane in padella con olive e capperi. Le patate apparecchiate sono ottime come antipasto, ma anche come contorno per secondi piatti di carne e pesce. Vedrete come si sposeranno bene con la vostra Carvery Steak!

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Ingredienti per 2 persone: 1 Carvery Steak Irlanda

Emerald da 0,850 g / Rub Dallas Mild q.b. / un kg di patate / un cipolla rossa di Tropea / 150 g di olive Taggiasche denocciolate / 50 g di capperi sotto sale / un cucchiaio di aceto di mele / un cucchiaio e mezzo di zucchero di canna / olio extravergine d'oliva Sicilia Riserva GLC Top Selection q.b. / sale q.b. / pepe Tellicherry macinato al momento q.b. PREPARAZIONE 1. Pelate le patate e poi tagliatele a cubetti. Mettetele in pentola con acqua a coprire, cambiandola fino a quando non risulterà limpida. Scolate e asciugate bene. 2.

Settate il Kettle per una cottura diretta e ponete sulla griglia Gourmet la piastra in ghisa liscia a riscaldare.

3.

Versate un giro abbondante d’olio e rosolate bene i cubetti di patate per alcuni minuti rigirando spesso. Fate in modo che e patate formino una bella crosticina. Togliete e tenete da parte.

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Aggiungete altro olio se necessario e soffriggete la cipolla che avrete tagliata a fette sottili, fate imbiondire, aggiungete prima le olive, poi i capperi che avrete dissalato e alla fine le patate. Regolate di sale e pepe. Aggiungete acqua se necessario mescolando delicatamente.Versate l’aceto e lo zucchero

ultimando la cottura a coperto chiuso per una decina di minuti. Togliete e trasferite in un piatto da portata lasciando raffreddare completamente. 6.

Togliete la piastra e settate il dispositivo per una cottura indiretta stabilizzata sui 100°C-110°C.

7.

Togliete la Carvery dalla skin tamponando per asciugare l’eccesso di umidità. Passate un velo d’olio su tutta la superficie e poi una generosa dose di Rub Dallas Mild in maniera uniforme.

8.

Ponete la Carvery all'interno del dispositivo stabilizzato alla bassa temperatura indicata prima e portatela dolcemente attorno ai 48°C- 50°C. Alla soglia del target alzate la temperatura ai 150°C- 160°C aggiungendo della bricchette e rifinite con un passaggio in diretta per evidenziare la Maillard. Scaldate nel frattempo in forno un supporto (ardesia, biscotto o ceramica) da mettere poi a centro tavola per tenere al caldo la carne durante il servizio.

9.

Togliete la Carvery Steak dal dispositivo e fatela riposare per alcuni minuti la bistecca coperta con un foglio di alluminio appoggiato sopra, questo per dare modo ai grassi di ritornare leggermente più viscosi.

10. Servite a centrotavola dividendo i singoli muscoli che la compongono così come descritto nell’articolo macelleria ed accompagnate con il contorno di Patate apparecchiate.


Una zuppa di pane...con sorpresa!

BROTSUPPE E PORK SAUSAGE CHEDDAR JALAPENO Nel mondo sono moltissime le ricette (minestre, frittate, dolci e così via) nate dalla necessità di riciclare il pane. Fra tutte queste spiccano sicuramente le zuppe. In Europa sono davvero tanti i piatti a base di pane inzuppato in un liquido. In Francia, ad esempio, oltre alla celeberrima Soupe à l'oignon, troviamo anche la Soupe à la bière, una delizia preparata con brodo o fondo di pollo, birra, mollica di pane lasciati bollire insieme, quindi passati al mixer e completati con noce moscata e crème fraîche. Ma non è tutto: in Islanda, la Brauðsúpa è una zuppa dolce a base di pane di segale, acqua, prugne o uvetta, limone, zucchero e marmellata d’arance, mentre in Danimarca l’Øllebrød è una sorta di zuppa/porridge composta da pane di segale ammorbidito con acqua (e talvolta birra), zuccherato e sormontato da æggesnaps, un composto di tuorli d’uovo montati con lo zucchero.

Noi però in questo numero parliamo di Baviera e di Oktoberfest, per cui vi vogliamo presentare la zuppa di pane Bavarese o Brotsuppe: è un piatto medioevale di origine contadina realizzato con pane integrale raffermo; ed è proprio un specialità gustosa tipica della Festa della Birra! È una preparazione veramente nutriente e deliziosa, realizzata con pane vecchio prima abbrustolito in padella con il burro e le cipolle poi cotto in un sostanzioso brodo di carne. Per rendere questa specialità ancora più golosa abbiamo deciso di arricchirla con le nostre Pork Sausage Cheddar Jalapeno, salsiccia di suino, leggermente speziata con aggiunta di formaggio cheddar e Jalapeño, il peperoncino messicano di lieve piccantezza che darà un tocco strong al nostro piatto. Il pane, la cipolla e la salsiccia si uniscono in un mix perfetto di sapore e consistenza. È perfetta per un pranzo in famiglia o una cena informale con amici.

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Se amate i sapori forti e decisi, allora le zuppe delle cucine dell'est sono proprio quello che fa per voi. I grassi sono predominanti e il pane spesso viene rosolato nel burro prima di essere aggiunto ai liquidi. In Cecoslovacchia, ad esempio, la Kyselo è una zuppa di funghi aromatizzata con carvi e completata con pane a pasta acida rosolato nel burro, cipolla, patate, uova. Ma anche la Chlebova Polevka è una zuppa di estrema semplicità e molto variabile nelle sue versioni: il pane, di segale, viene rosolato nel burro per poi formare una zuppa con latte mescolato a tuorli e prezzemolo. Dall'Ungheria arriva la Kenyerleves Paraszt Modra, il cui impronunciabile nome nasconde, stando alla ricetta di Gundel, croste di pane secco fritte nel grasso con cipolla, lasciate bollire con acqua, prezzemolo, paprica, e con l’aggiunta graduale di uova intere sbattute.

Anche in Italia, come ben saprete, esistono diverse zuppe di pane: una su tutte, la zuppa toscana di cavolo nero, da cui poi nasce la più famosa Ribollita.

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Ingredienti per 4 persone: una

confezione di Pork Sausage Cheddar Jalapeno / 150 g di pane integrale raffermo / 60 g di burro / mezza cipolla rossa / 1l 1⁄2 di brodo di carne / 2 tuorli / 80 ml di panna fresca / sale q.b. / pepe q.b PREPARAZIONE 1. In una padella sciogliete il burro e tostate il pane (100 g) spezzato grossolanamente. 2.

Quando il pane è dorato aggiungete la cipolla tagliata a fettine sottili e salate.

3.

Quando entrambi gli ingredienti sono ben dorati, versate il tutto nel brodo e fate cuocere a fuoco medio-basso per circa 30 minuti.

4.

Mentre il composto cuoce, grigliate le salsicce.

5.

Preparate il dispositivo per una cottura indiretta a 180°C.

6.

Appoggiate le salsicce in cottura indiretta (dalla parte opposta delle braci), e lasciate andare avendo cura di controllare ogni tanto. Le salsicce sono pronte quando raggiungono gli 80°C al cuore.

7.

Passata mezz’ora togliete il brodo dal fuoco e frullate il tutto con il minipimer in modo che abbia una consistenza omogenea.

8.

Se necessario aggiustate di sale.

9.

In un recipiente a parte sbattete il tuorlo e la panna insieme.

10. Inserite il composto nella zuppa e fate cuocere per altri 5 in modo che si addensi. In una padella tostate il pane restante tagliato a cubetti, e affettate a rondelle le salsicce e la cipolla.

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11. Servite nei piatti la zuppa e adagiate sulla superficie il pane tostato e la salsiccia e la cipolla tagliata a fettine, completate con un po’ d’olio d’oliva e una spolverata di pepe nero.

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Ne ho facoltà – a cura di Chiara Lo Cascio

BIFE DE CHORIZO

CON RIDUZIONE DI BIRRA E CHIPS DI PATATE DOLCI

Sta iniziando l’autunno, si abbassano le temperature e si ritorna alle coperte sul divano, alle felpe ed alle bevande calde. È quella stagione che ti permette di mangiare il tuo comfort food preferito senza dover patire il caldo afoso e incessante dell’estate passata. Ah, che bellezza! Ritornano le zucche, le patate dolci, la torta di mele con la cannella e già riesco a sentire quell’odore meraviglioso e avvolgente dello stufato. Forse mi sono lasciata trasportare un po’. Faccio uno stappo alla regola. Sì, hai letto bene, uno stappo: seduta sul divano ripensavo agli ultimi giorni di saluti con gli amici prima del ritorno dietro ai banchi e mi ritornano in mente quelle due birre dimenticate in frigo dall’ultima grigliata, dal nostro Oktoberfest home made. Tra l’altro, l’Oktoberfest finisce il 3 ottobre che per me è proprio la data d’inizio delle lezioni all’Università. Ho deciso di non perdere tempo e di provare a cucinare qualcosa di particolare, che simboleggiasse questo nuovo inizio e che fosse rappresentativo della nuova stagione. Pochi e semplici ingredienti che fortunatamente avevo qui in casa. Per esperimento, provo a versare una di quelle birre in una padella e di farla andare a fuoco lento. per farne una riduzione dalle note amare. Cerco così un elemento che potesse contrastare l’amaro dando una nota di dolcezza: le patate dolci, che sono un comfort food immortale. Come sapete, in realtà la patata dolce...non è una patata! E’ una radice tuberosa, che con le patate condivide solo il nome, dal sapore dolce. La sua origine è da ricercare nelle aree tropicali americane, ma attualmente viene coltivata un po’ in tutto il mondo, Italia compresa. Il colore della buccia può variare dal rosso-aranciato al marrone al bianco, mentre la parte interna può essere gialla, arancione e anche violacea.

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È ricca di proprietà benefiche, tanto che il Center of Science in the Public Interest (CSPI) qualche anno fa l’ha messa al primo posto nella classica dei vegetali più salutari! Insomma, un comfort food senza sensi di colpa: il paradiso!

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Ingredienti per 2 persone: 1 birra scura / 1 bife de chorizo dal Megastore / sale Pick a Pepper dal Megastore / 3 patate dolci / olio di semi di arachide q.b.

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PREPARAZIONE 1. Rimuovete la bistecca dallo skin pack e asciugatela bene da entrambi i lati con della carta assorbente.

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2.

Lavate bene le patate e affettarle a rondelle molto sottili. Poi, tamponatele con un panno o con della carta assorbente per rimuovere tutta l’umidità in eccesso.

3.

Una volta asciutte, vanno fritte in olio bollente fino a completa doratura, per ottenere delle chips croccanti.

4.

Per la riduzione, versate in una padella la birra e lasciare sul fuoco lento finchè non si addensa.

5.

Ponete una padella antiaderente sul fuoco medio alto; quando sarà ben calda, cuocete la bistecca finchè da entrambi i lati non sarà avvolta da una crosta scura.

6.

Impiattate le chips e la bistecca, accompagnando quest’ultima con la riduzione e terminate la guarnizione con il Pick a Pepper a piacimento.


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FROM ZERO TO HERO

IL GIRARROSTO a cura di Michela Bongiorni

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Parlando di Oktoberfest o comunque più in generale di fiere autunnali, non possiamo dimenticare uno dei grandi classici che troviamo spesso in queste manifestazioni: il girarrosto. Di cosa si tratta? Possiamo riprodurre a casa un bel pollo cotto in questo modo? In questo articolo risponderemo alle domande più comuni su questo affascinante metodo di cottura.

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Il girarrosto, dunque, è uno strumento molto utile per la cottura delle carni allo spiedo. È molto simile ad un “grande forno”, composto da una parete di braci ardenti e da vari spiedi (chiamati in gergo tecnico schidono o schidioni, ossia quegli strumenti lunghi e sottili, appuntiti ad un'estremità, nel quale si infilzano le carni, solitamente realizzati in acciaio) a cui sono appesi i polli e le carni che girano continuamente attraverso un dispositivo meccanico. Si tratta di uno strumento molto pratico da usare e permette di ottenere una cottura perfetta delle carni.

Il kebab turco, il churrasco brasiliano, l'asado argentino e il léchon nelle Filippine sono tutte preparazioni che utilizzano la tecnica dello girarrosto, con modi e con tempi differenti, trattandosi anche di carni di tipi e grandezze diversi. Il girarrosto si è evoluto molto nel corso dei secoli. La prima volta che è stato utilizzato è stato intorno al 1450, in una rotisserie di Parigi. Dato che in quel periodo era tutto manuale e non c’era certo l’elettricità ad aiutarci, veniva fatto roteare a mano. I primi girarrosti erano posti in verticale, ma successivamente si è imposta la versione orizzontale, quella che conosciamo oggi. Nel corso dei secoli sono stati molti i tentativi di creare il perfetto girarrosto, per renderlo il più efficiente e automatico possibile. Ci furono girarrosti a vapore, a pendolo, a bottiglia: perfino Leonardo Da Vinci nel 1607 brevettò il suo girarrosto che sfruttava una turbina a quattro pale per produrre fumo e calore.


