N°49/ANNO 5 - GENNAIO 2023
L'EDITORIALE DI GIANFRANCO LO CASCIO
SE UNA NOTTE D’INVERNO UN “GRIGLIATORE”: IL MENÙ PER STARE AL CALDO
FALSI MITI SULLA COTTURA DELLA BISTECCA
Ribollita, Pasta e ceci cremosa, Risotto giallo con ossobuco, Polenta e brasato, Feijoada affumicata, Gulasch di manzo, Boston butt glassato, Farinata di ceci, Raclette, Falafel, Vin brulé, Irish coffee
SOUS VIDE
SCONGELARE È OUT
TUTTO SUL CAFFÈ
COME SI PRODUCE, SI PREPARA, SI DEGUSTA LA RICETTA SCIENTIFICA
IL “DADO” DI CARNE
Supplemento al mensile Il Salvagente Leader dei Test di laboratorio contro le Truffe ai consumatori il Salvagente Direttore responsabile Riccardo Quintili Vicedirettore Ernico Cinotti Registrazione al Tribunale di Roma n° 201/1992 del 3 aprile 1992 Stampa Str Press srl Via carpi, 19 00040 Pomezia RM ufficiotecnico@essetr.it tel. 06/91251177 - int. 6 fax 06/91601961 www.strpress.it EditorialeNovanta Srl Società Unipersonale c.f. 12865661008 via Ludovico di Savoia 28 00185 Roma tel. 06 91501100
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Redazione
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IN DI Editoriale
Falsi miti sulla cottura della carne
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Ricette
La ribollita toscana
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Pasta e ceci
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Risotto alla milanese con ossobuco
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Brasato con polenta
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Feijoada
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Gulash
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Honey glazed ham
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Farinata
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Raclette
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Falafel
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Vin brulé
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Irish Coffee
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Approfondimenti
Inchiesta - Passate al setaccio
40
Sous vide - Scongelare è out - guida per cucinare dal congelatore al sous vide 44 From zero to hero - Le injection
56
Gastronomicamente
Cioccolata calda - com'è fatta, cosa comprare al supermercato
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Caffè - Mille più una sfaccettatura di una bevanda tra le più diffuse al mondo 68 Caffè - Metodi di estrazione
73
Caffè - La degustazione
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Rubriche
La ricetta scientifica - Il dado di carne
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Seguo - La presa di coscienza, o la sua mancanza
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FALSI MITI
Editoriale di Gianfranco Lo Cascio
SULLA COTTURA DELLA CARNE
VI SPIEGO PERCHÉ LA NONNA HA TORTO
L’abitudine nasce dalla ripetitività dei gesti, a prescindere che questi siano giusti o sbagliati. Quante volte ci ritroviamo a compiere un’azione senza riflettere sulla sua efficacia, perché è così ce l’hanno insegnata o più semplicemente per imitare qualcuno? La nonna mette il sale negli albumi, se lo fa lei, con migliaia di torte alle spalle, qualcosa dovrà pur dire... forse. La verità è che la cucina popolare (e nello specifico quella domestica) ha scritto le sue ricette sotto dettatura dell’esperienza; certi piatti nascono proprio da una pratica, poi consolidata, per rispondere ad una particolare necessità del momento. A volte poteva capitare di aggiungere questo o quell’ingrediente senza una motivazione reale, magari perché ce n’era in abbondanza, o di realizzare certe tecniche senza un riscontro oggettivo finale, perché si era fortemente condizionati da condizioni climatiche e mancanza di strumenti specifici. Se certi dogmi tramandati da famiglia a famiglia sono difficili da scardinare, pure i falsi miti sul cibo che infestano il web passando da un utente all’altro, prima e meglio del foglietto scritto con le mani unte. Il mondo della cottura della carne non è immune a certi fenomeni, anzi, ma per fortuna ci sono tanti modi per distinguere i fatti dalle chiacchiere.
e la tecnica di cottura. I tagli spessi trattengono più energia di quelli sottili. Le cotture ad alta temperatura pompano più energia nello strato esterno della carne di quanto non facciano le basse temperature, quindi la cottura a fuoco vivo produce un carryover maggiore.
MITO #02 IL "SUCCO ROSSO" CHE ESCE DALLA BISTECCA È SANGUE NON È COSÌ PERCHÉ: sebbene certe espressioni come cottura “al sangue” facciano parte del nostro linguaggio quotidiano, quel liquido di colore rosso che fuoriesce dalla costata di manzo non è sangue, bensì “myowater”. Se fosse davvero sangue sarebbe molto più scuro, quasi nero, e coagulerebbe una
Iniziamo a fare del sano debunking.
MITO #01 IL CARRYOVER FISSO Prima di tutto spieghiamo cos’è il carryover, detto anche “cottura di riporto”: quando allontaniamo il cibo dal fuoco, questo può continuare a cuocere per 20 minuti o più, anche a temperatura ambiente, trasformando un arrosto a cottura media in un asciugamano arrotolato. Questo fenomeno prende il nome di “carryover”.
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NON È COSÌ PERCHÉ: non esiste una regola universale per calcolare il carryover, ovvero i gradi interni che un pezzo di carne può raggiungere quando viene allontanato dalla fonte di calore. Ci sono tanti fattori che lo determinano, primi fra tutti lo spessore
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volta a contatto con il piatto da portata. Invece quel liquido rimane rosato, semi trasparente e acquoso. Chiamatelo semplicemente "succo" d'ora in poi, è più corretto. Sono convinto che chiamarlo "sangue" sia il motivo per cui molte persone si rifiutano di mangiare una bistecca cotta come si deve, ovvero a 52°C-56°C interni, perché disgustati da certe associazioni mentali.
MITO #03 LA COTTURA DELLA CARNE SIGILLA I PORI E TRATTIENE I SUCCHI Questo è il mio preferito. Una fesseria ripetuta e tramandata da libri, riviste di settore, siti web e programmi tv. Non c’è cuoco televisivo che non abbia proferito questa balordaggine almeno una volta nella vita. NON È COSÌ PERCHÉ: sebbene la scottatura rosoli e rassodi la superficie della carne, non salda le fibre e non blocca proprio nulla. Come afferma lo scienziato e scrittore Harold McGee nel suo libro di riferimento, On Food and Cooking, ”La crosta che si forma intorno alla superficie della bistecca non è impermeabile: il continuo sfrigolio della carne in padella, in forno o sulla griglia non è altro che il suono dei liquidi che si trasformano in vapore". Questo non significa che non si debba cuocere le bistecche ad alta temperatura. La scottatura produce rosolatura, un elemento chiave che rende la carne tremendamente più gustosa.
MITO #04 PUOI CAPIRE IL GRADO DI COTTURA DELLA BISTECCA PUNZECCHIANDOLA E CONFRONTANDO LA CONSISTENZA DELLA CARNE CON LA RESISTENZA DEL MUSCOLO TRA IL POLLICE E L’INDICE NON È COSÌ PERCHÉ: le mani non sono tutte uguali. La mano di una donna di 26 anni di 60 chili ha la stessa elasticità e muscolatura di quella di un uomo di 30 che pesa 90 chili? O di un uomo di 50 anni che lavora in ufficio o di un settantenne in pensione? Ovviamente no. Un filet mignon ha la stessa consistenza e la stessa elasticità di un controfiletto? Ma non esiste. L’unico strumento che vi permette di verificare la cottura interna della carne è il termometro, il resto è magia nera.
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MITO #05 PUOI CAPIRE IL GRADO DI COTTURA DELLA CARNE TAGLIANDOLA E OSSERVANDO IL COLORE
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NON È COSÌ PERCHÉ: il colore della carne subisce delle alterazioni nel tragitto dalla griglia alla tavola. La mioglobina è l’elemento che determina il colore rosso, e quando entra in contatto con l'aria, cambia tonalità. L’interno di una bistecca cotta potrà sembrare grigio marrone
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appena tagliato, ma quando la mioglobina si legherà all’ossigeno, assumerà una colorazione rossastra. Provate a replicare questo esperimento: prendete due bistecche e cuocetele a 60°C al cuore. Tagliate la bistecca A e tenetela all’aria per circa 10 minuti. Quindi affettate anche la bistecca B e scattate una foto comparativa. Noterete che l’interno della bistecca A sarà rosso, nonostante i due pezzi di carne abbiano lo stesso grado di cottura. La temperatura a cui la mioglobina diventa grigia può variare dai 60°C ai 77°C, a seconda della razza, dalle tecniche di macellazione dell’animale e altro ancora. Anche la luce può trarre in inganno. La luce a incandescenza è visibilmente giallo-arancione, quella fluorescente è blu-verdastra, mentre i LED possono avere luce fredda o calda. In conclusione: quando controllate la cottura della carne, non fatevi ingannare dall’aspetto esteriore ma affidatevi al termometro digitale.
MITO #06 LA CARNE DI MAIALE ROSATA È PERICOLOSA PER LA SALUTE NON È COSÌ PERCHÉ: è un pericolo legato al passato. Un tempo, quando i suini vivevano allo stato brado, era facile ammalarsi a causa del parassita trichinella
spiralis presente nella carne di maiale poco cotta. Oggi la trichinosi è stata praticamente debellata nei Paesi sviluppati. Il tasso medio di infezione è inferiore a una dozzina di casi all'anno e la maggior parte di essi è associata al consumo di selvaggina poco cotta, come il cinghiale, che si ciba anche di carcasse abitate dal parassita. I metodi moderni di allevamento e lavorazione delle carni e la sensibilizzazione del pubblico sull'importanza di una cottura corretta hanno quasi eliminato la presenza della trichinella nella carne suina. L’organismo “ospite” viene eliminato a 60°C e la nuova temperatura interna minima raccomandata dall’Istituto Superiore della Sanità per la carne di maiale è di 63-65°C.
MITO #07 IL LEGNO PER AFFUMICARE VA SEMPRE BAGNATO PER OTTENERE IL MASSIMO DEL FUMO
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NON È COSÌ PERCHÉ: l’acqua non comporta nessun tipo di beneficio. Per verificare se l'ammollo della legna serva a qualcosa basta fare un semplice test: pesate alcuni trucioli e pezzi di legno su una bilancia digitale, poi metteteli a bagno in acqua colorata (con un colorante alimentare) a temperatura ambiente per 24 ore. Togliete i pezzi di legno dall’acqua, tamponateli leggermente con carta assorbente e pesateli di nuovo per registrare quanta acqua hanno assorbito. Vedrete che l’aumento di peso sarà irrisorio.
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negli Stati Uniti acquistano all’ingrosso dei polli già marchiati con le righe, da cuocere al microonde e servire. Ci sono persino dei libri di cucina che vi insegnano come ottenere grill marks più marcate. In tutta onestà, quei segni neri e paralleli sono solo scenografia. Ha molto più senso cuocere una bistecca su una superficie piana, per massimizzare l’estensione della “crosta” e potenziarne tremendamente il gusto e la consistenza. Con le grill marks, anche quelle “a scacchi”, avremo solo un terzo della superficie completamente rosolata. I rombi tra le scalanature rimangono frazioni di carne “lessa” e piena di potenziale non realizzato. Quando parliamo di carne (e non solo) l’obiettivo è ottenere una colorazione da marrone dorato a marrone scuro sulla maggior parte della superficie, perché quella tinta ambrata significa che le Reazioni di Maillard hanno creato centinaia di composti gustosi e profumati.
Per vedere fino a che punto l'acqua penetra nel legno, tagliate i ciocchi a metà. Vedrete che il liquido avrà colorato solo la superficie e sarà penetrato soltanto nelle eventuali crepe e fessure, lasciando l’interno praticamente asciutto e immacolato. C'è poi un'altra buona ragione per non bagnare mai la legna: se gettate legna fradicia sui carboni ardenti, la frazione acquosa li raffredderà. Il segreto della cottura barbecue, si sa, è raggiungere una temperatura target e preservarla in maniera costante. La legna bagnata non supera i 100°C finché l'acqua non evapora, e comincia a produrre fumo solo quando l'acqua evapora e la legna raggiungere il punto di combustione, a circa 300°C. Quel fumo bianco che si vede quando si gettano chips bagnate sulla griglia non è altro che vapore.
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MITO #08 LA BISTECCA PERFETTA DEVE AVERE LE “GRILL MARKS”, LE RIGHE IMPRESSE DALLA GRIGLIA
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NON È COSÌ PERCHÉ: non aggiungono nulla se non delle strisce scure. E pensare che alcuni ristoranti
Devo ammettere però che esistono alcuni cibi, in particolare quelli con uno spessore ridotto, che traggono beneficio dal contatto con la griglia. Su gamberi, asparagi e peperoni, le grill marks fanno dorare rapidamente l'esterno senza cuocere troppo l’interno. Basta fare attenzione: ci vogliono davvero pochi secondi a trasformare quei segni caramellati in un reticolo nero e amaro.
MITO #09 LA SALAMOIA FA ENTRARE IL SALE NELLA CARNE PER OSMOSI NON È COSÌ PERCHÉ: lo dice la scienza. Alcuni testi specializzati, in maniera molto superficiale, ci dicono che il sale viene estratto dalla salamoia ed entra nella carne per osmosi. In realtà l'osmosi avviene quando ioni e molecole passano attraverso membrane semipermeabili. Il sale è una minuscola molecola a due atomi e penetra nella carne soprattutto diffondendosi attraverso i tessuti, fibre muscolari affettate, capillari, acqua intracellulare e altri canali. Una volta all'interno nella carne, l'osmosi aiuta il sale a passare attraverso le membrane cellulari e nelle proteine delle fibre muscolari, non prima.
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MITO #10 LO SMOKE RING SI FORMA SOLO IN PRESENZA DI FUMO PERSISTENTE NON È COSÌ PERCHÉ: è possibile ricreare lo smoke ring (l’alone rosa sotto il bark, la crosta superficiale) anche senza fumo! La mioglobina, che per natura è di colore rossastra, diventa grigia se esposta al calore. Esistono però dei composti che impediscono alla mioglobina di cambiare tonalità: i sali di stagionatura. Questi sali infatti, contenendo nitriti e nitrati, permettono alla carne in scatola e ai salumi di rimanere praticamente rosa per sempre. Quando si affumica la carne, i gas invisibili ossido di azoto (NO) e monossido di carbonio (CO) si combinano con i liquidi del condimento e i succhi della carne, fissando il colore della mioglobina. Tuttavia, questi gas non possono diffondersi molto oltre la superficie della ciccia prima che l'interno si riscaldi. Questo fa sì che la mioglobina interna diventi grigio-marrone, e che lo smoke ring si estenda solo a circa 3-6 mm di profondità. Man mano che la carne cuoce, la superficie inizia ad asciugarsi e il fumo non ha nulla su cui attecchire. Ecco perché mettere una pentola d'acqua in un affumicatore aiuta a creare lo smoke ring, perché così i gas si aggrappano all’umidità. Esistono infatti degli affumicatori chiamati water smoker perché dotati di vaschette per l’acqua integrate.
Gianfranco Lo Cascio
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E allora? Le sapevate tutte? Guai se vi becco a sigillare i pori, per quello ci vuole il Saratoga.
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LA RIBOLLITA
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la zuppa simbolo della Toscana
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La ribollita è una zuppa tradizionale toscana, tipica della cucina povera. Viene preparata con ingredienti semplici e di stagione, come cavolo nero, fagioli cannellini, patate, cipolle e pane raffermo. La zuppa viene cotta a lungo, in modo che i sapori si amalgamino perfettamente. La particolarità della ribollita è che, una volta raffreddata, viene ripassata in padella il giorno dopo per essere riscaldata e servita di nuovo. Da qui il nome "ribollita”, bollita due volte. Questo processo di riscaldamento e raffreddamento permette al pane di assorbire meglio i sapori degli ingredienti , rendendo la zuppa ancora più gustosa.
Le sue origini risalgono al Medioevo e sono legate a zone della Toscana come Pisa, Firenze e Arezzo, quando era usanza cucinare una zuppa di cavolo nero e fagioli cannellini, entrambi ingredienti assolutamente toscani. A quei tempi ai ricchi feudatari si serviva la carne su fette di pane non lievitato e senza sale. I contadini non potevano di certo permettersi lo stesso lusso e così, per nutrire le proprie numerose famiglie, contadine e massaie si adoperavano a preparare zuppe in grandi quantità, con verdure e altri ingredienti facilmente reperibili nella campagna. Per arricchire il piatto, erano solite aggiungerci residui di pane provenienti dalle mense dei nobili oppure dalla cottura settimanale nei forni comuni. La zuppa durava anche per tutta la settimana. Il segreto era proprio farla ribollire, una o più volte sul fuoco nei giorni successivi: era questo il segreto del suo sapore. La ribollita è un piatto molto nutriente e sostanzioso, ideale per le giornate fredde. La presenza dei fagioli cannellini, ricchi di proteine e carboidrati, e del cavolo nero, ricco di vitamine e fibre, rende questa zuppa un'ottima scelta per un pasto completo. Inoltre, l’utilizzo di pane raffermo è un modo creativo per recuperare il pane avanzato.
Non ci resta che tuffarci a capofitto nella ricetta!
senza sale raffermo / 400 g di fagioli secchi (cannellini, toscanini o borlotti) / un mazzo di cavolo nero / mezzo cavolo verza / un mazzo di bietole / 2 patate piccole / una cipolla grande / 2 carote / una costa di sedano / rosmarino fresco q.b. / timo fresco q.b. / circa 2 lt di brodo vegetale / olio extravergine di oliva q.b. / un cucchiaio di doppio concentrato di pomodoro / sale q.b. / pepe abbondante PREPARAZIONE 1. Mettete a bagno i fagioli, almeno 12 ore prima di procedere con la preparazione. 2.
Una volta che i fagioli si sono ammorbiditi, scolateli e lessateli in abbondate acqua salata e rosmarino. Infine scolate nuovamente i fagioli, conservando l’acqua di cottura e frullatene la metà, tenendo interi gli altri.
3.
Tritate finemente la cipolla, pelate le patate, tagliate a pezzettini molto piccoli carola e sedano, soffriggete in un pentolone capiente con 4 cucchiai di olio per un minuto, poi aggiungete le patate tagliate a pezzettini e il timo fresco legato.
4.
Pulite e tagliate grossolanamente cavolo nero, verza e bieta. Aggiungete il tutto al soffritto, salate e lasciate appassire.
5.
Aggiungete l’acqua dei fagioli, il concentrato di pomodoro, sale e pepe e coprite con un coperchio; lasciate sobbollire a fuoco dolce per 2 ore circa, aggiungendo di tanto in tanto se serve il brodo vegetale caldo.
6.
Trascorso questo tempo, aggiungete i fagioli frullati, fate cuocere ancora per mezz’ora e infine aggiungete i fagioli interi.
7.
Tagliate a fette non troppo sottili il pane raffermo, ponetele sul fondo di una zuppiera e aggiungete sopra qualche mestolo di zuppa. Ripetete l’operazione aggiungendo uno strato di pane e uno di minestra fino a riempire la zuppiera. Lasciate riposare la ribollita da un minimo di 3 ore fino al giorno successivo.
8.
Quando vorrete gustarla, aggiungete un paio di mestoli di brodo e un filo d’olio; cuocete di nuovo su fuoco basso per circa 15 minuti. Aggiustate di sale se necessario e servite con un’abbondante macinata di pepe e olio extravergine di oliva.
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Non esiste una sola e unica ricetta della ribollita (che oltretutto non va confusa con la zupppa pisana di cavolo nero, una preparazione molto simile ma che non prevede la ribollitura). Nascendo come piatto povero e di recupero, gli ingredienti possono anche cambiare, ma ce ne sono alcuni che sono assolutamente necessari e fondamentali: il pane rigorosamente senza sale, raffermo e cotto a legna; i fagioli preferibilmente borlotti, toscanelli o cannellini; il cavolo nero che abbia preso qualche gelata (o come si dice in Toscana “che abbia preso il ghiaccio”). La gelata è un fenomeno naturale che avviene quando la temperatura scende al di sotto dello zero. Per il cavolo nero, il passaggio delle gelate è importante perché aiuta a migliorare il sapore e la consistenza delle foglie. Il freddo, infatti, fa sì che il cavolo nero produca una quantità maggiore di zuccheri e aromi, rendendolo più dolce e gustoso. Inoltre, le gelate aiutano a disattivare gli enzimi che rendono le foglie amare, migliorando anche la digeribilità della pianta. Infine, il cavolo nero, come altri ortaggi, perde una percentuale di acqua durante il congelamento e questo concentra i nutrienti nei tessuti vegetali, rendendo questo ortaggio ancora più saporito e salutare.
Ingredienti per 4 persone: 300 g di pane toscano
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PASTA E CECI
la zuppa perfetta per le giornate invernali
La pasta e ceci è una ricetta perfetta per fredde giornate invernali, apprezzata e consumata al punto che ogni regione del nostro Paese ha la sua variante. Non ci sono registrazioni storiche precise su quando e dove esattamente sia nata questa ricetta, ma si sa che i ceci erano un alimento comune nell'antichità e che sono stati utilizzati in molte regioni d'Italia per secoli. È probabile che la pasta e ceci sia stata creata per cucinare questi legumi in modo gustoso e sostanzioso, utilizzando la pasta come ingrediente base poiché economica e facilmente reperibile. I ceci sono i semi contenuti nei baccelli del Cicer arietinum, pianta annuale della famiglia delle Fabaceae che si coltiva in diverse parti del mondo (India, Pakistan, Australia) e in tutto il bacino del Mediterraneo. In Italia vengono coltivati e consumati principalmente in Liguria e nelle regioni centrali: Toscana, Umbria e Lazio. Sono ricchi di nutrienti e possiedono numerose proprietà benefiche per la salute. Sono infatti un'ottima fonte di proteine vegetali, che contribuiscono alla crescita e al mantenimento della massa muscolare; sono ricchi di fibre, che aiutano a mantenere il sistema digestivo in salute e a controllare i livelli di colesterolo nel sangue, e sono una buona fonte di carboidrati complessi, che forniscono energia a lunga durata. Infine, i ceci contengono numerosi micronutrienti come ferro, magnesio, fosforo e vitamine del gruppo B. L'origine dei ceci è antica e si pensa che siano stati coltivati per la prima volta in Mesopotamia intorno al 7.000 a.C. In epoca romana servivano per nutrire i soldati romani e la popolazione povera. Come suggerisce il poeta Orazio, a Roma venivano spesso consumati fritti in olio d’oliva. Essendo così ricchi di nutrienti, questi legumi sono stati utilizzati nei secoli in moltissime ricette: la farinata e la panissa liguri, la cecina toscana, la minestra di ciceri e tria salentina, lo zemin ligure o ancora le panelle palermitane.
