BBQ4All Magazine - numero 15 - marzo 2020

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N°15/ANNO 2 - MARZO 2020

MAGAZINE

LA RIVINCITA DEL

POLLO

il Galletto glassato, le Alette croccanti e i Nuggets fatti in casa

l a r i c e t ta scientifica

IL R AG Ù

di Gianfranco Lo Cascio

la cina

SPECIALE CUCINA ORIENTALE

dai jiaozi all' anatra laccata cotta al barbecue

DISPOSITIVI E ACCESSORI

IL WOK



D I R E T TO R E E D I TO R I A LE

Rossella Neiadin

R E D AT T O R E C A P O

Michela Bongiorni REDAZIONE

Enio Berton, Giovanni Bolzonella Virgilio Brunetti, Michele Chipa, Roberto Dal Bosco, Tommaso Di Gregorio, Salvatore Di Mento, Luca Gallozza, Mariangela Ibba, Gianfranco Lo Cascio, Riccardo Meniconi, Emiliano Nencioni, Andrea Spaggiari, Alessandro Trezzi, Carlo Trono. REALIZZAZIONE GRAFICA

Carlo Trono S TA M PA

Graphic Master s.r.l. - Perugia magazine@bbq4all.it instagram.com/bbq4allmagazine/

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EDITORIALE di GIANFRANCO LO CASCIO

del

LA SANTA INQUISIZIONE

R AGÙ ALLA BOLOGNESE e di altri condimenti eterodossi

Nel 1179 e negli anni a venire, chiunque promulgasse o mettessi in pratica qualsiasi forma di devianza teologica, morale o di costume veniva condannato a tutta una serie di cose sgradevoli. E quando l’eretico, il deviato cioè, proprio non ne voleva sapere di piegarsi all’abiura, allora veniva legato ad un palo e sistemato su abbondanti fasci di legname e paglia. Quante volte mi è capitato di assistere a processi per un piatto di pasta. Non per pozioni magiche o negromanzia, macché, io stavo solo preparando ‘na carbonara. Eppure quasi mi pareva di sentire odore di bruciato, e non era mica il guanciale. Era il fuoco che certi provavano e provano ad appiccare sotto i miei piedi. Mi prendono in giro loro, mi osteggiano. Ma io non mi spavento eh, piuttosto muoio da incendiario. Proprio con i talloni mezzi bruciacchiati e la camicia pregna di fumo, per questo numero di Marzo voglio entrare nel tempio del ragù e rovesciare le pentole. Ma prima di lanciarmi nell’invettiva e seminare panico e scompiglio, lascio parlare la tradizione, è pur sempre (e solo) il punto di partenza, giusto?

IL RAGÙ NAPOLETANO

Il diretto antenato del ragù è un piatto della cucina popolare medievale provenzale risalente al XIV secolo chiamato “ daube de boeuf”: si trattava di uno stufato di carne di bue mescolato a verdure e cotto lungamente in un recipiente di creta. La ricetta arriva nelle cucine napoletane solo intorno al XVIII secolo con il regno di Ferdinando IV di Borbone, periodo in cui vi fu una grande influenza della cultura e della moda francigena a corte. Molti piatti napoletani, infatti, presero il nome dalle “storpiature” delle pietanze francesi, come appunto il ragù (ragout), o il gattò (gateau), e ancora il sartù (surtat). Fu proprio Maria Carolina d’Asburgo-Lorena, moglie di Ferdinando IV, a introdurre nelle cucine dei palazzi nobili la moda dei cuochi transalpini, arricchendo le mense con questo sontuoso

piatto a base di carne di manzo o vitello di prima qualità, ma ancora scevro di pomodoro. È la penna di Vincenzo Corrado ne “Il cuoco galante” del 1773 a scrivere per la prima volta la parola “ragù”. Con questo nome, di chiara derivazione francese, non descriveva di certo il famoso condimento per la pasta, ma una pietanza a se stante che oggi potremmo paragonare a uno spezzatino o a un brasato. Il piatto prevedeva una prima rosolatura in burro, lardo o olio, poi una cottura in brodo o vino con ortaggi ed erbe aromatiche. Spesso si aggiungeva a fine cottura succo di limone, o più raramente aceto, per incrementare l’acidità del piatto. Il ragù veniva utilizzato perlopiù per insaporire altre vivande, oppure per formare un ripieno. Di certo non veniva associato alla pasta, insomma. Nella mastodontica opera in sei volumi di Francesco Leonardi, autore de “L’Apicio moderno”, stampato per la prima volta a Roma nel 1790, troviamo i Maccaroni alla Napolitana, un piatto di pasta con un condimento simile all’attuale ragù alla napoletana, ma in una forma piuttosto grossolana: dopo la cottura in acqua i maccheroni venivano conditi con formaggio stagionato, pepe e sugo di vitello o manzo, poi fatti riposare sopra la cenere calda e serviti. Fondamentale ricordare che tra la prima e la seconda edizione del ricettario Leonardi inserisce un passaggio importantissimo per la storia della gastronomia, ovvero la possibilità di aggiungere il sugo di pomodoro alla carne stufata. Qualche anno più tardi nel ricettario “La cucina casereccia” stampato a Napoli e firmato con le sole iniziali M.F. si potrà leggere dell’archetipo del ragù napoletano: i maccheroni lessati e cosparsi di formaggio grattugiato si condiscono “con buon brodo di ragù, dove sieno stati cotti i pomidori”. Nella ricetta il sugo si prepara con un grosso pezzo di manzo steccato con prosciutto e chiodi di garofano, fatto rosolare con cipolla, proMARZO 2020

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sciutto, lardo ed erbe aromatiche e infine cotto nel brodo con l’aggiunta di pomodoro. Il “ragù” rimarrà ancora per molto tempo un piatto di carne stufata, lo ritroveremo anche nel libretto della Bohème di Puccini. Per condire la pasta si utilizzava quindi solo il condimento, mentre la carne veniva mangiata a parte, come un secondo. La ricetta ricomparirà nella “Cucina teorico pratica” di Ippolito Cavalcanti del 1837, il ricettario napoletano più famoso di sempre, ma solo nel Novecento il pomodoro entrerà di diritto nella lista degli ingredienti imprescindibili. Contemporaneamente compariranno le prime varianti, come quella che prevede un’aggiunta di carne di maiale, inizialmente non contemplata (Azz!). “Da quanti secoli, ogni domenica, come la messa sugli altari, ricorre il ragù sulle mense napoletane? Fin dalle primissime ore del mattino un tenero vapore si congeda dai tegami di terracotta… Il cielo di Napoli presiede alle sorti del ragù, perché il ragù non si cuoce ma si consegue, non è una salsa ma la storia e il romanzo e il poema di una salsa… In nessuna fase della cottura deve essere abbandonato a se stesso; come una musica interrotta e ripresa non è più una musica, così un ragù negletto cessa di essere un ragù e anzi perde ogni possibilità di diventarlo.”

IL RAGÙ ALLA BOLOGNESE

E dopo il racconto ricco di minuzie sulla genesi del ragù partenopeo, eccovi scodellata la “ricetta vera e autentica del ragù classico bolognese tramandata ai posteri dal dott Nuvoletti Conte Giovanni“. Leggete bene. “Nel 1982, Domenica diciassette Ottobre alle ore tredici e quindici minuti, a Bologna, presso l’Hotel Royal Carlton via Montebello n 8 è stato stilato un verbale davanti al Dott Aldo Vico di Bologna Presenti il prof Zangheri di Rimini, il dott Nu6 - BBQ4All MAGAZINE

voletti Conte Giovanni, Il prof. Cetrullo Carlo. Il prof Cetrullo Carlo, nella anzidetta sua qualità, dichiara che la Delegazione Bolognese della Accademia della Cucina ha voluto, avviando indagini lunghe e laboriose, promuovendo e realizzando indagini di natura storica, sociale, d’ambiente, mercantile, turistica e folcloristica, nonché indicendo pubblica consultazione a mezzo del giornale quotidiano aperta ad ogni strato sociale dell’intera popolazione della città di Bologna ACCERTARE Onde tramandarla ai posteri, la ‘ricetta vera ed autentica , classica e tradizionale del ‘Ragu Classico Bolognese’. A tale scopo sulla scorta degli esiti delle indagini, degli studi, delle ricerche, dei risultati della pubblica consultazione di cui sopra si è detto che hanno tenuti ben presente: • Le peculiari caratteristiche di questa salsa in rapporto alle abitudini ed alle possibilità agricolo-alimentari dei nostri predecessori • La qualità dei componenti, comuni ed economici, che erano reperibili nelle nostre zone; • La qualità degli utensili, ed il conseguente metodo di cottura, di normale impiego nelle famiglie del passato; • I ricordi, gli insegnamenti e le tradizioni dei nostri vecchi; • Il costante riferimento a rigorosi criteri di classicità e di fedeltà al passato; la delegazione Bolognese della Accademia Italiana della Cucina SOLENNEMENTE DECRETA Che la Ricetta del ‘Ragù Classico Bolognese’, la cui fama, oltre ad essere universale, è secolare, tanto da perdersi nella Storia per sconfinare nella Leggenda, è la seguente:


Componenti e Quantità • Cartella di manzo gr 300 (diaframma n.d.r.) • Pancetta distesa gr 150 • Carota gialla gr 50 • Costa di sedano gr 50 • Cipolla gr 30 • Salsa di pomodoro Cucchiai 5 • Vino bianco secco bicchiere 1/2 • Latte intero bicchieri 1 Utensili necessari • Tegame di terracotta circa 20 cm di diametro • Cucchiaio di legno • Coltello a mezzaluna

5. Non mettere la salsiccia. O meglio, considerarla un orpello superfluo. Per la precisione: niente salsiccia di maiale con le carni bianche, meglio allora di pollo o coniglio. 6. Usare pasta all’uovo e non secca. Lo richiede la tradizione, e non a caso, la mantecatura viene decisamente meglio. È cruciale cuocere la pasta dentro il ragù a fuoco medio. Necessaria una spolverata di Parmigiano Reggiano. La stoccata finale? “Si può usare pollo o coniglio invece di vitello e manzo, oppure piccione e anatra!”

PROCEDIMENTO Si scioglie nel tegame la pancetta tagliata a dadini e tritata con la mezzaluna; si aggiungono le verdure ben tritate con la mezzaluna e si lasciano appassire dolcemente; si aggiunge la carne macinata e la si lascia, rimescolando sino a che sfrigola; si mette 1/2 bicchiere di vino ed il pomodoro allungato con poco brodo; si lascia sobbollire per circa due ore aggiungendo, volta a volta, il latte e aggiustando di sale e pepe nero Facoltativa, ma consigliabile, l’aggiunta, a cottura ultimata, della panna di cottura di un litro di latte intero. Tale preparazione, decreta infine la Delegazione Bolognese della Accademia Italiana della Cucina, è la più aderente alla formula che garantisce il gusto classico e tradizionale del vero Ragù Bolognese, quello che da secoli si fa, si cuoce, si serve e si gusta nelle Famiglie, nelle Trattorie, e nei Ristoranti della Dotta e Grassa Bologna.”

