BBQ4All Magazine numero 11 - Novembre 2019

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N°11/ANNO 1 - NOVEMBRE 2019

MAGAZINE

GIA NFR A NCO LO CAS CIO

TUTTO QUELLO CHE NON HAI CAPITO DELL' ARROSTICINO ANCHE SE SEI ABRUZZESE

L O SP I E D I N O

MISTO O NON MISTO

QUESTO È IL PROBLEMA!

dai

S P EC I A LE S P I E D I N I DA L MO N D O

Souvlaki ai Corn Dog


CLUB

Dire tta m e n t e da lla com m uni ty d i maes tri d i barb ecu e p iù gran d e d ’Ita lia, na s c e i l pre st i gi oso c lub ch e ti offre la p o s s ibilità d i avere: accesso p riorita rio a l meg a store, dove pot ra i fa re ra zz i e men tre tu tti gli altri “s o no in coda”; u na p rogram mazi o ne intellig ente dei tuoi a cquisti gra z i e a l c re di to m e ns ile p rep agato (s cegli tu quan to ); u n coach priva to che ti g uiderà ne l fa r t i vi ve re l’ e sperien za p iù eccitan te d i s emp re con la pre parazio n e d ei tu oi p iatti; e molto a ltro a ncora... Av ra i tu tto que sto solo se t i i sc rivi s u bito al MEGASTO RE CLU B, l’u n ico luogo r i s e rvato a una c e rc hi a r i st re tta d i as p iran ti grill mas ter ch e d es id era no a ppre n de re pi ù ve loc e m e n te e n el modo p iù accu rato p o s s ibile, la sublime arte d el grill. Puoi di si s criverti quan do vu oi e i l tu o cred i to sa rà sempre disponibile.

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H T T PS : / / C LU B M E G ASTO R E . B BQ 4 A L L. I T e c hi e di i nfo rmazio n i p iù d ettagliate, pr i ma c he i coac h fin is cano e le is crizio n i ch iu dano .


EDITORIALE di GIANFRANCO LO CASCIO

t ut t o quello c he no n h a i a nc o r a c a p i t o

dell'ARROS T I C I N O anche se sei abruzzese

Ogni volta che provo a mettere in discussione capisaldi della gastronomia popolare, gli arrosticini in questo caso, si ripete sempre si ripete sempre la stessa scena: sfottò, fenomeni, maleducati e depositari della verità assoluta che mi tirano le uova addosso.

È l'attaccamento all'autorità. Anche se in questo caso l'autorità non è rappresentata da un singolo individuo ma è invece un concetto di grande respiro popolare, talmente radicato, talmente diffuso, talmente condiviso, talmente, come dire, “perfetto” che si è creato una specie di fortino dentro il quale nessuno è autorizzato ad entrare. Molti sarebbero pronti a combattere guerre pur di mantenere lo status quo. Ho addirittura letto un commento su Facebook di una persona che mi invitava a smettere di dire fesserie, di andare a provare gli arrosticini proprio in quel posto che diceva lui e mettermi a studiare sul serio.

Il sentimento è sempre lo stesso: io non capisco nulla perché non sono abruzzese mentre loro sanno tutto perché li preparano da anni, sono nati, sono cresciuti con l'odore dell'arrosticino nel naso. Sanno perfettamente che da tizio o da caio, in questo o in quel vicolo, l'arte dell'arrosticino ha raggiunto vette talmente alte che nessuno può minimamente essere in grado di rimetterlo in discussione. Questo è un atteggiamento sociale molto diffuso purtroppo. Ora, a me si può dir tutto meno che io sia un uomo che parla se non ha perfettamente chiaro l’argomento e una profonda conoscenza di quella specifica materia.

Eppure, la forza dell'autorità dell'arrosticino non prevede che “un ribelle” possa o debba osare fino a tanto. Beh, c'è una buona notizia e una cattiva notizia. La buona notizia è che non è necessario andare, per forza, a smontare un concetto tanto caro ad una specifica compagine sociale ma è semplicemente possibile migliorare alcune sfumature per ingegnerizzare un protocollo e fare in modo che quella specifica preparazione sia, sempre utilizzando procedure ripetibili, niente di meno che perfetta. La cattiva notizia è che per riuscirci sarà necessario rimettere in discussione l'autorità di quello specifico complesso e analizzarla con giudizio e mettendo da parte quella stupida e inutile faziosità fine a se stessa. Andiamo al sodo. NOVEMBRE 2019

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Si può migliorare l'arrosticino senza crearne delle varianti? La risposta è assolutamente sì. E ve la spiegherò tra un secondo ma non prima di aver chiarito alcuni aspetti fondamentali.

Tra l'altro, di solito, è sempre l’uomo che cuoce gli arrosticini. È raro che sia una donna a mettersi a prepararli. Perché? Perché stando vicino al tipico dispositivo di cottura (canala, furnacella) il fumo tende ad impregnare i vestiti ma soprattutto i capelli. E spesso l’odore non viene via nemmeno dopo essersi lavati. Perché l'arrosticino ha così tanto successo? Questo è un dato molto importante che vi tornerà Molti sostengono che sia merito dalla convivialità nel come un boomerang tra pochissimo. mangiarlo e della facilità di cottura. Ma questo vale, se ci pensate un attimo, per tutte le preparazioni attorno Dunque ricapitoliamo, il successo dell’arrosticino a un fuoco. non è ascrivibile alla convivialità, non è legato alla La fiorentina nasce proprio come un bisteccone enor- praticità di cottura. E allora a cosa è dovuto? me da condividere a tavola. Non è mai stato pensato Ve lo dico subito: è grazie a delle percezioni fisico-chicome un piatto singolo. miche, due in particolare. Il maialino sardo, idem. Le bombette, la porchetta, lo spiedo bresciano. E sono PRIMA PERCEZIONE: MOLECOLE PRODOTTE certo che non serve andare avanti e fare altri esempi. DALLA REAZIONE DI MAILLARD. Ovvio che l'arrosticino è un pretesto per la convivialità. Ma è per questo che ha successo? Direi proprio di L'arrosticino è, nel complesso, la preparazione con no. la più alta concentrazione di superfici sottoposte a reazione di Maillard. Nessuna, dico nessun'altra preAllora sarà per la facilità di cottura? parazione ha così tanta superficie cauterizzata in così Parliamo di pezzi di carne molto piccoli, cotti su una poco volume. brace a calore mediamente elevato, sono pronti in Un uomo adulto sarebbe perfettamente in grado di fretta e non richiedono molta attenzione. Chiunque tenere in bocca e masticare in scioltezza il contenuto può cuocerli. di 4 o 5 arrosticini senza colpo ferire. Questa piccola 4 - BBQ4All MAGAZINE


quantità di carne possiede più superficie cauterizzata di qualunque altra preparazione conosciuta. SECONDA PERCEZIONE: MOLECOLE PRODOTTE DALL'AFFUMICATURA DA GRASSO OVINO. Nessuno si sofferma mai su questo particolare. Il grasso dell'arrosticino, grazie al calore, si scioglie, cade sulle braci, si vaporizza istantaneamente e crea questo fumo molto profumato e intenso che investe gli spiedini con il tipico e concentrato aroma di “grasso di pecora nebulizzato”. Ora, se è vero che il grasso di pecora può essere o non essere gradevole al morso, non c'è alcun dubbio che l'aroma di affumicato del grasso ovino sia incredibilmente conturbante per chiunque. Questo aroma è la seconda caratteristica che rafforza, in bocca, la percezione complessiva di questo apparentemente “piccolo e semplice” pezzo di carne. Dovete tenere presente, anche se non vi piace, che la vostra bocca ragiona in termini bio-chimici. E il vostro cervello non ha nulla a che fare con questo. Più sensazioni potenti si accumulano sulla vostra lingua e più coinvolgente sarà il risultato finale. A questo punto abbiamo capito e credo non ci siano

obiezioni in tal senso. Non abbiamo creato varianti, non abbiamo stravolto nulla, non siamo costretti a dover cambiare connotati al piatto. Abbiamo semplicemente fotografato, nel dettaglio, una preparazione apparentemente sempliciotta ma che abbiamo inquadrato, a livello gastronomico, come una sorta di cannone nucleare caricato a uranio arricchito. Ora facciamoci la domanda più importante. Si può migliorare l’arrosticino? La risposta è ancora sì, ma dobbiamo, prima di fare qualsiasi ragionamento, capire quali possono essere le difficoltà che si incontrano durante la preparazione. Il primo punto che amo ripetere, e che questa volta adatto al nostro concetto, è che non ci sono arrosticini buoni e arrosticini cattivi: esistono cuochi buoni e cuochi cattivi. Ma in questo caso c'è un terzo incomodo che è quello che li prepara. Potrebbero essere spiedini artigianali e fatti in casa, potrebbero essere preparati da un macellaio o comprati al supermercato. Ora ditemi, tutti gli arrosticini sono uguali? Ma neanche per sogno. Ragionate con me.

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Prendete un venditore qualunque di carne di pecora. Se si trova in una zona in cui quel tipo di carne ha un suo mercato allora può valorizzarla in tantissimi modi. Ma se invece si trova in un luogo in cui la carne di pecora la si può vendere solo ed esclusivamente sotto forma di arrosticino, state pur tranquilli che la quasi totalità di quella carcassa diventerà arrosticino: spalla, coscia, lombata, collo e tutto il resto. Non vedrete mai una coscia di pecora spolpata in bella vista su un banco carni. E vi dico mai. O resterebbe lì a stagionare come il prosciutto; almeno fuori dall'Abruzzo. Adesso si pone il problema, anzi i problemi. Qual è la provenienza di quella carcassa? È una pecora pregiata, allevata con tutti i sacri crismi? È un prodotto importato e congelato? Sono tagli di spalla o di coscia? Come possiamo esserne sicuri una volta che è stata ridotta a cubetti da 1cm di lato?

palato il nostro boccone. Perché se questo grasso non ci fosse, per quanto saporito e profumatissimo, grazie alla grande quantità di Maillard e all'aroma di fumo di grasso ovino, il boccone sarebbe asciutto e ancora vagamente tenace. Di certo poco interessante. Un arrosticino cotto poco conserverebbe succosità. In uno cotto un po' più a lungo si potrebbe sciogliere il connettivo. Ma se in quel pezzo di carne non ci fosse connettivo, otterremmo un cubetto di segatura. Direi che abbiamo individuato tutte le criticità possibili dell'arrosticino. Siamo d'accordo? Proviamo a fare un elenco dei pro e dei contro dell’arrosticino:

PRO Maggiore superficie cauterizzata che è uguale a “tanto Ve lo dice lo Zio: è impossibile. sapore”. Aroma di affumicato dato dal grasso ovino vaporizzaChi ha mangiato arrosticini lontani dalla qualità “pre- to. mium” potrà confermare ciò che vi sto dicendo: a volte sono duri anche se cotti alla perfezione, a volte sono CONTRO morbidi. A volte sono succosi, a volte sono asciutti. Significativa perdita di liquidi a causa del calore elevaSe avete seguito la Mail Class il motivo dovrebbe es- to e della dimensione minima. servi chiaro. Ma ripassiamo velocemente. Impossibilità di sapere quanto connettivo è presente Questo cubetto messo in cottura sulla canala a fuoco in uno o più cubetti. medio-alto riceve sufficiente calore per ottenere due caratteristiche di base, e cioè la cauterizzazione ester- Come risolviamo il problema? Ve lo dico subito: non si na e la disattivazione della mioglobina, perché cotto a può. O meglio… temperature certamente superiori ai 72°C. Questo cosa ci dice? Non si può risolvere nello stesso spiedino, con gli Ci dice che c'è sicuramente sufficiente calore per ot- stessi tagli e con lo stesso tempo di cottura. Ma qualtenere questi risultati, ma anche che non ci sarà ab- cosa possiamo fare. bastanza tempo e umidità per sciogliere l'eventuale Variazioni minime e split. Che vuol dire? tessuto connettivo presente in quello specifico taglio; perché potrebbe trattarsi di un pezzo di collo, di stin- Vuol dire questo. co, di punta di petto. Sottoponendo un pezzo di carne al calore elevato non Avremo due “tipi” di arrosticino. c'è alcun dubbio che la denaturazione e la coagula- Il primo tipo ci servirà per creare aroma di affumicato zione delle proteine avverrà in concomitanza ad una e crosta di cauterizzazione. massiccia contrazione delle fibre, che farà fuoriuscire Il secondo tipo ci servirà per incrementare il livello di una significativa quantità di liquidi. Avremo il tempo succosità e gradevolezza al palato. di disattivare la mioglobina cioè far cambiare il colore Nel primo arrosticino useremo dei tagli ricchi di condella carne da rosso a grigio-marrione, avremo il tem- nettivo. E solo quelli. Spalla, petto, stinco, collo. po di cauterizzarla, ma il risultato sarà un cubetto di Nel secondo arrosticino useremo altri tagli, magari carne con il connettivo ancora intatto e praticamente quelli “pregiati” che non ne contengono. E in questi nessuna presenza di liquidi all'interno. Da qui, non c'è potremo usare meno grasso rispetto ai primi. dubbio che risulterà tenace alla masticazione. Li cuoceremo in due distinti batch di cottura. Badate: saranno solo i piccoli pezzi di grasso interval- Il primo cuoce più a lungo, in modo che possa fornirlati a quelli magri a rendere morbido e gradevole al ci cauterizzazione, aroma di affumicato e una buona 6 - BBQ4All MAGAZINE


parte di connettivo che diventerà gelatina mantenendo ancora succulenza. Il secondo cuoce di meno, dev'essere appena toccato dal calore, non dobbiamo ricercare cauterizzazione ma solo una veloce coagulazione esterna e un riscaldamento interno. Basta tenerlo su per pochi minuti e girarlo di tanto in tanto. L'alchimia è che dovranno essere pronti nello stesso momento e che dovranno essere mangiati “a coppia”, insieme, affiancati l'uno all'altro. Nello stesso boccone dovrò avere sia il cubetto “croccante”, grasso e cauterizzato, sia il cubetto morbido e succoso. Questo, e posso mettervelo per iscritto firmandovi qualsiasi contratto, non andrà a raddoppiare ma probabilmente a quadruplicare la potenza e l'esperienza gustativa dei nostri arrosticini. Non abbiamo stravolto nulla. Usiamo tagli diversi e tempi di cottura diversi. Poi li uniamo nello stesso boccone. E vi garantisco che è molto più semplice a farsi che a dirsi. Ora ditemi se siete ancora convinti che l'arrosticino non si possa migliorare o che a questa versione dovremmo cambiar nome. Per quanto possa non piacervi (già vedo il Tanaka all'ultimo banco con la katana arrugginita) adesso sapete esattamente perché alcuni arrosticini sono morbidi e altri no. E sapete dove sta il problema. Magari non proverete mai questa versione, nemmeno per curiosità. Ma il mio obiettivo non era farvela provare, era un altro. E credo di averlo raggiunto. Se hai letto fino a qui non guarderai mai più gli arrosticini con gli stessi occhi di prima. Da questo momento sai cosa cercare e a chi chiedere. Per il mio metro sarà comunque una vittoria. Gianfranco Lo Cascio

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INDICE N OV E M B R E 2 0 1 9 - N U M E R O 1 1 A N N O 1

APPROFONDIMENTI 1 0 . PO RT FO L I O

WAGYU

il manzo dell'armonia 17. WINE CLASS

acidità è libertà

una nuova grammatica del gusto contemporaneo 22. GUIDA AI DISPOSITIVI

KAMADO

il dispositivo ad alte prestazioni

SPECIALE

SPIEDINI

28. arrosticino, ancora tu? storia e tradizioni di un classico intoccabile italiano

30. MISTO o NON MISTO? questo è il problema

32. FRIGARUI 34. PINCHOS MORUNOS 38. SHISH TAOUK 40. SOUVLAKI 44. ANTICUCHOS 46. SATAYS 48. PEANUTS SAUCE 51. KUSHIYAKI 54. CORN DOGS 57. HONEY GINGER MUSTARD 58. FICO, RICOTTA & NOCI 62. VINI ABBINATI 64. BIRRE CONSIGLIATE 66. IL COCKTAIL DEL MESE

RUBRICHE 68. Q-CIVERBA 70. LO SPEZIALE DEL BBQ 74. #CHIEDIALCOACH 78. SEGUO 8 - BBQ4All MAGAZINE


D I R E T TO R E E D I TO R I A LE

Rossella Neiadin

R E D AT T O R E C A P O

Michela Bongiorni REDAZIONE

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Enio Berton, Giovanni Bolzonella Virgilio Brunetti, Michele Chipa, Roberto Dal Bosco, Tommaso Di Gregorio, Salvatore Di Mento, Luca Gallozza, Mariangela Ibba, Gianfranco Lo Cascio, Alessandro Morichetti, Riccardo Meniconi, Emiliano Nencioni, Andrea Spaggiari, Alessandro Trezzi, Carlo Trono, Paolo Tucci REALIZZAZIONE GRAFICA

Carlo Trono S TA M PA

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PORTFOLIO a cura di ROBERTO DAL BOSCO

WAgyū 和牛

I L MA N ZO DELL'ARMONIA Ci sembra corretto iniziare questa rubrica scrivendo della regina della marmorizzazione, l’imperatrice dei grassi insaturi, la meravigliosa creatura che può valere persino un migliaio di euro al chilo: il wagyu.

che sta a significare il bovino. Quindi vuol dire «mucca giapponese»? Sì, ma non esattamente: esistono due razze autoctone, la Mishima e la Kuchinoshima, ma – come è avvenuto per la lingua giapponese, che prende in prestito talmente tante parole dagli stranieri che ha Così come i patiti di foie gras non possono prescinde- praticamente un alfabeto solo per quelle – la «mucca re dalle oche francesi, il carnivoro non può (non deve) giapponese» oggi è un insieme di ibridazioni con razignorare le mucche nipponiche, ottenute con decenni ze importate dall’estero per la bisogna. di sforzi genetici e allevate con una cura indefessa e sublime. Una carne che è il trionfo della volontà e del- Pare che attorno al 400 a.C. arrivarono nel Sol Levanla disciplina dell’alimentazione umana. te le prime mucche dalla Corea; con la fine dell’era feudale e l’apertura del Paese al mondo nella seconda Genericamente, vi diranno: il wagyu è un cibo sbalor- metà del XIX secolo arrivarono anche le razze bovine ditivo, una carne tenera sino all’inconcepibile, la cui europee, che rafforzarono gli incroci. materia si disfa nella cavità orale provocando sensazioni inedite. Qualcuno sostiene anche abbia un re- I progenitori della mucche wagyu che ora arrivano trogusto quasi burroso, dolce, addirittura «floreale». sulle nostre tavole furono importati dalla Corea nel La verità è che, come con ogni capolavoro, ognuno 400 a.C. Già ai primordi, il giapponese desiderava depercepisce del wagyu un mondo tutto suo. gli animali da tiro più resistenti. Ciò aveva una conseguenza che per noi è di fondamentale importanza: Innanzitutto chiariamoci: il wagyu non è esattamente queste bestie dovevano produrre molto grasso intrauna razza. muscolare, perché è grazie ad esso che trovavano le energie per il loro pesante lavoro di fatica. Nel 1864 Letteralmente la parola è composta da 和 (wa) che è il iniziò l’immissione di bovini stranieri (dagli USA, dalcarattere che sta a significare «Giappone» e 牛 (gyū) la Germania, dalla Svizzera, dal Regno Unito) e quindi 10 - BBQ4All MAGAZINE


