BBQ4All Magazine numero 50 - Febbraio 2023

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N°50/ANNO 5 - FEBBRAIO 2023

NIENTE AMICI CON L’INSALATA: IL MENÙ CHE METTE D’ACCORDO TUTTI

L'EDITORIALE DI GIANFRANCO LO CASCIO

Crocchette, Frittelle di alghe, Gnocco fritto, Tortilla Chips, Ceci fritti, Lasagne al ragù, Cotoletta alla milanese, Gyukatsu, Polpette di carne, Hash Browns

TUTTO SUL MICROONDE

BBQ INDOOR

RIBS AFFUMICATE DA APPARTAMENTO

TUTTO SUL BURRO

COME SI PRODUCE E SI SCEGLIE

LA RICETTA SCIENTIFICA

IL “DADO” DI POLLO PER FARE IL BRODO


Supplemento al mensile Il Salvagente Leader dei Test di laboratorio contro le Truffe ai consumatori il Salvagente Direttore responsabile Riccardo Quintili Vicedirettore Ernico Cinotti Registrazione al Tribunale di Roma n° 201/1992 del 3 aprile 1992 Stampa Str Press srl Via carpi, 19 00040 Pomezia RM ufficiotecnico@essetr.it tel. 06/91251177 - int. 6 fax 06/91601961 www.strpress.it EditorialeNovanta Srl Società Unipersonale c.f. 12865661008 via Ludovico di Savoia 28 00185 Roma tel. 06 91501100

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Redattore Capo Michela Bongiorni

Redazione

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IN DI Editoriale

Io e il microonde facciamo scintille - guida all'uso

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Ricette

Crocchè - il re del Cuoppo napoletano

14

Zeppoline di mare

16

Il gnocco fritto modenese

18

Ceci fritti

24

Lasagna al ragù

26

Cotoletta alla milanese

30

Gyukatsu

34

La polpetta fritta

36

Hash browns

40

BBQ Indoor - costine affumicate da appartamento

42

Speciale - Anelli di cipolla in pastella

36

Gastronomicamente

Il burro come sinonimo di civiltà - come è fatto il grasso più chiaccherato

54

Approfondimento - tipologie di burro in commercio

62

Guida all'acquisto - Burro: cosa troviamo nei supermercati

64

Approfondimenti

From Zero to Hero - Thin Blue Smoke vs Thick White Smoke

70

Tecniche - Tutto quello che c'è da sapere sulla frittura

74

Il debunking di Gastronomicamente - 6 Falsi Miti in cucina

78

Rubriche

La ricetta scientifica - Il dado di pollo e il risotto giallo

88

Seguo - Quelle incredibili coincidenze non deterministiche

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Io e il microonde

Editoriale di Gianfranco Lo Cascio

FAC C I A M O SCINTILLE Guida all’uso dell’elettrodomestico più maltrattato di sempre Il microonde è senza dubbio l’elettrodomestico più sottovalutato di tutti. Proprio come me alle medie, è “bravo ma non si impegna”, e quindi lo sfruttiamo al 30% delle sue capacità. Questo perché entrare in sintonia con lui non è facile, ogni cosa che ci infiliamo dentro diventa poliuretano espanso e le scintille, quelle sono la mia parte preferita. Nemmeno vi sto a raccontare quante tazzine col bordo in oro zecchino ho fulminato, i fuochi di Santa Rosalia non sono niente a confronto. La mia cucina trasformata in un set di Star Wars ogni volta che scaldavo il latte. Ma poi ho imparato a conoscerlo e ad amarlo. Sebbene il microonde sia nato per riscaldare gli avanzi o i cibi pronti, può svolgere compiti in maniera più semplice e veloce rispetto ad una pentola o a un forno ventilato. Ci possiamo cuocere il soffritto, scaldare e tirar fuori gli aromi delle spezie, eliminare l’umidità in eccesso dai funghi o dalle melanzane crude, cuocere le patate o la zucca prima di grigliarle, cuocere il mais al vapore, tostare le noci e sciogliere il cioccolato, tutte operazione che vanno ben oltre lo "zapping" del caffè tiepido.

COME FUNZIONANO I FORNI A MICROONDE

Ma come chiunque abbia mai usato un microonde sa, il riscaldamento della pietanza prescelta non è mai uniforme. Parliamo pur sempre di una tecnologia degli anni '40, ancora utilizzata perché economica da produrre. Di recente però, i costruttori hanno introdotto nuove funzioni e miglioramenti, tra cui: •

• •

tecnologia inverter, in cui l'alimentazione non si accende e si spegne, ma rimane accesa, anche a impostazioni più basse, per una cottura più precisa modalità a sensore in cui il forno misura il vapore emesso dagli alimenti e regola la potenza e il tempo di cottura controllo vocale tramite Google Assistant o Alexa app per azionare il forno o scansionare i codici a barre delle confezioni per inviare automaticamente le istruzioni di cottura

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Sono alimentati da una valvola a vuoto chiamata magnetron che utilizza corrente elettrica e magneti per generare onde elettromagnetiche dette anche microonde. Le onde partono dal magnetron, passano attraverso il vetro, la carta, la plastica e altri materiali simili, e vengono assorbite dagli alimenti, dove fanno vibrare le molecole d'acqua (e in misura minore le molecole di grasso), producendo così il calore necessario a cuocerli. Le microonde, contrariamente a quanto si pensi, non penetrano in profondità: raggiungono solo lo strato esterno del cibo. L'interno si riscalda per conduzione, poiché il calore si propaga anche all’interno.

In genere questi forni si accendono e si spengono durante la cottura. Si sente il brusìo della ventola di raffreddamento che gira continuamente, mentre un ronzio più forte (il magnetron) si avvia per poi bloccarsi dopo un po’. In sottofondo il piatto rotante che striscia e che aiuta a diffondere il calore, spostando il cibo tra le onde.

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COSA CERCARE QUANDO SI ACQUISTA UN FORNO A MICROONDE WATTAGGIO MODERATO: alcuni potrebbe pensare che più alto è il wattaggio e meglio è, ma non è così. L’ideale è rimanere tra i 700 e i 1.200 watt, con i forni ad alto wattaggio otterrete sì buoni risultati, ma solo a potenza moderata (il 50%). Rischiate di stracuocere il cibo, raggrinzire gli ortaggi e far esplodere i panetti di burro. I forni con livelli di potenza moderati, da 900 a 1.000 watt, sono i più efficienti. COMANDI SEMPLICI E INTUITIVI: scegliete un modello con comandi chiaramente contrassegnati e facili da decifrare. Less is more. DIMENSIONI COMPATTE: a meno che non scongeliate cosce di mammut per cena, un forno con una capienza tra i 25 e i 28 litri andrà benissimo. I modelli più grandi occupano spazio inutile, poiché la capienza della camera di cottura non aumenta. FINITURA A PROVA DI IMPRONTE: i modelli migliori hanno finiture opache o bianche, che sembrano pulite anche dopo aver cucinato per un reggimento. COTTURA A SENSORI: le modalità a sensori che regolano la cottura monitorando il vapore non sono essenziali ma facilitano il compito. DISPLAY CHE SEGNALA LA "FINE": i forni che visualizzano la scritta “FINE" salveranno tante tazze dall’abbandono e dall’incuria. PULSANTE MUTE: mi piace molto l'opzione di silenziare tutti i soliti bip, specialmente di mattina e prima di aver ingerito della caffeina. BLOCCO PER BAMBINI: nelle famiglie con bambini piccoli, questa è senz’altro una funzionalità utilissima.

COSA EVITARE TASTI CONFUSIONARI: manco fossimo dentro Ocean’s Eleven, certi forni ci costringono ad imbroccare una sequela di comandi e pigiare tasti come pazzi, per poi venire sgridati dal segnale acustico. Ecco, evitate i forni inutilmente complicati. TECNOLOGIA SCAN-TO-COOK: si scansiona il codice a barre dei cibi surgelati con un'app che invia le istruzioni di cottura direttamente al forno. Questo in teoria. In pratica il database non conterrà mai le istruzioni di tutti i nostri cibi preferiti.

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TECNOLOGIA INVERTER: gli inverter mantengono il livello di potenza costante invece di accendersi e spegnersi, eppure non si riscontrano differenze significative nel risultato finale. Non sono da evitare, ma nemmeno da possedere obbligatoriamente.

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CONTROLLO VOCALE: a meno che non abbiate bisogno di questa funzione per rendere il forno più accessibile, l'utilizzo di Alexa o di Google Assistant non è così imprescindibile.


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NEL MICROONDE: COSA CI VA E COSA NO

QUAL È L'EFFICIENZA ENERGETICA DI UN FORNO A MICROONDE?

Evitate di usare sacchetti di carta riciclata e rotoloni di carta riciclata, compresi quelli realizzati con fibre sintetiche. Rischiate di appiccare un incendio, non scherzo. Evitate anche la melamina, la maggior parte dei metalli, compresa la stagnola e le parti metalliche dei contenitori di cibo da asporto, i biberon, il polistirolo e i bicchieri di carta.

I forni a microonde sono piuttosto efficienti. Come già detto, sono alimentati da un magnetron, che utilizza corrente elettrica e magneti per generare microonde che fanno vibrare le molecole d'acqua negli alimenti, riscaldandoli. Al contrario, un forno convenzionale per cuocere deve riscaldare un'intera cella e solo una frazione dell'energia termica riuscirà ad arrivare all'alimento, mentre il resto verrà dissipato dalle pareti dell’elettrodomestico.

Fate attenzione a contenitori e ciotole di vetro, compresi i barattoli da conserva, che possono surriscaldarsi e frantumarsi a temperature elevate, soprattutto se graffiati o danneggiati. Alcuni barattoli di recente fabbricazione sono adatti al microonde, controllate sempre i simboli sul fondo e le etichette, impostate livelli di potenza bassi e tempi di cottura brevi.

In un forno a microonde, l'energia che il magnetron "irradia nella cavità del forno viene assorbita solo dal cibo", ha dichiarato Louis Messer, ingegnere elettronico in pensione che ha lavorato al radar che controllava gli sbarchi lunari Apollo della NASA. "Questo rende l'intera operazione molto veloce e l'energia totale (energia per tempo) registrata è molto bassa.”


CONSIGLI PER OTTENERE RISULTATI MIGLIORI NEL MICROONDE Quando cucinate o scongelate gli alimenti nel microonde, fate così per ottenere risultati migliori e cotture più uniformi: #01

ABBASSATE LA POTENZA Provate a impostare una potenza più bassa per consentire al calore di diffondersi e cuocere gli alimenti più lentamente senza bruciarli.

#02 FERMATE LA COTTURA E MESCOLATE E/O GIRATE IL CIBO La parte superiore e i bordi degli alimenti si scaldano più velocemente dell'interno mentre la parte inferiore si scalda più di quella superiore. Mescolate e girate gli alimenti per ridistribuire il calore. #03

POSIZIONATE IL CIBO FUORI DAL CENTRO Il cibo posizionato al centro del piatto rotante di un microonde non si muove mai rispetto al magnetron. Piazzate il cibo in posizione decentrata sul piatto rotante, in modo che attraversi le regioni più pesanti e più leggere delle radiazioni, evitando le zone troppo calde.

#04 LASCIATE RIPOSARE IL CIBO Quando avete finito di cuocere il cibo al microonde, lasciatelo riposare da 2 a 15 minuti, a seconda delle dimensioni e della quantità, in modo che i punti più caldi e quelli più freddi si uniformino. RICORDATE CHE Gli alimenti in piccole porzioni e particolarmente asciutti possono richiedere più tempo per la cottura a causa della mancanza di umidità. Cucinare due porzioni insieme può richiedere il doppio del tempo, poiché l'energia viene assorbita man mano che il cibo cuoce.

LE MICROONDE Riscaldando l'acqua e le molecole di grasso all'interno del cibo, anziché riscaldare l'aria circostante, il microonde è un metodo di cottura rapido ed efficiente. Le microonde hanno uno strano effetto sulle molecole di acqua e grasso: le fanno allineare, proprio come un sergente che le richiama all'attenzione. Cambiando la direzione delle microonde, le molecole di acqua e (in misura minore) di grasso vengono fatte ruotare e agitate a sufficienza fino a generare il cosiddetto riscaldamento dielettrico, cuocendo di fatto il cibo. Mi spiego meglio. Le molecole d'acqua (H2O) hanno una carica elettrica negativa al centro e positiva all'estremità. Quando le microonde elettromagnetiche incontrano l'acqua negli alimenti, le molecole ruotano per allinearsi alla radiazione. Nel forno, le microonde cambiano costantemente direzione, facendo ruotare le molecole a tal punto da riscaldare e cuocere il cibo. Anche se in misura minore, le molecole di grasso e di zucchero si comportano in maniera simile. BBQ4All Magazine

La cottura a microonde preserva le sostanze nutritive, al contrario di quanto dicano certi cuochi, grazie al tempo di cottura rapido e al fatto che non si disperdono nell’acqua, come avviene nella bollitura.

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LE FASI DELLA COTTURA: COSA SUCCEDE ALL'INTERNO #01 SI POSIZIONA L’ALIMENTO SUL PIATTO ROTANTE Tutti gli alimenti devono essere tenuti sul piatto rotante affinché nessuna parte stazioni in un "punto freddo". Le microonde che rimbalzano concentrano le loro energie in alcune zone, ma si annullano in altre. Per questo motivo gli alimenti devono essere sempre mescolati e spostati a metà cottura.

MICROONDE: COSA CONTIENE

#02 SI IMPOSTA IL TEMPO E LA POTENZA Poiché il cibo assorbe parte dell'energia del microonde mentre si riscalda, la cottura di due porzioni di cibo richiede più tempo di una. Ad esempio, potrebbero essere necessari 5 minuti per cuocere una patata, ma 9 minuti per cuocerne due. #03 IL MAGNETRON CREA LE MICROONDE Si tratta di un tipo di tubo elettronico (o "tubo catodico"), come quelli dei televisori di una volta, che genera le microonde ad alta energia che verranno sparate nel cibo per riscaldarlo. #04 LA GUIDA D'ONDA INCANALA LE MICROONDE Trasporta e dirige le microonde dal magnetron verso la camera di cottura. #05 L'AGITATORE DISPERDE LE MICROONDE Il movimento dell'agitatore, una lama metallica rotante, distribuisce le microonde all'interno del forno, assicurando che cambino costantemente direzione, in modo che il cibo cuocia nel modo più uniforme possibile.

SFATIAMO QUALCHE MITO

I forni a microonde cuociono gli alimenti dall'interno verso l'esterno. Si tratta di una mezza verità. Le microonde penetrano negli alimenti più in profondità rispetto al calore diretto - circa 2 cm ma non raggiungono il cuore del cibo (a meno che non si tratti di un pezzo molto piccolo). La funzione defrost Le molecole d'acqua allo stato solido (nel ghiaccio) sono meno mobili rispetto a quelle nei liquidi, quindi è difficile scongelare gli alimenti in modo uniforme nel microonde.

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La reazione di Maillard Devo darvi una brutta notizia: le microonde non dorano bene gli alimenti. Una volta che la superficie si è asciugata, il riscaldamento a microonde rallenta proprio a causa della mancanza di umidità.

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Elettromagnetismo Le microonde non sono radiattive, sono un tipo di radiazione elettromagnetica, come la luce e le onde radio.


VENTOLA Mantiene fresco il magnetron.

PARETI METALLICHE Riflettono le microonde in modo che rimbalzino all'interno del forno.

TRASFORMATORE Aumenta la tensione dell'elettricità che entra nel magnetron a 2.000-3.000 volt.

MAGNETRON È la fonte delle microonde.

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SPORTELLO La lastra di metallo all'interno dello sportello di vetro è dotata di fori di circa 1mm di diametro. La lunghezza d'onda delle microonde è in genere di circa 12 cm, quindi non possono passare attraverso le fessure, mentre la luce visibile, che ha una lunghezza d'onda di 400-700 nanometri, può passare e permetterci di vedere l'interno del forno. L'apertura dello sportello interrompe l'alimentazione del magnetron.

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LA RICETTA Ma dopo tanto parlare passiamo ad un’applicazione concreta, concretamente buona. Avete mai preparato la crema pasticciera al microonde? Adesso vi spiego come si fa, seguitemi! INGREDIENTI • 500 ml di latte intero • ½ bacca di vaniglia Bourbon • 120 g di tuorli (circa 6) • 85 g di zucchero semolato • 30 g di amido di mais • 10 g di amido di riso (che potete sostituire con altrettanto amido di mais) PROCEDIMENTO Prima di passare alla crema pasticciera, trucchetto vecchio come il cucco per separare in un lampo i tuorli dagli albumi: rompete tutte le uova in una terrina e pescate con le dita i tuorli, delicatamente. Poi versate il latte in una brocca, immergete il baccello di vaniglia privato della polpa e fate scaldare al microonde per 1 minuto. Nel frattempo mescolate i tuorli con i semi della bacca e lo zucchero in una ciotola, il composto non va montato, basteranno pochi secondi. Aggiungete gli amidi setacciati, quindi amalgamate con la frusta. Quando il latte è caldo, scartate il baccello di vaniglia e versate sulla mescola di tuorli. Girate energicamente con una frusta per almeno 30/40 secondi e cuocete per 3 minuti a 750 watt. Riprendete la ciotola, date una bella mescolata e cuocete ancora per altri 3 minuti, sempre a 750 watt.

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Controllate che la crema abbia raggiunto una cottura “alla rosa”, che abbia raggiunto cioè gli 82°C. Quindi mescolate con una frusta fino a quando la temperatura non scende a 50°C e coprite con pellicola a contatto, per evitare che si formi la fastidiosissima “pellicina”.

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Gianfranco Lo Cascio


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MA CHE CROCCHÈ

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conosciamo il re del Cuoppo napoletano!

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I crocchè sono considerati un piatto tipico di Napoli, sebbene esistano alcune varianti della stessa ricetta possano in altre città e regioni, per esempio a Palermo o in Piemonte. A Palermo prendono il nome di cazzilli e in Piemonte si chiamano subric.

Ingredienti per 4 persone: 1 kg di patate a pasta

Nel capoluogo campano queste crocchette di patate e uova, impanate e fritte, sono chiamate anche panzarotti per via della forma rotonda che le ha rese simili ad una piccola “panza”. Si tratta di una specialità molto famosa e amata, che fa parte del famoso cuoppo. Tuttavia, la sua storia non è chiara e sulle origini del crocchè di patate le opinioni si dividono.

PREPARAZIONE 1. Lavate le patate e cuocetele in una pentola con abbondante acqua per 30 minuti dall’inizio dell’ebollizione.

Secondo alcuni storici le crocché deriverebbero dalle croquettes della Francia angioina del XVIII secolo. Le prime ricette infatti risalirebbero al 1798 quando il nutrizionista alla corte del re Luigi XVI, Antoine Augusten Parmentier, nel suo “Traité sur la culture et les usages des pommes de terre, de la patate et des topinambours”, illustrò l’uso del tubero in numerose ricette, valorizzandolo. Da ricordare che in quel momento la patata era considerata una alimento estremamente povero, da dare in pasto agli animali o da consumarsi durante le carestie. Secondo altre fonti invece, i crocchè sarebbero giunti in Italia durante la dominazione spagnola nel Regno delle Due Sicilie. In questo caso sarebbero la versione “povera” delle croquetas de jamon. In particolare latte, prosciutto e uova sarebbero stati sostituiti con sale, pepe e prezzemolo; le uova sarebbero poi state reintrodotte nella ricetta successivamente, insieme a Parmigiano Reggiano e pangrattato.

gialla / 3 uova e 2 albumi / 40 g di Parmigiano Reggiano grattugiato / 40 gr di Pecorino grattugiato / 200 g di mozzarella / prezzemolo / sale e pepe q.b. / pangrattato q.b. / olio di semi di arachide q.b.

2.

Tagliate la mozzarella a dadini e mettetela. Scolate le patate, pelatele e passatele nello schiaccia patate raccogliendo la purea in una ciotola capiente.

3.

Aggiungete le uova, il Parmigiano e il Pecorino grattugiati, il sale, il pepe e il prezzemolo tritato.

4.

Impastate bene e formate un impasto sodo.

5.

Con le mani umide, prendete una cucchiaiata di impasto e inserite i dadini di mozzarella. Richiudete l’impasto e formate dei cilindretti.

6.

Passate i cilindretti di patate prima nell’albume e poi nel pangrattato. Riponeteli in frigo per un’oretta.

7.

Scaldate l'olio di semi, portandolo a una temperatura di 180°C in e friggete i crocchè di patate finché non saranno dorati.

8.

Scolateli e adagiateli su un piatto con carta assorbente. Serviteli caldissimi!

In ogni caso, indipendentemente dalle origini, il crocchè di patate è un pilastro sul quale si fonda lo street food napoletano. Un tempo esisteva anche la figura del panzerottaro, ovvero un venditore ambulante che friggeva i crocchè sul momento per servirli ancora sfrigolanti. Lo slogan con il quale il panzerottaro attirava a sé il pubblico era: "Fa marenna, fa marenna! Te ne magne ciento dint’ ‘a nu sciuscio ‘e viento” (Fai merenda, fai merenda! Te ne mangi cento in un soffio di vento). BBQ4All Magazine

Oggi, come dicevamo, è il crocchè viene servito nel Cuoppo insieme ad arancini di riso, zeppoline di pasta cresciuta, verdure pastellate, fiori di zucca ripieni di ricotta fritti e mini frittatine di pasta.

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Protagoniste del cuoppo napoletano:

Ingredienti per 4 persone:

Le zeppole di pasta cresciuta sono sfiziose frittelle salate tipiche della cucina povera napoletana. Sono soffici soffici, gonfie e saporite, realizzate con una pastella a base di acqua, farina e lievito. Conosciute anche come zeppolelle fritte si vendono in ogni friggitoria partenopea. Antonino Cannavacciuolo, nel suo ricettario “L’alta cucina di tutti i giorni”, le chiama “zeppole di mare” e indica, come ingrediente fondamentale, la lattuga di mare. Si tratta di una delle più comuni alghe commestibili che si trova un po’ dappertutto, sia nell’Oceano Atlantico e Pacifico, che nel Mare Mediterraneo. Il nome scientifico è Ulva lactuca, ed è un’alga della famiglia delle Ulvaceae, dal bel colore verde brillante (è ricca di clorofilla!) e dalle foglie sono lunghe e sottili. Si raccoglie da Giugno a Ottobre ed è considerata un alimento dalle eccellenti caratteristiche nutrizionalIi, fonte importante di sali minerali e oligoelementi, priva di colesterolo e ipocalorica.

PREPARAZIONE 1. Prendete una ciotola, unite la farina con il sale e mescolate con una forchetta.

ZEPPOLINE DI MARE

Il titolo del ricettario di Cannavacciuolo è rivelatore: è proprio vero che la cucina di tutti i giorni, se fatta bene, possa considerarsi ”alta cucina”. Le zeppole di mare rientrano a pieno titolo nella categoria: la semplicità di preparazione della pasta cresciuta consente a chiunque ami cucinare di realizzare le zeppolelle a casa senza nulla invidiare a quelle degli chef stellati. Il sapore unico e inconfondibile, la doratura croccante all’esterno ed un soffice impasto morbido all’interno rendono queste frittelle una prelibatezza che occupa un posto speciale all’interno del tipico cuoppo napoletano, insieme allo scagnuzziello (polenta fritta), ai panzarotti (crocchette di patate), alla verdura fritta in pastella, agli arancini di riso e alle frittatine di pasta. Le zeppoline non hanno una forma regolare. Sono tondeggianti, ma essendo impastate a mano presentano dei tratti irregolari che le rendono inconfondibili.

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La ricetta di questa pietanza è nata indicativamente nel 1800, nelle zone più degradate della città campana, nelle quali regnava la povertà. Per sopravvivere, numerose famiglie si arrangiarono cucinando i pochi ingredienti di cui disponevano: nacque così la professione del “panzarottaro“ e insieme a quella anche l’espressione “a ogge a otto“, un pagamento spalmato in otto giorni che favoriva i più poveri.

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Un prodotto simile un si trova anche in Calabria dove queste zeppoline sono chiamate crispelle. Qui l’impasto prevede l’aggiunta delle acciughe sotto sale. In Puglia, invece, sono conosciute come dove il nome di pettole e la pasta viene insaporita con acciughe, broccoli o baccalà. La variante con le alghe è sicuramente la più gourmet. Vediamo come realizzarle.

400 g di farina / 40 g di lattuga di mare / 5 g di lievito di birra fresco / 1 cucchiaio di zucchero / 15 g di sale / 3 cucchiaio di olio extravergine di oliva / olio di semi di arachidi q.b.