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QUALI SONO I SEGRETI DEL GIRARROSTO? Voi amanti delle carni alla griglia dovete assolutamente provare questa tecnica di cottura. Si basa su un principio che può sembrare banale: far cadere continuamente i succhi di cottura sulla carne, mantenendola così umida e saporita per tutto il tempo. Il risultato è una carne decisamente più gustosa e succulenta. Provare per credere! Ma come si fa? Ecco i segreti del girarrosto: #01. Il calore deve essere dolce e la cottura lenta. In questo modo è possibile preservare la succulenza interna della carne. Sappiamo che maggiore è la quantità di calore a cui viene sottoposto un pezzo di carne, maggiore è anche la contrazione delle fibre e quindi la perdita di liquidi. Per questo motivo dobbiamo necessariamente mantenere la temperatura bassa per limitare la perdita dei liquidi. #02. Il calore dolce e i tempi lunghi disidratano la superficie che, in questo modo, lascia spazio alle reazioni di Maillard, creando quella gustosissima e croccante crosticina esterna. Lo abbiamo ripetuto fino allo sfinimento: una qualsiasi superficie

non può essere croccante se al suo interno contiene acqua. Il lungo tempo di esposizione al calore secco asciuga la superficie delle carni allo spiedo rendendolo incredibilmente croccante esternamente. Esistono però alcune malizie per potenziare l’effetto gustativo del girarrosto. Una su tutte: raccogliere i liquidi in caduta e usarli per spennellare la carne. Questa operazione, oltre a dare sapore, rallenta la disidratazione superficiale. Utile per esempio nei pezzi di carne molto grandi che necessitano tempi di cottura anche di alcune ore. #03. Oggi esistono degli accessori, compatibili col girarrosto (ad esempio i cestini) che permettono di cuocere con questo metodo anche ingredienti impossibili da innestare in uno spiedo. Come le patate per esempio. Prendete le patate tagliate a spicchi, con la buccia, speziate, inseritele nel cestino che a sua volta si innesta sullo spiedo e lasciatele cuocere lentamente. L’effetto è il medesimo: crosticina croccantissima fuori, interno morbido e fondente. Ovviamente, le possibilità offerte dalla spada e dai cestini sono praticamente infinite. Basti pensare alle ali di pollo o di tacchino, alle salsicce, alle polpette, alle verdure, alle castagne e perfino ai pop corn.

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Tomatolandia

a cura di Nunzia Clemente

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Viaggio tra i produttori d’Italia di conserve, barattoli e molto altro fatto con i pomodori

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Gastronomica-Mente adora scoprire prodotti e produttori: è un lavoro lungo e certosino che mira a proporvi il meglio da portare nella vostra dispensa, nel vostro frigo e sulla vostra tavola, che viene coordinato dalla Redazione con l’aiuto preziosissimo dei nostri Food Hunters.

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rmai è ottobre: se non siete tra quelli che hanno la fregola estiva di farsi le conserve in casa, oggi vi starete chiedendo da chi comprare le provviste di pomodoro (in bottiglia, in scatola, pelato, da appendere al soffitto) per tirare a campare tutto l'inverno. Perché va bene il freddo, la pioggia e tutti i disagi, ma vivere senza una scorta di buon pomodoro in conserva, no. Siete capitati nel posto giusto: Gastronomica-Mente vi aiuterà a scegliere il meglio in scatola, in barattolo di vetro o in bottiglia per affrontare i vostri regali pasti a base di pomodoro nei mesi a venire.

Vi avviso: star dietro alle faccende produttive e commerciali dei pomodori (da freschi, così come sotto forma di conserve di pomodoro), è come seguire Dynasty. Il mercato italiano, a riguardo, è praticamente un fermento continuo. Produttori che nascono e che muoiono, che si trasformano, che creano brand ad hoc con linee dedicate, contraffazioni (pensate al pomodoro San Marzano DOP, che risulta essere uno dei prodotti italiani più contraffatti, al pari dell’aceto balsamico di Modena IGP e del Parmigiano Reggiano DOP), pomodoro importato ed esportato: parliamo dopotutto di un comparto che, secondo i dati del 2020, ha generato un fatturato di 3,5 miliardi di euro con il “solo” pomodoro da industria, con una bella fetta dedicata all’export.

La Mappa dei produttori di pomodori di Gastronomica-Mente è fatta dai Food Hunters, insieme a noi. Proponi il tuo pomodoro! Mettiamo subito le cose in chiaro. Non è una mappa definitiva di tutti i grandi, medi e microproduttori di pomodoro in barattolo e in conserva. Sarebbe quasi impossibile. Non siamo di quelli che mettono i nomi a casaccio. Nelle mappe di Gastronomica-Mente ci si entra su segnalazione dei nostri Food Hunters, che cercano, acquistano, provano il prodotto, lo riprovano e lo segnalano. È un lavoro minuzioso, di indagine e di servizio agli utenti: segnaliamo le esperienze buone, sperando possiate farne tesoro. Sei un produttore/hai un brand coinvolto nel mondo del pomodoro e non sei nella nostra mappa? Segnalaci la tua attività tramite email oppure messaggio privato ai nostri canali social. Insieme ai nostri Food Hunters valuteremo i tuoi prodotti e, se li valuteremo meritevoli di assaggio per i nostri utenti, potrebbero essere inclusi nella prossima edizione della Mappa del Pomodoro di Gastronomica-Mente.

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Ma non di solo pomodoro da industria è fatto il mondo conserviero rosso italiano: esiste una costellazione di microproduttori, di brand, di aziende agricole che produce e commercializza (talvolta produce, talvolta commercializza) moltissimo pomodoro in Italia, che sia in vaso, in bottiglia oppure in latta, tanto da formare un mercato parallelo altrettanto florido e che spesso si muove fuori dalla grande distribuzione. Queste aziende agricole - talvolta più grandi e strutturate, altre volte composte da singoli o al massimo famiglie - contribuiscono a mantenere vivi i loro territori, coltivando varietà di frutti che spesso non avrebbero mercato nel molto più grande mondo del pomodoro da industria.

Dal già sopracitato San Marzano DOP, passando per il pomodorino cannellino flegreo, il pomodoro prunill, il pomodoro pera d’Abruzzo ed altri ancora: questi ecotipi sarebbero insufficienti per le quantità dell’industria, oltre che di difficile lavorazione, spesso per i risultati altalenanti e fragili, inadatti ad essere lavorati con macchinari ad alta velocità di raccolta e trasformazione. Ma che, con le tecniche e i tempi di lavorazione degli artigiani, riescono a resistere e trovare una nicchia di mercato, sia tra gli appassionati consumatori finali che, talvolta, nella ristorazione. Giusto per fare un esempio, il mondo pizza ha fatto molto affinché varietà quasi scomparse di pomodoro venissero riprese ed utilizzate, dapprima sul disco di pasta, per poi finire tra i gadget e i souvenir gastronomici dei più fissati. E più di qualche pomodoro (e relativo marchio), gira che ti rigira, dalla pizza del pizzaiolo è finito nei reparti gourmet dei supermercati più forniti, o ancora di più nei negozi di delikatessen, anche sparsi in tutto il mondo.

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Come riconoscere un buon pomodoro in barattolo o bottiglia? Cerchiamo di tracciare delle linee guida utili per il consumatore. Di certo, il consumatore medio non ha la possibilità di spulciare tra le schede tecniche dei prodotti e, quindi, vedere i valori di zuccheri, dell’acidità del pomodoro e quant’altro, dovendosi affidare unicamente alle prove visive, a ciò che legge in etichetta oppure alle conoscenze di chi seleziona i prodotti che troviamo nei negozi, online ed offline. Ecco un elenco, puramente esemplificativo, che dovreste seguire nella scelta consapevole di un barattolo di pomodori.

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L’origine dei pomodori. Certo, esistono strumenti che ci permettono di tracciare ogni momento di vita del nostro frutto (vedi, blockchain), ma resta sempre molto fumosa in certi casi l’origine del pomodoro. L’origine Italia ci dà già una garanzia che il prodotto è stato lavorato in tempi relativamente brevi, cosa da non sottovalutare in un prodotto così deperibile. 2. La chiarezza in etichetta. Etichette chiare ci aiutano a comprendere meglio cosa ritroviamo in bottiglia o dentro la scatola. Possono fornirci indicazioni sull’anno di raccolta ed inscatolamento, oltre che info utili sullo stabilimento di trasformazione del fresco, che può essere diversa dalla sede del brand. 3. Dal campo alla scatola. Un concetto che chiarirò meglio nel paragrafo che segue, ma in sostanza più informazione avrete sui prodotti, sulla filiera produttiva e sulla messa in vendita, più avrete strumenti per decidere se quel prodotto “fa per voi” oppure no. Esistono tecnologie blockchain, ma anche semplicemente la “narrativa” che si esplica attraverso siti internet, visite guidate nelle aziende, tutto il mondo conoscitivo e comunicativo che può avere un’azienda. Spesso, i microproduttori non hanno potenza comunicativa e preferiscono produrre e trasformare, per poi lasciare il compito vendita ad altri. 4. Andiamo a vedere cosa c’è “dentro”. Per i pomodori pelati, un buon indicatore lo troviamo all’apertura, dopo l’acquisto. Prestate il “naso” ad odori troppo acidi, che non sono segnali a favore. La presenza di pomodori pelati “interi” è un altro ottimo indicatore. Pomodori spappolati, no. Inoltre, devono essere in buon numero ed il succo nel quale sono immersi deve essere in buon rapporto con essi. Discorso simile per i pomodori e pomodorini interi, immersi in acqua e sale, ma lì abbiamo il vetro a facilitare la situazione che ci farà desistere alla visione di troppi pomodori spaccati ed altro. 5. Andiamo a vedere da vicino come deve essere una buona passata di pomodoro. Vale la stessa regola all’apertura, un cattivo odore dovrebbe già farci desistere: sui bordi ed all’interno del tappo, spesso in concomitanza di cattivi odori, può esserci la presenza di residuo poco gradevole alla vista oppure addirittura di muffe. Una buona passata di pomodoro ha l’odore di fresco, come di appena raccolto, un colore vivido di pomodori. Provata da cruda, non dovrebbe presentare salinità o dolcezza che non siano quelle proprie del frutto. Sono più che ammesse aggiunte di basilico a pezzetti: questo ne dovrebbe amplificare l’odore e il sapore, sia da cruda che da cotta.


Produttori e brand. Alcuni brand selezionano egregiamente pomodoro, altri lo producono molto bene. Spesso, sul mercato (online ed offline) ci ritroviamo una miriade di brand, una galassia di nomi anche che “spuntano” all’improvviso e che hanno la capacità di proporre prodotti anche di fascia alta, ottimi ed indimenticabili… così come qualche volta si incappa in un prodotto bellissimo da guardarsi ma che non riesce a mantenere costanza nel tempo.

il grande cappello dei “contoterzisti”.

Detta in maniera molto più pratica, ci sono produttori che decidono di offrire servizi di approvvigionamento e lavorazione del prodotto, “schivando” tutta la parte del commercio al dettaglio. Detto in parole molto più semplici, sono produttori che si rivolgono ad un mercato b2b e non ad un mercato b2c. Una volta, era molto comune trovare il loro nome sotto

E questo, se siete attenti, non dovrebbe farvi storcere il naso. Molti brand sono assolutamente capaci di selezionare prodotti ed affidarne la lavorazione alle aziende, che hanno molta più esperienza di loro in questo. E spesso, potreste ritrovarvi tra le mani dei prodotti unici, selezionati con molta attenzione, non per tutti.

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Produttori di pomodoro e marchi di pomodoro sui mercati fisici e non sono spesso due cose che non vanno di pari passo: ce ne accorgiamo leggendo l’etichetta.

Riassumendo di molto, è leggermente più complicato trovare coloro che seguano la filiera “dal campo alla lattina”, mentre è molto più semplice trovare brand che acquistano (anche prodotti di altissima qualità) da altri per poi etichettare e vendere col proprio marchio. Come mai questa premessa lunga ed anche un po’ articolata? Perché, leggendo le etichette, vi potrà capitare di notare che diversi brand facciano capo ad un solo stabilimento di produzione.

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E i pomodori che trovo al supermercato? Alt: so già cosa state pensando, dopo tutto la spiegazione infinita di sopra. Che il pomodoro del supermercato è da evitare. La risposta è no, anzi. Basta conoscere e soppesare ciò che si ha davanti. Spesso, i top player di mercato sono capaci di garantire forniture e standard costanti per tantissimo tempo. Per tutto l’anno. Questo accade perché le industrie conserviere sono capaci di selezionare all’origine semi e terreni che daranno frutti con precise caratteristiche, con buccia spesso più resistente, che rende i pomodori adatti ad essere raccolti a macchina. D’altro canto, potreste non trovare una varietà ampia, come le specialità territoriali che i piccoli produttori possono produrre di anno in anno, in quantità contenute. Questo accade anche perché i frutti coltivati dai microproduttori fanno parte di ecotipi molto più delicati, non adatti alla raccolta a macchina e quindi difficili da poter commercializzare su larghissima scala. Da mettere anche in conto che molti di questi ecotipi vengono ad oggi raccolti interamente a mano, su territori relativamente piccoli: pensate ad esempio il pomodoro del Piennolo oppure, ancora, il già citato pomodoro San Marzano DOP. Ma, se scegliamo un pomodoro al supermercato, quale possiamo scegliere?