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la ricerca degli incroci che hanno creato il wagyu moderno. La filiera oggi vuole che i bovini wagyu siano acquistati all’asta ancora vitelli. Con l’eccezione di una razza (la Tankaku Washu, che vedremo più sotto) l’allevamento avviene in stalla, dove vivono di solito in coppia. Per citare le illuminanti parole di Gianfranco Lo Cascio riguardo al Miyabi Wagyu, la più pregiata sottorazza che viene dall’antica capitale Kyoto, in queste stalle «ci sono migliaia di capi, nessun odore sgradevole e zero mosche. Vivono costantemente su un letto di trucioli di legno di hinoki perché adorano quel profumo. In pratica il Wagyu Miyabi caga sul nostro parquet». Tale parquet, che talvolta può essere anche di Sugi (cedro), viene rinnovato ogni 2 o tre giorni. Il nutrimento del wagyu prevede cereali come mais e orzo; il riso viene declinato in diverse varianti: crusca di riso, concentrato di riso, insilato di riso intero. Sopra ogni cosa, il bovino wagyu vive mangiando ad abundatiam trebbie di birre. La trebbia è formata dalla crusca dell’orzo, dagli amidi e dalle proteine non solubili che escono dalla produzione della birra. In tutto questo processo, gli antibiotici sono severamente esclusi. Nel caso del Miyabi, l’acqua servita agli animali è solo di fonte, poiché

si ritiene che il suo livello di mineralità svolga un ruolo non di poco conto nell’equilibrio finale del sapore delle carne. In più, l’acqua viene leggermente riscaldata d’inverno e resa più fresca d’estate. Avrete sentito dire che questi fortunati animali sono massaggiati costantemente dai loro allevatori: è in parte vero. Coccole, carezze, spazzolamenti vari – sempre eseguiti con estrema delicatezza – inducono la bestia a percepire un affetto solido da parte dell’allevatore e a disintegrare ogni forma di possibile stress: anche questo sa-

rebbe un fattore che favorirebbe il miracoloso ingrasso. Nel 1985 il dottor Kyoshi Namikawa, all’epoca direttore esecutivo del Registro delle Associazioni wagyu in Giappone, presentò presso un simposio sul wagyu alla Washington State University (USA) l’idea che questa cosa dell’intendere la birra e i massaggi come elementi essenziali della superiorità di questa carne altro non fosse se non «un fraintendimento». Qualcun altro è arrivato ad asserire che la nutrizione a base di birra sia solo una leggenda metropolitana perpetuatasi negli allevamenti. Vi confermiamo che è così, sono tutti elementi fittizi che servono ad abbellire la narrativa. L’età di macellazione del wagyu varia, dipendentemente dagli animali, tra i 26 e i 30 mesi. Dopodiché, le carcasse vengono esaminate da ispettori indipendenti che devono rispettare essenzialmente il criterio del «rendimento» (che significa: la quantità di carne in rapporto al peso totale) e il criterio della «qualità». La qualità ha parametri

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precisi: della carne vengono giudicati il colore, la brillantezza, la compattezza, la marmorizzazione. Anche il grasso è valutato secondo la sua quantità, il suo colore, la sua luminosità. Il sistema di voto degli ispettori è stabilito con voti che variano da 1 a 5 – dove 5 è il voto più alto assegnabile. Il rendimento è classificato da C ad A – dove A è la valutazione migliore assegnata. Ogni carcassa è giudicata quindi secondo questi criteri. Una carcassa wagyu A5 ha ottenuto il massimo punteggio possibile; una carcassa C1 ha preso il voto più basso. Secondo la principale categorizzazione, il wagyu deriva solo da quattro razze. Kuroge Washu, Mukaku Washu, Nihon Tankaku Washu, Akage Washu. Il Kuroge Washu («razza nera giapponese», in inglese conosciuta come Japanese Black), antica razza da tiro con striature di grasso bianchissime, costituisce il 90% delle razze wagyu. È allevata ovunque nell’Arcipelago. Le sue ascendenze europee si possono tracciare nelle razze Braunvieh e Simmental (Svizzera), Shorthorn e Devon e Ayrshire (Gran Bretagna) e Holstein (Germania ed Olanda) con le quali è stata scientemente incrociata. L’allevamento della «nera giapponese» si è sviluppato nel sud-ovest del Paese, nelle prefetture di Kyoto e Hyogo nella regione del Kansai, ma anche nelle aree di Hiroshima, Okayama, Shimane, Tottori e Yamaguchi nella regione del Chugoku, nonché dalle prefetture di Kagoshima e Oita sull’isola di Kyushu e di Ehime sull’isola di Shikoku. Nel 1960 la popolazione totale della razza era di oltre 1.800.000 capi, mentre nel 2008 la cifra era scesa a 707.000. Nel 1999, il nero

giapponese costituiva circa il 93% delle mandrie bovine nazionali. Quando nel 1919 si iniziò ad usare l’etichetta «bestiame giapponese migliorato», vi furono notevoli variazioni tra le popolazioni presenti nelle varie regioni. Di conseguenza, si crearono diversi ceppi della «nera giapponese». Uno di questi è il ceppo Tajima («Tajima Ushi» o «Tajima-gyu»). Solo la carne proveniente da animali di ceppo Tajima, allevato solo nella prefettura di Hyogo (dove sta, appunto, la città di Kobe), può essere approvata per la commercializzazione come manzo di Kobe. Il Kobe fu il primo wagyu che gli stranieri assaggiarono in Giappone: nel 1853 venne riaperto il porto della città dopo secoli di isolamento, e i fortunati

forestieri tornarono a casa raccontando la prelibatezza della carne giapponese. Di qui la fama, che tuttora perdura immotivatamente, del celeberrimo «manzo di Kobe» (lo sapevate che Kobe Bryant deve il nome a questa pietanza assaggiata dalla madre durante la gravidanza?), che oggettivamente è meno delicato di altri ceppi di Kuroge. Per esempio il Kyoto Miyabi, impareggiabile per tessitura dello “shimofuri” (il grasso intramuscolare) e aromaticità. L’Ohmi (potete trovarlo scritto anche senza h, o con traslitterazione Ō mi) è invece il primo allevato per la sua carne, che possiede una marezzatura sottile ed è leggermente dolce. Si narra che al tempo

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in cui la consumazione di carne di manzo era vietata (vedi sotto), si offrissero al governatore sottili fette di Ohmi marinate nel miso a mo’ di rimedio medicinale. Esistono molti altri ceppi di wagyu di qualità come lo Yonezawa, l’Iwate Shorthorn, l’Itachigyu, il Kazusa, Miyazakigyu. Un’altra delle principali quattro razze che costituiscono il wagyu, è il Mukaku Washu («razza giapponese senza corna», in inglese Japanese Polled) è un incrocio del Kuroge con l’Aberdeen Angus allevata soprattutto nella prefettura meridionale di Yamaguchi, nel Sudest dell’Honsu, cioè la principale isola dell’arcipelago giapponese. Questa razza è considerabile come la più piccola. Ambo i sessi mancano delle corna. Il suo colore è nero. La situazione del bovino mukaku è stata segnalata dalla FAO come “critica” nel 2007: si pensi che nel 1978 la popolazione totale dichiarata era di 2242 capi, mentre nel 2008 se ne contavano in tutto 132. Non sussisterebbe, tuttavia, 14 - BBQ4All MAGAZINE

un rischio di estinzione immediata. La Nihon Tankaku Washu (in inglese Japanese Shorthorn) non è molto marezzata e rappresenta solo l’1,2% degli allevamenti nazionali. Le sue influenze esterne sarebbero l’Ayrshire e la Devon. È rossa o rossiccia, ed entrambi i sessi possiedono le corna. Si nutre di pascolo e avrebbe una quantità minore di grasso infiltrato rispetto altre. L’allevamento di questa razza si è sviluppato nella parte più settentrionale di Honshu, nelle prefetture di Akita, Aomori ed Iwate. Ad Aomori e Iwate, l’unica influenza straniera proveniva dal bestiame britannico dello Shorthorn, mentre nella prefettura di Akita c’erano anche alcune miscele di Ayrshire e Devon. Gli allevamenti sono distribuiti nel nord dell’Honshu e finanche in Hokkaido, la grande isola a Nord dell’arcipelago. La FAO nel 2008 ha ritenuto questa razza «non a rischio»: nel 2008 la popolazione totale dichiarata era di circa 4500 unità.


La Akage washu («razza rossa» o anche «razza marrone», che è come la chiamano gli anglofoni, «Japanese Brown») detta anche Akaushi (letteralmente: «mucca rossa»), è considerata la seconda per qualità, possedendo un buon equilibrio tra grasso e carne. La principale influenza straniera dell’Akage proviene dalla razza coreana Hanwoo e dalla svizzera Simmental. Gli allevamenti di Akage si trovano a Sud, nella prefettura di Kochi sull’isola di Shikoku e nella prefettura di Kumamoto sull’isola di Kyushu. Le Japanese Brown nella Prefettura di Kochi sono bruno-rossastre, mentre quelle nella Prefettura di Kumamoto sono marrone chiaro. Entrambi i sessi sono cornuti. I dati raccontano che nel 1960 la popolazione totale della razza era di oltre 525.000 animali, mentre nel 1978 si parla di 72.000 e nel 2008 di soli 18.672 – la FAO tuttavia definisce la sua situazione «non a rischio». L’Akage costituisce circa il 4,8% dell’allevamento nazionale di carni bovine. Un piccolo numero fu esportato negli Stati Uniti nel 1994. Secondo l’uso culinario giapponese, il wagyu deve essere tagliato in fette molto sottili che si possano sciogliere in bocca senza alcuna masticazione. Questo tipo di taglio consente, a parità di peso, più superficie da ridurre a cubetti. Le preparazioni giapponesi del wagyu sono declinate in modo plurimo, secondo quelle tradizioni locali che oramai sono conosciute in tutto il mondo: sukiyaki (cottura in piatto di ghisa con salsa di soia shoyu, zucchero e sakè dolce mirin), shabu-shabu (le fettine sottili cuociono in un brodo leggero), gyudon (cottura in brodo con mirin, shoyu e cipolla), seiromushi (cottura al vapore di un cestino di strisce di wagyu e verdure), teppanyaki (cottura alla piastra).

La portata del wagyu, trainata dai racconti di quegli uomini d’affari occidentali sconvolti dalla carne gustata alle cene di lavoro giapponesi, si è nel tempo estesa molto al di là dell’Arcipelago. L’Australia è il più grande polo di allevamento wagyu al di fuori del Giappone. I bovini australiani wagyu vengono alimentati con cereali per gli ultimi 300-500 giorni di produzione; In USA hanno incrociato il wagyu con l’Aberdeen, ottenendo quello che chiamano American Style Kobe Beef. Come in Australia, qualche saputo allevatore americano mantiene alcune linee genetiche di wagyu puro. Se vi chiedete perché i giapponesi siano così fanatici e perfezionisti riguardo alla carne di manzo, possiamo cercare di rispondere con la storia. Tra il 1635 e il 1853 era proibito consumare cibo proveniente da animali a quattro zampe, in quanto essi dovevano servire all’agricoltura. In pratica, più di due secoli di mancanza di ciccia hanno prodotto una fame cosmica, sfociata in una cultura di devozione ed eccellenza. Quest’ultima nota spirituale ci fa tornare quindi all’etimologia. L’ideogramma wa (和) che compone wagyu ha in realtà anche un ulteriore significato, che deriva direttamente dalla lingua cinese media del VI-X secolo: esso vuol dire «armonia», «pace». E cioè, un bene preziosissimo per l’essere umano, in ispecie in Oriente. Potremmo allora essere tentati di tradurre wagyu come «manzo dell’armonia». Avremmo forse ragione, e pensiamo di aver capito meglio il perché di questo immane, secolare sforzo zootecnico per creare queste carni perfette: immettere nel corpo umano il giusto carburante per la pace interiore.

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WINE CLASS - IMPARA A BERE IL VINO a cura di ALESSANDRO MORICHETTI

acidità è libertà U N A N U OVA G R A M M AT I C A D E L G U S TO C O N T E M P O R A N E O

(parte terza)

Dove eravamo rimasti? Ad un mantra che ha accompagnato alcuni decenni del grande vino di qualità: “importante”, materico, opulento, pieno. Immergetevi per un attimo in quello schema mentale perché vi assicuro che uscirne non è stato un gioco da ragazzi. Una bottiglia di vino per aspirare ai vertici qualitativi doveva essere voluminosa, avere cioè un estratto secco importante, un peso specifico sul palato che era quantomeno sintomo di ambizione (e non necessariamente di classe). Ci abbiamo creduto, è stato un assunto preso per buono sic et simpliciter e oggi possiamo guardare quasi con tenerezza alle numerose bottiglie parcheggiate in cantina che nemmeno chi le comprò ha voglia di stappare. Tanti nomi grossi e importantis-

simi, che è meglio non fare perché nel vino qualcuno ha la querela facile: sì, i produttori in generale sono ipersensibili alle critiche scritte, pur civili. Io una certa deriva la ricordo bene perché ne ho intercettato la coda. Le tante note di degustazione anglofone che ho vivisezionato con attenzione per apprendere il linguaggio del vino – ben più del francese, la lingua internazionale della stampa di settore che conta è l’inglese – sono state a lungo un profluvio di full body (corpo pieno) quale precondizione del vino di alta qualità. L’immaginario collettivo dei fine wines si è alimentato di tanta “ciccia” a discapito di tutte quelle peculiarità che, come vedremo oggi, stanno uscendo dal letargo per guadagnare la ribalta che meritano. NOVEMBRE 2019

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Il modello estrattivo è stato duro a morire: dovunque tu fossi a produrre vino, qualunque fosse la tipologia di riferimento, con qualsiasi uva, per entrare nell’empireo dei grandi dovevi industriarti e tirare fuori il vinone: lungo, largo e imponente. In certi ambiti poco al passo coi tempi, è ancora così. Ricorda Tiziano Gaia, fino al 2008 collaboratore di quella che era la più importante guida ai vini italiana, Vini d’Italia dell’allora tandem Gambero Rosso/Slow Food: “Era l’epoca dei rossi mangia e bevi, peciosi, strafatti di alcol, bui come una notte senza luna, quel genere di vini che sputavi e veniva via un pezzo di lingua”. Qualcosa però è cambiato. Anzi molto, e per fortuna. Sulla scena è comparsa l’eleganza, una armonia delle forme meno impattante e più rarefatta, non misurabile in senso stretto ma incomparabilmente preferibile. Il vino contemporaneo che merita attenzione persegue un equilibrio stilistico ed estetico di cui oggi, finalmente, stiamo godendo appieno. Il prototipo del vino di qualità è ben più ampio e sfaccettato, non monocorde bensì articolato e, diciamolo pure, affascinante. Prima di entrare nel dettaglio, però, vorrei dirvi due parole su un vino che ho bevuto di recente e che può solo lasciare interdetto chi si avvicina per la prima volta ai vini di quella zona. La Mosella, regione tedesca tra i fiumi Mosel, Saar e Ruwer, è internazionalmente conosciuta per i suoi Riesling che non pochi degustatori considerano i vini bianchi più importanti del mondo (prendiamo sempre con le pinze certi assoluti e utilizziamoli con beneficio d’inventario). Note to self: associare la Germania alla birra trascurando il vino sarebbe un errore semplicemente madornale. Veniamo però al bicchiere. I vini tedeschi hanno nomi

impronunciabili come Eitelsbacher Karthauserhofberg Riesling Auslese 1993, Weingut Karthauserhof. Ci vuole più tempo a scrivere il nome che a finire la bottiglia perché certi Riesling giocano davvero un campionato a sé, hanno caratteristiche non solo irreplicabili ma anche impensabili altrove. Quali? Facile a dirsi. Immaginate di avere nel calice un vino con 26 anni sulle spalle – età che sotterra il 99,9% dei vini mondiali! – giallo dorato e luminoso, dal profumo ancora fresco e nitido di albicocche mature, salvia, crostata meringata al limone, pesca gialla e ananas, il tutto sfumato da una nota di benzina: insomma un tripudio di frutta un po’ fresca, un po’ esotica, un po’ grintosamente agrumata con l’aggiunta di quel profumo magneticamente intossicante che rimane sulle mani dopo aver fatto il pieno dell’automobile. Come ben sanno gli amanti del genere, una volta memorizzata, la gamma aromatica dei grandi riesling non ve la toglierete più dalla testa. Ma se al naso siamo già comodamente collocati in una zona di comfort, è in bocca che i Mosel Riesling di questo genere strabiliano (Auslese sta ad indicare una selezione di grappoli molto maturi e un conseguente residuo zuccherino molto importante, all’incirca 100 grammi/litro): somigliano maledettamente a dei succhi di frutta, dolci e poco alcolici (pensate, solo 8% vol.) in cui un ruolo predominante è giocato da un’acidità gloriosa che tiene in equilibrio un succo sensibilmente zuccherino ma per nulla stucchevole, golosissimo e dalla bevibilità irrefrenabile perché capite bene come tenore alcolico misurato, alta acidità e dolcezza primigenia mandino fuori scala i parametri comuni. Vino dal fascino discreto che conserva una cristallina eleganza e ferma il tempo, capace di adeguarsi a tavola come solo i fuoriclasse, tra piatti agrodolci, spezie piccanti e chi più ne ha più ne metta. E una buona parte del segreto di un flacone così è proprio lei, la negletta degli anni Novanta: benvenuta acidità! Perché l’asse portante, lo scheletro di certi highlander, è proprio una acidità perfettamente integrata che è garanzia di portamento fiero e immarcescibile tenuta del tempo; questo vino bevuto alla cieca potrebbe dimostrare facilmente 15 anni in meno. Non è un caso, quindi, che per approfondire le durezze del vino partiamo proprio da un vino tecni-

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camente dolce. Non si parla mai abbastanza della capitale importanza che la gestione dell’acidità ricopra nell’intelaiatura gustativa di un vino, sia esso bianco, ambrato, rosso, dolce o spumante. L’acidità è vita, conferisce freschezza (non nel senso termico) e vivacità (non nel senso di sovrapressione) ai liquidi, è lo scheletro di un vino e merita attenzione pari se non superiore a tutte le altre componenti. Un errore da evitare, però, è valutare l’acidità di per sé, in termini assoluti: è fondamentale analizzarne gli esiti contestualizzando la trama gustativa in cui si inserisce. Una semplice metafora sportiva renderà tutto più chiaro. L’atletica corre in nostro soccorso perché Usain Bolt e Eliud Kipchoge hanno una struttura ossea e muscolare completamente diversa. Recordaman entrambi, nei 100 metri l’uno e nella maratona l’altro. Potenza ed esplosività furibonda in un caso, leggerezza e resistenza nell’altro ma il comune denominatore è un telaio perfettamente adeguato agli scopi. Che déjà-vu leggere lo stesso concetto in un libro appena uscito: “I vini del Duemila correvano rapidi come Bolt ed erano preparati per dare tutto in meno di dieci secondi. I pochi, rimasti al passo di un maratoneta etiope, erano battuti in partenza” (sempre Tiziano Gaia, Stappato, Baldini+Casoldi). Allo stesso modo, sarebbe difficile convincere un marziano che Shaquille O’Neal e John Stockton abbiano praticato la stessa disciplina ma il bello del basket NBA, come del vino, è la molteplicità di espressioni tecnico-estetiche ai massimi livelli. L’acidità è uno dei parametri di riferimento in tutti i vini: fondamentale per bianchi e spumanti, alter-ego dei tannini nei vini rossi, bilanciamento necessario per i vini dolci. Gli acidi, insieme ad acqua e alcol, sono i componenti principali del vino. Sono presenti già nell’uva (prefermentativi) e si modificano con la trasformazione (postfermentativi) ma dovete sapere che il bevitore di vino occasionale un po’ ne ha timore. L’acidità ha un ruolo fondamentale nella bevuta e contribuisce in maniera determinante ad articolare il sapore di un liquido ma vale sempre la regola che un

sapore morbido e dolce è più “facile” di uno marcato percettibilmente da acidità, tannini e sali minerali. Angelo Di Costanzo, sommelier stellato di lungo corso, ha sintetizzato come meglio non si potrebbe la cosa: “I sapori dolci sono popolari mentre quelli acidi conservano un non so che di quasi intellettuale. Più di qualcuno la pensa così, non sempre a ragione.” Freschezza gustativa, agilità del sorso e slancio sulla lingua sono caratteristiche peculiari imputabili all’acidità di un vino – fondamentale anche per la stabilità chimico-fisica e microbiologica – e prometto di rubare il minimo spazio necessario per parlare di due concetti fondamentali: acidità totale e pH (la “forza” degli acidi). Quando ci si confronta su un vino tra appassionati sono caratteristiche che possono comparire di sfuggita quindi meglio essere preparati. I principali acidi organici dell’uva sono l’acido tartarico, l’acido malico e l’acido citrico. L’acido tartarico è il più rappresentativo dei mosti e dei vini e in natura è poco diffuso al di fuori dell’uva: è la vera spalla dell’acidità, ha un sapore duro, un po’ aspro e amaro e nei vini il suo quantitativo varia da circa 2 a 5 g/l in base a zona di produzione, annata e tipologia di suolo. L’acido malico è presente in tutti gli organismi viventi e possiamo facilmente associarlo alle mele verdi: NOVEMBRE 2019

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acerbo, tagliente fin quasi abrasivo, quindi un acido “tagliente”, scarseggia nelle annate calde e la sua concentrazione può variare da 0 a 5 g/l. L’acido citrico è presente in minime quantità (0-0,5 g/l), caratterizza il gusto acidulo e citrino degli agrumi ma nel vino è meno rilevante.