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Tornando alla nostra ricetta, esistono tantissime varianti: la versione di pasta e ceci alla romana, con rosmarino e peperoncino, la pasta e ceci napoletana, con pomodori pelati e basilico, quella pugliese, che predilige pasta fresca fatta in casa e quella toscana che invece vede l’utilizzo di pasta corta tipo i ditali e la passata di pomodoro. C’è però una cosa che le accomuna tutte: l’incredibile e confortevole cremosità che una pasta e ceci degna di questo nome deve avere!
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Ingredienti per 4 persone: 160 g pasta
corta (formato indifferente, basta che sia corta) / 250 g ceci secchi / 2 spicchi aglio / olio extravergine di oliva q.b. / rosmarino fresco q.b. / 2 cucchiaio doppio concentrato di pomodoro / sale e pepe q.b. / peperoncino (facoltativo) PREPARAZIONE 1. Mettete in ammollo i ceci secchi per circa 12 ore. 2.
Dopo l’ammollo prendete una pentola capiente, aggiungete l’olio extravergine di oliva e lasciatelo scaldare. Nel frattempo sbucciate e schiacciate due spicchi d’aglio, aggiungendoli all’olio e lasciandoli soffriggere dolcemente.
3.
È il momento di aggiungere i ceci. Lasciate rosolare nel soffritto a fiamma vivace girando per circa un minuto, aggiungete il rosmarino fresco e poi allungate il tutto con tre bicchieri di acqua lasciando successivamente bollire il composto a fuoco lento finché i ceci non risulteranno morbidi.
4.
A r r i va t i a q u e s t o p u n t o aggiungete un pizzico di concentrato di pomodoro e, se gradite, del peperoncino.
5.
Prelevate dalla pentola circa la metà dei ceci e teneteli da parte; ora aggiungete altra acqua alla zuppa, salate, fate prendere il bollore, e finalmente aggiungete la pasta.
6.
Frullate i ceci messi da parte con un mestolo della loro acqua di cottura e riversate la crema ottenuta nella pentola insieme al resto.
7.
Portate la pasta a cottura, e attendente qualche minuto che il tutto si intiepidisca: la pasta continuerà ad assorbire liquidi e a rilasciare amido, aumentando la cremosità del piatto.
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Classico ma sempre attuale
RISOTTO ALLA MILANESE CON OSSOBUCO
“il risotto alla milanese non deve essere scotto, ohibò, no! solo un po' più che al dente sul piatto: il chicco intriso ed enfiato de' suddetti succhi, ma chicco individuo, non appiccicato ai compagni, non ammollato in una melma, in una bagna che riuscirebbe schifenza. Del parmigiano grattuggiato è appena ammesso, dai buoni risottai; è una banalizzazione della sobrietà e dell'eleganza milanesi. Alle prime acquate di settembre, funghi freschi nella casseruola; o, dopo S. Martino, scaglie asciutte di tartufo dallo speciale arnese affetto-trifole potranno decedere sul piatto, cioè sul risotto servito, a opera di premuroso tavolante, debitamente remunerato a cose fatte, a festa consunta. Né la soluzione funghi, né la soluzione tartufo, arrivano a pervertire il profondo, il vitale, nobile significato del risotto alla milanese.” Così scriveva nel 1959 Carlo Emilio Gadda scrittore e ingegnere milanese appassionato di cucina, sulla rivista Il gatto selvatico. E la definizione fa già venire fame! D’altronde tutti conosciamo la bontà inarrivabile del risotto giallo, ovvero condito con zafferano, tanto parmigiano e tanto burro.
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Ci sono diverse leggende che sono nate sull’origine del risotto alla milanese. La leggenda più accreditata, anche se fantasiosa, vuole che soltanto nell’anno 1574, lo zafferanno fu utilizzato, in modo del tutto casuale, nella preparazione del famoso risotto giallo, detto da allora “alla milanese”.Mastro Valerio di Fiandra, fiammingo di Lovanio che all’epoca lavorava alle vetrate del Duomo di Milano (sue sono le vetrate che raffigurano la vita di Sant’Elena) era aiutato nel suo lavoro da un assistente molto bravo. Pare che il ragazzo in questione riuscisse a ottenere spettacolari colori delle vetrate aggiungendo un pizzico di zafferano alle preparazioni. Quando la figlia del mastro vetraio si sposò, venne organizzato un banchetto per tutte le maestranze e quel garzone di bottega aggiunse al risotto un po’ di polvere gialla. Tutti pensarono a uno scherzo, ma assaggiandolo si accorsero di quanto fosse buono, tanto da rendere il garzone di bottega cuoco ufficiale della Fabbrica del Duomo e a proclamare quel risotto come specialità milanese per eccellenza.
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Altre fonti attestano che, nella cucina kosher medievale, vi fosse una ricetta di riso con zafferano, quasi certamente prima antenata del piatto meneghino e forse esportata
dalla Sicilia fino al nord Italia dai mercanti ebrei. Secondo altre fonti ancora, pare che l’uso dello zafferano sia derivato dall’antica usanza medievale di servire i cibi ricoperti di finissima polvere d’oro (i medici sostenevano che facesse bene al cuore), poi sostituita con la spezia gialla per questioni di costo. E probabilmente a questa usanza si è ispirò anche Gualtiero Marchesi quando servì e rese celebre, nel 1981, il suo risotto zafferano e oro. In ogni caso, se dici risotto alla milanese, pensi subito all’ossobuco! L’ossobuco, nello specifico, è il geretto: un taglio di carne con spessore di circa 3-4 cm che si ricava dallo stinco degli arti posteriori del bovino. I pezzi migliori sono quelli tagliati alla metà del muscolo posteriore o anteriore, dove l’osso ha una ricca dotazione di midollo e dove il rapporto tra carne e tessuto connettivo ha un’ottima proporzione. Sapete che esiste una Confraternita? L’Associazione di Òsbuss “Confraternita dell’Ossobuco alla Milanese” nata al fine di “celebrare, tutelare, insegnare e gustare la cucina milanese in genere ma nel nome di un piatto, l’ossobuco, che ne è un po’ un compendio e un esempio”. Secondo la suddetta Confraternita, la ricetta ufficializzata prevede un soffritto di cipolla e carote ma dice no al pomodoro (anche se è ammesso come variante); sì al limone e al prezzemolo, ma non l’aggiunta di aglio. È considerata invece blasfemia la cottura in forno. Chissà cosa penserebbero di noi che lo facciamo sul kettle e lo affumichiamo…
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Ingredienti per 4 persone
per il risotto giallo: 320 g di riso Carnaroli / burro q.b. / una bustina di zafferano / una cipolla bianca / un bicchiere di vino bianco / 1,5 l di brodo di manzo / Parmigiano Reggiano DOP grattugiato fresco q.b. / sale e pepe q.b. per gli ossobuchi: ossobuchi di manzo alti almeno 4 cm con midollo / una cipolla bianca / una carota piccola / un gambi di sedano / 60 g di burro / farina q.b. / un bicchiere di vino bianco secco / brodo di manzo q.b. / sale e pepe q.b. / il succo e la scorza di un limone / un ciuffo di prezzemolo
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PREPARAZIONE 1. Accendete il kettle e settatelo in modo da potervi permettere una iniziale cottura diretta e poi in un secondo momento un’indiretta a coperchio chiuso. Poco più di mezza ciminiera di bricchette accese andrà bene: preparate comunque uno snake per prolungare la cottura per il tempo necessario affinché gli ossobuchi siano perfettamente cotti, senza rischiare di dover rabboccare il carbone in corso d’opera.
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2.
Tritate finemente il sedano, la carota e la cipolla, poi ponete il soffritto insieme al burro in un tegame (l’ideale sarebbe una cocotte in ghisa) adatto sia per la cottura diretta che indiretta. Infarinate gli ossobuchi.
3.
Ponete la cocotte in cottura diretta e aspettate che il soffritto sia ben appassito, poi inserite gli ossobuchi e fateli rosolare bene da entrambe le parti. Sfumate col vino bianco e quando sarà evaporato spostate il tegame nella parte “fredda” della griglia.
4.
Salate, pepate e bagnate con un goccio di brodo. A questo punto, prima di chiudere il coperchio e stabilizzare il dispositivo a una temperatura di circa 150°C/160°C, aggiungete chips di legno aromatico per affumicare.
5.
Lasciate andare così per mezz’ora, poi aprite il coperchio, aggiungete un po’ di brodo e richiudetelo. Quando la carne avrà raggiunto la temperatura di circa 65°C interni, e sarà brunita perfettamente, aggiungete un po’ di brodo nella cocotte e poi copritela col suo coperchio (nel case abbiate usato un diverso recipiente, fatelo con l’alluminio). Richiudete il kettle e continuate così, finché la temperatura degli ossobuchi non avrà raggiunto i 95/96°C. La carne dovrà essere tenera e tenderà a staccarsi dall’osso. Lasciate gli ossobuchi in caldo e preparate il risotto.
6.
Tritate finemente la cipolla, poi fatela appassire nel burro. Buttate il riso nella pentola e fatelo tostare bene. Sfumatelo col vino bianco.
7.
A questo punto portate il riso a metà cottura versandoci un mestolo di brodo caldo quando il precedente è stato assorbito. Aggiungete poi lo zafferano sciolto con uno o due cucchiai di brodo tiepido e terminate di cuocere unendo un mestolo di brodo alla volta.
8.
A fine cottura mantecate con abbondate Parmigiano Reggiano DOP e burro, infine servite il risotto giallo con gli ossobuchi affumicati.
BRASATO CON POLENTA smettetela di sigillare e cominciate a rosolare! Probabilmente vi sarà capitato di cercare in rete una ricetta del brasato e di imbattervi in qualche articolo dedicato a questa preparazione. Di solito viene sempre intervistato l’esperto o l’esperta del piatto, dallo sconosciuto chef della locanda Taldeitali alla nonnina di paese che prepara il brasato fin dalla notte dei tempi, che dispensano consigli per ottenere un risultato perfetto. Ebbene, la maggior parte delle volte sentirete dire agli esperti una frase del genere (presa a caso su uno degli articoli di cui sopra): “uno degli errori che più spesso si commettono nel cucinare questo piatto è mettere sul fuoco la carne con le verdure e il vino, senza che prima si sia fatta rosolare. Questo passaggio, fondamentale, serve per racchiudere all’interno del pezzo di manzo i succhi che mantengono la carne tenera e morbida, nonostante la lunga cottura” . E così siamo ancora fermi al sigillare i succhi della carne. Abbiamo ripetuto in lungo e in largo sia sulla Community che qui sul Magazine (ne parla anche Gianfranco Lo Cascio nell’editoriale!) quanto questo mito, nato da un errore del chimico Justus von Liebig, che nel 1847 enunciò la teoria secondo la quale la superficie della carne, esposta ad alte temperature, si "sigilli" impedendo ai succhi di fuoriuscire. Questa teoria è assolutamente falsa. E allora perché continuiamo a rosolare la carne prima?
Per fare il brasato occorrerebbe la brasiera: un utensile rettangolare o ovale in rame con il coperchio a scatola. Per uso domestico è sufficiente avere una buona pentola in ghisa, di coccio o di rame, con il rispettivo coperchio. Anche la dimensione della pentola è importantissima: deve essere solo leggermente più grande del pezzo di carne che deve contenere per permettere, a chi se ne occupa, di girarla di tanto in tanto, ma anche per impedire il surriscaldamento dei grassi di cottura che, bruciando, rovinerebbero il sapore del piatto finale. Infine, il vino: quello ideale è un vino rosso, corposo. Non a caso, quando si parla di brasato si pensa subito al famoso Brasato al Barolo. Ottime alternative sono il Barbaresco, il Nebbiolo o il Barbera. Ad accompagnare il tutto, la polenta. È consigliabile utilizzare una farina nostrana e possibilmente biologica. Esistono tre tipologie di farine a pasta gialla: bramata (la più conosciuta, rustica, macinata a pietra); fioretto (più fine, si utilizza anche per per impanare carni e pesci); fumetto, una farina molto fine ottenuta dalla lavorazione del mais su impianti a cilindri. La farina da polenta bianca è una varietà maggiormente pregiata, che si usa moltissimo nel Polesine e ne Triveneto, e ha un tono più delicato, che copre meno il sapore dei sughi che l’accompagnano.
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Per brasato si intende una carne cotta a lungo in un recipiente pesante con il coperchio ben chiuso, previa rosolatura della carne da tutti i lati nel grasso scaldato fra 140°C e 180°C. La “sigillatura”, in realtà, non esiste: la crosticina che si crea in superficie con la rosolatura iniziale non è altro che la reazione tra gli amminoacidi delle proteine della carne e gli zuccheri, un processo chimico conosciuto come Reazione di Maillard. È giusto quindi rosolare la carne prima della cottura lunga, ma NON per sigillare i succhi e per renderla più morbida, casomai per fare in modo che sia più buona e saporita grazie alle molecole gustose e odorose che si formano con la Reazione di Maillard.
La parola brasato deriva dal verbo brasare che a sua volta discende dalla parola dialettale piemontese “bràse” che significa “brace”. Infatti, anticamente il recipiente dal coperchio concavo in cui veniva cotto il brasato veniva coperto interamente dalle braci. In questo modo la carne nella pentola veniva avvolta nel doppio calore. Questo tipo di cottura era ideale per cuocere i pezzi di carne meno pregiati, perché duri e provenienti dagli animali grossi, da lavoro. In effetti, i tagli ideali ideale per preparare un buon brasato sono quelli ricchi di tessuto connettivo che, sciogliendosi durante la lenta e lunga cottura, rende la carne morbidissima.
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Ingredienti per 4 persone
per la marinatura: un bottiglia di vino rosso (Barolo, Nebbiolo, Barbera) / un grossa cipolla bionda / 2 carote / un gambo di sedano / una foglia di alloro / qualche gambo di prezzemolo / 2-3 bacche di ginepro / 3-4 chiodi di garofano / un pezzo di stecca di cannella per il brasato: 1,5 kg di Top Blade del nostro Megastore / farina q.b. / un cucchiaio di burro / un bicchierino di Cognac / sale e pepe q.b. / al bisogno brodo di manzo o vegetale per la polenta: 500 g di farina di mais / due litri d’acqua / sale grosso q.b. PREPARAZIONE 1. Legate la carne con lo spago, come fareste con un arrosto. Sbucciate la cipolla e tagliatela a pezzi grossi, spellate le carote e tagliatele a rondelle alte due cm. Lavate e pulite il sedano e tagliatelo a tocchi grossi. Lavate i gambi di prezzemolo. 2.
Mettete la carne in un recipiente a bordi alti con le verdure tagliate a pezzi, le erbe aromatiche e le spezie. Versate il vino per coprire interamente la carne e chiudete con un foglio di carta trasparente. Mettete nel frigorifero e lasciate marinare per 12-24 ore.
3.
Trascorso il tempo necessario levate la carne dalla marinatura, asciugatela con un pezzo di carta da cucina e infarinatela. Filtrate il vino della marinatura ed eliminate le spezie. Scaldate il vino.
4.
In una pesante cocotte di ghisa, scaldate il burro e l’olio e fate rosolare la carne da tutti i lati. Sfumate con il Cognac e fate evaporare l’alcool. Salate e pepate leggermente e aggiungete le verdure della marinatura.
5.
Versate il vino e portate tutto ad ebollizione. Abbassate la fiamma, mettete il coperchio alla cocotte e cuocete per almeno 3 ore. Potete anche cuocere il brasato nel vostro dispositivo stabilizzandolo a 180°C, sempre nella cocotte coperta col suo coperchio.
6.
Se durante la cottura doveste rendervi conto che il brasato dovesse asciugarsi troppo aggiungete qualche mestolo di brodo caldo.
7.
Quando la carne sarà morbidissima, toglietela dalla pentola e tenetela al caldo. Intanto raccogliete tutto il fondo di cottura e frullatelo.
8.
Preparate la polenta: in una pentola mettete a bollire l’acqua salata. Versate la farina di mais un po’ alla volta, mescolando costantemente con una frusta. Una volta che avrete sfarinato, togliete la frusta e cominciate a mescolare con un cucchiaio di legno.
9.
Cuocete con pazienza per 45 minuti, continuando a mescolare.
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10. Tagliate il brasato a cubetti o a fette di un cm e servitelo con la salsa calda e la polenta.
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Il piatto simbolo della cucina brasiliana:
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FEIJOADA
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La feijoada è un piatto tradizionale del Brasile a base di fagioli neri e carne di maiale. Viene solitamente servita con riso bianco e farofa (una polvere di manioca fritta), con l'aggiunta di arancia tagliata a fette o limone per condire. La carne utilizzata per la feijoada include parti più o meno grasse del maiale: pancetta, guanciale, salsicce e costine. Per risalire alle origini di questo piatto, è necessario conoscere la storia culinaria del Brasile. Dapprima la cultura gastronomica brasiliana si basava solo sugli ingredienti locali e sulle abitudini dei popoli autoctoni; a questi, poi, si sono sommate le influenze europee, poi africane e infine quelle di tutte le successive ondate migratorie. Potremmo dire che la cucina brasiliana moderna ha cominciato a prendere forma nel periodo coloniale come risultato di mescolanze e contaminazioni che hanno coinvolto popoli (e ingredienti) diversi. La tradizione racconta che la Feijoada sia stata inventata dagli schiavi che lavoravano nelle piantagioni e nelle miniere. Secondo questa storiella, la versione base consisteva soltanto in riso e fagioli, ma nelle occasioni speciali venivano concessi ai poveri schiavi dei ritagli di maiale, scartati dai “padroni”, per arricchire la loro dieta. Un racconto privo di verità storica. Il piatto, infatti, è di origini portoghesi e fu esportato in Brasile con l’arrivo dei primi coloni. In molti scritti di cucina è infatti possibile individuare le origini di questo preparazione in Portogallo da ben prima che arrivasse nel Nuovo Continente. Questo piatto è diventato uno dei simboli della cultura gastronomica brasiliana, probabilmente il più noto e rappresentativo, proprio a conferma di quanto detto poc’anzi: partito come preparazione tipica portoghese, in Brasile ha trovato una sua piena realizzazione tanto da far quasi dimenticare quella originale. Non esiste una ricetta unica della Feijoada. Esistono varianti che prevedono l’aggiunta di carne di vacca o frattaglie del maiale, c’è chi mette i fagioli neri e chi quelli bruni, chi usa spezie differenti. Insomma, come sempre accade in questi casi, non esiste una versione originale.
neri / una slab di ribs St.Louis Duroc GLC Top Selection / due salsicce / 100 g di pancetta affumicata / 100 g di guanciale / una cipolla / 2 spicchi d’aglio / qualche foglia di alloro / mezzo bicchiere di passata di pomodoro / sale e pepe q.b. / olio extra vergine di oliva q.b. / un velo di senape o di olio di semi / Sal’s Seasoning Tennessee mild dry rub q.b. / birra/brodo per le salsicce q.b. PREPARAZIONE 1. Mettete i fagioli a mollo in acqua per una notte. 2.
Trimmate e rubbate le costine di maiale con il Tennessee mild dry rub, usando un velo di olio di semi o di senape.
3.
Settate il kettle per una cottura indiretta a 110°C e mettete ad affumicare le costine e le salsicce. Non bucate queste ultime e aspettate che raggiungano un bel colore rossastro e rosolato, poi spostatele nella birra o nel brodo caldi. Le costine devono invece raggiungere il grado di cottura desiderato (c’è chi le preferisce più consistenti e chi, invece, vuole che si stacchino del tutto dall’osso).
4.
Nel frattempo, tritate mezza cipolla e fatela rosolare, aggiungete quindi i fagioli precedentemente scolati e copriteli con nuova acqua. Portate i fagioli a cottura.
5.
In una cocotte in ghisa fate adesso rosolare la restante mezza cipolla e l’aglio tritati.
6.
Quando il fondo sarà ben rosolato aggiungete la pancetta e il guanciale e fateli rosolare per qualche minuto (volendo potete aggiungere anche gli scarti delle ribs, se ne avete) poi i fagioli e la passata di pomodoro.
7.
Aggiungete adesso acqua a coprire e regolate di sale e pepe.
8.
Chiudete la cocotte e lasciate cuocere a fuoco lento per almeno 3 ore.
9.
A cottura ultimata, servite i fagioli insieme alle costine e alle salsicce affumicate.
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La cottura è lunga e impegnativa, per questo motivo nei ristoranti brasiliani viene servita in giorni prestabiliti o nel fine settimana. La Feijoada viene spesso accompagnata dalla farofa. Si tratta di una preparazione a base di manioca grattugiata o macinata finemente, che viene poi fritta in una pentola con burro o olio e condita con spezie o altri ingredienti come cipolla, uova, pancetta o cavolo. La farofa è croccante e saporita, e serve a contrastare la morbidezza dei fagioli e della carne.
Ingredienti per 4 persone: 500 g di fagioli
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La zuppa del bovaro, per gli amici
GULASCH
Il gulasch è un piatto tradizionale della cucina ungherese. Conosciuta anche come Gulyàsleves, zuppa del mandriano, deriva dalla cucina povera e nasce dall’intuito degli allevatori di bovini, che avevano bisogno di un piatto che si preparasse velocemente, che si conservasse con molta facilità e al tempo stesso li confortasse durante il cammino nella pianura stepposa del bassopiano magiaro (la puszta). Il nome gulasch deriva dalla parola ungherese "gulyás" che significa appunto "bovaro". La ricetta originale consisteva nel tagliare a cubetti la carne, per poi cuocerla a fuoco basso in pentoloni aperti e condirla con solo sale. Nel corso dei secoli sono nate numerose varianti e la carne di pecora è spesso stata sostituita con quella di manzo. A prescindere dal tipo di carne, deve essere cotta lentamente con cipolle, patate, carote e spezie, come paprika e cumino. La paprika, oggi elemento imprescindibile del gulasch, è stata aggiunta solo nel ‘700, quando questa zuppa venne usata dalla popolazione ungherese per ribadire la propria indipendenza culturale durante il conflitto con l’Impero austriaco. La paprika, detta anche pepe ungherese, viene ricavata solo dai migliori peperoni dolci, per dare al piatto quel tipico accento speziato.