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Girando tra gli scaffali dei supermercati, ci renderemo conto facilmente da soli che la scelta abbonda. Non

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è tutto rosso ciò che vogliono far scintillare ai nostri occhi, però sarebbe ingiusto negare l’esistenza di una fetta di aziende che lavora (o commercializza) pomodori da industria e lo fa egregiamente. Come sempre, in ogni caso, imparare a leggere le etichette è l’operazione preliminare più importante: più sono chiare, più ci sono probabilità che il prodotto all’interno sia migliore, godibile e al massimo delle sue possibilità. Qualche nome? Ve li fornisco, tra produttori e marchi, ma soltanto perché noi di Gastronomica-Mente (redazione e Food Hunters) vogliamo voi siate sempre preparati a portare il meglio a tavola, anche nella giungla del pomodoro da scaffale. Ecco a voi qualche nome utile, se dovete scegliere il pomodoro al supermercato, in ordine assolutamente sparso. • La Torrente (corposissima la passata di pomodoro) • La Fiammante; • Pomodoro Mutti (l’utilizzo del pomodoro tondo di Parma dà ottimi risultati da un punto di vista di grandi produzioni); • Alce nero; • Rominella (occhio alle etichette, ché potreste trovarlo come produttore anche di altri brand!) • La Casereccia (idem come sopra); • De Rica; • Rosso Gargano (più di nicchia, ma con presenza in molti punti vendita della GDO e con focus sul pomodoro 100% pugliese).


Territori&Pomodori Condizioni molto favorevoli per la coltivazione e la lavorazione del pomodoro le ritroviamo, sicuramente, in alcune regioni più che in altre. Partendo dal clima e dal terreno favorevole, si sono verificate due situazioni: 1.

2.

Finalmente, ecco la mappa delle conserve di pomodoro (passate, pelati ed altre specialità) firmata Gastronomica-Mente. Alcuni tra questi produttori, hanno una rete di distribuzione più che buona e potete trovarli in giro. Altri, bisogna scovarli… e se ne avete l’opportunità, anche di andarli a trovare presso le sedi. Alcuni producono quantitativi importanti di prodotto (e qualcuno riesce a finire nei negozi specializzati… anche all’estero!), altri poche migliaia di unità. Un filo “rosso”, è il caso di dirlo, li unisce: sono prodotti incredibilmente buoni e versatili, da utilizzare per preparazioni degne di nota ma che siano a portata di mano ogni giorno.

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I piccoli coltivatori hanno continuato a coltivare specialità, favorendo la biodiversità ed il mantenimento di ecotipi di pomodoro che sarebbero andati persi. Spesso, i loro terreni sono di dimensioni ridotte rispetto agli appezzamenti di terreno a disposizione delle industrie. Le industrie, invece, si sono specializzate in colture migliorate ad hoc e nei territori specifici si sono ramificate con tutti i servizi connessi: dalla produzione, alla lavorazione, all’inscatolamento e logistica. Grazie a queste caratteristiche innate e successivamente sviluppate, molti territori sono diventati delle autentiche Tomato

Valley; motivo per il quale, troverete moltissime aziende agricole e stabilimenti in territori come Campania e Puglia.

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ABRUZZO

MOLISE

Spinelli Conserve Alimentari Casoli (CH) L’Abruzzo è terra di pomodoro; l’azienda Spinelli, da decenni specializzata in conserve alimentari, porta avanti la tecnica e la tradizione della passata prodotta con pomodoro pera d’Abruzzo, una varietà pregiata che prende il nome dalla forma molto particolare del frutto, oltre che ad essere molto grande. Come sapore, si presenta molto dolce ed equilibrato, così come la passata da esso ottenuta.

Orominerva Cerro al Volturno (IS) Pomodoro come core business per Orominerva, ma non solo: c’è anche una buona rappresentanza di altri prodotti da scaffale, come pesti e creme (interessanti quello rosso al tartufo, oppure la crema di carciofini al tartufo). Per quanto riguarda i nostri frutti rossi, troviamo una memorabile e pluripremiata passata di pomodoro, ma notevoli anche gli altri prodotti, come i pomodorini datterini paesani.

Verde Abruzzo Città Sant’Angelo (PE) Con il brand Selezione Fragassi, dal 2005 l’azienda Verde Abruzzo produce oli e conserve di pomodoro, specialmente passate di pomodoro con la varietà pera d’Abruzzo, che viene coltivato direttamente nei terreni dell’azienda e in loco trasformato. Il packaging strizza l’occhio al vino, con la bottiglie di passata addirittura presentate in cassetta di legno singola.

Quarto dei Greci Ururi (CB) “Il Molise esiste”, questo il motto dell’Azienda Agricola Maresa snc, sul mercato con il brand Quarto dei Greci. Partendo dalle produzioni di pomodoro (sotto forma di conserve, pomodori pelati in barattolo e diversi ottimi sughi pronti ottenuti esclusivamente da pomodori freschi), si passa ad altro tipo di conserve ortofrutticole, ottenuti esclusivamente da prodotti coltivati tra il Molise, l’Abruzzo, il Lazio e la Puglia.


PUGLIA

CAMPANIA

Cocco Food Stornarella (FG) Oltre il pomodoro - che rappresenta un core business per l’azienda - sotto il marchio Cocco Food in realtà c’è molto del buono pugliese. Per quanto riguarda il pomodoro, l’azienda presenta quello 100% pugliese: dai pomodorini datterini pelati, ai pomodori lunghi spaccati, fino alla curiosa Salsa Marina, passata di pomodori pugliesi.

Terre Lavorate Sarno (SA) Un nome esplicativo, ma cosa sono, le “Terre Lavorate”? Detto in poche parole, queste terre rappresentavano la zona maggiormente coltivata dell’area, che beneficia ancora tutt’ora di acqua sorgente direttamente dai Monti Picentini. Cuore della produzione di Terre Lavorate è di sicuro la coltivazione e la lavorazione del pomodoro San Marzano DOP, che in questi terreni sono molto più “equilibrati” (rapporto acqua:materia solida del frutto, in salinità, in dolcezza) rispetto allo stesso ecotipi prodotto su terreni differenti. Da tenere d’occhio anche l’altra azienda familiare, Montoroerbe, che produce tra le altre cose tantissimi tipi di fiori commestibili.

Azienda Agricola Calemone Terranova (BR) L’Azienda Agricola Calemone - Torre Guaceto riporta sulle tavole la produzione e lavorazione del pomodoro fiaschetto, in un passato nemmeno troppo lontano dedicato soltanto al mercato locale del brindisino. Si tratta di un pomodoro ovale e dalla polpa carnosa, molto versatile per essere trasformato in passata di pomodoro Fiaschetto, nonché in pomodoro semi-dry. Agricola Paglione Lucera (FG) L’Azienda Agricola Paglione è situata nel foggiano, in Puglia, territorio storicamente legato alla produzione del pomodoro italiano ed ancora tutt’oggi considerato un luogo di riferimento per ottenere un prodotto di qualità pregiata. Dal 1994, quest’azienda vive la conversione ad azienda biologica. Fiore all’occhiello, nel loro caso, è la produzione del pomodoro prunill, tipico della zona di Lucera. Il pomodoro prunill (da “prun”, protuberanza) è un pomodoro piccolo ed allungato, raccolto in agosto e conservato a grappolo tramite un sottile filo di ferro. Viene trasformato in passate molto vellutate, grazie allo speciale metodo di lavorazione a maglie strette, che ne estrae quasi tutta la polpa, concentrandone il sapore.

Casa Marrazzo Pagani (SA) Situata nel cuore pulsante della produzione di pomodoro San Marzano, Casa Marrazzo propone una linea piuttosto vasta di prodotti del pomodoro oltre che altro del mondo agricolo. La novità di quest’anno (e presentata alla festa di fine raccolto 2022 del settembre scorso) è rappresentata dalla Collezione 1934, una serie in vaso che strizza l’occhio al country chic. Top di classe, il corbarino in acqua di mare e la passata di pomodorino datteri. Eccellenze Nolane - Agriturismo di Città Nola (NA) L’estesissimo Agro Nolano ha subìto, nel corso dei decenni, un generale (ed ingiusto) impoverimento anche a livello di immagine; Eccellenze Nolane (che conta, come attività fisica, un agriturismo nel pieno centro della città bruniana) attua da qualche anno un buon recupero del patrimonio agricolo locale, soprattutto in campo pomodori. Degna di nota,

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Azienda Agricola Le Lame Cutrofiano (LE) Le Lame è tra le più storiche aziende agricole di stampo biodinamico della Puglia ed in particolare del Salento. La loro produzione, parlando di numero di prodotti esistenti, è vasta e copre molta parte del mondo ortofrutticolo. Per quanto riguarda strettamente il pomodoro, abbiamo la presenza di pomodorini in vetro, passata in vetro ed un super concentrato di pomodoro, prodotto in maniera totalmente artigianale.

Agrigenus Acerra (NA) Agrigenus è il marchio che corrisponde a Bioagriworld, da anni impegnato nella rivalutazione del pomodoro San Marzano DOP dell’acerrano. Ed è proprio con la lavorazione del pomodoro San Marzano DOP che Agrigenus vede una buona diffusione, soprattutto nel campo della pizza napoletana moderna, che un po’ ne ha decretato l’ascesa. Si tratta di un ecotipo di San Marzano con minore contenuto di acqua, più “carnoso”, ricco di fibre e per questo adattissimo alla lavorazione per la pizza.

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la passata di pomodorino caramella nolano (una varietà riportata in auge da poco, che presenta una dolcezza spiccata).

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Azienda Agricola Giolì San Sebastiano al Vesuvio (NA) Conosciuta come “Giolì” dagli addetti ai lavori, questa azienda agricola che è praticamente sul Vesuvio propone una serie di bontà territoriali sia fresche che in vasetto, praticamente di inestimabile valore. Cavallo di battaglia? Sicuramente, l’arcinoto pomodorino del Piennolo, venduto sia fresco (nella caratteristica formazione “a grappolo”), che lavorato in vetro come pomodorino del Piennolo al naturale, a pacchetelle, o ancora in una memorabile passata. Se siete vicini, vale la pena prendere contatti anche per la fornitura di altri prodotti ortofrutticoli freschi.

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Donnanù Sarno (SA) Da un progetto dell’Azienda Agricola Fasolino di Sarno nasce Donnanù, pomodoro declinato al femminile, con “boccacci” dalle linee fashion e molto contemporanee. Punto a favore, la presenza

del pomodoro San Marzano DOP nell’offerta. Maida Capaccio Paestum (SA) Marchio appartenente all’Azienda Agricola Vastola, tra i primissimi a proporre “la pummarola” vestita in abito da sera, praticamente. L’azienda agricola Maida, della famiglia Vastola, con sede a Capaccio Paestum, mette in vetro pomodoro e moltissime altre specialità di quel lembo molto fertile di terra. Iconiche, le passate di pomodoro giallo nella bottiglia sciampagnotta, così come le passate di pomodoro in bottiglia sciampagnotta o vaso. Borgo La Rocca San Nicola Manfredi (BN) Questa azienda agricola, in provincia di Benevento, lavora prodotti ortofrutticoli biologici sin dal 2005. La passata di pomodori prevede l’utilizzo di diverse varietà di pomodori (biologici), lavorati a mano dopo diverse selezioni manuali per scegliere i migliori. Utile anche l’idea dei “piccolini”, conserve di ortaggi in vaso di dimensioni ridotte, per chi ha paura di non terminare in tempo un vaso più grande.


I Sapori di Corbara Corbara (SA) Marchio storico per la produzione e commercializzazione di pomodoro, con focus sul corbarino, data la posizione privilegiata di Corbara, al varco con la Costiera Amalfitana, alle immediate pendici dei Monti Lattari. Punta di diamante, come detto poco su, la produzione e commercializzazione del pomodorino corbarino, che qui assume sfumature decise ed inconfondibili rispetto ad altri (pur pregevoli) prodotti simili della penisola amalfitana e sorrentina. Tutto ciò si traduce in Corbarì, la linea dedicata al pomodorino, che lo vede protagonista di passate e pomodorini in barattolo. DANIcoop Sarno (SA) Storica cooperativa di agricoltori, che si dedica alla coltivazione ed alla trasformazione del pomodoro San Marzano DOP ed altri pomodori tipici dell’Agro-Nocerino Sarnese, come il pomodorino crovarese, un particolare tipo di pomodorino corbarino che cresce sui monti della Valle del Sarno. Vanta un’ottima distribuzione (potreste trovarla anche in qualche reparto gourmet della GDO, oltre che nei delikatessen all’estero!) con il marchio Gustarosso.