A questo proposito, di grande attualità è stato il caso di Sébastien David, piccolo viticoltore francese della Valle della Loira, condannato dal tribunale a mandare in distilleria 2078 bottiglie del suo vino Saint-Nicolas-de-Bourgueil Coëf 2016 a causa di un’acidità volatile ritenuta dal giudice non adatta per il commercio in quanto superava, anche se di poco, la soglia di 20 Durante la vinificazione, invece, si formano altri acidi meq/l. detti postfermentativi o “di neoformazione”. Due su tutti. L’acido lattico è il risultato della fermentazione Dopo questo breve approfondimento tecnico possiamalolattica (operata dai batteri e non dai lieviti come mo fare una sintesi riassuntiva e prendo a prestito le quella alcolica) partendo dall’acido malico. Scontro- parole di Gerardo Vernazzaro, enologo e viticoltore so e incisivo uno, morbido e rotondo l’altro. Quando a Cantine Astroni sui Campi Flegrei (Napoli). Teneun vino in bocca è affilato come una lama, la domanda tele bene a mente perché quando ci si confronta su un di rito al produttore è “ha fatto la malolattica?” pro- vino saranno un utile binario del ragionamento. prio per capire da dove derivi tanta aggressività: utile per alcuni vini, deleteria per altri. “Il vino ha mediamente un ph compreso tra 3 e 4 e fa parte quindi della famiglia delle sostanze acide. Più alto è il vaBen più delicato è invece l’acido acetico, che già nel lore di acidità, più basso è il pH (più si avvicina a 3), più nome fa suonare alcuni campanelli. Prodotto secon- l’acidità è bassa più il pH è alto (più si avvicina a 4). Si dario delle fermentazioni alcolica e malolattica, de- aggiunga che un vino bianco con acidità totale 6,5–7,5 g/l finisce l’acidità volatile di un vino ed è un indice di e pH 3,10–3,30 ha maggiore potenziale di conservazione e sanità delle uve, di come procede la fermentazione quindi maggiore longevità; un vino bianco invece con acie dello stato di conservazione del vino. Essendo ap- dità totale pari a 4,5–5,50 g/l e pH 3,40–3,70 avrà minore punto volatile è percettibile al naso e quando supera potenziale di conservazione, meno longevità quindi, ma sila soglia di guardia è un bel casino. La legge stabilisce curamente una maggiore godibilità nell’immediato.” anche dei limiti massimi, che sono 1,08 g/l di acido acetico pari a 18 meq/l per i vini bianchi/rosati e 1,2 g/l Adesso sì che abbiamo parecchi elementi per muoverpari a 20 meq/l per i vini rossi. ci con cognizione nei meandri del gusto contempora20 - BBQ4All MAGAZINE


neo. Perché dovete sapere che l’acidità di un vino si può modificare! Sia in alto che in basso, è una pratica aborrita dai vignaioli naturali (un capitolo infinito, quello del vino naturale, che tratteremo più avanti), per i quali il vino deve essere prodotto dall’uva senza aggiunte di sorta, ma in realtà comunissima nelle cantine di tutto il mondo ma perlopiù taciuta, mai manifesta seppur legalissima.

idea del vino come espressione autentica del territorio è lontana un miglio. Tutti a riempirsi la bocca di pubbliche virtù poi in privato, tra vigne dimenticate da Dio e cantine buie, di vizi privati c’è solo l’imbarazzo. L’esperienza insegna, guai a fare nomi. A drizzare le orecchie se ne sentono di tutti i colori. Vini che partono da Puglia e Romagna diretti non-si-sa-bene-dove, Champagne fatto con bianchi siciliani e chi più ne ha più ne metta. Per uno scandalo che scoppia, 10 rimangono nei cassetti. Molti percepiscono che L’acidificazione, in molte zone del mondo, è pras- qualcosa non fili come dovrebbe ma poi casca tutto nel disi comune per dare vitalità a prodotti stanchi, piatti menticatoio in men che non si dica.” e poco invitanti. Fece parecchio discutere, qualche anno fa, un wine blogger americano che, di ritorno da Meno diffusa, visto il riscaldamento globale di cui un viaggio stampa in Australia, osservò come laggiù tanto si parla in questi mesi, è la disacidificazione, praticamente tutti i vini fossero acidificati, cioè resi pratica volta ad abbassare l’acidità fissa di un mosto/ più freschi aggiungendo acido tartarico o altro. Scris- vino mediante carbonato di calcio o bicarbonato di se infatti Alder Yarrow sul suo noto blog Vinography, potassio. Quando le uve non arrivano a maturazione, riportando le parole di un enologo incontrato durante in zone o stagioni particolarmente sfigate, o magari il viaggio: con varietà come la barbera in cui l’acidità è sempre spiccata e pungente, può servire anch’essa ben più di “Un enologo autraliano che dica di non acidificare sta quanto si pensi. mentendo. (…) Nessuno ama parlare di acidificazione in Australia come nessuno ama parlare di irrigazione in Ca- Chiudiamo con una provocazione. Siamo partiti da lifornia, o di chaptalization (lo zuccheraggio dei mosti) in anni in cui il vino che andava per la maggiore doveva Borgogna”. essere morbido e concentrato, ci credereste mai che invece oggi si parli sempre più spesso di deriva acidiNon posso che sposare in pieno le parole del mio ami- stica? Ebbene sì, non ci facciamo mancare nulla e la co Andrea Gori, sommelier informatico e oste da verità sta nel mezzo. Ci mancano ancora dei pezzi e li Burde a Firenze, il cui pragmatismo è di grande inse- vedremo a breve. gnamento per tutti: “Nessuno ne parla, e vorrei vedere. La lista delle pratiche lecite ma ben lontane da una certa

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GUIDA AI DISPOSITIVI a cura di MICHELE CHIPA

KAMADO il dispositivo ad alte prestazioni

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Molto spesso si sente parlare dei dispositivi Kamado e delle loro caratteristiche ma, nel mare di informazioni che si possono trovare sul web, c’è sempre un po’ di confusione. Di sicuro vi starete domandando quali siano i loro punti di forza e di debolezza, quali siano i risultati delle cotture e se siano migliori o peggiori degli altri dispositivi presenti sul mercato (kettle e affumicatori). Cercherò con questo articolo di chiarirvi un po’ le idee.

Analizziamo la struttura: il braciere, disposto in basso, presenta un’unica apertura che funge da vent in ed è utilizzata anche per rimuovere eventuale cenere in eccesso. All’interno del braciere è posizionato un supporto carboni rotondo, con delle fessure che permettono la circolazione dell’aria proveniente dalla vent in. Sopra al supporto carboni si può inserire un deflettore necessario alla cottura indiretta. Completano la struttura la griglia di cottura e il coperchio incernierato con una vent out. Visto che la cottura indiretta Origine del termine avviene con l’utilizzo del deflettore, non è necessaria La parola Kamado è di origine giapponese e significa la presenza di un coperchio rimovibile con vent out letteralmente “posto per il calderone”: di fatto indica orientabile. una tradizionale stufa giapponese alimentata a legna o a carbone. Ne esiste anche una versione portatile Punti di forza che viene identificata con il termine mushikamado: si Il primo, come già accennato in precedenza, è sicutratta di una pentola di terracotta rotonda, con coper- ramente la grande stabilità di temperatura, che porchio a cupola rimovibile. ta a un notevole risparmio di combustibile rispetto Date queste caratteristiche, ovvero l’alimentazione a ad altri dispositivi: una volta settato correttamente carbone, il materiale e la forma di costruzione, è evi- il Kamado è in grado di proseguire la cottura senza dente la facilità con la quale kamado abbia assunto nel tempo, nel linguaggio comune, il significato di “dispositivo di cottura in ceramica”. Caratteristiche principali Il Kamado ha delle caratteristiche peculiari che lo contraddistinguono chiaramente dagli altri dispositivi. Innanzitutto, il materiale di fabbricazione: è costruito in ceramica con rivestimento esterno resistente alle alte temperature. Questo lo rende estremamente stabile per quanto riguarda la temperatura e, di conseguenza, economico nei consumi, poiché permette di utilizzare una quantità di combustibile abbastanza ridotta, vista la coibentazione raggiunta. Inoltre, proprio per favorire la stabilizzazione della temperatura, tra coperchio e braciere vi è quasi sempre una guarnizione in velcro per eliminare qualsiasi infiltrazione di aria. Per quanto riguarda la forma, si può dire che ricorda un uovo rovesciato con la punta tagliata. Questa particolare fisionomia ottimizza sia l’uniformità che i tempi di cottura. Il calore viene trasferito agli alimenti sia per irraggiamento (in cottura diretta) che per convenzione (cottura indiretta), ma l’elevato isolamento termico ne concentra l’effetto a favore della velocità. NOVEMBRE 2019

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to il peso non trascurabile: si parla di almeno 80 kg di dispositivo. In aggiunta, la ceramica è sì un materiale durevole ma necessita comunque di alcune accortezze nell’utilizzo onde evitare rotture, che tradotto significa: attenzione agli urti. Infine, risulta un po’ macchinoso il passare dalla cottura diretta a quella indiretta e viceversa nelle cotture ibride. Per farlo è necessario togliere la griglia per poi inserire o levare il deflettore. rilevanti variazioni di temperatura. Inoltre, vista la In ogni caso, come potete capire da soli, i “pro” sono coibentazione, il consumo di combustibile sarà vera- nettamente maggiori rispetto ai “contro”. Tutti i grilmente minimo. ler, prima o poi, sognano di avere un kamado. PortafoA fine cottura, dopo aver chiuso le vent, la temperatu- glio permettendo, è chiaro. ra scenderà molto lentamente, una transizione utilissima per l’eventuale fase di rest o per mantenere calde le pietanze prima del servizio. Il secondo punto di forza è la versatilità. Nell’utilizzo quotidiano il Kamado è assimilabile ad un kettle, quindi è in grado di cuocere direttamente, indirettamente e di affumicare ma con risultati di livello superiore e sicuramente più facili da ottenere. La struttura sopporta anche un notevole range di temperature (fino ai 350°C) a patto di raggiungerli gradualmente per evitare di stressare troppo la ceramica. Il terzo punto di forza è la robustezza dei materiali: se non strapazzata, la ceramica durerà una vita. Ultima, ma non per importanza, la facilità di accensione: la struttura del supporto carboni permette di far partire la combustione direttamente all’interno del dispositivo magari utilizzando un accenditore ad aria calda oppure posizionandovi direttamente i cubetti. Punti di debolezza Di fatto, i punti di debolezza sono strettamente legati ai punti di forza. Innanzi tutto il Kamado è un dispositivo offerto ad un prezzo non esattamente accessibile a tutte le tasche, a causa proprio della tipologia e della qualità sia dei materiali che della struttura. Inoltre, è difficilmente trasportabile perché, nonostante il supporto con il quale viene venduto sia normalmente provvisto di ruote, dovrete mettere in con24 - BBQ4All MAGAZINE


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SPECIALE SPIEDINI - APPROFONDIMENTO a cura di ALESSANDRO TREZZI

ARROSTICINO ancora tu?

storia e tradizione di un into ccabile classico italiano L’Italia è piena di religioni, di piatti storici, di tradizioni affermate e di dogmi intoccabili. La carbonara, la focaccia genovese, l’arancina siciliana, la bistecca alla fiorentina, il ragù napoletano: tutte preparazioni nelle quali vige l’intramontabile classicismo del “si fa come dico io”, “io sono genovese, di focaccia ce n’è una”, “ci va solo il rosso” e tante altre storie. Del resto fa parte del nostro carattere, è risaputo. Avere una delle culture gastronomiche migliori del mondo ci ha portato ad essere testardi, possessivi, fieri e profondamente patriottici, anche quando magari di cucina non ne capiamo poi così tanto. Il fatto è che, di regione in regione, nel nostro piccolo ma vivace stivale il panorama gastronomico cambia completamente nel giro di qualche centinaio di chilometri, raggiungendo una varietà smisurata e praticamente impossibile da scovare altrove. Alcuni di questi piatti si sono talmente radicati nelle aree di appartenenza da esser divenuti un vero e proprio culto. Prendete l’Abruzzo ad esempio: quando nella ridente riviera pescarese si fa una grigliata, il grosso del quantitativo di ciccia consumata è composta da dei piccoli e gustosi spiedini, gli arrosticini. E anzi, spesso e volentieri si mangia solo ed esclusivamente quello, un bastoncino dietro l’altro in una gara senza esclusione di colpi. Originariamente chiamati “rustolle” o “rustelle” (arrosti piccoli), quando successivamente il prodotto giunse nella zona vestina, venne adottata la dicitura ufficiale di “arrosticini”, anche e soprattutto per scopi commerciali. 26 - BBQ4All MAGAZINE

Ma cosa sono questi fantomatici arrosticini? Dove nascono? E perché sono così rinomati ed apprezzati? Vediamolo insieme. Gli arrosticini ieri Nonostante in passato si pensasse fosse espressione della transumanza (la migrazione stagionale delle greggi), ovvero un pasto consumato dai pastori costretti a stare lontani dalle loro case per un lungo tempo, l’arrosticino in realtà era un piatto tipico della pastorizia stanziale. Un pasto antico, legato alle più arcaiche usanze umane, rapportato alla forma di allevamento forse più longeva al mondo. La carne veniva tagliata in pezzetti di piccole dimensioni, intervallata al grasso ben più morbido e saporito, e infilzata in spiedi di legno molto appuntiti ricavati con tutta probabilità dalle piante acquatiche raccolte lungo il corso dei fiumi. Per lo scopo, venivano utilizzate pecore non più produttive, difficili da mangiare in altre maniere: leggenda narra che negli anni ’30 due pastori, tra le valli e i monti del Gran Sasso, tagliarono della carne di pecora vecchia in piccoli pezzi per non sprecarla, usufruendo anche delle zone vicine alle ossa dell’animale, utilizzando come spiedo un bastoncino di legno di “vingh”, (pianta spontanea che cresce lungo le rive del fiume Pescara), per poi cuocerla alla brace. Come spesso accade per le tradizioni più radicate, diverse sono le versioni storiche riguardanti le origini degli arrosticini, spesso in contrasto fra loro, che ne attribuiscono la paternità a due differenti province


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abruzzesi: Pescara e Teramo. Secondo lo storico Francesco Avolio, il territorio d’origine sarebbe quello a cavallo fra gli attuali comuni della zona del Voltigno, ovvero Farìndola, Villa Celiera, Civitella Casanova, Civitaquana, Catignano, e ancora Pianella, tutti comuni che attualmente fanno parte della provincia di Pescara, ma un tempo appartenevano invece a quella di Teramo. Altre versioni, invece, attribuiscono l’origine alla valle del Vomano ed al lato teramano del Gran Sasso, fra i comuni di Tossicia, Montorio e Isola del Gran Sasso. In periodo più avanzato iniziò a diffondersi l’utilizzo del castrato, ovvero la pecora di età superiore ai sei mesi e inferiore ai due anni. Può trattarsi di un maschio sottoposto a castrazione, o di una femmina che non abbia partorito. Con lo stesso termine si indica di fatto anche il taglio della carne ottenuto, macellato in primavera o autunno, dal sapore molto forte, sapido e pronunciato. Ciò che caratterizzava (e che caratterizza ancora oggi) questo piatto così famoso è senz’altro la cottura: i pastori, per non bruciare la parte di legno sulla quale non era attaccata la carne, staccavano un pezzo di grondaia, la riempivano con la brace e appoggiavano gli arrosticini, girandoli di tanto in tanto fino a cottura ultimata.

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Gli arrosticini oggi Pollo, maiale e alcune volte anche manzo: con il diffondersi dell’arrosticino anche fuori dal territorio abruzzese sono tante le varianti emerse. E tuttavia, il più amato è e rimane quello di pecora, per una ragione ben precisa: il grasso ovino, in termini di sapore, è in grado di donare un’esperienza senza eguali. Come è ovvio, al crescere della domanda è nata anche la pratica industriale, una produzione in serie di arrosticini con cubetti da 1 cm per lato e infilzati in spiedi di una lunghezza massima di 20 cm. Inutile dire che il vero cultore prediligerà sempre quello fatto a mano, con carne tagliata in tocchetti irregolari e intervallata a strati di grasso. Originariamente, per preparare l’arrosticino veniva utilizzata tutta la pecora per ovvi motivi: la disponibilità di carne del pastore era limitata, tant’è che il consumo riguardava principalmente animali vecchi, non più adatti ad altri scopi. Oggi di fatto cambiano le ragioni ma, specialmente in Abruzzo, la faccenda è sempre la stessa: in una regione dove la maggior parte del consumo della pecora è destinato a soddisfare l’alta domanda per gli spiedi più famosi d’Italia, alla formazione dell’arrosticino concorrono parecchi tagli dell’animale.