Si fa chiamare “Chimico di quartiere”, ma per tutti noi è un riferimento autorevole quando si parla di scienza applicata alla cucina (e non solo). Il ragù by Bressanini si prepara partendo da queste proporzioni: 40% di salsiccia di maiale, 30% di vitello e 30% di manzo, per un totale di 1,250 kg di carne. Il Soffritto? Cipolle + Carote + Sedano, ovvero 70% di cipolla e scalogno, 15% di sedano e 15% di carote. Burro: 55 grammi, da aumentare o ridurre al gusto Aglio: 2/3 spicchi per ogni kg di ragù. Aromi: qualche foglia di alloro fresco. Latte: quanto ne servirà (circa un litro). Vino: 1 bicchiere di bianco Un tubetto di triplo concentrato.

IL RAGÙ STELLATO

Sul suo è atterrata una cometa, più che una stella. Voglio parlarvi della versione di Massimo Bottura, lo chef dell’Osteria Francescana di Modena, l’uomo che riuscirebbe a cucinare l’impossibile, il cuoco alchimista che trasforma in oro quello che gli altri buttano via. Ebbene Chef Bottura vi suggerisce di: 1. Non macinare la carne. Il ragù è più saporito se i pezzi di carne sono grandi. Casomai li tagliate dopo la cottura. 2. Non mettere i pomodori. L’avete sempre fatto? Bene, avete inconsapevolmente provocato uno “scontro di sapori”. “L’aggiunta del pomodoro è una cosa recente, risale a 50 anni fa” dice Bottura, e non è stata certo una pensata modenese: “L’Emilia non è una regione vocata alla produzione di pomodoro”. 3. Non mettere l’aglio. Fuorviante e praticamente sconosciuto alla tradizione emiliana. 4. Non mettere gli odori. Due foglie di alloro e un rametto di rosmarino al massimo. Prima di impiattare vanno assolutamente eliminati.

Capìta l’antifona?

IL “QUASI RAGÙ” DEL PROF. DARIO BRESSANINI

Il procedimento? Si rosola la carne e si stufano le verdure con il burro, in due pentole separate, per estrarre il massimo delle molecole aromatiche dagli ingredienti e per innescare la reazione di Maillard, in assenza di umidità. Poi si unisce il triplo concentrato al macinato miscelato al trito, si aggiungono latte ed aromi e si lascia cuocere per parecchie ore, dolcemente.

IL MIO RAGÙ SCIENTIFICO

Ho scelto degli ingredienti diversi rispetto a tutti i protocolli descritti, ho calibrato le dosi in maniera differente e ho approntato un procedimento con un’identità tutta sua. È il mio piccolo contributo alla storia di questo piatto, con la speranza che vi renda felice o almeno sollevati, in un momento storico poco piacevole per tutti e che ci costringe a trascorrere molto tempo in casa. Trovate tutto descritto maniacalmente nella rubrica “La ricetta scientifica”, tutti i passaggi spiegati in maniera cristallina e il ragionamento che c’è dietro. Non saltate le pagine però, c’è tanto da leggere e imparare in questo numero del BBQ4All Magazine. (Segue a pagina 82)

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ERRATA CORRIGE n.14 - febbraio 2020 p.8 la percentuale corretta per la salamoia è il 4%, quindi 40g per litro di acqua; p.11 nell'indice le castagnole sono indicate come contenenti ricotta, ma la ricetta finale non prevede questo ingrediente; p.41 per ogni tazza di riso va messo in una casseruola 1/4 di tazza di aceto di riso; p.51 nella lista degli ingredienti nella ricetta del ramen, sotto la voce salsa base di soia, il sale è riportato due volte: la quantità corretta è 7,5g; p.67 nella lista degli ingredienti della ricetta dei bomboloni, sotto la voce impasto, mancano 2 uova.

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INDICE MARZO 2020 - NUMERO 15 ANNO 2

RUBRICHE

5 . L ' E D I TO R I A L E D I G I A N F RA N CO LO CASC I O

la santa inquisizione del ragù 1 0 . PO RT FO L I O

La cucina cinese 1 8 . I N T E RV I ST E

Le Zhang del BON wei di Milano 2 6 . C U R I O S I TÀ

a cena in Cina - il galateo a tavola 2 8 . D I S POS I T I V I E ACC E SS O R I

il wok

RICET TE DI MARZO SPECIALE CINA

32. Spaghetti saltati con verdure 33. pollo marinato verdure e funghi 34. Il pane a vapore 38. gli involtini primavera 40. Jiaozi 44. A TUTTO NOODLES 44. Pancia di maiale brasata 50. LA RIVINCITA DEL POLLO 52. Black Label Chicken wings 54. crispy fried chicken wings 56. nuggets di pollo 60. il galletto al bbq PER FINIRE 62. CHEESECAke 66. è ora di bere

APPROFONDIMENTI 7 0 . LO S P E Z I A L E D E L BA R B EC U E

Le 5 spezie cinesi

74. THE CHEMICAL GRILLER

salse cinesi + anatra alla pechinese

7 8 . C U R I O S I TÀ

la bistecca sintetica

8 2 . L A R I C E T TA S C I E N T I F I C A D I G I A N F R A N C O L O C A S C I O

il ragù

82. SEGUO

MAuro esige rispetto MARZO 2020

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SPECIALE CINA - PORTFOLIO a cura di ROBERTO DAL BOSCO

la cucina CINESE

民以食為天 Mín yǐ shí wéi tiān:

per le persone, il cibo è il paradiso. Questo antico proverbio cinese proviene dall’Hanshu (il Libro dei primi Han), un’opera storica compilata nel secondo secolo. Sbaglierebbe il lettore che lo volesse associare al piacere epicureo, all’edonismo culinario. Ciò non è esattamente quel che originariamente dichiarava il detto. Il paradiso (天) indicato qui non era visto come una sorta di Eden ideale ma come una forza suprema: il cielo, sotto alla cui legge è sottoposto ogni essere umano. In altre parole, per la maggior parte delle persone che vivevano in Cina a quel tempo, niente era più importante che avere abbastanza da mangiare. Il cibo era una forza primaria, una forza celeste.

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La leggenda narra che la cultura della cucina cinese ebbe origine nel XV secolo a.C. durante la dinastia Shang e fu originariamente introdotta da Yi Yin, il primo ministro. Se così stanno le cose, questa cultura gastronomica ha almeno 3.500 anni. La preferenza per il condimento e le tecniche di cottura delle province cinesi dipendono dalle differenze storiche e dall’influsso dei gruppi etnici, e immaginate che la Repubblica Popolare Cinese oggi ne riconosce ufficialmente ben 56. La Cina possiede inoltre una varietà estrema di geografie: montagne, fiumi, foreste e deserti hanno anche un forte effetto sugli ingredienti locali disponibili; il clima della Cina varia da tropicale a sud a subartico a nord-est. A causa della storia di espansione del Celeste Impero, gli ingredienti e le tecniche di cottura di altre culture sono integrati nel tempo nelle cucine cinesi. Il sale veniva usato come conservante sin dall’antichità, ma è noto che per aggiungere il sapore salato qui si usi soprattutto la salsa di soia. Parimenti iconica è la predominanza delle bacchette come utensili per mangiare. Ciò è in realtà anche una dichiarazione culinaria: un cibo da bacchette richiede anche 12 - BBQ4All MAGAZINE

che la pietanza sia preparata in pezzi di dimensioni ridotte e che sia tenera al punto di non necessitare l’uso del coltello. Le Quattro principali cucine, a cui si riferisce con l’espressione Sì dà càixì (四大菜系), rappresentano i quattro antichi ceppi della tradizione alimentare. Sono la Chuan (della regione del Sichuan), la Lu (dello Shandong), la Yue (la cucina cantonese) e la Su (del Jiangsu; talvolta identificata con la sua variante subregionale Huaiyang), che rappresentano rispettivamente le cucine della Cina occidentale, settentrionale, meridionale e orientale. «Da una prospettiva a lungo termine sembra abbastanza chiaro che almeno fino alla spinta della globalizzazione che ha soffiato sulla Cina verso l’alba del terzo millennio, la continuità era più forte del cambiamento» scrive Thomas O. Höllmann nel suo The Land of the Five Flavors, The Culture History of Chinese Cuisine. Oggi dunque si parla delle moderne Otto Cucine della Cina: Anhui (Huīcài), Cantonese (Yuècài), Fujian (Mǐncài), Hunan (Xiāngài), Jiangsu (Sūcài), Shandong (Cucina di Lǔcài), Sichuan (Chuāncài) e Zhejiang (Zhècài).


impattato anche sullo sviluppo delle arti culinarie. Un segno indelebile su tutte le cose umane lo ha lasciato il saggio Kǒng Fūzǐ, detto comunemente Confucio (551–479 a. C.). Al momento dell’arrivo di Confucio nel periodo storico detto degli Stati Combattenti (che va dal 453 a.C. al 221 a.C), la cucina era già una forma d’arte stabilita. Il saggio seppe portarvi la sua ferrea etica cosmica. Negli Analetti (dialoghi) di Confucio, al capitolo VI verso 8, è possibile leggere: «Il riso non dovrebbe essere mai troppo bianco, la carne non dovrebbe essere mai tagliata troppo finemente... Quando non si è cucinato bene, l’uomo non dovrebbe mangiare. Quando si è cucinato male, l’uomo non dovrebbe mangiare. Quando la carne non viene tagliata correttamente, l’uomo non dovrebbe mangiare. Quando il cibo non è preparato con la salsa giusta, l’uomo non dovrebbe mangiare. Sebbene ci siano molte carni, non dovrebbero essere cotte più del cibo base». Perle di saggezza, a cui aggiungiamo questa, che ha sapore vagamente lapalissiano: «Non c’è limite per l’alcol, prima che un uomo divenga ubriaco». Grazie al... Confucio sottolineò gli aspetti artistici e sociali della cucina e del cibo. I cinesi non si riuniscono senza che sia coinvolto cibo ed è considerata una cattiva etichetta invitare gli amici a casa senza fornire cibo adeguato. Confucio stabilì altresì gli standard di cucina e di etichetta a tavola, la maggior parte dei quali rimane fino ai giorni nostri. L’esempio più ovvio è il taglio di pezzi di carne e verdure di dimensioni ridotte durante la preparazione del cibo, piuttosto che usare un coltello a tavola, che non è considerato educato. Il filosofo inoltre incoraggiò la miscelazione di ingredienti e aromi per la creazione di un piatto coerente, rispetto all’assaggiare i singoli componenti. Per il saggio l’armonia era la priorità. Così come nel suo pensiero sociale, anche per l’arte culinaria egli insegnava che senza armonia degli ingredienti non poteva esserci gusto. Mise dunque l’accento sull’importanza della presentazione e sull’uso del colore, della consistenza e della decorazione di un piatto. Soprattutto, con Confucio la cucina è diventata un’arte invece di una brutta funzione da espletare, e sicuramente egli ha contribuito a diffondere la filosofia del vivere per mangiare piuttosto che del mangiare per vivere. Come vedete, torna sempre la parola cài (菜), che va letta tsai. Tale sillaba sta a significare, in origine, la verdura; oggi indica le diverse cucine cinesi. Ma niente paura: nonostante qualche passione vegetariana da parte dei religiosi, ai cinesi non è mai mancata la passione per la ciccia. Pensate che nel periodo Han (II secolo), alcuni scrittori già si lamentavano spesso di come i pigri aristocratici non facessero altro che sedersi per tutto il giorno a mangiare carne e arrosti affumicati.