BASILICATA Cara Terra Lucana Chiaromonte (PZ) Sin dagli anni Sessanta del secolo scorso, la famiglia Mele produce conserve e prodotti agricoli, comprese passate di pomodoro stagionale che vede protagonista il pomodoro lucano, coltivato nel Parco Nazionale del Pollino e che viene lavorato appena raccolto. Conservificio Tipica, Natura Nuda Montescaglioso (MT) In provincia di Matera, il nome di questa realtà è altamente esplicativo: non sono ammessi esaltatori di sapidità, conservanti o altro che possa alterare il frutto o l’ortaggio raccolto, sempre secondo stagionalità. Le “Conserve Rosse”, cioè tutto ciò che riguarda il mondo pomodoro, vede la presenza di latte di pomodoro lungo e pomodorino pelati ed una passata, sempre mista ma di pomodori tondi e pomodorini (e quest’ultima merita un deciso perché ed un onorevole primo piatto).

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L'Arte Bianca a cura di Alessandro Trezzi

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La scienza della panificazione non è nuova su queste pagine: Gastronomica-Mente darà uno spazio ancora più ampio, per farvi sperimentare ancora di più . . Quando ho cominciato ad appassionarmi di panificazione ero, come tutti, prettamente concentrato sui cereali più conosciuti. Il grano tenero, nelle sue diverse classificazioni, è senza dubbio il più utilizzabile in quanto panificabile con facilità, soprattutto per chi comincia da zero. C’è anche da dire, tuttavia, che fino a qualche anno fa le informazioni sugli altri cereali erano rare, poco approfondite e anzi, spesso contraddittorie e frutto di leggende metropolitane. Tra la demonizzazione delle farine raffinate, del glutine e altre baggianate, iniziarono a diffondersi prodotti di pura moda, senza qualità, senza sapore e soprattutto completamente privo delle caratteristiche necessarie alla panificazione. E non valeva solo per le farine acquistati, ma anche per i prodotti assaggiati: tutto ciò che veniva venduto come “alternativo”, “integrale” o peggio “antico” era generalmente insapore, basso, schiacciato, dalla mollica cruda e compressa oppure secco, vetroso ed immangiabile. Per fortuna, in qualche punto nevralgico iniziava a diffondersi la vera cultura del cereale, promossa da quei pochi rimasti a fare ordine nella confusione. Parlavano di natura, di specie, di caratteristiche tecniche ma, soprattutto, di profumi. Tra questi, il mugnaio Fulvio Marino ed il panificatore Davide Longoni. E fu proprio un’intervista di quest’ultimo ad accendermi grandissima curiosità per alcune varietà non vecchie, non antiche bensì dimenticate, tra cui la segale.

UN CEREALE SORPRENDENTE

Panificare un cereale molto grezzo e con poco glutine non è semplicissimo e richiede l’utilizzo di alcune metodologie ben precise; se seguite alla perfezione, tuttavia, la soddisfazione finale sarà impareggiabile. Grazie all’alto contenuto di fibre la segale è in grado di assorbire molta acqua e mantenere una grande umidità; la mollica sarà fitta e umida, il pane generalmente abbastanza basso, ma la conservazione sarà molto elevata, tra le più lunghe conosciute per un pane, che arriva in alcuni casi anche a tre settimane o un mese. Si tratta, in realtà, di una prospettiva abbastanza idilliaca: se ben realizzato un pane di segale vi durerà meno degli altri, perché finirà nel vostro stomaco in pochissimo tempo. La cosa più sorprendente è il suo profumo: note intense di frutta secca, di cioccolato e frutti rossi, tostate, mielate e incredibilmente aromatiche. Se utilizzata al 100%, e soprattutto se viene scelta una varietà integrale, la segale riesce ad esprimere tutto il suo potenziale e a diventare una compagna insostituibile anche nelle colazioni, mostrandosi incredibilmente indicata per abbinamenti dolci, e sensazionale con formaggi e salumi.

IL LIEVITO MADRE Questo cereale ha inoltre un’altissima quantità di amilasi, enzimi che scompongono gli amidi in zuccheri più semplici, e che in grande quantità rischiano tuttavia di rendere appiccicoso l’impasto, limitando l’apertura della mollica e rendendo difficoltosa cottura e quindi conservazione. Per tal motivo è necessario che un pane di segale venga realizzato esclusivamente con lievito madre, che inibisce con la sua acidità e i batteri lattici l’azione delle amilasi, riducendo il problema. Non solo: senza una madre acida le proteine della segale faticano a creare un legame saldo, rendendo ancor più difficoltosa la pratica panificatoria . Perché un lievito madre sia della giusta acidità (pH tra 3.8 e 4.0) vi basterà eseguire questa operazione:

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Nel nostro paese la segale viene coltivata specialmente al Nord, in zone collinari e montane. Ha un basso impatto ambientale, è una pianta molto alta (raggiunge non di rado il metro e mezzo di altezza) e soffoca quindi in maniera naturale le infestanti. Contiene glutine, seppur in bassa quantità, ma soprattutto ha la maggior quantità di fibra solubile, un fattore che la rende meno calorica, con un basso indice glicemico, ma che permette di saziare facilmente senza appesantire.

IL PANE 100% SEGALE

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effettuate un rinfresco 12-16 ore prima di impastare, e lasciate la madre a temperatura ambiente; se ben attiva, dopo 4 ore sarà triplicata e nel tempo successivo inizierà piano piano a collassare e il suo pH si abbasserà progressivamente. Circa 4 ore prima di impastare effettuate l’ultimo rinfresco, con le dosi che vedremo nella ricetta, utilizzando una parte di farina di segale; in questo modo il pH non riuscirà a salire ai canonici 4.1 ma si manterrà leggermente più basso, consentendovi di panificare in tranquillità questo cereale complicato. Per farvi un esempio potete rinfrescare la sera prima, il mattino procedere con l’ultimo rinfresco e impastare dopo circa 4 ore.

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Se i vostri tempi sono più stretti, e avete necessità di partire dall’impasto già al mattino, agite in questo modo: rinfrescate al mattino o primo pomeriggio, effettuate l’ultimo rinfresco dopo 4-6 ore (quando il lievito sarà triplicato), aspettate di vederlo poco più che raddoppiato (2-2.5x) e mettetelo in frigorifero a 6 °C. Il mattino sarà leggermente collassato ma più consistente e stabile, sintomo che il suo potere ottimale è arrivato al limite.

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LE DUE TECNICHE Ci sono due scuole di pensiero per la panificazione della segale: a caldo e a freddo. La prima, rappresentata da professionisti come Davide Longoni, prevede di utilizzare acqua a 38°C circa per il rinfresco del lievito madre e tra i 32°C e i 38°C per l’impastamento; l’acqua calda, a contatto con la farina, gelatinizza una parte degli amidi rendendo il composto molto più malleabile, facilmente lavorabile e in grado di gestire meglio la grande umidità residua. I profumi virano, addolciscono e risultano più intensi e corposi . La seconda invece, portata avanti da panificatori come Marco Lattanzi, prevede una lavorazione interamente “a freddo”, con acqua a temperatura ambiente che non supera mai i 24°C-26°C, sia per il rinfresco del lievito sia per l’impastamento; la panificazione sarà più complessa da gestire, ma i profumi risulteranno essere quelli naturali della segale, più spigolosi e aciduli.


La scelta è del tutto soggettiva, e io stesso non so ancora dirvi quale metodologia preferisco; il mio consiglio è di cominciare lavorando a caldo, in modo che la gelatinizzazione vi aiuti a padroneggiare un impasto molto difficile, per poi passare alla tecnica a freddo quando vi sentirete pronti. A quel punto sarete voi a scegliere il vostro metodo preferito.

altrimenti perderebbe la poca forma acquisita. Aiutatevi con un tarocco, specie per girarlo, spostarlo e per assicurarvi che si stacchi dal piano. L’obiettivo è quello di avere in poche mosse (senza che sia nemmeno necessaria una pre-forma) un panetto chiuso, che andrà a riposare nei cestini fino al raddoppio.

I TEMPI DI RIPOSO

L’IDRATAZIONE

La segale è un cereale debolissimo, con poco glutine, ma con un’attività enzimatica molto accelerata; per tal motivo le lunghe maturazioni non solo sono inutili, sono addirittura deleterie. Una farina simile, superando le 6-8 ore di riposo, inizia a degradare velocemente, rendendo quasi impossibile la già complessa lavorazione.

Ancora una volta, non è mia intenzione spaventarvi, ma dirvi la verità e nient’altro che la verità: perché un pane di segale risulti correttamente formato avrete bisogno di talmente tanta acqua da farvi temere di aver sbagliato qualcosa. È tutto normale, ed è anzi frutto della particolare struttura “fibrosa” di questo cereale; essendo una varietà molto grezza e con un punto di assorbimento minimo molto elevato, sotto l’80% di idratazione la maggior parte della segale risulta difficilmente lavorabile e anzi, l’impasto rimane secco, granuloso, con farina libera e risulterà più chiuso. Aumentando l’idratazione il poco glutine distenderà la maglia, e vi ritroverete con un impasto appiccicoso ma liscio ed uniforme. Tuttavia, esistono davvero troppe varietà di segale perché possa darvi un’idratazione standard, che dipende per altro da sé state realizzando un pane integrale oppure no. La segale integrale parte dall’85% di assorbimento e tocca punte del 95% per varietà più grezze; la bianca, al contrario, balla tra l’80 e l’85%. Per tal motivo, il mio consiglio è questo: partite dall’80%, e se vi ritrovate con grumi, farina libera o un impasto frammentato, dopo la miscelazione aggiungete a filo il rimanente 5%.

Per tal motivo il pane di segale è un pane che si realizza in giornata: impastate al mattino, spezzate in forma al pomeriggio e cuocete circa 90-120 minuti dopo, giusto in tempo per la cena.

LA FORMATURA Un discorso simile a quello appena fatto vale anche per la manipolazione. So che vi demoralizzerete, ma in questo caso specifico impastatrici e planetarie sono bandite; non solo sono praticamente inutili, ma rischiano di scaldare e rovinare quella poca struttura che otterrete, e soprattutto vi renderanno incredibilmente complicata l’estrazione di quella massa informe e appiccicosa che vi ritroverete a gestire. In qualsiasi panificio sia stato, il pane 100% segale si lavora completamente a mano (o comunque con cucchiaio e frusta), anche per grosse quantità. Non preoccupatevi, si tratta di una lavorazione molto breve, che non deve dare grossi risultati in termini di forma e che serve semplicemente a miscelare gli ingredienti.

Il segreto è tenere sott’occhio la temperatura del grasso, che non dovrà mai scendere eccessivamente; procuratevi un termometro da frittura e utilizzatelo per controllare minuziosamente i gradi, e friggete un frybread alla volta.

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Il passaggio complesso è la fase di staglio e formatura, ovvero la divisione in panetti per la lievitazione finale pre-cottura. In questo frangente vi dovrete aiutare con molta farina, e dare con movimenti secchi una forma alla pagnotta toccandola il meno possibile; l’idea è che l’impasto non cominci mai ad appiccicare, né al piano né tantomeno alle mani, in quanto

Credetemi quando vi dico che ne sono rimasto folgorato: ho visto con i miei occhi pezzi di pasta cuocere in una manciata di secondi, risultando perfettamente dorati, profumati, cotti e soprattutto asciutti.

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PREPARAZIONE DEL LIEVITO

INGREDIENTI

per 2 pagnotte 100% segale di circa 1 kg

Per il primo rinfresco: 150 g di pasta madre liquida; 150 g di farina di grano tenero di tipo 00 o 0 forte (340-360 W); 150 g di acqua.

Per il secondo rinfresco: 150 g di pasta madre liquida; 150 g di farina di segale integrale;

Circa 12-16 ore prima di impastare, sciogliete la madre liquida nell’acqua con una frusta; dopodiché aggiungete la farina e amalgamate finché il composto non sarà omogeneo, tenendolo a temperatura ambiente. Pronto il primo lievito, e 4 ore prima di impastare, usate acqua a 38°C, sciogliete la pasta madre e aggiungete la farina di segale; lasciate triplicare per 3-4 ore in un ambiente caldo, tra i 28°C e i 30°C. In alternativa potete lavorare al contrario: preparate il primo lievito, dopo 3-4 ore rinfrescate con segale, lasciate 2-3 ore a temperatura ambiente affinché raddoppi, poi mettete in frigorifero a 6°C fino al momento dell’utilizzo. IMPASTAMENTO

150 g di acqua a 38°C.

Per l’impasto: 300 g di lievito madre pronto; 1 kg di farina di segale integrale; 800-850 ml di acqua a 38 °C 20 g di sale fino.

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In una ciotola inserite 800 ml di acqua a 38°C, sciogliete 300 g del lievito madre pronto (ne avrete ottenuti circa 450 g in totale, meno gli scarti, ma non va usato tutto) con una frusta, poi inserite la farina a pioggia e mescolate per circa 3-4 minuti. Una volta che tutta la farina si sarà idratata completamente, lasciate riposare 5 minuti, poi inserite il sale, amalgamate e impastate per altri 5 minuti, fino ad ottenere un composto omogeneo.