E tuttavia, a determinare la qualità del piatto stesso è la professionalità del macellaio: intervallando pezzi più ricchi di collagene, come collo o spalla, a pezzi ben più pregiati come la lombata e la coscia, creando sempre l’immancabile intramezzo di grasso. Solo così si avrà l’arrosticino perfetto, in grado di reggere una cottura diretta leggermente più lunga a temperatura più bassa, garantendo un risultato saporito e dall’ottimo contrasto tra morbidezza, succulenza e aroma inconfondibile. Esiste anche una versione, nata di recente e fortemente apprezzata dagli abruzzesi, preparata con del fegato ovino intervallata con delle fette di cipolla per smorzare il gusto forte della componente animale. La cottura Nata nelle grondaie colme di brace, ancora oggi la cottura dell’arrosticino è una fase fortemente entusiasmante e caratteristica. Lo strumento utilizzato dagli abruzzesi è la fornacella, un braciere che ricorda un canale di una grondaia, larga circa 10 cm e sopra alla quale è posta una griglia a fasce trasversali molto strette, mentre al di sotto, sulla scatola porta braci, vi sono i fori per l’ingresso dell’ossigeno necessario ad alimentare la combustione. Brace uniforme e la giusta distanza garantiscono la cottura unforme per tutti gli spiedini, che a causa della presenza di tagli colmi di collagene come il collo e la spalla non devono subire una cottura troppo violenta, o risulteranno asciutti e legnosi. Niente fiamma quindi, ma un letto di brace calda, grigia e livellata, in modo che la temperatura sia uguale in tutto il canale. Dato lo spessore molto piccolo della carne, determinare la temperatura interna con un termometro al fine di capire lo stato della cottura è alquanto difficile. Di base, una volta che la reazione di Maillard ha fatto il suo corso in tutti e 4 i lati, l’arrosticino può considerarsi pronto. A intensificarne le caratteristiche e il profilo gustativo, soprattutto se fatto con criterio, è l’aroma tipico conferito dalla griglia, e dato dal saporito grasso ovino che sciogliendosi cade sulle braci, evapora e investe nuovamente la carne. Inutile dire che la cottura di uno spiedino non richiede chissà quali abilità particolari, nessun “manico” o dote secolare: stiamo parlando di pezzetti di carne

di piccole dimensioni, che devono solo rosolare per qualche minuto su una griglia. Niente di più, niente di meno. A fare la differenza è come tale spiedino viene preparato, dai tagli utilizzati dal macellaio, dalla composizione dell’arrosticino e dalla qualità della materia prima, l’unica vera discriminante per una consistenza perfetta e un sapore caratteristico. Abbinamenti e servizio Rub, salse, marinate, brining, salamoia: nessuna di queste tecniche viene utilizzata ai fini della preparazione dell’arrosticino. A conferire il sapore necessario e sufficiente è il grasso del castrato, particolarmente intenso, sapido, pieno. L’unico abbinamento ammesso in Abruzzo consiste in fette di pane abbrustolite, condite con del buon olio extravergine di oliva. Gli arrosticini vengono serviti a tavola in veri e propri mazzi, avvolti nella stagnola o nei caratteristici vasi di terracotta lunghi e leggermente inclinati, in modo da mantenerli in temperatura mentre, uno dopo l’altro, vengono azzannati dai commensali. Un buon Montepulciano, formaggio fritto e frittelle di prosciutto e via, per l’abruzzese l’ingresso ai giardini dell’Eden è assicurato. NOVEMBRE 2019

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SPECIALE SPIEDINI - IL METODO a cura di MICHELE CHIPA

MISTO or

NON MISTO

that is the question! La cottura degli spiedini potrebbe sembrare la più semplice della storia, seconda solo alla preparazione della pasta in bianco. D’altronde, cosa sarà mai necessario fare di così eccezionale per buttare sulla griglia dei semplici cubetti di cibo vario disposti più o meno ordinatamente su uno stecchino di legno? Ed invece, nella maggior parte delle volte, vi ritroverete a fare i conti con quella che mi piace chiamare la maledizione dello spiedino misto: una parte ancora cruda ed una parte stracotta. E qui parte il dilemma: rischiamo con una cottura non completa di una parte ma salvandone l’altra, oppure arriviamo alla fine, con il rischio di ritrovarsi parti carbonizzate? In questo articolo cercherò di darvi qualche dritta per scongiurare i problemi più comuni. Cosa sono gli spiedini Gli spiedini non sono altro che dei cubotti di varie tipologie di alimento infilzati su uno stecchino. Quelli più comuni sono definiti “spiedini misti”, ovvero un’accozzaglia di carni di tacchino, maiale e talvolta manzo alternati a verdure, molto spesso zucchine e peperoni. Lo stecchino è normalmente in legno, per quel-

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li comprati già pronti al supermercato, ma per quelli fatti in casa è possibile utilizzarne anche in acciaio.

volete cimentarvi nella scelta del taglio né calcolare le dimensioni dei vari pezzi, allora non vi resta che cercare di rendere più umido quello che cuoce prima, per evitare che si secchi. Sempre prendendo ad esempio Come si cuociono gli spiedini Lo so, la tentazione di spennellarli con l’olio e di but- i nostri spiedini di pollo e manzo, potrete iniettare il tarli così come sono sulla griglia è forte. Ma combat- manzo di brodo oppure avvolgerlo nella pancetta. tetela! La cosa veramente difficile da ottenere è il grado di Il terzo consiglio (per chi non vuole seguirei primi cottura desiderato di ogni parte dello spiedino, quindi due) è: smontate lo spiedino e rimontatelo dopo la il primo consiglio che vi do è: non acquistate spiedini cottura. Se non volete cercare spiedini di un singolo alimento misti! Scegliendo spiedini di una singola tipologia di materia e nemmeno volete impegnarvi nel crearne uno vostro, prima, o comunque di cibi la cui cottura al cuore è la oppure state seguendo una ricetta che prevede l’uso medesima, il vostro compito sarà solamente quello di di cibi molto diversi tra loro, non vi resta che cuocere rigirarli spesso per avere una reazione di Maillard più singolarmente gli alimenti e poi infilzarli nuovamenuniforme possibile su tutta la superficie e per arrivare te dopo il passaggio in griglia. Questo è l’unico modo al giusto grado di cottura senza carbonizzarne un lato. che avrete per ottimizzare la cottura di ogni alimento Questo se avete pezzetti di cibo molto piccoli infilati e rendere l’esperienza culinaria il più corretta possisullo stecchino. Vi affiderete invece a una cottura ibri- bile. da se avrete a che fare pezzi di alimenti (facilmente carne) un po’ più grossi: prima una cottura indiretta e C’è anche un quarto consiglio: siete degli sfaticati e poi una diretta. Fine. Missione compiuta con pratica- non volete seguire le mie indicazioni? Io con voi non griglio più. Arrangiatevi (qui però ci vorrebbe la facmente zero sforzo. cina sorridente, per farvi capire che sto scherzando). Il secondo consiglio (per chi non vuole seguire il primo) che vi do è: se volete per forza servire spiedini misti allora scegliete voi che tipi di cibi infilzare, senza affidarvi al caso o alla scelta di un operatore del supermercato. In questo modo arriverete al risultato con un po’ più di fatica rispetto alla situazione precedente ma comunque con facilità. Se scegliete alimenti con cottura al cuore differente potete affrontare il problema in tre modi: 1. Scelta del taglio: prendiamo ad esempio degli spiedini misti di pollo e manzo; il primo si serve a minimo 75 gradi mentre il secondo a 55 (in caso di cottura al sangue). Questo divario di cottura non è gestibile in griglia, e se scegliamo un taglio più ricco di connettivo per il manzo (collo, punta di petto, guancia) dovremo necessariamente tenerlo un po’ più in griglia per cercare di scioglierlo. 2. Dimensioni differenti dei cubetti: se non volete sbattervi nella scelta del taglio potrete giocare sulle dimensioni. Ritornando all’esempio di prima, potete diminuire quelle del pollo o aumentare quelle del manzo. In questo modo lo spessore differente vi permetterà di avere tempi di cottura simili. Di contro vi troverete un piatto degno della Guernica di Picasso, con brandelli di forma e dimensioni diverse tra loro. 3. Rendere più umido quello che cuoce prima: se non

Particolarità nella cottura di alcuni tipi di spiedini Alcuni spiedini, in virtù delle proprie caratteristiche, necessitano di alcune accortezze nella cottura. Spiedini di sole verdure: scegliete verdure dai tempi di cottura simili. Poiché questi alimenti sono ricchi di acqua e dovrete portarli a cottura lentamente, la temperatura da raggiungere deve essere media. In questo modo eviterete la carbonizzazione esterna in attesa della cottura. Lasciate la buccia sui pezzi: proteggerà il cuore da sbalzi di calore e permetterà una cottura più graduale anche della superficie sottostante. Spiedini di pesce: anche in questo caso vale il consiglio di utilizzarne tipologie omogenee in termini di cottura al cuore. Inoltre, poiché la carne del pesce è molto delicata, dovrete posizionarli in cottura su un supporto dedicato (basket) oppure frapporre un pezzo di carta da forno bagnata. In questo modo darete il tempo alla reazione di Maillard di avvenire senza far attaccare l’alimento alla superficie di cottura. Una volta ottenuta la crosticina, potrete rimuovere la carta da forno. Un alternativa gustosa è quella di appoggiarli su una placca di cedro alimentare, in modo da affumicarli leggermente e sfruttare gli oli essenziali del legno per conferire sapore.

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SPECIALE SPIEDINI - LE RICETTE

FRIGARUI

la bistecca del ladro

“Van Helsing:[Spiegando come uccidere la vampirizzata Lucy] Solo modo è che pianta un cavicchio puntuto dentro di suo cuore! Jonathan: Oh, ma è orribile! Non esiste un altro modo? Van Helsing: Esiste! Esiste che taglia sua testa, che tappa sua bocca con aglio e che strappa orecchi! Jonathan: Mi dia il cavicchio!” Così dicevano Mel Brooks e Steven Weber nel celebre film Dracula morto e contento. I vampiri, come è noto agli appassionati, si combattono con l’aglio. Il metodo proposto da Mel Brooks nei panni del dott. Van Helsing è un po’ truce, ma dopotutto le storie che trattano di vampiri citano l’aglio come unico rimedio per difendersi. Forse è proprio per questa ragione che i rumeni sono dei grandi estimatori di questo bulbo. La pietanza risente dell’influenza della lunga dominazione ottomana. I turchi dominarono per lungo tempo quest’area, diffondendo le loro tradizioni culinarie, tra cui il famoso kebab. Negli anni il popolo rumeno ha fatto suo questo piatto, modificandolo fino ad arrivare a quello che oggi conosciamo come Frigarui. Si prepara adoperando diverse tipologie di carne, quali manzo, maiale, agnello o pollo. La versione che vi proponiamo è quella di maiale, ma potete sbiz32 - BBQ4All MAGAZINE

zarrirvi cambiando le tipologie di carne secondo il vostro gusto personale. È uno spiedino misto di carne e verdure, per cui come potete ben immaginare, lo cucineremo scomposto e poi lo comporremo successivamente prima di ripassarlo in griglia. Preparazione 1. Pulite il maiale rimuovendo gli eccessi di grasso e tagliatelo a cubetti 2. Mettete la carne in una ciotola sufficientemente capiente e aggiungete il pepe, il sale, il succo del limone, lo zucchero, lo zenzero, l’aglio, le erbe e lo yogurt. Lasciate riposare in frigo almeno 4 ore (24 è meglio) 3. Accendete il kettle e settatelo per una cottura indiretta 4. Cuocete la cipolla, i peperoni e i funghi nel basket apposito per le verdure, condendole con sale, pepe, olio d’oliva e aceto di mele. Quando saranno cotte, tenetele in caldo. 5. Componete alternando un pezzo di arista con uno di scamerita 6. Cuocete adesso lo spiedino a cottura indiretta fino a quando il maiale non avrà raggiunto una temperatura di 68°C al cuore 7. A questo punto smontate ve-

locemente gli spiedini e rimontateli aggiungendo le verdure. Finite gli spiedini in cottura diretta facendo raggiungere al maiale la temperatura di 72° al cuore. 8. In un mortaio pestate l’aglio precedentemente sbucciato con il sale e il pepe fino a raggiungere una consistenza cremosa 9. Travasate il composto ottenuto in una ciotola e aggiungete la panna acida e l’olio 10. Mescolate bene e lasciate riposare in frigo fino al momento di servire Cosa fare minuto per minuto, se volete servirli a cena 0re 18.00 del giorno precedente: mettete il maiale a marinare 0re 18.30 del giorno stesso: preparate il kettle Ore 19.00: cuocete le verdure Ore 19.30: componete lo spiedino Ore 19.35: cuocete gli spiedini Ore 19,45: preparate la salsa all’aglio Ore 20,10 circa: passate gli spiedini in cottura diretta Ore 20.20: serviteli ben caldi con la salsa


INGREDIEN TI

P ER 4/6 P ERS O N E PER GLI SPIEDINI • 500 g di scamerita di suino • 500 g di arista di suino • una cipolla rossa • due peperoni • 500 g di funghi Champignon • olio di oliva due cucchiai • aceto di mele q.b. • sale e pepe q.b. PER LA MARINATA • mezzo cucchiaino di pepe • il succo di mezzo limone • un cucchiaino di zucchero • mezzo cucchiaino di zenzero • due spicchi schiacciati aglio • 500 g di yogurt bianco • Timo, rosmarino, salvia q.b. • sale e pepe q.b. PER LA SALSA ALL’AGLIO • Un’intera testa d’aglio, sbucciata e separata in spicchi • un cucchiaino di sale • due cucchiai di olio di semi di girasole o di oliva • mezza tazza di panna acida • Pepe nero a piacere • sale q.b.

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SPECIALE SPIEDINI - LE RICETTE

PINCHOS MORUNOS

gli spiedini...de fuego La cucina spagnola è rinomata in tutto il mondo per la ricchezza di colori ed è apprezzata per i sapori intensi e decisi, dovuti alla grande utilizzo di spezie che seducono non solo la vista ma anche il palato. La ricetta che vi proponiamo, oltre a soddisfare in pieno queste due caratteristiche, è famosa a causa della sua estrema piccantezza, tanto da essere tradizionalmente servita con del té alla menta per mitigare le fiamme dell’inferno che si scatenano in bocca dopo il primo morso. Stiamo parlando dei Pinchos Morunos, spiedini realizzati con carne di pollo o di suino (alternata a volte a peperoni dolci); in pratica sono la variante spagnola del Kebab. L'aggettivo moruno di questo spiedino si riferisce alla sua origine nella tradizione culinaria dei paesi arabi. L’estremo mordente di questa pietanza deriva dalla generosa dose di paprika piccante o di peperoncino usati per insaporire la carne(noi abbiamo usato il filetto di maiale). Nel nostro caso, abbiamo opta-

to per la paprika dolce e abbiamo usato il peperoncino jalapeño per apportare la pungenza necessaria. Solitamente viene usato fresco e verde, quando la capsaicina, il composto responsabile della piccantezza, è presente in quantità minore rispetto a un jalapeño rosso e maturo. Ma per questa ricetta si usano i jalapeños essiccati che hanno raggiunto quindi la piena maturazione, rendendo il gusto degli spiedini veramente infuocato. Noi abbiamo voluto dare un tocco tutto nostro a questi deliziosi spiedini, per cui abbiamo deciso di optare per una cottura ibrida: abbiamo prima marinato e poi affumicato il filetto intero affinché mantenesse morbidezza e succosità; poi lo abbiamo porzionato creando i cubetti di carne, abbiamo creato gli spiedini alternando carne e peperoni (anch’essi preparati a parte) e infine li abbiamo posti di nuovo in cottura direttamente sul calore, in modo che risultassero cotti alla perfezione, con una bella crosticina ma ancora morbidi e gustosi.

Preparazione 1. In un recipiente capiente versate l’olio, il succo di limone e le spezie in polvere, insieme all’aglio e all’origano tritati finemente. Mescolate bene gli ingredienti tra loro e aggiungete la senape che farà da stabilizzante in modo che la parte grassa (olio) non si separi da quella acida (limone). 2. Mettete la carne nella marinata, tenendovene una piccola quantità da parte, coprite il tutto con la pellicola alimentare e riponetela in frigo per tre ore circa. 3. Lavate i peperoni sotto l’acqua corrente, tagliateli a metà, eliminate i semini al suo interno e divideteli in quadretti. 4. Preparate il dispositivo per una cottura sia diretta che indiretta, quindi mettete il carbone non al centro ma da un solo lato della griglia. Stabilizzatelo a circa 150 gradi. 5. Disponete le verdure nel basket (vassoio bucato sul fondo) e conditele con olio, sale e aceto. 6. Ponete il basket sulla griglia direttamente sulla fonte di caNOVEMBRE 2019

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lore avendo cura di girare i peperoni ogni tanto, sono pronti quando hanno acquistato una bella brunitura. 7. Mettete i peperoni cotti nel forno pre-riscaldato a 50° C per mantenerli caldi in attesa che la carne sia pronta per formare gli spiedini. 8. Togliete dal frigo il filetto almeno mezz’ora prima di andare in cottura, eliminate dal maiale l’eccesso del composto in cui era immerso tamponandolo con della carta da cucina e spolveratelo con un mix di sale, paprika dolce e jalapenos essiccati. 9. Adagiate il maiale sulla griglia in cottura indiretta, ovvero dalla parte opposta delle braci, affumicate con tre o quattro manciate di chips di legno aromatico (melo) e chiudete il coperchio. 10. Quando la carne arriva a 72°C togliete il filetto dalla cottura tagliatelo in piccole parti velocemente, poi iniziate a formare lo spiedino montandolo in questo modo: due pezzi di carne e uno di peperone, e così via. 11. Ungete gli spiedini utilizzando la marinata che vi siete tenuti da parte e ripassateli per qualche istante sul calore diretto per formare la deliziosa crosticina. 12. Serviteli con l’immancabile tè alla menta. Come preparare gli spiedini minuto per minuto, se volete

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servirli a cena: Ore 14,30: preparate la marinata. Ore 15,00: mettete la carne nella marinatura e riponetela in frigo. Ore18,00: preparate il dispositivo. Ore18,15: pulite e tagliate i peperoni Ore18,30: nel basket cuocete i peperoni in cottura diretta. Ore19,00: tenete in caldo i peperoni nel forno pre-riscaldato a 50°C Ore 19,15: togliete la carne dalla salamoia e spoverizzatela col rub di parika e peperoncino. Ore 19,30: mettete il filetto in cottura dalla parte opposta delle braci. Ore 20,15 circa: quando la carne ha raggiunto la giusta temperatura porzionatela e con i peperoni formate gli spiedini. Ore20,30: ripassate gli spiedini per alcuni istanti in griglia.


INGREDIENTI

P ER 4 P ERSO N E • 800g di filetto di maiale • 200ml di olio extravergine di oliva q.b. • il succo di un limone • mezzo cucchiaino di senape • due cucchiai di paprika dolce • un cucchiaio di zenzero in polvere • due spicchi d’aglio • un rametto di origano fresco • un cucchiaino di cannella • mezzo cucchiaino di chiodi di garofano in polvere • un cucchiaino di curry • un cucchiaino e mezzo di jalapeño essiccati • due peperoni rossi • Aceto di mele q.b. • Sale q.b. • quattro tazze di té alla menta

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SPECIALE SPIEDINI - RICETTA a cura di MICHELA BONGIORNI

SHISH TAOUK e quel sapor mediorientale

Nel nostro viaggio in giro per il mondo alla ricerca dello spiedino più buono che ci sia, non poteva mancare una tappa in medioriente per assaggiarne uno tradizionale, fatto con pollo marinato allo yogurt. Tipico di questi luoghi, lo Shish Taouk è largamente consumato in Turchia, in Libano, in Egitto, in Giordania, in Siria, in Palestina, in Iraq e in Israele. A seconda del Paese in cui viene preparato, lo Shish Taouk viene servito in modi diversi: ad esempio in Turchia viene generalmente consumato con una salsa allo yogurt, riso e verdure grigliate; in Israele viene mangiato insieme a una focaccia, farcita con cipolle fritte e peperoncini piccanti alla griglia, oppure con insalata e sottaceti. In Libano questi deliziosi spiedini sono solitamente serviti con hummus e tabbouleh, ed è proprio questa la versione che abbiamo rivisitato per il nostro Magazine. Lo so cosa state pensando con facce deluse, che sono solo spiedini di pollo; so quanto quel povero volatile sia considerato una roba da sfigati dai vari griller. Voglio dire, perfino Mc Donald’s nei suoi totem, quelli di nuova generazione che si usano per ordinare, differenzia i suoi panini tra carne e pollo, il che fa pensare subito che quest’ultimo sia talmente infimo da non avere il diritto di essere posto nella stessa categoria degli hambur38 - BBQ4All MAGAZINE

ger (e non è che quegli hamburger siano esattamente i migliori sul mercato). Invece no, cavolo! Io da sempre lotto per la dignità del disgraziato pennuto, tanto da averlo scelto più volte come la mia preparazione principale in gare di barbecue. Lo amo, che posso farci? Lo adoro e cerco sempre ricette che possano rendergli la giustizia che merita. In un mondo in cui tutti venerano, giustamente, il re Manzo, e al massimo si consolano col principe Maiale, io difendo anche il popolano, volgarissimo, bistrattato Pollo. Questi spiedini, insieme a quelli greci, rendono finalmente giustizia al mio adorato pollastro. La marinatura a base di yogurt e la speciale cottura ibrida, che vedremo fra poco, gli conferiscono una tenerezza e una succosità che vi faranno sgranare gli occhi. In barba al Mc Donald’s, gli Shish Taouk fatti sul bbq entrano di diritto nella categoria- ve lo dico alla toscana- è bòno esagerato. Provare per credere.

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Preparazione 1. Preparate la marinata per i pollo, con lo yogurt, l’aglio tritato, l’olio, il sale, il pepe e il succo di limone. 8. 2. Tagliate a pezzetti di media grandezza il petto di pollo e poi mettetelo a marinare per almeno 4 ore, meglio per una notte

intera. Fate lessare i ceci che avrete tenuto a mollo dal giorno prima. Tostate in una padella antiaderente il sesamo per pochi minuti, facendo attenzione che non bruci. Trasferite i semi in un frullatore, aggiungete l’olio e riducete tutto a crema. Nel bicchiere del mixer versate i ceci lessati, due cucchiai della crema di semi di sesamo, il succo del limone, lo spicchio d’aglio, l’olio e un pizzico di sale. Frullate tutto bene e poi trasferite in una ciotola: è pronto l’hummus. Preparate il dispositivo per una cottura indiretta stabilizzandolo a 150 gradi. Togliete il pollo dalla marinata e infilzatelo sugli spiedini. Poi ponetelo in cottura indiretta, chiudendo il coperchio ed eventualmente affumicando con il legno che preferite. Nel frattempo preparate il tabbouleh: sciacquate i 200 g di burghul, mettetelo in una pentola con acqua salata e cuocetelo per 5-6 minuti. Sgocciolatelo e mettetelo su un telo pulito a raffreddare. Tritate il cipollotto insieme alla menta e al prezzemolo; condite il burghul con il trito, il succo di limone, l’olio, il sale, il pepe e un pizzico di cumino.