2.

In un altro recipiente versate 330 ml di acqua calda. Fate sciogliere prima lo zucchero e poi il lievito precedentemente sbriciolato.

3.

Lavate le alghe e tritatele con un coltello dalla lama affilata, poi ggiungetele nella ciotola con acqua e lievito, due cucchiai di olio extra vergine d'oliva e infine la ciotola di farina con il sale

4.

Mescolate con le fruste elettriche man mano che aggiungete la farina. Quando avrete ottenuto un composto gonfio e omogeneo, ricopritelo con pellicola trasparente e fatelo riposare per 4 ore.

5.

Trascorso questo tempo, mettete una p entola dai bordi alti sul fuoco, riempitela d’olio di semi di arachidi e portatelo alla temperatura di circa 180°C.

6.

Aiutandovi con un cucchiaio, prelevate una pallina di impasto e friggetela. Non mettete a friggere più di 4 o 5 frittelle per volta.

7.

Man mano che diventano dorate, scolatele con una schiumarola e passatele nella carta assorbente.

8.

Servitele caldissime.


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IL GNOCCO FRITTO MODENESE

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l’accompagnamento perfetto per il salame di Wagyū

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Il gnocco fritto – no, non è un errore, è d’obbligo l’uso di “IL” e dopo vi spieghiamo perché- è un prodotto tipico delle province di Modena e Reggio Emilia. Da queste due città, percorrendo la via Emilia in direzione ovest, lo si può trovare sino alla periferia est di Bologna dove, però, cambia nome e diviene crescentina. Dall’altro lato, se percorriamo la strada maestra emiliana e ci si dirige verso la Lombardia a Parma diventa torta fritta ed a Piacenza cambia pure lingua trasformandosi in chisulen. Nasce come naturale e perfetto accompagnamento agli opulenti salumi stagionati emiliani ed il re incontrastato dello street food emiliano. Nel 2008 è stato fondata a Modena la Confraternita del Gnocco D’Oro: un gruppo di estimatori e appassionati di tradizioni modenesi che si è riunito in un’associazione culturale con l'intento di mantenere la tradizione della delizia modenese attraverso il coinvolgimento diretto dei pubblici esercizi, bar e ristoranti, che somministrano gnocco fritto nei loro locali. È stata creata una mappa dei luoghi d’eccellenza dove è possibile gustare il migliore pezzo di Gnocco fritto modenese, magari abbinato a una fetta di Prosciutto crudo di Modena, ai ciccioli a al salame delle montagne emiliane, e ancora a una scaglia di Parmigiano Reggiano.

Ingredienti per 4 persone: 500

g farina 00 / 220 ml acqua / 60 g strutto / 10 g lievito di birra fresco / 10 g sale fino PREPARAZIONE 1. Riscaldate leggermente l'acqua, poi versatela in una ciotola, aggiungete il lievito di birra sbriciolato e mescolate molto bene il composto. 2.

Disponete la farina su un ampio tagliere, aggiungete al centro del "vulcano" lo strutto e infine il sale. Versate pian piano l’acqua e mescolate con una forchetta.

3.

Impastate fino a rendere l’impasto sodo ed elastico, formate una palla e lasciatela lievitare in una ciotola coperta da pellicola trasparente fino al raddoppio del volume.

4.

A lievitazione avvenuta stendete l'impasto sul piano da lavoro aiutandovi con un mattarello, fino a renderlo una sfoglia di non più di 2 millimetri. Molto sottile, dunque.

5.

Tagliate l’impasto a rombi di 7/8 cm con un tagliapasta liscio.

6.

Riscaldate lo strutto in una padella antiaderente.

7.

Friggete il vostro gnocco girandolo spesso durante la cottura fino ad ottenere una doratura uniforme. Rimuovete il gnocco fritto con una schiumarola e fatelo asciugare su carta assorbente.

8.

Servite subito i pezzi di gnocchi ben caldi in modo da permettere di accentuare i sapori e di sciogliere leggermente le parti grasse delle fette dei salumi che avranno la fortuna di finisci dentro.

Nel territorio i locali inseriti nel circuito sono dotati di una targa di appartenenza, simbolo dell’alta qualità rappresentata, e ogni anno una commissione di saggi ed esperti proclama il “Gnocco d’Oro”, ovvero il miglior pezzo di Gnocco somministrato in quell’anno nei locali del circuito. Ma veniamo a una domanda fondamentale: lo abbiamo chiamato sempre Il gnocco fritto, ma siamo sicuri sia corretto? D’altronde, la regola grammaticale riconosce una sola forma: lo. E su questo siamo tutti d’accordo. Tuttavia, se esiste una cosa che vada assolutamente salvaguardata nel panorama linguistico italiano questa è senza ombra di dubbio il dialetto. Ebbene, in questo caso il termine dialettale al gnoc frèt si traduce in italiano in IL gnocco fritto. Grazie a quell’articolo “sbagliato” , questa specialità acquista una sua identità specifica e territoriale. Chiamandolo così, non state parlando di una qualsiasi preparazione simile a quella, ma specificatamente e solo DEL gnocco fritto modenese o reggiano. Non entrate nei locali di Modena o Reggio Emilia chiamandolo LO gnocco fritto, perché potrebbero indignarsi. Quindi ora lasciatevi catturare dalla ricetta di questa delizia spaziale e per ingannare l’attesa stappate una bella bottiglia di vino. Quale? Un bel Lambrusco di Sorbara o il Salamino di Santa Croce.

Ok adesso siamo a posto! Vediamo tutti i passaggi!

Provatelo con il nostro salame Shimofuri (100% Wagyū giapponese) e vi scenderanno calde lacrime di commozione.

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Ah sì, ricordiamo un paio di cosette prima di cominciare a sporcarci le mani: il gnocco fritto deve essere mangiato rigorosamente caldo e va, indiscutibilmente, fritto nello strutto.

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Conoscete la differenza tra

TORTILLA CHIPS E NACHOS?

ve la diciamo noi!

In generale, chiunque ami la cucina tex mex è portato a usare nachos come sinimomo di tortillas chip. Avete presente no? Parliamo di piccoli triangoli croccanti e dorati, realizzati con farina di mais. Le patatine messicane, insomma. Beh, in realtà non sono esattamente la stessa cosa. Ma andiamo con ordine.

Febbraio 2023

Tutto nasce dalle tortillas, che sono la base di moltissime ricette messicane che conosciamo ormai molto bene: i tacos, le enchiladas, i burritos, le tortilla chips e i nachos. L’origine delle tortillas di mais è legata agli indiani aztechi, vissuti tra il XIV e il XVI secolo nelle terre messicane, che pare siano stati i primi a prepararle. Le prime tracce ufficiali sui vari ricettari, tuttavia, non compaiono fino all’800. Le tortilla chip nascono come ricetta di recupero: l’idea era quella di riutilizzare i ritagli delle tortillas usate per altre preparazioni, evitando sprechi alimentari. Secondo alcune testimonianze già nei primi anni del’900 molte fabbriche di tortillas rivendevano queste chips ai ristoranti del sud della California a un prezzo molto conveniente. Venivano consumate al posto del pane.

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Chi fu ad avere per primo l’idea di friggere i ritagli delle tortillas? C’è chi fa il nome di Rebecca Webb Carranza ,fondatrice insieme al marito negli anni ’40 della “El Zarapes Factory Tortillas” ; c’è invece chi sostiene sia stato Jose Bartolome Martinez, proprietario della Tamalina Milling Company. In realtà, probabilmente nessuno dei due inventò la ricetta, ma sicuramente entrambi contribuirono a renderla popolare. Anche perché se mettete insieme le informazioni che vi abbiamo dato fino ad ora, le date non

tornano affatto: come è possibile che la signora Rebecca le abbia inventate negli anni ‘40, se già agli inizi del ‘900 i ristoranti le servivano? Le tortilla chips, comunque, sono solo i triangolini di mais fritti. E i nachos? Sono gli stessi triangolini, ma conditi. Quando ci si riferisce ai nachos, dunque, si intende proprio il piatto con le salse e i condimenti. Pare siano stati inventati da un maître chiamato Ignacio "Nacho" Anaya negli anni '40. Pare che un gruppo di clienti molto affamati si fosse presentato nel ristorante Club Victoria, al confine di Piedras Negras, in Messico. Pare che il cuoco fosse irreperibile, per questo motivo il buon Ignacio si sarebbe recato in cucina e avrebbe arraffato tortilla chips condendole con formaggio e peperoncini, servendo così ai clienti il primo piatto di Nachos Especiales. Le originali tortillas messicane nascono da pochi semplici ingredienti: farina, acqua e sale. In Italia è molto facile imbattersi in tortillas a base di farina di grano o di grano misto a mais, tuttavia la ricetta originale messicana prevede l’uso della cosiddetta masa harina, ottenuta grazie a un processo chiamato nixtamalizzazione, che consente di trasformare il mais in qualcosa di più commestibile. Il processo prevede l'essiccazione dei chicchi e poi l'ammollo in acqua con calce spenta. Quando il mais viene nixtamalizzato si trasforma poi in un impasto che diventa la base per la maggior parte dei piatti messicani. Ora buttiamoci nella preparazione delle Tortilla Chips da gustare con una delle salse presenti nel nostro Megastore (pssss… Smoke&fire sauce habanero…). Vi piace come idea?


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Ingredienti per 4 persone: 50 g di farina di mais

bianca / 250 ml acqua / 10 g di sale / olio di semi di arachide q.b. PREPARAZIONE 1. Mettete la farina di mais in una ciotola capiente e aggiungete l’acqua a poco alla volta, mescolando prima con un cucchiaio e poi con le dita, fino ad ottenere un composto compatto ed omogeneo. Avvolgetelo nella pellicola e lasciatelo riposare per 30 minuti lontano da fonti di calore. 2.

Trascorsi i 30 minuti, dividente l’impasto in sei parti e, una alla volta, stendetele con l’aiuto di un matterello fino a ricavare una sfoglia molto sottile.

3.

Aiutandovi con un piatto ritagliate un cerchio perfetto, dopodiché, con l’aiuto di un coltello o di un tagliapasta, dividetelo in otto spicchi.

4.

Mettete a scaldare l’olio di semi di arachide e, una volta raggiunta la temperatura di 180°C, friggete le tortillas chips girandole durante la cottura. Una volta cotte adagiatele su della carta da cucina assorbente e poi in una ciotola. Servitele calde accompagnate da una o più salse!

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Uno tira l'altro

FRIGGIAMO I CECI

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per un aperitivo sfizioso!

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Che i ceci siano uno fra gli alimenti più antichi consumati dall’uomo lo sappiamo tutti. Pianta originaria dell’Oriente e coltivata già ottomila anni fa, si è diffusa dapprima in Egitto come cibo destinato agli schiavi, successivamente in tutto il Mediterraneo. Nell’antica Roma troviamo numerosi poeti che raccontano di ciò che veniva consumato nei convivi. In special modo Orazio, vissuto nel I secolo a. C., scrive molti testi poetici dedicati al racconto e all’esaltazione di uno stile di vita modesto che riguarda la scelta delle tipologie di cibi. I ceci sono l’emblema di questo stile. Erano così amati che si credeva avessero proprietà afrodisiache. Plinio scrive che quelli candidi chiamati “ceci di Venere” venivano offerti durante alcuni di incontri riservati alle donne, “pervigilia Veneris”, dove si presume venissero celebrati riti orgiastici. Anche Galeno attribuisce qualità afrodisiache a queste piante erbacee. Come le fantomatiche proprietà afrodisiache possano conciliarsi con le numerose e abbondanti ventosità intestinali che i ceci provocano (lo sappiamo tutti, ahimè) è un mistero. I ceci sono una fonte di proteine, carboidrati, fibre e grassi salutari. Contengono anche una varietà di vitamine e minerali, tra cui ferro, fosforo, potassio, magnesio, vitamina B6 e acido folico. Sono ricchi di antiossidanti e possono contribuire a ridurre il rischio di malattie croniche. 100 grammi di ceci (che vanno pesati sempre da crudi) contengono circa 160 calorie, 6 grammi di proteine, 26 grammi di carboidrati, 5 grammi di fibre e 2 grammi di grassi. I ceci sono anche ricchi di acido fitico. Una molecola che un gran numero di specie vegetali utilizza per accumulare fosforo nei semi e nelle parti fibrose durante la maturazione della pianta. Esiste una estesa letteratura scientifica sulla capacità dell’acido fitico di inibire l’assorbimento di alcuni minerali, in particolar modo ferro, zinco, calcio e magnesio (ma la questione è controversa, perché esistono altrettanti studi scientifici atti a dimostrare come l’acido fitico abbia un ruolo protettivo nei confronti di diverse patologie.) Tuttavia, niente panico: i fitati sono solubili in acqua, e per i legumi è possibile ridurne il contenuto tenendoli in ammollo, per circa 12 ore cambiando l’acqua due o tre volte. In generale, possiamo dire che i ceci sono sicuri per la maggior parte delle persone quando vengono consumati in modo moderato.

g di ceci secchi / un cucchiaino di Rub Tennessee della linea Sal’s Seasoning / due cucchiaini di Ancho Habanero Chili mex della linea Sal’s Seasoning / un cucchiaino di Ultimate SPOG della linea Sal’S seasoning / olio di semi di arachide q.b. PREPARAZIONE 1. Mettete i ceci in ammollo per 12 ore, cambiando l’acqua due volte. 2.

Trascorso questo tempo, fate bollire i ceci in acqua leggermente salata. Scolateli una volta cotti, lasciandoli al dente.

3.

Disponeteli su una teglia da forno e metteteli ad asciugare in modalità ventilata per circa un’ora alla temperatura di 80°C. Devono essere perfettamente asciutti.

4.

Nel frattempo, frullate insieme le polveri per ottenere un unico rub omogeneo.

5.

Scaldate l’olio di semi a una temperatura di 180°C e poi mettete a friggere i ceci, a fuoco abbastanza dolce.

6.

Quando saranno dorati e avranno ridotto il loro volume, scolateli, passateli su un foglio di carta assorbente.

7.

Conditeli con il rub e serviteli. BBQ4All Magazine

E veniamo al nostro aperitivo: i ceci fritti. Per tornare ad Orazio, il poeta ci lascia una testimonianza secondo la quale nell’antica Roma fosse una pratica comune quella di friggerli nell’olio d’oliva. Di certo, questo delizioso stuzzichino viene preparato in tutta la Puglia soprattutto per le feste. Sono molto legati alla festa di Santa Lucia di Ruvo di Puglia, dove sono chiamati “Ceci fritti nel tufo” anche perché in passato era abitudine prepararli ricoprendoli di polvere di tufo e gettandoli su una pentola attendendo che saltassero. L’unica cosa a cui si deve stare attenti è quella di asciugarli bene, perché sapete che l’umidità è nemica della frittura. Per questo motivo, abbiamo pensato di tenerli ad asciugare un po’ nel forno a 80°C in modo da disidratarli in superficie e rendere la frittura più facile e veloce. Una volta fritti potete aromattizzarli come meglio credete: noi abbiamo usato i nostri rub per dare una spinta di sapore interessante. Provateli!

Ingredienti per 4 persone: 500

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SUA MAESTÀ LA

LASAGNA AL RAGÙ

La più buona del Reame. Le lasagne sono la preparazione che non manca mai sulle tavole italiane per ogni tipo di festività. Declinate in tantissime varianti, rappresentano per tutti un ricordo d'infanzia, legato alle occasioni in cui ci si riuniva con la famiglia e la nonna che si alzava prestissimo la mattina per prepararle in dosi da battaglione. Il profumo del ragù che sobbolliva piano invadeva tutta la casa e, una volta pronto, era fantastico assaggiarlo “al naturale”, magari con una fetta di pane casereccio!

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Ogni regione ha la sua variate di ragù e ogni famiglia ha poi il suo personale adattamento. È indubbio però che le più famose in Italia sono le lasagne alla bolognese.

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La storia delle lasagne alle bolognese risale all’epoca greco-romana. Con il termine greco “laganon”, infatti, e con il latino “laganum” si indicavano delle sfoglie quadrate o rettangolari, ricavate da un impasto di farina di grano, cotte sul fuoco e farcite con della carne. Erano comunque molto diverse dalla versione che conosciamo oggi: Isidoro di Siviglia, teologo, scrittore e arcivescovo spagnolo autore delle Etymologiae sive Origines, considerate la prima enciclopedia della cultura occidentale, parla di una pasta pasta prima bollita e poi fritta ed alternata a pasticci di carne varia oppure cotta al forno con strati di carne macinata. Il formaggio comparve solo nel XIV secolo, quando la ricetta venne codificata in un ricettario della Corte Angioina di Napoli: il Liber de Coquina. La diffusione durante questo periodo rese le lasagne talmente celebri che numerosi poeti dell’epoca le decantarono: Jacopone da Todi in Umbria, Cecco Angiolieri in Toscana, fra’ Salimbene da Parma. Durante il periodo rinascimentale, la ricetta fu cambiata utilizzando la pasta all’uovo anziché la pasta di farina grano semplice.

Successivamente si diffuse l’uso delle lasagne a strati e nel 1881 fu introdotto il pomodoro. Infine il successo della lasagna alla bolognese con la sfoglia verde viene sancito nel 1935 da Paolo Monelli con Il ghiottone errante. La vera ricetta delle Lasagne alla bolognese è stata depositata nel 2003 dall’Accademia Italiana della Cucina presso la Camera di Commercio di Bologna e prevede proprio la sfoglia di pasta verde, con gli spinaci. Tuttavia, esistono mille versioni diverse delle lasagne. Fra le più famose ricordiamo la versione siciliana, quella ligure e quella napoletana. Le lasagne alla siciliana si arricchiscono di mozzarella e prosciutto cotto. Il ragù è diverso sia da quello alla bolognese, sia da quello alla napoletana. Qui si aggiungono i piselli e aromi di cucina come alloro e basilico. Ovviamente non possono mancare versioni con la melanzana. Le lasagne liguri sono, ovviamente, quelle dove il pesto sostituisce il ragù e sono conosciute alche come lasagne alla Portofino, anche se in realtà si tratta di una ricetta diversa. Infine, la versione napoletana: conosciute anche come lasagne di Carnevale, si tratta di un piatto ricco, ricchissimo, molto diverso dalla versione bolognese (oltre al ragù alla napoletana, si inseriscono ricotta, polpette e uova sode). Pare che Federico II di Borbone ne fosse ghiottissimo, al punto da essere soprannominato Re Lasagna. Veniamo dunque alla nostra versione, più simile a quella bolognese, prevede però un sugo fatto con la carne di solo manzo buona e selezionata del nostro Megastore. Provatela e non tornetete mai più indietro!


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Ingredienti per 4 persone per la sfoglia: 5 uova / 500 g di farina 00 per il ragù: 800 g di Eye Round GLC Top Selection / un gambo di sedano / una carota / una cipolla / 200 g di pancetta / 3 cucchiai di doppio concntrato di pomodoro / 200 g di passata di pomodoro / olio extravergine di oliva q.b. / sale e pepe q.b. / un bicchiere di vino bianco secco / 1 L di brodo vegetale o di manzo per la besciamella: 1 L di latte intero / 100 g di burro / 100 g di farina / sale q.b. / noce moscata a piacere per completare: burro q.b. / Parmigiano Reggiano a piacere

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PREPARAZIONE 1. Macinate o fatevi macinare la carne; preparate un soffritto con sedano, carota e cipolla. In un tegame scaldate l’olio aggiungete il soffritto, fate rosolare dolcemente, aggiungete la pancetta tritata finemente e, dopo un minuto, la carne macinata. Fate rosolare a fiamma alta.

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2.

Bagnate col vino bianco e fate evaporare, aggiustate di sale e di pepe e poi unite la passata di pomodoro e il concentrato disciolto in poco brodo. Mescolate bene, bagnate con un mestolo di brodo, fate riprendere il bollore e coprite il tegame, facendo cuocere il tutto a fiamma dolcissima.

3.

Preparate la pasta: su una spianatoia impastate gli ingredienti a mano (oppure utilizzate la planetaria) fino ad ottenere una pasta omogenea, liscia ed elastica. Mettetela in un sacchetto di plastica per alimenti ben chiuso e fatela riposare per almeno un’ora a temperatura ambiente.

4.

Stendete la sfoglia portandola ad uno spessore non troppo sottile. Con un coltello ben affilato o una rotella tagliapasta, ricavate dei rettangoli dalle dimensioni appena inferiori a quelle della teglia.

5.

Portate a ebollizione una pentola piena d’acqua salata. Lessate un rettangolo di pasta alla volta e quando salirà a galla trasferitelo in una ciotola con acqua fredda. Scolateli e tamponateli bene con un canovaccio.

6.

Preparate la besciamella: sciogliete farina e burro a fuoco molto basso, mescolando con una frusta a mano.

7.

Aggiungere a filo il latte, pochissimo alla volta, e continuate a girare con una frusta a mano.

8.

Aggiungete il sale e la noce moscata, e continuate a girare il tutto su fuoco medio, finché non avrà raggiunto il bollore e la besciamella sarà liscia, corposa e cremosa.

9.

Quando il ragù sarà pronto (ci vorranno circa due ore e mezzo) imburrate una teglia e poi assemblate le lasagne a strati: pasta, ragù, besciamella e Parmigiano Reggiano. Continuate così finché non avrete finito gli ingredienti.

10. Accendete il forno a 180°C e infornate le lasagne, lasciandole cuocere per circa 40 minuti. 11. Sfornate, fate assestare per 5 minuti e servite le vostre lasagne.


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Dorata, croccante e milanese fino all’osso:

LA COTOLETTA

La cotoletta alla milanese, famosa in tutta Italia e all’estero, è uno dei simboli della vivace e frenetica metropoli lombarda. Non c’è ristorante meneghino, dal più economico allo stellato, che non la proponga nel suo menù. Ha perfino una giornata tutta sua in cui viene festeggiata: il 17 Gennaio, data stabilita dall’AIFB (associazione italiana food blogger) quando, nel 2016, ha inserito la cotoletta alla milanese nel suo progetto “Il Calendario del Cibo italiano”. Come molte altre ricette, anche la cotoletta alla milanese è al centro di una diatriba sulla paternità: nel caso specifico, a contendersela sono Italia, Austria e Francia. Gli austriaci affermano che la Milanese sia la rivisitazione della Wiener Schinitzel, fetta sottile di carne di vitello o di maiale impanata e privata dell’osso, cotta senza l’uso delle uova e fritta nello strutto. A loro volta i francesi sostengono che la dorata cotoletta si sia rifatta ad una ricetta d’Oltralpe nata intorno al 1750, importata con il nome di cotôlette rivoluzionarie (cotoletta rivoluzionaria) dai cuochi di Maria Luisa D’Asburgo, moglie di Napoleone. Il punto definitivo all’interminabile discussione fu posto il 17 Marzo 2008 dal Comune di Milano, il quale con delibera della Giunta ha assegnato la denominazione comunale (De.Co.) alla cotoletta alla milanese, basandosi su un’importante fonte: questa pietanza semplice e gustosa, veloce da preparare, ha allietato i banchetti dei ricchi o delle festività importanti fin dal lontano Medioevo, come testimonia Pietro Verri (massimo esponente dell’Illuminismo italiano) nella sua “Storia di Milano”, riportando che nel menù del pranzo organizzato dai canonici della Basilica di Sant’Ambrogio il 17 Settembre del 1134 erano presenti i lombolos cum panitio, ovvero gli antenati della cotoletta alla milanese. Insomma, ‘sta benedetta cotoletta veniva mangiata fin dal Medioevo! Pare, infatti, che i medici medievali prescrivessero l’assunzione di oro puro come cura per le malattie cardiovascolari e che la borghesia milanese fosse solita cospargere di polvere d’oro le vivande. Successivamente, però, complice anche il costo elevato del metallo, la polvere d’oro venne sostituita da due ingredienti che sono poi diventati gli elementi chiave della cucina meneghina: lo zafferano e il pangrattato. Ed ecco qua come è nata la nostra amica cotoletta! Austriaci e francesi se ne facciano una ragione.

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Secondo il pensiero comune, la cotoletta corrisponderebbe ad una fettina di carne sottile e magra (bovino, suino o pollame), impanata e fritta nel burro. Vi assicuriamo che la vera milanese è tutt’altra cosa. La tradizione vorrebbe una costoletta di lombata di vitello ricavata dal carré, nello specifico dalle prime sei costole che hanno la giusta percentuale di grasso. Lo spessore è di circa 2 cm e il peso si aggira sui 250 grammi. La carne viene prima battuta leggermente per uniformarne la superficie dopodiché viene immersa nell’uovo sbattuto, poi passata nel pangrattato e alla fine cotta in abbondante burro, per ottenere una frittura asciutta e croccante.