FILOSOFIA CULINARIA

La cucina in Cina non nasce solo dal cibo: nasce dalla filosofia. La filosofia alla base secondo alcuni è radicata nell’I Ching (il libro dei mutamenti tramite il quale qualche vostro amico ha provato a leggervi il futuro) e nella medicina tradizionale cinese: il cibo era giudicato per colore, aroma, gusto e consistenza e ci si aspettava che un buon pasto bilanciasse le Quattro Nature (caldo, tiepido, fresco e freddo) e i Cinque Sapori (pungente, dolce, acido, amaro e salato). Le due scuole di pensiero dominanti della cultura cinese hanno entrambe avuto grandissima influenza sulla storia politica ed economica del paese, ma è meno noto come esse abbiano

C’è anche il Tao, l’altro grande filone filosofico del Celeste Impero. Ha incoraggiato la ricerca sugli aspetti nutrizionali del cibo e della cucina. Invece di concentrarsi sul gusto e sull’aspetto, i taoisti erano più interessati alle proprietà vivificanti del cibo. Il taoismo contribuì a scoprire le proprietà salutari di ogni sorta di radici, erbe, funghi e piante. Molti sacerdoti taoisti consideravano la loro dieta estremamente importante per la propria salute fisica, mentale e spirituale, specialmente per quanto riguarda la quantità di qi (氣, a volte traslitterato anche come ch’i) nel cibo: il qi, come noto, si ritiene che sia una forza vitale che fa parte di qualsiasi entità vivente, e lo potete tradurre anche come energia materiale, o flusso di energia. L’invenzione del tofu alimentare è stata attribuita a un taoista. La letteratura religiosa taoista spesso incoraggia i praticanti a divenire vegetariani per ridurre al minimo i danni, perché tutte le forme di vita sono considerate senzienti. Una forma di digiuno taoista chiamata bigu, secondo la tradizione sarebbe in grado di conferire la trascendenza, l’immortalità e la capacità di vivere senza nutrirsi, assorbendo solo l’energia cosmica del qi. Tuttavia pare che lungo i millenni i cinesi non abbiamo dato troppo retta a queste fisime del clero, altrimenti non avremMARZO 2020

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mo quel trionfo di sapore e di abbondanza che è la storia della cucina cinese. E anzi, aggiungiamo che un terzo filone del pensiero sinico, quello buddista, raffigura spesso la gioiosa pienezza del Budda con una panza importante, volumetricamente superiore a quelle che capita di incontrare ai corsi Grill to Perfection (per esempio: la nostra). La pancia piena è sacra. Crediamo possa costruirsi una religione sincretica su questo.

LE QUATTRO PRINCIPALI CUCINE

Come scrivevamo sopra, sono numerosi gli stili che possiamo considerare in quel palazzo senza uscite che è la cultura gastronomica cinese, tuttavia gli stili più noti e influenti sono la cucina cantonese, quella dello Shandong, quella del Jiangsu e la cucina del Sichuan. Questi stili si sono differenziati nei secoli a causa della diversa disponibilità di risorse, del diverso clima, della diversa geografia (la Cina è praticamente un continente a sé), la diversa storia, le diverse tecniche di cottura e il differente modo di vivere. Uno stile può favorire l’uso di aglio, su peperoncino e spezie, mentre un altro può favorire la preparazione di frutti di mare rispetto alla carne. La cucina cantonese (detta yuè cài) ha origine a Canton (Guandong) e nei territori limitrofi (Macao, Hong Kong, il 14 - BBQ4All MAGAZINE

Delta del Fiume delle Perle). La sua importanza fuori dalla Cina è dovuta al gran numero di emigranti di questa regione; è risaputo che il cantonese divenne, ad esempio, la lingua franca dei cinesi emigrati negli ultimi secoli negli USA. Gli chef addestrati nella Yue sono rari e quindi molto ricercati in tutta la Cina. Fino a poco tempo fa, la maggior parte dei ristoranti cinesi in Occidente serviva in gran parte piatti cantonesi. Questa cucina utilizza molti metodi di cottura, tra cui il vapore e la frittura, che risultano favoriti per le loro praticità e rapidità. Altre tecniche includono frittura superficiale, doppia cottura a vapore, brasatura e deep frying. Per molti cuochi tradizionali cantonesi, i sapori di un piatto dovrebbero essere ben bilanciati e mai grassi; le spezie dovrebbero essere usate in modeste quantità per evitare di schiacciare i sapori degli ingredienti primari e questi ultimi a loro volta dovrebbero essere al culmine delle loro freschezza e qualità. In aperto contrasto con altre cucine orientali, non c’è un uso diffuso di erbe fresche nella cucina cantonese. Tra i piatti forti troviamo: xiándàn zhēng ròubǐng 蛋蒸肉饼 (Maiale macinato al vapore con uovo di anatra salato), zhùhóu niú nǎn 柱侯牛腩 (una sorta di brisket stufato), chǐjiāo páigǔ 豉椒排骨, (costine al vapore con fagioli neri fermentati e peperoncino) e, se proprio non li conoscete, il gūlūròu 咕噜肉


La cucina del Jiangsu (detta anche Sū cài) ama brasati e stufati. Si concentra molto sulla temperatura di cottura: in generale, la consistenza delle sue pietanze è caratterizzata dalla morbidezza, ma fino ad un certo punto. Ad esempio, la carne deve essere tenera ma giammai al punto da separarsi dall’osso. Poiché lo stile della cucina del Jiangsu è praticato in genere vicino al mare, il pesce è un ingrediente molto comune. Altre caratteristiche includono la rigorosa selezione degli ingredienti in base alle stagioni. La zuppa è utilizzata come strumento per migliorare il sapore. Shanghai un tempo faceva parte della provincia del Jiangsu, da qui la somiglianza tra le due tradizioni, al punto che taluni ancora oggi considerano la cucina shanghaiese come parte della Su. Tra i piatti più noti: hóngshāo páigǔ (costine brasate), jìyú tāng (zuppa di carpa), gli yóu miàn jīn (palline fritte con polpette di carne o verdura saltata). La cucina del Sichuan (chuān cài), che domina l’omonima provincia, ha sapori audaci, ed è universalmente temuta in particolare per la piccantezza derivante dall’uso massivo di aglio e peperoncino, nonché del pepe del Sichuan (huājiāo, il «pepe fiore»). Il piccante, detto in mandarino là (辣), trova in Sichuan una sua mistica celebrata ben oltre i confini della Cina. Ci sono molte varianti locali in questa provincia e nel vicino comune di Chongqing (la più grande megalopoli al mondo con oltre 40 milioni di abitanti), che faceva parte della provincia del Sichuan fino al 1997. Quattro sottotipi di questa cucina includono gli stili Chongqing, Chengdu, Zigong e lo stile vege-

(maiale in agrodolce) e l’eterno, ineludibile Guǎng shì chǎofàn 广式炒饭– il riso alla cantonese. La cucina dello Shandong (detta Lǔ cài) rappresenta uno degli stili più influenti nella storia culinaria della Cina. Si dice che la maggior parte degli altri si sia sviluppata da essa. Le scuole di cucina moderne nella Cina del Nord (Pechino, Tianjin e le regioni nord-orientali) sono considerabili rami del grande albero della Shandong, e i pasti nella maggior parte delle famiglie della Cina settentrionale sono in genere preparati usando metodi semplificati di questo stile. Sebbene il trasporto moderno abbia aumentato la disponibilità di ingredienti in Cina, la cucina Shandong rimane radicata nella tradizione. È nota per la sua varietà di frutti di mare, tra cui capesante, gamberi, vongole, cetrioli di mare e calamari. Viene prestata massima attenzione alla materia prima, anche perché la Shandong è memore degli Analetti di Confucio, che era cittadino dello stato di Lu un tempo contenuto nella regione di Shandong: «Non consumare alimenti che sembrano viziati, con odori viziati, fuori stagione, macellati in modo improprio o non preparati con il giusto condimento». Alcuni la considerano come una cucina vicina a quella giapponese. Del tutto particolare è il suo uso del granturco, servito fritto o al vapore, in genere in forma gommosa. Piatti diffusi sono la 糖醋鲤鱼 táng cù lǐ yú, la carpa in agrodolce, 葱烧海参 cōng shāo hǎi shēn, cetriolo di mare con cipollotto, 九转大肠 jiǔ zhuǎn dà cháng, intestino di maiale in salsa, 油焖大虾 yóu mèn dà xiā, gamberi saltati ed il famoso 德州扒鸡 dé zhōu bā jī, il pollo brasato croccante. MARZO 2020

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tariano buddista. Nel 2011 l’UNESCO ha dichiarato Chengdu, la capitale della provincia dello Sichuan, capitale della gastronomia come riconoscimento alla raffinatezza della sua cucina. Il maiale è il tipo più comune di carne consumata qui, e la carne di manzo è un po’ più comune in questa cucina rispetto ad altre, forse a causa della prevalenza di bovidi nella regione. Questo stile utilizza volentieri vari organi bovini e suini come ingredienti: oltre alle porzioni di carne comunemente usate, intestino, arterie, testa, lingua, pelle e fegato. Anche la carne di coniglio è molto popolare, al punto che la provincia ne consuma il 70% di quella prodotta in Cina. Tra i piatti più noti: gōngbǎo jīdīng 宫保鸡丁 (da noi detto pollo Kung Pao), zhāngchá yā 樟茶鸭 (anatra affumicata nel Tè), huíguōròu 回锅肉 (maiale cotto due volte). Fra gli altri stili, ricordiamo la cucina dello Zhejiang che si concentra maggiormente sul servire cibi freschi ed è più simile al cibo giappones; la cucina del Fujian. famosa per i suoi deliziosi frutti di mare, per le zuppe e per l’uso preciso di spezie scintillanti; la cucina di Hunan, famosa per il suo sapore piccante; la cucina Anhui che incorpora cibi selvatici per un gusto insolito ed è più selvaggia di quella del Fujian.

LA CARNE CINESE

I cinesi praticamente mangiano carne di tutti gli animali, come maiale, manzo,

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montone, pollo, anatra, piccione e molti altri. Il maiale è in assoluto la carne più consumata e appare in quasi tutti i pasti, al punto che il sottoscritto è tornato varie volte dalla Cina con caramelle di maiale, prontamente servite a chi suonava il campanello per il dolcetto o scherzetto della vigilia di Ognissanti – il fatto che l’indomani le caramelle venissero ritrovate nel cassonetto non depone a sfavore del totalismo porcino della cucina cinese ma della generazione attuale, la quale non sa che con la cotenna di maiale fanno anche le caramelle gommose così popolari da noi.

È emblematico il fatto che la parola usata per indicare la carne 肉, possa essere utilizzata anche per significare il porco. La carne suina e quella bovina vengono utilizzate per piatti più tipici come i ravioli al vapore e alla griglia, o servita con i vari tipi di pasta. Bisogna notare che i cinesi raramente mangiano carne cruda. La preparano e la cucinano in vari modi. Ogni tipo di ciccia può essere bollita, fritta, in umido, arrostita, fatta in camicia, al forno o in salamoia. Con l’eccezione degli eventi buddisti, è inconcepibile una cerimonia che non serva proteine animali.


Com’è noto, i cinesi hanno ampie vedute rispetto alle fonti animali. In centro a Pechino, tra le ondate di turisti, non è che gli scorpioni caramellati vengano nascosti; se ci si avventura invece nei mercati popolari – il più impressionante testimoniato dallo scrivente è il mercato di mezzanotte di Urumqi, nell’estremo occidente musulmano cinese – non si può non rimanere impressionati da larve, serpenti e scolopendre divorate sul posto.