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Verso la fine del XVIII secolo il gulasch arriva dalla prateria alle cucine delle famiglie borghesi, per poi apparire sulla tavola del popolo insieme ad altri stufati di carne. Possiamo dunque dire che mentre nella sua forma originale il gulasch è essenzialmente una zuppa abbastanza liquida a base di carne, quando varca i confini nazionali diventa una sorta di spezzatino. In Italia, la variante triestina e quella friulana sono diventate popolari durante questo periodo, data anche l'influenza della cucina austriaca.
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In molti sostengono che sia assolutamente vietato mettere il peperoncino nel gulasch, poiché si tratta principalmente di un piatto speziato e non piccante. C’è però chi non disdegna affatto aggiungere un po’ di capsaicina. Anche l’accompagnamento allo stufato può variare: se in Austria ed in Italia il gulasch viene servito con la polenta, in Germania vengono aggiunti anche crauti e panna acida. C’è poi chi lo serve con gnocchetti di farina. Oggi andremo a preparare il nostro delizioso gulasch usando la carne del nostro Megastore, utilizzando il nostro pregiatissimo spezzatino.
Ingredienti per 4 persone: 1 kg di
spezzatino del nostro Megastore / un kg di cipolle rosse / paprika dolce q.b. / sale e pepe q.b. / una foglia di alloro / un peperone / 4 patate grosse / un cucchiaio di concentrato di pomodoro / mezza tazza di passata di pomodoro / un litro di brodo di carne / due cucchiai di farina / olio extravergine di oliva q.b. PREPARAZIONE 1. Tagliate la carne a cubetti, infarinatela e poi in una padella fatela rosolare a fuoco alto nell’olio. Toglietele e mettetela da parte. 2.
Tagliate la cipolla sottilmente, pulite il peperone e tagliatelo a striscioline, sbucciate e riducete a pezzetti le patate.
3.
Nella stessa padella, aggiungete un po’ d’olio e poi mettete a soffriggere la cipolla. Poi unite la carne. Insaporite con la paprika, poi unite la passata di pomodoro, il concentrato e due cucchiai di brodo.
4.
Lasciate che il tutto si insaporisca, aggiustate di sale e di pepe, poi aggiungete un po’ di brodo, chiudete e lasciate cuocere per circa un’ora con una foglia di alloro.
5.
Tr a s c o r s o q u e s t o t e m p o , aggiungete le patate e peperoni, regolate eventualmente ancora di sale, aggiungete ancora brodo e lasciate di nuovo cuocere lo spezzatino. Mescolate di tanto in tanto e controllate che non si asciughi troppo.
6.
Lasciate cuocere a fuoco dolce finché lo spezzatino non sarà perfettamente morbido e ritirato al punto giusto. Servitelo caldo con la polenta oppure con due fette di pane tostato.
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HONEY GLAZED HAM Lo facciamo in casa col Boston Butt!
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Se non avete mai visto il film Fuga dal Natale con Jamie Lee Curtis e Tim Allen, recuperatelo subito: la storia è simpatica (un cinico avvocato approfittando della partenza della figlia decide di fuggire dalle feste natalizie, acquistando una costosa crociera, ma purtroppo le cose vanno molto diversamente da come si immaginava) e ci sono alcune scenette godibili. Perché stiamo parlando di questo film, considerato che ormai il Natale è passato? Perché in una delle scene più divertenti, Jamie Lee Curtis fa di tutto per riuscire ad accaparrarsi il prosciutto glassato al miele, il cibo preferito dalla figlia, purtroppo senza successo. E ogni volta, solo a sentir nominare quella prelibatezza, si rinnova la voglia di mangiarla. Solo che, mentre negli USA l’Honey Glazed Ham si trova tranquillamente sui banchi del supermercato, qui da noi la cosa si complica non poco. Di cosa si tratta? Di una preparazione molto conosciuta e apprezzata negli USA, consumata tipicamente durante le feste come il Ringraziamento o, appunto, il Natale. Ovviamente parliamo della coscia del maiale. In Italia lo traduciamo come “prosciutto” anche se non a nulla a che vedere col salume a cui possiamo pensare noi: cambia il sistema di concia, cambia il taglio, la cottura; infine c'è una glassatura finale. La coscia viene tagliata in due alla fine dell'osso femorale e si ottengono due tagli: butt end (sopra) e shank end (sotto). Nel butt end c'è più carne, molto tenera, ma la pulitura per il servizio è più difficile perché bisogna girare intorno all'osso dell'anca. Sotto c'è più collagene e la pulitura è pià facile perché si rimuove un singolo osso, cioè il femore. Non sarebbe quindi molto facile trovare il taglio giusto per poterlo preparare in casa! Anche in America consigliano di affidarsi a un macellaio di fiducia che possa effettuare il taglio che vogliamo, invece di comprarlo al supermercato: figuratevi in Italia! Il sapore riporta alle note del prosciutto cotto ma con la forza gustativa del pulled pork e del grasso del maiale arrosto in genere. Abbiamo dunque pensato di realizzarlo nel nostro dispositivo, ma...usando un Boston butt! Esatto, quello che di solito usiamo per il pulled pork. È un taglio che si presta benissimo a questa preparazione: la porzione di spalla assicura il corretto apporto di collagene, mentre la coppa apporta la giusta quantità di grasso, gusto e succosità. Il sezionamento squadrato e la grande compattezza completano l’insieme, anche in vista del taglio finale, sicuramente facilitato.
butt di Maiale Duroc del nostro Megastore / una confezione di Tennessee Mild Dry Rub / olio di semi q.b. / sale q.b. per la glassa: 100 g di zucchero di canna / 60 ml di Marsala / 1 cucchiaino di aceto balsamico / 160 g di miele PREPARAZIONE 1. Trimmate (ripulite in superficie) il Boston butt e, se volete abbellirlo, incidetelo con piccoli tagli a rombi. Rubbatelo (strofinatelo con il rub) bene ungendolo prima con un filo d’olio di semi e poi cospargendolo con un velo di Tennessee a cui avrete aggiunto un po’ di sale. Chiudetelo nella pellicola trasparente e riponetelo in frigo per una notte. 2.
La mattina dopo, predisponete il vostro dispositivo per una cottura indiretta che duri qualche ora e stabilizzatelo a circa 130°C. Ponete il Boston butt in griglia in cottura indiretta e cuocetelo finché non avrà raggiunto i 75°C interni. Se volete, in questa fase potete anche affumicare con delle chips di legno aromatico.
3.
Nel frattempo, preparate la glassa: mettete in una casseruola zucchero, marsala, aceto, miele e mescolate.
4.
Cuocete continuando a mescolare fino a portare a ebollizione, quindi abbassate la fiamma e cuocete qualche minuto, fino ad ottenere uno sciroppo.
5.
Quando il Boston butt avrà raggiunto la temperatura interna, spennellatelo con la glassa, chiudete il coperchio e continuate la cottura, spennellandolo ogni tanto con lo sciroppo, finché il Boston butt non avrà raggiunto gli 85°C al cuore.
6.
Raggiunta la temperatura target, tenete in rest il Boston butt e lasciate che la temperatura interna scenda molto lentamente.
7.
A questo punto è pronto per essere servito. Provate a gustarlo con dell’ottimo rafano grattugiato!
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Ovviamente, è importante scegliere anche una ciccia di qualità: la genetica del maiale Duroc, che potete trovare sul nostro Megastore, genera una carne di suino con un sapore più intenso, grazie a una percentuale più elevata di grasso intramuscolare e un PH più elevato. Cosa significa, in parole povere? Colore più scuro, più compattezza, maggiore tenerezza e minore perdita di gocciolamento che alla fine porta a rese migliori. Una volta scelto il taglio e il tipo di carne, non ci resta che tuffarci a capofitto in questa ricetta! Vediamo insieme come fare
Ingredienti per 4 persone: un Boston
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FARINATA, CECÌNA O TORTA DI CECI
chiamala come vuoi, ma mangiala col pepe!
Cecìna in Versilia e a Pisa, torta a Livorno, farinata a Genova, fainà a Savona, panisse a Marsiglia, socca a Nizza. Tanti nomi per la stessa cosa: una torta sottilissima fatta con farina di ceci, acqua e olio, cotta a legna e poi servita con abbondante pepe.
Ovviamente, la sua origine è contesa tra Toscana e Liguria. Le leggenda narra che sia nata proprio in occasione della Battaglia della Meloria, 1284, quando la potente Repubblica Marinara di Pisa fu sconfitta dall’altrettanto potente Repubblica Marinara di Genova: le galee genovesi, cariche dei vogatori pisani prigionieri, furono sorprese da un’improvvisa tempesta che allagò le stive in cui erano stati imbarcati diversi sacchi di farina di ceci e alcuni barili d’olio; fu così che la farina si mescolò con olio e acqua di mare. Non c’era altro da mangiare: quell’impasto divenne il cibo dei marinai, che per cercare di renderlo un po’ più commestibile pensarono bene di versarlo dentro ad alcune scodelle e di metterlo al sole. Il risultato fu sorprendente: una frittella dorata croccante decisamente gustosa! Ed è qui che nasce la contesa: questa sorta di torta croccante era pisana o genovese? I genovesi sostengono di aver perfezionato loro la ricetta, i pisani dicono che a quel tempo la scoperta venne chiamata proprio dai genovesi “l’oro di Pisa”, anche per schernire la città toscana sconfitta nella battaglia.
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In ogni caso, è una preparazione conosciuta e consumata su tutta la fascia costiera e non solo. Questa deliziosa torta di ceci ha viaggiato parecchio, prendendo nomi diversi a seconda del luogo in cui veniva preparata.
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A Genova la chiamano fainà (farinata), e da questo nome derivano sicuramente la fainè di Sassari e la fainò di Carloforte. Nel Monferratese, zona dell’entroterra ma in continuità spaziale e culturale con la
Liguria, la stessa pietanza è conosciuta come belecauda, termine che nasce dal grido di richiamo dei venditori ambulanti che la vendevano in strada appena sfornata: bella calda! In effetti, è proprio calda che dà il meglio di sé. E non è un caso che a Massa la chiamino calda calda, a Tolone cade, a Gibilterra calentita e kalinti a Tangeri. Proseguendo questo viaggio culinario nel Mediterraneo troviamo la socca di Nizza, le panelle di Palermo (queste più simili alle panisse genovesi e alle omonime marsigliesi) per tornare infine in Toscana, dove troviamo appunto la torta di ceci a Livorno e la cecina a Pisa. In realtà a Livorno viene anche chiamata Cinque e Cinque, perché spesso viene servita dentro a una focaccina: anticamente il prezzo per questa merenda era di cinque centesimi per la torta e cinque centesimi per la focaccia. Da qui il pittoresco nome. Anche se la ricetta della farinata è incredibilmente semplice, realizzarne una davvero buona non è facile! Tutto il segreto sta nel dosare i pochi ingredienti (farina di ceci, acqua, sale e olio d’oliva), nel tempo di riposo dell’impasto e nella temperatura del forno, che deve essere altissima, in modo da regalare alla farinata la sua tipica consistenza: croccante fuori e cremosa all’interno. Per questo si raccomanda l’uso del forno a legna e la cottura nel tipico testo di rame stagnato. La sua altezza deve essere di mezzo cm più o meno, deve sciogliersi all’interno ma avere una croccantissima crosticina fuori e deve essere mangiata con una bella spolverata di pepe. In Liguria talvolta viene anche aromatizzata con alcune spezie, come rosmarino e salvia. Ovviamente, se non si possiede il forno a legna, bisogna trovare qualche compromesso. Vediamo come realizzarla in casa.
Ingredienti per una teglia leggera da 28 cm: 150 g di farina
di ceci / 400 ml di acqua / 40 ml di olio extravergine d’oliva / mezzo cucchiaino di sale / pepe a piacere PREPARAZIONE 1. Mescolate la farina l’acqua in una ciotola con una fusta a mano; via via che mescolate, fate in modo di eliminare la schiuma che si forma in superficie, per evitare che si scurisca in cottura. 2.
Lasciate riposare il composto coperto con un coperchio per almeno 3 ore, girandolo di tanto in tanto con la frusta, sempre eliminando la schiuma. Questo passaggio è fondamentale per creare un composto omogeneo, privo di grumi.
3.
Trascorso il tempo, unite sale e olio, girate ancora bene il composto e intanto accendete il forno alla massima potenza.
4.
Versate il composto nella teglia unta d’olio e poi infornate il tutto. Inizialmente tenete la teglia nella parte bassa del forno per circa 10-12 minuti, poi spostatela ad altezza media e abbassate la temperatura a 200°C. Attendete a questo punto che diventi bella dorata in superficie (circa un quarto d’ora) e poi è pronta per essere servita!
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Fondente e avvolgente
RACLETTE
La raclette è un piatto a base di formaggio e patate, tipico della cucina svizzera. Grazie alla sua golosità è molto popolare anche nell’Europa centrale, in Germania, in Italia, ed in Austria. Il nome "raclette" deriva dal verbo francese "racler" che significa "grattare", poiché il formaggio omonimo viene scaldato e raschiato prima di essere servito con le patate. La tradizione vuole che la raclette, nata nel Cantone francese, fosse originariamente un piatto povero, preparato dai pastori che durante il pascolo delle mandrie avevano la necessità di portare del cibo con loro sulle Alpi. A causa della lontananza da casa, doveva essere per forza un cibo relativamente economico e che non si deteriorasse durante il periodo estivo. Niente di meglio, quindi, di formaggio e patate. Per cucinare il piatto serviva ben poco: bastava il fuoco, sul quale si lasciavano arrostire le patate, mentre il formaggio veniva messo vicino vicino alla fiamma per farlo sciogliere un po’. Una volta che il formaggio iniziava a fondere, bastava toglierlo ed adagiarlo sulle patate cotte a puntino.
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La preparazione della raclette tradizionale prevede l'utilizzo di un apposito dispositivo chiamato raclette melter (fonditore): questo attrezzo sostiene una mezza forma di formaggio raclette che si scioglie sotto il calore prodotto dalla parte scaldante. Esiste però anche il raclette grill: un particolare grill elettrico a basso voltaggio, dove dei padellini vengono riempiti con raclette e altri ingredienti: affettati misti, verdure, sottaceti. In cima ha una piastra antiaderente su cui si scaldano gli ingredienti da servire direttamente in tavola. In alternativa si può utilizzare la normale piastra. Il segreto in questo caso è la velocità: bisognerà fondere la raclette e servirla subito con i condimenti, prima che si rapprenda.
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Per accompagnare la raclette vi consigliamo le patate cotte al cartoccio. Come contorno sono ideali anche cipolline e cetriolini sott’aceto, la senape, le pannocchiette di mais, i peperoncini o i pomodori secchi sott’olio. Un abbinamento intrigante è quello con la frutta: uva, pere, ananas. Ma provate anche gli spinaci, i porri, le cipolle caramellate. Salumi misti e salsiccia sono ben accetti. Le spezie come paprika, il pepe, la noce moscata, lo zafferano e il timo sono per palati più audaci (e sono poco apprezzate dai puristi, sappiatelo!).
Ingredienti per 4 persone: 250
g di formaggio raclette / 500 g di patate / cetriolini a piacere / due melanzane / due peperoni / due zucchine / 2 Pork Sausage Cheddar Jalapeno skin packed / sale e pepe q.b. / olio extravergine d’oliva q.b. PREPARAZIONE 1. Predisponete il dispostivo per una cottura in ember roasting, pulite e avvolgete le patate nella stagnola e cuocetele nelle braci finché non saranno morbide. 2.
Mettete le salsicce in cottura indiretta e cuocetel affumicandole a piacere con chips di legno aromatico senza toccarle, girarle o bucarle. Saranno pronte quando avranno un bel colore dorato e la temperatura interna avrà raggiunto i 75°C.
3.
Tagliate a fette le verdure e grigliatele in cottura diretta spennellandole con un po’ d’olio.
4.
Mettete il formaggio in piccoli pentolini e fatelo sciogliere in cottura diretta.
5.
Servite il formaggio con le patate condite con sale e pepe, le verdure e le salsicce.
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Gennaio 2023
FALAFEL
le polpette dal sapor mediorientale I falafel sono polpette di origine mediorientale, tradizionalmente a base di ceci secchi macinati, spezie e aromi come cipolla, aglio, prezzemolo, cumino, coriandolo e pepe nero. Sembra che la storia dei falafel sia fortemente legata alla cucina egiziana, anche se esiste una certa incertezza sull'esatta origine della ricetta. Secondo alcune fonti, i falafel sarebbero stati inventati dai copti, la comunità cristiana d'Egitto, come sostituto della carne durante i periodi di digiuno religioso. Sembra che inizialmente venissero realizzati con le fave e non con i ceci. Il nome, in copto, sta a significare “con tanti fagioli”. Altre fonti invece, sostengono che i falafel siano originari dell' antico Egitto e che fossero conosciuti già dai tempi dei faraoni. In ogni caso, è certo che i falafel si sono diffusi in tutto il Medio Oriente, diventando un cibo popolare tra le comunità di origine araba e israeliana. Durante il XX secolo, i falafel sono stati introdotti anche in Europa e in America, diventando una delle principali espressioni della cucina mediorientale. La preparazione prevede l'ammollo dei ceci (o delle fave se si vuole seguire una ricetta più vicina a quella originale) per circa 12 ore; trascorso questo periodo i ceci vengono tritati finemente insieme alle spezie e agli aromi fino ad ottenere un composto denso. Avete capito bene: i ceci vengono lavorati da crudi, non sognatevi di utilizzare quelli cotti! La pasta ottenuta viene poi modellata a forma di polpette o di crocchette. A questo punto le polpette possono essere impanate a piacere con i semi di sesamo e successivamente fritte in olio caldo fino a che non diventano dorate e croccanti. Esistono diverse varianti più moderne che utilizzano ingredienti come patate o spinaci
g di ceci secchi / una cipolla / un spicchio d’aglio / 2 ciuffi abbondanti di prezzemolo / un cucchiaio di cumino in polvere / 1/2 cucchiaino di coriandolo in polvere / sale q.b. / pepe q.b. / un cucchiaio di pangrattato / olio si semi di arachide per friggere q.b. PREPARAZIONE 1. Lasciate i ceci in ammollo per una notte. 2.
Scolate i ceci e frullateli insieme alla cipolla, al prezzemolo, al cumino, all’aglio e al coriandolo. Salate e pepate.
3.
Una volta ottenuta una crema compatta, prendete un po’ di composto tra le mani e formate delle polpettine appiattite, passatele nel pangrattato e mettendole via via su un piatto.
4.
Coprite le polpettine con la pellicola per alimenti e lasciate riposare per un’ora in frigorifero.
5.
Scaldate l’olio in una padella capiente e quando è caldo tuffateci i falafel lasciandoli friggere per 5 o 6 minuti per lato, fino a quando non diventano di un color dorato scuro.
6.
Serviteli caldissimi!
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I falafel vengono serviti con salsa allo yogurt o con hummus, la crema tipica del Medi Oriente a base di ceci cotti, tahina (la pasta di sesamo), succo di limone, aglio e spezie. Spesso le deliziose crocchette di ceci vengono servite all’interno del pane arabo, o accompagnate da patate fritte, pomodori, salse piccanti, uova sode, verdure e cetriolini sottaceto. L’importante è mangiarle appena fatte, caldissime e fragranti!
Ingredienti per 4 persone: 500
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Scaldiamoci con il
VIN BRULÉ
Il vin brulé è una bevanda gustosa tipica delle zone montane italiane e dell'Europa continentale. Si tratta di vino rosso caldo speziato e zuccherato, molto presente sulle bancarelle dei mercatini di Natale e consumato in generale nella stagione più fredda. La sua origine risale all'antica Grecia, ma furono soprattutto i Romani a farne largo uso. Apicio che nel "De re Coquinaria" racconta di un vino scaldato, aromatizzato con spezie - principalmente pepe- poi dolcificato col miele e offerto a fine pasto come digestivo. Insieme al pepe nero veniva utilizzata la cannella, spezia molto nota e apprezzata anche se all’epoca decisamente costosa (Plinio si lamentava dei prezzi, ai tempi!). Il vin brulé più simile a come lo conosciamo oggi nacque nel Medioevo, con un vino che si credeva avesse delle forti proprietà curative. Per questo motivo prese il nome di Ippocrasso, in onore del medico dell’antica Grecia, proprio per sottolineare le caratteristiche medicamentose della bevanda. È proprio in questa epoca che la cannella comincia a essere utilizzata in maniera massiccia. Tuttavia, in quel momento il vino arricchito di erbe e miele veniva consumato freddo. Dobbiamo aspettare diversi secoli per arrivare a una versione calda: a fine ‘800 furono gli svedesi a cominciare a servirlo bollente durante le feste natalizie e ad arricchirlo di cognac. Iniziò così la diffusione nel mondo del vin brulé, che ha trovato poi, in ogni Paese, una sua versione: in Inghilterra venne battezzato mulled wine, in Francia vin chaud, in Germania gluhwein e nei Paesi Scandinavi glogg.
Gennaio 2023
Qual è il miglior vino per realizzare il vin brulé? Scartando ovviamente quelli di pessima qualità, è consigliabile utilizzare un vino morbido, ricco di aromi e struttura, possibilmente con un buon residuo di zucchero. Un buon Lambrusco, per esempio, ma anche il Barolo. Non esiste una sola ricetta vin brulé perché come dicevamo prima ogni Paese (e ogni regione) ha una sua versione. Solitamente nella ricetta troviamo zucchero, cannella, anice stellato, chiodi di garofano, scorze di agrumi e bacche di ginepro. Esistono poi alcune varianti del vin brulé che prevedono l'aggiunta dello zenzero e del cardamomo o l’aggiunta della mela, tagliata a fette sottili ed inserita nella pentola assieme agli altri ingredienti.
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Il vin brulé viene spesso consumato con le caldarroste o con una bella fetta di strudel.
Ingredienti per 4 persone: Un litro
di vino rosso / la scorza di un limone / 2 stecche di cannella / 5 bacche di ginepro / noce moscata a piacere / 100 g di zuccheto / la scorza di un arancia / 8 chiodi di garofano / anice stellato q.b. PREPARAZIONE 1. Versate lo zucchero in un tegame d'acciaio dai bordi non troppo alti e unite le due stecche di cannella, le bacche di ginepro, i chiodi di garofano e l'anice stellato. 2.
Aggiungete anche le scorze dei due agrumi e infine versate il vino rosso corposo.
3.
Ponete la pentola sul fuoco e portate lentamente a ebollizione: fate bollire a fiamma bassa per 5 minuti mescolando fino a che lo zucchero non sarà sciolto del tutto.
4.