I N G RED I EN TI

PER 4 PER SONE PER GLI SPIEDINI • un petto di pollo di medie dimensioni • Il succo di un limone • due spicchi di aglio • 100 g di yogurt bianco • Paprika dolce q.b. • due cucchiai di olio extravergine di oliva • sale e pepe q.b. PER IL TABBOULEH: • 200 g di burghul • un cipollotto • una rametto di menta • il succo di un limone • cumino q.b. • prezzemolo q.b. • olio extravergine di oliva q.b. • sale e pepe q,b. PER L’HUMMUS: • 250 g di ceci secchi • 100 g di semi di sesamo • 20 g di olio di semi di sesamo • uno spicchio d’aglio • il succo di un limone • olio d’oliva q.b. • sale e pepe q.b.

9. Quando gli spiedini avranno raggiunto la temperatura di 72 gradi al cuore, spennellateli con olio e spostateli per qualche istante in cottura diretta. 10. Serviteli caldi con hummus e tabbouleh.

Cosa fare minuto per minuto, se volete servirli a pranzo: Ore 18 del giorno precedente: mettere i ceci in ammollo e mettere il pollo in marinata. Ore 8 del giorno stesso: mettere i ceci a cuocere Ore 9,30 circa: preparare l'hummus Ore 11: accendere il dispositivo,

stabilizzandolo a circa 150 gradi e preparare gli spiedini Ore 11,30 circa: mettere a cuocere gli spiedini in cottura indiretta Ore 11,35: preparare il tabbouleh Ore 12 circa: controllare gli spiedini e, se sono pronti, spostarli in cottura diretta Ore 12,20 circa: servire gli spiedini con tabbouleh e hummus NOVEMBRE 2019

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SPECIALE SPIEDINI - LE RICETTE

sulla cima dell'Olimpo

AN CH E LE DIV IN I TÀ MANGI ANO

SOUVLAKI

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I N G REDI EN TI

PER 4 PER SONE PER GLI SPIEDINI • un petto di pollo grande • 100 ml di olio extravergine di oliva • il succo di un limone • due cucchiaini di senape • un cucchiaio di BBQ4All Tennessee Mild Dry Rub • sale e pepe q.b. PER IL RISO ALLE VERDURE • 500 g di riso Basmati • tre zucchine • due peperoni • una melanzana grossa • una cipolla rossa • prezzemolo • aglio q.b. • aceto di mele q.b. • 100 g di formaggio Chili, lime & Tequila Cheddar • olio extravergine di oliva q.b. • sale e pepe q.b. PER LA SALSA TZATZIKI • un cetriolo • 350 g di yogurt greco • mezzo limone • due spicchi d’aglio • due cucchiaio di olio extravergine di oliva • un mazzetto di aneto • sale q.b.

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Classico spiedino della tradizione culinaria greca, il famoso Souvlaki può essere tranquillamente definito il re del fast food ellenico. Da quelle parti, infatti, si trova un po’ ovunque, sia nei vari baracchini per strada, sia nei ristoranti, e può essere declinato in numerose varianti: preparato con carne di agnello, di maiale, di pollo, servito con la Pita, al piatto, con il riso e le verdure, con varie salse e condimenti. La caratteristica principale è l’essere monotematico: non si mescolano più tipi di carne insieme, il che per noi è un’ottima cosa, considerando che in questo modo avremo la cottura uniforme. La nostra versione è col pollo, ma potete tranquillamente sostituirlo con il tipo di ciccia che preferite. Tradizionalmente viene buttato sul fuoco in cottura diretta e cotto in pochi minuti, ma noi useremo una cottura ibrida: prima un’indiretta e poi una velocissima passata sul fuoco per creare la reazione di Maillard. Già che ci siamo diamo anche un’affumicatina veloce. Abbiamo poi scelto di servirlo con un riso basmati condito con verdure grigliate e aromatizzate con un formaggio Cheddar al peperoncino, lime e tequila. Siamo stati più tradizionali con la salsa, scegliendo la classica tzatziki. Ne è uscito un piatto completo, gustoso, eccezionalmente saporito e appagante. Vi darà l’allegria anche senza strane polverine che sembrano talco ma non lo sono (cit.). 42 - BBQ4All MAGAZINE

Preparazione 1. Preparate la marinata mescolando olio, senape, limone e il rub BBQ4All. 2. Tagliate a pezzetti di media grandezza il petto di pollo e immergetelo nella marinata; lasciatelo in frigo per almeno 4 ore. 3. Tagliate le verdure a cubetti, mettetele nell’apposito basket per verdure e conditele con olio, aceto di mele, sale e pepe 4. Preparate il dispositivo per una cottura diretta e cuocete le verdure, lasciandole croccantine. Toglietele dal fuoco e tenetele al caldo. 5. Preparate la salsa Tzatziki: sbucciate il cetriolo e grattugiatelo grossolanamente. Mettetelo in un colino e lasciate scolare l’acqua di vegetazione per un’ora. 6. Nel frattempo tritate finemente l’aglio fino a ridurlo alla consistenza di una crema, In una terrina versate lo yogurt, unite l’aglio e il cetriolo ben strizzato. 7. Aggiungete l’olio a filo e il succo di mezzo limone; mescolare con un cucchiaio e aggiustate di sale. Insaporite con un po’ di aneto tritato. 8. Montate gli spiedini col pollo tolto dalla marinata e poneteli in cottura indiretta, stabilizzando il dispositivo a circa 150 gradi. Affumicate secondo il vostro gusto. 9. Nel frattempo, scottate il riso basmati per qualche minuto in acqua salata, poi trasferitelo nel wok (su un altro dispositivo o sul fornello di casa) insieme all’olio extravergine

di oliva e a due spicchi d’aglio tritati. 10. Fatelo insaporire, poi bagnatelo con un po’ d’acqua salata o brodo: aggiustate di sale, aggiungete le verdure e a fine cottura aggiungete il Cheddar sbriciolato e una bella macinata di pepe. 11. Dovrebbero essere pronti gli spiedini: spostateli in cottura diretta per pochi minuti e poi serviteli con il riso e la salsa tzatziki Cosa fare minuto per minuto, se volete servirli a cena: Ore 15: mettete il pollo a marinare Ore 16: preparate la salsa tzaziki e mettetela in frigo Ore 18,30: tagliate le verdure e accendere il kettle Ore 19: mettete a cuocere le verdure Ore 19,20: togliete le verdure dal fuoco, preparate gli spiedini e mettete il riso a bollire Ore 19,30: mettete a cuocere gli spiedini in cottura indiretta Ore 20: preparate il riso Ore 20,15 circa: mettete gli spiedini in cottura diretta Ore 20,30 circa: servite gli spiedini col riso e la salsa


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SPECIALE SPIEDINI - LE RICETTE

DIR ET TAME NTE DAL PE RÙ

ANTICUCHOS mettiamoci il cuore!

Immaginate di ritrovarvi a costeggiare l’Urubamba, nel bel mezzo della Valle Sacra. Mentre camminate nel sentiero Inca che porta a Machu Pichu, sentite le vostre narici sovrastate da un profumo di carne arrosto, che vi invoglia a raggiungere il punto da cui si alza la colonna di fumo. Spinti dall’acquolina, decidete di scoprire di cosa si tratta. Ormai il vostro olfatto è inebriato dall’aroma di quella carne, tant’è che raggiungere il tempio diventa persino secondario. Fin qui tutto bello e avventuroso. Chi non verrebbe essere sommerso dal buon odore di arrosto nel pieno di una passeggiata lungo un fiume, nel bel mezzo della Foresta Amazzonica? Tutti tranne voi, perché il profumo di quel buon cibo ve lo portiamo noi a casa. Questo è un piatto tipico del Perù, ed è da leccarsi i baffi. È una sorta di Ayahuasca, la droga degli sciamani, ma senza effetti purganti (per quelli allucinogeni, fateci sapere). Stiamo parlando dell’Anticucho, un piatto antico dell’epoca degli Inca, composto da uno spiedino di cuore di vitello marinato in una salsa molto gustosa. Anticamente fatto con carne di lama o di alpaca, nei secoli si è trasformato in spiedino di carne di vitello. 44 - BBQ4All MAGAZINE

Elemento principale per eseguie l’aglio schiacciato. Tenetene re il piatto è l’Aji Panca, un pepeuna piccola parte per spennelroncino peruviano che si trova in lare in cottura. commercio nei negozi alimentari 6. Versate la marinatura nella internazionali, già essicato o sotto boule e amalgamate bene il forma di salsa. tutto per insaporire la carne. Salate e pepate a piacere. L’Aji Panca essicato va trattato pri- 7. Coprite la boule con pellicola ma dell’utilizzo. Cento grammi dee lasciate marinare in frigo per vono essere idratati per una notte 4 ore. intera con una quantità di acqua 8. Trascorso il tempo di mariche va dal 30% sino al 60% rispetnatura, prendete degli spiedini to al peso della materia prima. Una di legno e iniziate ad infilzarci volta idratati, i peperoncini vanno i pezzi di cuore in verticale per aperti per la lunghezza e ripuliti al la lunghezza. Per ogni spiediloro interno. Poi vanno frullati. La no, considerate circa 4/5 pezzi loro polpa va utilizzata in questa 9. Settate il vostro dispositivo per proporzione: 30/40g per ogni 100 g una diretta tra i 180°/ 200° C . di cuore di vitello. Fate cuocere 4 minuti per lato, spennellando con la marinatuVediamo come preparare il nostro ra tenuta da parte. Anticucho. 10. Se volete servirlo in piena tradizione peruviana, è bene Preparazione che cuociate anche delle patate 1. Prendete il cuore di vitello e e delle pannocchie di mais. Le trimmatelo da tutti i grassi e i patate potete farle in ember tessuti connettivi. roasting, e la pannocchia po2. Dividetelo per il lungo e taglitete bollirla e poi passarla con atelo ricavando fettine di circa burro e sale in griglia. Otter5x 5 cm, spesse 2 cm rete un piatto fantastico dal 3. Inseritelo in uno scolapasta e sapore unico, tipico e carico di procedete col lavaggio accusapore. rato. 4. Scolatelo e asciugatelo per bene. 5. In un altra boule, versate l’aceto di vino rosso, la salsa di Aji Panca, il cumino in polvere


I N GREDIEN T I PER 3 SP I EDI NI • • • •

300 g cuore di vitello già pulito 120 g di salsa di aji panca uno spicchio d’aglio schiacciato un cucchiaio di aceto di vino rosso • un cucchiaio di cumino in polvere • sale q.b. • pepe nero q.b.

Cosa fare minuto per minuto, se volete servirli a cena: Ore 15.00: pulizia del cuore e trimmatura. Ore 15:20: scaloppate il cuore a fettine e lavate, scolate e asciugate. Ore 15:45: pesate gli ingredienti e preparate la marinatura Ore 16:00: versate il cuore a pezzetti nella marinatura e mescolate il tutto. Ore 16:05: coprite la boule con pellicola e lasciate riposare in frigo per almeno 4 ore. Ore 19:50: predisponete il vostro dispositivo per una diretta sui 200° C Ore 20:05: realizzate gli spiedini, infilzando 5 fettine di cuore per spiedino. Ore 20:15: iniziate la cottura degli spiedini, spennellando con la marinatura tenuta da parte. Ore 20,30: serviteli caldi. NOVEMBRE 2019

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SPECIALE SPIEDINI - LE RICETTE

I can’t get no

SATAYSfaction Satay è una parola inglese che deriva probabilmente dal termine indonesiano sate. Questo vocabolo è stato diffuso successivamente dai venditori ambulanti originari dell’isola di Java per similitudine con i kebab indiani. L’introduzione del Satay (e di altri piatti iconici come il togseng e il guali kambing) coincise con un afflusso di commercianti e immigrati indiani e arabi a partire dal XVIII secolo, in Indonesia. Partendo dall’isola di Java, il Satay si diffuse in tutto l’arcipelago malese; successivamente, vennero sviluppate diverse varianti del piatto. Con l’avvento del XIX secolo, questa pietanza si era largamente diffusa in Thailandia e a Singapore. Tale migrazione, veicolata dai commercianti malesi, fu talmente ampia che arrivò fino in Sudafrica, dove il piatto è noto come sosatie, e in Olanda dove influenzò profondamente la cucina locale. La Thailandia è forse il paese dove questo spiedino si è diffuso maggiormente. Di solito viene servito accompagnato da un’insalata, chiamata ajaad, e da una salsa a base di arachidi. A causa della divulgazione commerciale della cucina tailandese, si è diffusa l’idea che il piatto sia originario della Thailandia invece che dell’Indonesia. Questo grande successo della ver46 - BBQ4All MAGAZINE

sione Siamese ha però permesso anche un’evoluzione del piatto, che si è diversificato in maniera radicale rispetto all’originale indonesiano. Adesso però spiedo alla mano e proviamo questa sataysfaction!

casseruola. Aggiungete lo zucchero e il sale e fate sobbollire lentamente fino a quando tutto è sciolto. Togliete quindi dal fuoco e lasciate raffreddare la miscela a temperatura ambiente. 2. Tagliate il cetriolo nel senso Preparazione degli spiedini della lunghezza in quattro, 1. Tagliate il petto di pollo a metà quindi tagliatelo molto sottile. e poi a striscioline di circa un Tritate gli scalogni per il senso cm nel senso della lunghezza. della lunghezza e successiva2. In una ciotola capiente unite mente affettateli finemente. tutti gli ingredienti conservanTritate infine il peperoncino. do solo un po’ di latte di cocco 3. Unite gli ingredienti freschi 3. Mettete il pollo nella ciotola e alla mistura agrodolce ormai fatelo marinare per almeno 4 fredda ore (24 è meglio) 4. Aggiungete adesso il coriando4. Predisponete il kettle per una lo e aggiustate di sale cottura indiretta 5. Quando il pollo sarà marina- Cosa fare minuto per minuto, to infilzatelo nello spiedino. se volete servirli a cena: Mettete una strisciolina di Ore 18 del giorno precedente: prepollo per spiedino evitando di parate il pollo e mettetelo a marincaricarlo troppo. Sulla cima are potete mettere uno spicchio di Ore 15.30 del giorno stesso: prelime per fermare il tutto parate la mistura agrodolce per 6. Cuocete gli spiedini a cottura l’insalata indiretta fino ai 70°C al cuore Ore 18.30: preparate il kettle 7. Spalmate adesso il restante Ore 19.00: preparate gli spiedini latte di cocco sugli spiedini e Ore 19.30: cuocete in indiretta gli finite la cottura in diretta per spiedini creare la crosticina Ore 19.45: preparate l’insalata Ore 20.00: finite la cottura in diPreparazione dell’insalata retta (ajaad) 1. Riscaldate l’aceto fino a farlo quasi bollire in una piccola


I N GREDIEN T I

PER 4 P ERSO NE PER LO SPIEDINO (SATAY) • 25 cl latte di cocco • due cucchiaini di salsa di soia • due cucchiai e mezzo di curry in polvere • un cucchiaio e mezzo di di curcuma • tre spicchi d’aglio • un cucchiaino di zenzero fresco grattugiato • un cucchiaino di zucchero di canna grezzo • un cucchiaino di salsa di pesce • peperoncino fresco secondo tolleranza (il tipo thai è il più caratteristico ma andrà bene anche una varietà diversa) • un lime • un petto di pollo da 600 g • Olio extravergine di oliva (l’abbiamo sostituito all’olio di canola) • Sale q.b. • Pepe q.b. PER L’INSALATA DI CETRIOLO (AJAAD) • uno scalogno • un peperoncino • due cetrioli • un mazzetto di coriandolo • aceto di vino q.b. • sale q.b. • zucchero q.b.

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la salsa perfetta per i chicken satay:

PE A NU T ( S ) SAU CE (A KA SNOOPY IS BAC K )

Non parliamo della celebre striscia comica creata Charles M. Schulz, ma il richiamo è immediato e la mente rimanda subito a Charlie Brown e ai suoi amici. La peanut sauce, però, altro non è che una salsa a base di arachidi (peanut appunto). Largamente diffusa nel sud est asiatico è l’accompagnamento ideale per il satay di pollo tailandese. E’ caratterizzata da un sentore dolce che la contraddistingue. E come dicono i thailandesi, sugar make you love more stronger (lo zucchero ti fa amare più intensamente). Mentre la maggior parte delle versioni occidentali di salsa di arachidi sono fatte con il burro di arachidi, la versione che proponiamo noi è realizzata con le arachidi tostate al naturale. E, fidatevi, la differenza è notevole sia nella consistenza che nel sapore. Questa ricetta è molto facile e veloce da realizzare, oltre ad essere davvero versatile. Oltre ad accompagnare perfettamente il satay di pollo, questa salsa è ottima anche come intingolo per le verdure o come condimento per sfiziose insalate. Voci di corridoi dicono che sia perfetta anche per grigliare il tofu. Preparazione degli spiedini 1. Accendete il kettle 2. Se preferite una salsa più setosa non lavorate le arachidi, in alternativa se preferite che la salsa abbia una consistenza un po’ più croccante passate le arachidi al mixer prima di cuocerle 3. Scaldate un pentolino e aggiungete l’olio 4. Quando l’olio è caldo aggiungete l’aglio e fatelo imbiondire 5. Aggiungete ora le arachidi e fatele tostare leggermente 6. Adesso aggiungete il resto degli ingredienti e fate cuocere per qualche minuto, regolate con acqua se la salsa vi sembra troppo densa 7. Se avete optato per l’opzione più liscia adesso frullate il composto ottenuto e lasciatelo raffreddare. Se invece avete preferito l’opzione più croccante lasciate semplicemente raffreddare la salsa 48 - BBQ4All MAGAZINE

I N G REDI EN TI • Una ciotola di arachidi tostate non salate (in alternativa, se siete davvero pigri, potete usare il burro di noccioline al naturale) • due spicchi d’aglio • mezzo cucchiaio di salsa di soia • due cucchiai di olio di sesamo • due cucchiaini di brown sugar • due cucchiaini e mezzo di salsa di pesce • due cucchiaini di succo di lime • mezzo cucchiaio di peperoncino di Cayenna • 33 cl di latte di cocco • acqua q.b.


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SPECIALE SPIEDINI - RICETTA a cura di EMILIANO NENCIONI

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Korobanu saki no tsue

(meglio usare un bastone prima di inciampare) M. E. M. E.

Allora per il numero di novembre fai tu gli yakitori Benissimo! Qualche indicazione? Dovrai farli con salmone e tonno grigliato. No, aspetta, yakitori significa letteralmente “volatile grigliato”, non posso farlo col... M. Non importa, abbiamo già una miriade di spiedini col pollo, dovrai farlo come ti dicevo. E. Ma tedio i lettori dall’introvabile numero Zero di dicembre 2018 con la storia del cappello del prete briskettato, che è come dire bistecca pastasciuttata o bignè conigliato, e mi vorresti far fare una contraddizione in termini del genere? M. Ascolta, questo è un numero a tema “spiedini dal mondo”: ci serve qualcosa di giapponese con salmone e tonno! E. Mi massacreranno in ogni luogo, in ogni gruppo chiuso, in ogni screen trafugato di whatsapp... M. Fai del tuo meglio.