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Se doveste vedere farina libera e l’impasto grumoso


e a blocchi, aggiungete senza problemi l’acqua rimanente. Il composto sarà informe, ma unito, e a una temperatura di 30°C-32 °C.

Il contenitore più adatto deve essere stretto, con i bordi alti e deve poter contenere l’impasto per almeno il doppio del volume; avendo poca struttura, la segale deve poter avere tutto l’aiuto possibile per spingersi verso l’alto, per cui evitate teglie, ciotole troppo grandi o cassette da lievitazione troppo larghe. STAGLIO E FORMATURA

PUNTATA

Spolverate abbondante farina di segale sul piano da lavoro, mettetene un po’ anche sopra l’impasto e aiutandovi con un tarocco rovesciatelo. Con movimenti veloci, piegatelo a libro giusto un paio di volte, senza esagerare, in modo da conferirgli una forma rettangolare; dovrà aver assorbito la farina in eccesso senza problemi, ma fate comunque attenzione che non ce ne sia troppa sopra.

Spolverate nuovamente il banco da lavoro, infarinate anche la parte superiore dell’impasto e rovesciatelo; di nuovo, spolverate abbondantemente la parte superiore, dividetelo in due parti e dategli velocemente una forma rotonda facendolo ruotare su sé stesso, evitando di toccarlo troppo. Ancora, l’impasto non dovrà mai appiccicare né alle vostre mani né al banco; per questo motivo la farina di segale è la scelta migliore, perché idraterà l’umidità in eccesso ed eviterete di averne troppa appiccicata.

Oliate bene un contenitore, inserite l’impasto e lasciatelo lievitare a temperatura ambiente per circa 2 ore.

Dovrete semplicemente cercare di dargli una forma tonda, tenendo le mani “a cucchiaio” e facendolo girare soprattutto dalla parte verso il piano, in modo da chiudere al contempo l’estremità inferiore BBQ4All Magazine

APPRETTO Infarinate due cestini coperti da un telo (o due ciotole, in mancanza dei cestini di vimini adatti) e trasferite

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le pagnotte a testa in giù; infarinatele se necessario e richiudete il telo. Lasciate lievitare 90-120 minuti a temperatura ambiente, fino al raddoppio; mentre cuocete la prima assicuratevi di tenere la seconda in frigorifero in modo che non lieviti troppo.

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COTTURA Potete cuocere il pane in tre modi: • Su pietra refrattaria, riscaldata con il forno a 230°C; • In mancanza della pietra, potete usare una teglia rovesciata, sempre fatta riscaldare a 230°C con il forno; • In pentola di ghisa (che vi consiglio, se ne disponete), preriscaldata a 250°C con il forno. In ogni caso, rovesciate l’impasto sulla pietra, sulla teglia o sul coperchio della pentola una volta che il forno sarà a temperatura. Il pane di segale non ha bisogno di tagli, perché grazie alla sua struttura debola si spaccherà naturalmente risultando quasi coreografico ed incredibilmente rappresentativo. Per pietra e teglia, infornate per 50 minuti vaporizzando abbondantemente nella fase iniziale; aprite poi il forno e cuocete a 200°C per altri 10 minuti per far asciugare la crosta. Per la pentola, cuocete con coperchio per 45 minuti, e lasciate scoperto per altri 15 abbassando a 200°C. Sfornate, lasciate raffreddare su griglia rialzata e godetevi l’intensità dei profumi di questa meraviglia della natura.

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Eravamo due cowboy... bang bang!

Il Jerky ci conquistò! N a cura di Virgilio Brunetti

elle culture di tutto il mondo, gli uomini hanno sviluppato modi diversi per conservare la carne, basati sulle condizioni climatiche, ma anche sulla disponibilità e sulla tipologia della carne. Il processo di essiccazione della ciccia permette di ottenere un alimento ricco di proteine, a basso contenuto di grassi e altamente nutritivo, che è stato per lungo tempo un’importante scorta salvavita mentre ora è nella maggior parte dei casi un prodotto industrializzato assimilabile ad uno snack. La deperibilità degli alimenti carnei, tipicamente cacciagione ma anche pesce, ha guidato l’uomo fin dalla preistoria verso lo sviluppo di tecnologie utili a prolungare la conservabilità di questi alimenti. Lo scopo era, ovviamente, avere delle scorte di proteine animali commestibili sempre a disposizione. Sappiamo bene che i cibi ricchi di acqua e di nutrienti tendono a decomporsi rapidamente già nel momento in cui l’animale viene ucciso. L’essiccazione all’aria, l’utilizzo combinato della salagione, il fumo e altre sostanze a conservanti sono decisamente efficaci per rendere la carne un prodotto quasi inattaccabile.

Le prime esperienze di conservazione della carne per essiccazione si sono evolute ovviamente per caso, agli albori dell’umanità. L’uomo non è un primate predatore carnivoro efficiente ma è un onnivoro generalista capace di sfruttare con enorme facilità tutte le risorse alimentari offerte dall’ambiente. Una carcassa abbandonata da altri predatori in un ambiente privo di umidità si disidrata molto rapidamente, rallentando con efficacia i processi decompostivi. È tipico di molti predatori primari nutrirsi delle parti dell’animale più molli e ricche di grassi lasciando ai saprofagi le parti muscolari magre e ricche di connettivo aderenti alla carcassa. Per un preistorico ominide in cerca di cibo per la savana, la carne secca non era altro che brandelli

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Dal punto di vista scientifico possiamo estrapolare tutti i fattori necessari ad ottenere un prodotto a base di carne secca assolutamente stabile ma allo tesso tempo fruibile dal punto di vista gastronomico. Lo scopo del processo di essiccazione è bloccare la decomposizione sottraendo tutta l’acqua possibile, ovvero ridurre al minimo l’attività dell’acqua affinché i processi biologici coinvolti nella degradazione enzimatica della carne siano bloccati. La decomposizione della carne (ma anche di molti prodotti ittici) avviene grazie alla presenza di acqua. Ricordiamo che: attività dell’acqua, pH, ossigeno, temperatura, nutrienti sono i fattori che influenzano la crescita batterica e possono essere sfruttati per inibire la proliferazione dei microrganismi, soprattutto quelli patogeni. In tutte le lavorazioni, compreso il Jerky sia industriale che artigianale (o casalingo), la base del prodotto è sempre una carne magra: perché? l’assenza di grassi permette una maggiore conservazione ed evita fenomeni di irrancidimento a carico dei grassi, che ossidandosi danno un cattivo

sapore al prodotto. Sappiamo infatti che i salumi ricchi di grasso hanno bisogno di conservanti a base di nitriti e nitrati per mantenersi stabili, spesso e volentieri devono essere combinate tecniche di salagione e di fermentazione ad opera di microorganismi appositamente selezionati.

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di tessuti strappati faticosamente dallo scheletro di una animale morto. La carne, disidratata rapidamente dalle condizioni ambientali, poteva essere trasportata e consumata al sicuro di un rifugio: fu senza dubbio una bella scoperta, ma ci vollero millenni di evoluzione prima che questa pratica diventasse una tecnologia fruibile.

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Nella storia antica, gli egiziani erano sicuramente i maestri indiscussi della conservazione ma il consumo di carne secca aveva un ruolo marginale nella loro alimentazione, ce ne sono chiare testimonianze nelle loro Necropoli. In parallelo, in un altro continente, le popolazioni delle Ande furono invece le prime a sviluppare un prodotto simile a ciò che adesso chiamiamo Jerky. Il Charqui (notare la similitudine tra i due nomi): si tratta di un prodotto la cui preparazione consiste nel tagliare a fette sottili la carne molto magra (generalmente lama, alpaca, guanachi e vigogne); le fette di carne vengono ancora oggi appese in luoghi secchi, ventilati e soprattutto molto soleggiati, finché non assumono una consistenza simile a quella del cuoio. In questa fase è necessario proteggere la carne dall’aggressione di mosche e altri animali. Terminato il periodo di essiccamento, si va a forzare ulteriormente la disidratazione della carne ponendola in forni di terracotta o direttamente all’azione del fuoco. In alcune occasioni si può perfezionare il processo ricorrendo all’affumicatura. Una

volta secca la carne viene conservata in recipienti, sotto strati di sale comune e aggiungendo, a volte, spezie come pepe, peperoni e peperoncino, anch’esse precedentemente seccate. Più raramente gli strati di sale sono sostituiti con miele e propoli. Disidratazione, affumicatura, salagione, spezie e altre sostanze antibatteriche sono i metodi di elezione per ottenere una carne secca sicura, durevole, trasportabile ma anche deliziosa. Le tribù di nativi americani essiccavano la carne ma univano frutti di bosco misti e grasso alla carne macinata, per creare piccole forme pressate chiamate Pemmican una sorta di barretta energetica che li aiutava a superare la scarsità di cibo durante i mesi invernali. Le tribù stanziate a Nord del Continente americano spesso affumicavano la carne. I metodi di affumicatura variavano in base alla tribù: le tecniche variavano dall’affumicatura diretta, fatta attorno ad un fuoco da campo, a veri propri affumicatori, una sorta di capannone che veniva saturato di fumo in grado di trattare grandi quantità di selvaggina, soprattutto il bisonte. Le tribù del nord-ovest, invece, applicavano tecniche simili sul pesce. Ora la domanda è: i nativi americani hanno inventato il Jerky? Non esattamente, ma le tecniche con cui trattavano la carne hanno giocato un ruolo importante nello sviluppo di questa pietanza come la


conosciamo adesso. I nativi americani insegnarono ai coloni come tagliare e preparare la carne in lunghe strisce e in seguito condivisero con loro l’intero processo di preparazione, compresi affumicatura e insaporimento.

prospetticamente nel risultato finale ricordiamoci che il connettivo sottoposto al lungo processo di essiccazione potrebbe diventare un grosso problema per la masticazione dando una texture terribilmente coriacea.

Il Jerky raggiunse il suo apice di popolarità durante l’espansione in Nord America, dove commercianti ed esploratori lo apprezzavano come una fonte essenziale di nutrimento mentre si spostavano in aree inesplorate con un’accessibilità limitata al cibo fresco. Il fatto che la carne potesse essere cacciata e conservata lungo i sentieri percorsi dai coloni rendeva questo metodo di preparazione fondamentale per la loro stessa sopravvivenza. La preparazione del Jerky fu estesa anche ad altri tipi di carne, come tacchino, oca e altra selvaggina. I cowboy, a partire dagli anni ‘ 20 dell’ottocento, durante lo spostamento delle grandi mandrie per le praterie del West, trasportavano sempre con loro carne secca o salata. La preparavano attraverso una varietà di tecniche che includevano l’essiccazione al sole, l’affumicatura e la salatura. Macellavano di tutto: bovini, bisonti, cervi, alci, capre selvatiche.

Visto che non sarà un prodotto a lunghissima conservazione difficilmente il grasso subirà processi di irrancidimento quindi nella giusta misura contribuirà a dare maggiore corposità e morbidezza e non sarannno necessari trattamenti a base di nitriti, fermo restando che la cura dell’igiene durante la preparazione deve essere rigorosa. Il modo in cui si seziona la carne determina la texture del prodotto. Se avete scelto ad esempio un girello con un taglio lungo fibra avrete un Jerky consistente che richiede un certo lavoro di masticazione, un taglio controfibra invece vi darà un Jerky morbido e molto più fruibile. Il gusto del Jerky deve essere genuino e deve sapere di carne: se troppo piccante, troppo pepato o troppo infradiciato di glutammato sarà sempre un prodotto mediocre che vi asfalterà la bocca lasciandovi solo la voglia di bere.

Oggi, il jerky stile cowboy è un prodotto ancora consumato ed amato perché più rustico, artigianale e genuino, ma risulta essere più duro, più secco e più difficile da masticare rispetto alla versione industrializzata. È con l’avvento dell’era industriale che il Jerky gradualmente si trasforma da genere di prima necessità a vero e proprio snack. Tutto il Jerky preparato industrialmente, per quanto mi riguarda, ha un gusto ed una consistenza molto deludenti; trovo molto più fruibili e soddisfacenti le preparazioni di carne secca della nostra tradizione norcina e pastorale: le coppiette sono buonissime ma non hanno nulla a che fare con un prodotto che dovrebbe avere tutto il sapore del vero autentico West. Quindi perché non preparalo da soli?

La base del seasonig deve essere una salamoia al 4% di sale arricchita di un rub con i giusti equilibri e da una inconfondibile impronta Tex-Mex; suggerisco un

Vediamo una ipotetica ricetta partendo dalla giusta materia prima: il manzo.