IL CIBO, SERIAMENTE

«Se c’è qualcosa in cui noi facciamo sul serio, non si tratta della religione o dello studio, ma del cibo». Negli anni ‘30 lo scrittore cinese candidato due volte al Nobel Lin Yutang (1895-1976) riassunse le aspirazioni culinarie dei suoi connazionali come denominatore comune nel suo libro Il mio paese e il mio popolo (1935) Di questa estrema serietà speriamo di aver dato qualche ragguaglio nelle righe qui sopra. Tuttavia, come è accaduto per l’articolone sulla cucina giapponese, terminiamo di scrivere con l’amarezza e la vergogna di chi sa di non aver scalfito nemmeno una percentuale minima di quello che ci sarebbe da dire. Per un altro episodio, promettiamo di trattare più approfonditamente le 8 scuole di cucina moderna, e raccontare altre vette paradisiache – o strambissime – di questa che potrebbe essere la cucina più antica della Storia dell’Uomo. Nel frattempo, posso consigliare una deliziosa variazione cinematografica sul tema, una pellicola dal titolo bellissimo Mangiare bere uomo donna, 饮食男 女 yǐn shí nán nǚ. Si tratta di un tenero, ironico film del regista taiwanese Ang Lee (La tigre e il dragone, Lust, I Segreti di Brokeback Mountain, Vita di Pi) che contrappone una storia di litigi familiari con scene squisite di genialità culinaria. Il titolo è una citazione dal Libro dei riti, uno dei classici confuciani, che si riferisce ai desideri umani di base e li accetta come naturali. La citazione recita: «le cose che gli uomini desiderano fortemente sono comprese nella carne e nelle bevande e nel piacere sessuale». Quando uno dice la saggezza cinese…

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SPECIALE CINA - INTERVISTA a cura di ANDREA SPAGGIARI

il co nt rar io d ell ' All yo u c an e at s i ch iama

BON WEI

È u n o d e i r is to ra n t i c in es i più conos ciu ti d’Italia. S i trova a M i lano , “Bu o n g us to ” è la tradu zione del nome e l’is pirazione c he ha g uid a to i proprietari nella s u a creazione o r m a i dieci anni or s ono

Se chiedete all’uomo della strada, la caratteristica che più spesso viene associata alla ristorazione cinese è un elevato rapporto qualità prezzo. Non è una generalizzazione valida per tutti i consumatori, certo, ma è innegabile che la grande presenza di esercizi commerciali che han fatto una scelta di posizionamento estremamente popolare ha portato a questo risultato. Noi, manco a dirlo, abbiamo scelto di puntare diretti all’eccezione andando a intervistare uno dei titolari del ristorante Bon Wei a Milano, più volte riconosciuto come uno dei migliori d’Italia. E non lo abbiamo fatto in un momento qualsiasi, bensì nel pieno del tumulto dovuto alla diffusione del Coronavirus. Al di là degli effetti sulla salute umana, relativamente ai quali lasciamo la parola a chi è più titolato di noi per parlarne, questo virus ha in qualche modo messo a dura prova anche quella dei ristoranti. Ben prima dell’arrivo del provvedimento che ha disposto la 18 - BBQ4All MAGAZINE

chiusura di molti locali pubblici in diverse zone del Nord Italia, infatti, si è constatato un progressivo “boicottaggio” di esercizi gestiti da persone di origine cinese. Una paura ingiustificata, ovviamente, che ha mostrato ancora una volta quanto “sensibile” sia in generale il settore della ristorazione – compresa quella alta di gamma – all’emotività dei consumatori. Con Le Zhang, uno dei soci di Bon Wei, non abbiamo però parlato solo di questo. Anzi, abbiamo appreso come si fa a differenziarsi in un settore a dir poco affollato e di come si possa – e debba – adattare la propria proposta per incontrare i gusti di un pubblico sì internazionale, ma in gran parte non cinese. Non bastano infatti le capacità tecniche di eseguire correttamente una ricetta: una volta di più abbiamo l’occasione di ribadire che il successo passa per la sperimentazione e l’abilità di ascoltare i propri clienti.


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I ristoranti cinesi nel cuore di Milano non mancano, eppure Bon Wei sa differenziarsi per il notevole livello di qualità dei cibi e del servizio. Come si fa a spiccare in mezzo a tanta concorrenza? Quali sono i tratti salienti della vostra proposta? Il ristorante è nato da una discussione avvenuta 10 anni fa tra me, mio padre e il nostro attuale socio. Avevamo all’epoca un locale a gestione famigliare a Padova e pensavamo che mancasse un ristorante di alto livello nel panorama della ristorazione cinese in Italia. La nostra idea era di proporre le cucine regionali, più autentiche e valorizzanti rispetto alla versione “classica”. Così, quando è nato, Bon Wei è stato il primo ristorante cinese in Italia ad annoverare un menù regionale. Continuiamo a credere che questo sia il modo giusto per rinforzare la nostra immagine e promuovere la nostra cultura culinaria, tant’è vero che anche recentemente abbiamo organizzato una serie di ben otto cene a tema, una per ciascuna delle principali regioni cinesi. Un’altra peculiarità della nostra proposta è la continua ricerca dell’innovazione: rinnoviamo i piatti con una certa frequenza e proponiamo, caso piuttosto raro, un menu per il periodo estivo e uno per quello invernale. Non si può prescindere, inoltre,

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dall’eccellenza delle materie prime. Due esempi su tutti: ci approvvigioniamo di carne di Kobe A5 e Wagyu, che non sono di origine cinese ma meritano di fare un’eccezione, e il pesce che serviamo è tutto pescato all’amo. Queste scelte hanno ovviamente un impatto sui costi dei nostri piatti ma la nostra clientela è principalmente costituita da persone che riconoscono il valore di queste proposte. Ed è grazie ai ritorni dei clienti che siamo stati più volte identificati come il ristorante cinese migliore d’Italia. Sia chiaro, sappiamo di essere un caso particolare nel panorama della ristorazione cinese e non vogliamo in nessun caso discriminare chi ha una strategia diametralmente opposta alla nostra, nella fattispecie la formula “all you can eat” praticata da molti connazionali. Penso non ci sia una proposta in assoluto migliore dell’altra: si tratta solo di scelte di posizionamento diverse. Sfogliando il vostro menù ci si trova a dover scegliere tra le pietanze della cucina classica e quelle della controparte “regionale”. Come aiutate la vostra clientela a orientarsi nella scelta? Facciamo subito una distinzione. I frequentatori assidui hanno piena fiducia in noi e ci danno praticamente carta bianca, mentre i clienti occasionali hanno ovviamente bi-

sogno di essere guidati. In questo processo ci piace affidarci ad aneddoti e curiosità, che come si può immaginare non mancano per una cucina con origini cosi antiche. Un esempio: esiste una qualità di Tofu chiamata mala. È caratterizzato da una piccantezza così accentuata da renderla fastidiosa, proprio come… una suocera, a cui il termine si riferisce. Scherzi e aneddoti a parte, tutto sta nel capire di cosa è in cerca il cliente e nell’avere uno staff capace di ascoltare e raccontare quale proposta, tra tutte quelle disponibili, sia la più adatta per la persona che si ha di fronte. Uno dei punti forti della vostra proposta è una carta dei vini ben fornita. Eppure il vino non è una bevanda tradizionale cinese: ne deduciamo quindi che gli abbinamenti tra cibo e bevande possano essere un po’ anticonvenzionali. Cosa vi guida in questo processo? Partiamo dal dire che in carta abbiamo quasi 600 etichette. Tenendo ben presente che le bevande tradizionali cinesi sono il tè e la birra, è ovvio che non ci sono molte scelte “preconfezionate” e l’abbinamento corretto tra piatto e vino passa per la sperimentazione.


dei piatti più rinomati della cucina cinese nonché una delle pietanze più consumate nel nostro locale. A differenza di altri ristoranti, che la preparano intera e solo su prenotazione, noi abbiamo deciso di proporla in menù e di renderla ordinabile anche in singole porzioni, corrispondenti a un quarto dell’animale e in vendita per 18€.

Ogni preparazione nuova che mio padre concepisce, prima di essere messa in menu, viene ovviamente testata ed è proprio in questa fase che cerchiamo gli abbinamenti più convincenti. Io sono sommelier e di norma curo personalmente questa processo, ma come si può immaginare gli incidenti di percorso non mancano. La ricerca dell’equilibrio tra pietanza e bevanda, in ogni caso, è sempre il principio ispiratore e non si lascia nulla al caso. Questa operazione può rivelarsi particolarmente impegnativa per il menù del capodanno cinese: pensate che partiamo da una selezione di circa 50 piatti per arrivare a una carta di 10 e come è facile immaginare i giusti abbinamenti son tutt’altro che banali.

Innanzitutto bisogna scegliere anatre dotate di un adeguato strato di grasso sottocutaneo, indispensabile per la riuscita del piatto. Una volta eviscerato, il volatile viene condito al suo interno con un composto di spezie ai 5 aromi, sale, pepe, anice stellato, cipollotto e cipolle. L’anatra viene quindi “soffiata” a bocca e viene lasciata asciugare: questo processo veniva fatto tradizionalmente appendendola a una cappa accesa, mentre noi utilizziamo un box ventilato costruito appositamente che ci aiuta a ridurre il tempo di asciugatura a sole 24 ore circa. Si procede quindi a scottare la pelle irrorandola con una miscela di acqua cal-

da e aceto finché la pelle stessa non cambia colore e si lascia quindi riposare. Infine si procede alla laccatura con il miele, fatta con un semplice pennello da cucina, si fa asciugare una seconda volta e poi si passa in forno per circa un’ora e mezzo a 160°C. La pelle diventa in questo modo croccante e la carne rimane succulenta. Va precisato che la porzione che serviamo, costituita da fette di carne con la pelle attaccata, è un adattamento richiesto per venire incontro ai gusti occidentali. In terra d’origine, infatti, l’anatra cosi preparata viene servita in tre diverse pietanze: la prima è costituita dalla sola pelle con il suo strato di grasso e pochissima carne (servita in piccole “crespelle” chiamate 春餠 chūn bǐng e accompagnata da verdure fresche e salsa 甜面酱 tiánmiànjiàng n.d.r.) ; la seconda è un piatto che prevede la polpa tagliata a dadi o straccetti, stufata o passata in padella con funghi e bamboo; infine la terza portata è una zuppa realizzata con i resti. La vostra è quindi autentica alta cucina cinese, ma essendo basati in Italia non potete sfuggire ad adattare le vostre ricette alla disponibilità di ingredienti e al palato dei clienti occidentali. È difficile restare fedeli alla tradizione con questi vincoli? Come

BBQ4All Magazine è una rivista che tratta la cottura sul fuoco in tutte le sue forme e si trova spesso a trattare ricette di origine statunitense, ma questa volta ci sentiamo di fare un’eccezione. Ci racconti come preparate l’Anatra laccata alla pechinese? L’anatra alla pechinese è uno MARZO 2020

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funziona il processo di “adattamento”? Il tema è sicuramente importante ma è sempre esistito. Basti pensare che uno dei piatti più conosciuti da tutti, il riso alla cantonese, fuori dalla Cina viene da sempre servito con il prosciutto cotto, che nel nostro paese di origine praticamente non esiste. Detto ciò, la necessità di adattare i piatti ha ragioni molto facili da comprendere. L’anatra di cui abbiamo parlato è un buon esempio: quando la servivamo, le prime volte, nella sua forma più fedele al piatto originale, ovvero solo la pelle con poca carne attaccata, i clienti rimanevano delusi. Occorre inoltre tener presente che le spezie usate nella nostra cucina non sono come quelle occidentali. Facciamo un esempio prendendo le ricette della regione di Sichuan, famosa per il suo pepe. È la zona dove si mangia più piccante in assoluto e senza un processo di “addomesticamento” delle spezie si rischia letteralmente di non riuscire a mangiare la pietanza. Le bacche del famoso pepe, per esempio, dovrebbero essere passate nell’olio di semi per rilasciare il proprio gusto e poi ritirate. La persistenza del loro gusto, infatti, specie se abbinata alla piccantezza del peperoncino,

rischia di mettere alla prova anche i palati più coraggiosi. Io stesso, mangiando il suzu – uno stufato di manzo o pesce preparato abbinando peperoncini secchi, freschi e olio al pepe di Sichuan – in piena zona d’origine mi son trovato in seria difficoltà! I recenti fatti di cronaca legati al Coronavirus hanno generato dei pregiudizi che hanno impattato notevolmente sulle attività commerciali che hanno legami diretti o indiretti con la Cina. Voi avete rilasciato più volte dichiarazioni in tal senso, invitando le persone a non discriminare. Com’è la situazione per voi e quale evoluzione prevedete? (NdA: l'intervista è stata rilasciata in una data precedente alle restrizioni ora in vigore per contenere la diffusione del Covid-19) Sono arrivato in italia quando avevo solamente nove anni, sono naturalizzato dall’età di diciotto e quindi mi sento di parlare da italiano. La mia prima speranza, ovviamente, è che le conseguenze sulla salute delle persone non peggiorino. Ho però la percezione che si stia esagerando con i pregiudizi verso i cinesi.