...KUSHIYAKI! Ecco, sì, kushiyaki: letteralmente, cibo grigliato e infilato in uno spiedino. Il termine definisce un ampio insieme di pietanze che sicuramente ingloba anche il ben più famoso yakitori, ma che accoglie anche gli alimenti che non sono strettamente pollo. Dillo pure al tuo amico un po’ cialtrone: “È inutile che tu ti atteggi a otaku giramondo nominando in continuazione gli yakitori, se poi mi proponi spiedini

di peperone ricoperto di pancetta, melanzana e filetto di maiale”. Esistono infatti svariati tipi di yakitori, ma tutti fatti con parti diverse del pollo: petto, coscia, fegato, ...persino la variante “solo pelle”. Giureresti di aver visto un documentario sugli yakitori, ma grigliavano il maiale? Memoria fallace, riguardalo con attenzione: erano yakiton. Ton! Attento, che con il giappone-

se è un attimo prendere fischi per lanterne e lucciole per fiaschi. In Giappone il cibo grigliato e infilzato ha un grosso successo sia come street food che come pietanza strutturata e ricercata, servita in ristoranti specializzati, gli yakitori-ya e izakaya; l’intuibile facilità di somministrazione e consumo on-the-go della pietanza ne ha fatto proliferare inarrestata la vendita nei dintorni di stazioni, distretti del business e aree di interesse tuNOVEMBRE 2019

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ristico, decretandone inevitabilmente la successiva esportazione fuori dal territorio dove il Kimi ga yo risuona. È pratico, facile da cucinare e da servire, economico, e con la moltitudine di varianti possibili è sempre diverso, anche se personalmente eviterei lo spiedino di cartilagine di sterno, il nankotsu, ma sono gusti. Veniamo dunque alla preparazione del nostro spiedino su base ittica: salmone, tonno e cipollotto. Va tutto grigliato e quindi, inevitabilmente, prepara la tua griglia: niente di difficile o esotico, ti basterà una normale cottura diretta, con un setup di bricchette o carbone ben caldo e arroventato con cura nel cesto accenditore; l’unico accorgimento che mi sento di raccomandarti è l’uso della carta forno, molto umida, da interporre fra pesce e griglia per evitare di ritrovarsi più materia attaccata al kettle che tra le pinze. Il pesce aderisce con troppa facilità alla griglia e, anche se asciugarlo mitiga molto questo inconveniente, sicuramente pochi centesimi di carta forno potranno risparmiarti diversi mal di testa e frustrazioni. Ricordati però di fare un breve passaggio in cottura diretta per rendere croccante e profumata la superficie esterna. Preparazione 1. Preparate la salsa, versando tutti gli ingredienti indicati in una casseruola e portando ad ebollizione, fino a ridurla alla metà. Se non vi sentite particolarmente creativi o andate di fretta, ricorrete pure a una buona salsa teriyaki reperibile in commercio e ormai diffusa in ogni supermercato. 52 - BBQ4All MAGAZINE

2. Tagliate il pesce in cubetti di 2-3 cm di lato. Lasciate il salmone e il tonno a marinare per almeno un paio d’ore nella teriyaki (non calda!), dopodichè cercate di asciugarli il più possibile con la carta assorbente. 3. Disponete la carta forno umida sulla griglia. 4. Infilzate i cubetti e i gambi di cipollotto con uno spiedino di legno, alternandoli come preferite. Girateli aiutandovi con una spatola dal manico lungo o con un paio di pinze per girare spesso il pesce. 5. Salmone e tonno non hanno bisogno di più di due minuti di cottura, con una variazione dipendente dal vostro gusto e dallo spessore del trancio. Per completezza, la temperatura al cuore del tonno non deve superare i 45°C, quella del salmone i 65°C. 6. Serviteli insieme ad una piccola ciotolina piena di salsa teriyaki in cui ogni partecipante al banchetto potrà intingere un cubetto del suo spiedino, per esaltarne a piacimento sapidità e umami. L’idea in più? Spolverizzateli con un po’ di Mount Nimba in special modo il salmone.

I N G REDI EN TI

PER 4 PER SONE • • • • •

200g di salmone (in tranci) 200g di tonno (in tranci) Sale 3 cipollotti freschi un cucchiaino di BBQ4All Mount Nimba Rub

PER LA SALSA TERIYAKI: • 100ml di salsa di soia • 100ml di mirin • 5 cucchiai di zucchero di canna


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SPECIALE SPIEDINI - LE RICETTE

EIT HE R YO U LOVE

CORN DOGS or you’re not hungry

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INGREDIENTI

P ER 3 C O RN D OG • • • • • • • • • •

tre würstel di buona qualità 75 g di farina 00 100 g di farina di mais 4 g di lievito istantaneo per salati 5 g di paprika dolce 5 g di paprika piccante due uova 50 ml di latte 5 g di sale 1 l di olio di semi

Se è vero che questo mese parliamo di cotture allo spiedo, è anche vero che tra questi non può mancare uno dei cardini dello street food americano. Parliamo del Corn Dog, un delizioso würstel da passeggio infilzato in uno stecchino di legno, avvolto da una croccante pastella e condito con un’infinità di salse. La sua nascita pare risalga agli anni ‘20 del Novecento, durante il primo dopoguerra. Furono gli emigrati tedeschi con base in Texas a idealizzare il concetto di corn dog, creando una versione del salsicciotto in pastella. Sulla sua paternità, però, le versioni sono innumerevoli. In ogni caso, l’unico che decise di brevettare questa preparazione fu Stanley S. Jenkins, più precisamente a New York nel 1927. Quel che conta veramente è averci dato la possibilità di scoprire un così godurioso würstel, da salsare in maniera laida e corrotta. Da allora, viene preparato in diverse parti del mondo e in tutte assume un nome diverso: dall’Argentina, dove viene chiamato Panchuker, al Canada dove prende il nome di Pogo Sticks, passando dall’ Australia dove è conosciuto come Pluto Pop, fino ad arrivare in Corea dove ne hanno fatto una variante con rivestimento di patatine fritte ( giusto per farsi del male ancora un po’) che si chiama Kogo. La cosa fondamentale è partire da un würstel di buona qualità: noi abbiamo utilizzato un prodotto artigianale, insaccato in un budello naturale. La versione tradizionale prevede

un'unica cottura del Corn Dog che è quella fritta. Noi invece la divideremo in due fasi: affumicheremo un po’ il salsicciotto sul nostro dispositivo, e solo successivamente lo friggeremo. Preparazione 1. Predisponete il vostro dispositivo con settaggio per una cottura indiretta con temperatura in camera a 80° C. 2. Infilzate i vostri würstel in verticale negli spiedini di legno e affumicateli per 15 minuti circa, con un blend di vostro gusto, in cottura indiretta. Lasciateli raffreddare. 3. Mescolate la farina 00 e la farina di mais in un recipiente, e unite le restanti polveri (sale, lievito e paprika). Miscelate per bene. 4. Aggiungete l’uovo e il latte e iniziate ad amalgamare il composto con una frusta sino ad ottenere una pastella non troppo densa e omogenea. 5. Versate la vostra pastella in un contenitore cilindrico stretto e alto. 6. Scaldate l’olio ad una temperatura di 180° C in una pentola che contenga gli spiedi, dai bordi alti 7. Immergete gli spiedi nella pastella per ricoprite i würstel, quindi friggete in abbondante olio. 8. Cuocete sino a doratura esterna poi lasciate asciugare qualche secondo su un foglio di carta assorbente. Un consiglio per dei Corn Dog perfetti? Utilizzate una pentola per la cottura degli asparagi, in acciaio. Riempitela d’olio e, quando ha NOVEMBRE 2019

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raggiunto la giusta temperatura, immergete lo spiedino: quando è pronto sale a galla. Altro trucchetto: quando tirate su il würstel dalla pastella, fatelo scolare bene e tenetelo per qualche secondo in verticale, quindi immergetelo velocemente nell’olio ben caldo. Otterrete un prodotto esteticamente perfetto. Cosa fare minuto per minuto, se volete servirli a pranzo Ore 12: predisponete il vostro dispositivo stabilizzandolo a 80° C in griglia. Ore 12,05: iniziate la cottura, affumicando per 15 minuti i würstel Ore 12,10: mescolate le polveri, aggiungete latte e uovo e realizzate la pastella. Ore 12,20: terminate l’affumicatura e lasciate raffreddare per 10 minuti. Ore 12,25: scaldate l’olio sino a 180°C. Ore 12,30: immergete uno per volta i vostri würstel nella pastella , quindi friggete. Ore 12,45: serviteli caldi

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HONEY GINGER MUSTARD

IN GREDIEN TI • due cucchiai di maionese • due cucchiai di senape • un cucchiaio di miele millefiori • due cucchiaini di zenzero in polvere • due cucchiaini di salsa Tamari • un cucchiaino di BBQ4ALL Rub Montreal Steak

Ogni Corn Dog che si rispetti ha una bella salsa in cui deve essere tuffato. Parliamo di qualcosa che provochi l’effetto Wow. Se creiamo da soli la nostra salsa, sicuramente dobbiamo tener conto di diversi fattori per riuscire ad ottenere questo risultato. I parametri principali da tener sempre a mente per ottenere la salsa perfetta sono: grasso, portante, aroma, percezioni, sapido, dolce, amaro, acido, umami. Questa è la partenza, diciamo pure la porta del labirinto magico, dentro il quale è possibile trovare svariate uscite, tutte diverse tra loro. Quella che oggi vogliamo abbinare al nostro Corn Dog è la Honey Ginger Mustard. Nome tanto complicato da ricordare, quanto semplice è la preparazione. Infatti la nostra salsa sarà composta da pochi elementi che si trovano volendo già pronti, ma che possiamo migliorare se decidiamo di farci in casa la base: una bella maionese. La scelta delle materie prime incide e come sulle preparazioni.

Una volta che avete la base, a questa aggiungete gli ingredienti che la caratterizzano. Abbiamo toccato almeno sette parametri tra quelli descritti prima, scegliendo ed equilibrando con cura tutti gli ingredienti. E che salsa sia. Preparazione 1. Unite la maionese, la senape e amalgamate bene . 2. Inserite la salsa Tamari e, quando sarà assorbita dalla salsa, aggiungete lo zenzero in polvere. 3. Mescolate bene e unite a questo punto il miele, amalgamando il tutto. 4. In ultimo spolverate con un cucchiaino di BBQ4ALL Rub Montreal Steak e continuate a mescolare. La vostra salsa è pronta. Non sarà solo buona con i Corn Dog ma anche con le patatine. Farete a gara con i vostri figli per inzuppare dentro la ciotola il vostro spiedino preferito

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SPECIALE SPIEDINI - LE RICETTE

CHE FICO! M ET T ILO NE L DO LCE IN SI E ME A

ricotta&noci

Finalmente siamo giunti al dessert, la portata immancabile di ogni incontro culinario in compagnia. Dopo aver deliziato e stupito le papille gustative dei vostri ospiti con le piacevoli e diverse sfumature esotiche degli spiedini dal mondo, per il dolce vi proponiamo un mix di sapori tipico della tradizione pasticciera italiana: soffice Pan di Spagna farcito con una golosa crema di ricotta, il tutto esaltato dalla croccantezza delle noci e dalla dolcezza dei fichi caramellati. E per renderlo ancora più goloso aggiungiamo una leggera nota di fumo, caramellando i fichi con la cottura indiretta. In altre parole, dopo averli spolverizzati con lo zucchero vengono posizionati sulla griglia dalla parte opposta delle braci con il coperchio chiuso. Una cosa è certa: se è vero che il fico è un frutto goloso e zuccherino, buono appena colto e mangiato, quando viene caramellato in questo modo e gustato con le noci, diventa una vera leccornia. Il calore delle braci ne esalta al massimo la dolcezza, donando58 - BBQ4All MAGAZINE

gli un gusto sublime, reso ancor la farina e la fecola, un po’ alla più particolare dal lieve aroma di volta incorporatele alle uova fumo. Inoltre, questa procedura montate, sempre utilizzando porta alla lenta disidratazione dello sbattitore. la buccia rendendola un velo sotti- 4. Ungete una teglia per dolci con le e croccante che racchiude in sé il burro, senza esagerare. tutta la morbida golosità del frutto. 5. Ponete in cottura il dolce nel Dopo il primo assaggio, potrete forno già riscaldato a 170°C per percepire come i caratteri delica20 minuti circa. Passato queti del Pan di Spagna e della ricotta sto tempo, con uno stecchino zuccherata si sposino alla perfebucate il dolce al centro, se rizione con la dolcezza più decisa sulta asciutto il Pan di Spagna è del fico mitigata dalla lieve nota pronto. amarognola delle noci tostate, e 6. Sformatelo e, lasciandolo cacome in tutto ciò l’affumicatura sia povolto, in modo che la parte la cornice perfetta di questo inconsuperiore diventi piatta, fatelo tro di sapori. raffreddare completamente, per circa due ore. Preparazione degli spiedini 7. Adesso preparate la bagna. In 1. Prendete la bacca di vaniglia e un pentolino versate l’acqua, con un coltellino incidetela per il latte e 90 g di zucchero setutta la sua lunghezza e grattamolato e a fuoco basso girate il te i semini al suo interno. liquido con un cucchiaio fino a 2. In una ciotola versate le uova, quando lo zucchero è sciolto, 150g di zucchero e la vaniglia e non serve portarlo a bollore. con le fruste elettriche mesco- 8. Passiamo alla preparazione dei late gli ingredienti, per almeno fichi affumicati. Preparate il di15 minuti, fino ad ottenere un spositivo per una cottura indicomposto spumoso. retta a 180 C°. 3. Dopo aver setacciato insieme 9. Lavate 8 fichi sotto l’acqua


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I N G RED I EN TI

PER 4 PER SONE PER LO SPIEDINO (SATAY) • 25 cl latte di cocco • due cucchiaini di salsa di soia • due cucchiai e mezzo di curry in polvere • un cucchiaio e mezzo di di curcuma • tre spicchi d’aglio • un cucchiaino di zenzero fresco grattugiato • un cucchiaino di zucchero di canna grezzo • un cucchiaino di salsa di pesce • peperoncino fresco secondo tolleranza (il tipo thai è il più caratteristico ma andrà bene anche una varietà diversa) • un lime • un petto di pollo da 600 g • Olio extravergine di oliva (l’abbiamo sostituito all’olio di canola) • Sale q.b. • Pepe q.b. PER L’INSALATA DI CETRIOLO (AJAAD) • • • • • • •

I NGREDIEN T I

PE R 4 P ERSO NE • 100g di farina 00 • 50g di fecola di patate • 240g di zucchero bianco semolato • 50g di uova • una bacca di vaniglia • burro q.b. • il succo di un limone • 150g di latte • 150g di acqua • 10 fichi freschi • 150g di noci • 400g di ricotta • 150g di zucchero a velo

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uno scalogno un peperoncino due cetrioli un mazzetto di coriandolo aceto di vino q.b. sale q.b. zucchero q.b.


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corrente (i due restanti servono per la decorazione finale); dopo averli asciugati passateli nello zucchero semolato e disponeteli all’interno di una teglia adatta alle alte temperature, e bagnateli col succo di un limone. Mettete la teglia in cottura indiretta, dalla parte opposta delle braci, affumicate con due manciate di petali di legno aromatico e lasciateli andare fino a quando la buccia non si sarà brunita e i fichi risulteranno alla vista appassiti e morbidi al tocco. Quando saranno pronti, dovranno raffreddare totalmente su un foglio di carta forno. Una volta freddi divideteli in quattro o otto parti (dipende dalla grandezza). Su una teglia disponete le noci e fatele tostare nel dispositivo per 10-15 minuti a 180° C. Quando tutti gli elementi preparati precedentemente avranno perso calore, setacciate la ricotta, unite lo zucchero al velo e lavorate insieme i due ingredienti fino ad ottenere una bella crema liscia, dopodiché aggiungete al suo interno le noci tostate amalgamando bene. Prendete il Pan di Spagna e suddividitelo in tre dischi con un coltello lungo a lama liscia. Con un coppapasta ottenete 4 piccoli dischetti da ogni disco, per creare le monoporzioni del dolce a tre livelli. Prendete un dischetto di Pan di Spagna e, con un pennello alimentare, inumiditelo con la bagna al latte, mettete la crema e sopra di essa disponete il fico

tagliato in quattro parti. Coprite il tutto con un altro dischetto e, dopo averlo bagnato, ripetete lo stesso procedimento. 17. Arrivati al terzo strato, decorate il dolce con noci e fichi. Serviteli, volendo con una colata di salsa al cioccolato. Cosa fare minuto per minuto, se volete servirlo a cena: Ore 13,55: riscaldate il forno a una temperatura di 170° C. Ore 14,00: montate gli albumi con lo zucchero e la vaniglia. Ore14,15: aggiungete la farina alle uova montate. Ore14,20: imburrate la teglia, versate al suo interno il composto ed infornate per 20 minuti circa. Ore14,40: verificate che la torta sia cotta con l’aiuto di uno stecchino, se è pronta toglietela dal forno, sformatela e fatela raffreddare. Ore15,00: preparate il dispositivo per una cottura indiretta a 180°C. Ore 15,30: in una teglia ponete i fichi zuccherati e bagnati con il limone in cottura indiretta . Ore 16,00: togliete i fichi dal dispositivo e lasciateli raffreddare. Ore16,15: tostate le noci su una teglia foderata di carta forno e ponetele in cottura indiretta. Ore16,30: togliete le noci dalla cottura. Ore 16,45: preparate la bagna per il Pan di Spagna Ore17,30: preparate la crema di ricotta. Ore18,00: dividete il Pan di Spagna i tre strati, coppatelo per ottenere 12 dischetti. Ore 18,30: Iniziate a montare il dolce. Ore 19,00: conservate le mono-porzioni in frigo fino al servizio. NOVEMBRE 2019

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VINI ABBINATI a cura di ENIO BERTON

È ORA DI

BERE! abbinamenti consigliati

R I S E RVA M A Z O N

Vino Cantina: Abbinamento :

Südtirol - Alto Adige DOC Pinot Nero Riserva Mazon 2016 Hofstätter Spiedini di tonno

Gli spiedini di tonno ci permettono di osare un rosso con il pesce. Abbinamento che a me piace tantissimo e che ci permette di sfruttare lo stesso vino per due tipologie di carni molto diverse tra di loro. Il Pinot nero o Pinot noir o BlauBurgunder è contemporaneamente gioia e dolore dei viticoltori di mezzo mondo, difficile da interpretare in vigna e molto delicato durante tutto il processo di maturazione del grappolo. Utilizzato nella produzione di spumanti Metodo Classico (Champagne, Franciacorta, Trento DOC ed Oltrepò Pavese metodo classico solo per citare i più famosi) o vinificato al naturale, dona struttura ed intensità aromatica sia vinificato in bianco (base per il metodo classico) sia vinificato in rosso. Il termine Pinot sembra che derivi dal francese Pin “pigna”, ed infatti il grappolo è piccolo, compatto e a forma triangolare proprio come una pigna. La cantina Hofstätter, nata nel 1907, è una realtà che coniuga storia e contemporaneità. Attualmente guidata con maestria e sapienza dalla quarta generazione da Martin Foradori, si sviluppa su 50 ettari di vigneto dai quali escono le massime espressioni della territorialità sia per i vini bianchi (dal gewürztraminer al pinot bianco) sia per i vini rossi (dal pinot nero, al lagrein fino alla schiava) dei veri e propri cru sempre citati nelle etichette delle selezioni. La riserva Mazzon porta nel nome la particella di produzione, vigneti appollaiati attorno nelle dolci colline di questa frazione del Comune di Neumarkt-Egna, situato a 25 chilometri a sud di Bolzano. L’esposizione a sud-ovest permette di ricevere il benefico influsso del sole fin alle ore tarde del pomeriggio. Raccolto a mano, subisce una leggera pigiadiraspatura con una successiva fermentazione in botte per 10 giorni a contatto con le bucce. Il vino viene poi fatto maturare in piccole botti per 12 mesi, in botti grandi per altri 6 mesi e finisce la maturazione in bottiglia per altri 12 mesi. Dal colore rosso rubino tendente al granato, portato al naso sprigiona profumi di sottobosco e di frutta rossa. Al palato le note fruttate sono ben bilanciate da un tannino rotondo, poco invadente, e da una buona sapidità. Fin di bocca piacevole e prolungato. Servire a 16/18 gradi in calici ad apertura media. Uve: 100% Pinot nero. Zone produzione: pendici della collina Mazzon Esposizione: sud , sud ovest. Grado alcolico: 13,50%

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CHABLIS Vino: Cantina: Abbinamento :