Prendete uno spiedino di legno, infiammate un’estremità e avvicinatela al vino: l’alcol nel vino prenderà fuoco e voi dovrete aspettare finché la fiamma non si spegnerà.
5.
Filtrate il vin brulé così ottenuto e bevetelo caldo.
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IRISH COFFEE
il cocktail caldo e confortevole che viene dall’Irlanda L’Irish coffee è un cocktail irlandese caldo e composto da caffè, whiskey, zucchero e panna montata. Il caffè viene versato in un bicchiere alto, seguito dalla parte alcolica. Lo zucchero viene quindi aggiunto per dolcificare e, infine, la panna, che viene versate sopra (talvolta aromatizzata con delle spezie) e mai mescolata con il resto del drink, per creare un contrasto interessante e una consistenza unica. L'origine dell'Irish Coffee risale al 1943. In quell'anno un irlandese, Joe Sheridan, cuoco dello Shannon Foynes Port, il secondo porto più grande d’Irlanda, creò questo cocktail per riscaldare i passeggeri di un volo che dovette fare ritorno alla base di Foynes per via del maltempo. La leggenda narra che, dopo una lunga attesa a causa di una tempesta di neve, un gruppo di passeggeri americani chiese un "caffè con qualcosa" per scaldarsi. Joe Sheridan decise quindi di aggiungere del whiskey irlandese al caffé, insieme allo zucchero e alla panna, per creare un drink caldo e consolante.
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Il drink piacque tantissimo, tanto che tutti i passeggeri cominciarono a chiedere come si chiamasse e cosa fosse. A quel punto lo chef decise di chiamarlo "Irish Coffee" per onorare la sua origine irlandese. Nel 1952, un giornalista americano di nome Stanton Delaplane, che aveva assaggiato il drink durante un suo viaggio in Irlanda, portò la ricetta negli Stati Uniti e ne parlò con Jack Koeppler, barista del Buena Vista Hotel di San Francisco. Il barman provò a rifare la ricetta, ma il poveretto non riusciva a far rimanere la panna in superficie. Koeppler non si arrese e andò direttamente alla fonte, a Limerick, per chiedere a Sheridan di mostrargli la preparazione del cocktail. Il drink lo colpì al punto da invogliarlo a dedicare un intero articolo all'argomento sul San Francisco Chronicle. Da allora, l'Irish Coffee è diventato un classico dei bar e dei ristoranti in tutto il mondo e viene ancora servito per scaldare i clienti durante le giornate fredde e piovose. Ovviamente nel tempo sono nate numerose varianti: dal French coffee, con il Cognac o il Calvados al posto del whiskey, all'American coffee, col bourbon.
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Per quanto riguarda il whiskey, quale usare? La tradizione e i puristi vorrebbero un whiskey irlandese, considerato più delicato, più fruttato, più equilibrato. Detto tra noi, potete usare anche un whiskey scozzese, canadese o giapponese, basta che sia un prodotto di buona qualità. Non ha importanza che sia un single malt o un blended, l’unica caratteristica che deve necessariamente rispettare è che non sia troppo torbato.
Ingredienti per 1 Irish Coffee: 5 cl di whiskey / 10 cl di caffè caldo / 4 cl di panna fresca / un cucchiaino di zucchero di canna
PREPARAZIONE 1. La prima cosa da fare è anzitutto preparare il caffè. Una volta messa la moka sul fuoco scaldate nel frattempo con dell’acqua bollente o il bicchiere dove servirete il cocktail. L’ideale è utilizzare un bicchiere a tulipano. 2.
Nel frattempo versate la panna fresca in una ciotola e montatela con una frusta a mano o con uno sbattitore elettrico per qualche minuto. La panna non deve essere troppo montata: per essere perfetta deve infatti risultare densa ma al tempo stesso fluida.
3.
Mentre lasciate la panna a riposare, versate il caffè nel bicchiere per i 4/5 della sua altezza, aggiungendo 5 cl di whisky ed un cucchiaino di zucchero di canna; mescolate bene il tutto. Nella rimanente parte del bicchiere rovesciate lentamente la panna semi-montata versando la panna sul dorso di un cucchiaino, alzandolo man mano che la panna scende nel bicchiere; è questo il vero segreto affinché la panna non affondi nel caffè.
4.
È possibile anche decorare la sommità del bicchiere con una spolverata di cannella in polvere o di noce moscata, con delle scaglie di cioccolato fondente o della granella di nocciole.
L’Irish Coffee va servito subito caldo, e gustato senza mai mischiare il caffè con la panna.
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PA S S AT E
AL SETACCIO
Hanno superato il giudizio. Sono venti le conserve di pomodoro che il mensile il Salvagente, leader nei test di laboratorio contro le truffe ai consumatori, ha portato in laboratorio per verificarne il livello di contaminazione e la qualità merceologica.
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E i risultati, pubblicati nel numero di febbraio, sono molto positivi. Tutti i prodotti imbottigliano materia prima 100% italiana e sono risultati privi di micotossine. Sotto controllo anche i residui fitosanitari: se escludiamo la passata Petti dove il mensile ha riscontrato la presenza di tre pesticidi che, seppur al di sotto dei limiti di legge, ne pregiudicano il voto finale, in tutte le altre “salse” si registra una sostanziale assenza di tracce di trattamenti.
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Le prove per valutare la qualità delle passate hanno consentito poi di completare il quadro per avere un’idea più chiara di quello che troviamo sugli scaffali di supermercati e discount. Tanti i promossi a pieni voti ma a meritare l’eccellente sono stati solo cinque marchi: Valfrutta Green passata biologica, De Cecco passata classica vellutata, Esselunga passata rustica, Cirio passata verace e Carrefour passata di pomodoro. La passata di pomodoro è una delle principali conserve che nascono dalla “bacca” rossa, molto usata nelle cucine italiane, e che in base al decreto ministeriale del 23 settembre 2005 viene riferita “al prodotto ottenuto direttamente da pomodoro fresco, sano e maturo, avente il colore, l’aroma ed il gusto caratteristici del frutto da cui proviene, per spremitura, eventuale separazione di bucce e semi e parziale eliminazione dell’acqua di costituzione in modo che il residuo ottico rifrattometrico risulti compreso tra 5 e 12 gradi Brix”.
A perdere indubbiamente terreno sono stati i pelati, un tempo assai più diffusi nelle abitudini di consumo delle famiglie italiane: solo il 5% del campione interpellato da Doxa li ha citati. Alla domanda “Quale conserva per preparare un condimento per una pizza fatta in casa?” è ancora la passata ad avere la meglio: risponde così il 54% degli intervistati, mentre i pelati vengono preferiti dal 17%, la conserva fatta in casa dal 9% e il restante del campione si divide tra l’uso della polpa e i pomodori freschi. In crescita anche il consumo di passate di pomodoro biologiche: secondo l’indagine il 59% degli italiani le sceglie seppur saltuariamente e sono sopratutto i “Millenials” a preferirle.
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Oltre al pomodoro sono ammesse le sole aggiunte di sale, “spezie, erbe, piante aromatiche e relativi estratti” e di acido citrico per evitare lo sviluppo della tossina botulinica. Proprio per scongiurare questo rischio, il pH nelle passate, sempre secondo la normativa, non deve sup erare 4,5 e l’eventuale impiego di acido citrico serve proprio a questo. Naturalmente l’acidità della materia prima può dipendere da fenomeni di sovra-maturazione dei frutti, che aumentano il rischio di sviluppare marcescenze, funghi e muffe. Infine nella passata “la presenza di bucce e di semi non deve
superare il limite del 4% in peso del prodotto finito”. La passata di pomodoro è la conserva più venduta e consumata in Italia e sul mercato l’offerta è molto variegata. Le private label, i prodotti a marchio del supermercato, continuano a conquistare fette di fatturato, arrivando a coprire il 40% delle vendite a scapito dei grandi marchi. Non è un caso che la concorrenza sia molto agguerrita in questo segmento merceologico. Un’indagine condotta da Food Insider-Doxa ha rivelato che il 39% degli italiani sceglie la passata per preparare il sugo. Nella classifica seguono i pomodori freschi con il 25, il 13% dichiara di usare la polpa, mentre un sorprendente 12% sceglie la conserva di pomodoro fatta in casa, sebbene, precisano gli autori dell’indagine, questa risposta rifletta maggiormente un’aspirazione e non debba quindi essere presa come indicativa di un concreto comportamento di consumo.
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Nella passata di pomodoro vale la regola del good in/ good out: se la materia prima è di qualità adeguata il prodotto finito sarà altrettanto all’altezza. Per raggiungere questo obiettivo il pomodoro deve essere raccolto al giusto punto di maturazione e avviato massimo entro 24 ore alla trasformazione”. Il professor Raffaele Romano è docente di Processi e gestione delle Produzioni alimentari presso il corso di laurea in Scienze e tecnologie alimentari all’Università Federico II di Napoli e insieme a lui Il Salvagente ha cercato di capire come funziona la filiera del pomodoro da passata, quali sono le principali criticità e come vanno affrontate in campo e nella fase di lavorazione. Professor Romano, partiamo dall’inizio: dal punto di vista tecnico-alimentare cosa si intende per passata di pomodoro? La passata di pomodoro è una conserva alimentare ed è un prodotto ottenuto per triturazione e setacciamento del pomodoro adeguatamente maturo e quindi, mediante la più o meno spinta eliminazione parziale dell’acqua di costituzione.
liquidi, a marciumi e ammuffimento. Per questo va lavorato subito. Un pomodoro “troppo” maturo a quali rischi può andare incontro? A fenomeni di alterazione strutturale, chimica e microbica e per questo pomodori sovramaturi devono essere scartati perché rischiano di compromettere l’intero lotto di produzione. Il grado di maturazione influisce anche sul pH che per legge deve, nella passata, essere inferiore a 4,5 per evitare la germinazione del botulino. Come si deve regolare l’industria? Diciamo che il pH dipende dallo stato di maturazione dei frutti, dalla varietà e dalle condizioni colturali ed è funzione dell’acidità. Negli ultimi decenni si è riscontrato che il pH medio dei pomodori si colloca tra 4,3 e 4,6. Un livello cresciuto nel tempo visto che naturalmente il pomodoro aveva un pH tra 4 e 4,3. Per correggere questo eccesso la legge ha ammesso l’aggiunta di acido citrico che abbassa il pH.
"Fa la differenza il punto giusto di maturazione"
Quando si raggiunge la giusta maturazione? Trovare l’equilibrio non è facile, visto che parliamo di un prodotto facilmente esposto al deperimento. Quindi occorre valutare bene in campo. Il pomodoro è un frutto climaterico, ovvero a un certo punto della suo sviluppo subisce in pochi giorni un rapido cambiamento di colore, struttura e sapore. Inoltre, non tutti i frutti della stessa pianta arrivano a maturazione nello stesso momento, per questo la raccolta è a scalare. Qual è il ciclo di coltivazione della pianta? La semina avviene, a seconda delle varietà, tra marzo e aprile e la raccolta comincia già da metà luglio e prosegue per tutto settembre. Teniamo presente anche che in due mesi circa viene lavorata l’intera produzione annuale.
L’aggiunta di acido citrico può avvenire per correggere difetti della materia prima? No, non serve a mascherare difetti di qualità o alterazioni del frutto ma solo a garantire le condizioni di sicurezza nella conservazione della passata. Ricordiamo che il citrico è anche l’acido naturalmente più abbondante nel pomodoro. Per quale motivo c’è chi sceglie di aggiungere anche il sale? È una scelta commerciale, con finalità organolettiche: in genere una passata con un basso grado Brix ha una minore sapidità e magari viene corretto questo difetto per favorire il palato del consumatore. Quali sono le fasi di lavorazione industriale della passata del pomodoro?
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Entro quanto tempo il pomodoro raccolto deve essere avviato alla lavorazione? Massimo entro 24 ore conservando il pomodoro in condizioni ottimali di temperatura, umidità e luce. È un frutto delicato e soprattutto dopo la raccolta è esposto a processi di rammollimento, a perdita di
Alcuni produttori però scelgono di non aggiungere l’acido citrico: come ci riescono? Oggi ci sono specie resistenti alla sovramaturazione e più adatte alla raccolta meccanica che rallentano i meccanismi di alterazione del frutto.
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Il processo prevede diversi passaggi. Innanzitutto avviene la selezione e il lavaggio della materia prima: vengono eliminati corpi estranei e i frutti non idonei alla lavorazione (acerbi, con presenza di marciume e/o necrosi). Dopodiché il pomodoro viene triturato e avviato a un primo processo termico che serve a disattivare gli enzimi responsabili della perdita di viscosità del prodotto: è importante mantenere un certo grado di viscosità per garantire il potere condente della passata. Successivamente avviene una raffinazione con eliminazione dei cosiddetti cascami (bucce e semi). A questo punto il prodotto viene parzialmente concentrato? Sì, scatta una fase di evaporazione, molto importante, che serve a favorire la concentrazione dei solidi solubili (zuccheri, acidi e sali minerali), espressa in gradi Brix che devono essere tra i 6 e 12: più il valore è alto, migliore è la qualità della passata.
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Una volta raffreddato, il prodotto viene confezionato: in che modo? Il confezionamento avviene attraverso due modalità: in poliaccoppiato o in vetro/latta. Nel primo caso il prodotto viene prima pastorizzato a una
temperatura tra 98° e 100°C per pochi minuti e, una volta raffreddato, viene confezionato asetticamente nei brick. Se invece il confezionamento avviene nei contenitori di latta o vetro, c’è prima la fase del riempimento e successivamente la pastorizzazione che, in ogni caso, serve a distruggere la microflora patogena e banale. Quanto influiscono le condizioni climatiche sulla qualità finale? Molto. I fattori pedoclimatici sono fondamentali per una buona maturazione. Ad esempio nella campagna di lavorazione del 2022 il forte caldo ha favorito una maturazione concentrata in poco tempo, associata a una naturale evaporazione e modesto aumento del grado Brix a fronte di una minore resa di produzione del pomodoro per via del minor contenuto di acqua causato dalla siccità. Al contrario, nel 2021 si verificò un agosto piovoso una maturazione sufficiente, e non solo il grado Brix è risultato più basso ma la tanta acqua ha causato maggiori attacchi fungini alle piante. Ancora una volta appare chiaro quanto sia difficile trovare in campo l’equilibrio perfetto.
TIPS:
COME SCOPRIRE Q U A N D O È S TATA I M B O T T I G L I ATA Il numero di lotto, in genere impresso sul tappo della bottiglia, contiene all’interno una sigla composta da una lettera e due o tre numeri ad esempio “F246” (F indica la stagione 2022): significa che il pomodoro è stato imbottigliato nel 2022 il giorno 3 settembre. Un’indicazione importante: poiché da luglio a settembre sono i mesi tipici della raccolta del pomodoro, significa che nel nostro esempio sono stati impiegati prodotti freschi di stagione. Quindi se vogliamo scegliere una passata nella quale il pomodoro impiegato sia stato raccolto e lavorato nel momento giusto, il numero da cercare dovrebbe andare dal 180 al 270 circa (da luglio a settembre).
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SCONGELARE È OUT
dal congelatore al sous vide è un attimo Vi spieghiamo come cucinare cibi congelati senza passare dal frigorifero
L'abbiamo già detto e lo ripetiamo: la cottura sous vide consiste nel riscaldare il cibo quel tanto che basta per dargli un sapore davvero eccezionale. Parliamo di risultati prevedibili e di successi assicurati, raggiunti in maniera semplice e lasciando la cucina pressoché immacolata. Questo non vale solo per i cibi freschi: potete realizzare piatti eccezionali anche partendo da cibi surgelati. Come per il sous vide, cucinare una materia prima surgelata è una questione di praticità. Congelare carne e pesce facilita la pianificazione dei pasti, conserva gli alimenti in maniera adeguata e più a lungo e può davvero salvarci pranzi e cene, consentendoci di fare scorta delle nostre bistecche preferite, anche se non possiamo cuocerle subito. Quando cucinate sous vide, non dovete preoccuparvi di scongelare prima la carne: dovete solo prenderla dal freezer, metterla nella pentola d'acqua riscaldata e dedicarvi ad altro. Qui di seguito trovate la nostra guida completa alla cottura sous vide di alimenti che hanno bisogno del vostro calore. CUCINARE CIBO CONGELATO: LE REGOLE E I TRUCCHI Ecco quello che dovete sapere per iniziare a cucinare cibi surgelati in modalità sous vide.
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Packaging: a volte è possibile cucinare gli alimenti direttamente nella loro confezione. Tuttavia, se la confezione non è adatta alla cottura, potete trasferire la materia prima in un sacchetto per il sottovuoto o con la chiusura zip. Per ottenere risultati ottimali, vi consigliamo di cucinare nei sacchetti ziplock solo a temperature inferiori ai 66°C. Inoltre, quando dovete cucinare qualcosa di pesante, come un arrosto o un taglio con l’osso, i sacchetti per il sottovuoto sono l'opzione migliore grazie alle loro cuciture resistenti.
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Tempi di cottura: In linea di massima, esiste una regola semplice per determinare il tempo di cottura di un alimento surgelato. Prendete il tempo consigliato per la cottura di un alimento fresco e dividetelo per due, poi aggiungete questo numero al tempo di cottura consigliato per l’alimento fresco in questione. Esempio: se di solito cuocete una bistecca spessa 2 cm per un'ora e volete cucinarne una surgelata, potete calcolare il tempo di cottura con questa formula: 60 + (60 / 2) = 90. Voilà! La vostra bistecca cuocerà in un'ora e mezza
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Mesi di congelamento -18°C -25°C -30°C
ALIMENTI Ortaggi
12
18
24
Marzo
9
12
18
Vitello
6
12
18
Agnello
6
12
18
Maiale
4
12
15
Pollame
6-9
12
18
Conigli, oche
4-6
Anatre, tacchini
4-6
Selvaggina
6-10
12
12
Magro
6-8
12
15
Grasso (anguilla, sgombro, salmone, aringa)
3-4
7-8
8-9
Crostacei
3-4
12
17
Molluschi
2-3
10
12
Carne
Pesce
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Carne e pesce: quanto durano in congelatore (indicazioni del Ministero della Salute)
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Cucinare cibi surgelati: le FAQ Perché dovrei cucinare cibi surgelati in sous vide? Perché è comodo. Congelare carne e pesce significa non doversi preoccupare delle fastidiose date di scadenza o di mangiare fino all'ultimo pezzo di pollo presente in frigo prima di cambiare menù. La schiavitù delle scadenze ci impedisce di essere creativi, non trovate? La cottura sous vide di alimenti surgelati vi permette inoltre di risparmiare dei soldini e di cucinare i vostri piatti quando vi va, anche se sono fuori stagione. Il nostro Megastore ha dei prodotti in promo? Avete trovato un'offerta incredibile sul pesce fresco? Fate scorta e congelate per cucinare tutto più in là. Cucinare il cibo da congelato può alterarne il sapore? Assolutamente no. E vi assicuriamo che nessuno è in grado di riconoscere una carne “fresca” da una carne scongelata, a patto che sia stata trattata correttamente. L’importante è assicurarsi che nel freezer ci sia spazio per tutti i prodotti che state conservando. È una pratica sicura per la salute? Potete scommetterci. La cottura sous vide di carni congelate è sicura quanto quella di carni fresche. Anzi, cucinare gli alimenti direttamente dal congelatore riduce la contaminazione incrociata in cucina. Vi suggeriamo solo di etichettare meticolosamente tutto quello che mettete nel freezer. Si tratta di alimenti crudi o cotti? Quando sono stati congelati? Quanto tempo possono rimanere in freezer? Etichettare accuratamente gli ingredienti significa diventare più responsabili e cucinare in modo più sicuro. La macchina per il sottovuoto è davvero necessaria? No! Sia che stiate cucinando da fresco o da congelato, un sacchetto tipo ziplock di solito è sufficiente. Se però avete a dispozione una macchinetta per il sottovuoto, confezionate le vostre bistecche fresce e congelatele nei sacchetti adatti alla cottura. Saranno sempre pronte per essere cucinate. Per quanto tempo devo cuocere i cibi congelati in modalità sous vide? Il tempo di cottura è l'unica cosa che cambia quando partite da un alimento congelato. Il sapore rimane lo stesso: dovete solo aggiungere del tempo. La regola empirica per cucinare da surgelati è la seguente: Tempo di cottura fresco + (Tempo di cottura dell’alimento fresco diviso 2).
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Quindi, se il salmone fresco cuoce in 30 minuti, quello congelato cuoce in 30 + (30 / 2) = 45 minuti. Non c'è alcuna differenza di temperatura o di tecnica, ci vorrà solo un po' di tempo in più.
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Si possono cuocere in sous vide le carni marinate congelate? Certo, ma bisogna tenere in considerazione che alcune marinate possono modificare la consistenza di diverse proteine. Ecco una guida rapida: Marinate salate: alcune marinate contengono ingredienti salati e finiscono per agire come una salamoia quando vengono confezionate e cucinate sous vide. Credeteci sulla parola: non usate una marinata che contenga sale o ingredienti salati prima della fase di cottura, a meno che vogliate ottenere la consistenza caratteristica dei cibi in salamoia. Marinate acide: alcune marinate contengono ingredienti acidi (o, più raramente, alcalini) che possono alterare la consistenza degli alimenti, “cuocendo” le proteine.
Vale la pena scongelare la carne prima di cucinarla in sous vide? Il sapore cambia? A questo proposito abbiamo effettuato un test: abbiamo cucinato due pezzi di carne allo stesso modo. Uno era fresco e l'altro congelato. Poi abbiamo assaggiato due campioni di uno e uno dell'altro e abbiamo cercato di individuare le differenze. Poi abbiamo ripetuto l'operazione più volte e non abbiamo registrato differenze evidenti tra le carni. Non vuoi fidarti di noi? Prova tu stesso! Posso cuocere sous vide un cibo nel packaging in cui è stato confezionato? Cucinare gli alimenti in sous vide nella confezione originale è spesso un problema. Per prima cosa, assicuratevi che la confezione sia resistente al calore e realizzata in polietilene o polipropilene senza BPA. Se non ne avete la certezza, confezionate nuovamente il cibo prima di congelarlo, ci vorranno solo pochi minuti.
Marinate zuccherate o alcoliche: gli zuccheri e l’alcol possono esaltare il sapore, ma possono anche sottrarre umidità alla carne, rendendola meno succosa. Marinate oleose: gli oli aggiungono sapore alla superficie della carne o del pesce, ma fanno appassire e ammorbidire le verdure. Non sapete o non ricordate cosa avete messo nella marinata? Niente panico. Vi accorgerete appena della differenza e il vostro piatto sarà buono comunque.