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Scegliendo tra tagli tendenzialmente magri ma di ottima qualità, quello perfetto è il girello ma si possono utilizzare anche altri tagli: filetto, controfiletto, teres, flank e skirt. Tuttavia, proiettandoci

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boost di umami dato da concentrato di pomodoro, salsa di soia, Worchester sauce (suggerisco l’uso delle nostre nuove marinate e dei nostri rub). Il Kick sarà proporzionato alla vostra tolleranza al piccante: il Chipotle è un ottimo compromesso tra piccantezza e sapore di peperone affumicato, che verrà rafforzato da una affumicatura base di legno di pecan, potente ma più morbido rispetto al fumo di hickory. Il processo termina con una lenta costante essiccazione preferibilmente utilizzando l’apposito dispositivo per il tempo necessario ad ottenere un prodotto con una texture corretta non troppo chewy e non troppo crunchy. L’esposizione a temperature superiori 60 gradi sarà preferibile su prodotti a base di pollame, cacciagione e maiale, mentre sul manzo possiamo scendere di temperatura con un conseguente protrarsi del processo di disidratazione ma mantenendo sicuramente inalterate le caratteristiche tipiche del prodotto.

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Ma vediamo come ci descriveva il Jerky Lo Zio un giorno di fine gennaio nel lontano 2008:

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“L’altro giorno stavo scrivendo un articolo per il nostro portale (il vecchio Forum BBQ4All n.d.r.) che parlava dei metodi di conservazione degli alimenti usati nel passato. Facendo delle ricerche mi sono

ritrovato rapito dagli indiani nativi d’America e dal loro modo di preservare la carne mediante essiccatura. Ne ho subito talmente il fascino che ho messo in pausa l’articolo per condividere con voi questa bella emozione che ho vissuto. Facciamo un breve salto nel vecchio West. Quando i primi europei arrivarono nel nuovo mondo si trovarono a stretto contatto con le popolazioni indigene native. Gli indiani erano capaci di conservare carne e frutta semplicemente essiccandoli stracciandole in piccole strisce ed essiccandole posandole su una roccia esposta al sole. Charquy (da cui derivò Jerky) era il termine Quechua (che era la lingua dei nativi d’America) per indicare la carne secca mentre Pemmicam era il nome con cui gli indiani indicavano in maniera generica il loro cibo essiccato. I settlers o cowboy che trasportavano dall’ovest le mandrie per andarle a vendere si trovarono ad utilizzare questo metodo di conservazione per permettere di preservare il cibo per tutta la durata del viaggio; Utilizzavano carne di manzo o bisonte tagliata in striscioline, condite con spezie e poi essiccate al sole naturale. Le striscioline potevano così essere conservate nei sacchi e senza refrigerazione. Venivano mangiate semplicemente così oppure fatte rinvenire in acqua. Il Jerky diventò cibo giornaliero nel vecchio West e i cowboy andarono sempre più perfezionando la


tecnica “condendo” la carne, prima dell’essiccatura e addirittura affumicandola con del legno di Hickory per dare ancora più sapore. Mentre leggevo mi ricordai che durante la mia permanenza in Afghanistan, a Kabul, c’era un PX all’interno di una base americana e c’era una bacheca immensa all’interno piena di Beef Jerky in tutte le salse, tutte le spezie e tutte le marche. Mi ricordo che dapprima ne acquistai una bustina giusto per provarlo e da lì diventò una tappa fissa. Non so dirvi quanto ne ho mangiato in 6 mesi! A questo punto ho pensato di “importare” una nuova tecnica che sono sicuro che non mancherà nei vasetti dei griller piu incalliti.” Prepariamo il beef jerky come ci insegna Lo Zio, dunque:

Il Jerky si può conservare a lungo e può essere mangiato come snack nelle sere d’inverno davanti alla TV per riportare il nostro pensiero al BBQ, oppure come uno stuzzichino nuovo insieme all’aperitivo con gli amici prima di cena. Servitelo con una salsa dolce in abbinamento in modo da contrastare il gusto speziato e piccante. Vi assicuro che non ne rimarrete delusi.

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Iniziamo con una punta di petto. Si ripulisce per bene dalle ossa, dalle membrane e, importantissimo, dal grasso, che deperisce molto velocemente. Tagliamo la carne a strisce sottili. A questo punto andiamo a marinarlo con acqua, aceto di mele, ginepro ed olio extravergine per 24 ore in frigorifero. (Ovviamente potete usare la marinatura che preferite, per semplificarvi la vita potete scegliere una delle nostre), Terminata la marinatura mettiamo la carne in una bowl non reattiva (vetro o acciaio) aggiungendo il rub e un po’ di Worcester sauce. Dopo sei ore andiamo a posizionare le striscioline in una teglia con della carta forno e le poniamo sullo smoker preparato per un’affumicatura a freddo. Bisogna mantenere una temperatura bassissima e cioè tra i 27°C e i 35°C. So che non è facile ma un po’ di esperienza vi aiuterà. Affumichiamo la carne con la legna che preferite (io ho usato l’hickory) per un periodo che va dalle 3 alle 4 ore ma dipende il livello di affumicatura che vi piace.

Trascorso il tempo nello smoker, passiamo alla parte interessante. La disidratazione dovrebbe avvenire al sole ma per motivi igienico-pratici è preferibile usare un essiccatore commerciale. Poniamo la carne nell’essiccatore e facciamo andare per un periodo variabile dalle 4 alle 6 ore. La carne è pronta quando ha la consistenza un po’ chewy. Deve fare crack quando si piega ma non deve sbriciolarsi.

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e t t e p l oPal sugo Ottobre 2022

LA RICETTA SCIENTIFICA

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La ricetta scientifica a cura di Gianfranco Lo Cascio

“Non crediate che io abbia la pretensione d’insegnarvi a far le polpette. Questo è un piatto che tutti lo sanno fare.” Lo ha detto il grande Pellegrino Artusi, leggendario scrittore e gastronomo, in preda a un palese moto di ottimismo. Se avesse conosciuta mia zia avrebbe senz’altro cambiato idea.

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Mia zia fa delle polpette veramente ignobili, composte al 50% di mollica e 50% di avarizia. Le polpette di mia zia sono talmente asciutte che se per sbaglio si bagnano, triplicano di volume. Con le polpette di mia zia ci si può giocare giocare a ping pong, al biliardino, alla roulette russa. Quella del film “Il cacciatore” .

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Se guardate una semplice polpetta dal punto di vista di un gastronomo vi sembrerà misteriosa quanto l'universo. Perché di fatto non esiste "la ricetta delle polpette" ma la ricetta di "quella specifica polpetta". Insomma, dire che il pane nelle polpette "si mette o non si mette" vuol dire tutto o niente. Iniziate piuttosto a stuzzicare la vostra curiosità gastronomica, usate la vostra GastronomicaMente per aprire un pochino il vaso di Pandora. Le polpette le possiamo inquadrare: • Storicamente • Tecnicamente • Gastronomicamente Esistono delle ricette? Sì, migliaia probabilmente. pallotte, mondeghili, granatine, possiamo andare avanti all’infinito.

E sapete perché hanno una densità pari a quella dell’uranio? Perché le fa con carne magrissima e una pagnotta di pane vecchio. Nel tipico stile del dopoguerra.

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Non c'è alcun dubbio che in quegli anni di carne non ne girasse moltissima e in famiglia si era in tantissimi. Non era inusuale "allungare" la massa con del pane duro magari ripreso con un po' d'acqua e un po' di latte. Perché avrebbe permesso di sfamare più bocche. Non c'è nemmeno dubbio che ad alcuni le polpette col pane possano effettivamente piacere: mi piacciono, ci metto un po’ di mollica. Con buona pace di chi dice "che non ci va". Oppure alcuni lo mettono “perché si fa così”, la nonna lo metteva, la mamma lo metteva quindi loro ce lo mettono.

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A parer mio, ciò che un cultore del cibo, un gourmand quindi, dovrebbe fare è cercare di attribuire sempre un significato alle "cose di cibo". Contestualizzare, crearci un compendio di conoscenza intorno, di logica, di sfumature.

E tecnicamente parlando? Esiste una materia prima di base da ridurre in purea per poi farne delle pallette? Sì. Esiste qualcosa che permetta di tenerle insieme senza farle sfaldare? Sì, più di una. Si possono cuocere? Sì, in molti modi. Ecco che tecnicamente si possono creare miliardi di varianti di cosa tipica e che è appunto una variante. E che non può più essere paragonata a quella originale perché è semplicemente una sua derivazione. Quindi non è che se voglio fare le polpette e non ci metto il pane sto sbagliando. E ragionando gastronomicamente? Che cosa volete ottenere? Non vi piace il gusto di carne troppo intenso e quindi mettete il pane? Forse in passato avete usato un taglio di carne sbagliato. O forse una ratio grasso/magro non ideale. Oppure la carne trita era già in fase di irrancidimento. Ci possono essere migliaia di motivi per cui il gusto era troppo intenso. E mettere il pane non è la soluzione a nessuno di questi problemi. Volete più umidità all'interno e per questo mettete il pane? E perché ammollato nel latte? Il latte aggiunge un altro sapore, siete certi di averne


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bisogno? Esistono tantissime alternative che vi permettono di gelificare le fasi liquide e intrappolarle nella massa, e il pane è l'ultima cosa che userei. Sapevate che basta un cucchiaio di amido di mais in 500 grammi di carne e non vi serve nemmeno l'uovo per legare l'impasto? Sapevate invece che usando la fecola di patate ottenete una crosta più croccante ma l'interno fondente? Insomma, le criticità potrebbero essere davvero infinite. Il punto è trovare quella dimensione perfetta per il vostro palato e che non passi per forza di cose dal sentito dire.

Le polpette vi vengono dure? Sì. Col pane ammollato invece vi vengono morbide? Sì. E allora il problema è che usate una carne troppo magra che cuocete troppo a lungo. Grasso non ce n'è, la carne si contrae e strizza l'acqua. La scaldate per troppo tempo e quindi la tira fuori tutta. Il pane ammollato non è la soluzione al problema della carne dura. Il pane ammollato aggiunge una consistenza diversa. Sentite il pane nell'amalgama e sentite necessariamente la nota dolce del lattosio. La minima quantità di grasso (panna) e l'acqua ulteriore previene la disidratazione totale.

Il mondo delle polpette può sembrare banale ma credetemi, non lo è.

Ma indovinate un po'? Aggiungendo il pane molle, la massa è troppo liquida e un uovo per legare l'impasto non vi basta più. Ne servono due, tre o anche 4 a seconda di quanta mappazza di pane ci mettete. Non prendo in considerazione il pangrattato perché anche un bambino capirebbe che essendo avido di acqua, appena la carne ne tira fuori un po' questo si gonfia a dismisura. E no, non vi lascia le polpette morbide, sa di segatura, non sa di carne.

Tornando alla domanda, ha senso mettere il pane ammollato nel latte nella carne macinata? Qualcuno dice "Sì, perché le rende più morbide." Ma questa affermazione tanto banale apre le porte dell’inferno: siamo nel bel mezzo del problema XY. Ne avete mai sentito parlare? Vi faccio un esempio. ”Ho seguito per filo e per segno la ricetta delle Beef Ribs, ho aggiunto 30g di sale al rub ma alla fine sono venute molto asciutte anche se la sapidità era perfetta. Siccome sicuramente è il sale che tira fuori liquidi dalla carne, quanto sale in meno dovrei mettere per non farle venire asciutte ma comunque della giusta sapidità?”

Ora, alla frase "Io ci metto il pane perché a me piace" smetto di discutere. Sul gusto personale c'è poco da battagliare. Ma se invece volete sentire al morso una polpetta morbida e succosa senza nemmeno pensare al pane ammollato nel latte o al pangrattato, beh, sto per darvi la soluzione ai vostri problemi.

Ecco, questo è un tipico problema XY. La persona sta dando per scontato che le ribs siano asciutte perché c'è troppo sale. Quindi bisogna metterne meno. Ma se ne mette meno rischia di farle venire scialbe. E si chiede: come la risolvo? Quanto sale in meno posso mettere? Il nostro avventore vuole risolvere il problema X usando la sua soluzione Y. Ma il problema non è il sale. La natura del problema è che non ha rispettato tempi e temperature, il collagene non si è sciolto e la carne, che era di certo povera di grasso, ha strizzato fuori tutta l'acqua prima che il collagene si sciogliesse.

Torniamo alle polpette.

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Non è un problema di sale. È un problema di tecnica di cottura.

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Le 4 leggi delle polpette perfette 1. Per non far sfaldare le polpette vi servono o proteine che coagulano o amidi che gelatinizzano, o un misto dei due. 2. Per farle venire morbide attenetevi semplicemente alle buone regole della cottura: tempi e temperature. 3. Usate tagli ricchi di collagene per ricavare la carne trita. Anche per tempi brevi e temperature non altissime, i pezzi di collagene sminuzzati si sciolgono in tempi brevi. 4. Dovete dosare la quantità di carne magra e grasso. Solo magro non va bene. Non ha senso mettere carne magra e poi annegarla di latte e uova. Sempre grasso è, ma il sapore cambia. Tenetevi tranquillamente su un 18% di grasso sulla massa per stare tranquilli, ma potete spingervi al 20% e anche al 22%.