Chablis AOC 2017 Domaine Droin Jean-Paul & Benoit Spiedini con salmone

Ci spostiamo in Francia nella zona di Chablis, patria del vino che porta, come in tutte le denominazioni francesi, il nome del territorio. Chablis vuol dire la massima espressione dello chardonnay, vitigno internazionale che troviamo un po’ in tutto il mondo. La Domaine Jean-Paul e Benoît Droin possiede 25 ettari di proprietà, produce e vinifica da oltre 500 anni. Alle redini dell’azienda attualmente c’è Benoît, figlio di Jean-Paul, che rappresenta la quattordicesima generazione della famiglia. I vigneti sono dislocati attorno a Chablis, nei terreni che fanno parte delle denominazioni Petit Chablis, Chablis e nei rinomati Premier Cru e Grand Cru. La coltivazione avviene attraverso tecniche biodinamiche che pongono l’attenzione al raggiungimento del miglior risultato possibile nel prodotto finale, basti pensare che la cantina è stata ricavata ai piedi del vigneto principale per evitare ai grappoli lo stress di viaggi lunghi. La raccolta delle uve viene fatta rigorosamente a mano seguita da una leggera pressatura pneumatica, che consente di estrarre il nettare in modo graduale e controllato per poi terminare la fermentazione in vasche di acciaio. Lo Chablis AOC 2017 continua la sua vinificazione in acciaio (no legno) con i suoi lieviti per alcuni mesi, poi viene imbottigliato. Dal colore giallo paglierino con tenui riflessi verdognoli, portato al naso sprigiona delicati profumi di fiori bianchi tra cui spicca l’acacia che piano piano lascia il posto a note minerali intense che ricordano la pietra focaia. Al palato la freschezza, sostenuta da una buona acidità e dalla giusta sapidità, denota una struttura decisamente elegante. Fin di bocca raffinato, pulito e lungo. Da servire a 8/10 gradi in bicchieri tulipano. Uve: 100% Chardonnay. Zone produzione: zona di Chablis Esposizione: sud - ovest. Grado alcolico: 12,50%

D'ALESIO

Vino: Cantina: Abbinamento :

D’Alesio Aleatico Passito IGT Menhir Salento torta ricotta e fichi

Questo mese chiudiamo con una capatina in Puglia e più precisamente a Bagnolo del Salento sede dell’azienda Menhir. La torta con ricotta e fichi mi porta nella regione di maggior produzione dei fichi, soprattutto fioroni destinati al consumo fresco. L’Aleatico, vitigno semi-aromatico di origine greche, viene ritenuto una mutazione genetica del moscato a bacca nera, diffuso in Toscana (Elba Aleatico Passito DOCG), nel Lazio (Aleatico di Gradoli DOC) ed appunto in Puglia, dove risulta più corposo e dolce grazie ai benefici influssi del sole. Definirla cantina è riduttivo: la Menhir Salento è organic farm, più precisamente sia un’osteria con il giovane chef Alfredo De Luca, sia una cantina. Nata nel 2002 da un’idea dei fratelli Gaetano e Vito Angelo Marangelli, coadiuvati dal brand ambassador Mirian Daniele, ha sviluppato nel corso degli anni una sinergia con il territorio, valorizzandolo e promuovendolo. La zona di produzione di questo Aleatico si trova a San Dònaci località a 50 metri slm, viene vendemmiato alla quarta settimana di Settembre dopo un appassimento direttamente sulla pianta, e subisce un processo di macerazione e fermentazione per circa 10 giorni, per poi continuare l’invecchiamento direttamente sulle fecce per 6 mesi. Dal colore rubino intenso, rilascia al naso un intenso bouquet di lamponi, ciliegia e rosa canina. Dal gusto fresco ed equilibrato. Da servire a 14/16 gradi in bicchierini da dessert. Uve: 100% Aleatico. Zone produzione: San Dònaci (BR) Esposizione: nord sud .Grado alcolico: 13,00% NOVEMBRE 2019

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BIRRE CONSIGLIATE a cura di RICCARDO MENICONI

DR CALIGARI

Tutti sappiamo cos'è uno spiedino, giusto? Beh, essenzialmente è un'asticciola su cui si infilzano pezzi di carne, di pesce o di verdure. Pensando a questa tecnica culinaria, essendo da poco passato il periodo di Halloween, non si può non pensare a colui che di spiedini sicuramente se ne intendeva, il famigerato Vlad III di Valacchia, meglio conosciuto solo come Vlad l'Impalatore, o con il suo nome più famoso: Dracula. Non a caso, la ricetta in questione è di origine rumena; probabilmente non sarebbe stata apprezzata dal conte a causa della presenza dell'aglio, ma noi non siamo vampiri...vero? Direttamente dal Mastro birraio Bruno Carilli del birrificio Toccalmatto di Parma, ho pensato per questi spiedini dal sapore piuttosto deciso alla Dr Caligari; una Berliner Weisse (anche se per via dei suoi 6,1° poco canonici per lo stile, è considerata un’Imperial Berliner Weisse) con aggiunta di una grande quantità di lamponi freschi che le donano un acidità elegante e fine. Capace di ripulire la bocca dal grasso delle carni miste e di sposarsi piacevolmente con li sapori forti dei condimenti. Già stappando la bottiglia l'aroma è prepotente, spiccano i lamponi e sentori lattici. Nel bicchiere si presenta con un fantastico color rosso opalescente che tende al rosa pallido, con una bianca schiuma rada e poco persistente. Il bocca, l'acidità aumenta la salivazione, il lampone è aspro e secco con un retrogusto leggermente dolce e una lieve nota di rabarbaro. Vi consiglio di servirla in un tumbler, ad una temperatura di 6°-8°C.

S E TA

La vostra vacanza a Santorini è un lontano ricordo, tenuto vivo solo dalle foto e dalla calamita che vi saluta dal frigorifero? C'è qualcos'altro che può riportarvi tra le vie bianche e suggestive di Fira, un piatto semplice ma evocativo e tradizionale: il Souvlaki, praticamente il fast food greco per eccellenza, declinato in molte varianti, nel nostro caso in un pratico e gustoso spiedino di pollo. Mentre siete davanti alla griglia, il solo odore che sprigiona richiama alla mente le serate d’agosto, passate a bere Ouzo e ballare il Sirtaki... ma rimaniamo coi piedi per terra! La birra che ho scelto per accompagnare questo nostalgico spiedino è la Seta, magnifica Blanche del Birrifico Rurale, direttamente dalla Lombardia. L’ho scelta principalmente per il suo penetrante profumo di fieno tagliato e di prati in fiore, che si sposa perfettamente con il mix di spezie della tradizione Greca. Nel bicchiere si veste di un tenue giallo paglierino opalescente, con una schiuma bianchissima, compatta e pannosa, ma poco persistente. Al palato ritroviamo le note di agrumi, soprattutto di buccia d’arancia, di frutta matura, come la pera, e di coriandolo. Ha un corpo reso morbido dall'aggiunta di avena ma comunque agile e dalla facile beva che va a chiudere con un finale leggermente amaro estremamente piacevole e dissetante, anche grazie ai suoi 5°. Vi consiglio di servirla in un calice a Tulipano, ad una temperatura di 6°-8°C.

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B R O O K LY N L A G E R

Negli Stati Uniti è sicuramente lo spiedino più diffuso: il Corn Dog. Viene venduto negli iconici carrettini ai bordi delle strade delle grandi metropoli. Così diffuso da essere lo sfondo di molte scene nei film d'oltreoceano. Parlando di leggende, non potevo che abbinare a questa rockstar del fastfood all'americana una stella altrettanto famosa: la Brooklyn Lager, del birrificio omonimo nato nel cuore di New York nel 1988, che si merita sicuramente un posto nella Walk of Fame delle birre del Nuovo Continente. È un’ American Amber Lager dall’intenso color ambrato con sfumature ramate; la schiuma è compatta e abbastanza omogenea di un color avorio che tende al nocciola. Spunta la luppolatura con decise note floreali, e una leggera crosta di pane e biscotto dato dal malto. Alla beva emergono la freschezza del dry-hopping (eseguita con luppoli Cascade e Hallertauer Mittelfrueh), un corpo snello e un finale secco contornano da note di cereale. È una birra diretta, molto piacevole anche grazie ai suoi 5,2°abv, da bere in compagnia magari passeggiando per Time Square o mentre guardate una partita dei New York Giants. Piccola parentesi: Il Dry hopping è una tecnica che permette al luppolo di esprimere tutto il suo potenziale aromatico, grazie ad un’infusione a freddo durante la fermentazione secondaria. Le sostanze idrosolubili ed alcool-solubili rimangono così impresse nel profilo aromatico della birra senza subire le alterazioni date dal calore. Questa procedura è usata in birre molto luppolate come Ipa, Apa, Imperial Ipa, NEIPA o Pale ale. O in una qualsiasi birra si voglia sviluppare un aroma molto pronunciato. Volendo esasperare questa caratteristica è possibile eseguire un DDH/TDH/ QDH (double, triple, quadruple).

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COCKTAIL a cura di RICCARDO MENICONI

ZOMBIE C O C K TA I L Lo Zombie Cocktail è un fantastico Tiki Drink inventato da Don Beach nel 1936. Don Beach (Ernest Raymond Beaumont Gantt) nato in Texas, si trasferì a Los Angeles intorno al 1931. Qui inizia la sua fortuna. Nel 1934, infatti, finito il proibizionismo apre il “Don’s Beachcomber Café”. Qualche anno dopo trasferisce la sede del locale in un posto vicino e approfitta dell’occasione per cambiare nome e stile. Da café si trasforma in “Don The Beachcomber bar”, un locale in stile caraibico che serve cocktail a base di rum e che diventa subito famoso soprattutto tra le star di Hollywood. Nel dopo guerra i Tiki bar crescono e il successo arriva anche per Don Beach. A seguito del divorzio con la moglie, però, perde il controllo del brand e, non avendo più molte possibilità nella città degli angeli, si trasferisce alle Hawaii. Una volta arrivato a Waikiki, Gantt riesce a rimettersi in sesto e apre un “Polynesian Village” (un centro commerciale) dove ricomincia la sua vita e dà nuovo slancio al suo successo. Nel “Dagger Bar” si dice sia nato il celebre Mai Tai, anche se la paternità del cocktail è combattuta con Victor J. Bergeron.

di una tremenda sbornia. L’effetto non fu però quello desiderato e dopo qualche giorno il cliente tornò lamentandosi che il cocktail lo aveva trasformato in uno zombie. Da qui il nome di questo bizzarro drink dal gusto morbido e fruttato, che però nasconde un forte contenuto alcolico. Ingredienti - 4,5 cl di Rum giamaicano - 4,5 cl di Rum portoricano - 3 cl di Rum overproof - 2,5 cl di succo di Lime fresco - 1,5 cl di Falernum - 1 cl di succo di Pompelmo bianco - 0,5 cl di sciroppo di cannella - 0,5 cl di Granatina - 4,5 cl di Pernod - 4,5 cl di Bitter Aromatico - Ghiaccio - Ghiaccio tritato (3/4 di bicchiere) - Foglie di menta fresca

Preparazione Se la genesi del Mai Tai è incerta, non lo è di sicuro Mettere tutti gli ingredienti tranne la menta ed il quella dello Zombie cocktail che invece è stato sicura- ghiaccio in un blender e frullare per non più di 5 semente miscelato da Don Beach. condi. Versare in un bicchiere, aggiungere i cubetti di ghiaccio e decorare con menta fresca e uno spicchio Si narra che questo cocktail fu inventato dallo stes- di lime. so Gantt per aiutare un cliente a smaltire i postumi 66 - BBQ4All MAGAZINE


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ENIGMISTICA AL BBQ a cura della REDAZIONE

Q-CIVERBA

ORIZZONTALI 3. Carne speziata, lasciata in salamoia e affumicata di origine romena 8. Il taglio ideale per un pulled pork perfetto 12. Fondo di cottura ottenuto dalla bollitura di ossa, cipolle, carote ed erbe 13. Non si bucano mai 14. Grigliare in Argentina 15. Si dice di ribs troppo cotte 16. Salatura della carne prima della cottura 17. Fa parte della Holy Trinity insieme a ribs e pulled pork 18. Petali di legno duro aromatico

VERTICALI 1. Inerzia termica 2. New York strip in italiano 4. Dopo il filetto, è il muscolo più tenero del bovino 5. Cottura a contatto diretto con le braci 6. Il pascolo in cui viene allevato il suino iberico de bellota 7. Sono i gradi previsti dal pre trattamento del Revit 9. Una Tomahawk steak con l'osso più corto 10. Dispositivo in ceramica a forma di uovo 11. Tempo di permanenza in cella frigo che intercorre tra l'abbattimento dell'animale e la vendita

LE SOLUZIONI SARANNO PUBBLICATE NEL NUMERO DI DICEMBRE 68 - BBQ4All MAGAZINE


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Lo speziale

DEL BARBECUE tutto sulle erbe e gli aromi

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LO SPEZIALE DEL BARBECUE RUBRICA a cura di LUCA GALLOZZA Sono ben felice di presentarvi questa nuova rubrica che vi accompagnerà per i prossimi numeri. Di cosa parlerà? Di spezie, di erbe aromatiche e di peperoncini. Non sono un biologo, né un agronomo ma semplicemente un appassionato di arte culinaria che, come molti di voi, ama approfondire i vari aspetti legati alla cucina. Al giorno d’oggi, e sopratutto nel mondo BBQ che noi conosciamo, l’utilizzo delle spezie per intensificare ed esaltare i sapori, unito alla piccantezza di un peperoncino, è la chiave importante per ottenere il kick giusto nella preparazione. Le regole fondamentali per l’utilizzo delle spezie sono: la ricerca della miglior materia prima e la tostatura antecedente all macinatura. Questa secondo passaggio, in particolare, è veramente importante poiché favorisce lo sprigionarsi degli oli essenziali contenuti nelle singole spezie, aumentando la carica aromatica. Ma perché dedicare un’intera rubrica alle spezie? Perché di frequente sono i veri e propri elementi che caratterizzano una portata. Sbagliare una spezia può significare rovinare una preparazione. Non a caso alcune pietanze prendono il nome dall’aroma utilizzato per identificarne il sapore: una salsa alla curcuma, una focaccia al rosmarino, un maialetto al mirto sono solo alcuni esempi, ma ne potremmo trovare milioni. Ma cosa c’è di veramente importante da sapere su una spezia? Intanto direi che avere delle nozioni base da cui partire non sarebbe affatto male. Per cominciare sarebbe bene capire da dove si ricava. Gli aromi che usiamo in cucina provengono, come ben noto, da diversi tipi di piante e da diverse parti delle stesse. Possiamo ricavarle dalle radici (rizomi), dalla corteccia, dalle foglie, dalle gemme, dalle bacche, dai frutti e dai semi. Per farvi alcuni esempi: il wasabi si ricava dalle radici, la cannella dalla corteccia, il dragoncello dalle foglie, il cappero dalle gemme o boccioli, il pepe e ginepro dalle bacche, la vaniglia dai frutti, la senape dai semi. È pur vero che a seconda del luogo geografico dove si consuma un determinato tipo di spezia, la sua classificazione diventa alquanto complicata. Questo perché la stessa pianta è spesso usata in modo differente. Un esempio può essere fatto con la senape, che nei paesi orientali viene consumata sia come seme che come NOVEMBRE 2019

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foglia. Ciò che ci attira principalmente di una sostanza aromatica è, almeno inizialmente, il suo profumo. A livello chimico, è semplicemente una barriera che la pianta stessa attiva per proteggersi da eventuali predatori, siano essi insetti o erbivori. Gli oli essenziali e le oleoresine della pianta, combinandosi tra loro, rilasciano molecole volatili che le conferiscono una specifica combinazione di aroma e sapore. Esiste una differenza tra spezie e aromi? Diciamo pure che non c’è una vera e propria differenza, anche se molti studiosi sulla materia tendono a fare una distinzione e ad identificare come spezie quegli elementi che stimolano i sensi gustativi, e per aromi quelli che agiscono sull’apparato olfattivo. Possiamo invece riscontrare una differenza tra spezie ed erbe aromatiche. Le erbe aromatiche sono tutte quelle piante verdi a foglie fresche e non essiccate che crescono nei climi temperati. Tra queste: basilico, rosmarino, prezzemolo e simili. Le spezie invece sono le parti essiccate e ricavate, come già prima evidenziato, da piante che crescono principalmente in climi tropicali.

spezie tra i vari popoli ha portato beneficio e migliorato l’alimentazione globale. Inizialmente erano utilizzate per le proprietà benefiche che apportavano al corpo, senza però una conoscenza specifica: ci si basava sull’esperienza meramente empirica. Nel Medioevo si faceva largo uso di spezie, considerate riequilibranti naturali dell’organismo. Al giorno d’oggi, grazie alla scienza, se ne possono valutare i benefici in maniera più specifica. Le molecole biologicamente attive che sono state scoperte all’interno dei frutti o delle piante aiutano nella prevenzione delle malattie e nella cura della persona. Tra tutte, gli antiossidanti e in particolare i polifenoli che si dividono in flavonoidi e acidi fenolici. I flavonoidi (grande gruppo di sostanze classificate in altre sottocategorie: flavonoli, flavanoli, antocianidine, isoflavoni, flavanoni e flavoni) sono ottimi per garantire una buona prevenzione di malattie cardiovascolari. Inoltre hanno un effetto anti-age, per la felicità delle signore (e non solo). Questo è solo un esempio: come potete capire, l’uso di queste sostanze va ben oltre la cucina e l’effetto che possono avere sul gusto dei nostri piatti.

Qual è stato il loro processo evolutivo nella sto- Quindi si presuppone che gli antichi ne facesseria? ro un uso limitato? Fin dai tempi delle prime civiltà ad oggi, lo scambio di La storia ci insegna proprio il contrario. Abbiamo te-

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stimonianze del loro utilizzo già nel Neolitico (8000 – 5000 a.C ). Successivamente gli Egizi, nel lontano 3.500 a.C, le utilizzarono per imbalsamare i defunti e insaporire i cibi. Gli indiani, 1500 anni dopo, iniziarono l’esportazione di pepe verso il Medio Oriente e così fece pure la Cina con i chiodi di garofano. Non furono da meno gli arabi, padroni incontrastati del commercio di sostanze aromatiche, tanto da crearsi una vera e propria via delle spezie che, attraversando il fiume Indo arrivava sino a Babilonia, per poi espandersi infine sul Mediterraneo e sul resto dell’Europa. I Romani seguirono anch’essi le orme degli Egizi. Era usuale, appunto, utilizzare gli aromi durante la cremazione dei corpi degli Imperatori, per favorire la purificazione dell’anima. Quindi le spezie assunsero nel sentore comune una sorte di potere magico e occulto, sia per la loro associazione a divinità superiori, sia perché si tendeva a tenere segrete le zone geografiche di provenienza, al fine di non perdere il monopolio in campo commerciale. Nel Medioevo, nacque la figura dello Speziale. Era un personaggio fondamentale: egli infatti era il solo che poteva acquistare e vendere spezie in esclusiva.