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Noi però faremo una nostra versione, utilizzando la carne selezionata del nostro Megastore e la doppia panatura: provate questa versione e non tornerete più indietro!


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Ingredienti per 4 persone: 4 Rump Steak di Black Angus del

nostro Megastore / 250 g di burro chiarificato / due panini raffermi da 250 g l’uno / 4 uova / 120 g di farina di riso / 90 g di amido di riso / 500 ml di acqua (dose indicativa) / 100 g di Parmigiano Reggiano grattugiato / Rub Montreal Steak della linea Sal’s Seasoning q.b / sale q.b.

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PREPARAZIONE 1. In una boule, formate una pastella fatta dalla farina di riso, dall’amido di riso, da 6 g di sale e dall’acqua. Mescolate fino a farla diventare della giusta consistenza, né collosa ma nemmeno liquida.

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2.

Mettete a tostare i panini nel forno alla temperatura di circa 180°C. Quando saranno belli tostati tritateli con un mixer.

3.

Versate in un piatto metà del pangrattato ottenuto, un po’ di sale, un cucchiaino di rub, il Parmigiano Reggiano e mescolate bene bene.

4.

Immergete le cotolette nella pastella e poi passatele nella miscela col pangrattato, premendo leggermente, in modo che il pane si attacchi bene alla superficie.

5.

Mettete le cotolette impanate in frigorifero per 15 minuti.

6.

Sbattete la uova con un pizzico di sale: riprendete le cotolette dal frigo, passatele nell’uovo e di nuovo nel pangrattato con rub, sale e parmigiano.

7.

A questo punto, mettete le cotolette su un vassoio senza sovrapporle e riponetele in freezer per 20 minuti. La panatura sarà perfetta!

8.

Fate sciogliere il burro in una padella e cuocete le cotolette: la cottura non deve avvenire per immersione. Quando entrambi i lati della cotoletta saranno belli dorati, toglietela dalla pentola e asciugate il grasso in eccesso con la carta assorbente. Servitela calda.


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IL GYUKATSU

L'evoluzione della cotoletta:

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Sarebbe molto facile, per noi italiani, ironizzare sulla parola ”katsu”. Sarebbe facile buttarla in caciara, con tanto di risatine e battutine cringe che piacciono tanto a chi ancora non ha superato l’adolescenza.

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Ma no, noi siamo professionali e vi invitiamo a trovare la giusta serietà per leggere l’articolo con interesse, senza facile ironia.


Fatta la dovuta premessa, possiamo finalmente porvi la fatidica domanda: sapete cos’è il katsu? In Giappone, con questo termine si intende una cotoletta: katsu è l’abbreviazione di katsuretsu, termine mutuato dall’inglese cutlet ovvero cotoletta. Abbiamo già parlato su questo Magazine del Tonkatsu. È una bistecca, di maiale, panata nel panko e fritta. Qualche numero fa abbiamo anche presentato il Chicken Katsu, che è la stessa cosa ma fatta col pollo. Ebbene il Gyukatsu è l’equivalente ma con carne bovina. È una preparazione davvero recentissima anche per i Giapponesi. Le tracce più "vecchie" risalgono al 2015. Si prepara partendo da fette abbastanza sottili di Wagyū giapponese. Si immergono in una pastella di acqua e farina, si impanano nel panko e si cuociono friggendole in immersione in abbondante olio. Inutile dire che sono due le cose fondamentali da tenere presenti in questa preparazione: la carne e la frittura. Per quanto riguarda la frittura, dovete solo applicare due malizie per ottenere un risultato strabiliante: una sul modo di panare la fettina di carne, l'altro sul modo di cuocerla. Volete una crosta scrocchiarella come il vetro? Vi serve una doppia panatura. Per impanare, vi serve una pastella, le uova e il panko, il pangrattato giapponese. La procedura è semplice: passate la fettina di Wagyū nella pastella e poi nel panko. A questo punto dobbiamo attendere almeno un quarto d'ora. È un'attesa fondamentale. Nel frattempo sbattete le uova in un terrina: dovete sfruttare il loro potere legante e apportare grasso e sapore. Passate le fette già panate nell’uovo e poi di nuovo nel panko. A questo punto mettetele in freezer per 15 minuti. Le fettine sono così pronte per essere fritte nell’olio bollente a immersione. Per quello che riguarda la carne, il nostro Mgastore è la soluzione: avete mai provato la nostra selezione di Shabu Shabu- Sukiyaki Japan Shimofuri Farms Wagyu Kuroge? Probabilmente siete abituati ad associare il Wagyu giapponese al Miyabi o al più blasonato Kobe. Con livelli di marezzatura estremi. Questa gioca uno sport tutto suo. Ha una marezzatura più simile ad un wagyu australiano o americano ma nasce, vive e cresce completamente immersa nei disciplinari mostruosi del Giappone. I tagli caratteristici per Shabu Shabu e Sukiyaki sono quelli più gustosi e manzosi, come beef ribs, tri-tip. Tagliare sottilmente questi tagli controfibra li rende automaticamente più teneri. Questo significa che cuoce molto più velocemente, permettendo di gustare una bontà robusta e ricca di umami in breve tempo di cottura.

di Shabu Shabu - Sukiyaki Japan SHIMOFURI FARMS Wagyu Kuroge / 240 g di farina di riso / 180 g di amido di riso / 12 g di sale / 1 l di acqua. / 4 uova / panko q.b. / olio di semi di arachidi q.b. PREPARAZIONE 1. P r e p a r a t e l a p a s t e l l a , immergeteci la carne e poi passatela subito nel panko. Fatta questa prima panatura mettete la carne in frigorifero per almeno 15 minuti, per farla aderire bene. 2.

Nel frattempo sbattete 4 uova in un terrina. Togliete la carne dal frigo, passate le fette già panate nell’uovo e poi di nuovo nel panko.

3.

Disponete le cotolette su un vassoio (su un unico strato) e mettetele in freezer per 15 minuti.

4.

Scaldate l’olio di semi di arachidi a 190°C e friggete le fette in immersione. Quando sono dorate, toglietele dal fuoco e passatele su carta assorbente.

5.

Tagliatele a striscioline della dimensione di un boccone e provatele insieme a Wasabi e soia.

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A questo punto siete pronti per il vostro Gyukatsu. Se seguirete i consigli, vi troverete nel piatto una sottilissima cotoletta con la crosta perfettamente croccante all’esterno e la carne all’interno che letteralmente si scioglierà in bocca.

Ingredienti per 4 persone: 4 fettine

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God Save The Queen

LA POLPETTA FRITTA

Una cosa è certa: le polpette si fanno ovunque, in Italia e nel mondo, perché rappresentano un’icona capace di dimostrare la diversità culturale e geografica, conservando caratteristiche di low cost e poche calorie. Tutto ciò ha consentito la loro diffusione un po’ ovunque.

POLPETTE IN GIRO PER IL MONDO

Sarebbe praticamente impossibile dare un elenco completo ed esaustivo di tutte le varianti di polpette che vengono preparate nel mondo, ma proviamo almeno a ricordare quelle più famose. Negli Stati Uniti, le meatballs (“palle di carne”) vengono accostate a piatti di origine italoamericana. Un’insolita variante è la porcupine meatball (“polpetta porcospino”), che prevede l’utilizzo di riso in fase preparativa. Nel Regno Unito si cucinano le faggot, piccole polpette speziate a base di carne di maiale, cuore, fegato e pancetta, aggiunte a erbe aromatizzate e pangrattato. In Portogallo, come in Brasile, le polpette sono chiamate almondegas: fritte, si servono insieme al riso. In Spagna, come in buona parte dell’America Latina, le polpette prendono il nome di albondigas (dall’arabo “oggetto rotondo”) e vengono abitualmente servite, accompagnate da salsa di pomodoro, come antipasto o portata principale. In Germania esistono molteplici nomi per definire le polpette, ma tra le varianti più conosciute ci sono le kònigsberger klopse, che vengono preparate con acciughe o aringhe saltate e servite con salsa di capperi. In Grecia, col nome di keftedes, le polpette contemplano carne macinata di diversa tipologia, cipolle e foglie di menta. La variante al forno, chiamata yuvarlakia, prevede la presenza di riso.

POLPETTE DI CASA NOSTRA

E poi ci sono le polpette più buone, quelle che ognuno di noi porta nel cuore e che nessuna cultura gastronomica potrà battere: le polpette della nonna. Tutti ne abbiamo dei ricordi bellissimi e indelebili: chiudiamo gli occhi e già ci ritroviamo in una cucina di qualche anno fa, a pescare dalla ciotola delle sfere calde calde, per non dire fumanti. Vi siete mai chiesti perché le polpette sono tanto amate? Per diversi motivi, ma il primo è sicuramente per le note di gioia ed allegria che portavano con sé quando giungevano in tavola. Morbide, sugose, profumate, a volte un po’ croccanti, altre volte con delle sfumature tradivano le loro intimità, svelando al palato più fine i preziosi ingredienti dell’amalgama: il battuto di manzo o di vitello, il petto di pollo o di tacchino, il lombo di maiale, la polpa di agnello, il formaggio, specie il Grana col suo gusto inconfondibile e determinante, le uova, il prezzemolo, la noce moscata, il prosciutto, la mortadella e...il pane ammorbidito nel latte! Non nascondiamoci dietro a un dito: ancora si legge in giro sui social gente indignata se si osa mettere in dubbio l’utilità del pane ammollato nel latte. D’altronde, la nonna le ha sempre fatte così e, come dicevamo poc’anzi, niente batte le polpette della nonna! Ma è davvero così necessario il pane col latte nelle polpette? È così necessario l’uovo? Sarebbe possibile fare polpette di sola carne che siano buone e non dure?

LE PROPORZIONI DELLA POLPETTA PERFETTA

Partiamo rispondendo alla prima domanda: ci va il pane ammollato nel latte nelle polpette perfette? Quelle della nonna, in effetti erano buonissime! Tuttavia dobbiamo ricordare che ai tempi delle nostre nonne le variabili erano moltissime. Le famiglie erano molto più numerose rispetto a quelle di oggi, la carne era costosa e scarseggiava. Scegliere di “allungare” le polpette con il pane era sicuramente

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In Cina, specie nella cucina tradizionale di Shanghai, sono solitamente preparate con carne di maiale cotta al vapore o bollita, con l’aggiunta di salsa di soia. Vengono denominate “testa di leone”per la loro particolare grossezza, che varia dai cinque ai dieci centimetri. Nelle zuppe si utilizzano varianti più piccole, chiamate “palle di maiale”, mentre nella cucina cantonese vengono realizzate con carne di manzo cotta al vapore e servite con parte della cucina dim sum. In Giappone, preparati con carne di manzo, si possono gustare gli hanbagu, sorta di polpetta/

hamburger dove alla carne si aggiunge il pangrattato (panko) bagnato nel latte e un trito di cipolle sauté.

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una scelta felice a livello nutritivo ed economico. Inoltre, a quel tempo non avevano tanto la possibilità di star lì a scegliere quale taglio di carne fosse più o meno adatto per il e nemmeno di calcolare perfettamente le proporzioni tra magro e grasso. Magari usavano carne non di altissima qualità. Per tutti questi motivi, forse il gusto della sola carne veniva percepito troppo intenso e quindi si sceglieva di stemperarlo col pane e il latte. Oggi avete la possibilità di scegliere di non metterlo ottenendo comunque polpette morbide. Non c’è alcuna motivazione scientifica secondo la quale saranno morbide solo mettendo il pane ammollato nel latte. Il segreto è appunto nella proporzione magro:grasso della carne che andiamo a utilizzare; la carne macinata poi dovrà avere anche la quantità giusta di collagene. Il collagene, che si scioglierà grazie alla cottura prolungata, eviterà di farvi mangiare polpette asciutte e stoppose.

Ingredienti per 4 persone: 1 kg di Chuk Roll del nostro

Megastore macinato / 100 g di Parmigiano Reggiano / 4 spicchi d’aglio / un generoso ciuffo di prezzemolo / 15 g di sale / pepe a piacere / tre cucchiai di fecola di patate / olio extravergine di oliva q.b. PREPARAZIONE 1. In una boule capiente, unite la carne macinata al Parmigiano, a un trito finissimo di aglio e prezzemolo (tritate anche i gambi del prezzemolo!), al sale, alla fecola di patate e al pepe. 2.

Mescolate tutto molto bene avendo cura di formare un composto omogeneo e profumato.

3.

Ora arriva la parte divertente: create le polpette. Non esiste una dimensione adatta, c’è chi fa sfere lisce che entrano nel palmo di una mano e chi le fa piccole-piccole. Diciamo che una via di mezzo non guasta: delle polpette di buone dimensioni potrebbero essere quelle che entrano comodamente al centro del palmo della mano.

4.

Scaldate l’olio in una padella capiente e quando sarà arrivato a 180° C mettete a friggere le polpette: aspettate che si formi la reazione di Maillard e che il profumo investa tutta la casa a scolate le polpette passandole nella carta assorbente.

5.

Servitele calde insieme a una buona salsa di accompagnamento...oppure buttatele nel sugo, per un’esperienza ancora più goduriosa!

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La scelta ricadrà quindi sui tagli ricchi di collagene e su un macinato composto da 80% di parte magra e 20% di parte grassa.

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E le uova? In realtà esistono altri modi per legare l’impasto senza aggiungere l’uovo. Bastano due cucchiai di amido di mais per ogni kg di carne. Ma va bene anche la fecola di patate, che oltretutto vi farà ottenere una crosticina molto più croccante. Se invece volete mettere l’uovo, dovete tenere conto che state aggiungendo una variabile importante, perché la consistenza cambia in modo significativo in base alla temperatura di cottura finale. Nel caso in cui si decida di usare l’uovo, la soluzione migliore è arrivare allo stadio completo di coagulazione della conalbumina lasciando inalterate le lipoproteine del tuorlo e dell'ovalbumina. Per dirla in parole povere: non si dovrebbero superare i 65°. Il problema è che molti non possono tollerare l’idea di avere uovo crudo nell’impasto, oppure magari hanno scelto di utilizzare carne mista, anche di maiale, che non consente di fermarsi così presto con la cottura. Quindi, forse, è il caso di provare a cucinare una polpetta senza l’uovo, senza il pane e il latte, che sappia di carne e che non sia dura. Sfida accettata? Dai! Seguite la ricetta e provateci con noi!


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HASH BROWNS

patate a colazione!

Le Hash Browns, chiamate anche hash brown potato, sono deliziose frittelle a base di patate grattugiate che negli Usa vengono servite come accompagnamento per la colazione o per il brunch. Possono essere servite anche con uova fritte o strapazzate, e con l’immancabile bacon. L'Oxford English Dictionary ha menzionato per la prima volta le patate hash browns nel 1917 dando per certa la loro origine statunitense. In realtà la frittura degli scarti delle patate ha una storia molto più antica, che nasce dall’Europa. Vi sarete senz’altro accorti dell’incredibile somiglianza tra il rösti svizzero e l’hash brown. In effetti le due preparazioni sono davvero molto simili, ma presentano comunque alcune differenze: per preparare il rösti si parte dalle patate crude e si usano poche spezie (sale, pepe, un po’ di rosmarino). Le hash brown invece sono molto più speziate e sono preparate partendo dalle patate bollite. In effetti non si sa chi abbia portato questa ricetta in America, l’origine del piatto è abbastanza fumosa. Si presume quindi che l’OED si riferisca al solo nome “hash brown” quando sostiene che sia nato negli USA.

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Le patate hash browns devono essere piccole frittatine speziate e croccanti. Naturalmente, va da sé che la doratura è fondamentale, altrimenti sono solo patate schiacciate imbevute d’olio...non proprio irresistibili! Quando diciamo “irresistibili” intendiamo delle frittelle dorate, croccanti, molto calde, molto asciutte. Il rischio, quando si cucinano, è quello di farle diventare spugne sporche imbevute di grasso (in questa versione, ahimè, molto presenti nelle colazioni degli hotel Oltreoceano).

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Qual è il segreto, dunque? Facile: utilizzare patate adatte alla frittura! Come ben sapete, non tutte le patate sono uguali. Scegliere quale varietà di patata sarà più adatta dipende dal livello di amido e di umidità di cui avrete bisogno. Quelle da preferire sono le patate a pasta gialla e le patate a buccia rossa: le prime sono poco farinose e più compatte e hanno un basso contenuto di amido, le seconde presentano una polpa molto densa e resistente, dunque si prestano bene alla frittura.

Ingredienti per 4 persone: 500 g di

patate a pasta gialla / olio di semi di arachide q.b. / un cucchiaio e mezzo di fecola di patate / sale e pepe q.b. / Ancho Habanero Chili Mex della linea Sal’s Sesasoning q.b. PREPARAZIONE 1. Sbucciate le patate e lessatele per 10 minuti in acqua leggermente salata. Poi toglietele dall’acqua e tenetele ad asciugare per un paio d’ore in un canovaccio. 2.

Grattugiate le patate con una grattugia a fori grossi e riunite il tutto in una ciotola.

3.

Incorporate la fecola, una presa di sale, un po’ di rub e mescolate bene il tutto.

4.

Su una teglia rivestita di carta forno formate delle frittelle utilizzando un cucchiaio e schiacciandole un po’ con le mani.

5.

Mettetele a riposare in frigorifero per 30 minuti.

6.

Scaldate l’olio di semi a circa 180°C e friggete delicatamente le frittelle di patate grattugiate, girandole delicatamente un paio di volte.

7.

Quando saranno dorate e croccanti, scolatele su carta assorbente. Servitele subito calde.

Cose da non fare: non aggiungete uova al composto, per paura che non stia insieme, perché vi allontanereste troppo dalla ricetta originale; non friggetele senza aspettare che l’olio abbia raggiunto la temperatura ideale.


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BBQ INDOOR

COSTINE AFFUMICATE

DA APPARTAMENTO

Per quando abbiamo voglia di bbq, ma senza prendere freddo

Forse qualcuno di voi si è recentemente trasferito in un monolocale di Milano, e ogni mattina guarda le nuvole dalla sua piccola scatola nel cielo. Forse qualcun altro risiede in un palazzo signorile di Venezia, con battenti a testa di leone a decorare il portone d'ingresso. Che viviate in una villetta in campagna o in un palazzo a cinque piani di una grande metropoli non fa alcuna differenza. Noi riteniamo che tutti abbiano diritto di accendere del carbone, a prescindere dall’indirizzo e soprattutto dal meteo. Ognuno di noi deve poter preparare dei barbecue incredibili, al chiuso, ogni volta che gli va. Anche in pigiama e con Elsa di Frozen che balla nel cortile. Spinti da grande motivazione, abbiamo trascorso ore infinite a capire come sfruttare i punti di forza della cottura sous vide per replicare i risultati del barbecue tradizionale americano: cottura lenta e a bassa temperatura, aroma intriso di fumo, un bel rub rosso per conferire dei colpetti di piccantezza e dolcezza. In fondo il barbecue è tanto un'arte quanto una scienza, e noi modifichiamo continuamente le nostre ricette preferite per ottenere risultati costanti, goduriosi e più facili da replicare a casa. Con questo spirito pioneristico, quindi, vi presentiamo la ricetta delle costine affumicate da appartamento. Queste ribs tenerissime e strategicamente speziate hanno un distinto sapore di affumicato e persino un “finto” smoke ring, l’anello magenta che troviamo generalmente sotto il bark.

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Potete seguire questa ricetta per preparare delle perfette costine in casa, sia che stiate lavorando in un piccolo angolo cottura o in un'attrezzatissima cucina professionale. Su, fate un salto sullo shop o frugate nel congelatore, stasera sperimenterete una nuova versione del barbecue indoor. Pantaloni facoltativi, sapore garantito.

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PRIMA DI INIZIARE

DOMANDE E RISPOSTE

Visto che non posso usare uno smoker (affumicatore) in casa, come faccio a replicare il sapore di affumicato? Facendo un uso intelligente di un ingrediente noto come fumo liquido. Il fumo liquido è un sottoprodotto naturale della combustione della legna. I prodotti emessi da un fuoco di legna sono essenzialmente fumo e vapore; il fuoco produce quindi acqua sotto forma di vapore, e questo vapore può essere condensato a t t r a ve r s o u n tubo raffreddato, catturando quindi il fumo. Quando il liquido risultante viene distillato in un concentrato e filtrato dalle sue impurità (fuliggine e cenere), otteniamo una sostanza dal colore ambrato che viene imbottigliata e venduta per aromatizzare le pietanze. Voglio cuocere le costine durante la notte. Posso lasciarle in acqua per più di quattro ore? Certo che sì. Lasciale immerse fino a otto ore e non faranno una piega.

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Leggo che spesso si suggerisce l’utilizzo di sacchetti con la chiusura zip, ma ho notato che a volte le giunture di questi sacchetti possono rompersi a causa delle alte temperature. Mi spiegate perché?

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Quando la temperatura di cottura supera i 70 °C e si cuoce qualcosa di pesante, voluminoso o “tagliente” (carne con osso) è meglio optare per un sacchetto classico da sottovuoto. Questo perché le saldature dei sacchetti tipo ziplock possono rompersi se immersi in acqua troppo calda.

Sous vide: cos'è? E cosa c’entra con il barbecue?

Per cucinare in sous vide si utilizza uno strumento chiamato circolatore a immersione, un cilindro riscaldato che porta la temperatura dell'acqua alla temperatura finale della carne con una precisione chirurgica. In parole p o v e r e , con questa tecnica la carne non può stracuocere, e il risultato finale è non solo replicabile, ma anche prevedibile. Senza contare che le carni cotte sottovuoto possono rimanere immerse nell'acqua fino a quando non siamo pronti a rifinirle e servirle. Quella in sous vide è una tipologia di cucina senza stress che vi permette di concentrarvi sui contorni o di rilassarvi, tranquilli e consapevoli che il risultato sarà sempre perfetto. Per tagli come le costine e la punta di petto poi, rappresenta una vera svolta. Questi tagli, tenaci per definizione, hanno un sapore eccezionale, e se li cuocete troppo velocemente e a temperature troppo elevate possono risultare duri, fibrosi oppure gommosi. Con la cottura sous vide dovete solo scegliere la temperatura che corrisponda esattamente alla consistenza che desiderate: cuocerete le costolette a quella temperatura e le manterrete fino a cottura ultimata, ottenendo una carne prevedibilmente straordinaria, ogni volta. Sono finiti i risultati incerti della cottura tradizionale all'aperto. Quando avete bisogno di prepare delle ribs perfette al primo colpo, questa è la strada giusta da percorrere.


INGREDIENTI (per due slab) • • • • • • • • • • • •

150 g sale (diviso) 5 g Pink Salt o Prague Powder o InstaCure* 150 g melassa o miele 75 g fumo liquido 3 kg ribs di maiale taglio St. Louis o Baby back (2 slab) 100 g paprika 50 g semi di senape 30 g aglio granulare 25 g pepe nero 10 g cipolla granulare 10 g semi di cumino 200 g zucchero di canna

*è una miscela di colore rosa utilizzata per la stagionatura di carni, salsicce, pesce e carne secca. Contiene il 6,25% di nitrito di sodio e il 93,75% di cloruro di sodio COSA VI SERVE: • Dispositivo per la cottura sous vide • Pennello • Sacchetto con chiusura zip • Macinaspezie • Forno TEMPO Circa 4 ore e 30 minuti

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#01. PRERISCALDARE IL SOUS VIDE A 72 °C #02. PREPARARE LA MISCELA DI SALE (50 g sale / 5 g Pink Salt o Prague Powder o InstaCure) Mescolate il sale e il sale rosa in una ciotola. Verificate che siano completamente combinati, altrimenti potreste ritrovarvi con parti più o meno “conciate” rispetto ad altre. Non è la fine del mondo, sia chiaro, ma non è nemmeno del tutto gradevole. #03. PREPARARE LA GLASSA AFFUMICATA (150 g melassa o miele / 75 g fumo liquido) Unire la melassa (o il miele) e il fumo liquido in una ciotola e mescolare. #04. ELIMINARE LA PLEURA (LA MEMBRANA NELLA PARTE INFERIORE DELLE COSTINE) (3 kg ribs di maiale taglio St. Louis o Baby back - 2 slab) Sul lato inferiore (concavo) delle costine, c'è una sottile membrana traslucida, la pleura, che si può staccare molto facilmente. Utilizzate un canovaccio asciutto o un tovagliolo di carta per afferrarla a un'estremità e tirarla via. Per facilitare l’operazione potete aprire un varco tra ossa e pleura con il retro di un cucchiaino. NOTA: perché farlo? Perché la pleura diventa dura e gommosa quando si cucina a fuoco lento, come in questo caso. #05. CONDIRE LE COSTINE CON LA MISCELA DI SALE Condite ogni costoletta con l'1% del suo peso con la miscela di sale di cui sopra. È importante applicare il mix in modo uniforme, per distribuire il sale su tutta la superficie. Questo è essenziale per ricreare l’effetto smoke ring. Lasciate riposare le ribs condite per circa 10 minuti per permettere al sale di fare il suo effetto.