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Facciamo un esempio? Carne tritata fatta con punta di petto e noce. Un uovo ogni 500 grammi di carne è più che sufficiente. Coagula, fa da colla ma potenzia il sapore. Un cucchiaio di maizena o di fecola di patate. Assorbe l'acqua e gelatinizza già intorno ai 78 gradi. Quella piccola quantità è più che sufficiente per tenere insieme la polpetta e, credetemi, non si sfalda nemmeno se la tirate nel muro. Se vi piace la polpetta ibrida manzo, vitello, maiale, latte, pane secco e chissà che altro, bene, buon per voi, non lo discuto. Se volete virare alla polpetta solo manzo, quella che vi manda gli occhi fuori dalle orbite, seguite questi piccoli consigli.

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Legante: proteine e amidi. Coagula e gelatinizza le masse. Cuocete con attenzione: fermatevi agli 80 °C al massimo. Oltre vuol dire strizzare sapore. Ciò che strizzate fuori, mancherà dentro. Scommettete su un sapore. Pollo e solo pollo. Maiale e solo maiale. Manzo? E manzo sia e che però sia manzo vero. I minestroni solidi sanno di tante cose; cioè di tutto e di niente.


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La ricetta della polpetta perfetta

Non esiste la polpetta perfetta. Però esistono concetti importanti che possono aiutarvi a creare la “vostra” ricetta perfetta.Ve li elenco: TIPO, RAZZA E TAGLIO DI CARNE Io sto dando per scontato che vogliate usare il manzo. La razza certamente influisce sul sapore finale, non c'è dubbio, ma vi stupirebbe sapere che anche il taglio giusto di un bovino generico e poco frollato può dare grandi soddisfazioni in termini di resa di sapore. La chiave, nel caso della polpetta, è doppia: quantità di collagene e grasso. Ed è per questo che i tagli troppo magri non vanno bene. Ricorderete certamente le polpette che a volte avete mangiato da bambini, secche come sabbione al sole. Le nonne o le mamme pensavano di far bene chiedendo al macellaio il taglio magro, ma in realtà ci sottoponevano a delle torture senza alcun beneficio reale. Voi, invece, sapete che è importante usare tagli ricchi di tessuto connettivo e una buona percentuale di grasso. Il connettivo, una volta tritato, è facile da ridurre in gelatina durante la cottura, anche a temperature relativamente basse. Il grasso, dal canto suo, aggiunge una bella dose di sapore.

Si ma quanto collagene, quanto grasso? Per avere un punto di partenza ed essere certi di non sbagliare si può sempre partire dall'anteriore. Tutti i sotto-tagli del petto vanno benissimo. Il collo va benissimo. La spalla va benissimo. Il reale va benissimo. Anche nel posteriore si trovano ottime alternative: geretto, cappello del prete, scamone. Per quanto riguarda il grasso, anche lì, dipende molto dal gusto personale. Un riferimento sufficientemente centrato può attestarsi su una percentuale che va dal 15/18% e che non supera il 23/25%. Il mio numero magico personale è 20%. Si ma come facciamo? Facile. Chiedete al macellaio di pesarvi magro e grasso a parte. Fate tritare prima il grasso e poi il magro e mettete 200 grammi del primo e 800 grammi del secondo. Poi li mischiate insieme. Niente di complicato, solo qualche colpo di coltello in più. Avete già la base della polpetta ben bilanciata e credetemi, avete già portato a casa l'80% del risultato finale. IL SALE Adesso bisogna condire il mix di carne trita, soprattutto mettere la quantità di sale perfetta: né troppo, né troppo poco.

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Quanto sale mettiamo, quindi? Torniamo sempre lì: dipende. Dal gusto personale ed eventualmente da altri ingredienti che aggiungerete. Un buon riferimento, se non avete intenzione di inserire altri alimenti sapidi come potrebbero essere Parmigiano, Pecorino, salsa di soia, Tabasco o capperi è l'1,8% di sale sulla massa totale. Quindi, per 1kg di massa dovete usare 18 grammi di sale.

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Ripeto, è un'indicazione di massima. Una volta che avete condito, assaggiate e valutate se ne serve ancora un po’.


AROMATIZZAZIONE Come condiamo la massa? Da qui si entra un tunnel da cui non si vede la luce. Non esiste un solo modo, o due o tre. Ne esistono un numero indefinito e ognuno porta una firma diversa. Ma siccome bisogna cominciare da qualche parte vi offro alcuni spunti. Aglio e prezzemolo La polpetta per antonomasia. L'aglio potete pestarlo al mortaio e renderlo in purea oppure tritarlo al coltello oppure grattugiarlo. Dipende da voi, dalla grana che volete ottenere. Quanto aglio? La quantità che vi piace. Dipende dall'aglio. Dipende dalla dimensione dello spicchio, dalla forza sulfurea. Prendete l'aglio che avete in casa e verificate la quantità che fa al caso vostro. Io sono sempre del parere che se metto un ingrediente voglio sentirlo. Quanto prezzemolo? Come sopra. Quanto ve ne piace. Il mio consiglio è di non togliere assolutamente gli steli. Il gambo del prezzemolo contiene 25 volte l'aroma che contengono le foglie. È un sacrilegio buttarlo via. Tritate molto finemente al coltello, gambi e foglie. Il prezzemolo unito all'aroma dell'aglio rende le polpette indimenticabili. Alternative all'aglio e prezzemolo? Cipolla. Avete un miliardo di tipologie: rossa, bianca, ramata, scalogno, cipollotto, erba cipollina, porro. Sono tutte varianti dello stesso tema "cipolloso". Come sopra, tritate finemente. Le erbe perfette da abbinare alla cipolla sono il timo e il rosmarino. Ma va benissimo il prezzemolo e va benissimo la cipolla. Se non amate il riverbero sulfureo della cipolla all'interno della carne potete soffriggerla preventivamente in pochissimo olio extravergine e quando appassisce la unite all'impasto. Il tutto virerà immediatamente sullo spettro dolciastro.

Fissiamo bene questi passaggi perché se usiamo l'uovo nell'impasto la consistenza cambia in modo significativo in base alla temperatura di cottura finale. La verità è che se usiamo il taglio giusto l'uovo non è necessario a legare. La quantità di connettivo presente, una volta gelatinizzato, sarà sufficiente a mantenere insieme la massa. Possiamo metterlo o non metterlo. Se lo mettiamo, dobbiamo necessariamente tenere in considerazione il suo comportamento durante la cottura.

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PANE SÌ O NO? Ma sto benedetto pane ammollato si mette o non si mette? Lo potete mettere e potete non metterlo. In questo caso trattiamo la polpetta "nuda e cruda" ma non con un piglio "fondamentalista". Semplicemente andiamo a ricercare il sapore del manzo in purezza.

L’UOVO Ma l'uovo si mette o non si mette? L'uovo ha fondamentalmente due funzioni: aggiunge sapore, materia grassa e aiuta a mantenere compatta l'amalgama in cottura. Le proteine dell'albume, se ricordate la carbonara scientifica, sono la conalbumina e l'ovoalbumina. Facciamo un ripasso sulle temperature di coagulazione dei principali elementi. La conalbumina costituisce solo il 12% del tuorlo e coagula a 65°C. L'ovoalbumina invece a 85°C. Il tuorlo, costituito principalmente da lipoproteine inizia ad aumentare la sua viscosità a 62°C e diventa solido a 70°C.

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COTTURA Come si cuociono le polpette? Fritte in bagno d'olio, brasate in padella o al forno. Nel primo caso si ottiene una reazione di Maillard sostanzialmente perfetta. Nel secondo è meno uniforme ma con la manina buona si ottiene un delizioso aroma di arrosto. Nel terzo caso si rischia di strizzare troppo la carne se la temperatura non è sufficientemente alta. “Ma se le friggo si inzuppano d'olio, al forno sono più leggere!” Non è così. La carne, sottoposta a calore si contrae. L'olio non penetra perché la carne è completamente contratta. Si deposita in superficie e basta rotolarle su della carta assorbente e l'eccesso di olio sparirà. Il segreto di un'ottima cottura al forno è il preriscaldamento a temperatura feroce e il posizionamento della teglia a ridosso del grill. Bisogna creare la crosta nel modo più veloce possibile per evitare di tirar fuori gli umori della carne. A che temperatura devo cuocere le polpette? Stiamo parlando di polpette di solo manzo e senza uovo? Come una bistecca al sangue/media: 52°C/58°C. È manzo. È la temperatura in cui si esprime al meglio. Fermo restando che è possibile spingersi anche un filo più avanti. E se invece abbiamo usato l'uovo? A che

temperatura dovremmo arrivare? La migliore soluzione, nel caso in cui si usi uovo nell'impasto, è arrivare allo stadio completo di coagulazione della conalbumina lasciando inalterate le lipoproteine del tuorlo e dell’ovoalbumina. Mi spiego meglio. La conalbumina coagula a 65°C. Il tuorlo assume una consistenza viscosa a 62°C e solidifica a 70°C. A questo punto, cuocendo la polpetta ad un massimo di 65°C otterremo la coagulazione completa dell'ovotransferrina (altro nome della conalbumina), l'aumento di viscosità delle lipoproteine e lasceremo inalterata l'ovalbumina che, a quella temperatura resterà semiliquida dando morbidezza all’interno. Quindi se nel macinato c’è uovo, dobbiamo cuocere le polpette fino a 65°C al cuore. Se invece non ci piace l'idea dell'uovo mezzo crudo dentro l'impasto bisognerà necessariamente arrivare a 85°C. Temperatura alla quale avremo già devastato tutto ciò che di buono e di umido poteva esserci nella carne. Da qui cosa ne deriva? Che se voglio una polpetta "ben cotta" ma che sia anche "cotta bene" e senza odore di pollaio non devo usare l'uovo e devo fermare la cottura ai 75°C, finestra in cui la mioglobina della carne si disattiva e cambia colore da rosso a grigio/marrone.

Facciamo un recap: la polpetta "solo manzo" nuda e cruda.

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Punta di petto, biancostato o reale. 80% di magro, 20% di grasso. 1,8% di sale. Aglio e prezzemolo o cipolla e timo/rosmarino. Uovo non necessario per cottura al sangue/medio. Uovo sì se voglio aggiungere sapore/umidità ma a cottura media. • Uovo no se voglio una polpetta ben cotta


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La ricetta scientifica #01 SPAGHETTI CON LE

POLPETTINE

Per le polpettine 200 g di punta di petto 50 g di grasso (rifilato dalla punta di petto) Sale q.b. Pepe nero q.b. Olio di arachidi per friggere

Per l’acqua di pomodoro 3 kg di pomodori da sugo (o anche pomodorini) Sale q.b. Per il sugo di pomodoro Il concentrato ottenuto dalla preparazione del consommé Olio extravergine di oliva q.b. (io ho usato un 100% nocellara del Belice) 1 spicchio d’aglio Per la pasta 500 g di spaghetti o spaghettoni di Gragnano IGP 1,5 lt di acqua di pomodoro Per la finitura Foglie di basilico fresco q.b. Utensili

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1 panno di cotone o mussola per filtrare il formaggio Estrattore di succhi, passapomodoro o passaverdura a maglia finissima 1 siringa senza ago Tritacarne

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01. L’ACQUA DI POMODORO Detta anche consommé di pomodoro, è una delle zuppe più interessanti mai inventate in cucina: un liquido chiaro dal sapore intenso e ferocemente umami. Prendete i vostri pomodori (o pomodorini), lavateli, tagliateli a pezzi grossolani e passateli nell’estrattore di succhi o nel passapomodoro. Se proprio non avete questi strumenti, utilizzate un passaverdure manuale con la maglia molto stretta, per schiacciare bene le bucce ed evitare di far cadere i semini nella polpa. Trasferite la purea di pomodoro fresco in una pentola e lasciate sobbollire per qualche minuto. I moti convettivi del liquido porteranno in superficie tutta la parte solida (pectina, cellulosa, emicellulosa, licopene) e vi basterà scansare la polpa galleggiante per vedere il liquido giallo semitrasparente sul fondo. A quel punto foderate una ciotola di vetro con un panno in cotone o una garza per formaggi, sterilizzati. Versate all’interno la passata ormai separata e fate decantare per circa 30 minuti. Sollevate il panno e stringete con delicatezza, vi ritroverete con una sorta di concentrato di pomodoro nel panno (usatelo per fare il sugo della pasta!), e l’acqua di pomodoro nella ciotola (circa 2,5 litri). Prelevate la quantità in cui andrete e cuocere gli spaghetti e conservate il resto liquido per le vostre preparazioni, si presta a tantissimi utilizzi. 02. LA POLPETTINE Prendete la vostra carne e ricavate dal taglio tutto il grasso che vi occorre per bilanciare l’impasto delle polpettine. Pesate il magro e il grasso separatamente e mettetelo per qualche minuto in congelatore. Questo passaggio servirà per tenere sotto controllo la carica batterica e rassodare il tutto. Quando la carne sarà ben fredda e soda, passatela al tritacarne, aggiungete sale e pepe e formate delle polpettine grandi quanto una monetina da 10 centesimi. Mettete una padella a bordi alti sul fuoco, versate l’olio di arachidi e portatelo a 180°C. Friggete le polpettine, poche alla volta, fin quando non risulteranno perfettamente dorate. Fate scolare su carta assorbente. 03. IL SUGO Recuperate il concentrato di pomodoro che sarà rimasto nel panno per preparare l’acqua di pomodoro, raschiando bene. Versate a filo l’olio extravergine di oliva in un tegame e soffriggete l’aglio. Quando si sarà imbiondito, versato il concentrato nel tegame, allungatelo con un po’ di acqua di pomodoro (o semplice acqua) e lasciate restringere a fuoco basso, per preservare tutte quelle sostanze volatili che vengono annientate dalle temperature troppo violente. A cottura ultimata, lasciate decantare il sugo per qualche ora, a temperatura ambiente. Vi accorgerete che tutto l’olio sarà emerso in superficie e sarà facilissimo separarlo dalla polpa cotta con l’aiuto di una siringa (o di un cucchiaio).