Era quindi un imprenditore e un mercante allo stesso tempo, ma anche un cuoco e un curatore del corpo. Alla compravendita dei prodotti e delle materie prime egli affiancava lo studio e l’esperienza nella tecnica farmaceutica. Persino l’aspetto gastronomico era affidato allo speziale. Inoltre, non solo i cibi venivano comunemente miscelati con aromi ed erbe. Bevande come vino e birra senza luppolo venivano somministrati con aggiunta di chiodi di garofano e noce moscata. Nel tempo, poi, lo Speziale perse il privilegio di essere il solo a trattare e a vendere questa merce, perché diventò più redditizio e più conveniente coltivare le piante da cui si ricavavano le spezie, anche grazie al loro adattamento ai climi diversi dal loro luogo di provenienza. Ebbene, io sarò il vostro Speziale. Ogni mese vi proporrò una spezia specifica: vi racconterò l’origine geografica, vi descriverò la parte da cui viene estratta, vi parlerò del suo uso in cucina, vi suggerirò gli abbinamenti corretti e vi fornirò un piccolo vademecum su come coltivarla. Preparatevi perché ci sarà da divertirsi. NOVEMBRE 2019

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RUBRICA a cura della BBQ4All UNIVERSITY

#CHIEDIA LCOA CH “Vorrei togliermi una curiosità: ma per il pollame come siamo messi in Italia? Se prendessi un pollastro in USA la differenza sarebbe così marcata come con la carne di bovino?”

pennuti (fonte Istat), cioè mille animali al minuto. Il 99,5% di questi sono cresciuti in allevamenti intensivi (fonte Sinab) a velocità supersonica: in una quarantina di giorni il pulcino arriva a pesare anRisponde il Senior Coach Virgilio Brunetti. È una delle carni più bistrattate e maltrattate del mon- che due chili e mezzo. do, lo mangiano tutti e parecchi tuttavia lo odiano. Molti dei nostri griller rivalutano il consumo del pollo Nel 2017 la produzione di carni avifrequentando i nostri corsi perché in poche semplici cole in Italia è stata pari a mosse è possibile nobilitare una carne che essenzial- 1.354.000 tonnellate, in dimente povera di aromi e sapidità. La cottura e il seasoning possono fare miracoli, ma sulle carni avicole della GDO rimane sempre un alone di sospetto. Qualcuno si interroga se esista qui in Italia o all’estero una carne di pollo che possa definirsi eccezionale in termini di gusto e salubrità. Sappiamo bene che esistono molti esempi di eccellenza nell’allevamento e nelle selezioni di bovini di qualità straordinaria in giro per il globo, ma dall’Europa agli Stati Uniti i disciplinari che definiscono l’eccellenza delle carni avicole sono rari e di nicchia. minuzione rispetto al 2016 (-2,5%). Una La realtà è che in tutto il mondo il nota va fatta anche per l’allevamento delpollo raramente viene allevato in maniera massiva ed estensiva per via dei costi relativi le ovaiole: infatti, per quanto concerne le alla gestione di spazi, di mangimi e di richiesta d’ac- uova, la produzione italiana è garantita da oltre qua. Sebbene in Italia esistano degli standard quali- 38 milioni e 900 mila galline, presenti in oltre tativi piuttosto elevati esso viene allevato in un unico 1.800 allevamenti a gestione professionale. modo: in maniera intensiva in gabbia o a terra. Il risul- Più della metà della produzione tato è questo: proteine a buon mercato che piacciono è concentrata nel Nord Italia: a a grandi e piccini, ma tutto ciò a quale prezzo? Faccia- guidare la classifica è il Veneto, dove viene prodotto il 26% delle mo due conti. uova italiane. Seguono la LomNel 2016, in Italia, sono stati macellati 525 milioni di bardia (25%) e l’Emilia Romagna 74 - BBQ4All MAGAZINE


(17%), mentre al Sud la regione in cui si producono più uova è la Sicilia (6%). Nel 2018 sono stati prodotte in Italia oltre 12,2 miliardi di uova, pari a circa 772 mila tonnellate di prodotto. Questi numeri possono impressionare ma sono ridicoli rispetto alla produzione e al consumo annuale di colossi come Cina e Stati Uniti. La diffusione planetaria di allevamenti intensivi pone anche molti interrogativi di ordine sanitario soprattutto per quanto riguarda la diffusione di virus influenzali di origine aviaria. Tutto questo ci dovrebbe far riflettere sulla qualità della carne e delle uova. Da un lato abbiamo una produzione a stento sufficiente a soddisfare la domanda nazionale, dall’altra la coscienza che un sistema produttivo di tali

ti che hanno ben poco a che fare con l’alimentazione naturale. Ciò vale sia per l’allevamento intensivo in gabbia e a terra. Il pollo protagonista di questa filiera produttiva viene chiamato Broiler, termine inglese riferito a un animale a rapido accrescimento. Si tratta di una vera “macchina da carne” che aumenta di peso a vista d’occhio in poche settimane a fronte di una quantità relativamente contenuta di mangime. Gli incroci utilizzati in questo caso sono in genere Ross o Cobb. La vita degli animali varia molto in relazione alla velocità di accrescimento ma soprattutto in funzione della destinazione commerciale: • quelli utilizzati nelle rosticcerie per essere venduti cotti sono macellati dopo circa 35 giorni e hanno un peso inferiore ai 2 Kg; • quelli da vendere interi vengono macellati intorno ai 40 giorni, quando raggiungono un peso intorno ai 2,8 kg; • quelli destinati ad essere porzionati e venduti (utilizzando soprattutto le cosce, il petto e le ali) sono più grossi e vivono qualche giorno in più.

Sebbene il prodotto a rapido accrescimento domini il mercato, esiste una quota per quello cosiddetto tradizionale. In molti casi si tratta di incroci commerciali a medio o lento accrescimento come il Kabir. In questa categoria troviamo anche i maschi delle galline ovaiole che non vengono soppressi il giorno dopo la nascita, i cosiddetti Golden ossia maschi delle ovaiole bionde e i Livornese ossia i maschi delle ovaiole bianche. Ci sono anche razze a crescita lenta nostrane o autoctone come il pollo Romagnolo o il Valdarnese diventati in qualche caso presidi Slow Food o marchi tutelati dalla regione di origine. Questi animali sono generalmente allevati come estensivo al coperto, e vengono macellati come minimo dopo 70 giorni, ma spesso arrivano anche a 110 giorni per raggiungere un peso accettabile. Il periodo proporzioni non può di allevamento e la velocità di crescita sono alcuni dei soddisfare criteri di fattori che incidono sul prezzo di vendita. qualità e salubrità. Per sostenere un allevamento in- Del prodotto della GDO generalmente non conosciatensivo non è possibile prescindere da mo quasi nulla, ma esistono differenze importanti che misure sanitarie tali da garantire la sa- incidono sulla qualità anche in termini di sesso e di età lute degli animali allevati. L’uso di vac- oltre che di razza e tipologia d’allevamento. cini, di antibiotici e di antiparassitari è obbligatorio in condizioni di sovraffollamento. Per sostenere una crescita veloce e lo sviluppo di masse muscolari incredibili in animali privi di spazio, è necessario intervenire con alimenti altamente nutrienNOVEMBRE 2019

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Si definiscono: • pulcino, maschio o femmina, da 0 a 7 giorni; • pulcinotto, maschio o femmina, da 8 a 40 giorni circa; • pollo o pollastra (maschio o femmina), da 41 giorni circa fino all’età riproduttiva solitamente non supera 1,5 Kg; • gallina, femmina, a partire dalla maturità sessuale (adulto della pollastra). È detta gallina ovaiola quando inizia a fare uova dai 6 mesi fino ai 12 mesi e poi diminuendo progressivamente. È detta chioccia, quando cova le uova fino alla schiusa con la nascita dei pulcini; • pollanca, femmina sterilizzata mediante l’asportazione dell’ovaia prima che inizi a deporre le uova; come il cappone è destinata all’ingrasso. • galletto, maschio, a partire dalla maturità sessuale fino a circa 6 mesi, è il maschio del pollo nell’età più giovane. • gallo ruspante, maschio, a partire dalla maturità sessuale fino a circa 10 mesi, è il maschio del pollo nell’età intermedia. • gallo, maschio, è il gallo ruspante, dopo i 10 mesi; • cappone, maschio castrato all’età di circa due mesi, arriva fino a circa 2,5/3 kg destinato all’ingrasso.

complicano la preparazione. Il risultato spesso è scadente perché le carni risultano asciutte e troppo consistenti, nulla a che fare quindi con ciò che comprate al supermercato, ma questo, in alcuni casi, ci dà l’illusione della qualità. Non c’è dubbio che la salubrità del pollo allevato in aia sia ottima, ma la qualità della carne dov’è? Possibile che per mangiare sano ci tocca masticare segatura? Apparentemente non esistono compromessi tra un velociraptor allevato in maniera casalinga e quello che ci propone la GDO. Tuttavia, anche per i pennuti di allevamento, genetica, sesso, alimentazione, età e modalità di macellazione sono determinanti sulla qualità e sulle caratteristiche del prodotto finito.

Tra le eccellenze assolute in termini di standard qualitativi, Il pollo di Bresse è l’unico al mondo a beneficiare, da oltre cinquant’anni, del marchio Denominazione di Origine Controllata (AOP). Il suo alto pregio deriva dalle modalità di allevamento: ogni animale dispone almeno di 10 m² di spazio erboso, ricco in vermi di terra, insetti ed erba rigogliosa che costituiscono circa 1/3 del suo sostentamento. Il complemento della sua alimentazione è costituito per l.80% da granoturco, per il 10% da grano (cereali obbligatoriamente prodotti nella zona DOC di Bresse) e per il 10% da prodotti lattiero-caseari. La sua carne è soda Sono sicuro che vi sarà capitato di mangiare un gal- ma tenera in bocca, madreperlacea, dal sapore unico e lo ruspante, quello vero allevato allo stato libero. Le ricco. Galletto ruspante e cappone di Bresse sono ovcarni sono dure, magre, la pelle è praticamente cuo- viamente il top. io, inoltre la cottura richiede tecniche dedicate che 76 - BBQ4All MAGAZINE


Pollo di Bresse

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SEGUO - RUBRICA a cura di EMILIANO NENCIONI

S EG U O nemo me impune lacessit

Probabilmente un buon 25% di tutto il traffico dati mondiale è dovuto al consumarsi di una vendetta. 78 - BBQ4All MAGAZINE


Di piccola o gigantesca entità, dal subthread sotto l’articolo di un misconosciuto blog fino ai tweet e retweet di politici posti in ruoli chiave per l’equilibrio politico mondiale, la vendetta è continuamente sotto gli occhi di tutti: un mondo parallelo e spesso privo di percezione della conseguenza (o del crimine) come il mondo online non può certo essere immune da un meccanismo ancestrale e radicato nella cultura umana come la vendetta. Figuriamoci se le testosteroniche e roboanti comunità del barbecue avrebbero mai potuto esimersi dall’eccellere anche in questo campo: vendette dopo un ban, vendette dopo un commento rimosso, vendette perché giudichi le mie beef ribs poco succose, vendette perchè mi hai ridicolizzato sotto un post di un tizio che considero influente. Alcuni dei più vendicativi utenti non potranno neanche leggere questa Seguo e approfondire l’argomento, visto che, manco a dirlo, la più gettonata reazione a un qualsiasi atto di moderazione è la cancellazione dell’abbonamento al Magazine, con successiva precisazione “Mi avete cancellato il commento ma volete i miei soldi, e poi la rubrica del Nencioni è fuori luogo e offensiva perché parla sempre in maniera negativa di comportamenti che mi appartengono”.

Non c’è niente da fare, non è colpa dei griller, non è colpa di internet: la vendetta è un rituale sociale comune a tutte le comunità o società umane, ed è sempre stata presente come strumento per disciplinare i conflitti all’interno dei gruppi. Dalle tribù di Sapiens agli account su Facebook il passo è breve, cambia solo la facilità di espressione e l’esposizione al pubblico.

Canzon, vattene dritto a quella donna che m’ha ferito il core e che m’invola quello ond’io ho più gola, e dàlle per lo cor d’una saetta, ché bell’onor s’acquista in far vendetta.

Giuditta che decapita Oloferne 1620 - Artemisia Gentileschi

(Dante Alighieri, «Così nel mio parlar voglio esser aspro», canzone che conclude il ciclo delle “Rime Petrose”, dove scorgiamo Dante ben lontano dalla delicatezza stilnovistica, imbufalito contro una donna, “Petra”, che molto prosaicamente ...lo rimbalza.) Che tipo di trauma porta un accalorato fan dell’ultim’ora, uno di quelli NOVEMBRE 2019

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questo paio di paginette mi faccio sempre una ventina di giorni di studio su un dato argomento, ...o pensavate che sapessi davvero ogni dettaglio del rapporto fra Einstein e Bohr, nello storico numero di Aprile '19 del Magazine? Le conclusioni, da quello che ho capito, sono illuminanti.

sempre presenti e un po’ servìli, usi a coprire di lodi, cuoricini e devozione il guru in carica, a diventare un inarrestabile hater pronto ad attaccarsi ad ogni pretesto per infangare il nome dell’idolo ripudiato? Cosa ti è successo, o animo ferito, nel tempo tra i tuoi post pieni di disperata voglia di trovare qualcosa di brutto da dire e quelli di cinque minuti prima, dove non facevi altro che ripetere “ehi, ma invitare mai eh?”, tentando di inculcare subliminalmente l’idea di essere amiconi e immancabili presenze al desco del tizio socialmente più in vista, tralasciando l’immancabile distanza di 900km e il paio di catene montuose invalicabili interposte tra te, utente smanioso di riconoscimento sociale, e l’oggetto della tua temporanea ammirazione? (Pensandoci bene potrei fare una Seguo intera, o una collana di Seguo, sull’argomento “Invitare mai”. Ma non vorrei fare innervosire una parte troppo grande dei miei quattro lettori: non so, ditemi voi, la mia pagina da Coach aspetta ogni suggerimento.) Mi sono documentato un po’: lo sapete, per scrivere 80 - BBQ4All MAGAZINE

La chiave sta tutta in due fattori: Fitness e Ruminazione. • Fitness: non sto parlando di forma fisica in senso stretto. Nell’ipercalorico universo del barbecue non vi chiederò di fare dodici round di dieci piegamenti, cinque trazioni alla sbarra e quindici squat a corpo libero prendendo nota di tempo impiegato e battito cardiaco. Fitness indica la capacità di un essere vivente di accaparrarsi nutrimento e potenzialità riproduttive: nel caso social, questo termine si adatta a qualcosa di simile alla credibilità, reputazione, capacità di convincere gli altri e di essere percepito come “degno di essere letto”. • Ruminazione: pur avendo una discreta attinenza, non mi riferisco a nessun allevamento grass fed né tantomeno entra in gioco l’omaso. Mi riferisco all’unforgiveness, la tendenza a non sapere o volere perdonare: in un continuo ripensare ad un evento traumatico o negativo (nel nostro caso un commento rimosso, un silenziamento di 24 ore o una critica alla maillard su una ribeye, cose che ti segnano dentro insomma), l’individuo continua a rivivere il torto subìto, amplificando la propria frustrazione e impedendosi di far sfumare la rabbia. Se a livello ancestrale la vendetta era uno strumento prezioso per preservare la fitness biologica, nel nostro caso ristretto si configura come indispensabile per il mantenimento della reputazione e dei ruoli gerarchici. È così che si sfaldano quelle sudditanze granitiche fino al minuto prima. Reazioni spesso eccessive, rabbia imbarazzante, e ogni possibile pretesto usato per deridere l’ex beniamino: è proprio la differenza di magnitudine nelle reazioni ad essere palese in que-


sto tipo di ritorsioni, perché la vittima (la persona che vuole vendicarsi) considera il torto subito più grave di quanto percepito dagli altri, e reagisce in maniera spropositata affinché sia ben chiaro a tutti i lettori che lui, ah, lui non è certo il tipo di subìre questo tipo di angherìe senza una spietata rivalsa. In quest’ottica il vendicarsi non è mai un’azione diadica, fra due entità: c’è sempre un terzo e importantissimo attore, il pubblico. I lettori, gli utenti dello stesso gruppo, che di solito sguazzano in questo tipo di litigi (fino a quando, di schianto, si scocciano ostracizzando il comportamento), devono essere messi al corrente della pronta reazione dell’offeso, in modo che la vendetta venga riconosciuta come tale sì da chi la subisce, ma anche da chi la osserva. Ah, il pubblico, immancabile megafono di indignazioni. Il responsabile dell’abuso di concetti come “portare rispetto” (ai nuovi abbonati raccomando l’acquisto degli arretrati per una trattazione più ampia del fenomeno di nascondere una richiesta come “ti prego non contraddirmi davanti a tutti quanti anche se hai ragione” sotto la pietosa foglia di fico del “portare rispetto”, sempre qui sulle ultime pagine della vostra rivistuccia preferita). Una vendetta senza pubblico avrebbe lo stesso valore liberatorio di uno spettacolo di mimo in una stanza buia.

rici, tanto utili per fare i parallelismi con troll indignati, ex seguaci permalosi e sussiegosi individui suscettibili, possiamo tranquillamente dire che se ai loro tempi la vendetta era un iter necessario per preservare la timé (τιμή), nel microcosmo del social grilling quel che più conta è la reputazione. “A me non la si fa”, “gliela faccio vedere io”, “come si permette”, in una ruminazione continua e infinita di nemo me impune lacessit, nessuno mi attacca impunemente. Dopotutto, se Achille (ancora lui!) ha fatto tutto quel macello per la Briseide Ippodamia possiamo aspettarci che un geometra di mezza età disdica l’abbonamento per un post non approvato o che un solido gruppo di super fan si unisca al coro di hater con argomentazioni quantomeno fallaci e stiracchiate, strumentalizzando similitudini e iperboli in una ricerca incessante dell’appiglio per screditare pubblicamente chi questo gruppo seguiva ciecamente fino ad un istante prima dell’ira funesta.

Bisogna, per il rito della vendetta, reagire in maniera straordinaria per sottolineare la straordinarietà delle offese (Mi cancelli un commento? proprio a me? Sconfessi le mie convinzioni, davanti a tutti?), perché in rete come nel mondo greco classico l’inerzia viene considerata un segnale di debolezza. Tirando in ballo anche questo mese i nostri eroi ome-

generali e impersonali quindi non prendetela a male, non siate rancorosi e vendicativi, non vi arroccate attorno alla vostra Timé.

Aggiunta in extremis, poco prima di andare in stampa: Questa Seguo pare avere capacità divinatorie. Pur scrivendo uno o due mesi prima dell’arrivo delle riviste nelle case degli abbonati, immancabilmente si verifica qualcosa che sembra far riferire le mie inoffensive e nient’affatto sibilline parole a qualche accadimento di attualità al momento della lettura, generando grandi alzate di sopracciglia, malumori e imbarazzi. Non sto a dirvi di preciso come, quando, cosa si sia verificato in passato, ma per favore: dovesse esserci stata qualche vendetta importante, qualcosa che vi riguarda proprio durante la lettura, credetemi. Non l’ho fatto apposta. Non penso sempre a voi. Spesso i miei sono discorsi

A volte invece penso a voi. Emiliano Nencioni NOVEMBRE 2019

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NEW YORK

SLIDERS 200g (4x50g)

Un piccolo hamburger che andrà letteralmente a ruba nelle occasioni di festa. Particolarmente adatto ai bambini per le dimensioni ridotte, è perfetto per aperitivi, cene informali, serate in famiglia. Un vero e proprio boccone di puro sapore, che si presta ad essere declinato in mille versioni e abbinato a un’infinità di sapori, ma sorprendentemente gustoso e succulento anche da solo.

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ORIGINAL

BURGER 200g

Diventa il re della griglia durante le giornate in compagnia di amici e familiari grazie a questo hamburger da 200 grammi. Il perfetto bilanciamento del gusto, dato dall’equilibrio ideale di parte grassa e parte magra nella composizione del patty, lo rende un prodotto di cui non potrai più fare a meno. Dimentica gli hamburger sottili e insapori e preparati a un’esplosione di gusto, senza rinunciare alla praticità di un prodotto confezionato in skin.


BURGER

STEAK 300g

DOVE TROVARCI puoi trovare la mappa interattiva di tutti i punti vendita costantemente aggiornata all’indirizzo http://products.bbq4all.it/dove-trovarci/

Trecento grammi di carne macinata, condita e ricompattata in una polpetta dallo spessore consistente. Questo Burger Steak unisce le due cose fondamentali che tutti cercano in cucina: qualità ottima e velocità di preparazione. In pochi minuti potrai servire un piatto ricco, bello da vedere, con un sapore esplosivo e una qualità indiscussa. Un hamburger alto, saporito, soddisfacente, che si presta a essere servito in mille modi diversi, mai asciutto e stoppaccioso. Scalda bene la griglia prima di mettere il Burger Steak in cottura, rigiralo spesso per creare la crosticina esterna senza rischiare di bruciarlo, cuocilo per pochi minuti e servilo come una tagliata, aggiungendo il tuo condimento preferito. Un sicuro successo. Un vero salva-cena di altissima qualità.

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2020

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A gennaio 2020 verranno pubblicati i nuovi appuntamenti che si svolgeranno dalla primavera

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