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#06. PENNELLARE CON LA GLASSA AFFUMICATA Con il fumo liquido e la melassa, ricoprite le costine dappertutto. E quando diciamo "dappertutto", intendiamo proprio questo: sopra, sotto e ai lati. Conservate la glassa rimanente perché vi servirà.

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#07. CUOCERE IN SOUS VIDE Mettete le costine in sacchetti tipo ziplock e fatele cuocere per quattro ore in un bagno termostatico a 72 °C. Se utilizzate sacchetti piccoli, dovrete tagliare ogni slab a metà e mettere le due porzioni nello stesso sacchetto.


#08. PREPARARE UN PO' DI RUB! Passate tutte le spezie al mixer o al macinaspezie e tritate in maniera grossolana. Unite le spezie macinate con lo zucchero di canna e il sale in una ciotolina e mescolate bene. #09. RIMUOVERE I SACCHETTI DALL’ACQUA Togliete i sacchetti dall'acqua e metteteli sul piano di lavoro. Lasciateli raffreddare brevemente in modo da renderli più facili da maneggiare. Potete anche fare una pausa e mettere le costine in frigo per alcune ore o per tutta la notte prima di ultimare il piatto. #10. PRERISCALDARE IL FORNO A 200 °C Per terminare le costolette, le dovrete passare in forno per farle diventare croccanti e scure, saranno pronte poco prima dell'ora di cena. NOTA: Ricordatevi che i forni variano. Questa ricetta è stata sviluppata utilizzando un forno a convezione con la ventola accesa. Se il vostro forno non dispone di una ventola, provate ad aumentare la temperatura. Il preriscaldamento a 230 °C è un buon inizio, ma può essere opportuno aumentare la temperatura. Tenete d'occhio le ribs e quando sembrano a posto, tiratele fuori. #11.

RISPENNELLARE DI NUOVO CON LA GLASSA Spalmate le costolette su tutta la superficie con dell'altra glassa affumicata. Probabilmente non la userete tutta: potete sempre conservarla in frigo per un secondo momento.

#12. COSPARGERE CON IL RUB Spolverate le costolette su tutta la superficie con il rub. Anche in questo caso, cercate di raggiungere tutte le fessure e gli interstizi per ottenere un risultato impeccabile. #13. FINITURA IN FORNO Posizionate le ribs su una teglia e lasciatele abbrustolire in forno fino a quando non saranno sfrigolanti e deliziose, ci vorranno circa 5-10 minuti. Potete anche finire le costolette sulla griglia o nello smoker, se ne avete uno. Questa ricetta è stata pensata per ottenere costine succose e affumicate in casa, ma se avete accesso ad attrezzature per cucinare all'aperto, tanto vale usarle, no? BBQ4All Magazine

#14. SERVIRE LE RIBS! Tirate fuori le costine dal forno, tagliatele e servitele! I vostri amici ne andranno matti, e voi non avrete preso freddo.

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NETFLIX, DIVANO E...

Anelliin pastella di cipolla La ricetta per snack croccanti più buoni di quelli del fast food

Potendo scegliere tra patatine fritte e anelli di cipolla, la maggior parte dei frequentatori dei ristoranti opta per le patatine, il che è tragico, ma comprensibile. Le patatine sono la scelta più sicura perché sono semplici da preparare: basta tagliare delle patate, friggerle (possibilmente due volte) in olio bollente fino a renderle croccanti e dorate, scolarle e condirle. Sono molto affidabili, più di certe persone. Ordinare gli anelli di cipolla è una scelta più rischiosa. Sebbene siano sublimi nella loro forma migliore - una crosta croccante e leggera che racchiude integralmente un tenero e saporito cerchio di cipolla - potrebbero deludere in molteplici maniere. La crosta può rompersi in frammenti e staccarsi dalla cipolla, privandoti della gioia di assaporare il mix tra esterno croccante e tostato e l'interno morbido. A volte la cipolla trapassa la pastella e, una volta “messa a nudo”, si brucia nell'olio bollente. E infine il vero problema: la cipolla che schizza via al primo morso come una saponetta, lasciandoci masticare nel totale imbarazzo, reggendo un guscio vuoto e unto in mano, per lo più intatto.

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Dopo le troppe esperienze fallimentari fatte al ristorante, abbiamo deciso di sviluppare una ricetta per gli anelli di cipolla fatti in casa a prova di imbranato. Eravamo indecisi tra gli anelli impanati e quelli pastellati, un po’ più leggeri; abbiamo optato per questi ultimi perché li consideriamo la forma più alta che una cipolla possa assumere, con ogni anello perfettamente racchiuso in un involucro immacolato. Volevamo che i nostri snack rimanessero croccanti nel tempo, leggeri e dorati in maniera uniforme, sia per il sapore che per la vista.

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01. PREPARARE LA PASTELLA

Seguendo una ricetta piuttosto semplice per il nostro primo tentativo, abbiamo tagliato due grosse cipolle gialle a rondelle, abbiamo separato gli anelli e li abbiamo messi a bagno in un latticello fortemente aromatizzato per insaporirle. Mentre erano in ammollo, abbiamo preparato una semplice pastella di farina 00, altro latticello, sale e pepe. Abbiamo scolato le cipolle e le abbiamo asciugate. Poi abbiamo ricoperto le cipolle con la pastella, le abbiamo fritte nell'olio caldo e trasferite su carta assorbente per eliminare l’olio in eccesso. Le abbiamo salate leggermente, ma i cristalli sono rimbalzati sul rivestimento liscio della frittura. Sebbene non fossero i peggiori anelli mai assaggiati, erano molto lontani dalla perfezion. Innanzitutto la crosta era densa, dura e poco condita. Inoltre, con nostro grande dispiacere, la cipolla è scappata via . Per risolvere questi problemi, abbiamo diviso il procedimento in step e affrontato ogni passaggio separatamente.

02. VALORIZZARE LA CIPOLLA

Prima di tutto, scegliamola. Questa è la selezione che vi consigliamo: • • • • • •

Cipolla di Tropea Cipolla di Giarratana Cipolla rossa di Acquaviva delle fonti Cipolla di Alife Cipolla di Suasa Cipolla di Montoro

Per rendere la copertura un po' più leggera e croccante, abbiamo replicato un trucchetto

Sicuri che un liquido frizzante avrebbe alleggerito ulteriormente la pastella, abbiamo usato l’acqua gassata al posto del latticello e abbiamo ottenuto degli anelli più leggeri e croccanti. Ma l’acqua frizzante non aggiungeva molto sapore, quindi abbiamo preferito la birra. Come un qualsiasi liquido carbonato, ha reso il rivestimento etereo e croccante (e più gustoso degli anelli all’acqua), ma gli zuccheri della birra hanno anche implementato la doratura, tanto che abbiamo dovuto abbassare la temperatura dell'olio. Un vantaggio collaterale: le cipolle troppo sode sono la causa principale dello scollamento della crosticina, e friggendo più lentamente e a bassa temperatura, hanno avuto più tempo per ammorbidirsi prima che il rivestimento si scurisse troppo. Anche se gli anelli di cipolla così croccanti e saporiti non hanno bisogno di un accompagnamento per risaltarne il sapore, abbiamo preparato un intingolo simile a una salsa per hamburger: maionese con un pizzico di ketchup, un po' di brio dato dai jalapenos sott'aceto e dal pepe di cayenna e un po' di piccante dato dalla salamoia dei sottaceti. Per sicurezza, continuate ad ordinare patatine fritte quando mangiate fuori casa. Gli anelli di cipolla ve li preparate a casa.

03. ESALTARE IL SAPORE

Il rivestimento croccante e fritto degli anelli di cipolla è la star dello spettacolo, ma questo non significa che la cipolla interna non debba brillare di luce riflessa. Per esaltare il sapore delle cipolle all'interno dei nostri anelli, condiamole con un mix di cipolla in polvere, per raddoppiare il sapore e apportare note sapide e tostate.

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A prescindere dalla cultivar, abbiamo scelto due cipolle di circa mezzo chilo ciascuna, per sfamare sei persone in maniera più che dignitosa. Abbiamo tenuto da parte le estremità e gli anelli più interni delle cipolle per un altro uso, perché abbiamo notato che catturano troppa pastella, rendendo il fritto sgradevolmente pastoso. Immergere le cipolle in un liquido condito per poi buttarlo nello scarico ci sembrava uno spreco e tamponarle per asciugarle, che noia. Quindi le abbiamo condite con un mix di condimenti a secco e dell’amido di mais.

utilizzato nella ricetta del pollo fritto; in particolare, abbiamo usato una combinazione di farina e amido di mais per la mia pastella. Funziona perché la farina universale aderisce e si colora bene, mentre l'amido di mais, che non brunisce e non si aggrappa bene come la farina, dona maggiore friabilità. Il lievito in polvere ha aumentato ulteriormente la leggerezza della pastella. Abbiamo aggiunto il resto della miscela di condimenti per dare un tocco di sapore in più e per evitare salare gli anelli dopo la frittura.

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FOCUS SCIENTIFICO

PREPARARE UNA PASTELLA MIGLIORE

Gli anelli di cipolla variano da croccanti e consistenti a leggeri come l'aria e friabili. Noi abbiamo puntato su quest’ultima versione: anelli dorati e delicatamente ricoperti. Ecco come ogni ingrediente della pastella contribuisce a raggiungere questo obiettivo.

LA FARINA BRUNISCE, L'AMIDO DI MAIS “CROCCANTIZZA"

Alcuni cibi fritti sono ricoperti di farina o di amido di mais, ma questa ricetta li prevede entrambi. La farina contiene proteine che accettano facilmente la doratura di Maillard, ma il suo glutine è dannoso per la consistenza (tutti i rivestimenti di farina friggono in modo denso e duro). L'amido di mais, invece, non contiene proteine, quindi non imbrunisce, ma non forma glutine, quindi frigge in modo più leggero e arioso rispetto alla farina. Mescolando i due amidi si ottiene il meglio dei due mondi: un'attraente doratura e una consistenza croccante.

BIRRA E LIEVITO CHIMICO ALLEGGERISCONO

Il lievito chimico e la birra aggiungono anidride carbonica alla pastella, facendola espandere durante la frittura (la birra contiene anche zucchero, che contribuisce alla doratura e al sapore).

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QUANDO LA CIPOLLA SGUSCIA VIA

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Quante volte avete addentato un anello di cipolla e vi siete ritrovati con la pastella fritta in mano, praticamente vuota? Questo fenomeno si verifica quando le cipolle all'interno degli anelli sono poco cotte e troppo sode: non si riesce a dare un morso netto, il cosiddetto “perfect bite”. La nostra soluzione? Friggere gli anelli lentamente e a temperatura più bassa. Friggendo le cipolle a 180°C per circa 4 minuti, le cipolle all’interno hanno più tempo per ammorbidirsi prima che il loro guscio si scurisca.


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ANELLI DI CIPOLLA ALLA BIRRA

CON SALSA DIP CON JALAPEÑO INGREDIENTI

(per 6 persone)

Per la salsa • 120 g di maionese • 3 cucchiai di ketchup (40 g) • 1/2 cucchiaio di jalapeños tritati in barattolo • 1 cucchiaio della salamoia degli jalapeños • 1/2 cucchiaino di zucchero semolato • 1/4 di cucchiaino di pepe di Cayenna

Per gli anelli di cipolla • 2 litri di olio di arachidi per friggere • 2 cucchiaini (5 g) più 3 cucchiai di amido di mais (25 g), • divisi • 1 e 1/2 cucchiaini di sale da cucina (1 g) • 1 cucchiaino di cipolla in polvere (3 g) • 2 cipolle grandi, sbucciate • 250 g di farina universale • 2 cucchiaini di lievito in polvere (9 g) • 470 ml di birra fredda

PROCEDIMENTO PER FRIGGERE Usate una pentola da almeno 6 litri. A noi piacciono le cipolle grandi, da circa un chilo ciascuna, ma si possono usare anche cipolle dolci più piccole. Se usate cipolle più piccole e piatte, non rifilate le estremità (la rifilatura ridurrebbe troppo la resa) e aumentate il sale a 2 cucchiaini. Per questa ricetta preferiamo utilizzare una birra lager.

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PER LA SALSA Sbattete tutti gli ingredienti in una ciotola fino ad amalgamarli. Conservate in frigorifero fino al momento dell'uso.

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PER GLI ANELLI DI CIPOLLA 1. Scaldate l'olio in un grande tegame (anche un wok può andar bene) a fuoco medio-alto a 180°C. Mentre l'olio si scalda, unite i 2 cucchiaini di amido di mais, il sale e la cipolla in polvere in una piccola ciotola. 2. Regolate la griglia del forno in posizione centrale e riscaldate il forno a 90°C. Sistemate una rastrelliera metallica in una teglia con bordo e foderate con un triplo strato di carta assorbente. 3. Con un coltello affilato, rimuovete una fet-

ta di 0,5 cm da ogni estremità della cipolla e conservatela per altri usi. Tagliate la cipolla in senso trasversale a rondelle di 0,5 cm di spessore. Ripetete l'operazione con la cipolla rimanente. Separate le cipolle a rondelle in anelli, conservando i 3 strati più interni di ogni rondella per altre preparazioni. Sbattete la farina, il lievito, i restanti 3 cucchiai di amido di mais in una ciotola media per combinare il tutto. Aggiungete la birra con una frusta fino a ottenere un composto quasi omogeneo (i piccoli grumi vanno bene). Aggiungete un quarto degli anelli alla pastella e mescolate per ricoprirli. Utilizzando le pinze, trasferite gli anelli nell'olio uno alla volta fino a riempire la pentola. Friggete gli anelli, girando di tanto in tanto e regolando il calore per mantenere la temperatura dell'olio tra i 180°C e i 190°C, fino a quando non saranno dorati e croccanti (ci vorranno circa 4 minuti). Trasferite gli anelli sulla griglia bardata con la carta e metteteli in forno. Riportate l'olio a 180°C e ripetete l'operazione con gli altri anelli di cipolla e la pastella. Servite con la salsa.

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o r ub r

à t l i v i c i d o m i n o n come si Com’è fatto il grasso più chiacchierato che ci sia.

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a cura di Nunzia Clemente

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Il burro è tipo una star di Hollywood, perennemente al centro di critiche, parziali riabilitazioni e successivi scandali. Fare il burro è un’operazione molto semplice, volendo intuitiva. Ce lo dimostrano i fatti: è uno dei primi prodotti lattiero caseari inventati dall’uomo, infatti si hanno tracce già dal 1500 a.C. Fate un po’ i conti: l’umanità si nutre ed evolve grazie al burro da poco più di tre millenni e mezzo. Questo perché il burro, seppur laborioso da fare, consiste comunque di operazioni meccaniche molto semplici, agli albori della meccanica e tecnologia casearia. Bastavano due bicipiti ben allenati per centrifugare, insomma. E può essere utilizzato in una maniera pressoché infinita, in cucina. Dal semplice burro spalmato (altamente energetico), ad ingrediente base per salse, fino a grasso utilizzato per la frittura. L’umanità deve moltissimo all’invenzione del burro, ma spesso lo sottovalutiamo, lo conosciamo in maniera scarsa e superficiale.

Cos’è il burro?

Da un punto di vista chimico, il burro è una emulsione di microscopiche goccioline d’acqua disperse in un

grasso. L’acqua è tenuta in sospensione in maniera naturale, grazie agli emulsionanti presenti nel latte: gli emulsionanti svolgono il loro compito, cioè evitare che la parte grassa si separi da quella acquosa. Le microparticelle acquose contengono proteine (caseina, in primis) e lattosio. Il burro più diffuso, perlomeno nel mondo occidentale, è sicuramente il burro ottenuto da latte vaccino. Il burro di bufala è un’accezione molto diffusa ormai nel nostro Paese, e non soltanto in Campania (anche se in questo caso, si preferisce sempre destinare il latte ricchissimo per la produzione di mozzarella). In Asia, molto diffuso è il burro di yak, con il quale si condiscono moltissime preparazioni, compreso il tè al burro.

Chi ha inventato il burro?

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Con molta probabilità, il burro fu inventato dagli abitanti dell’odierno subcontinente indiano. Essi, infatti, lo utilizzavano non soltanto come adiuvante alle cotture, ma anche per riti cerimoniali, cosa che avviene ancora oggi. Gli antichi romani lo utilizzavano principalmente come prodotto cosmetico, una cura per capelli. Molto differentemente dai loro vicini di casa, i barbari, che invece ne facevano un grandissimo uso in cucina e già dall’epoca il burro divenne una sorta di

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“discriminante” tra gli abitanti del Mediterraneo e quelli del Nord Europa. Questi ultimi, inoltre, andavano via via specializzandosi nelle produzioni di burro, cosa che riscontriamo dopotutto ancora oggi. Di sicuro, il picco maggiore di diffusione a livello mondiale (per il mondo allora conosciuto, s’intende!) del burro si ebbe in Europa settentrionale, dove per tutto il Medioevo fu un elemento insostituibile per la dieta quotidiana.

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A mano a mano, il burro si è lentamente ma inesorabilmente fatto strada come grasso animale di alta qualità nelle cucine dei nobili. Infatti, nei giorni di astensione della carne, il burro era l’unico derivato animale permesso: eccezione confermata e allargata anche ai giorni di Quaresima, durante il XVI secolo.

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Normandia e Bretagna in Francia, insieme a Olanda e Irlanda divennero i dominatori incontrastati riguardo la produzione del burro, sfoderando per l’occasione anche tutta una serie di piatti che hanno enormemente contribuito alla creazione delle loro cucine nazionali. Gli inglesi annegavano letteralmente carni e arrosti in un lago di burro fuso, mentre i francesi giocavano a creare dolci, creme e salse che poi hanno trasmesso ai cuochi di tutta Europa. In queste zone, il burro veniva prodotto con latte proveniente da diverse mungiture: di conseguenza, ci si ritrovava a burrificare da latte vecchio un giorno, così come con latte vecchio di due. Ciò significava avere già un latte inacidito da batteri lattici e un risultato dall’odore e dal sapore più forte, consistente. Ancora oggi, nell’Europa del Nord e Continentale, si preferisce questo burro “forte”, dal sapore quasi di formaggio e dal colore intenso, mentre l’Europa del Sud - che, tra le altre cose, ha iniziato ad usare molto più tardi il burro! - preferisce un burro più “piatto”, dal sapore neutro.

Il burro ha due nemici molto importanti NEMICO #1: LA MARGARINA La cavalcata inarrestabile del burro ha avuto due freni importanti. Il primo avvenne nel XIX secolo, con l’invenzione della margarina. Già agli inizi dell’Ottocento, si stavano studiando alternative al burro animale, anche in virtù del costo elevato e dell’incertezza nel reperire il latte. In particolare, fu lo scienziato Michel Eugène Chevreuil che approfondì gli studi sugli acidi del grasso, riuscendo ad isolare l’acido margarico. Margarico deriva dal greco margarites, in riferimento alla lucentezza dell’aspetto. Circa cinquant’anni dopo, tra il 1869 e il 1870, ci fu la prima industrializzazione della margarina. Napoleone III bandì un concorso per trovare un ingrediente sostitutivo del burro, sia per affrontare alcune mancanze del periodo, sia per trovare un’alternativa più conveniente. Il primo ad arrivare ad una industrializzazione della margarina fu il chimico Hyppolyte Mège Mouries: egli, partendo dall’acido margarico, ottenne la margarina lavorando il grasso bovino fuso e raffreddato insieme a una miscela di acqua e caseina di latte. Ebbe moltissimo successo, tanto da arrivare a produrne in pochissimi anni svariate decine di migliaia di tonnellate. La diffusione si ebbe soprattutto grazie alle tecnologie tedesche e olandesi. Il dominio incontrastato della margarina fu definitivo a partire dal 1900, con lo sviluppo delle tecniche di idrogenazione e frazionamento dei grassi. Grazie ad esse, fu possibile l’utilizzo di grassi vegetali, sottoprodotti di lavorazioni varie, che divennero gli ingredienti principali della margarina per molti decenni a venire. Il costo potè, così, abbattersi ulteriormente: da un punto di vista economico, il burro era letteralmente messo all’angolo e ko. Da un punto di vista gastro-


nomico, la margarina sembrava inoltre presentare moltissimi vantaggi rispetto al burro. La shelf life decisamente più lunga, una maggiore “cremosità” e morbidezza anche col prodotto appena uscito dal frigo, un sapore più neutro e versatile sia per il salato che per il dolce. NEMICO #2 : LA DIETA MEDITERRANEA L’altro problema che il burro ha dovuto affrontare è stato l’imperversare della dieta mediterranea. A partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso, il regime alimentare teorizzato da Ancel Keys e Margaret Haney “bandiva” quasi totalmente i grassi di origine animale, relegandoli in cima alla - ormai molto diffusa - piramide alimentare con base vegetali e carboidrati. Di conseguenza, il ristretto consumo di carne metteva ancora una volta a riposo il burro, a favore degli oli vegetali e in particolare del decantato olio extravergine d’oliva. Una parziale riabilitazione, seppur ancora non totale, la si è avuta negli ultimi anni.

Il burro, oggi

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Dirvi che il burro ha vita semplice, oggi, sarebbe dirvi comunque una bugia. Certo è che la situazione generale è sicuramente migliorata. Il merito è sicuramente del dibattimento continuo, che non si è mai arrestato. Soprattutto durante l’ultimo decennio, la diatriba tra oli vegetali di scarsa qualità, ha visto più di una volta vincitore il burro, a discapito di oli e margarine. Il burro ha avuto una riabilitazione, in virtù dei nutrienti contenuti, la bontà della materia prima e la lavorazione pressoché breve. Con il decadimento della stima verso i grassi idrogenati, i problemi creati dagli oli vegetali (come la deforestazione), il burro sta timidamente avviandosi verso un revival, con moderazione, perlomeno in Italia. Sempre più caseifici dedicano parte della propria produzione al burro, togliendolo dall’oblio e dalla reputazione di “prodotto ottura-arterie”.

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Cosa occorre per fare il burro?

Per fare il burro, si parte sostanzialmente un unico prodotto: la crema da latte, come si chiama in gergo tecnologico-alimentare, meglio conosciuta dai più come panna. Il processo di burrificazione è in realtà particolarmente semplice. Dal latte, viene ricavata appunto la crema da latte. Una volta ottenuta la crema, questa viene sbattuta all’interno della zangola (operazione chiamata appunto zangolatura); una volta zangolato, si ottengono i “blocchi” primitivi di burro e un sottoprodotto, cioè il latticello (spesso conosciuto come buttermilk, molto più diffuso nel mondo anglosassone che in Italia) un ulteriore sottoprodotto caseario impiegato spesso in cucina come adiuvante alle lievitazioni ma anche nelle marinature. Per un chilo di burro, normalmente, vengono utilizzati tra i 20 e i 25 litri di latte intero. Dopo aver ottenuto la crema, c’è il processo di burrificazione.

Com’è fatto il burro

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Prendiamo 100 grammi di burro. Esso è composto essenzialmente da grassi: si va da un minimo di 80% a salire. In Italia, abbiamo burro solitamente che si attesta sull’82% di materia grassa, ma negli altri Paesi europei la percentuale sale sensibilmente. Sui nostri 100 grammi, avremo quindi circa il 50% di grassi saturi, il 23% di grassi monoinsaturi, il 3% di grassi polinsaturi e 250mg di colesterolo. Poi c’è l’acqua, che si attesta intorno ai 15%. La restante parte è rappresentata dai cosiddetti solidi del latte, cioè altre sostanze contenute nel latte come il lattosio, le proteine e sali vari.

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Come già detto, il burro è un’emulsione: ed è davvero uno dei pochi casi in cucina in cui un ingrediente nasce emulsione. Le minuscole quantità di proteine cosparse sulle gocce d’acqua impedisce a queste di coagularsi, a meno che non sia completamente fuso. Fusione che avviene relativamente a temperature “basse”, avendo il punto intorno ai 37°C, per quanto riguarda il burro classico.