Noi siamo stati toccati sin dalla prima ondata, a fine Gennaio, ma nonostante tutto abbiamo voluto tenere duro e, anzi, abbiamo voluto contribuire con varie iniziative benefiche ad aiutare gli altri. L’ultima di queste si è tenuta attorno alla metà di Febbraio, è stata chiamata “la notte delle bacchette” ed è stata realizzata in collaborazione con le fondazioni Italia-Cina e AiBi. Tutti i ristoratori cinesi di Milano hanno aderito, proponendo una pietanza da proporre come piatto solidale e tutti insieme abbiamo raccolto una bella somma. Purtroppo l’indomani sono cominciati i primi ricoveri e quindi la seconda ondata di paura, che questa volta ha impattato su tutti i ristoratori con gli effetti che ben conosciamo. Noi ci riteniamo tutto sommato fortunati perché alcuni personaggi pubblici ci hanno aiutato e si sono associati a noi per invitare al buon senso. Abbiamo già vissuto un problema simile: ai tempi della SARS eravamo a Padova e abbiamo dovuto fare i conti per ben un anno e mezzo con il lavoro pressoché dimezzato. Oggi come allora ci rimbocchiamo le maniche e andiamo avanti pur nella difficoltà, sperando per il bene di tutti che il pericolo e soprattutto la paura passino presto.

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SPECIALE CINA - CURIOSITÀ a cura di MICHELA BONGIORNI

A Cen a in Cin a

D i e c i s e mp l i c i reg o l e p e r n o n fa re f i g u ra c c e ne l P a e se d e l D ra g o n e

Nello scorso numero abbiamo affrontato lo stesso argomento parlando del galateo giapponese: cosa fare e soprattutto non fare a tavola, per non trovarsi in imbarazzo nel paese del Sol Levante. Nel momento in cui ho deciso di scrivere un articolo che parlasse del galateo da osservare a tavola in Cina, nel nostro Paese, l’Italia, è scoppiata l’emergenza Covid-19, altrimenti conosciuto in modo generico come Coronavirus. Siamo tutti perfettamente consapevoli che molto probabilmente non farete viaggi nel Paese del Dragone per diverso tempo, così come sappiamo che il problema potrebbe non essere di veloce risoluzione. Non so quale sarà la situazione nel momento in cui leggerete questo mio scritto, io spero che le cose vadano per il meglio. È altrettanto vero, però, che la Cina e la sua cultura gastronomica in questo periodo sono state – ingiustamente- considerate la concentrazione di tutti i mali. La psicosi ha spinto le persone a comportamenti irrazionali, a gesti talora veramente inaccettabili e incomprensibili e soprattutto al boicottaggio di tutto ciò che potesse ricondursi alla Cina. Per questo motivo e anche per esorcizzare la paura del contagio, oggi parleremo delle buona maniere che dovreste osservare qualora – e mi auguro che possiate farlo quanto prima- vogliate concedervi un viaggio in un Paese tanto affascinante, grande e con una storia ultramillenaria. Lo faremo anche con una certa leggerezza, perché un sorriso non deve mai mancare, anche durante le emergenze, anzi soprattutto in questi casi. Quindi mettiamoci comodi e scopriamo quali sono le buone maniere da rispettare quando saremo seduti alle tavole cinesi. 24 - BBQ4All MAGAZINE

1. ARRIVARE PUNTUALI.

A onor del vero, a me piacerebbe molto che anche in Italia questa fosse considerata una regola ferrea, una legge marziale. Arrivare in orario e non far aspettare sia chi vi ha invitato che gli altri ospiti è una forma di cortesia universalmente riconosciuta. Non ho mai visto una regola del galateo in cui si consigliasse di arrivar tardi a un appuntamento, a parte il famoso ritardo delle spose che viene tollerato (quasi) se rimane entro la mezz’ora (in caso contrario il matrimonio può trasformarsi da noiosa giornata estenuante a gustoso aneddoto da raccontare agli amici: non si è presentata all’altare, è scappata con il testimone, gli invitati se le sono data di santa ragione e io non mi sono mai divertito tanto!). In ogni caso, i cinesi vanno oltre: non solo esigono la puntualità ma gradiscono anche coloro che si presentano all’appuntamento con un certo anticipo, pratica che invece personalmente odio più del ritardo. Non c’è cosa peggiore di essere sotto la doccia dopo aver preparato una cena da sedici portate e sentir suonare il campanello. A volte mi è capitato e ho lanciato maledizioni in lingue sconosciute, oltre ad aver pensato di mettere una buona dose di guttalax nel tiramisù. Comunque, siete avvisati: in Cina arrivare puntuali o in anticipo è una cosa fondamentale. Il ritardo è considerato una profonda mancanza di rispetto.

2. PORTARE DEI REGALI.

Se avete abbastanza confidenza con colui che vi ha fatto l’invito, è buona educazione portare un piccolo regalo per ringraziarlo. Usate entrambe le mani per offrire il vostro dono. Ri-


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cordate che i cinesi non scartano i regali quando li ricevono, perché aspettano di essere da soli. Questa è una bellissima usanza, se ci fosse stata anche da noi mi sarei risparmiata da bambina tanti cazziatoni di mia madre, allorché, aprendo i regali dei parenti, dovevo fingere esaltazione – ovviamente non riuscendoci- per il maglioncino bianco a collo alto o per la collana di perle, quando avrei voluto solo Barbie. Quando incartate i regali, scegliete una carta rossa perché è il loro colore preferito, simbolo di buona fortuna. Anche i numeri pari sono considerati di buon auspicio, con l’unica eccezione del quattro (四 sì), che in cinese ricorda la parola “morte”. Quindi tenetelo in considerazione. È inappropriato regalare orologi perché sono associati al concetto dello scorrere del tempo ed all’avvicinarsi della morte. Forbici, coltelli, oggetti affilati simboleggiano la separazione. Meglio optare per un libro, un CD, un profumo e andare sul sicuro.

3. NON SEDERSI DOVE CAPITA.

La disposizione dei tavoli e delle sedie è davvero molto importante per l'etichetta cinese (che non è quella dietro i maglioni). Nell’antica Cina questa disposizione si basava sulle quattro classi sociali: la corte imperiale, i burocrati e le autorità locali, i mercanti e i commercianti, i contadini e chi faceva lavori manuali. Oggi è stata semplificata in: il proprietario o colui che invita organizzando il banchetto, gli ospiti. Il posto d'onore a tavola è sempre rivolto verso est oppure verso l'ingresso. Accanto vengono fatti sedere gli ospiti più importanti. Non è detto che il posto d’onore sia riservato al padrone di casa, di solito è invece per chi ha uno status sociale più alto. In antichità si utilizzava il Tavolo degli Otto Immortali, presso cui si sedevano due persone per lato con una distribuzione ben precisa: l'ospite d'onore si sedeva sulla parte destra del lato rivolto verso est, poi le sedie che avevano importanza

erano la seconda, la quarta, la sesta e l'ottava, a partire dalla sinistra del posto d’onore. Sul lato destro invece erano la terza, la quinta e la settima. Nei banchetti con più tavoli si segue ancora oggi lo stesso ragionamento; il tavolo d'onore è rivolto verso est e i tavoli alla sinistra in ordine di importanza sono il secondo, il quarto, il sesto e l'ottavo, quelli alla destra sono il terzo, il quinto e il settimo. Gli ospiti siedono in base al loro status sociale o secondo i gradi di parentela. Insomma, scordatevi quelle scenette esilaranti durante le cene di Natale nostrane con settordicimila parenti in cui i primi tre quarti d’ora sono dedicati a capire chi si deve sedere accanto a chi: ma nonna non parla con la nuora, mia madre non tollera sua cugina, zio ha litigato con la cognata… . Questa trovata dei posti con l’ordine di importanza dell’ospite l’ho provata una volta anch’io a un matrimonio, dove molto elegantemente i tavoli erano identificati coi nomi delle pietre preziose o semipreziose: il tavolo Diamante era quello degli sposi e poi via via per ordine di preziosità. Finche rimanevi nel tavolo Rubino o Smeraldo, potevi essere felice. Un po’ meno contenti furono coloro che si dovettero sedere ai tavoli Ametista e Giada. Gli ospiti che si ritrovarono seduti quei tavoli smisero di ridere all’istante.

4. SERVIRE SEMPRE PRIMA GLI ANZIANI.

Le persone anziane devono essere sempre salutate per prime in segno di rispetto. Allo stesso modo devono essere servite prima. Importante: bisogna aspettare che si siedano a tavola e non si deve iniziare a mangiare se loro non hanno ancora cominciato. Vale lo stesso per i brindisi. Sempre in segno di rispetto per l’ospite più anziano, che magari vi ha invitato al ristorante, al momento dell’arrivo del conto si dovrebbe insistere un po’ per poter pagare. State tranquillissimi: l’offerta verrà gentilmente declinata e voi non dovrete tirare fuori nemmeno uno spicciolo. Non è necessario che fingiate di esservi dimenticati il portafoglio, tecnica collaudata negli anni dell’Università quando, da studentessa squattrinata, cercavo di scroccare le cene agli amici. Poi te li rendo, eh!