Ultimate con piccole foglie di basilico fresco e trovate la vostra Lilli o il vostro Vagabondo.

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04. LA PASTA Portate a bollore l’acqua di pomodoro e lessate la pasta. Scolate gli spaghetti al dente, mettete una mestolata di sugo nel piatto, formate un nido di spaghetti e aggiungete l’olio al pomodoro e una pioggia di polpettine.

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La ricetta scientifica #02

POLPETTE

AL SUGO

Per le polpette 800 g di punta di petto 200 g di grasso (rifilato dalla punta di petto) Sale q.b. Pepe nero q.b. Olio di arachidi per friggere Sugo di pomodoro cotto Un filone di pane Basilico fresco Utensili Porzionatore per gelato

Prendete la vostra carne e separate magro e grasso, come sopra. Seguite la stessa procedura descritta nel paragrafo sulle polpettine. Quando la carne sarà freddissima, passatela al tritacarne, aggiungete sale e pepe e utilizzate il porzionatore per il gelato per ricavare delle polpette tutte uguali. Fate dei mucchietti e poi arrotolate velocemente coi palmi delle mani. Mettete una padella o un wok sul fuoco, versate l’olio di arachidi e portatelo a 180°C. Friggete le polpette, poche alla volta per evitare che la temperatura dell’olio si abbassi repentinamente e assorbano troppo olio. Fate scolare su carta assorbente e condite col sugo di pomodoro. Prendete un bel filone di pane, l’ideale è il pane napoletano anche noto come “pane cafone”, e tagliate le due estremità, i due “cuzzitielli”. Farcite con le polpette al sugo e guarnite con foglie di basilico e Parmigiano Reggiano in scaglie. “Le polpette possono tramutarsi in piccoli trionfi di gastronomia: il contrasto di consistenze fra croccantezza e setosità, il sapore fine o rustico, lo status di finger food modello “una tira l´altra”, o di pietanza d’antàn avvolta in una salsa di pomodoro che chiede solo di essere raccolta con un pezzetto di buon pane…”

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Di shitstorm e d’altri allerta meteo

Seguo.

a cura di Emiliano Nencioni

“Shitstorm” è un colorito vocabolo di chiaro stampo scatologico che, in un italiano più delicato ma probabilmente meno immediato, si può tradurre come “violento linciaggio mediatico da parte di un branco di utenti organizzatisi a vario titolo contro una vittima, col solo scopo di umiliarla, fino ad annientarla socialmente”. La traduzione letteraria, ohimè, è quantomai inequivocabile: “tempesta di merda”. Se c’è una cosa in cui l’homo telematicus eccelle, è la capacità di fare fronte comune per fare qualcosa di esecrabile: fai parte di un gruppo, il gruppo dei soverchiatori, stai vincendo, sei potente, sei l’esemplare alfa, la dopamina scorre a fiumi ed è tutto seducente, facile e liberatorio; qualcuno sta per fare una brutta fine, e per una volta lo zimbello del protocollo TCP/IP non sei tu.

Quanto volte avete pubblicato una storia, un video breve, una considerazione profonda o profondamente simpatica, sperando di svegliarvi la mattina dopo e ritrovarvi “instafamous overnight”, famosi online da un momento all’altro, col vostro ambizioso contenutìno ricondiviso, citato, piaciuto, financo se possibile (troppa grazia!) memato? Un tizio con la Spunta Blu (di quelli seri tipo calciatori o rockstar) che cita una frase di voi poveri utenti comuni, un’emozione paragonabile a vincere una Medaglia Fields o a ritrovarsi la propria caricatura in veste di papero sulla copertina di Topolino, disegnata da Cavazzano.

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New York, 20 dicembre 2013: tra gli insopportabili affanni e caroselli dell’irrinunciabile clima natalizio imminente, tale Justine Sacco, PR di una holding (la IAC) a capo di ditte del calibro di Vimeo, Match.com, Ask.com (abbastanza scomparse dai radar adesso, ma molto in voga al tempo), sale sull’aereo per recarsi dai suoi genitori in Sudafrica, a Città del Capo. Il piano di volo prevede uno scalo a Heathrow (UK), e per ammazzare la noia fra una pista di rullaggio e l’altra l’incauta Justine decide di scrivere un messaggio sul suo account Twitter (Twitter sarebbe quel social network dove si prova l’ebrezza dell’illusione di essere “a pari” di molte celebrità, e dove molti cercano di scrivere cose veramente molto argute sperando in una risposta - parimenti arguta - da parte dei loro beniami-

ni o dei loro “nemici per finta”), e sceglie di inviare una frasetta d’intento sarcastico, in realtà abbastanza tremenda, sciocca, piuttosto razzista e decisamente non divertente. Il suo account, un’isola desolata di 170 follower ignoti, accoglie la stringa di testo senza la minima reazione. Justine spegne il telefono dietro ordine del personale di volo, per riaccenderlo solo dopo le diverse ore di trasvolata. Nel frattempo succede qualcosa di molto raro.

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Non succede mai. Il sapore amarognolo della notifica “hai ricevuto dodici views” è ben noto a tutti. A Justine però succede, non proprio così, ma quasi. Solo che leggermente peggio. Uno dei suoi pochissimi follower, indignato dal tweet di cattivo gusto della nostra protagonista, pensa bene di condividere il contenuto incriminato con un blogger del gruppo editoriale Gawker, un account da quindicimila follower. Neanche tutta questa potenza di fuoco, per gli standard odierni soprattutto, ma il proto-giornalista sa il fatto suo, ottimizza l’articolo per i motori di ricerca, scrive qualche parola chiave giusta, mette i tag a regola d’arte, e in pochi minuti il tweet diventa virale negli Stati Uniti. Virale negli Stati Uniti di venerdì sera sotto Natale vuol dire virale nel mondo in altri dieci minuti, e infatti così sarà.

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La moda del momento diventa dire qualcosa di molto molto cattivo contro la PR Sacco, della megaditta IAC. Si creano altri hashtag sarcastici e virali, si fanno battute, si cerca l’escalation di commenti memorabili, in breve la tempesta escrementizia citata nel titolo della Seguo di questo mese si abbatte sulla nostra protagonista, con una magnitudo da notizia di breaking news su tutti i canali.

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In tutto questo, Justine sta volando, ignara e col telefono spento, verso il Sud Africa: un posto dove

qualche problema col razzismo si è sentito, e dove il nervo è scoperto. L’hashtag che domina su tutti infatti è proprio #HasJustineLandedYet (è atterrata Justine? O meglio: “ma quando atterra Justine?”), ed è qui che il carosello dell’indignazioncina da due soldi diventa un enorme gioco di società, dove la società è mezzo mondo. Nelle undici ore di volo, a insaputa della vittima, tutta la vita della Sacco è crollata: licenziata da un’ottima posizione di PR, dileggiata da milioni di persone, stigmatizzata anche dalla famiglia, ritenuta indesiderata perfino nell’hotel a Città del Capo. Tutti aspettano l’atterraggio e l’inevitabile ritorno online, per godersi la sofferenze e lo scorno della malcapitata. Qualcuno si prende la briga di andare personalmente all’aeroporto per fotografarla (e in effetti potrebbe essere una di quelle foto che ti fa fare il botto di like all’account). Qualcuno di voi lettori (?) avrà già intuito il risvolto business della cosa: termini molto cercati e viralità mondiale improvvisa significano una enorme opportunità di cavalcare l’onda e fare soldi facendo pubblicità. Se le parole chiave relative a questo misfatto sono le parole più cercate del momento, perfino più della parola “christmas”, perché non farsi furbi


e cercare di comparire fra i risultati della ricerca anche con un determinato prodotto o servizio? La compagnia aerea GoGo Air scrisse “La prossima volta che vuoi twittare qualcosa di stupido prima di partire, fallo su un viaggio GoGo!”. Non certo una campagna pubblicitaria geniale e memorabile, ma infilando i doverosi hashtag divenne immensamente visibile. In questo frangente Google guadagnò quattrocento ottanta mila dollari, vendendo campagne pubblicitarie con parole chiave a tema Justine Sacco. I motori di ricerca: è per favorire loro se quando cerchiamo le istruzioni per ripristinare il cellulare siamo costretti a leggere articoli online che ripetono allo sfinimento le parole “cellulare” “ripristinare” “10 facili mosse”, e se lo spauracchio di ogni tema in classe alle medie, la ripetizione delle solite parole, adesso è diventato un appuntamento imprescindibile. Eccovi qua la SEO, search engine optimization, croce e delizia di ogni cosa punti a essere rilevante online. Slacciata la cintura e recuperato il bagaglio, il cellulare di Justine si infiamma: completamente disorientata dalle insolite mille notifiche, l’ormai ex PR inizia a capire qualcosa solo leggendo i messaggi della sua migliore amica, che la avvisa di essere diventata virale a livello mondiale, e di essere nei guai. Finire nell’occhio della shitstorm può capitare veramente a tutti, anche a comunissime persone

che non hanno i mezzi per risollevarsi e che vedono in pochi minuti scandagliato tutto il loro passato online, fino a risalire a contributi di molti anni prima, quando complice la giovane età o la sensibilità generale molto più permissiva non era raro trovare prese di posizione che lette oggi non sono ammissibili. Vendi sottobicchieri online, gli affari vanno a gonfie vele, poi un giorno fai una battutaccia a causa di un’eccessiva carburazione di spritz o perchè proprio l’umorismo non è cosa tua; la mattina dopo al posto della consueta desolazione di notifiche trovi il delirio, ma di sottobicchieri non ne venderai più nemmeno uno, perché un milione di persone hanno deciso di giocare a torturarti. Non hai possibilità di spiegarti, nemmeno di chiedere scusa.

Nel mettere alla gogna la disumanizzazione è condivisa, è un atto sociale comunitario

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Le shitstorm sono atti violenti, dove la forza motrice non è il voler fare giustizia contro un torto, ma molto più onestamente voler annichilire o ridurre all’impotenza una individuo. Tra tutti i social attivi al momento purtroppo Facebook è diventato quello con il terreno più fertile per questo tipo di attacchi: l’utenza media è rapidamente invecchiata, e la destinazione d’uso si è spostata sulle polemiche e su una imperante schadenfreude (la gioia per le disgrazie altrui), una volta esaurito il gusto della novità di pubblicare jpeg di tazzine di caffè o gif di buoniornissimi.

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che risolleva gli spiriti, similmente all’irresistibile voglia di ridere quando qualcuno cade e si fa male: la vittima è solo un mezzo, uno strumento spersonalizzato, per ridere e per sentirsi nel giusto.

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Chi scrive non ha la soluzione, ma probabilmente invece di augurarci che qualcuno “blasti” chi fa qualcosa di odioso dovremmo virare verso l’ignorare completamente account e contenuti violen-

ti, punendoli con l’insopportabile notifica “dodici views, zero like, zero nuovi follower”; l’ambiente social da salottino accogliente è diventato una toilette pubblica, di quelle celesti in vetroresina, dove chiunque entra, scrive cose col pennarellino, shitstorma, non pulisce e se ne va.

Emiliano Nencioni


CLUB

Direttam e n t e dalla commu n i ty d i ma e s t r i di barbecue pi ù grande d’Itali a, nas ce i l pres ti gi o s o club ch e t i offre la po s s i bi li tà di avere: acc e s s o p r io r ita r io a l m ega s to re, dove p ot ra i fa re ra zzi e mentre tutti gli altri “ s o no i n coda” ; u na p rogra m ma z i o n e int elligent e dei tuoi acquis t i gra zi e a l cre d i to me ns i le prepagato (s cegli tu quanto ); u n coac h pr ivato che t i guiderà n e l fa r t i vi ve re l’e s peri enza

pi ù ecci tante di s empre

co n la p re paraz i o ne dei tuoi pi atti ; e molto a lt ro a nco ra. . . Av ra i tu tto qu es to s o lo s e t i i s cr i vi s u bito al M EG ASTORE CLUB , l’uni co luogo ri s ervato a una ce rc h ia r is t re tta d i a s p i ra n t i gr i ll ma s t e r c he des i derano apprendere pi ù velocemente e nel modo p i ù accurato po s s i bi le, la s u bli me arte del gri ll . Pu oi d i s i s cri verti quando vuoi e i l tu o c re d i to s a rà s empre dis po nibile.

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