In Italia (ci soffermeremo di più sul prossimo articolo, quello che parlerà del burro al supermercato), il burro spesso non viene considerato un prodotto primario dell’industria casearia, ma una specie di “prodotto collaterale”, su cui non soffermarsi molto. Il latte, al massimo delle sue proprietà, viene dapprima utilizzato per scopi più redditizi, come i formaggi (mozzarella e Parmigiano Reggiano, tra i più redditizi nel nostro Paese e all’estero). La crema da latte necessaria per il burro proviene principalmente per affioramento e non per centrifuga, perlomeno nei prodotti da supermercato. Ciò non esclude che si possano trovare comunque panetti di burro esteri, da centrifuga, così come caseifici che dedicano una parte di produzione del latte alla burrificazione.

Come si fa il burro: tutti gli step

La crema di latte (o panna) può essere ottenuta in diversi modi, con risultati ovviamente differenti. I due modi principali per ottenerla sono centrifugazione e affioramento. Crema di latte da centrifugazione: attraverso


macchinari molto avanzati, si sfrutta la forza centrifuga, fino a che l’acqua e le sostanze idrofile non si separano dai grassi; questi ultimi vengono portati in alto grazie alla densità minore. Questo processo viene favorito anche dalla temperatura, posta intorno ai 35°C e che favorisce la separazione del grasso. In questa fase e con questo processo, la crema viene anche detta “crema di latte dolce”, perché appunto il processo è così rapido da non aver dato luogo ad alcuna fase fermentativa. Crema di latte da affioramento: in questo caso, il latte viene fatto stazionare in grandi vasche per circa 20 ore ad una temperatura di 15°C. Questo “riposo” permette la produzione dei batteri, e per questo motivo viene anche detta “crema acida”. La crema acida così ottenuta ha bisogno di alcalinizzarsi e di essere pastorizzata. Estrazione da siero: questa tipologia di estrazione è tra le meno pregiate. L’estrazione dei grassi (non possiamo più chiamarla crema di latte) avviene attraverso i sieri dei caseifici, cioè avviene già da sottoprodotti.

essere corretta, non solo per una questione di stabilità ma anche di odore (infatti, sarà deodorata dopo). Pastorizzazione: La prima operazione da compiere è la pastorizzazione nella crema. Viene portata a circa 95°C per 20 secondi, ma è possibile utilizzare anche temperature superiori. Questo passaggio è fondamentale non solo perché la carica batterica della crema è maggiore rispetto a quella del latte, ma anche perché l’abbondanza di lipidi tende a proteggere i microrganismi presenti. Cristallizzazione: il processo di cristallizzazione consiste nel raffreddare rapidamente la crema di latte. Ricordate i 95°C della pastorizzazione? Ebbene, si scende bruscamente sui 7°C e si resta su questa temperatura per circa due ore. In questo modo, i trigliceridi si solidificano o, per meglio dire, si cristallizzano appunto. Affinché la cristallizzazione avvenga, c’è bisogno che questo processo accada molto rapidamente. Di contrappasso, se la cristallizzazione avviene troppo lentamente, i cristalli saranno troppo gradi e questo inficerà sulla resa finale del burro.

Burrificazione: come si passa dalla crema di latte al burro

Alcalinizzazione: questa in realtà è una pre-operazione. L’acidità della panna deve

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Ci sono diversi metodi per ottenere il burro, dipende dalla tipologia di crema che ci ritroviamo e da cosa ne vogliamo fare del sottoprodotto rimanente, cioè il latticello. In buona sostanza, in quasi tutti i casi bisogna compiere le medesime operazioni. Per grandi quantità di burro, viene utilizzato il cosiddetto Metodo Fritz/ Macchina Fritz, cioè un unico macchinario capace di compiere tutte le operazioni in un tempo decisamente breve e a costi super convenienti, rendendo il burro un autentico business. Vediamo insieme tutti gli step necessari per ottenere un classico panetto di burro, fatto in maniera tradizionale, con diversi macchinari. I passaggi, che siano più macchine o una sola macchina, sono gli stessi. La crema di latte l’abbiamo già ottenuta, questo è il metodo per esteso che si utilizza con la crema ottenuta da affioramento.

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Inoculazioni colture e Maturazione: se la crema è di tipo dolce è necessario inoculare colture batteriche per acidificare e aromatizzare, in quanto il metodo (centrifuga) impedisce la formazione di batteri. L’aroma tipico del burro è dato dal diacetile. Dopo l’inoculazione dei batteri, il burro viene lasciato a maturare in serbatoi d’acciaio chiusi, con all’interno una paletta che smuove la massa. Questo procedimento dura circa 10 ore, con una temperatura di 21°C.

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I passaggi successivi (vedasi, la zangolatura) vengono favoriti da pH prossimi al 5: con un pH prossimo a questo valore, si favorisce la denaturazione della membrana lipoproteica che avvolge le particelle di grasso. Questa membrana ha il compito di proteggere i globuli di grasso; denaturarla significa favorire la coalescenza (cioè la dispersione di gocce di liquido disperse in altro liquido) tra i globuli di grasso.

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Zangolatura: questo procedimento avviene in appositi macchinari chiamati zangole, e consiste nello sbattimento veloce della crema di latte, opportunamente acidificata e fermata, con la membrana fosfolipidica molto indebolita. La fase dura circa una mezza’ora, con una temperatura massima di 13°C. I trigliceridi escono dai globuli di grasso e “si attaccano” anche ai globuli di grasso integri: questi sono i primi ammassi, grani di burro. Le dimensioni non superano quelle di un chicco di mais. A questo punto, si può capire il colore del burro. Se le vacche hanno ricevuto mangimi non di altissima qualità, potrebbe mancare di colore e quindi i caseifici possono rimediare con un colorante, ad esempio l’annatto, arancione-rossiccio e derivato a sua volta dal carotene. La separazione dei granuli di burro dal latticello può avvenire tramite il lavaggio con acqua fredda: così il latticello tende a separarsi dai granuli. Il burro si presenta, quindi, non compatto: è necessario che venga impastato, messo in forme e confezionato per la vendita.


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APPROFONDIMENTO

TIPOLOGIE DI BURRO IN COMMERCIO Burro da centrifuga: è il burro ottenuto attraverso la centrifugazione del latte ed è di altissima qualità. Per legge europea, questo burro va lavorato interamente con la catena del freddo. Burro da affioramento: ha una qualità inferiore rispetto al burro da centrifuga, e viene ottenuto per affioramento della crema di latte dal latte stesso. Burro ordinario: si tratta del burro comune, non salato, con un contenuto di grassi che va da un minimo dell’80% e si attesta sull’82%. Ha un sapore solitamente neutro e viene utilizzato per le preparazioni più disparate, dalla cucina tradizionale alla pasticceria domestica.

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Burro salato: in Italia, non è particolarmente diffuso, anzi. Possiamo dire che è praticamente inesistente (se non per alcuni marchi) mentre negli altri Paesi la differenza tra salted (salato) e unsalted (non salato) è fondamentale. La differenza è letteralmente il sale, che viene aggiunto in una percentuale non superiore al 2% alla fine del processo di burrificazione. In origine, il burro veniva salato per permettere una conservazione più lunga; successivamente, anche grazie al costo elevato delle materie prime, divenne un bene prezioso, tanto da essere utilizzato anche come dono di nozze. La sua diffusione è avvenuta a partire dalla Francia, in particolare dalla Bretagna e dalla Normandia.

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Burro chiarificato, altrimenti detto ghee (ghi): Possiamo tranquillamente affermare che è la variante di burro più antica presente sulla Terra, in quanto il burro chiarificato - chiamato anche ghee - è prodotto dagli albori delle conoscenze “casearie”. Gli inventori, che lo utilizzano ancora ad oggi, sono stati proprio gli autoctoni del subcontinente indiano. Il burro chiarificato (qualcuno dice anche “purificato”) è un burro cui viene meccanicamente tolta la parte acquosa e la parte proteica, lasciando unicamente la parte grassa. Questo tipo di burro presenta molteplici

vantaggi: una lunga conservabilità e un ampio utilizzo in cucina, soprattutto riguardo le cotture insidiose in quanto presenta un punto di fumo particolarmente alto. Tradotto in parole più semplici, si possono utilizzare temperature più alte senza rischiare che il burro bruci. Gli indiani conservano il ghee per moltissimi mesi, anche fuori dal frigo. Burro montato: il burro montato è un burro moderno, inventato per essere più spalmabile. Il burro viene prima ammorbidito, poi “ampliato” per circa 1/3 del suo volume con azoto gassoso (l’aria semplice favorirebbe di troppo il deterioramento e l’irrancidimento del burro). Il gas iniettato rende più debole la struttura del burro e, quindi, è più semplice da spalmare anche a temperature fredde. Burro anidro: questa tipologia di burro è molto simile al burro chiarificato, ed è utilizzato prevalentemente nella cucina (pasticceria) di stampo professionale. Per il burro anidro viene utilizzata una panna super concentrata, che arriva al 99% di grassi. Il risultato è un burro super concentrato, che si conserva più a lungo e che tende ad irrancidirsi più tardi, oltre a garantire risultati più stabili nelle preparazioni ove è impiegato. Burro leggero: si tratta di burri particolari, con minor tenore di grassi: si va da burri con il 60-62% di grassi a burri con 40-42% (rispetto ai canonici 80-82%). Si tratta di burro che solitamente è consigliato da mangiare direttamente, non da usare in preparazioni. Burri speciali: sono tipologie di burro prodotti appositamente per panificatori e pasticcieri, quindi da utilizzare in ambito professionale. Qualche esempio: il beurre cuisinier, il beurre pâtissier e il beurre concentré: la materia grassa presente è molto più alta rispetto al burro comune. Si ottengono partendo dal burro comune, centrifugando e separando il grasso dall’acqua e dai solidi del latte. Successivamente, si lascia raffreddare oppure cristallizzare (processo che vi abbiamo spiegato poco più su). Il loro punto di fusione è tra i 30°C e i 40°C.


Consistenza del burro: qual è quella perfetta? Domanda da un milione di euro: non esiste una consistenza univoca che ci suggerisca che un burro sia perfetto. Il burro è il risultato di un milione di fattori che si intersecano: ambiente, razza della mucca, alimentazione, lavorazione, colture inoculate. Tutte queste contribuiscono ad un burro. Detto ciò, esistono sicuramente delle differenze sostanziali tra i burri, che ne caratterizzano la consistenza. Ancora, i caseifici possono produrre burro più morbido in estate e più “duro” in inverno: molto dipende dai mangimi dati ai capi di bestiame. Così come le tecniche di lavorazione, un raffreddamento/cristallizzazione rapido/lento. Ci sono certamente delle differenze sostanziali tra tipologie di burro. Ad

esempio, messi a confronto un burro italiano e uno francese, troveremo sicuramente quello francese più spalmabile rispetto al nostrano, anche se tirato fuori da poco tempo dal frigo.

Conservazione del burro Il burro tende ad irrancidire, soprattutto con confezione aperta. Tuttavia, grazie al basso tenore di acqua, se fatto bene si conserva normalmente per qualche giorno a temperatura ambiente. Ciò che potrebbe risentirne è il gusto e l’aroma complessivo, per questo è sempre consigliabile tenerlo in frigo e ben chiuso, rispettando le date di scadenza sull’involucro (se non aperto). Evitare sempre l’esposizione alla luce intensa.

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Burro: cosa troviamo nei supermercati?

come destreggiarsi tra le proposte della GDO italiana

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a cura di Nunzia Clemente

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Come abbiamo accennato poco fa nell’articolo di presentazione del burro, la situazione in Italia non è rosea, al netto di qualche sporadica eccellenza casearia locale che spesso non vede diffusione oltre il proprio territorio d’origine. Di conseguenza, risulta molto difficile trovare del buon burro ovunque, né tantomeno per un panetto ci si spinge fino al caseificio rinomato, che magari dista chilometri e province. Figli quasi “costretti” dalla dominante cultura della dieta mediterranea, nel tempo il burro - già particolarmente non dominante sulla Penisola - si è

irrancidito, per usare una metafora. Al Sud, divenuto quasi inesistente per decenni. Al Nord, manteneva posizione grazie ad una cultura montana e agli scambi culturali continui col resto d’Europa. Ad oggi, la quasi totalità dei burri presente sul mercato GDO proviene da affioramento e non da centrifuga: se avete letto il nostro portfolio sul burro, sapete bene di cosa stiamo parlando e quali differenze qualitative ci sono tra le tue metodologie di produzione. Spesso, la proposta commerciale è dominata da caseifici che utilizzano il latte intero


fresco prima di tutto per sopperire alla richiesta di formaggi, che attualmente è uno dei mercati più floridi sia per il commercio interno del Paese ma anche nell’export. Notizia fresca, degli ultimi giorni di gennaio 2023, la notizia riguardo la mozzarella di bufala, che risulta essere la DOP con la crescita più veloce negli ultimi sei anni. Non c’è particolare volontà di investire sul burro, che in ogni caso rappresenta un mercato “locale” e marginale, differentemente da quanto concerne invece per latticini e formaggi. Grana Padano e Parmigiano Reggiano sono i primi beneficiari di questa “politica”.

Cosa dice la legge in Italia sul burro Per la legge italiana, il burro è un prodotto ottenuto dalla crema che si ricava dal latte vaccino OPPURE dal siero del latte vaccino OPPURE dalla miscela di entrambi i prodotti. Deve rispettare precisi requisiti chimici, fisici ed organolettici che sono indicati nella Legge n.202 del 13 maggio 1983 (aggiornato con L.11 del Febbraio 2019). Il tenore di grassi deve essere tra l’80% e il 90%, acqua al massimo 16% e 2% definito “residuo secco magro” (i cosiddetti altri solidi del latte che vi abbiamo già presentato), come definito anche da Regolamento Europeo CE 1308/2013. La denominazione “burro di qualità” è riservata solo ai prodotti ottenuti con la sola crema di latte vaccino di alta qualità, con riferimenti dati dal Ministero dell’Agricoltura. Il burro che si avvale della dicitura “di qualità” deve essere esente da altre sostanze chimiche, se non quelle ammesse nella normale lavorazione casearia. La denominazione “burro” come grasso ottenuto da latte di altri animali (ad esempio, bufale) può essere utilizzato purché sia indicato il nome dell’animale dal quale proviene (esempio, burro di bufala).

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Quindi, il burro in Italia appare sì ben normato, ma oltre questo pare che ben poco si sia fatto per agevolarne la diffusione, ad esempio la creazione di DOP o IGP, come accaduto invece per altri prodotti come l’olio extravergine d’oliva.

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APPROFONDIMENTO

La situazione in Francia, dove hanno ben 4 AOP sul burro Diversa la situazione per i cugini d’Oltralpe, che hanno reso il burro un business più che appetibile. Non è raro che anche gli attori della cucina nostrana prendano burro dalla Francia (quante volte avrete sentito dire, “burro di Normandia” in un dolce, specialmente nei nostri amatissimi panettoni? Ecco), contribuendo all’economia e alla fama pressoché mondiale. La questione burro, in Francia, è presa così sul serio che hanno dedicato a questo nobilissimo grasso ben quattro AOP, Appellation d’Origin Controllée, corrispondente alla nostra DOP. In Italia, è possibile trovare queste tipologie di burro in alcuni supermercati con un reparto gourmet particolarmente fornito, oppure su marketplace specializzati in cibi d’alta gamma. Sono tutti burri che hanno un tenore di grassi pari (o leggermente superiore) all’82%. Insomma, se li trovate fortunosamente in giro, prendeteli: vale la pena spendere una cifretta in più per un buon burro. Appaga i sensi.

Beurre AOP Isigny: questo burro è molto famoso anche in Italia, perché utilizzato in moltissime preparazioni di pasticceria nostrana, come appunto i grandi lievitati. Viene prodotto in quasi 100 comuni inclusi nella bassa Normandia e nel dipartimento della Manica. Questo burro viene prodotto con la tecnica del barattage, che prevede il latte sbattuto a bassissimi giri per separare la crema dal latticello, un po’ diverso dalla zangolatura (che prevede giri molto veloci). Le mucche vengono tenute al pascolo per 7 mesi l’anno, il colore di questo burro viene definito “bottone d’oro”, in quanto è particolarmente acceso grazie alla forte presenza di carotenoidi, grazie all’alimentazione a pascolo. L’ideale per l’Isigny sarebbe gustarlo a temperatura ambiente, ma la sua consistenza vellutata lo rende perfetto per qualunque tipo di preparazione. Beurre AOP de Bresse: questo burro è prodotto in alcuni comuni dei dipartimenti di Ain, Giura e Saône-et-Loire. La caratteristica di questa zona è la cosiddetta pianura “bocage”, cioè una piana ondulata che non supera i 300 metri di altezza e che conferisce al foraggio delle caratteristiche particolari che si riversano sia in inverno che in estate sulla produzione del burro: il terreno è argilloso e molto umido, grazie alle persistenti piogge di questa zona. Il bestiame destinato al burro viene nutrito con foraggio di mais almeno per la metà dell’anno. Il burro, ottenuto per centrifuga e con zangolatura classica, ha note spiccate di latticello e nocciolato.

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Beurre AOP CharentesPoitou: originario della Nuova Aquitania, la più estesa regione francese. Ha una texture molto fine, un colore giallo paglierino e un sapore nocciolato, conferitogli dall’alimentazione del bestiame (mucche di razza Prim Holstein), che ha molto spazio verde a disposizione e un clima molto dolce. Il latte viene prelevato, messo in centrifuga e quindi la crema viene prelevata e pastorizzata. Successivamente, il processo di maturazione permette le colture batteriche, con aggiunta di fermenti lattici per circa 15 ore, ed è questa la fase che conferisce al burro il suo sapore delicato. Successivamente, la miscela viene mescolata per formare il burro. Questo viene poi lavato, per eliminare acidità residue, formato, confezionato e refrigerato. Ottimo da mangiare spalmato su pane, oppure in aggiunta a purè e verdure, oppure per preparazioni di pasticceria come croissant e brioche. Spesso, è noto anche come Beurre Echiré, dal caseificio che storicamente ne porta avanti la produzione.

Beurre des Deux-Sèvres: possiamo tranquillamente dire che il burro di Deux-Sèvres ha le medesime caratteristiche dello Charentes-Poitou, ma per quelli prodotti nei caseifici situati in questa zona, si utilizza la denominazione Beurre des Deux-Sèvres AOP.

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GUIDA ALL'ACQUISTO

La situazione del burro in Italia: cosa comprare al supermercato?

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Al netto di specialità territoriali che sicuramente saranno diffuse nelle catene locali, la situazione del burro nella GDO italiana è abbastanza omogenea. I marchi che si ritrovano lungo lo Stivale sono bene o male una decina o poco meno, al netto del burro a marchio della gdo (solitamente, un primo prezzo) e quello delle Centrale del Latte locali.

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Menzione particolare per le tipologie di burro che troviamo proposte negli hard discount: ottimo il burro irlandese proposto alla Lidl (sotto il marchio di Milbona Golden Hills), così come il burro bavarese proposto da Eurospin (sotto il brand Land). Sempre

proposto nelle insegne Lidl, buon rapporto qualità/ prezzo anche quello a brand Latteria. La nota positiva è che, sicuramente, la qualità media presente al supermercato è notevolmente migliorata rispetto alle proposte degli anni Ottanta e Novanta. Molto presente è il burro ottenuto da centrifuga, segno che comunque una parte del latte è dedicata alla produzione del burro. Sulla qualità di questo latte, non sappiamo molto oltre la provenienza: latte italiano in molti casi, altri europei, altri ancora miscele dei due. Il tenore di grassi si assesta tra l’82% e l’84% sul peso totale.


La seguente lista include i prodotti più diffusi nella GDO, indipendentemente dalle catene. LATTERIA SORESINA - BURRO GRAN SORESINA Latteria Soresina propone il burro sia incartato classico, che in una lussuosa lattina gialla, ottenuto direttamente da panna da latte fresco. Una novità nel segmento è il Burro LattePanna, che utilizza un processo innovativo e combinato di maturazione e fermenti lattici insieme. GRANAROLO - BURRO OTTENUTO DA PANNE DI PRODUZIONE ITALIANA Granarolo propone il suo burro in panetto da 200 grammi, in confezione blu con classica bandiera tricolore. Il colore va sul giallo pallido, con un sapore mediamente intenso e sicuramente molto versatile. PREALPI - BURRO TRADIZIONALE Prealpi ha una linea composta da diversi tipi di burro. Il burro Prealpi tradizionale, il più antico dell’azienda; il burro chiarificato; un “Metà e metà”, una sorta di burro addizionato con margarine; il burro senza lattosio. STERZING-VIPITENO - BURRO DI QUALITÀ Una confezione molto austera per questo burro firmato Sterzing-Vipiteno, che arriva sì in moltissimi supermercati della Penisola, ma non ancora a diffusione capillare. Si avvale della dicitura “burro di qualità”, destinato a quelle produzioni che non operano aggiunte sul burro. Presente anche la versione bio e burro addizionato di yogurt.

FRATELLI BRAZZALE - BURRO SUPERIORE 84% di materia grassa è tanta roba per il mercato italiano, bisogna ammetterlo. Ci pensa Fratelli Brazzale (brand di Brazzale SpA, sul mercato tra le altre cose col formaggio Gran Moravia) a proporre un burro incartato stretto, con una grafica che fa molto Impero austro-ungarico. INALPI - BURRO DA PANNA FRESCA DI CENTRIFUGA Latterie Inalpi propone burro da panna di centrifuga, un burro molto dolce con la presenza di note lattiche. Presente anche il burro chiarificato al 99.8% di grassi. BIRAGHI - BURRO SELEZIONE O S VA L D O BIRAGHI Il burro Biraghi si avvale della dicitura “burro di qualità superiore”. Ottenuto con panna da centrifuga, da latte italiano appena munto. LURPAK - BURRO CLASSICO / BURRO SALATO Dalla Danimarca, Lurpak è sicuramente una garanzia in fatto di burro. La versione classica dichiara un’umidità minore rispetto ad altri burri. Uno dei pochi casi in cui è presente anche la variante di burro salato sugli scaffali. PARMAREGGIO - BURRO Il leitmotiv “da creme di latte dei caseifici emiliani” sembra essere ben riuscito nel caso del Parmareggio, che ci propone persino anche il topolino. Il panetto di burro (ormai diffuso a macchia d’olio nei supermercati italiani) è cremoso e si presta benissimo ad essere spalmato.

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BEPPINO OCCELLI - BURRO Con Beppino Occelli siamo nella business class dei burri: vistosamente più costoso degli altri

presente nel banco frigo del supermercato, è ottenuto da panna dolce centrifugata. I panetti sono ancora formati a mano, così come l’iconico marchio della mucca in superficie.

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FROM ZERO TO HERO

Thin VS Thick Blue White Il colore del fumo Avrete senz’altro sentito parlare, nella vostra carriera da griller, del Thin Blue Smoke. Indifferentemente dalla tipologia di dispositivo utilizzata, se a carbone o a gas, sarete di sicuro abituati ad aggiungere legna sotto forma di trucioli, scaglie (chips) o pezzi più grandi (chunks) per conferire il tipico aroma di affumicato ai cibi in cottura. Il fumo che esce dal vostro dispositivo può apparire bianco, grigio, blu, giallo, marrone e persino nero. Tuttavia, non tutto il fumo è da considerarsi "buono". Quello che vogliamo ottenere è conosciuto nel mondo del BBQ come “Thin Blue Smoke" o "clean smoke."

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Il sottile fumo blu è quello che vogliamo!

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I legni compatti utilizzati per affumicare la carne contribuiscono notevolmente alla qualità e al gusto del Pulled pork o del Brisket che volete cucinare. Questi legni sono costituiti principalmente da tre composti organici: cellulosa, emicellulosa e lignina. La cellulosa e l'emicellulosa formano la struttura del legno, mentre la lignina funge da collante che tiene

insieme le fibre del legno. Quando i legni compatti vengono bruciati, la cellulosa e l'emicellulosa, che sono entrambe catene di glucosio (zucchero), si caramellizzano e producono carboidrati. Questi composti sono responsabili del tipico colore brunito e dei profumi floreali, dolci e fruttati che si percepiscono durante l'affumicatura. La degradazione della lignina crea fenoli, cioè composti aromatici che contribuiscono al sapore del prodotto finale. La lignina crea anche composti pungenti come siringolo e guaiacolo. Il primo è responsabile dell'aroma di fumo, mentre il secondo è responsabile del sapore di fumo. Comprendere questi concetti è importante perché aiuta a capire come i diversi legni possano influire sul gusto e sul profumo della carne affumicata. Ad esempio, i legni che producono più siringolo sono associati a un aroma di fumo più intenso, quelli che producono più guaiacolo ad un sapore di fumo più pronunciato. Il Thin Blue Smoke è direttamente correlato a questi processi chimici e può influire sulla qualità finale della ciccia affumicata. Si tratta di un fenomeno termochimico molto interessante che deriva dalla


decomposizione dei legni compatti, attraverso un processo noto come pirolisi. Questo processo avviene in un ambiente con bassissimi (o nulli) livelli di ossigeno e con temperature adeguatamente elevate. Qui la cellulosa, l'emicellulosa e la lignina presenti nel legno non bruciano, ma si decompongono invece in gas combustibili e carbone. Questo delicato equilibrio tra combustibile, ossigeno e calore fa in modo che il legno si “caramellizzi” dando luogo al Thin Blue Smoke. Quel leggero filo di fumo azzurro è molto importante perché indica che il legno si sta decomponendo in modo uniforme e che la quantità di calore prodotta è sufficiente a cuocere il cibo in modo adeguato. Per dirla in altre parole, quando vedete il Thin Blue Smoke potete stare tranquilli: non avete sbagliato niente!