5. USARE LE BACCHETTE CON DISINVOLTURA.

In Cina tutto deve essere mangiato con le bacchette. I cibi sono tagliati in piccoli pezzi proprio per questo: per aiutarvi a tirarli su facilmente. Qualora vi trovaste alle prese con un involtino ribelle, che non ne vuol sapere di essere sollevato con disinvoltura dagli ostici bastoncini, ecco cosa non dovete fare: infilzarlo in stile coltellata, magari imprecando, oppure cercare di prenderlo usando le bacchette con due mani. Ricordatevi sempre come si tengono in mano: tenete la prima stretta fra pollice e palmo, poi prendete la seconda e tenetela parallela alla prima, 26 - BBQ4All MAGAZINE


stringendola tra pollice e indice come fareste come con una penna; questa seconda bacchetta è quella che potrete muovere per prendere il cibo. A quel punto basta ricordarsi la regola della V: quando manipolate le bacchette, se formate una V mentre prendete il cibo non sbagliate. Se proprio l’involtino ancora non si arrende, prendetelo con le mani. Le altre cose che non dovete fare assolutamente sono: mordicchiare le bacchette, leccarle, usarle per indicare qualcuno (ricordate che in Cina c’è ancora la pena di morte), usarle per spingere giù il cibo quando lo avete messo in bocca (!), picchiettarle sul tavolo in stile John Bonham, usarle per passarsi le cose con gli altri commensali e soprattutto, SOPRATTUTTO, non piantarle in verticale al centro della vostra ciotolina di riso, perché è considerato un presagio di morte. Probabilmente la vostra.

proposito, mangiare velocemente e finire tutto ciò che avete nel piatto apparirà agli occhi dei padroni di casa come la protesta di chi ha ancora fame, quindi la ciotola vi sarà riempita nuovamente. È buona regola, dunque, raggiunta la sazietà, lasciare un po’ di cibo nel piatto, gesto che è anche considerato carino perché significa che avete mangiato a sufficienza e quindi il padrone di casa saprà di non avervi lasciati affamati. Chiedete sempre agli altri ospiti se vogliono finire una pietanza. Cercate di nascondere la delusione se vi rispondono di sì. Ultima curiosità: non lesinate sui rutti, perché è il più genuino fra i complimenti che possiate indirizzare allo chef. Burp!

8. NON BERE RUMOROSAMENTE.

È considerato carino fare un po’ di rumore mentre si mangia, perché si sta dimostrando di gradire la pietanza, tuttavia la stessa cosa non vale quando si sta bevendo. Quando viene servito il the, non è educato finirlo in un solo sorso, anche se la tazza è molto piccola. E’ sempre bene bere a piccoli sorsi, a meno che qualcuno non dica “gānbēi! (干杯)”, che vuol dire letteralmente, vuotiamo il bicchiere, e a quel punto siete obbligati a scolarvelo tutto in una volta. Potrebbe essere complicato farlo se si sta bevendo báijiǔ 白酒, letteralmente liquore bianco, un distillato a forte gradazione alcolica (65 gradi) ricavato dal sorgo o dal mais. Siate preparati al colpo o chiedete prima un’ambulanza in loco. Ultima cosa da ricordare: non versatevi mai da bere prima di aver riempito i recipienti di chi vi sta accanto.

9. ALZARSI IN PIEDI PER BRINDARE. 6. NON METTERSI LE MANI IN BOCCA.

Non che in Italia sia esattamente una cosa consigliata da Csaba Dalla Zorza, tuttavia mettersi le mani in bocca per rimuovere rimasugli di cibo incastrati nelle fauci (e chi scrive in questo momento sta soffocando i conati di vomito) in Cina, tanto per cambiare, è considerata una profonda mancanza di rispetto, così come mangiare con la bocca aperta. Sebbene vi consigli caldamente di ordinare cibi senza ossa, dovete sapere che queste ultime, insieme ad altri scarti di cibo, possono essere lasciati sul tavolo vicino alla propria ciotola o in certi casi, buttati anche sul pavimento, ma non voglio pensarci. Usate un fazzoletto, vi prego. Mentre mangiate, la ciotola deve sempre essere portata verso la bocca, perché il movimento contrario è considerato poco educato. In altre parole, non dovete lasciarla sul tavolo e non dovete mai chinarvi in avanti per mangiare, azione che oltretutto potrebbe rallentarvi la digestione e crearvi gonfiore. Potete tranquillamente appoggiare i gomiti, ma cercate di evitare di mangiare nascondendo la mano libera sotto la tavola o tutti si chiederanno che cosa stiate facendo. Accarezza il gatto? Si gratta una gamba? Sta domando il cobra che non è un serpente?

7. NON FINIRE LE PORZIONI.

Il cibo verrà servito al centro della tavola. Non dovete, ovviamente, mangiare dalla portata principale usando le vostre bacchette. Evitate anche di rovistare nel vassoio alla ricerca del boccone del prete, e magari non avventatevi sulle pietanze servendovi porzioni esagerate rubandole agli altri commensali. Vale una regola semplice: mettete nella vostra ciotola ciò che riesce a contenere senza far fuoriuscire il cibo dai bordi. Tanto non vi preoccupate: non vi mancherà da mangiare. Anzi, probabilmente avrete a che fare con portate luculliane. A tal

Questo in realtà si fa solo nelle situazioni molto formali. In tutti gli altri momenti si può rimanere seduti. Se vi propongono un brindisi bisogna sempre accettarlo e bere con gli altri ospiti. Gli alcolici non si bevono mai da soli. Se state bevendo un qualsiasi tipo di liquore ricordatevi di finirlo e di non lasciarlo nel bicchiere. Perché ho la sensazione di star inutilmente sottolineando l’ovvio? Come ho già detto, il primo brindisi dovrebbe essere fatto dall’ospite d’onore. Una cosa che dovete ricordare è che sarebbe opportuno tenere il bicchiere più in basso rispetto a quello dell’ospite più anziano, in segno di rispetto. A meno che non siate proprio voi quelli più anziani. E in tal caso, potrete consolarvi del fatto che per voi la morte è più vicina ricordando che sarete i primi a mangiare e a bere.

10. PICCHIETTARE LE NOCCHE SUL TAVOLO.

Non è necessario fare ampi gesti o alzare la voce per richiamare l’attenzione dei camerieri: ad esempio, vi verrà servito il the come bevanda gratuita non appena vi siederete al tavolo del ristorante. Arriverà subito un inserviente che provvederà a versarlo nella vostra tazza, lasciando poi la teiera sul tavolo in modo che possiate continuare a servirvi da soli. Vedrete che, appena l’acqua sarà terminata, una cameriera provvederà a riempirla subito. Quando la bevanda viene versata nella vostra tazza, è buona educazione picchiettare il tavolo con le nocche della mano due o tre volte come segno di ringraziamento. Notato il gesto, il cameriere smetterà immediatamente di versare il the. Ultima cosa importante: è assolutamente sconsigliato lasciare mance ai camerieri al ristorante perché potrebbe essere percepito come una maniera insultante per degradarli al ruolo di schiavi. MARZO 2020

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SPECIALE CINA - ACCESSORI: IL WOK a cura della REDAZIONE

wok

tutto quello che dovete sapere sulla padella cinese

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Avete presente quella padella profonda dalla forma semisferica, di diametro generoso, inventata in Cina? Sì, quella con un manico in legno o doppio ai lati. Proprio quella che avete comprato e avete usato al massimo due volte ma dove avreste voluto friggere, cuocere a vapore, fare la pasta e i risotti; insomma, quella molto versatile che potrebbe sostituire gran parte delle stoviglie in una cucina. Molto bene. In questo articolo cercheremo di parlarvene accuratamente soprattutto mettendone in risalto gli usi tradizionali cinesi.

LE ORIGINI

Il termine wok può essere tradotto in pentola o calderone. Nasce in Cina, probabilmente 2000 anni fa, anche se gli storici non sono del tutto d’accordo con questa datazione; così come non si è certi che l’origine sia effettivamente cinese quanto piuttosto l’uso del wok sia stato un prestito di un’altra cultura, dato che lo stesso tipo di padella è utilizzato in tutta l’India e nell’Asia sudorientale (dalla Tahilandia alla penisola malese). È però sicuramente certo che sia nata come strumento di estrema versatilità ed economicità di utilizzo. Nel suo libro “The food of china”, E. N. Anderson dice: “Chinese cooking is the cooking of scarcity. Whatever the emperors and warlords may have had, the vast majority of Chinese spent their lives short of fuel, cooking oil, utensils, and even water.” (La cucina cinese è la cucina della scarsità. Qualunque cosa potessero aver avuto gli imperatori e i signori della guerra, la stragrande maggioranza dei cinesi trascorreva la vita a corto di carburante, di olio da cucina, di utensili e persino d’ acqua). È evidente quindi che in Cina, specie all’interno di famiglie normali, si dovette cercare un metodo di cottura veloce, pratico e molto versatile. Non c’erano né tempo né combustibile per star dietro a lunghe cotture e le cucine erano di piccole dimensioni con al massimo due fuochi. Il wok rappresentava la soluzione ideale a questi problemi: ci si poteva cuocere di tutto con bassi consumi.

COME SI USA

Il Wok tradizionale è costruito in ghisa o ferro, cioè materiali particolarmente adatti al mantenimento della temperatura di cottura. Il metodo di utilizzo di questa versateli padella si compone di due usi: il primo è una cottura veloce con fiamma molto alta, mentre il secondo è la possibilità di cuocere l’intero piatto nello stesso strumento (basta inserire gli ingredienti rispettando l’ordine di cottura e il loro sapore). L’arma vincente è, però, la forma semisferica unita al fondo concavo: una caratteristica peculiare sfruttata sia per uso casalingo che professionale. Come abbiamo detto il Wok viene quotidianamente utilizzato dalle famiglie per cucinare interi piatti e con necessità di fare economia su combustibile e condimenti. Il fondo concavo rende possibile la frittura con pochissimo olio (frittura profonda o deep frying) mentre grazie al lungo manico si possono far saltare gli alimenti. L’unione del deep frying e del salto conferisce al cibo cotto all’interno del tegame semisferico un gusto particolare e irriproducibile con altri strumenti. Ma come si riesce ad ottenere questo risultato? MARZO 2020

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Bisogna utilizzare l’intera superficie di cottura: mentre sul fondo vengono inseriti gli ingredienti da friggere o soffriggere, sulle pareti vengono posti quelli da abbrustolire, rispettando un ordine preciso (ovvero quelli più delicati o che cuociono più velocemente devono essere disposti più lontano dal fondo). Una volta cotti gli ingredienti, uno o più salti uniscono e amalgamano il tutto per terminare la preparazione. La cucina cinese utilizza, inoltre, anche molte pietanze cotte a vapore, anche queste realizzabili con un wok: basta mettere acqua sul fondo, poi posizionare una griglia sulla quale appoggiare l’alimento e infine chiudere con un coperchio. È facile adesso comprendere come questa caratteristica pentola sia di estrema importanza nella cucina cinese casalinga. Nei ristoranti le cose un po’ cambiano, nel senso che il wok viene utilizzato quasi esclusivamente per cotture molto veloci ed al salto. Gli chef utilizzano un metodo che potremo identificare come frittura al salto o styr frying che si declina in due tecniche principali: il chǎo e il bào. Le due diverse metodologie hanno in realtà molte caratteristiche comuni, ma il risultato che producono è decisamente diverso. Nel primo metodo, il chǎo, gli alimenti risultano più morbidi, perché in cottura vengono aggiunti dei liquidi come salsa di soia, aceto o vino, che contribuiscono al mantenimento dell’umidità. Nel secondo metodo, il bào, i cibi diventano più croccanti perché senza l’aggiunta dei liquidi hanno una reazione di Maillard più marcata. In entrambe le tecniche si parte da un wok estremamente caldo e da un olio vegetale ad alto punto di fumo. Successivamen-

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te si inseriranno gli ingredienti secondo il loro grado di cottura, che verranno poi mescolati rapidamente. Nel chǎo sono successivamente inumiditi poco prima della fine della cottura, mentre nel bào non c’è aggiunta di liquidi, si continua solo a mescolarli molto velocemente. Va da sé che la seconda tecnica è perfetta per piccoli bocconi da cuocere rapidamente, mentre con la prima possiamo trattare anche pezzature un po’ più grandi. Queste tecniche sono eseguibili perché i fuochi presenti nelle cucine professionali sono molto larghi e con una fiamma molto forte che si sviluppa verso l’alto (non è circolare, insomma). Questo permette alla padella di prendere subito calore sia sul fondo che sui lati poiché le fiamme la lambiscono completamente. Inoltre nei ristoranti non c’è mai stata scarsità di combustibile e di condimenti, quindi ci si è potuti concentrare su cotture dai risultati molto saporiti e dalle consistenze contrastanti.