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Un ottimo escamotage per aggiungere sapore, sia che stiate cucinando un alimento fresco o congelato, è quello di condirlo con erbe e spezie fresche prima della cottura sous vide. L’importante è non esagerare: quando sigillate tutto all'interno della confezione sous vide, avete bisogno di meno condimenti perché rimangono tutti nel sacchetto. Inoltre, quando cucinate carne congelata in un liquido, controllate lo stato della marinata. Si è trasformata in un grosso blocco di ghiaccio? Se è così, mettetelo nell'acqua e avviate il timer quando la marinata congelata si è sciolta un po’. Questo passaggio accorcerà i tempi di cottura.
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FROM ZERO TO HERO
LE INJECTION IL MODO MIGLIORE PER AGGIUNGERE SAPORE E UMIDITÀ ALLA CARNE
Le avete sentire nominare un sacco di volte, ma probabilmente alcuni di voi ancora hanno dei dubbi su come si realizzino e a cosa servano. Stiamo parlando delle injection, termine che spesso spinge i detrattori ad accusarci di usare volutamente parole difficili e incomprensibili. Come ben sanno, invece, i professionisti del settore, le injection sono un modo pratico, veloce ed efficiente per aggiungere sapore e umidità alle carni prima di cuocerle e affumicarle per tante ore. Abbiamo parlato spesso delle marinature e delle salamoie. Conoscete le differenze. Le marinature servono a rendere più succulenti piccoli pezzi di carne, tipo bocconcini di pollo e di maiale, perché non riescono a penetrare in profondità nella ciccia. Al contrario le salamoie – a cui manca l’elemento acido- riescono a penetrare anche in pezzi molto grandi, però ci mettono molto tempo. Ebbene, le injection non sono altro che un modo per velocizzare il processo, riuscendo anche a far arrivare le marinature al cuore di un pezzo di carne bello grosso. Le injection non sono altro che vere e proprie iniezioni di composti liquidi tra le fibre del nostro pezzo di carne. In questi liquidi possiamo mettere di tutto: grassi, succhi, spezie e tutto quello che serve per dare un boost al sapore. COME SI COMPONGONO LE INJECTION Poiché tutto ciò che andremo ad iniettare all’interno della carne non si perderà durante le fasi di cottura, è importante stare molto attenti ai sapore che sceglieremo di utilizzare. Questo perché al morso li sentiremo tutti e senza sconti! Quindi evitiamo aglio, peperoncino o erbe che potrebbero coprire il naturale sapore della carne e non esaltarlo. Di solito si parte da una base neutra, come il brodo, che può essere più o meno concentrato. Dopodiché le ricette sono infinite: l'elenco include b burro fuso, cognac o whisky, salsa piccante o salsa Worcestershire, salsa di soia, miele, sciroppo d’acero... o una combinazione di tutti questi ingredienti. Alcuni esempi, giusto per incuriosirvi e darvi una base di partenza: • Pulled Pork: succo di mela, burro, salsa di soia, sale. • Manzo: brodo di carne, salsa di soia, sale. • Pollame: brodo di pollo, salsa di soia, burro, sale. BBQ4All Magazine
COME SI USANO LE SIRINGHE? In commercio esistono molti tipi di siringhe alimentari. L’ago può essere più o meno grosso, può essere forato solo in fondo oppure
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Si continua con questa operazione fino a quando il liquido inizia a fuoriuscire dai fori: ciò significa che la carne non può trattenerne ancora. QUALCHE CONSIGLIO IN PIÙ •
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chiuso sul fondo e aperto con piccoli fori su tutta la lunghezza. La scelta della siringa è fondamentale: se si decide di utilizzare le spezie, granulari o in polvere, nelle injection, utilizzare un ago troppo sottile potrebbe creare un’ostruzione e impedire quindi al liquido di essere iniettato. Meglio quindi optare per aghi un po’ più grandi e comunque sempre proporzionati al pezzo di ciccia che ci troviamo davanti.
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Per ridurre al minimo il numero di fori che facciamo nella carne, è bene inclinare l'ago in due o tre direzioni usando lo stesso foro di ingresso. Si entra con l’ago in profondità e si comincia a iniettare il liquido lentamente e, nel contempo, si comincia a ritirare la siringa.
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La quantità consigliata da iniettare è del 10% rispetto al peso della carne. Quindi per un Brisket da 7 kg dovreste utilizzarne 700 g, per una coppa da 3 kg dovreste usarne 300 g, e così via. Questo, come sempre, in teoria: sarà la vostra esperienza a guidarvi di volta in volta, a seconda del pezzo di carne scelto. Una volta mescolati gli ingredienti dell’injection, mettetela in un recipiente sottile e profondo per facilitare l'aspirazione del liquido nella siringa. È bene lubrificare la guarnizione in gomma o in silicone posta all'estremità dello stantuffo, prima dell'uso. Sarebbe meglio evitare di utilizzare spezie fresche tritate grossolanamente, proprio per evitare le ostruzioni. In ogni caso è buona norma filtrare sempre il tutto utilizzando un colino a maglie fini. Le injection andrebbero fatte prima di spargere il rub sulla carne, proprio per evitare che il liquido lo porti via. Di solito è buona norma lasciar riposare la carne almeno per un’ora dopo le injection.
Raggiungere buoni risultati con le injection non è una cosa alla portata di tutti i principianti ma vi farà sentire degli alchimisti provetti, pronti a difendere ad ogni costo la vostra ricetta segreta.
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a t a l o c c iC o calda com’è fatta e cosa comprare al supermercato per superare l’inverno
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a cura di Nunzia Clemente
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ino a qualche anno fa, nella mentalità media italiana, la cioccolata calda era associata a Ciobar, il famoso brand che proponeva (e propone ad oggi!) un preparato per cioccolata calda diviso in comode bustine. Il funzionamento è a dir poco semplice: basta metter su una certa quantità di latte (se siete a risparmio calorico, andrà bene anche l’acqua) in un pentolino, versare il contenuto della busta e mescolare finché il punto di addensamento non è quello preferito. Il risultato è una bevanda dolce, molto gradevole e a dirla tutta un autentico comfort food a prezzo abbordabile. Tanto che, nel corso dei decenni, tutti gli altri preparati per cioccolata calda finivano per rimanere delle pallide imitazioni dell’astuccio blu, con risultati altalenanti: troppo densa, troppo liquida, troppo amara, poco incisiva. E alla fine, nel bene e nel male, si ritornava sempre ad acquistare Ciobar. Da qualche anno a questa parte, però, questo prodotto (sempre stra-amato dalla maggioranza, e a ben ragione, vista la facilità di utilizzo!) è stato affiancato da un’altra serie di proposte variabili, sempre sul tema di preparazioni per cioccolata calda. Proposte messe sul mercato da marchi di
cioccolato più o meno famosi, oppure di nicchia, o ancora dall’estero e - ultimi, ma soltanto in ordine cronologico di apparizione sul mercato - cioccolatieri. Vediamo un po’ cosa propone il mercato, concentrandoci principalmente sulle proposte che troviamo in grande distribuzione, con qualche incursione nel mondo dell’artigianato.
Bere il cacao è una faccenda che parte da lontano Diciamo che la faccenda di bere cacao per infusione parte da molto più lontano di quello che possiamo immaginare. Basta pensare che il cioccolato in tavoletta è stato inventato soltanto nel 1847 da tale Joseph Fry, mentre una sorta di “cioccolata calda” si beveva già nell’antichità presso la popolazione Maya. Questi, infatti, tra i primissimi popoli a coltivare la pianta di cacao (i primi proprio pare siano stati gli Olmechi), avevano l’abitudine di arrostire le fave di cacao insieme a fagioli, e successivamente di lasciare il tutto in infusione in acqua, insieme ad abbondante pepe. Una sorta di bevanda energizzante e - a loro dire - afrodisiaca. Già Cristoforo Colombo venne a conoscenza del cacao, divinizzato dalle popolazioni locali, ed inviò i semi in Europa. Con la “conquista” del Messico da parte di Hernan Cortés, il cacao fu definitivamente accolto in Europa. L’imperatore Montezuma fece conoscere a Cortés la bevanda “chocolatl”, dolcissima, fatta da cacao, acqua, vaniglia e spezie. Cortés introdusse il cacao stabilmente in Spagna: il re Carlo V ne fu particolarmente felice e la cioccolata calda diventò un autentico status symbol delle classi agiate.
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La moderna cioccolata calda, cioè pressappoco come la conosciamo ora, nacque a metà del XVI secolo, con il duca Emanuele Filiberto di Savoia. Egli colse l’opportunità di presentare la cioccolata calda in occasione del trasferimento della capitale a Torino. Da qui in poi, la diffusione delle chocolate houses (in maniera molto simile alle caffetterie) dilagò a macchia d’olio.
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Ad oggi, la cioccolata calda si può preparare sia in maniera “artigianale”, cioè partendo dal cioccolato che si preferisce e trasformarlo da solido a liquido, sia in maniera molto comoda con i preparati.
Com’è fatto un preparato per cioccolata calda? Solitamente, gli ingredienti di una busta di preparato per cioccolata calda sono tre: il cacao in polvere, lo zucchero (facoltativo) e un addensante, che permette appunto la creazione della nostra miscela cremosa in tazza attraverso l’aggiunta di un liquido, che può essere acqua (e il risultato sarà tendenzialmente più liquidino, per questo generalmente sconsigliato) oppure latte (che darà alla cioccolata calda una struttura più densa grazie alla presenza dei grassi e delle proteine). L’accompagnamento classico della cioccolata calda, invece, può essere una composizione di biscotti di pastafrolla (al burro, al burro e fior di sale, farciti con marmellata oppure altra crema per i più golosi) o ancora i marshmallow, di tendenza americana. Può essere completata anche da ciuffi di panna montata.
Come leggere l’etichetta dei preparati per cioccolata calda
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Il primo ingrediente sarà spesso il cacao; è sempre presente, ma spesso in quantità differenti tra un preparato e l’altro. Bene se è indicata la percentuale contenuta, nonché la tipologia (se vi state avvicinando ad un preparato proposto da un artigiano o marchio di nicchia, potrebbe essere indicata anche l’origine); in secondo luogo, troverete la quantità di zucchero, anch’essa variabile e può essere sia zucchero tradizionale che di canna; a volte la sua posizione può essere prima del cacao, in quanto sono i due ingredienti maggiormente presenti nel preparato. Successivamente, viene indicato l’addensante. Non c’è molto da temere riguardo questi ultimi: sono totalmente sicuri da un punto di vista alimentare, obbligatori da indicare in etichetta e già dosati nella quantità che effettivamente vi occorre. Ancora, in uguale proporzione o ancora inferiore, potete trovare minuscole quantità di sale aggiunto, così come aromi (indicati in maniera generica o specifica, come nel caso degli estratti di vaniglia).
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Come preparare la cioccolata calda "dalla bustina": le istruzioni
Il primo consiglio, tanto semplice quanto necessario, è quello di attenervi il più possibile alle indicazioni date sul retro delle confezioni: sono solitamente molto attendibili e puntano a dare, nella media, una bevanda cremosa. Attenzione sempre al tempo di permanenza sul fuoco: più sarà sottoposta a calore, più tenderà ad addensarsi e il risultato potrebbe non essere molto piacevole. Potreste facilmente ritrovarvi un grumo bruciacchiato sul fondo del pentolino, decisamente indigesto. E se volessi fare la cioccolata calda senza preparati? Fare una cioccolata calda senza utilizzare preparati è un po’ più macchinoso e vi serviranno diverse componenti. Ma, se proprio non avete trovata quella adatta al vostro gusto, potete cimentarvi nella composizione della vostra cioccolata calda perfetta. Vi occorrerà del cacao della qualità che preferite in polvere, del latte, un addensante a scelta (facili da reperire, la fecola di patate o l’amido di mais), eventualmente dello zucchero, e ancora all’occorrenza delle spezie (chiodi di garofano, cannella).
CONTRO DELLA CIOCCOLATA CALDA SENZA PREPARATI 1.
2. PRO DELLA CIOCCOLATA CALDA SENZA PREPARATI
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Possibilità di dosare meglio gli ingredienti, zucchero compreso. Possibilità di scegliere praticamente da zero gli ingredienti. Possibilità di aromatizzare la cioccolata calda a piacimento (chiodi di garofano, cannella…)
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Potreste sprecare più di una seduta a cercare di comprendere quali siano le dosi degli ingredienti adatte a voi. Dovrete comprare diversi ingredienti, e potreste impiegare più tempo a recuperare l’intera spesa. Difficoltà nel dosare gli addensanti, che vi serviranno necessariamente per ottenere una cioccolata cremosa e simile a quella dei film. Si rischia di metterne troppo, o troppo poco.
Quali sono gli addensanti più comuni nei preparati per cioccolata calda? Moltissimi preparati per cioccolata calda presentano una quantità minima di addensanti, come abbiamo anticipato: questo ci permette di ottenere una crema, più o meno densa, senza dimenticare che alcuni di questi addensanti vengono già utilizzati come stabilizzanti nel caso delle tavolette di cioccolato. Vi proponiamo un elenco degli addensanti più comuni che potrete trovare in etichetta. Amido di mais: tra gli addensanti più comuni. Lo si trova praticamente in tutti i supermercati e si presenta sotto forma di una polvere bianca finissima. L’amido di mais si ottiene dall’endosperma del chicco. Fecola di patate: altro addensante molto comune e facilmente reperibile. Anche questo è un amido, estratto dalla patata. Quest’ultima, schiacciata, libera granuli di amido che vengono messi ad essiccare. È molto utilizzata nella creazione di dolci, soprattutto quelli che necessitano di una certa sofficità. Lecitina di soia: le lecitine fanno parte del gruppo dei fosfolipidi e possono essere di diversa estrazione; quelle di soia sono sicuramente le più facilmente reperibili e diffuse, in quanto estratte dai fagioli della soia. Nell’uovo, le lecitine sono naturalmente presenti e infatti le uova vengono spesso utilizzate coi medesimi scopi. Grazie alla loro composizione, impediscono la separazione delle parti grasse da quelle acquose, quindi le ritroviamo molto frequentemente nelle emulsioni. Gomma di guar, di xantano: vengono utilizzate principalmente per lo stesso scopo, ma provengono da fonti differenti. La gomma di guar viene estratta dalla pianta del guar, una leguminosa di origine asiatica, mentre la gomma di xantano da un microrganismo (Xanthomonas campestris) che si nutre di soia e mais. Entrambi sono utilizzati soprattutto nei dolciumi soprattutto come addensanti e stabilizzanti. Carragenina: si tratta di una polvere ottenuta da un particolare tipo di alghe che vive nelle acque dell’Oceano Atlantico. Viene utilizzata come addensante e gelificante: infatti dona una consistenza molto “budinosa”. BBQ4All Magazine 065
Preparati per cioccolata calda: cosa c’è di buono al supermercato Sappiamo bene come, negli ultimi anni, il livello generale delle proposte da supermercato si sia alzato: ci sono alcuni punti vendita di catene che sono delle autentiche chicche e spaziano dai generi alimentari più comuni fino ai coloniali più ricercati. Di seguito, vi riportiamo una carrellata di preparati per cioccolata calda che potete trovare facilmente nei supermercati (qualcuno in quelli più forniti, altri anche nei punti più basic). Baratti e Milano: il preparato per bevanda al gusto di cioccolato della storica casa torinese. In etichetta, è riportato che quella imbustata è l’originale ricetta della cioccolata in tazza che viene servita ancora oggi nello storico caffè sabaudo. Babbi: lo storico produttore di wafer propone la sua bevanda al gusto di cioccolata in una elegante confezione e la chiama “Cioccodelizia”. Non presenta bustine monodose, ed è composta da cacao magro, fecola di patate, latte scremato in polvere, sale e aromi (generico).
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Novi: la novità di casa Novi è il preparato per cioccolata in tazza fatto con ingredienti da coltivazione biologica. Oltre al cacao, c’è zucchero di canna, estratto di vaniglia, amido di mais e gomma di guar.
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Venchi: il preparato viene proposto in una bella scatola di latta, quindi senza dosi singole. Tra quelle presenti, ha la più alta percentuale di cacao, ben il 43%. Altri ingredienti: zucchero e amido di mais.
Lindt: la sezione “Patisserie” della Lindt propone la sua versione di cioccolata calda, disponibile sia fondente che classica. Il “cinque bustine” Lindt è quello che presenta una lista ingredienti più corposa: zucchero, cacao magro, fecola di patate, maltodestrine, cioccolato (nella versione fondente, leggiamo al 70% di cacao), sale. Ciobar: Quello storico. Noi lo consigliamo, perché ha una diffusione pressoché imbattibile. Nonostante l’iconica confezione azzurrina, ha avuto anche la capacità di rinnovarsi restando fedele a se stessa. Troviamo la versione extradark (fondente) così come una versione arricchita da pezzi di cioccolato. Un comfort food senza tempo. Caffarel: il celebre marchio propone molte versioni di preparati per cioccolata calda: classica, fondente, bianca, gianduia. Oltre al cioccolato, contiene zucchero, fecola di patate, lecitine di soia, aroma vaniglia. Domori: Ci dirigiamo verso le fasce alte della proposta cioccolato. Domori propone la sua versione in bustina di cioccolata in tazza, con zucchero di canna, cacao 32% e amido modificato. Guido Gobino: La “cioccolata in tazza” di Guido Gobino è proposta in due versioni, quella tradizionale e quella fondente. Dal sito, si può leggere che è preparata con polvere di raffinazione di cioccolato, polvere di cacao, zucchero e addensante.
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Guido Castagna: il cioccolatiere propone la sua versione di cioccolata in tazza lavorando direttamente dalle fave di cacao. Gli ingredienti sono cacao in polvere, zucchero di canna e amido di mais.
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Si fa facile a dire
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Mille sfaccettature di una bevanda tra le più diffuse al mondo. a cura di Nunzia Clemente
C’
è un filo comune che lega Napoli a New York, e non è la latitudine; non soltanto quella, almeno. Settemila e rotti chilometri sono facilmente percorribili, se seguiamo la passione per il caffè che accomuna i latini e i nordamericani cosmopoliti. Che sia espresso, specialty, ottenuto con diverse metodologie, il caffè lega culture, interessi, economie, persone: strade e guerre sono state fatte per la diffusione di questa bevanda, non possiamo certo dire che sia esente da sangue. In questo speciale, ci proponiamo di indagare un po’ più a fondo riguardo il mondo del caffè e di conoscerne le varie sfaccettature. Siete avvisati: vi verrà voglia di berne almeno una tazza fatta bene; la sottoscritta, invece, ha fatto una vera e propria “cura caffè” durante la stesura.
Qualche numero sul caffè, bello caldo 1.
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Escludendo l’acqua, il caffè è la seconda bevanda al mondo: viene subito dopo il tè. Se ne consuma ad ogni latitudine, in casa e fuori casa, in caffetterie e catene, alle macchinette automatiche così come nei chioschi agli angoli delle metropoli. Quando si parla di “fenomeni globali”, non possiamo non pensare al caffè. 2,6 miliardi di tazze singole di caffè: questi sono i numeri giornalieri di caffè consumati, indifferente la tipologia di estrazione della bevanda. E quanti caffè, per ogni persona? Beh, è stato calcolato che oltre il 25% dei consumatori abituali di caffè ne beve più di cinque tazze al giorno. Capitolo soldi: dopo il petrolio, la merce più commercializzata al mondo è proprio il caffè. E quante persone lavorano grazie al caffè? Una stima - sicuramente, al ribasso - vede 120 milioni di persone coinvolte nella produzione e commercializzazione del caffè.
Botanica del caffè
La pianta del caffè necessita di climi caldi a tendenza tropicale: protagonisti nella produzione e nel commercio del caffè sono i Paesi del Centro-Sud America, Paesi dell’Africa Centrale e del Sud Est Asiatico. Più di venti milioni di persone sembrano essere coinvolte nella lavorazione del caffè; molte tra queste, sono dei micro-produttori che conferiscono poi alle cooperative più grandi il loro raccolto, spesso piccolo. La Coffea arabica è l’arbusto più pregiato in commercio. Originaria dell’Etiopia - Paese che sembra essere la “vera” patria del caffè - viene coltivata ad oggi in Arabia, nello Yemen e in sostanza in tutti i Paesi che hanno un clima tropicale. L’Arabica (per gli amici) ha una quantità di caffeina sensibilmente inferiore rispetto alla Coffea Robusta; in compenso, la resa è qualitativamente maggiore, in quanto ha più equilibrio, un gusto che dura più a lungo e un sapore naturalmente dolce. Per quanto riguarda la Coffea Robusta, come arbusto cresce in climi intertropicali, come l’Africa Centrale. Generalmente è una pianta molto resistente agli shock termici e alle “disavventure” durante la crescita, con una resa quasi del doppio rispetto all’amica Arabica.
Produzione del caffè nel mondo: qualche numero 1.
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La coltivazione del caffè è diffusa a livello mondiale, nella fase tropicale e intratropicale. Il suo habitat richiede una temperatura compresa tra i 15°C e i 30°C. Brasile, Colombia, Guatemala, Messico e El Salvador posseggono la maggior parte della produzione di caffè. Il 20% del totale proviene dall’Asia, in particolare modo dalla penisola indiana. L’Africa Centrale ha un ruolo piccolo ma determinante nella produzione di caffè: Costa d’Avorio, Etiopia, Uganda e Angola.
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Per parlare della bevanda caffè, bisogna fare un piccolo excursus botanico: cioè, parlare della pianta dalla quale otteniamo i chicchi di caffè. Il nome botanico è Coffea; sotto questo nome,
vanno oltre 120 varietà di piccoli alberi e arbusti di diverse varietà. Le specie di Coffea più importanti per l’economia sono essenzialmente tre: Coffea arabica (che risulta essere anche la più antica); la Coffea canephora, detta anche Coffea Robusta; la Coffea liberica.
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Dal chicco alla tazzina: tutti gli step (in breve) per la produzione del caffè. 1.