Occhio al fumo bianco! Quel fumo bianco che spesso vedete quando cominciate ad affumicare la ciccia è un fenomeno comune durante le fasi iniziali della combustione del legno, dovuto al fatto che viene rilasciata l'umidità. I legni utilizzati per affumicare hanno solitamente un contenuto di umidità del 15-20%. Se dopo 20 minuti il vostro dispositivo produce ancora nuvole abbondanti di fumo bianco, probabilmente c'è un problema con il legno utilizzato o con il flusso d'aria.

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Ricordate sempre che, indipendentemente dal colore, sia il fumo bianco che quello blu produrranno particelle che si attaccheranno al cibo che viene affumicato. Il Thin Blue Smoke ha però componenti più gradevoli. Il fumo bianco è considerato "cattivo" perché si trasforma in un sapore acre e amaro di cenere e di creosoto. Le particelle del fumo bianco sono anche molto più grandi e si attaccano più facilmente alla carne. Ovviamente, dovete preoccuparvi del colore del fumo solo nelle cotture molto lunghe: per quelle brevi non serve, la velocità è dalla vostra parte. State invece sicuri che affumicare per 10 o più ore col fumo bianco (chiamato “Thick White Smoke” o "Dirty Smoke") vi farà mangiare una ciccia con un sapore acre e amarissimo. Come abbiamo fin troppe volte ripetuto nel corso degli anni, sicuramente stancandovi un po’, vi sembrerà di leccare un posacenere.

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Come ottenere il Thin Blue Smoke? Per ottenerlo, dovrai tenere strettamente sotto controllo cinque parametri:

#01.• Quanta legna metti nel tuo dispositivo: se c’è troppo legno, molto probabilmente andrai incontro a una combustione incompleta, il che si tradurrà nel cattivissimo fumo bianco.

#02

La temperatura: una temperatura troppo elevata, con un fuoco che divampa troppo velocemente farà bruciare immediatamente il legno nel vostro dispostivo; al contrario, una temperatura troppo bassa, porterà alla combustione incompleta. I fatidici 110°C, tipici delle cotture loe&slow sono perfetti!

#03

Il flusso d'aria: è una componenente fondamentale nel processo di combustione. Non solo la giusta quantità di flusso d'aria è importante per controllare la temperatura del vostro dispostivo, ma è anche cruciale per garantire quel delicato equilibrio che porta alla lenta e uniforme combustione completa del legno.

#04 La pulizia: un’adeguata pulizia del vostro dispositivo è fondamentale. La sporcizia che brucia fa fumo sporco che puzza. E voi volete solo quello pulito dato dal legno, non fumo dalla combustione dei residui dei precedenti cotture!

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#05 Il tipo di legno: qualsiasi legno produrrà fumo. Ma solo quello giusto vi porterà ad avere quel filo sottile di fumo azzurro che tanto agognate! Usate solo legni compatti. Ce ne sono molti tipi tra cui scegliere: quercia, acero, nocciolo, melo e noci. Legni come cedro e abete sono tipicamente pieni di resina e umidità e emettono un fumo acre che rovina il sapore della carne.

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Tutto quello che c'è da sapere sulla frittura Le statistiche dicono che la frittura sia in assoluto il piatto più consumato nei vari ristoranti del mondo. Ciò significa solo una cosa: tutti amano mangiare roba fritta! Anche se i nutrizionisti non fanno che raccomandarci di non abusarne, siamo attratti dai cibi fritti come le api dal miele. Pensare a un piatto di patatine dorate e croccanti, a un arancina succulenta oppure a una cotoletta ci fa sentire subito di buon umore. Ma conoscete tutti i segreti per una frittura perfetta? Proprio vero che fa così male? E qual è il grasso migliore in cui friggere? Proviamo a dare una risposta a ognuna di queste domande.

Chi ha inventato la frittura? Per frittura si intende la procedura di cuocere gli alimenti immergendoli in un grasso (animale o vegetale) scaldato. La parola “friggere” deriva dal latino “frigere”, parallelo al greco “phrygein”, entrambe le forme ricollegabili al sanscrito “bhrâg’ate” (ossia “risplendere”). Parliamo di un metodo di cottura diffuso in tutto il mondo. Sono almeno tre le popolazioni del mondo che si contendono la paternità della frittura. Gli storici Massimo Montanari e Jean-Louis Flandrine, nel libro “Storia dell’alimentazione” sostengono che i primi a friggere furono gli egizi che iniziarono ad utilizzare questa tecnica servendosi del lardo degli animali. Cosa friggevano? Pasta di pane dolcificata col miele. Dei dolcetti, insomma, che sono raffigurati anche sulla tomba del faraone Ramses III a Tebe.

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Secondo altre fonti, a inventare la frittura sarebbero stati gli ebrei nel XIII sec. a.C. quando, fuggiti dall’Egitto, si ritrovarono a offrire a Dio, nel deserto del Sinai, un impasto di grasso e farina cotto su usa specie di padella.

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Infine, la Cina: l’ultima e più probabile ipotesi è che la frittura sia nata appunto in Estremo Oriente nel XV sec. a.C. all’indomani dell’invenzione della wok,

la particolare padella dal fondo concavo e stretto. In ogni caso, lo scrittore romano Apicio racconta di cibi fritti nel miele cotto oppure in una miscela di garum (salsa liquida di interiora di pesce e pesce salato) olio e vini. Pare che invece i greci friggessero in grandi padelle di terracotta con manico forato, che venivano vendute in tutto il Mediterraneo, in modo da non scottarsi durante la preparazione della pietanza. É comunque doveroso ricordare che, per gli antichi romani e per i greci, la frittura non era esattamente come la intendiamo oggi. Questa tecnica si è evoluta nei secoli. Durante il Medioevo e poi nel Rinascimento, era fondamentale per una buona riuscita del fritto utilizzare i grassi animali, ad esclusiva accezione del pesce, che veniva fritto solo nell’olio d’oliva. Da quel momento in poi si moltiplicano le testimonianze e i libri che includono i cibi fritti nei vari ricettari. Come dicevamo prima, rappresentano una delle cose che le persone nel mondo amano mangiare di più in


assoluto. E quanto ci dispiace quando un dottore pronuncia la famosa frase “niente fritti!”.

La domanda delle domande: la frittura fa davvero così male? La frittura viene sempre additata come tra le preparazioni meno indicate per una dieta "salutare". Tanto da diventare lo spauracchio per tutti coloro che sono attentissimi all’argomento. Indubbiamente, c’è una componente nociva in ogni alimento fritto, in funzione di una serie di fattori che possiamo sintetizzare i due macroargomenti: la qualità dell’olio e la tecnica di frittura impiegata.

Fr i g g e r e significa immergere completamente l’alimento in un grasso bollente che ha raggiunto temperature tra i 160°C e i 190°C. Deve avvenire tutto in pochi minuti e l’esterno del cibo si deve disidratare e diventare croccante lasciando morbido l’interno. Grazie alla Reazione di Maillard gli aromi tipici di un cibo tostato passano nell'olio che circonda l’alimento e per questo motivo il fritto diventa buono. Buonissimo.

con il minore contenuto di acidi grassi saturi meno dannosi per la salute ma purtroppo questo non riguarda le fritture! Quando si scalda qualsiasi grasso a una temperatura sufficientemente alta per poter a friggere (fra i 160 °C e i 190 °C) si innescano tre tipi di reazioni chimiche dei trigliceridi: polimerizzazione, idrolisi per contatto con l’acqua contenuta negli alimenti e ossidazione per contatto con l’aria. La polimerizzazione è la reazione più trascurabile delle tre. L’idrolisi, provocata dall’umidità degli alimenti, scinde i trigliceridi, formando mono e digliceridi da una parte e acidi grassi liberi dall’altra. I primi non sono particolarmente pericolosi, mentre i secondi, specie se superano il 2% della massa di olio, conferiscono il tipico sapore rancido delle fritture di bassa qualità.

L’ossidazione è la più pericolosa tra le tre reazioni che può subire l’olio durante la frittura: il glicerolo, ossidandosi, produce acroleina, una sostanza irritante per le mucose gastriche e nociva, molto nociva, per il fegato.

Sono tutti più o meno d’accordo sul ritenere gli oli

Dobbiamo poi tener conto dell’acidità del prodotto,

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Gli oli e i grassi sono composti da trigliceridi e da alcune percentuali di acidi grassi saturi ed insaturi. Alcuni grassi saturi, animali o vegetali che siano, sono precursori della ipercolesterolemia (l’accumulo del colesterolo “cattivo”, LDL) mentre i grassi insaturi, se assunti in giuste quantità, sono benefici per la salute.

Ed ecco che entra in gioco la temperatura! Avete mai sentito parlare del punto di fumo? È la temperatura raggiunta la quale un olio o un grasso iniziano spontaneamente a ossidarsi per contatto con l’aria, producendo una colonnina di fumo. Per quanto concerne la frittura sia livello casalingo, sia ristorativo che industriale, essa deve essere eseguita con oli di alta qualità in dispositivi idonei a controllare la temperatura, proprio perché il grasso che comincia a sviluppare fumo può essere fonte di intossicazione acuta e cronica, perché oltre alla famigerata acroleina può contenere idrocarburi policiclici aromatici, ammine eterocicliche, formaldeide, acetaldeide, acrilamide. Le emissioni dal processo di frittura ad alta temperatura sono state classificate come “probabilmente cancerogene per l’uomo” (Gruppo 2a) dalla International Agency for Research on Cancer (IARC).

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ovvero dalla quantità di acidi grassi liberi che contiene. Oli ricchi di acidi polinsaturi ma con una concentrazione di acidi liberi molto bassa, nonostante siano più suscettibili all’ossidazione, possono avere punti di fumo più alti di quelli composti prevalentemente da acidi monoinsaturi.

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Infine, avete presente quando diciamo che non abbiamo digerito perché il fritto era troppo pesante e unto? Beh, se l’olio è troppo freddo ne viene assorbito tanto, se invece è alla giusta temperatura l'acqua presente negli alimenti si trasforma subito in vapore impedendo al grasso di entrare. Quando si inserisce la pietanza nell’olio bollente, la temperatura si

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abbassa: meno olio c'è, maggiore è lo sbalzo termico. Se se ne mette troppo poco, allora si raffredda a tal punto da essere assorbito. Dunque per non mangiare troppi grassi, e per avere un fritto asciutto e non pesante, bisogna usare una giusta quantità d’olio: un litro per ogni kg di alimenti. Quindi la conversione è 100 ml ogni 100 g.

L’olio migliore per friggere Alla luce di tutto questo, quali sono gli oli migliori per ottenere una frittura perfetta e non pericolosa per la salute?


Sintetizzando, possiamo dire che gli oli più adatti alla frittura devono essere: • resistenti alle alte temperature, quindi quelli ricchi di acidi grassi saturi o monoinsaturi; • a bassa acidità, ovvero oli integri dal punto di vista della struttura dei trigliceridi e con bassa percentuale di acidi grassi liberi; • estratti mediante pressatura e non mediante solventi. La frittura è un metodo di cottura rapido. Quando friggiamo ci dobbiamo attestare stabilmente ad una temperatura compresa tra dai 160°C ed i 200°C (condizione ideale per ottenere la reazione di Maillard in base alla tipologia di olio utilizzato) mantenendoci sempre sotto la temperatura del punto di fumo.

Volendo contestualizzare in Italia la scelta del miglior olio per friggere, la prima scelta ricade su un olio vergine/extravergine d’oliva di cui dovete conoscere precisamente il livello di acidità, quindi con uno standard qualitativo elevato ma con un carattere molto soft. Per quanto riguarda gli oli di semi/frutti oleosi è preferibile scegliere quelli con un elevato contenuto di acidi grassi saturi o monoinsaturi, estratti con metodi esclusivamente meccanici ed evitare oli estratti mediante l’uso di solventi: quello di arachide e quello di girasole arricchito con acido oleico. Anche i grassi di origine animale (il sego, il lardo e il ghee) pur avendo costi elevati hanno performance piuttosto interessanti quando si tratta di friggere.

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Sfatiamo qualche credenza popolare grazie alla scienza

FALSI MITI IN CUCINA ci credono anche i più intelligenti

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a cura di Nunzia Clemente

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ella nostra lunga carriera di debunking di miti alimentari e gastronomici in generale - da molto tempo come BBQ4All Magazine, da un po’ di tempo in meno con Gastronomicamente - non abbiamo potuto fare a meno di una cosa. Anche le persone più intelligenti rischiano di cadere nelle trappole dei miti alimentari, anzi, l’intelligenza sembra contare a poco in questi casi, perché spesso ci si affida a ricordi e empirismo male interpretato.

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Alt, attenzione: non è che vogliamo costringervi a rottamare il cuore, sia chiaro. Il cibo più bello è quello che ci evoca ricordi, cucinare ricordando qualcuno o qualcosa ci spinge inevitabilmente a cercare di fare il meglio. Il problema è, però, aver trasformato in dogmi molte credenze culinarie. Questa cosa è stata tramandata senza tener conto delle risicate conoscenze scientifiche che si avevano secoli fa, le poche implementazioni tecnologiche, le diffuse credenze religiose (che spesso e volentieri

inficiavano e inficiano ancora sul modo di vivere sul cibo, ma ognuno sceglie per sé), così come le differenti condizioni igieniche e la reperibilità (spesso scarsa, in passato) di alcuni alimenti. Come diciamo spesso, non vogliamo stravolgere né cancellare la tradizione dal vostro cuore. Il nostro obiettivo è migliorarla, scriverne una nuova, permettere alla polpetta scientifica di ritagliarsi il suo posto accanto alla polpetta della nonna. Quella della nonna sarà innegabilmente buona perché preparata con amore e carica di una valanga di ricordi, spesso felici. Quella scientifica è buona perché preparata secondo criteri scientifici, verificati, con gli ingredienti che vanno a titillare ogni punto della nostra bocca. Vi proponiamo, quindi, una lista di credenze culinarie piuttosto diffuse: vere o false? Ve le spieghiamo punto dopo punto. Buon divertimento!


MITO # 01

Coprire la pentola con un coperchio farà bollire l’acqua più velocemente VE R O

Non si tratta certo dell’unico motivo per cui dovreste coprire la pentola, ma andiamo per gradi. Per far bollire l’acqua più velocemente abbiamo bisogno che ci siano due condizioni ad aiutarci: 1. Evitare la dispersione del calore, quanto più possibile; 2. Raggiungere più velocemente possibile il valore di pressione del vapore che permette l’ebollizione. Va da sè, quindi, che già da queste conclusioni possiamo capire che una pentola con coperchio aiuterà l’acqua a bollire prima. Il punto uno, cioè evitare la dispersione di calore, è facilmente spiegabile. Chiudere la pentola con un coperchio riduce la dispersione del calore dal bruciatore al liquido, perché si evita che il calore salga sulla superficie del liquido stesso. Il secondo punto necessita innanzitutto di una digressione, perché bisogna avere ben chiari i fenomeni di evaporazione e ebollizione. L’evaporazione è un passaggio di stato che coinvolge l’acqua (nel nostro caso) superficialmente, perché avviene appunto sulla superficie del liquido. Le molecole d’acqua che si trovano a contatto con l’aria presentano meno legami col liquido rispetto a quelle “interne”. Si staccano più facilmente dall’acqua per entrare nell’aria. L’ebollizione consiste nella formazione di vapore all’interno del liquido. Quando la pressione del liquido (nel nostro caso, sempre acqua) diventa uguale alla pressione esterna, si ha il bollore. Se si fa ciò a recipiente chiuso, significa aumentare progressivamente e in minor tempo la pressione del liquido nella sua parte superiore. Questo accade perché la bolla resta comunque nella pentola, intrappolata tra la superficie dell’acqua e il coperchio. Quando il liquido e il vapore che sta sopra raggiungeranno un equilibrio, nella pentola ci sarà una pressione lievemente maggiore rispetto a quella atmosferica, ma non abbastanza da alzare il coperchio nella maggior parte dei casi. È il principio che sta dietro l’utilizzo della pentola a pressione. In pochissime parole, si raggiunge prima il bollore dell’acqua con una pentola chiusa dal coperchio perché si evita la dispersione di calore. Da un punto di vista di pressione del vapore, permette di scaldare anche il vapore superficiale e di non disperderlo, creando anche l’effetto pentola a pressione.

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MI TO # 02

Si possono mangiare le ostriche soltanto nei mesi con la R nel nome FA LS O

Un mito particolarmente diffuso nel mondo anglosassone. Fino a mezzo secolo fa, forse poteva avere un senso, ma le moderne implementazioni tecnologiche in fatto di ostricoltura hanno reso questa cosa decisamente superflua. In passato, l’ostricoltura si dedicava alla raccolta delle ostriche soltanto nei mesi più freddi (da settembre ad aprile, se ci fate caso questi mesi hanno tutti la R nel loro nome inglese).

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Generalmente, per le ostriche non di allevamento, i mesi caldi significano una deposizione delle uova più corposa, con una qualità delle ostriche raccolte inferiore. Invece, nei mesi freddi, le ostriche sono generalmente più carnose e “piene”. Ad oggi, con l’ostricoltura in stato ormai avanzato, si possono mangiare ottime ostriche in ogni periodo dell’anno.

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Vale la pena dimenticare la regola della R e lanciarsi in una degustazione di ostriche (ve ne abbiamo parlato nel numero di Dicembre 2022!), che è sempre stagione.


MI TO # 0 3

I funghi freschi non vanno MAI lavati FA L S O

Lavare funghi freschi, appena raccolti, non rovinerà affatto la loro texture, purché sia un lavaggio veloce (ma accurato). I funghi vengono chiamati anche miceti, e la loro texture è molto ma molto simile a quella di una spugna, da cui deriva il nome (da sphongos, greco). L’idea che si fanno tutti è che i funghi freschi, buttati a capofitto sotto l’acqua corrente, si riempiano di acqua diventando mollicci e gonfi. Quindi, la maggior parte si limita ad eliminare il terriccio superfluo con un panno umido. Lavare i funghi sotto acqua corrente, per un periodo limitato di tempo (un paio di risciacqui fatti bene, per un totale di qualche minuto) non inficerà la texture dei nostri funghi e ne guadagneremo in termini di sicurezza alimentare.

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MITO # 04

Aggiungere olio all’acqua di cottura della pasta impedisce a quest’ultima di attaccarsi sul fondo FA LS O

Molti esperimenti sono stati fatti riguardo la cottura della pasta: questi meritano un articolo a parte, perché in questo pezzo ci dedicheremo soltanto al mito dell’olio, che aiuterebbe la cottura della pasta impedendo a quest’ultima di attaccarsi sul fondo del recipiente. Come primo protagonista abbiamo l’acqua, una molecola che tutti conosciamo, di natura leggermente polare (cioè presenta da un lato una carica di energia positiva), in uno stato di ebollizione che avviene a 100°C (per le soluzioni da laboratorio non inficiate di minerali, come invece sono le acque potabili dei nostri rubinetti e che, di conseguenza, cambiano la temperatura di ebollizione); dopodiché troviamo l’olio, cioè una grande molecola di origine vegetale che fa parte del gruppo di molecole dei grassi caratterizzati da una natura apolare, cioè senza carica elettrica alcuna; infine, è presente la pasta composta da diversi carboidrati, tra cui spicca per concentrazione l’amido. L’amido è uno dei principali componenti della pasta: esso favorisce il fenomeno che chiamiamo comunemente “attaccamento” della pasta, grazie alla presenza dell’amilosio e dell’amilopectina che ne cambiano la struttura a partire da certe temperature. In poche parole, questa molecola diventa plastica ad alte temperature, conferendo alla pasta la consistenza da cotta che ben conosciamo. Ora conosciamo gran parte degli attori in campo. Vediamo se il mito dell’olio nell’acqua di cottura della pasta è giusto o meno.

Non ci basta questo per capirlo? Consideriamo anche l’evidente differenza di densità che vede l’acqua più densa, quindi, sul fondo non è possibile neanche la formazione di un’emulsione a quella temperatura. La risposta al nostro mito è no: l’olio non può essere utilizzato per prevenire l’attaccamento della pasta perché acqua ed olio sono immiscibili per natura: infatti le molecole contenenti idrogeno (come l’acqua, formata da due atomi di idrogeno ed uno di ossigeno) tendono a “raggrupparsi” e quindi ad escludere le cosiddette molecole idrofobiche, come i grassi dell’olio. Per osservare questo fenomeno, basterebbe semplicemente versare dell’olio in un bicchiere d’acqua: essendo – come detto sopra – l’acqua più densa dell’olio, quest’ultimo andrà a posizionarsi sopra di essa. Con una vigorosa miscelazione, questa può diventare una emulsione. Ma anche fare un’emulsione è una cosa totalmente inutile: infatti, questo non cambia le sorti di un buon piatto di pasta. La cottura della pasta – e il suo “non appiccicarsi” infatti, dipende da altri fattori. Facciamo una breve, ma esaustiva, lista. 1. Una buona scelta della pasta dallo scaffale 2. Una corretta temperatura dell’acqua. 3. Una corretta interazione tra gli amidi della pasta e l’acqua. 4. Il giusto tempo di permanenza della pasta nell’acqua. Imparare a scegliere la pasta, portare l’acqua alla temperatura adeguata e favorire le reazioni plastiche della pasta sono, a tutti gli effetti, gli unici modi per ottenere una buona cottura del nostro primo piatto. Insomma, l’olio sul serio non serve: un “autentico” falso mito.

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Il ragionamento chiave dei fautori di questa teoria è che l’olio permetta di isolare le molecole di amido ricoprendo, in chimica si direbbe passivando, completamente la pasta. Questa passivazione permetterebbe alla pasta di non attaccarsi e quindi risolverebbe uno dei problemi della cottura: cioè, che la pasta risulta spesso “appiccicosa”.

Questo ragionamento però è fallace al principio, infatti, il semplice fatto che l’olio sia apolare e che l’acqua sia leggermente polare non permette la soluzione dei due.

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M I TO # 0 5

Agitare e mescolare i cocktail a lungo li rende più buoni VERO, MA SOLO PER CERTI VERSI Dipende dalla tipologia di cocktail che si ricerca. Le bevande alcoliche sono tutte quelle bevande che contengono alcol etilico. A livello commerciale la quantità etanolo presente in una bevanda si quantifica tramite il grado alcolemico (% in volume): • Inferiore a 21 – alcolici a bassa gradazione. • Superiore a 21 – superalcolici.

Una bevanda alcolica può essere ottenuta in differenti modi: distillazione, fermentazione, assemblaggio, aromatizzazione o miscelazione. Proprio la miscelazione è alla base dei cocktail. Per “cocktail” si intende una miscela di una o più bevande alcoliche con aromi e bevande analcoliche. La loro origine non è molto chiara ma le prime testimonianze risalgono al XIX secolo e la prima guida per preparare i cocktail risale al 1862 ed è stato scritto dallo storico bartender newyorkese considerato il padre della mixology americana: Jerry Thomas. Gli ingredienti di un cocktail possono essere suddivisi in quattro principali categorie: base, aromatizzante, colorante e decorazione. Per base si intende l’alcolico a cui si costruisce intorno il cocktail ed al quale viene aggiunto l’aromatizzante e/o il colorante per modificarne le proprietà organolettiche della miscela.

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La miscelazione di questi ingredienti può avvenire tramite tecniche differenti fra cui: agitazione (shaking), mescolamento (stirring) e pestaggio (muddler). Nel caso dello shaking si impiega uno strumento particolare, lo shaker. Lo scopo dello shaker è quindi far sì che la miscela delle diverse componenti si omogenea e che la temperatura della bevanda sia sufficientemente bassa (circa -7°C). Per fare ciò i vari ingredienti e del ghiaccio vengono inseriti all’interno dell’apparecchio e vengono agitati per circa 20 volte per ottenere la giusta temperatura e miscelazione. In alcuni cocktail, invece, questa procedura serve a creare delle texture particolari come nel caso di quelle bevande che contengono albume. Durante il processo di agitazione, l’albumina presente nella chiara d’uovo porta alla formazione della caratteristica consistenza spumosa.