WOK OCCIDENTALI

Nel momento in cui la cucina cinese si è affacciata in Occidente, anche gli strumenti di cottura utilizzati hanno iniziato ad essere presenti nei negozi specializzati. I Wok in commercio, però, sono stati adattati ai nostri piani di cottura appiattendone il fondo. I fuochi nostrani hanno una bocca stretta (dobbiamo pur sempre metterci un pentolino o una caffettiera!) e il fondo concavo non è compatibile con piani ad induzione o elettrici. Il materiale di costruzione, infine, è spesso teflon o acciaio, che non riesce a conferire l’aroma dato dalla cottura in ghisa o in ferro spesso. Purtroppo questo adattamento ne ha anche compromesso


l’utilizzo. Con un fondo piatto, per ottenere un deep frying è necessario molto olio e quindi lo spazio da poter utilizzare ai lati è veramente poco. Risultato? Usare un wok occidentale significa adoperare una padella con un ingombro maggiore. L’unico vantaggio è che le pareti alte permettono di saltare meglio gli alimenti rispetto a quelle dai lati bassi. Ma come ben potete immaginare, si perde completamente la funzione originale e insieme ad essa il risultato. Fortunatamente esistono alcuni modelli con fondo concavo seppur meno pronunciato rispetto agli originali. In questi è possibile riprodurre i metodi di cottura cinesi ma con alcune accortezze: andranno acquistati esclusivamente di ghisa o di ferro ed andranno scaldati molto, a fuoco alto, prima dell’utilizzo. Questo perché le fiamme disponibili nelle nostre cucine non hanno molta potenza e, inoltre, la loro direzione non permette di lambire l’intera superficie esterna. Solamente usando un materiale in grado di accumulare molto calore riusciremo ad avere una temperatura di cottura omogenea su tutto il tegame. Fate attenzione perché saranno strumenti molto pesanti e quindi da manovrare con cautela onde evitare problemi!

WOK E BARBECUE

Sicuramente vi starete domandando: posso utilizzare il wok nel mio dispositivo di cottura? La risposta è sì a patto di ricordare che è necessario molto calore per scaldarlo. Per i possessori di un bbq a carbone è necessario posizionarlo molto vicino alle braci ben accese o addirittura sopra le stesse: in questo caso ricordatevi di spostarlo, indossando guanti adatti alle alte temperature, dopo averlo ben riscaldato, anche per evitare fiammate derivate dai gras-

si usati per cucinare. Il dispositivo andrà quindi predisposto come una cottura diretta ad alta temperatura, ma con in più la possibilità di utilizzare il coperchio se necessario. Coloro che volessero usare il wok in un dispositivo a gas dovranno scaldarlo per un tempo maggiore rispetto agli utilizzatori del carbone. Questo perché l’irraggiamento della superficie è parzialmente schermato dalle barre aromatizzanti e dalle protezioni dei bruciatori. Una volta raggiunta la temperatura ideale, comunque, la padella dovrà esser mantenuta sopra al bruciatore acceso alla massima potenza. I griller che utilizzano dispositivi a pellet o elettrici dovranno valutare rispettivamente la reale capacità del firepot o della serpentina di assicurare un giusto irraggiamento alla ghisa.

IL MINI MENÙ PER DUE

Ci siamo! Avete comprato un wok con tutte le caratteristiche esposte in precedenza e volete provarlo a tutti i costi. Bene, bene, bene. Ecco un paio di ricette facili, veloci ma dal risultato stupefacente. Prima di iniziare vi dobbiamo avvertire che, per sfruttare al meglio le potenzialità di un wok, dobbiamo per forza provare a cucinare rispettando i dettami della cucina cinese, ovvero con alimenti tagliati a piccoli pezzi per una cottura più veloce possibile, e ingredienti/condimenti ricchi di umami. Vi daremo le dosi per due persone perché più gestibili ma nulla vieta di aumentarle una volta presa dimestichezza. Partiamo! MARZO 2020

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I N G REDI EN TI

PER 2 PER SONE • un cucchiaio di olio di semi • un cucchiaio di vino di riso • due cucchiaio di salsa di soia chiara • sale q.b. • due pezzetti di zenzero fresco • uno scalogno • mezza carota • mezza zucchina • mezzo peperone • due foglie di cavolo cinese • una manciata di germogli di soia • erba cipollina cinese q.b. (da spolverare sul piatto una volta servito) • 350 g di spaghetti di riso

S PA G H E T T I S A LTAT I con verdure

Questa è una ricetta basica che vi permetterà di prendere confidenza con il wok senza “sprecare” ingredienti più pregiati, dato che è a base di soli vegetali. Il risultato deve essere un piatto a base di spaghetti di riso cotti a puntino con verdure croccanti e saporite. Preparazione: 1. Ricavate dallo zenzero 2 pezzetti di piccole dimensioni (circa 2cm di lunghezza per 1 di larghezza e 0,5 di altezza). Tagliate lo scalogno a pezzi di medio/piccole dimensioni. Carota, zucchina, peperone e foglie di cavolo cinese andranno tagliati a listarelle sottili. 2. Cuocete gli spaghetti di riso in acqua bollente togliendoli quando ancora al 32 - BBQ4All MAGAZINE

dente. Passateli sotto acqua fredda corrente per bloccare la cottura. 3. Scaldate molto bene il wok. 4. Aggiungete l’olio di semi, lo zenzero e lo scalogno. Mescolate continuamente. 5. Una volta che sentirete sprigionare il profumo dello zenzero e dello scalogno, toglieteli dal wok. 6. Aggiungete carota, zucchina e peperone mescolando continuamente e saltando una/due volte per mescolare al meglio gli ingredienti aggiunti. 7. Aggiungete vino di riso e fate sfumare continuando a mescolare. 8. Aggiungete pochissimo olio di semi se necessario. 9. Quando le verdure inizieranno ad ammorbidirsi, aggiungete il cavolo cine-

se e i germogli di soia. Continuate a mescolare e saltare una/due volte. 10. Aggiungete il sale e due cucchiai di salsa di soia quando vedrete le foglie di cavolo un po’ appassite. Non esagerate con il sale perché la salsa di soia ha giù un elevato grado di sapidità. Mescolate ancora. 11. Non appena vedrete le verdure quasi cotte aggiungete gli spaghetti, mescolate e saltate tre/quattro volte. 12. A fine cottura aggiungete altri due cucchiai di salsa di soia (o a vostro piacimento), mescolate e saltate ancora per un minuto. 13. Spolverate il piatto di erba cipollina cinese e servite.


I N G REDIEN T I

P ER 2 P ERSO NE • un cucchiaio di olio di semi • uno scalogno • una manciata di Funghi Shiitake • due cucchiai di vino di riso • mezza zucchina • mezzo peperone • acqua q.b. • 300 g di pollo marinato INGREDIENTI PER LA MARINATURA DEL POLLO: • due cucchiai di salsa Hoisin • un cucchiaino di miele • due cucchiaini di salsa di soia chiara • due cucchiaini di polvere 5 spezie cinesi • un cucchiaino di olio di sesamo tostato • un cucchiaino di fecola di patate

P O L L O M A R I N AT O con verdure e funghi

In questa ricetta utilizzeremo il pollo, uno degli ingredienti principali della cucina cinese, che viene quasi sempre marinato per conferirgli sapori particolari. Utilizzeremo entrambe le parti del wok: il fondo e i lati. Il risultato da ottenere è un pollo morbido, umido e saporito accompagnato da verdure croccanti. Preparazione: 1. Aggiungete in una ciotola il pollo tagliato a piccoli bocconi e gli ingredienti della marinatura tranne la fecola di patate. 2. Amalgamate il tutto mescolando molto bene. 3. Aggiungete la fecola di patate, mescolate e trasferite il tutto in un contenitore ermetico.

4. Lasciate riposare tutta la notte o comunque almeno 2 ore. 5. Tagliate lo scalogno e i funghi a fettine sottili. 6. Tagliate peperone e zucchina a listarelle sottili. 7. Scaldate molto bene il wok. 8. Aggiungete l’olio di semi e un cucchiaio di vino di riso. 9. Una volta che il liquido sarà caldo aggiungete scalogno e funghi. Mescolate bene e saltate una/due volte. 10. Quando lo scalogno si sarà ammorbidito aggiungete il peperone e la zucchina. Continuate a mescolare. 11. Spostate le verdure sui lati del wok e mettete il pollo marinato sul fondo. Lasciate cuocere per qualche minuto

cercando di mantenere le verdure non a contatto con il pollo. Aiutatevi con un mestolo. In ogni caso non succede niente se qualche verdura va a toccare il pollo. Lo spostare sui lati le verdure ha lo scopo di renderle più croccanti. 12. Mescolate il pollo per avere una reazione di Maillard omogenea su tutti i lati. 13. Una volta rosolati bene i pezzi di pollo aggiungete l’acqua e il restante vino di riso. 14. Mescolate ancora il pollo e poi saltate due/tre volte tutti gli ingredienti per amalgamarli. 15. Una volta che il pollo sarà cotto aggiungete sale e salsa di soia chiara. Mescolate, saltare due/tre volte ancora e servite. MARZO 2020

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SPECIALE CINA - LA RICETTA a cura di ALESSANDRO TREZZI

Il pane al

vapore

una soffice nuvola eterica La Cina è la terra del riso, un cereale che specialmente in Oriente viene consumato in svariate forme e modi. Non è un segreto quanto sia il mondo occidentale ad essere il terreno fertile per il grano e i suoi frutti, come il pane, consumatissimo in una moltitudine di tipologie non solo in Italia, ma anche nel resto del continente europeo e in America. Eppure esiste una versione di pane cinese che è diventata talmente famosa da essere ormai presente nelle varie China Town sparse per il globo. Si tratta di una soffice nuvoletta bianca, morbida, eterea, perfetta come accompagnamento sia dolce che salato, o come comodo street food da consumare rigorosamente passeggiando per la strada. Tantissime personalità della cucina moderna ne hanno adottato una propria versione, come lo stesso Renato Bosco, pizzaiolo e panificatore, che nei suoi locali propone l’ormai celebre “mozzarella di pane”, un panino cotto al vapore e servito con un cuore di stracciatella e topping differenti. Come come? Non avete mai assaggiato un panino al vapore? Sacrilegio! 34 - BBQ4All MAGAZINE


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LE ORIGINI

Secondo una leggenda cinese, nel periodo dei tre regni lo stratega Zhuge Liang, nel riportare l’esercito in Patria, a Shu, si trovò di fronte ad un fiume impetuoso, impossibile da attraversare. Un uomo del luogo gli raccontò che i barbari dei tempi antichi erano soliti sacrificare 50 uomini, per poi gettare le loro teste nel fiume, appagando in tal modo lo spirito delle acque e permettendo quindi l’attraversamento. Non volendo sacrificare nessuna vita umana, Zhuge Liang decise di uccidere le mucche e i cavalli dell’esercito, riempiendo la carne di panini dalla forma di teste umane e gettandoli nel fiume. Una volta compiuta la traversata, egli diede a tali panini il nome di Mantou, che significa letteralmente testa del barbaro. Macabre leggende a parte, i classici panini al vapore vengono oggi consumati per lo più nella parte settentrionale della Cina, dove tradizionalmente si coltiva il grano al posto del riso. Possono variare dai 4 cm (una pagnotta vaporosa servita nei ristoranti più eleganti) ai 15 cm (un pane molto denso che costituisce il cibo degli operai). In origine erano formati solo da farina, acqua e lievito, e considerando che la lavorazione del grano era ben più costosa di quella del riso, nella Cina pre-industriale erano ritenuti cibo di lusso. Oggi il pane al vapore è prodotto e consumato in tre modi principali, ovvero vuoto da accompagnamento (il Mantou vero e proprio), oppure farcito (Baozi), o ancora fritto e servito con una ciotola di latte condensato. 36 - BBQ4All MAGAZINE

DI RIPIENO IN RIPIENO

Come per i ravioli, esiste una moltitudine di ripieni con i quali i cinesi farciscono i Baozi, sebbene il più classico rimanga quello con carne e verdure. Il Cha siu bao o char siu bao (altresì detto manapua) è ad esempio un Baozi ripieno di maiale al vapore, mentre il Goubuli è una varietà con diciotto pieghe sempre a base di carne tipica della città di Tianjin, il cui nome significa letteralmente I cani non vi prestano attenzione. Lo Xiaolongbao o tangbao è ripieno di zuppa, tipico di Shanghai, e a causa della sua succulenza è considerato molto più affine a uno Jiaozi (il tipico raviolo cinese chiuso a fagottino); il Caibao invece è un raviolo ripieno solo di vegetali.