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La prima fase è sicuramente quella della raccolta: di solito avviene con tecniche manuali, ma le grandi produzioni possono affidarsi alle tecniche meccaniche. Ottenere i chicchi di caffè è una fase delicata, quindi una raccolta manuale sarebbe preferibile. La raccolta meccanica avviene attraverso dei macchinari che scuotono gli arbusti: va da sé che i rischi sia per i chicchi che per l’arbusto siano maggiori. La depellicolazione dei chicchi è il primo trattamento cui viene sottoposto il caffè dopo la raccolta. La pellicola esterna viene rimossa o con sola aria calda, o con acqua e aria calda. Dopodiché, avviene una essiccazione rapida affinché i chicchi perdano tutta l’acqua. La setacciatura provvede a smistare i chicchi di caffè per grandezza: si ottiene così il cosiddetto caffè lavato. Il caffè, successivamente, verrà inviato alle torrefazioni oppure ai mediatori, che lo consegneranno per le fasi successive. Presso i mediatori o i produttori, i caffè vengono miscelati in maniera sapiente, in proporzioni custodite gelosamente. Arriva il momento della torrefazione, cioè il chicco diventa qualcosa che noi conosciamo molto da vicino. I chicchi vengono torrefatti a una temperatura massima di 230°, ma la
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temperatura è variabile. Una tostatura ad alte temperature contribuirà a conferire aromi molto più decisi, mentre temperature tendenzialmente basse daranno caffè più delicati. Ultima fase in ordine cronologico è quella del confezionamento e conservazione del caffè. Infatti questa fase - se gestita in malo modo - può vanificare tutti gli sforzi fatti fino ad ora. Il caffè così torrefatto, per evitare si perdano le qualità conquistate, deve essere conservato in adeguato sottovuoto.
Il caffè: breve storia della bevanda Sarebbe impossibile riassumere nelle righe a disposizione la lunghissima storia del caffè. Cercheremo però di darvi un’idea di tutte le tappe fondamentali, per aiutarvi a comprendere quanto questa bevanda sia stata importante per la storia dell’umanità.
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A Caffa, in Etiopia, sono state ritrovate le prime tracce di questa pianta nella civiltà. Caffa, kavhe, qawha, caffè. I passaggi sembrano molto ben delineati, almeno linguisticamente parlando.
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Con molta probabilità, i primi ad utilizzare i chicchi di caffè per ottenerne una bevanda furono gli arabi, intorno al 1300. Il caffè proveniva effettivamente dall’Etiopia: gli etiopi ne trasportavano le piante attraverso lo Yemen, durante le campagne militari. Qui trovarono terreno fertile e il caffè si diffuse fino alla Mecca. Già nel XV secolo nacquero luoghi dove si socializzava bevendo caffè.
Gli arabi e la religione islamica furono un grande veicolo per la diffusione del caffè, anche grazie al proibizionismo degli alcolici in vigore presso i praticanti di quella fede (e infatti il caffè veniva chiamato anche “vino arabo”). Alla fine del XVI secolo, l’Egitto divenne il luogo più importante per lo smistamento dei chicchi, con l’Impero TurcoOttomano che li commercializzava fino alle porte dell’Impero Austro-Ungarico.
Durante il Settecento, secolo dell’Illuminismo, il caffè ebbe però fortuna alterna: fu accusato molteplici volte di essere una bevanda che rendeva gli uomini “licenziosi” e libidinosi, con un moltiplicarsi di leggende che cercavano di far cattiva luce e di limitarne il consumo. Come potete facilmente immaginare, era difficile arginare l’amore, la passione e anche l’economia del caffè. Fatto sta che le “botteghe di caffè”, vere e proprie caffetterie, mantennero lo status di luogo dove consumare e vendere caffè, oltre che luogo di dibattito. Si dice che i caffè fossero aperti fino a tarda notte… e non tardiamo a crederlo: intellettuali e letterati erano tenuti svegli da alte dosi di caffeina! Nel frattempo, gli interessi economici intorno al caffè si facevano sempre più interessanti, con l’ascesa degli imperi coloniali e l’indebolimento dei regni arabi. L’Olanda fu il primo impero coloniale ad ottenere delle piantine di caffè e le domesticò in Sri Lanka (all’epoca Ceylon) e Indonesia (Giava, al tempo). In Europa, si iniziò a comprare caffè olandese tramite la Compagnia delle Indie Orientali.
Veniamo al nostro Paese, abbastanza diviso all’epoca. Il caffè giunse a Napoli nel 1600 circa, attraverso il suo porto e le navi che vi attraccarono; altre ricostruzioni, ugualmente valide, fanno risalire l’arrivo del caffè nella capitale attraverso i lavori della preclara Scuola Medica Salernitana, che utilizzava la pianta e i suoi infusi come medicamenti. Successivamente, il caffè approdò a Trieste: la sua moda e il suo commercio contribuirono enormemente alla crescita della città.
L’uomo che rubò il caffè e lo diffuse nelle Americhe La storia è fatta di eventi incredibilI: grazie ad uno di questi, la coltivazione del caffè si diffuse nelle Americhe. Ad inizio 1700, due arbusti di caffè furono offerti dalle autorità politiche olandesi al re di Francia, che le trapiantò nelle serre della reggia di Versailles. E qui accadde il furto dei furti: tale
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La diffusione a macchia d’olio toccò tutta Europa: un bene di consumo, uno status symbol facilmente reperibile, amato dagli intellettuali, dall’aristocrazia, e successivamente, dalla nascente borghesia. Le botteghe del caffè si fecero facilmente spazio in Europa: Londra, Parigi, Vienna. In Italia, il primo “spaccio di caffè” lo si ebbe nel 1615, con Pietro Della Valle, un uomo dal multiforme ingegno sul serio. Nel 1720, invece, ci fu l’apertura del Caffè Florian, che ancora oggi vanta il titolo di “caffè più antico del mondo”.
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Gabriel Mathieu de Clieu, ex ufficiale della marina francese, rubò un arbusto dalle serre e scappò in maniera rocambolesca alle Antille, tentando di avviare una piantagione di caffè. Il viaggio non fu mica semplice: come in un romanzo di Emilio Salgari, superò tempeste e pirati, ma alla fine giunse a destinazione. Il clima, era quello giusto: intertropicale. Dai diari di De Clieu, egli racconta che fu costretto a dividere la sua acqua con la pianta, pur di sopravvivere.
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E la storia gli ha dato pienamente ragione. Dopo qualche anno, fu capace di produrre ben venti milioni di piantine, abbastanza da soddisfare la domanda europea di caffè. Le piantagioni si estesero: Cuba, Giamaica, Portorico e Haiti.
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Andando incontro all’epoca contemporanea, vediamo il crollo degli imperi coloniali, il declino dello strapotere arabico e l’ascesa del Brasile come uno dei maggiori produttori di caffè, insieme alla Colombia. Il caffè era (ed è) una merce preziosa tanto quanto il petrolio, così tanto da essere coinvolta nella crisi di Wall Street del 1929, che portò il prezzo dei chicchi al tracollo. L’America del Sud ha guidato la politica del caffè per tutto il Ventesimo secolo: l’estensione particolarmente ampia, i terreni e il clima rendevano queste zone adatte agli incredibili consumi. Ancora oggi, alcune faccende sono dolorosamente aperte e poco chiare: c’è la questione del disboscamento - in passato, si è badato poco e molte zone sono state sacrificate - così come dello sfruttamento della manodopera e del reale costo del caffè.
FOCUS
Metodi di estrazione del caffè
La bevanda caffè può essere ottenuta con svariati macchinari, alcuni dei quali ve li presenteremo nelle prossime pagine. I processi meccanici che concorrono alla creazione della bevanda sono essenzialmente due, e vengono utilizzati a seconda della macchina. Caffè ottenuto per mezzo di infusione (o macerazione): il caffè macinato viene lasciato in infusione - a macerare - in acqua abbastanza calda ma non bollente per diversi minuti (a seconda dell’intensità della bevanda desiderata, possono passare dai quattro minuti in su). Successivamente, possono essere adoperate diverse tecniche (a seconda della macchina utilizzata) per separare la polvere di caffè dall’infuso ottenuto: la French Press, ad esempio, prevede l’utilizzo dello stantuffo. Altrimenti, si può filtrare attraverso un apposito filtro in carta (anche quello della V60, per intenderci). Caffè ottenuto per percolazione: con questa tecnica di estrazione, la macina di caffè viene attraversata da getti d’acqua molto calda. Quest’ultima attraversa la polvere di caffè grazie alla forza di gravità oppure alla pressione. In questo caso, il tempo di estrazione si relaziona direttamente alla pressione: maggiore è quest’ultima, minore è il tempo di estrazione. Così come maggiore sarà il tempo in cui l’acqua è a contatto con la polvere di caffè, maggiore sarà la caffeina estratta.
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oi italiani amiamo l’espresso: c’è poco da fare, per quanto altre culture del caffè stiano cercando di penetrare il mercato, l’espresso da bar resta il caffè più amato, diffuso e consumato. Poche, rispetto alle caffetterie/ bar tradizionali, le cosiddette caffetterie specialty, che cercano di proporre metodi di estrazione differenti, così come blend e monorigini. Nel nostro Paese, c’è una decisa preferenza per l’espresso fatto con miscele composte principalmente da Robusta, mischiata con percentuali più piccole di Arabica (quando presente). Il risultato è, sovente, un caffè apparentemente più “cremoso”, con un cappuccio sottile di crema che viene utilizzato dai più come “test” del caffè. Banale dirlo, ma necessario ricordare che - alla luce di tutto ciò che stiamo illustrando in queste pagine - il parametro visivo può essere soltanto uno dei fattori che ci può indurre a decidere se quel caffè è un buon caffè o meno. Oltre l’espresso, esiste almeno un’altra decina di metodi famosissimi di fare il caffè. Vi elenchiamo, di seguito, quelli più conosciuti, in un elenco indicativo ma di sicuro non completo delle centinaia di sfaccettature di caffè nel mondo.
Alla turca: il caffè alla turca prevede i chicchi macinati finissimi. In un bricco chiamato “cezve”, si inserisce la macina, lo zucchero e l’acqua, portando
il tutto a bollore. Solitamente, il risultato è un caffè leggermente più forte di come lo conosciamo noi, dal colore meno intenso (più “acquoso”), più lungo e sovente speziato. Alla napoletana: il caffè alla napoletana ha una protagonista indiscussa, la cuccumella, che è la caffettiera tipica della città di Partenope, anche se fu inventata da un francese (e la commistione delle due culture fu altissimo, al tempo). C’è un serbatoio per l’acqua e uno per il caffè macinato, che deve essere di granulometria più spessa rispetto alla moka tradizionale. Una volta portata ad ebollizione la cuccumella, uscirà del vapore dal foro e allora si dovrà capovolgere il macchinario ed inizierà l’estrazione del caffè. Potremmo definire davvero la cuccumella un caffè filtro all’italiana.
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All’americana: il caffè all’americana è qualcosa di totalmente diverso rispetto a ciò cui siamo abituati. In Italia si sente parlare spesso di caffè americano o all'americana riferendosi allo stesso tipo di preparazione del caffè, ma in realtà si tratta di due bevande diverse. Il caffè americano ha una preparazione simile a quella dell'espresso con la differenza che viene allungato con acqua bollente, mentre il caffè all'americana (o caffè filtro) è quello effettivamente consumato negli Stati Uniti e preparato con l'apposita macchinetta.
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Alla brasiliana: si tratta di un particolare tipo di caffè, a metà tra un liquore fine pasto e un caffè
lasciare in infusione per circa cinque minuti (anche di più, se si gradisce un gusto più forte e ricco). Dopodiché, premete lo stantuffo per “bloccare” la polvere di caffè e versate. Alla vietnamita: il Vietnam è tra i grandi produttori mondiali di caffè e non poteva esimersi dall’amarne diverse declinazioni, tanto da essere la bevanda nazionale. I loro caffè - di varietà Robusta - vengono tostati con burro e zucchero e la bevanda è ottenuta attraverso il caratteristico filtro Phin, che permette al liquido di gocciolare direttamente nella tazzina. Il caffè più tipico e bevuto è senz’altro quello arricchito con latte condensato.
vero e proprio. Viene preparato mettendo un letto di zucchero nel bicchierino del liquore Bayles, della schiuma di latte e infine il caffè, che dovrà scivolare sul fondo senza rovinare la schiuma di latte densa. Alla francese: qui, come nel caso del caffè napoletano, abbiamo una macchina dedicata, la French Press. Questa macchina è caratterizzata da un sistema a stantuffo, che dona un caffè amato da chi preferisce una bevanda più lunga. Si basa sul principio di infusione: il caffè (macinato non troppo finemente) viene versato nel macchinario, si versa poi acqua portata a bollore e si mescola, per poi
Con la moka: di sicuro, è il caffè più diffuso nelle case degli italiani. Chi beve caffè, ha posseduto o possiede ancora una caffettiera di tipo moka, che sia originale Bialetti oppure una delle tante convenzionali. Il funzionamento è semplice e, bene o male, lo conosciamo tutti: c’è un serbatoio con dell’acqua e uno per la macina di caffè, solitamente molto sottile. Espresso: si tratta della macchina diffusa nelle caffetterie italiane, la classica macchina da bar, e lavora con la pressione. BBQ4All Magazine
Bastano queste tipologie a farci sentire un po’ meno al centro del mondo? Speriamo di sì!
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La moka e le altre macchine
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om’è facile intendere, tutte queste tipologie di caffè richiedono macchinari differenti. Nelle case degli italiani il signor Bialetti è divenuto praticamente immortale ed onnipresente grazie all’invenzione della caffettiera moka. Anche se in tempi recenti la presenza della moka tra le mura domestiche è stata soppiantata dalle macchine che propongono un caffè di tipo espresso (si vedano i vari macchinari a cialde, oppure a capsule, di varie marche), questa caffettiera resiste ancora come
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simbolo di italianità e caffè italiano, soprattutto all’estero. Vediamo insieme una breve panoramica dei principali macchinari per estrarre il caffè. Moka a induzione: è quella che conosciamo tutti. È composta da tre parti fondamentali: un serbatoio per l’acqua, che andrà a contatto col bruciatore, un filtro dove porre la macina di caffè (solitamente si preferiscono macine di caffè non particolarmente fini) e un altro serbatoio dove “salirà” poi il caffè. Il principio secondo il quale funziona è quello della pressione: l’acqua contenuta nel serbatoio di base si scalda; il vapore - ad una pressione di circa 2 atm - tenderà a salire e a portare l’acqua verso la macina di caffè, che finirà nel secondo serbatoio fino a riempirlo. Come tutte le altre macchine che presenteremo, avere cura della propria moka significa fare parte del lavoro necessario per ottenere un buon caffè. Nel caso della moka, sarà necessario adoperare una pulizia profonda ma non con detergenti aggressivi, badare all’usura delle guarnizioni e delle altre parti di rifinitura. Macchina da caffè espresso: la macchina da caffè espresso è quella che troviamo praticamente in tutti i bar d’Italia. Lo si ottiene facendo passare per circa 30 secondi un getto di acqua molto calda a
stantuffo. Dal nome, com’è facile intuire, possiamo desumere che è un’invenzione dei francesi, e in patria si chiama melior (dal suo inventore) oppure cafetière à pression. Come data di apparizione, siamo circa a metà dell’Ottocento. La French Press è composta semplicemente da un cilindro di materiale resistente al calore e trasparente, con uno stantuffo. Il caffè con questa macchina è uno dei caffè più semplici da ottenere. Si preferisce un caffè con una granulometria media. Per preparare un caffè con French Press, bisogna inserire il caffè macinato nel bricco, per poi versare acqua calda (sui 75°C/80°C), mescolare con cura e poi azionare lo stantuffo per circa 4 minuti.
una pressione di circa 9 atm su uno strato di caffè macinato finemente; sono circa 7-8 grammi di caffè, se macinato al momento da grani di caffè è l’ideale. Filter coffee con V60 (caffè filtro): il caffè filtro è uno dei metodi più diffusi al mondo. Esistono molti macchinari per ottenere il caffè filtro, ma il più famoso e diffuso è sicuramente il V60, nome che deriva dall’angolazione adoperata per il filtro. Viene particolarmente apprezzato, come metodo, per estrarre caffè molto aromatici.
French press coffee: la French Press è una macchina che sa di antico, bella da vedere nel suo sistema a
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Il macchinario si divide essenzialmente in due parti, una superiore e una inferiore; è composto da una caraffa in vetro alla base, un portafiltro con filtro di carta, un versatore ed eventualmente un dosatore/ bilancia. Per preparare il caffè filtro, si procede in questo modo: si bagna leggermente il filtro (che è monouso) per evitare che si trasmetta il sapore della carta al caffè. Dopodiché viene posto il caffè macinato e la caraffa sotto. Da qui, parte il metodo che viene chiamato “pour over”, cioè per ottenere la bevanda caffè versando direttamente l’acqua calda sopra la macina. Il liquido ottenuto per percolazione finisce nella caraffa sottostante.
AeroPress: la macchina per caffè AeroPress è una delle più nuove messe in commercio e sfrutta le conoscenze già acquisite tramite la French Press. L’AeroPress è composta da tre parti principali: una camera di infusione a cilindro, uno stantuffo e un tappo con filtro da avvitare al lato opposto dello stantuffo. L’AeroPress può essere utilizzata sia con il cosiddetto “Metodo Normale” che con “Metodo Invertito”. Brevemente, il metodo invertito prevede il caffè in infusione e successivamente il capovolgimento del macchinario e la pressione dello stantuffo. Il metodo normale, invece, non prevede il capovolgimento. Inoltre, il caffè va ultimato in entrambi i casi aggiungendo ancora una piccola quantità di acqua nella tazza di degustazione.
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Per ottenere la bevanda caffè, abbiamo bisogno necessariamente di un secondo attore co-protagonista: l’acqua, che in gergo chimico chiameremo solvente. Nel preparare il caffè, si procede effettuando quella che viene chiamata un’estrazione con acqua: per ora, non è importante sapere quale metodo si utilizza, ma solo che avviene questa cosa. Grazie a questa operazione, vengono estratti i composti responsabili delle proprietà della bevanda. A partire da questo punto, si determina l’OAV - l’Odor Activity Value, cioè la concentrazione delle particelle che determinano un certo aroma - che solitamente nel caffè è composto da: • • • • •
Aldeidi: composti responsabili dell’aroma fruttato; Furani: composti responsabili dell’aroma caramello; Pirazine: composti che rimandano i sentori di terra e bosco; Fenoli: composti che associamo all’affumicato e alle spezie; Composti che contengono zolfo: sono un’arma a doppio taglio poiché contribuiscono all’aroma tostato del caffè ma spesso, presenti singolarmente o in dosi eccessive, sviluppano cattivi odori e possono essere precursori della presenza di muffe.
Vi abbiamo presentato i principali, ma in un caffè c’è la partecipazione fino a 1200 componenti differenti! Una volta conosciuti per sommi capi i protagonisti, c’è da sapere che è la preparazione del caffè, oltre alla composizione chimica di base, che fa entrare in gioco le diverse componenti, in proporzioni variabili. E la caffeina, vi chiederete? Nell’aroma del caffè, sebbene così importante per tutto il resto, gioca “solo” un ruolo di co-partecipante. Non ci resta che conoscere questa molecola un po’ più da vicino, per capire che ruolo ha effettivamente nel caffè e negli altri cibi in cui è contenuta (spoiler: ce ne sono, ce ne sono).
FOCUS: LA CHIMICA DEL CAFFÈ
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ome funziona, il caffè? Cos’è che rende la nostra bevanda energizzante la più diffusa a livello globale? Merito della sola caffeina? Non proprio, vediamo la faccenda più da vicino.
Conosciamo la caffeina La caffeina è quello che viene chiamato un alcaloide naturale e no, non è contenuta soltanto nel caffè. Se osservata a temperatura ambiente, la caffeina si presenta come un solido bianco, privo di odore, dal sapore amarognolo.
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Anche il cacao contiene una buona percentuale di caffeina, così come il tè, il mate e le noci di cola (e di conseguenza, le bevande a base di cola). Un alcaloide è una molecola che ha effetti sul nostro organismo. Nella fattispecie, è comprovato che la caffeina agisca sulla concentrazione (aumentandola), sulla resistenza al sonno e alla stanchezza e che comunque incrementi performance fisiche e mentali in generale. Questo accade perché la caffeina riesce ad agire su diversi distretti del sistema nervoso centrale, sull’apparato cardiovascolare, sull’apparato gastrointestinale (un’arma a doppio taglio, stimola la produzione di succhi gastrici). Sul sistema nervoso, la caffeina agisce in particolare sull’adenosina, che è una molecola responsabile del sonno. L’adenosina è un prodotto dell’ATP, il nostro “carburante”, e quindi: più ATP consumiamo, più adenosina produciamo, più abbiamo voglia di dormire. La caffeina riesce a legarsi all’adenosina, impedendone l’azione e rendendoci insonni. La caffeina tenderebbe ad aiutare anche il tono dell’umore, sempre legandosi all’adenosina ed impedendo a questo’ultima di legarsi a sua volta coi recettori della dopamina, aumentandone la capacità.
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Il caffè coinvolge tutti i sensi Scegliere, preparare, prendere il caffè coinvolge i sensi nella sua interezza, anche quando meno ce l’aspettiamo. Se l’odore e la vista possono sembrare i sensi più coinvolti, questa breve guida vi mostrerà come degustare un caffè coinvolga tutto il corpo.
Vedere il caffè: il primo senso coinvolto nella degustazione del caffè è sicuramente la vista. Il colore può dirci molto sia sul blend del caffè, sia sulla qualità della sua estrazione. Osservando molto (ma davvero molto) da vicino, il caffè dovrebbe essere composto da microscopiche “bollicine” dal colore intenso. Per quanto riguarda la tonalità, se la varietà di caffè è Arabica, avremo un bel testa di moro andante sul rossiccio; invece, se è composto anche da Robusta, avremo un colorito che vira sul grigio e tendenzialmente più scuro del sopracitato. Annusare il caffè: l’olfatto è fondamentale nella valutazione del caffè. Grazie ad esso possiamo valutare l’intensità dell’odore (e quindi, dei composti volatili del caffè), valutare note olfattive positive e negative della bevanda: tostato, bruciato, frutti tropicali, rancido. A volte, la crema presente in superficie potrebbe ostacolare l’olfatto. Mescolare la bevanda può aiutare a far venir fuori le note nascoste. “Toccare” il caffè: la temperatura della bevanda incide moltissimo sulla percezione della bevanda: poter tenere la tazza tra le mani senza esserne scottati è importante quanto non scottarsi la bocca durante la degustazione. La temperatura ideale di servizio di un caffè dovrebbe essere tra io 60°C e i 70°C, range in cui esprime al meglio gli aromi senza alterarli. Gustare il caffè: è sicuramente la parte centrale dell’esperienza, l’identificazione di tutti i sapori di cui abbiamo anche in una certa misura “fantasticato” prima. Per una corretta degustazione del caffè, si dovrebbe far scivolare in bocca qualche goccia, piccolissimi sorsi. In un caffè fatto in maniera corretta, dovrebbe essere percepibile una certa dolcezza, data dai chicchi che sono naturalmente dolci. A patto di un caffè buono, dovrebbe farsi spazio il sentore di tostato, di tabacco, di cioccolato, una spiccata acidità anche se il vostro caffè è di qualità Arabica.