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Serve davvero agitare così tanto i cocktail? Davvero li fa venire più buoni? La risposta, in questo caso, è... ni: il processo di agitazione porta alla formazione di una miscela omogenea dove tutte le componenti aromatiche sono ben distribuite e alla temperatura giusta, ma non per forza porta ad un cocktail migliore. Inoltre, mescolando a lungo un cocktail, una piccola parte delle molecole di etanolo si disciolgono nell’acqua, rendendo il cocktail meno forte ma, al contempo, permette alle componenti aromatiche meno possenti di farsi avvertire al naso e alla bocca di chi sta degustando il cocktail. Se siete amanti dei cocktail very strong, vi converrà non agitarli tanto.


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MI TO # 06

L’alcol evapora completamente durante la cottura. FA LS O

Alcoli è il nome di un gruppo di composti organici dove un atomo di idrogeno è sostituito da un gruppo ossidrilico (OH). Nelle bevande alcoliche di uso comune è presente l’alcol etilico chiamato anche etanolo. L’etanolo viene prodotto dalla fermentazione alcolica degli zuccheri presenti nei vari prodotti utilizzati come base come ad esempio uva, patate e mele. L’etanolo ha una temperatura di evaporazione di poco più di 78°C: molto meno dell’acqua da laboratorio. Da un punto di vista puramente nutrizionale non ha molto valore, ma ha un alto valore energetico: basti pensare che 1 grammo solo etanolo può apportare 7kcal!

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Uno degli alcolici più utilizzati in cucina è sicuramente il vino per via dei suoi tannini, composti che reagendo con la saliva danno una sensazione amarognola, ma anche per via della sua acidità o il sapore fruttato. Il vino ha un contenuto alcolico che varia dai 12 ai 15° a seconda dell’intensità del prodotto. Per scoprirlo, ci viene in aiuto un esperimento condotto da degli scienziati dell’università dell’Idaho. Questi ricercatori hanno ottenuto un risultato molto interessante, e cioè che l’alcol evaporerà completamente solo se la cottura durerà più di 3 ore.

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Consideriamo però i fattori in gioco, ci sono due componenti fondamentali: la dimensione della padella che più sarà grande, maggiore sarà l’evaporazione dell’alcol per via della maggiore superficie di contatto, ed il mescolare o no la pietanza. Quindi, nel fare i calcoli, dovremo tener presente i seguenti

fattori: 1. Misura del recipiente di cottura 2. Composizione della ricetta 3. Tempo di cottura Indicativamente, una pietanza cotta mischiandola per 25 minuti avrà un contenuto di alcol che rappresenta il 40% della quantità iniziale. Considerando un vino rosso da 14° avremo quindi a cottura ultimata 5,6° rimanenti. Se invece non avessimo mischiato avremmo avuto un contenuto di alcol di 6,3°. Facendo un esempio pratico, un buonissimo brasato al Barolo (14°), ha come cottura “standard” (quindi senza adoperare tecniche particolari) circa 2 ore e 20 minuti; al termine di questo tempo, il nostro brasato al barolo avrà un contenuto di alcol che rappresenta il 9% circa della quantità iniziale e quindi un contenuto alcolico di circa 1,25°. La risposta breve alla domanda è che no, l’alcol non evapora completamente se non per cotture lunghissime ma comunque la quantità che rimane anche dopo una cottura relativamente veloce è sensibilmente più bassa. Inoltre, alcuni ingredienti presenti nelle ricette, come ad esempio il pane, possono rallentare la “scomparsa” dell’alcol e, di conseguenza, una maggiore quantità resta anche a cottura finita. L’USDA, per maggiore chiarezza, ha anche fornito dei dati riguardo il residuo di alcol dopo la cottura di alcune preparazioni. Ad esempio, una preparazione flambé avrà un residuo di alcol del 75%; un Irish coffee, dell’85%; uno stufato cotto per più di due ore, ben mescolato, avrà un residuo di alcol del 5%.


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o addi pdollo

La ricetta scientifica a cura di Gianfranco Lo Cascio

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Per realizzare un’opera rilevante ci vogliono tre cose: la volontà di iniziare, l'entusiasmo per continuare, la perseveranza per completare. E per chiudere il cerchio sulla preparazione del dado fatto in casa, mancava il cubetto al gusto di pollo. Pensate di essere abbastanza perseveranti per accingervi a prepararlo?

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Scommetto di sì.

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IL POLLO Per nostra Scientifica del mese, come al solito, sono partito dalle basi. Esse questo mese poggiano sulla schiena di un pollo. Una volta tolte le piume e il becco, il pollo è in realtà una bestia straordinariamente semplice in termini culinari. La sua struttura può essere suddivisa approssimativamente in quattro parti:

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Il muscolo, che rappresenta “la carne” del pollo. È la parte che si contrae e fa muovere il volatile e può essere ulteriormente suddivisa in due categorie: a contrazione lenta e a contrazione rapida. Poiché i muscoli a lenta contrazione sono aerobici (richiedono ossigeno per funzionare), sono tipicamente densi di capillari, che trasportano globuli rossi ricchi di ossigeno. Ecco perché hanno un colore più scuro. I muscoli a rapida contrazione sono utilizzati per brevi esplosioni di energia intensa: sono i muscoli che si trovano nel petto, utilizzati per spingere le ali quando il pollo spaventato deve fuggire da una situazione pericolosa. Poiché la loro attività è anaerobica (non richiedono ossigeno per contrarsi), tendono a essere meno densi di capillari, il che conferisce loro il caratteristico colore rosato. Per inciso, la stessa distinzione tra muscoli a contrazione rapida e lenta si fa per tutti gli animali, anche negli esseri umani. Vi siete mai chiesti perché il tonno ha una carne rossa intensa mentre il merluzzo è pallido? I tonni sono costituiti quasi esclusivamente da potenti muscoli a contrazione lenta, che permettono al pesce di muoversi in acqua per lunghi periodi di tempo. Un merluzzo si muove solo quando sta mangiando o è spaventato, per cui è costituito perlopiù da fasci muscolari a contrazione rapida.

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Il grasso serve a isolare e a immagazzinare energia. Per noi cultori del cibo, il grasso di pollo ha un

sapore strepitoso, a patto che sia cucinato nel modo giusto. Si concentra principalmente in grandi depositi intorno alle zampe e al dorso dell'uccello, oltre che nella pelle. Contrariamente a quanto si crede, la pelle del pollo non è fatta di solo grasso: è infatti costituita principalmente da... Tessuto connettivo. Tra le altre cose, il connettivo è composto anche da collagene. Bene ricordare è che il tessuto connettivo è ciò che mantiene i muscoli attaccati alle ossa e le ossa attaccate tra loro. Allo stato naturale, assomiglia a un filo di lana formato da tre filamenti separati che sono strettamente avvolti tra loro e che gli conferiscono una grande resistenza e compattezza. Se li scaldiamo, questi filamenti si sciolgono in gelatina, un composto che riesce a dare corpo e consistenza a fondi e salse. Il collagene si trova ovunque, ma è particolarmente concentrato nelle zampe, nelle ali, nel dorso e nella pelle dell'animale: più è in là con gli anni e più conterrà collagene. Da qui il detto della gallina vecchia che fa buon brodo. Le ossa rappresentano la struttura della nostra bestiola. Senza ossa, i polli sarebbero nient’altro che delle piccole pagnottelle di gelatina. Molti cuochi credono che siano le ossa a dare sapore al brodo; io sono scettico al riguardo. A seconda dei tagli del pollo utilizzati, questi quattro elementi sono presenti in proporzioni variabili. Per riassumere, le cosce di pollo sono ricche di muscoli a contrazione lenta, hanno molto grasso e contengono una buona quantità di tessuto connettivo e ossa. Il petto è quasi completamente composto da muscoli a contrazione rapida. Il


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dorso e la carcassa hanno poca carne di entrambi i tipi ma contengono ossa, tessuto connettivo e grasso. Le ali hanno la più alta concentrazione di tessuto connettivo in assoluto, con una notevole percentuale di grasso e alcune parti ossee. Per capire esattamente quale sia il valore aggiunto da ciascuno di questi elementi, ho cucinato alcuni lotti di fondo: uno fatto con sola carne bianca, uno fatto con sola carne scura, uno fatto con sole ossa e uno fatto con carcasse di pollo. Dopo 4 ore di cottura a fuoco lento, i fondi a base di carne erano saporiti (quello fatto con la carne di coscia un po' di più rispetto a quello fatto con il petto) ma non avevano corpo: anche dopo il raffreddamento in frigorifero (4°C) rimanevano liquidi, segno che la gelatina disciolta nel composto era relativamente poca. Il fondo di sole ossa, come sospettavo, era quasi insapore, ma aveva una consistenza più viscosa. Il fondo preparato con le carcasse era sia saporito che ricco. A causa dell'elevata quantità di gelatina estratta con la cottura a fuoco lento, dopo il passaggio in frigo si è tramutato in una massa solida e gommosa. Al calore invece, una volta assaggiato rivestiva piacevolmente la bocca, lasciando una sottile pellicola appiccicosa sulle labbra, che è la cartina tornasole di un fondo fatto come si deve. Quindi in linea di massima, le carcasse sono il taglio ideale per ottenere il miglior equilibrio tra sapore e corpo, risparmiando anche un po’ di soldini. Se volete preparare un fondo di pollo in maniera tradizionale, procuratevi i tagli di scarto o teneteli da parte quando preparate il pollo con le patate. Oppure ripiegate sulla ali, andranno benissimo anche quelle.

lentamente, un po' come spremere dei tubetti di dentifricio. Il grado di spremitura di questi tubetti dipende dalla temperatura a cui cuociamo il pollo, ma la velocità con cui gli aromi escono dipende anche dalla distanza che devono percorrere queste sostanze dall'interno dei muscoli, per poi finire in pentola. Mi sono quindi chiesto se accorciare la lunghezza di questi tubetti potesse accelerare il processo di estrazione dei sapori. Ho quindi preparato tre batch di fondo utilizzando carcasse di pollo tagliate in misura diversa e ho scoperto che effettivamente il porzionamento fa la differenza. Le carcasse tritate rilasciano il loro sapore molto più velocemente rispetto alle carcasse intere, mentre i pezzi di pollo tritati grossolanamente nel robot da cucina e macinati finemente hanno funzionato ancora più velocemente, restituendo un fondo dal sapore pieno dopo soli 45 minuti. Non è un’esperienza che consiglio a tutti, ma funziona! C'è però un’osservazione ulteriore da fare: anche se tagliare le ossa a pezzi ha aumentato la velocità di estrazione del sapore, non ha avuto lo stesso impatto sull’aumento della viscosità. L'estrazione degli aromi è un processo veloce: si tratta di tirar fuori le sostanze dall'interno della carne e di farle sciogliere nell'acqua. La formazione della gelatina, invece, non richiede solo l'estrazione del collagene; è un processo chimico che ha bisogno di tempo, a prescindere da quanto finemente tritureremo il collagene.

Partiamo dal presupposto che i muscoli del pollo hanno l'aspetto di tubi lunghi e sottili, e che per estrarre il sapore da essi è necessario cuocerli

Fortunatamente, il collagene di pollo non si trova solo nelle ossa, ma anche sugli scaffali del supermercato.

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Quindi ora sappiamo che per preparare un fondo perfetto sono necessarie due cose: l'estrazione di composti saporiti dalle fibre muscolari e la trasformazione del tessuto connettivo in gelatina per fornire corposità. E qui sorge il quesito: esiste un modo per accelerare un po' le cose?

A una temperatura compresa tra gli 88°C e i 93°C, ci vogliono circa 3 ore perché il 90% del tessuto connettivo si trasformi in gelatina e poi un'altra ora circa perché si trasformi del tutto. Se si continua a cuocere oltre, però, la gelatina stessa inizia a “slegarsi” e perde il suo potere addensante. Quindi il fondo di pollo ideale dovrebbe essere cotto a fuoco lento per circa 4 ore.

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LA RICETTA SCIENTIFICA Il fondo di pollo è un ingrediente fondamentale nella maggior parte delle cucine del mondo, perché è saporito, poco costoso e soprattutto utile sia per allestire zuppe e salse, che per cucinare un buon risotto. La Scientifica del dado sfrutta le virtù del pollo e le esalta, ottenendo un nuovo ingrediente dal gusto incisivo, super versatile e anche incredibilmente comodo da usare. Non c'è davvero paragone tra i dadi che vi preparerete da soli e i prodotti pronti o istantanei che trovate nella GDO. A differenza dei surrogati commerciali, i dadi fatti in casa contengono una grande quantità di gelatina, il che significa che potete utilizzarli per produrre salse vellutate e zuppe corroboranti. Inoltre, sanno di pollo vero, non di estratto di lievito.

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Contengono anche una percentuale di aromi, il che li rende più versatili. Dalla versione commerciale ho preso in prestito la forma: bastano degli stampini per il ghiaccio e il gioco è fatto. I vostri dadi saranno un concentrato di sapore in forma cubica, per tre motivi: la rosolatura delle sovracosce di pollo macinate produce un sacco di composti grazie alle reazioni di Maillard, il tessuto connettivo (che si converte in gelatina quando viene riscaldato in acqua) apporta gusto, e poi c’è il grasso, che è fondamentale perché riesce a sciogliere composti aromatici che l'acqua non può sciogliere.

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Dopo aver preparato il fondo, dovete aggiungere una quantità relativamente elevata di gelatina in polvere. La gelatina è ciò che dà corpo al brodo e si ricava dal collagene animale. Per ottenere una concentrazione equivalente di gelatina, con i metodi tradizionali dovreste comprare scarti del pollo, come dorso, zampe e pelle. Dovreste poi cuocere il tutto per un po' di tempo - ore e ore sul fornello, un'ora o poco più in una pentola a pressione - in una quantità d'acqua sufficiente a coprirle, trasformando la casa in una mensa puzzolente. Con la gelatina confezionata, invece, riuscirete a dare corpo al fondo più velocemente, oltre a emulsionare e a legare il grasso del pollo, in modo che ogni cubetto contenga più o meno la stessa quantità di grasso, oltre a sapori e aromi liposolubili. Una volta rigenerato, il brodo avrà delle occhiature di grasso, ottime per esaltare i composti liposolubili di sostanze come le erbe aromatiche (che potrete mettere in infusione nel brodo) e che vi sconsiglio di sgrassare.


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INGREDIENTI

Dose da 8 cubetti (da 35 grammi) per 3,8 litri di fondo • • • • • • • • • • •

30 g di olio extravergine di oliva 900 g di sovracosce di pollo macinate, disossate e senza pelle, divise in 720 g di carne magra e 180 g di grasso 2 L di acqua 2 cipolle grandi tagliate a cubetti da 2,5 cm (550 g) 2 carote grandi tagliate a cubetti da 2,5 cm (260 g) 2 coste di sedano tagliate a cubetti da 2,5 cm (115 g) 4 spicchi di aglio in camicia (25 g) 5 g di pepe nero in grani 40 g di gelatina in polvere o in fogli 30 g di sale 10 g di glutammato monosodico (MSG) - facoltativo e sostituibile con il sale

COSA VI SERVE

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Pentola a pressione Colino a maglie fini Cocotte in ghisa o tegame Pentola Stampo per cubetti di ghiaccio da 2,5 cm


TEMPI DI PREPARAZIONE 3 ore in totale; 30 minuti ai fornelli PRIMA DI INIZIARE Questa ricetta è stata pensata per realizzare dadi che, una volta disciolti, restituiranno un fondo perfettamente condito. Se seguite però una dieta a basso contenuto di sodio, potete ridurre la quantità di sale (e di glutammato monosodico) come desiderate, per poi condire il piatto finale secondo i vostri gusti. #01. CUOCERE LA CARNE 30 g di olio extravergine di oliva 900 g di sovracosce di pollo (disossate e senza pelle) macinate In una pentola a pressione, scaldate l'olio a fuoco vivace fino a farlo sfrigolare. Aggiungete il pollo macinato in uno strato uniforme e fate rosolare, girando e sgranando la carne con un cucchiaio di legno o una spatola rigida, fino a quando non avrà assunto un color mogano (ci vorranno circa 3 o 4 minuti). #02. CUOCERE IL FONDO NELLA PENTOLA A PRESSIONE 2 L di acqua 2 cipolle grandi tagliate a cubetti da 2,5 cm (550 g) 2 carote grandi tagliate a cubetti da 2,5 cm (260 g) 2 coste di sedano tagliate a cubetti da 2,5 cm (115 g) 4 spicchi di aglio in camicia (25 g) 5 g di pepe nero in grani Aggiungete l'acqua, le cipolle, le carote, il sedano, l'aglio e i grani di pepe e mescolate per amalgamare il tutto. Sigillate la pentola a pressione con il coperchio e portate la pressione a 2 bar (alta) a fuoco sostenuto. Una volta raggiunta la pressione, abbassate la fiamma (media) per mantenere i 2 bar e cuocete per 30 minuti. Togliete dal fuoco e depressurizzate la pentola. Filtrate il fondo con un colino a maglie fini e versate in una cocotte o in un tegame da 4 litri. Scartate le parti solide.

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Non avete una pentola a pressione? Nessun problema Potete preparare questi dadi brodo anche senza pentola a pressione, ci vorrà solo un po’ più di tempo. Dopo aver aggiunto l'acqua e gli aromi, portate il liquido a ebollizione a fuoco alto, poi riducete la fiamma a medio-bassa per mantenere il bollore e fate cuocere per 1 ora e 30 minuti. Filtrate e procedete come da ricetta.

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#03. RIDURRE IL FONDO 40 g di gelatina in polvere o in fogli 30 g di sale 10 g di glutammato monosodico (MSG) Aggiungete la gelatina, il sale e il glutammato monosodico al fondo filtrato e mescolate. Portate a ebollizione a fuoco medio-alto, poi riducete la fiamma per mantenere l’ebollizione. Cuocete, mescolando e raschiando di tanto in tanto il fondo e i lati della cocotte con una spatola in silicone, fino a quando il brodo non si sarà ridotto a 500 grammi (ci vorrà circa 1 ora). Continuate a ridurre il brodo a fuoco lento, mescolando spesso e controllando attentamente perché potrebbe bruciare. Lasciate ridurre fino a quando il composto non avrà acquisito la consistenza del caramello e si sarà ridotto a 280/300 grammi (circa 15 minuti). Togliete dal fuoco. IMPORTANTE: se l'emulsione si rompe, significa che il composto si è ridotto troppo e che c'è troppo poca acqua rispetto alla quantità di grasso. Per ri-emulsionare, aggiungete acqua, 2 cucchiai alla volta (30 grammi), continuando a cuocere a fuoco lento e a mescolare finché l'emulsione non si riforma. #04. PORZIONARE E CONGELARE I CUBETTI Trasferite il fondo in un misurino per liquidi. Dividete uniformemente in porzioni da 35 g versando in uno stampo per cubetti di ghiaccio in silicone (2,5 cm per lato). Lasciate raffreddare a temperatura ambiente per 10 minuti, poi trasferite in freezer e raffreddate fino a quando i cubetti non si saranno completamente solidificati (circa 2 ore). Una volta completamente congelati, sformate e trasferite i dadi in un sacchetto tipo ziplock. Riponeteli in freezer e conservateli per quando vi serviranno.

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Per rigenerare il fondo, unite 1 cubetto di fondo (35 g) con 475 g di acqua bollente in un contenitore a prova di calore. Mescolate fino a quando non si sarà sciolto completamente.

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PREPARAZIONE E CONSERVAZIONE I dadi di fondo possono essere preparati in anticipo e conservati in freezer in un sacchetto tipo ziplock per un massimo di 6 mesi.


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COME USARLO #01

IL BRODO DI POLLO CON IL “DADO SCIENTIFICO”

Ci sono poche cose che danno soddisfazione come sorseggiare un bel brodo di pollo quando fuori piove e fa freddo. Con i nostri cubetti di fondo di pollo, potrete preparare un ottimo brodo fumante in dieci minuti, il tempo che impieghereste per preparare una cioccolata calda o un caffè. Dato che i dadi sono già aromatizzati, tutto ciò che dovete fare è scioglierli in acqua calda e aggiungere alcune erbe e aromi: in questo caso ho scelto di utilizzare timo, prezzemolo, pepe nero e scorza di limone. La frazione di grasso contenuta nei cubetti aiuta a far "sbocciare" gli aromi liposolubili delle erbe, mentre la quantità di gelatina è sufficiente per dare corpo e struttura al brodo.

INGREDIENTI

(per 1 o 2 porzioni) • 720 g di acqua • 35 g di dado scientifico (1 cubetto) • 4 g timo fresco (3 rametti) • 4 g prezzemolo fresco • 4 g pepe nero macinato al momento (2 cucchiaini) • 4 g scorza di limone, pelata a strisce grandi

COSA VI SERVE

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Pentola da 2 litri French press (facoltativa)

TEMPI DI PREPARAZIONE

10 minuti in totale; 2 minuti ai fornelli

#01. RIGENERARE IL BRODO 720 g di acqua 35 g di dado scientifico di pollo (1 cubetto) In una casseruola da 2 litri, porta l'acqua a ebollizione a fuoco alto. Aggiungete il dado da brodo e sbattete finché non si sarà sciolto completamente (circa 30 secondi). Togliete dal fuoco. #02. AGGIUNGERE GLI AROMI Qui potete aggiungere le erbe che preferite. 4 g timo fresco (3 rametti) 4 g prezzemolo fresco 4 g pepe nero macinato al momento (2 cucchiaini) 4 g scorza di limone, pelata a strisce grandii Mentre l'acqua bolle, unite timo, prezzemolo, pepe e scorza di limone in una french press (pressa francese). Versate il brodo caldo nella pressa francese e lasciate in infusione per 5 minuti. Pressate e filtrate il brodo. Usatelo per i vostri primi piatti preferiti, Servite immediatamente.

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#03. PREPARAZIONE E CONSERVAZIONE Il brodo può essere preparato in anticipo e conservato in un contenitore ermetico per un massimo di 3 giorni, in frigorifero. Riscaldatelo sul fornello o nel microonde prima di servirlo.

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COME USARLO #02

RISOTTO GIALLO CON IL “DADO SCIENTIFICO”

“Il risotto alla milanese non deve essere scotto, ohibò, no! solo un po' più che al dente sul piatto: il chicco intriso ed enfiato de' suddetti succhi, ma chicco individuo, non appiccicato ai compagni, non ammollato in una melma, in una bagna che riuscirebbe schifenza. Del parmigiano grattuggiato è appena ammesso, dai buoni risottai; è una banalizzazione della sobrietà e dell'eleganza milanesi. Alle prime acquate di settembre, funghi freschi nella casseruola; o, dopo S. Martino, scaglie asciutte di tartufo dallo speciale arnese affetto-trifole potranno decedere sul piatto, cioè sul risotto servito, a opera di premuroso tavolante, debitamente remunerato a cose fatte, a festa consunta.

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Né la soluzione funghi, né la soluzione tartufo, arrivano a pervertire il profondo, il vitale, nobile significato del risotto alla milanese.”

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INGREDIENTI

(dosi per 6 persone) • 600 g di riso Carnaroli • 180 g di burro • 60 g di Parmigiano Reggiano grattugiato • 10 g di stimmi di zafferano • 100 g di scalogno tritato • 400 ml di vino bianco secco • 2 L brodo di pollo (preparato con la ricetta precedente) • Sale q.b. • Pepe q.b.

PROCEDIMENTO

Unite il riso e il brodo di pollo in una ciotola capiente. Agitate i chicchi con una frusta per liberare l'amido. Versate il riso in un colino a maglie fini posto su una ciotola grande e lasciatelo scolare per 5 minuti, mescolando il riso di tanto in tanto. Mettete da parte il brodo. Scaldate il burro ( 90 g) in una padella dal fondo spesso a fuoco medio-alto, fino a quando la schiuma non si riduce. Aggiungete il riso e cuocete, mescolando e rigirando spesso, finché tutto il liquido non sarà evaporato, il burro non sarà spumeggiante e il riso non avrà iniziato ad assumere un colore biondo dorato e un aroma di nocciola (ci vorranno circa 5 minuti). Aggiungete lo scalogno tritato e lo zafferano, quindi cuocete, mescolando, per circa 1 minuto. Aggiungete il vino, mescolate una volta e fate cuocere finché non si riduce della metà. Tenete da parte un bicchiere di brodo, rimestate il riso e versate il resto del brodo nella padella. Aumentate la fiamma al massimo e portate a ebollizione. Mescolate il riso una sola volta, coprite e riducete il fuoco al minimo. Fate cuocere il riso per 5 minuti, indisturbato. Mescolate una volta, scuotete delicatamente la pentola per ridistribuire il riso, coprite e continuate la cottura fino a quando la parte liquida non sarà stata assorbita e il riso risulterà tenero ma con una lieve croccantezza interna.