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Dopo il primo sorso? Dopo il primo approccio al nostro caffè, i sorsi successivi dovrebbero dare spazio alla degustazione vera e propria.
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Tempistica di un assaggio Sebbene siamo ormai abituati a gustare il caffè “one shot”, c’è una finestra temporale (sicuramente breve) per sorseggiare il caffè, apprezzare le sfumature positive e trovarne anche i difetti. Se volete degustare un caffè prendendovi del tempo, sarebbe preferibile iniziare partendo dalla preparazione di due tazzine di espresso: il filtro doppio, infatti, garantisce un’erogazione migliore e più omogenea. Degustare almeno una tazzina senza zucchero darà una panoramica senza fattori aggiunti; da valutare, anche la permeabilità della crema e quanto tempo impiega a scendere nella bevanda. Lo zucchero permette, talvolta, anche l’affiorare di aromi e/o difetti che altrimenti sarebbero rimasti nascosti.
Aromi positivi… Spezie: Chiodi di garofano, peperoncino, ma anche cannella. Sono note date dal retrogusto del caffè e assolutamente positive, quando presenti. Tostatura: pane tostato, cereali, orzo, malto. Fiori e frutti: fiori freschi e frutta fresca (prugna, ciliegia) o frutta esotica. Cioccolato: l’aroma più pregiato quando presente.
… e aromi negativi Acqua maleodorante Causa: cattiva pulizia della macchina. Odore di chiuso Causa: sacchi umidi del caffè e addirittura muffa. Fumo/bruciato Causa: una cattiva tostatura. BBQ4All Magazine
Rancido Causa: una cattiva conservazione, o ancora una cattiva qualità dei chicchi all’origine.
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La ricetta scientifica a cura di Gianfranco Lo Cascio
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Iniziare bene è già fare per metà, e questo vale nella vita come in cucina.
Alla base di un buon risotto o di una buona salsa, oltre all’inderogabile qualità del riso o del burro, c’è un sughetto concentrato e dimenticato che quasi nessuno prepara più.
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Cento anni fa, quando il cuoco francese Auguste Escoffier (augusto, di nome e di fatto) codificò la gastronomia francese classica, la cucina si basava sulla produzione e sull'uso del fondo di cucina, un liquido ricco e saporito prodotto dalla cottura in acqua di proteine animali, ossa e verdure per lungo tempo. Questo veniva utilizzato per brasare le carni, per glassare le verdure, per preparare zuppe e stufati e faceva da base a moltissime salse. Il fondo veniva preparato con pollo, anatra, tacchino, manzo, vitello, maiale, pecora e chissà cos’altro. Qualunque essere vivente a quattro zampe o ricoperto di piume andava bene.
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Al giorno d'oggi, il fondo di reminiscenza francese non è più così essenziale. La cucina si è alleggerita e i ristoranti se la cavano ripiegando sul solo
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fondo di pollo. Come può testimoniare chiunque abbia mai lavorato in una cucina professionale, la preparazione del fondo di cottura dura più di una serata di Sanremo. Possono volerci ore per estrarre il sapore e sciogliere il tessuto connettivo da ossa e scarti. Che per carità, non è un problema se si sta in cucina tutto il giorno: basta tenere d'occhio l'enorme pentola che sobbolle sul retro e il gioco è fatto. Ma per chi lo vuole preparare in casa? Non si può tenere in ostaggio il fornello per ore, senza contare l’afrore di lesso e cipolla che arriva pure in portineria. Devo confessare che un paio di volte all’anno mi faccio del male e preparo il fondo bruno di manzo tradizionale, ma per gli altri 363 giorni dovevo trovare un procedimento alternativo più veloce e più efficace.
Prima di andare avanti, miei cari lettori, vediamo cosa sono i fondi di cucina e quanti ne esistono
FONDI DI CUCINA: COSA SONO Spesso vengono confusi con i fondi di cottura, ossia quei liquidi che si formano durante la preparazione, ad esempio, degli arrosti. Ma i fondi di cucina – bruno, bianco, vegetale e il fumetto – costituiscono la base di molte ricette . Si tratta di brodi concentrati a base di ossa, cartilagini, lische e ritagli, profumati e arricchiti con verdure e utilizzati per imbastire salse, arricchire intingoli e preparare condimenti incredibili. Perché le ossa, mi direte voi? Come di consueto, ce lo spiega la scienza. Il componente strutturale principale delle ossa è il fosfato di calcio, un composto inorganico rigido e insolubile. Tuttavia, l'osso contiene anche molto tessuto connettivo. Il collagene, la proteina principale del tessuto connettivo, costituisce infatti circa il 40% delle ossa. Con un tempo di cottura sufficiente, le ossa possono produrre una quantità significativa di gelatina che, come noto, trattiene l'umidità. E quando il collagene si converte in gelatina, lo ripetiamo spesso, succedono sempre cose interessanti. Le ossa più utilizzate sono quelle di vitello, perché più ricche di tessuto connettivo. Alcuni fondi producono così tanta gelatina che una volta raffreddati diventano praticamente solidi. Altro ingredienti fondamentale per la riuscita di un fondo è il grasso. Non tutti lo sanno, ma la maggior parte dei composti aromatici che caratterizzano i vari tipi di carne non si trovano nella carne stessa, nella fibra muscolare, ma nel grasso che la ricopre e la attraversa. Non ci credete? Riflettete su questo passaggio: perché la maggior parte della carne magra “sa di pollo"? Perché senza grasso, la ciccia ha un sapore molto generico, anche quella degli animali più strani (coccodrillo e rana, per nominarne alcuni).
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Spesso, gli ingredienti del fondo vengono tagliati in piccoli pezzi e l’aumento della loro superficie accelera il rilascio dei sapori, liberando le molecole aromatiche ed estraendo la gelatina dalla carne e dalle ossa. Poiché i tempi di cottura della salsa sono piuttosto lunghi, generalmente si abbonda con le quantità e si conserva (in freezer), per poterla utilizzare in base alle necessità.
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FONDI DI CUCINA: QUALI SONO LE DIFFERENZE? Cosa differenzia un fondo bruno da uno bianco? Molti pensano, sbagliando, che la colorazione dipenda dall’utilizzo di carni rosse o bianche. In questo caso la differenza la fa la preparazione e non la materia prima.
IL FONDO BRUNO
Si tratta di una salsa molto densa, preparata con ritagli di carne e soprattutto ossa, in particolare di vitello, manzo, pollo o selvaggina. A differenza di quello bianco, che viene fatto solo sobbollire, il fondo bruno necessita di un passaggio in forno in cui le ossa vengono tostate fino a diventare scure, per poi essere immerse in abbondante acqua e aromi in cui cuoceranno per almeno 6 ore.
IL FONDO BIANCO
Si ottiene da ossa di vitello, pollo e manzo, prima sbianchite in acqua bollente, sciacquate sotto acqua corrente e poi trasferite in una pentola capiente e lasciate sobbollire con le verdure. Il fondo bianco si suddivide in: •
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fondo comune: preparato con ossa miste di pollo e vitello messe a bollire con gli odori; fondo di pollo: preparato con pollo e tacchino, oltre alle verdure.
IL FONDO VEGETALE
Detto anche fondo “neutro” o “magro”, è una riduzione realizzata con sole verdure, senza aggiunta di proteine animali. Per questa ragione non necessita di 6 ore di cottura, ma ne bastano la metà. Contrariamente al fondo bruno o bianco, in questa preparazione è opportuno, verso la fine, aggiungere un pochino di sale.
IL FONDO O FUMETTO DI PESCE
Realizzato con lische e scarti di pesci come il rombo, la sogliola o il branzino, perché poco sanguinolenti e dal sapore delicato. Da evitare invece il salmone perché troppo grasso. A differenza degli altri fondi, il fumetto di pesce, deve cuocere per poco tempo. Per realizzarlo, dopo un accurato risciacquo degli ingredienti con acqua corrente, sarà sufficiente farlo sobbollire un’ora.
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FONDO, BRODO E GLACE NON SONO LA STESSA COSA Facciamo subito chiarezza: il fondo e il brodo sono due preparazioni distinte. Il fondo, come detto, si ottiene facendo sobbollire in acqua ossa, tessuto connettivo, scarti di carne e verdure. Ed è proprio il connettivo a donare corpo e quel sapore ricco e untuoso. La riduzione del fondo su fiamma dolce, non solo farà evaporare la parte acquosa, ma concentrerà sia i suoi composti aromatici che la sua gelatina. Se lo si riduce a sufficienza, diventerà abbastanza viscoso da formare un velo omogeneo sul cibo. A questo stadio è conosciuto anche come glace ed è incredibilmente saporito. Così come gli eschimesi hanno molte espressioni per indicare la neve, i francesi hanno diversi termini per indicare il fondo di cucina. Questo prende il nome di glace, glace de viande e demi-glace a seconda di quanto è stato ridotto e addensato. Il brodo propriamente detto, invece, viene preparato a partire da carne e verdure, con una eventuale piccola parte di ossa, che non viene mai ridotta in pezzi. Pur essendo molto saporito, il brodo si presenta in forma liquida, anche da freddo, proprio perché scarico di collagene e agenti gelificanti. Anche la cottura è molto più breve, parliamo di un massimo di 2 ore rispetto alle 6 del fondo.
IL FONDO DI MANZO Il fondo di manzo si ottiene combinando le ossa con una quantità ridotta di carne, una mirepoix ( mix di cipolle, carote e gambi di sedano) e aromi in acqua, dopodiché si fa bollire a fuoco lento in una pentola capiente per tre-sei ore sul fornello. Le parti solide vengono poi filtrate, ottenendo un brodo chiaro che può essere utilizzato per stufati, zuppe, brasati, salse e altre ricette.
SEI MODI PER UTILIZZARE IL FONDO DI MANZO
1.
Stufati e zuppe: Il fondo di manzo rappresenta una base ricca per molte zuppe e stufati delle cucine di tutto il mondo (pensate al pho vietnamita, alla zuppa di cipolle francese e allo stufato di manzo inglese).
2.
Brasati: usate il fondo di manzo per insaporire carni come la coda di manzo, la punta di petto e lo stinco.
3.
Risotto: il fondo di brodo di manzo si sposa bene con ingredienti sostanziosi come funghi selvatici, costine e salsicce.
4. Bevande: invece del tè caldo, sorseggiate una tazza di brodo di manzo per aggiungere alla vostra dieta nutrienti e minerali che aiutano a rafforzare le ossa. Il broso contiene molti nutrienti salutari, tra cui vitamine, aminoacidi e acidi grassi essenziali.
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5. Salsa: usate il brodo di manzo per preparare un intingolo da servire con il tacchino, il roast beef o il purè di patate.
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6. Salse: Il brodo di manzo può essere usato come base per preparare salse come la demi-glace, la salsa barbecue, la salsa al curry, la bigarade, la civet, la diable, la bretone, la romana, la zingara, la ginevrina, la bordolese, quella al vino rosso, al dragoncello, alle erbe aromatiche, al midollo, la moscovita, la duxelles, la bourguignonne, la reggenza, la finanziera, la cacciatora etc...
I TIPI DI OSSA PIÙ ADATTI PER IL FONDO DI MANZO: Rotule Articolazioni in genere Ossobuco Ossa della coda Ossa dello stinco Ossa del garretto Ossa del biancostato
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IL FONDO DI MANZO: LE SCORCIATOIE La teoria sui fondi di cottura l’abbiamo rivista, ora bisogna passare alla pratica, possibilmente semplificata e velocizzata. Mi sono chiesto, come faccio a ridurre i tempi di cottura senza rinunciare al gusto? Per prima cosa, come consigliato dagli chef di mezzo mondo, è il caso di rispolverare la vecchia e cara pentola a pressione, uno strumento troppo spesso snobbato e messo in ombra dal moderno sistema sous vide. E si può fare ancora meglio e più in fretta, sostituendo nella ricetta le ossa puzzolenti con della gelatina in polvere, che indovinate di cosa è fatta? Di cartilagini e derivati animali. Ci basterà la pentola della nonna, un po’ di gelatina e degli stampi per il ghiaccio.
COS’È LA PENTOLA A PRESSIONE?
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Un recipiente dotato di coperchio che, per effetto di una guarnizione, crea una camera di cottura dove
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la pressione è più alta di quella atmosferica. Alla pressione dell’atmosfera, come sappiamo, l’acqua bolle a 100°C. Nelle pentole tradizionali il vapore che si forma esce liberamente dalla camera di cottura, così la pressione non supera i valori atmosferici e la temperatura di 100°C. Nella pentola a pressione invece, il vapore resta intrappolato e pressione e temperatura si alzano. All’interno della pentola si raggiungono 15 psi (poco più di un’atmosfera) al di sopra della pressione atmosferica e circa 120°C. La valvola di sicurezza, che sta sul coperchio, serve proprio a regolare la pressione evitando che superi questi valori. I vantaggi di questo strumento derivano quindi dalla combinazione di pressione, temperatura e umidità, che consentono cotture più rapide e uniformi: il vapore conduce il calore meglio dell’aria secca. Anche i sapori migliorano, perché non si volatilizzano con il vapore come succede con le pentole tradizionali.
DOMANDE FREQUENTI SULLA PENTOLA A PRESSIONE Le pentole a pressione non sono ferri vecchi? Manco per idea. Cosa c'è di più appropriato per chi va sempre di corsa di una macchina progettata per ridurre drasticamente i tempi di cottura? Di questi tempi siamo tutti sovraccarichi di impegni, però vogliamo mangiare bene, e possibilmente in orario. La pentola a pressione è l’unico strumento che può farci fare dei viaggi nel tempo. La pentola a pressione è pericolosa? Ho visto molti video su YouTube di pentole che esplodono. Vi siete mai chiesti se quei video sono autentici o una brutta copia del programma Jackass? Possibile che certi tizi tengano una videocamera in cucina nel caso in cui succeda qualcosa di interessante? Le pentole a pressione, se usate correttamente, sono assolutamente sicure. Qualsiasi pentola a pressione omologata è dotata di almeno due, forse tre, dispositivi di sicurezza. Detto questo, le ustioni da vapore - è bene ripeterlo - sono tra le peggiori ustioni in assoluto. È quindi fondamentale non forzare mai e poi mai l'apertura della pentola a pressione. Se la vostra pentola è ormai vecchiotta, dovete controllare che le valvole del coperchio siano avvitate correttamente. Come tutte le altre cose, possono allentarsi con il passare del tempo. Insomma, l’equazione per una cottura a pressione sicura è la stessa di qualsiasi altro tipo di cottura: strumenti funzionanti + buon senso = cuochi felici e incolumi. Perché dovrei usare la pentola a pressione, visto che non sono appassionato di conserve? La cottura a pressione è ottima per le conserve, soprattutto quando dobbiamo trattare alimenti a bassa acidità (quelli con un pH superiore a 4,6). Questo perché ci sono alcuni organismi patogeni che proliferano in alimenti poco acidi: batteri pericolosi come il Clostridium botulinum che non muoiono a 100°C. L'ambiente particolare della pentola a pressione ci permette di innalzare il punto di ebollizione dell'acqua in modo tale da neutralizzare questi batteri nocivi e conservare in maniera sicuro i nostri alimenti.
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Tuttavia, è emerso che questo è solo uno dei vantaggi della cottura a pressione. Per ogni 5°C/10°C di aumento della temperatura dell'acqua in una pentola a pressione, gli alimenti cuoceranno due volte più velocemente. I cibi che richiedono ore con altri metodi di cottura possono essere serviti in un'ora o meno. Fantastico, no?
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Se le pentole a pressione sono così eccezionali, perché si fa così tanto uso del sous vide? Il sous vide scalda delicatamente gli alimenti quanto basta per cuocerli, garantendo risultati costanti e carni straordinariamente succose. La cottura sous vide è l’ideale per preparare pesci e verdure, o per mettere in tavola bistecche talmente buone che meriterebbero un santino commemorativo. Con la pentola a pressione, invece, non possiamo di certo cucinare una costata “al sangue”, la carne potrà essere solo ben cotta. Il bello di questa pentola è che può trasformare rapidamente gli alimenti - caramellando la frutta, rendendo tenere carne e verdure tenaci - in una frazione del tempo normalmente richiesto. Questo è il punto forte della pentola a pressione.
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Vorrei adattare una ricetta per la cottura in pentola a pressione. Esiste una formula per calcolare la quantità di liquido da utilizzare? Non esiste una formula infallibile. Quando cuciniamo s e n z a coperchio, buona parte del liquido evapora. Questo non succede con la pentola a pressione, quindi probabilmente dovrete ridurre l'acqua del 10-20%. Ogni volta che adattate una vecchia ricetta a una nuova tecnica, comunque, aspettatevi di doverla provare provare provare per riuscire a metterla a punto.
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Voglio preparare il brodo nella pentola a pressione, come faccio a non farlo diventare torbido? Ciò che rende torbido un brodo è la turbolenza della bollitura, che provoca il rilascio del grasso nel brodo; queste piccole goccioline di grasso schermano la luce e lo intorbidiscono. L'ebollizione avviene quando la
pressione creata dal liquido che cerca di evaporare e che spinge contro il peso dell'atmosfera è maggiore del peso dell'atmosfera che lo respinge. All'interno della pentola, la pressione che spinge verso il basso è altrettanto grande quanto quella che spinge verso l'alto e si raggiunge uno stato di equilibrio. Se vedete tanto vapore uscire dalla pentola, significa che l’equilibrio non c’è più: è probabile che il brodo stia bollendo e finisca per diventare torbido. Ho sentito che KFC frigge il pollo nelle pentole a pressione. È vero? Negli anni '50 e '60, i polli venivano macellati da adulti ed erano in genere molto più duri di quelli di oggi. Per questo motivo, il Kentucky Fried Chicken, come era noto all'epoca, sviluppò delle macchine che cuocevano il pollame a pressione per renderlo più tenero. II pollo distribuito oggi è assai più morbido e la carne s c u r a ha un sapore più simile a quella bianca, quindi KFC non ha più bisogno delle friggitrici a pressione. In ogni caso, utilizzare la pentola a pressione per friggere i cibi è pericoloso e inutile, ve lo sconsiglio. Quello che potete fare, ad esempio, è cuocere le alette a pressione e poi friggerle in padella. Quali sono i cibi sconsigliati per questo tipo di cottura? In generale, la pentola a pressione è inadatta ai cibi che devono risultare asciutti e croccanti. Di norma, i cibi tenaci che hanno bisogno di cuocere a lungo si adattano bene alla pentola a pressione, mentre quelli delicati no (come pesci magri o verdure a foglia).
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La ricetta scientifica
IL DADO DI CARNE
Questa ricetta racchiude tutto il sapore di un fondo di manzo corposo e ben fatto in un cubetto di 2,5 cm pronto per la preparazione di zuppe, stufati, brodi o salse. Sarà la vostra nuova arma segreta che surclasserà ogni altro prodotto liofilizzato o sotto forma di dado. Ha un sapore di manzo autentico, ottenuto da vera carne (e non da un estratto di lievito addizionato con coloranti al caramello) e la quantità giusta di gelatina. Il brodo che preparerete coi dadi autoprodotti avrà un gusto davvero potente e una certa corposità. A differenza dei brodi in brick o granulari, questi cubetti hanno la giusta quantità di sale e non sono appesantiti da aromi superflui. Se i preparati della Grande Distribuzione hanno un sacco di difetti, i vostri dadi li colmeranno tutti, permettendovi di preparare un brodo che sembra cucinato alla maniera classica. Avrei potuto prepararli in tanti modi, ma quello che sto per illustrarvi è il procedimento più semplice ed efficace. Ho quindi cucinato un brodo utilizzando carne di manzo macinata e rosolata (con il 20% di grasso) e gli elementi aromatici standard per il fondo: sedano, carota, cipolla, aglio e pepe nero. Poi ho aggiunto un po’ di gelatina per ricreare l’effetto delle ossa e ho aggiunto un po' di glutammato e di sale, giusto per dare un po' di sapore. Il risultato mi ha davvero soddisfatto: la brunitura della Maillard aggiunge profondità al sapore di manzo, mitigato dalle verdure aromatiche e dal pepe nero, e il brodo ha quella consistenza avvolgente tipica dei fondi tradizionali. Ci vogliono circa tre ore per preparare il brodo e ridurlo alla densità corretta, di cui circa 30 minuti vicino ai fornelli. Tutto relativamente comodo (super comodo una volta che avrete i dadi pronti all’uso), e super gustoso.
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I lettori più attenti noteranno che nella ricetta non consiglio affatto di sgrassare il brodo. Il grasso, insieme ai composti aromatici liposolubili degli aromi, rimane stabile e ben legato poiché la gelatina disciolta lo aiuta a emulsionarsi coi liquidi mentre riduce.
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INGREDIENTI
Dose da 8 cubetti (da 35 grammi) per 3,8 litri di fondo • • • • • • • • • • • •
30 g di olio extravergine di oliva 900 g di carne di manzo macinata con il 20% di grasso* (720 grammi di carne magra e180 grammi di grasso) 2 lt di acqua 2 cipolle grandi tagliate a cubetti da 2,5 cm (550 g) 2 carote grandi tagliate a cubetti da 2,5 cm (260 g) 2 coste di sedano tagliate a cubetti da 2,5 cm (115 g) 4 spicchi di aglio in camicia (25 g) 5 g di pepe nero in grani 40 g di gelatina in polvere o in fogli 30 g di sale 10 g di glutammato monosodico (MSG) facoltativo e sostituibile con il sale
*scegliete i tagli che vi piacciono di più, l’importante è fare il mix corretto tra parte grassa e parte magra
COSA VI SERVE
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Pentola a pressione Colino a maglie fini Cocotte in ghisa o tegame Pentola Stampo per cubetti di ghiaccio da 2,5 cm
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TEMPI DI PREPARAZIONE 3 ore in totale; 30 minuti ai fornelli PRIMA DI INIZIARE Questa ricetta è stata pensata per realizzare dadi che, una volta disciolti, restituiranno un fondo perfettamente condito. Se seguite però una dieta a basso contenuto di sodio, potete ridurre la quantità di sale (e di glutammato monosodico) come desiderate, per poi condire il piatto finale secondo i vostri gusti. #01. CUOCERE LA CARNE 30 g di olio extravergine di oliva 900 g di carne di manzo macinata con il 20% di grasso (720 grammi di carne magra e180 grammi di grasso) In una pentola a pressione, scaldate l'olio a fuoco vivace fino a farlo sfrigolare. Aggiungete la carne di manzo in uno strato uniforme e fate rosolare, girando e sgranando la carne con un cucchiaio di legno o una spatola rigida, fino a quando non avrà assunto un color mogano (ci vorranno circa 3 o 4 minuti). #02.