Gianfranco Lo Cascio

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Togliete il coperchio e aggiungete il bicchiere di brodo messo da parte. Aumentate la fiamma al massimo e cuocete, agitando continuamente il riso, fino a quando non risulterà denso e cremoso. A fuoco spento, aggiungete il burro e il formaggio e mantecate. Salate e pepate a piacimento e guarnite con degli stimmi di zafferano interi. Servite immediatamente su piatti caldi.

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Quelle incredibili coincidenze non deterministiche

Seguo.

a cura di Emiliano Nencioni

“Sai, tuo nonno è stato uno dei laureandi prediletti del mio prozio!” “E questo fa di noi…?” “Siamo praticamente parenti!” Uno degli sfizi che avrei sempre voluto togliermi qui sulle pagine della vostra rubrica (credo) preferita è intervistare uno scienziato che potesse rispondere ai miei, e quindi vostri, quesiti scientifici, tecnici, filosofici o metafisici. É noto a tutti che, anche per accompagnare la consueta carrellata di scienziat-e donn-e, sin dal numero Zero abbia cercato di contattare la fantastica Gabriella Greison, ma con poca fortuna. Per colpa, o merito, di una gugolata storta, tuttavia, mi sono imbattuto in una …quasi amica di famiglia.

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Charlize Gipitelli è nata a Montreal, in Canada, nel 1977, da una famiglia di origini italiane. Suo nonno, Fred Gipitelli, era un fisico che si era laureato sotto l’illustre scienziato, e mio immeritato prozio, Franco Rasetti (sì, quello de “I ragazzi di Via Panisperna”), quando insegnava presso l'Università Laval di Quebec. Fin dall'infanzia, Charlize si è interessata alla scienza, in particolare alla fisica, grazie alla passione trasmessa dal nonno. Ha frequentato la scuola in Canada e si è laureata in fisica all'età di 26 anni presso l'Università di Toronto, dove ha dimostrato una spiccata abilità nella geometria non euclidea e una vera passione per la fisica quantistica. Dopo la laurea, Charlize ha deciso di seguire le orme del nonno e si è iscritta al programma di dottorato presso l'Università Laval di Quebec. Qui ha incontrato il professor Pierre Laporte, uno dei più grandi esperti di fisica teorica del Canada, che sarebbe diventato il suo mentore. Charlize ha iniziato a lavorare su un progetto di ricerca sulla fisica delle particelle e dell'entanglement quantistico, che l'avrebbe portata a conseguire il dottorato di ricerca all'età di 29 anni. Ha poi deciso di restare all'Università Laval come docente di fisica e ha continuato a condurre ricerche sulla fisica quantistica, diventando una delle scienziate più rispettate del Canada. Oltre alla sua carriera accademica, Charlize è anche una appassionata di montagna e arrampicata, una passione che ha coltivato fin dall'infanzia grazie alle vacanze in montagna con la famiglia. Ha scalato alcune delle vette più alte del Canada e ha anche partecipato a diverse spedizioni scientifiche nelle zone più remote del mondo. Charlize ha ricevuto numerosi premi e riconoscimenti per il suo lavoro scientifico, tra cui il prestigioso Premio Eddington per la Fisica Teorica nel 2013. Oggi continua a lavorare come docente e ricercatrice presso l'Università Laval, insegnando e ispirando le future generazioni di scienziati.

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In tutto questo, dopo una curiosa chiacchierata sul mondo della fisica italiana negli anni venti del secolo scorso, Charlize ha accettato di rispondere, per i lettori della rubrica Seguo, a qualche domanda da “entusiasti profani” su quel mondo di cui sappiamo spaventosamente poco. No, non il Multiverso: il quantum computing, in italiano i calcolatori quantistici.

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In tanti si riempiono la bocca di paroloni: youtuber, marketer, venditori di infoprodotti o fuffa varia, basta accostare “quantistico” e qualsiasi baggianata sembra all’avanguardia. Ma, alla fine, cos’è un computer quantistico? (le risposte di Charlize sono tradotte dall’inglese: se qualche paragrafo tende ad avere un umorismo bizzarro, è colpa di vari lost in traslation: vi assicuro che in originale la professoressa fa schiantare da ridere)

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"Non so come sia successo, ma alla fine mi sono ritrovata a capire le cose più strane del mondo, come l'entanglement quantistico e i qubit basati sui nanotubi di carbonio. La gente mi guarda come se fossi una sorta di maga che sa tutto e fa tutto, ma in realtà ho solo una passione per la fisica e la voglia di capire come funzionano le cose. Ho dedicato la mia vita a cercare di capire come funziona il nostro universo e spero di poter fare ancora di più in futuro. Ma non pensate che sia solo un sacco di noia e di formule! Sì, ci sono giorni in cui devo trascorrere ore davanti a un computer o a un microscopio, cercando di analizzare i dati o di capire le equazioni, ma ci sono anche momenti in cui faccio cose incredibili, come scalare montagne o configurare Netflix sulla smartTV di

mia madre. E poi c'è il divertimento di insegnare. Mi piace vedere gli occhi dei miei studenti che si illuminano quando finalmente capiscono qualcosa che sembrava complicato o misterioso. Ci sono sempre quegli studenti che ti chiedono domande impossibili, ma è il prezzo che devo pagare per essere una rockstar della fisica quantistica. Insomma, la mia vita non è solo dietro a un tavolo di lavoro o dietro un libro di testo, ma è una combinazione di avventure, scoperte e passione. E tutto grazie alla mia curiosità e alla voglia di capire come funziona il mondo. Ma veniamo alla tua domanda: Un computer quantistico è un tipo di computer che utilizza i principi della meccanica quantistica per effettuare operazioni matematiche molto più velocemente di un computer tradizionale. Mentre i computer tradizionali usano i bit come unità fondamentali di informazione (dove ogni bit può essere 0 o 1), i computer quantistici utilizzano i qubit, che possono rappresentare 0 e 1 allo stesso tempo. Questo permette di effettuare operazioni simultanee su un gran numero di dati, portando a un enorme potenziale di calcolo per risolvere problemi complessi in campi come la chimica, la fisica, la criptografia, la finanza e l'Intelligenza Artificiale. I computer quantistici stanno ancora evolvendo, e non sono ancora in grado di sostituire completamente i computer tradizionali. Tuttavia, gli esperti prevedono che i computer quantistici saranno sempre più importanti nel mondo tecnologico del futuro e potranno contribuire a risolvere problemi che attualmente sembrano insormontabili." É tutto così vago. Presumo che la maggior parte dei lettori si sia arenata completamente al concetto di Qubit. Proviamo ad approfondire? "Immagina che un computer tradizionale, basato sui bit, sia come una macchina con due interruttori on/off. Ogni interruttore può essere in uno di due stati possibili, "on" o "off", e combinati insieme possono rappresentare tutti i numeri e le informazioni che il computer può elaborare.Un computer quantistico, d'altra parte, è come una macchina


con una serie di interruttori molto più sofisticati. Questi interruttori, chiamati qubit, non possono essere solo "on" o "off" come i bit tradizionali, ma possono anche essere in uno stato che è una combinazione dei due. In altre parole, i qubit possono essere sia "on" che "off" allo stesso tempo! Ti ricordi quella cosa del Gatto di Schroedinger, che ci hanno servito in mille salse in ogni serie televisiva sci-fi, da Star Trek a Big Bang Theory? Eccolo di nuovo! Questa caratteristica dei qubit, chiamata sovrapposizione quantistica, permette ai computer quantistici di elaborare molte più informazioni in parallelo rispetto ai computer tradizionali. Inoltre, i qubit possono anche essere collegati tra di loro in modo da influenzarsi a vicenda e creare "entanglement quantistico", un'altra proprietà fondamentale della fisica quantistica che può essere sfruttata per elaborare informazioni in modo ancora più efficiente. In sintesi, puoi pensare a un computer quantistico come un dispositivo molto potente che può sfruttare le proprietà quantistiche della materia per elaborare informazioni in modo molto più rapido ed efficiente di un computer tradizionale. Vale la pena notare che la programmazione e l'uso di un computer quantistico richiedono una comprensione profonda della fisica quantistica, quindi non sono ancora accessibili a tutti. Un esempio comunemente usato per spiegare la sovrapposizione quantistica è quello di una moneta che gira sull'indice. In questo esempio, se la moneta cade con il lato testa in su, rappresenta lo stato "1", mentre se cade con il lato croce in su, rappresenta lo stato "0". Tuttavia, se la moneta gira sull'indice, può cadere in una sovrapposizio-

ne di entrambi i lati, rappresentando uno stato quantistico." Ma da questo esempio non si capisce niente. Che vuol dire? "É normale, nella fisica quantistica non si capisce nulla. Solitamente chi dice di aver capito finge, o si impara a memoria quattro concetti per passare un esame o per scrivere la sceneggiatura di un brutto film. Ma torniamo al qubit, altrimenti perderò completamente la tua attenzione e torneremo a parlare di supereroi: esistono diverse tecnologie per realizzare i qubit in un computer quantistico, tra cui: 1. Qubit basati su ioni: in questo caso, gli ioni vengono intrappolati e manipolati da campi elettrici e magnetici per creare uno stato quantistico. Questa tecnologia è stata una delle prime a essere sviluppate ed è stata dimostrata la possibilità di creazione di un computer quantistico basato su qubit di ioni. 2. Qubit basati su superconduttori: questa tecnologia si basa sull'uso di circuiti superconduttori per creare e manipolare gli stati quantistici. I qubit di questo tipo possono essere realizzati su chip di silicio, rendendoli compatibili con la tecnologia dei semiconduttori, che è ben sviluppata e consolidata (ed è un bene). 3. Qubit basati su fotoni: in questo caso, i qubit sono rappresentati dallo stato di polarizzazione dei fotoni. Questa tecnologia è stata usata per dimostrare la trasmissione di informazioni sicure tramite crittografia quantistica. Anche qui, tutta teoria.

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Ci sono anche altre tecnologie emergenti, come i qubit basati sui defect centers in diamanti o sui nanotubi di carbonio, che stanno attualmente ricevendo molta attenzione dalla comunità scientifica.

• Tieni presente che la creazione e la manipolazione dei qubit sono estremamente delicate e sensibili alle perturbazioni ambientali, rendendo la realizzazione di un computer quantistico stabile e scalabile una sfida tecnologica molto complessa." Quindi siamo in alto mare, non esiste da qualche parte un computer quantistico che qualcuno possa accendere, loggarsi e utilizzare.

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"Ci sono stati molti tentativi di costruzione di un computer quantistico fin dagli anni '80, quando il concetto di un computer quantistico è stato per la prima volta proposto. Tuttavia, la maggior parte di questi tentativi sono stati limitati da varie sfide tecniche, come la difficoltà che ti anticipavo poco fa di controllare e manipolare i qubit quantistici in modo affidabile. Negli ultimi anni, grazie ai progressi nella tecnologia dei qubit e alla disponibilità di risorse e finanziamenti maggiori, si sono fatti molti passi avanti nella costruzione di un computer quantistico funzionale. Ne cito alcuni. • IBM ha fatto grandi progressi nella costruzione di computer quantistici con la sua serie di computer quantistici IBM Q. Il più grande di questi, il computer quantistico IBM Q System One, è stato presentato nel 2019 e ha 20 qubit. • Google ha annunciato di aver raggiunto il vantaggio quantistico nel 2019, utilizzando un computer quantistico a 53 qubit chiamato Sycamore.

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Rigetti Computing è un'altra azienda che sta costruendo computer quantistici. Ha annunciato il lancio del suo servizio di cloud quantistico, chiamato Rigetti Quantum Cloud Services, nel 2018. Microsoft sta lavorando sulla costruzione di un computer quantistico basato su topological qubit, che sono particolarmente robusti contro le perturbazioni ambientali. IonQ è un'altra azienda che sta costruendo computer quantistici basati su qubit a ioni.

Per rispondere alla tua domanda, no, non puoi comprare un computer quantistico su Amazon." Sono rimasto affascinato dal discorso dei Qubit in nanotubi di carbonio, forse perchè è l’unica cosa che riesco ad immaginarmi. Nanotubi con nanorubinetti che spero non si nanointaseranno. "Questa tecnologia è particolarmente interessante perché i nanotubi di carbonio hanno molte proprietà uniche che potrebbero rendere i qubit basati su di essi più stabili e facili da manipolare rispetto ad altre tecnologie di qubit. I nanotubi di carbonio sono strutture tubulari di carbonio, la cui forma ricorda quella di un tubo di scarico. Sono costituiti da una singola foglia di grafene, che viene arrotolata su se stessa per formare un tubo. I nanotubi di carbonio possono avere diametri che vanno da pochi nanometri a diversi micrometri e possono essere sintetizzati in vari modi, come per esempio tramite la deposizione chimica di vapore o l'arc-discharge. I qubit sfruttano la proprietà dei nanotubi di carbonio di avere due stati quantistici intrinseci, chiamati spin elettronici e polarizzazione di spin nucleare, che possono essere manipolati per rappresentare informazioni quantistiche. Gli spin elettronici si riferiscono alla rotazione degli elettroni intorno al proprio asse, mentre la polarizzazione di spin nucleare si riferisce alla rotazione dei nucleoni (protoni e neutroni) all'interno del nucleo dell'atomo. Per creare un qubit basato sui nanotubi di carbonio è necessario manipolare uno di questi due stati quantistici, in modo da creare uno stato quantistico di sovrapposizione. Ciò può essere fatto applicando campi magnetici o elettrici ai nanotubi di carbonio, che possono manipolare gli spin elettronici o la polarizzazione di spin nucleare.


I nanotubi di carbonio hanno una dimensione estremamente piccola, il che significa che possono essere facilmente integrati su chip di silicio utilizzando la tecnologia dei semiconduttori. Ogni tanto una buona notizia. Questo potrebbe anche consentire di integrare qubit quantistici e dispositivi di controllo su un unico chip." Mi è venuto in mente l’uso improprio che da qualche anno si fa dell’espressione “entanglement quantistico”, cercando facili e forzati paragoni con i sentimenti e la vicinanza affettiva fra persone: se a me causa profonda irritazione, immagino come possa esasperare voi studiosi del settore.

due o più particelle subatomiche sono collegate in modo tale che lo stato di una particella dipende dallo stato dell'altra, anche se queste particelle sono separate da grandi distanze. Questo fenomeno è stato dimostrato attraverso una serie di esperimenti e ha importanti implicazioni nella meccanica quantistica. Tuttavia, quando si parla di relazioni o connessioni tra le persone, l'uso del termine "entanglement quantistico" è completamente improprio. Le relazioni interpersonali sono complesse e dipendono da una vasta gamma di fattori sociali, culturali e psicologici. Utilizzare un termine scientifico complesso e fuori contesto può sembrare romantico o poetico, ma non ha alcun valore scientifico. Oltre ad essere insopportabilmente cringe, diciamoci la verità. Tra l’altro l'entanglement quantistico è un fenomeno quantistico che si verifica solo a livello microscopico e non può essere esteso alla scala umana: utilizzarlo come metafora per descrivere le relazioni umane è altamente inappropriato e potrebbe portare a fraintendimenti o confusione."

L'entanglement quantistico si verifica quando

Ok, è venuto il momento: scatenati, e spiega

BBQ4All Magazine

"Sì, purtroppo il termine "entanglement quantistico" viene spesso usato in modo improprio, soprattutto in contesti romantici o emotivi, come nei biglietti di auguri o nelle frasi d'amore. In realtà, l'entanglement quantistico è un fenomeno molto complesso e difficile da descrivere in modo preciso anche per gli esperti del settore.

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L'entanglement quantistico può essere descritto matematicamente attraverso l'uso di un formalismo noto come stato di Bell. Uno stato di Bell è uno stato quantistico di due particelle entangled, in cui le proprietà delle due particelle sono intrecciate in modo tale che non sia possibile descrivere le proprietà di una particella indipendentemente da quelle dell'altra. Ad esempio, uno stato di Bell può essere descritto come: |Ψ⟩ = (|00⟩ + |11⟩) / √2 dove |00⟩ e |11⟩ rappresentano gli stati di base in cui entrambe le particelle sono nello stato 0 o 1 contemporaneamente, e √2 è un fattore di normalizzazione che garantisce che la somma delle probabilità sia uguale a 1.

Febbraio 2023

l'entanglement quantistico a un pubblico di appassionati di barbecue e di cucina. Tutto sommato, non credo che la loro soglia di attenzione sia molto inferiore ai tanti studenti disinteressati e un po’ strafatti che incontri giornalmente. Spara, senza pietà.

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In uno stato di Bell, le proprietà di una particella sono intrecciate con quelle dell'altra particella. Ad esempio, se si misura lo stato di una particella in uno stato di Bell, si otterrà una misura casuale di 0 o 1. Tuttavia, la misura dell'altra particella nello stato di Bell fornirà lo stesso risultato, indipendentemente dalla distanza tra le due particelle.

"Ok, è una tua scelta, sei pronto? L'entanglement quantistico è un fenomeno che si verifica quando due o più particelle quantistiche, come ad esempio qubit, sono strettamente correlate tra loro, in modo che lo stato di una particella dipenda in modo deterministico dallo stato delle altre particelle, anche se sono separate da una grande distanza. In altre parole, le particelle entangled sono in uno stato quantistico combinato, in cui le proprietà di una particella sono intrecciate con quelle delle altre particelle entangled.

Si parla molto poco di una applicazione in realtà molto reale, utile e quotidiana: la crittografia. La crittografia quantistica è una tecnologia di sicurezza basata sull'utilizzo dell'entanglement quantistico per creare una chiave di crittografia che può essere utilizzata per proteggere le comunicazioni. Poiché l'entanglement quantistico garantisce la sicurezza della chiave, la crittografia quantistica è considerata inviolabile.

In particolare, l'entanglement quantistico si verifica quando due particelle quantistiche sono in uno stato sovrapposto, in cui entrambi gli stati di base 0 e 1 sono presenti contemporaneamente. Questo stato sovrapposto può essere descritto matematicamente come una combinazione lineare di entrambi gli stati di base, con i coefficienti che rappresentano la probabilità di trovare la particella in uno stato specifico.

In una tipica applicazione di crittografia quantistica, due utenti desiderano comunicare in modo sicuro. Per creare una chiave di crittografia, un dispositivo generatore di chiavi di crittografia invia due particelle entangled a ciascuno degli utenti. I due utenti poi misurano le particelle entangled, creando così una chiave di crittografia che è garantita essere sicura e privata: quando due particelle sono entangled, qualsiasi tentativo di


osservare una particella senza influenzare l'altra interferirà con l'entanglement, compromettendo la sicurezza della chiave di crittografia. Ancora un volta, se non hai capito niente puoi limitarti a sorridere e fare un compiaciuto “sì” con la testa. Una delle cose più interessanti è che l'entanglement quantistico solleva diverse questioni filosofiche e concettuali sulla natura della realtà e della causalità nella fisica quantistica. L'entanglement quantistico sembra suggerire l'esistenza di una connessione profonda e misteriosa tra le particelle quantistiche, che sfida la nostra comprensione della fisica classica." Esatto: è proprio con qualche cenno di natura filosofica che vorrei finire questa chiacchierata con te. Oltre alle evidenti problematiche di carattere tecnico e matematico, ho l’impressione che il grande pubblico non arrivi a comprendere queste tematiche per dei motivi più antropologici, culturali, filosofici e di totale mancanza di un vocabolario adeguato, o di metafore e termini di paragone per veicolare e spiegare l’idea stessa di entanglement.

É un problema ben noto, infatti: nella fisica classica ogni oggetto è visto come un ente separato e indipendente, con proprietà definite e misurabili. Invece, nell'entanglement quantistico, le proprietà di una particella sono legate a quelle di un'altra particella in modo non locale, non dipendente dalla distanza che le separa. Questo è in contrasto con la nostra esperienza quotidiana e con la fisica classica, dove gli effetti sono sempre locali e limitati a un'area circostante la fonte dell'effetto. Ad esempio, se misuro la temperatura dell'acqua in un bicchiere, la mia misurazione non avrà alcun effetto sulla temperatura dell'acqua in un altro bicchiere in un'altra stanza. L'entanglement quantistico sfida anche l'idea di causalità e di determinismo, secondo cui ogni evento è determinato da un'origine specifica, e ogni effetto segue una causa specifica. In un sistema entangled, le proprietà di una particella non possono essere comprese separatamente da quelle delle altre particelle. In altre parole, non è possibile distinguere quale particella abbia causato quale effetto, poiché tutte le particelle sono coinvolte in modo interconnesso. Questa visione ha portato a una serie di teorie e interpretazioni filosofiche della fisica quantistica, tra cui l'interpretazione di Copenaghen, la teoria della decoe-

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renza, la teoria dell'informazione quantistica e la teoria della relatività generale. Siamo a tutti gli effetti in una nuova era di ricerca filosofica, che cerca di comprendere la natura della realtà, la causalità e l'informazione nella fisica quantistica. Ci sono anche implicazioni più ampie per la nostra comprensione della realtà e della nostra posizione all'interno dell'universo. Ad esempio, alcuni filosofi e scienziati hanno suggerito che l'entanglement quantistico potrebbe essere usato per spiegare fenomeni apparentemente inspiegabili, come la telepatia o la comunicazione tra le menti. Ma questo assolutamente non è più il mio campo, e fatico pure io a riuscire a immaginarmelo."

Febbraio 2023

Charlize, ti rendi conto che probabilmente questa è la chiacchierata quantistica più approfondita che sia stata mai pubblicata su una rivista …e qui parliamo di barbecue? Come la giustifico alla redazione?

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"É il posto giusto invece! Nel barbecue la precisione è fondamentale per ottenere la perfetta cottura della carne, ma c'è anche un elemento di imprevedibilità, perché ogni carne è diversa e richiede un trattamento diverso. Allo stesso modo, nella

fisica quantistica, anche se abbiamo molte regole e formule che ci permettono di fare previsioni, c'è ancora un elemento di imprevedibilità dovuto alle caratteristiche dei singoli fotoni o atomi che stiamo manipolando. Ti ricordi quella battuta di Einstein, “Dio non gioca a dadi”, usata per stigmatizzare la casualità delle teorie quantistiche? Pure lui si è dovuto ricredere, la casualità ci pervade, esattamente come la determinazione. É tutto “presente” nello stesso istante? O è tutto casuale? Forse le due condizioni sono sovrapposte. Un buon piatto è già un buon piatto mentre lo stai cuocendo alla perfezione? O al contrario sarà davvero un buon piatto solo dopo averlo mangiato e gustato tutto quanto, e quindi quando non sarà più un buon piatto ma un qualcosa in via di digestione? La percezione del tempo e della realtà cambierà molto, nei prossimi cinquant’anni. Nel frattempo, leggete la rivista, perfezionate le vostre cotture e studiate la fisica, affinché una nuova realtà non vi colga impreparati."

Emiliano Nencioni e Charlize Gipitelli Traduzione e adattamento dall’Inglese di Emiliano Nencioni


CLUB Dire ttam e n t e da lla commu n i ty d i ma e s tri di barbecue pi ù grande d’Itali a, nas ce i l pres ti gioso club ch e t i offre la po s s i bi li tà di avere: acc e s so pr io r ita r io a l mega s to re, dove p ot ra i fa re ra zz i e mentre tutti gli altri “ s o no i n coda” ; u na p rogra m mazio ne int elligent e dei tuoi acquis t i gra zi e a l cre d i to mens i le prepagato (s cegli tu quanto ); u n coach pr ivato che t i guiderà n e l fa r t i vi ve re l’es peri enza

pi ù ecci tante di s empre

con la preparaz i o ne dei tuoi pi atti ; e mo lto a lt ro a nco ra. . . Av rai tu tto qu e s to s olo s e t i i s cr i vi s ubi to al M EG ASTORE CLUB , l’uni co luogo ri s ervato a una c e rc h ia r is t retta d i a s p i ra n t i gr i ll ma s ter che des i derano apprendere pi ù velocemente e nel modo pi ù accurato po s s i bi le, la s ubli me arte del gri ll . Pu oi di s i s cri verti quando vuoi e i l tu o c redito s a rà s empre dis po nibile.

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