CUOCERE IL FONDO NELLA PENTOLA A PRESSIONE 2 lt di acqua 2 cipolle grandi tagliate a cubetti da 2,5 cm (550 g) 2 carote grandi tagliate a cubetti da 2,5 cm (260 g) 2 coste di sedano tagliate a cubetti da 2,5 cm (115 g) 4 spicchi di aglio in camicia (25 g) 5 g di pepe nero in grani Aggiungete l'acqua, le cipolle, le carote, il sedano, l'aglio e i grani di pepe e mescolate per amalgamare il tutto. Sigillate la pentola a pressione con il coperchio e portate la pressione a 2 bar (alta) a fuoco sostenuto. Una volta raggiunta la pressione, abbassate la fiamma (media) per mantenere i 2 bar e cuocete per 30 minuti. Togliete dal fuoco e depressurizzate la pentola. Filtrate il fondo con un colino a maglie fini e versate in una cocotte o in un tegame da 4 litri. Scartate le parti solide.
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Non avete una pentola a pressione? Nessun problema Potete preparare questi dadi brodo anche senza pentola a pressione, ci vorrà solo un po’ più di tempo. Dopo aver aggiunto l'acqua e gli aromi, portate il liquido a ebollizione a fuoco alto, poi riducete la fiamma a medio-bassa per mantenere il bollore e fate cuocere per 1 ora e 30 minuti. Filtrate e procedete come da ricetta.
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#03. RIDURRE IL FONDO 40 g di gelatina in polvere o in fogli 30 g di sale 10 g di glutammato monosodico (MSG) Aggiungete la gelatina, il sale e il glutammato monosodico al fondo filtrato e mescolate. Portate a ebollizione a fuoco medio-alto, poi riducete la fiamma per mantenere l’ebollizione. Cuocete, mescolando e raschiando di tanto in tanto il fondo e i lati della cocotte con una spatola in silicone, fino a quando il brodo non si sarà ridotto a 500 grammi (ci vorrà circa 1 ora). Continuate a ridurre il brodo a fuoco lento, mescolando spesso e controllando attentamente perché potrebbe bruciare. Lasciate ridurre fino a quando il composto non avrà acquisito la consistenza del caramello e si sarà ridotto a 280/300 grammi (circa 15 minuti). Togliete dal fuoco. IMPORTANTE: se l'emulsione si rompe, significa che il composto si è ridotto troppo e che c'è troppo poca acqua rispetto alla quantità di grasso. Per ri-emulsionare, aggiungete acqua, 2 cucchiai alla volta (30 grammi), continuando a cuocere a fuoco lento e a mescolare finché l'emulsione non si riforma. #04. PORZIONARE E CONGELARE I CUBETTI Trasferite il fondo in un misurino per liquidi. Dividete uniformemente in porzioni da 35 g versando in uno stampo per cubetti di ghiaccio in silicone (2,5 cm per lato). Lasciate raffreddare a temperatura ambiente per 10 minuti, poi trasferite in freezer e raffreddate fino a quando i cubetti non si saranno completamente solidificati (circa 2 ore). Una volta completamente congelati, sformate e trasferite i dadi in un sacchetto tipo ziplock. Riponeteli in freezer e conservateli per quando vi serviranno. Per rigenerare il fondo, unite 1 cubetto di fondo (35 g) con 475 g di acqua bollente in un contenitore a prova di calore. Mescolate fino a quando non si sarà sciolto completamente.
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PREPARAZIONE E CONSERVAZIONE I dadi di fondo possono essere preparati in anticipo e conservati in freezer in un sacchetto tipo ziplock per un massimo di 6 mesi.
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PREPARARE IL BRODO DI MANZO CON IL DADO SCIENTIFICO Una delle cose più semplici e soddisfacenti che potete preparare con i cubetti di fondo è un brodo per i vostri primi o secondi piatti. La parte migliore di questa ricetta è che si fa in meno di 10 minuti. Sciogliendo i dadi con acqua calda e aggiungendo erbe aromatiche e pepe nero, otterrete un brodo ricostituente dal sapore intenso di carne di manzo, corposo il giusto grazie all'aggiunta di gelatina, e dall'aroma robusto, sviluppato dalla piccola quantità di grasso di manzo fuso legato ai composti liposolubili delle erbe.
INGREDIENTI
Da 1 a 2 porzioni • • • • •
720 g di acqua 35 g di dado scientifico (1 cubetto) 6 g timo fresco (5 rametti) 4 g pepe nero appena macinato (2 cucchiaini) 2 g rosmarino fresco (1 rametto)
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Pentola da 2 litri French press (facoltativa)
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#01. RIGENERARE ILBRODO 720 g di acqua 35 g di dado scientifico (1 cubetto) In una casseruola da 2 litri, porta l'acqua a ebollizione a fuoco alto. Aggiungete il dado da brodo e sbattete finché non si sarà sciolto completamente (circa 30 secondi). Togliete dal fuoco. #02. AGGIUNGERE GLI AROMI Qui potete aggiungere le erbe che preferite. 6 g Timo fresco (5 rametti) o maggiorana 4 g Pepe nero in grani, macinato fresco (2 cucchiaini) 2 g Rosmarino fresco (1 rametto) 1 foglia di alloro Mentre l'acqua bolle, unite timo, alloro, pepe e rosmarino in una french press. Versate il brodo caldo sulle erbe e lasciate in infusione per 5 minuti. Pressate e filtrate il brodo. Usatelo per i vostri primi piatti preferiti (tortellini, passatelli, tagliolini, anolini, cappelletti, agnolotti ecc…) P R E PA R A Z I O N E E CONSERVAZIONE Il brodo può essere preparato in anticipo e conservato in un contenitore ermetico per un massimo di 3 giorni, in frigorifero. Riscaldatelo sul fornello o nel microonde prima di servirlo
Io ci tuffo dentro i tortellini, voi?
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La presa di coscienza, o la sua mancanza
Seguo.
a cura di Emiliano Nencioni
Gennaio, fatidico primo mese dell’anno: o si annunciano novità, o si confermano i precedenti capisaldi. Se quello che avete in mano è il BBQ4All Magazine, allora nelle ultime pagine, pare, c’è la Seguo. Poteva esserci tutt’altro, ma nel momento in cui scrivo mi informano che ci sarà la Seguo; un momento prima non ne ero così certo. Ma eccoci qui, e per i nuovi abbonati sarà il caso che butti giù due righe introduttive. cettato, della vita avventurosa e geniale di Hedy Lamarr e dei bulletti di mezza età che zampillano cattiverie su un social network che ormai puzza di stantio e di occhiali da vista brutti. Prendetela così: una sorta di “spazio riflessione” non proprio per tutti i palati, da leggere solo se si ha particolarmente voglia, che non farà crescere di una virgola le vostre capacità sulla griglia o sui fornelli, e che non regalerà neanche mezzo tormentone utile per sentirsi “parte di qualcosa”, ma che, si spera, potrà farvi venire voglia di approfondire un certo argomento insolito. Questo mese mi urge parlarvi di Federico Faggin. Fisico, inventore, visionario al quale dobbiamo moltissimo in termini di vita digitale, e che da diversi anni ha votato la propria vita alla codifica del significato della coscienza. Federico Faggin è un ingegnere e inventore vicentino, laureato (benino!) in fisica all’università di Padova, che ha lasciato un'importante impronta nel campo dell'elettronica e dell'informatica. Appassionato di transistor, ebbe come prima luminosissima intuizione lo sviluppo del Silicon Gate, che permetteva la realizzazione, con microscopiche quantità di semiconduttori, di transistori precedentemen-
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Benvenuti, nuovi lettori, e bentornati vecchi affezionati lettori che iniziano a leggere la rivista “dal fondo”: questa è la rubrica Seguo, una specie di territorio franco autoproclamatosi e sopravvissuto - si dice - per acclamazione popolare. In queste pagine non si trovano ricette, tecniche, mega dissertazioni ricche di ipertecnicismi sul modo più complicato di cucinare qualcosa: molto più probabilmente in queste poche righe si rifletterà su qualcosa di astratto, di poco chiaro o di interesse estremamente ristretto, e si tenterà di fare un parallelismo fra suddetta elucubrazione e un particolare aspetto della cucina su fiamma, della fauna tipica degli ambienti social legata al grilling, delle reazioni stereotipate del commensale medio. Il patto editoriale, a grandi linee, è quello: “scrivi cosa vuoi, senza portarmi troppi guai, e almeno fa’ che sia minimamente attinente all’argomento della rivista”. É per questo motivo che nella rubrica Seguo abbiamo parlato della rivalità fra Einstein e Bohr paragonata a quella fra chi cuoce la bistecca cinque minuti per lato e chi fa il reverse searing, dell’esistenzialismo di Heidegger a confronto con la povertà di spirito di chi fa sempre la solita battuta per essere sicuro di essere ac-
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te fabbricati con ingombranti valvole termoioniche. Curiosamente, questa enorme svolta nella tecnica non è neanche menzionata nella pagina Wikipedia del professore. Nel 1968 Faggin si unì alla Intel come ingegnere capo del gruppo di progettazione di chip, dove ha lavorato alla progettazione del primo microprocessore commerciale, il 4004, che è stato lanciato nel 1971. Questo chip ha aperto la strada per la creazione di computer personali e altri dispositivi elettronici avanzati, e i più nerd tra i lettori ricorderanno di sicuro l’immarcescibile Intel 8080.
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Nel 1974 Faggin ha fondato la sua società di progettazione di chip, la Zilog, dove ha continuato a lavorare sullo sviluppo di microprocessori. La società nel 1976 ha introdotto la sua prima CPU, il Z80, che è stato utilizzato in una vasta gamma di dispositivi tra cui computer, console di gioco e stampanti. Curiosità: uno Zilog Z80 è anche responsabile dell’avvicinamento all’informatica di chi scrive, con una serie di conseguenze sul filo del paradosso temporale di cui probabilmente non riuscirò neppure a raccontare. Del resto, il Multiverso è una cosa di cui sappiamo spaventosamente poco (cit.).
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Nel 1985 Faggin ha lasciato la Zilog per fondare la Synaptics, una società che si concentrava sullo sviluppo di tecnologie di input, tra cui i touch screen. La società ha introdotto il primo touchpad per laptop nel 1992 e ha continuato a sviluppare tecnologie di input avanzate, tra cui touch screen capacitivi e tecnologie di riconoscimento del-
le impronte digitali. Questo significa che il genio vicentino prima ha reso possibile la miniaturizzazione del transistor e la nascita del microprocessore, poi ha sviluppato il processore economico per le masse, poi bontà sua ci ha messo fra le mani il touch screen. E magari qualcuno di voi non lo aveva sentito nominare prima. Faggin ha continuato ad essere attivo nel campo dell'elettronica e dell'informatica anche nei suoi ultimi anni. Ha lavorato a recenti studi sui calcolatori quantistici, concentrandosi sullo sviluppo di metodi per la creazione di porte quantistiche e la codifica dei dati. Nel 2010 ha ricevuto il National Medal of Technology and Innovation per i suoi contributi all'elettronica e all'informatica. A un certo punto, molto semplicemente, Faggin si è incasinato. Avrebbe potuto continuare a fare l’imprenditore nel campo dell’Hi-tech, e vivere beato dei miliardi di dollari dei proventi dei suoi brevetti; invece no, perché ha intuìto qualcosa: probabilmente molto più percettivo, visionario e lucido di chiunque altro, ha capito che la coscienza era qualcosa di descrivibile. Di numerabile, perfino. La coscienza, quella che in inglese è consciousness, una via di mezzo fra consapevolezza e l’essere consci di se stessi. Insomma non quella dei “rimorsi di coscienza” o “obiezione di coscienza”, qualcosa più vicino all’idea di essere vivi. Un’intelligenza artificiale ha coscienza? No, ha solo un algoritmo ben strutturato per fornire ri-
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sultati fintamente umani. Anche se vi scrive un copy vendita che è la fine del mondo, anche vi suggerisce dieci titoli per video youtube virali, anche se la usate per scrivere un libro pessimo che poi cercherete di vendere in formato digitale per generare un po’ di passive income, è solo un bellissimo strumento che scimmiotta in maniera irreprensibile delle cose che già in passato sono state valutate come gradevoli e che quindi hanno portato un certo “peso” all’albero binario della rete neurale. O almeno così era quando davo l’esame di Ingegneria della Conoscenza e Sistemi Esperti, ma non escludo che un po’ di cose siano cambiate.
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Ora, se questa fosse una rubrica Seguo ordinaria, le cose andrebbero così: • breve sintesi del pensiero di Faggin riguardo alla coscienza • breve introduzione al quantum computing • parallelismo più o meno simpatico con l’eterno
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dualismo fra chi griglia ricercando la perfezione e chi fa solo ostentazione testosteronica di “dominazione del fuoco”, con grossi coltelli, grossi occhiali da sole, grossi pezzi di costata inutilmente alti “più di quattro dita” conclusione malinconica veloce reprimenda sul malcostume imperante sui social chiosa ispirata e speranzosa brevissimo post scriptum sagace, dissacrante e ad altissimo rischio di censura editoriale
E invece no. Perché questa è una Seguo di gennaio, introduttiva. Mica finale. Perché, principalmente, il lavoro di Faggin sulla coscienza è difficilissimo e tutt’altro che concluso, e la mia unica speranza è di farvi un minimo appassionare all’argomento. Argomento che, ci scommetto,
realtà interiore delle sensazioni e dei sentimenti (chiamati qualia, plurale latino neutro di qualis) e la realtà esteriore degli oggetti che interagiscono nello spazio e nel tempo. Riteniamo che l'aspetto esteriore sia oggettivo e che quello interiore sia il dominio soggettivo della coscienza. Queste due realtà si riflettono in qualche forma, anche se sono fondamentalmente diverse. Potremmo dire metaforicamente che la realtà esteriore somiglia alla natura delle particelle della materia, mentre quella interiore è come la sua natura ondulatoria. Avete presente tutto il discorso del modello ondulatorio della luce, sì? In caso, ripassate l’esperimento della fenditura. La coscienza è la capacità di percepire e conoscere il mondo e noi stessi. Conosciamo la nostra unicità sperimentandola come qualia all'interno della nostra coscienza (il senso di sé). Allo stesso modo, il mondo esterno prodotto dal nostro sistema sensoriale-cerebrale è rappresentato sotto forma di qualia "proiettate" nello spazio esterno a noi. Come è possibile farlo?
diventerà la grande rivoluzione della prossima generazione, come lo è stato il silicon gate o il touch screen per gli adulti di adesso. Per farvi appassionare potrebbe essere sufficiente accennare che, secondo l’intuizione del professore, la coscienza potrebbe essere descrivibile tramite la fisica quantistica. La coscienza, la consapevolezza, ma anche i sentimenti. Descrivibile, e quindi forse replicabile? Parrebbe. Non solo: la coscienza dov’è? Beh non è in “un posto”, come un oggetto. Molto più plausibilmente, è un Campo, statisticamente determinato, come gli elettroni di un atomo. Difficile da spiegare e da capire? Sì, per questo non lo farò io, vi sto solo propinando diversi stuzzichini per stimolare l’appetito.
Come possiamo avere esperienze così sensibili se siamo fatti di atomi e molecole privi di qualsiasi forma elementare di coscienza? Le leggi fisiche non possono spiegare come i segnali elettrici possono produrre qualia. Inoltre, è impossibile spiegare l'emergere della coscienza da unità fondamentali che non ne hanno alcuna. Proprio come sarebbe impossibile spiegare la presenza di elettricità e magnetismo in
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Mi avventuro in una brevissima disamina, perdonate le inesattezze e le inevitabili semplificazioni. Ciascuno di noi sperimenta due realtà diverse: la
Un robot e un computer non hanno alcuna coscienza e pertanto non possono sperimentare nulla, sia all'interno che all'esterno. So di esistere perché mi sento come un agente (nel senso che agisce!) che opera nel mondo che sento esiste fuori di me. Sono un sé, capace di sentire sensazioni fisiche, emozioni, pensieri e sentimenti spirituali: quattro classi distinte e diverse di qualia. Le sensazioni fisiche sono qualia derivanti dalla percezione e dal trattamento dei segnali prodotti dal nostro corpo fisico e dai segnali provenienti dal mondo esterno. Le emozioni, i pensieri e i sentimenti spirituali sono qualia che sembrano derivare dai segnali del corpo. Tuttavia, i processi che producono qualia sono completamente sconosciuti.
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corpi macroscopici a meno che alcune particelle elementari non portino piccole quantità di carica elettrica e spin magnetico. La coscienza deve quindi essere una proprietà irriducibile della natura già presente nella "materia" primordiale da cui sono emerse lo spazio, il tempo, l'energia e la materia. Occhio, che qui diventa complicato. Questa materia deve anche avere una proprietà di auto-riflessione che le permette di conoscersi. Ciò che percepiamo come spazio, tempo, materia ed energia potrebbe quindi emergere da "qualcosa" che ha la capacità di conoscersi. Partendo da questa ipotesi, dovrebbe essere più facile spiegare come lo spazio-tempo e la materia-energia possono emergere da qualcosa di cosciente piuttosto che dover spiegare come la coscienza emerge dalla materia inerte. In effetti, lo spazio e il tempo sono intimamente legati alla natura dell'osservatore, che a sua volta è profondamente collegata alla natura della coscienza. La fisica contemporanea descrive la realtà fisica utilizzando due teorie incompatibili: la teoria quantistica dei campi (QFT) che spiega gli eventi a piccola scala e la relatività generale che si occupa degli eventi a grande scala. Entrambe le teorie descrivono l'universo come irriducibilmente olistico e dinamico. La QFT dice che il mondo è fatto di campi quantistici e non di particelle-oggetti come abbiamo pensato, e la relatività generale afferma che la distribuzione globale di materia ed energia influisce sulle proprietà dello spazio-tempo in modo controintuitivo. Pertanto, la materia, l'energia, lo spazio e il tempo non sono più variabili indipendenti come sostiene la fisica classica. Sono interdipendenti. Et voilà.
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Queste teorie hanno resistito alla ricomposizione, nonostante gli sforzi significativi della comunità scientifica per oltre 80 anni. Peggio ancora, non offrono alcuna speranza di spiegare l'esistenza della coscienza che ciascuno di noi sperimenta all'interno.
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Insomma, il messaggio di fondo, incasinamenti quantistici a parte (non c’è verso di fare un discorso semplice o un minimo comprensibile, ogni volta che il termine “quantistico” entra in gioco), è chiaro e affascinante: Faggin sostiene che la comprensione della coscienza e della sua relazione con
la fisica quantistica potrebbe aiutare a spiegare come lo spazio, il tempo e la materia possono emergere da qualcosa di cosciente, anziché dover spiegare come la coscienza emerge dalla materia inerte. Un bel capovolgimento. Faggin, da imprenditore, genio visionario e eccellente inventore diventa, nello spazio di una intuizione, uno dei filosofi più profondi del nostro tempo. La spinta, stando a quanto racconta, è una enorme e insopportabile insoddisfazione, un senso di incompletezza: insoddisfazione, lo ricordo, dopo aver inventato nè più nè meno le cose più caratterizzanti e determinanti degli ultimi 50 anni. Dopo aver presumibilmente accumulato una fortuna. Aveva capito come realizzare un silicon gate, ma non si spiegava i sentimenti. In maniera lungimirante inventò l’economico processore Z80, che nel 1986 ritrovai nel mio primo personal computer, responsabile della costruzione di tutta la mia personalità futura. Ed eccomi qua, a parlarne sulla Seguo, senza fare parallelismi con la griglia, senza sperare di spiegarvi niente, con solo il chiaro obiettivo di incuriosirvi. Forse doveva andare così, forse la presenza di una Seguo anche nel gennaio 2023, dettaglio di cui sono venuto a conoscenza a poche ore prima della deadline editoriale, è assolutamente strumentale alla diffusione di questa nuova teoria. Forse ho solo chiesto ad una intelligenza artificiale “scrivi 12mila caratteri parlando di filosofia e fisica quantistica, nello stile delle Seguo del BBQ4All Magazine”, e poi ho fatto copia e incolla.
> scrivi una chiusura sagace, sarcastica e inquietante all’articolo > Forse ho solo chiesto ad una intelligenza artificiale “scrivi 12mila caratteri parlando di filosofia e fisica quantistica, nello stile delle Seguo del BBQ4All Magazine”, e poi ho fatto copia e incolla.
Emiliano Nencioni
CLUB Dire tta m e n t e da lla co m mu n i ty d i ma e stri di barbecue pi ù grande d’Itali a, nas ce i l pres ti gioso club ch e t i offre la po s s i bi li tà di avere: acc e s so pr io r ita r io a l mega s to re, dove p ot ra i fa re ra zz i e mentre tutti gli altri “ s o no i n coda” ; u na p rogra m ma zio ne int elligent e dei tuoi acquis t i gra zi e a l cre d i to mens i le prepagato (s cegli tu quanto ); u n coach pr ivato che t i guiderà n e l fa r t i vi ve re l’es peri enza
pi ù ecci tante di s empre
co n la preparaz i o ne dei tuoi pi atti ; e mo lto a lt ro a nco ra. . . Av rai tu tto qu e s to s o lo s e t i i s cr i vi s ubi to al M EG ASTORE CLUB, l’uni co luogo ri s ervato a una c e rc h ia r is t retta d i a s p i ra n t i gr i ll ma s ter che des i derano apprendere pi ù velocemente e nel modo pi ù accurato po s s i bi le, la s ubli me arte del gri ll . Pu oi di s i s cri verti quando vuoi e i l tu o c redito s a rà s em pre dis po nibile.
collegat i a H T T P S : / / B B Q 4 A L L . I T / R I C H I E S TA - I N F O - C L U B - M E G A S T O R E / e ch i e d i i nfo rmaz i o ni pi ù dettagli ate, p r i ma ch e i coach fi ni s cano e le i s cri z i o ni chi udano .
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