Non mancano le versioni dolci: il Doushabao è un Baozi ripieno di crema di fagioli rossi dolce, il Ling Yong Bao è invece ripieno di crema di semi di loto zuccherata, mentre il Nai huang bao è ripieno di crema pasticciera.

COME SI FANNO?

Sebbene siano nati con acqua e senza sale, la versione che vi propongo oggi è il compromesso perfetto per realizzare in maniera perfetta sia i Mantou che i Baozi; un risultato morbido, vaporoso, etereo e in grado di conferire un contrasto amabile tra il dolciastro dell’impasto e la sapidità del ripieno. Grazie alla cottura al vapore, alla tipica crosta croccante e colorata del pane si contrappone una copertura lucida in superficie. Ingredienti per circa 28 panini: - 500 gr di farina di grano tenero 00 (280-300 W); - 300 gr di latte intero; - 30 gr di zucchero semolato; - 12 gr di sale fino; - 10 gr di lievito di birra fresco.

L’IMPASTO

Versate tutta la farina, il lievito e lo zucchero in una ciotola o nella vasca della vostra planetaria, aggiungete circa il 75% del latte della ricetta e iniziate a impastare fino a che il liquido non sarà perfettamente assorbito. A questo punto aggiungete tutto il sale, e continuate a lavorare versando piano piano il latte rimanente. Chiudete l’impasto tra i 24 e i 26 °C, ottenendo una massa liscia, setosa ed equilibrata.

Riponetelo in un contenitore con chiusura ermetica e lasciatelo lievitare a 20 – 22 °C per circa 1 ora, dopodiché posizionatelo in frigorifero a 6 °C per 18 – 24 ore. Terminato il tempo di maturazione, recuperate l’impasto e formate delle palline da circa 30 gr di peso ciascuna. In alternativa, per ottenere i classici Mantou dalla forma rettangolare, potete stendere l’impasto con il mattarello, arrotolarlo e tagliarlo con un coltello. Lasciate lievitare i panini su una teglia con della carta forno per 2 – 3 ore tra i 26 e i 28 °C.

LA COTTURA

Terminata anche l’ultima lievitazione, siete pronti per la cottura. Tuttavia, nel caso in cui vogliate realizzare i Baozi, questo è il momento perfetto per farcire i panini. Aiutatevi con un leggerissimo velo di farina e stendete a mattarello i panetti, per poi riempirli con circa un cucchiaino di ripieno; spennellate i bordi con dell’acqua e chiudeteli effettuando delle pieghe e stringendo verso l’alto. Il più classico dei ripieni è preparato con carne di maiale macinata, verza, cipollotto fresco, zenzero grattugiato, salsa di soia e aceto di riso. Tritate tutto, formate un composto e utilizzatelo per farcire i vostri panini. Predisponete la vostra vaporiera facendo bollire dell’acqua in una wok. A seconda della grandezza della vaporiera stessa, disponete su un livello 3 o 4 Mantou (o Baozi), coprite e lasciate cuocere. Per i Mantou di questa grammatura sono sufficienti 8 – 10 minuti, mentre per i Baozi almeno 12 – 15 per permettere al ripieno di cuocere adeguatamente. Servite ben caldi, accompagnandoli con della salsa di soia aromatizzata con del cipollotto tritato finemente. MARZO 2020

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SPECIALE CINA - LE RICETTE a cura della REDAZIONE

C H Ū N J UĂ N

春捲

gli involtini primavera Quando parliamo di cibo cinese, il pensiero corre subito a loro, gli involtini primavera. In realtà fanno parte di quelle preparazioni che tutti conoscono ma che nessuno saprebbe dire se siano originali o no, perché molto consumati in Occidente e onnipresenti nei menù tipici dei ristoranti cinesi; tuttavia la domanda che aleggia sempre in questi casi è: qualcuno ha mai mangiato davvero gli involtini cinesi in Cina? Andare a scavare nei meandri della cultura asiatica sull’origine di questo piatto non è affatto semplice. Pare che risalga a quasi duemila anni fa e che abbia subìto durante la storia dell’impero Cinese diverse rivisitazioni. A partire tra la metà del 300 d.C, e gli inizi del 400 d.C, durante la dinastia Jin, nacque un piatto fatto con una sfoglia di farina accompagnato a delle verdure. All’epoca venne denominato piatto della primavera, da qui l’evoluzione sino agli attuali involtini primavera. Sicuramente, la versione che conosciamo noi, ovvero fritti e pieni di verza è una rivisitazione tutta occidentale. In Cina sono più piccoli, serviti come dim sum (antipasto o spuntino) e possono essere fritti oppure no, contenere carne o verdure e essere insaporiti con una granella di arachidi. Le varianti esistenti, insomma, sono molte e dipendono dalla zona in cui vengono preparati. Infatti non ci sogniamo proprio di darvi la ricetta che dovrebbe o potrebbe essere l’unica e sola versione dell’involtino primavera; più semplicemente ve ne daremo una nostra adattata in parte alla cottura barbecue e che si avvicina molto ad alcune delle versioni asiatiche, per 38 - BBQ4All MAGAZINE

metodi di cottura e utilizzo degli ingredienti. Proviamo a descrivere un involtino primavera. Per le ragioni dette prima, il suo interno può avere mille varianti, dovute non solo alla scelta dei prodotti con cui comporlo, ma anche al metodo di cottura utilizzato e alla versione salata o dolce. Ma come è fatto veramente? È un rotolo di sfoglia, che avvolge dolcemente un mucchietto di ingredienti ben calibrati, che viene fritto o cotto al vapore. Da qui in poi si apre un mondo. Partiamo dalla sfoglia. Deve essere un finissimo strato di sfoglia a base di farina di riso che funge da contenitore dei sapori. Spesso però, nella versione occidentale, non trovandola disponibile sui banchi del supermercato, si utilizza la classica pasta fillo, molto simile come caratteristiche ad una sfoglia di riso.

te di caramello che donano quel sapore dolciastro e quel colore tipicamente scuro alla salsa di soia che conosciamo. La salsa di ostrica è realizzata utilizzando come base l’acqua stessa delle ostriche. Con l’aggiunta di salsa di soia, di poco zucchero e di una minima quantità di amido di mais, si riduce a fuoco basso sino ad ottenere una salsa perfetta in abbinamento con carni bianche, perché ne esalta il sapore. L’olio di semi di sesamo è ricavato dalla spremitura dei semi dell’omonima pianta. Il sapore ha una predominante iniziale dolciastra, un leggero gusto aggiuntivo stringente e sulla parte terminale rilascia una nota calda. Spesso utilizzato a crudo per il condimento di insalate e verdure, in Asia è comunemente usato anche in cottura. Non ci resta che metterci ai fornelli.

Nella nostra versione, abbiamo optato per la sfoglia di riso e vi diremo come farla a casa. Altri tre ingredienti che caratterizzano questa ricetta, presenti quasi sempre in tutte le versioni sono salsa di soia chiara, salsa di ostrica e olio di semi di sesamo. La salsa di soia chiara è differente da quella che solitamente ci viene proposta durante le cene a base di sushi giapponese per intingere nigiri o sashimi. Quella chiara è prodotta dalla prima coltura di soia cotta al vapore e poi lasciata fermentare in salamoia. Al palato risulta meno densa e più salata. Utilizzata per marinature di cibi come pollo, maiale ma anche pesce, in cottura tende a non accentuare il suo sapore proprio per l’assenza di zuccheri; infatti non ha aggiun-

Preparazione: 1. Asciugate bene il petto di pollo e marinatelo con olio extravergine di oliva, il succo di un limone, un cucchiaio di salsa di soia chiara, 10 grammi di zenzero grattugiato. Lasciatelo riposare almeno mezz’ora in frigorifero. 2. Predisponete il dispositivo per una cottura indiretta con temperatura in camera di cottura sui 120° C. 3. Recuperate il petto di pollo dalla marinatura che scarterete e asciugatelo per bene. Massaggiatelo con un velo d’olio. Rubbatelo, strofinando dappertutto con le cinque spezie e mettetelo in cottura indiretta, affumicandolo con chips al melo sino ai 52° C al cuore. 4. Toglietelo dalla cottura e tagliatelo a


piccoli cubetti, quindi riportatelo in cottura in un wok. 5. Aggiungete un filo d’olio nel wok e riscaldate quasi al punto di fumo.Versate i pezzetti di pollo affumicato, aggiungete 20g di salsa di ostriche, 40g di salsa di soia, 5 g di olio di sesamo e 15 g di zucchero. Lasciate andare in cottura per un minuto, poi saltate per tre minuti, dopodiché togliete il pollo dalla padella. 6. Tagliate a striscioline le verdure e versatele nel wok. Aggiungete un filo di olio extravergine di oliva e lasciatele andare in cottura a fuoco medio. 7. Aggiungete la salsa di soia, la salsa di ostriche e l’olio di sesamo. 8. Quando le verdure saranno pressoché ammorbidite, aggiungete i germogli e mescolate il tutto. 9. A fine cottura, versatele insieme al pollo in una ciotola capiente e lasciate raffreddare il tutto.

10. Mescolate con una frusta le polveri (farina, amido e sale). 11. Versate l’acqua in una ciotola e pian piano, con l’aiuto della frusta, versate a pioggia la farina sino ad ottenere una pastella. 12. Portate a bollore una pentola con dell’acqua. Appoggiatevi sopra una padella bassa antiaderente o meglio una crepiera e lasciatela scaldare per bene. 13. Ora, spennellate la pastella sulla padella con movimenti rotatori, sino a coprire il fondo e formare un disco di sfoglia. 14. Quando la sfoglia comincia a diventare bianca e ad asciugarsi sui bordi, staccatela delicatamente e sollevatela da un lato sino a staccarla del tutto. 15. Appoggiate tutte le sfoglie così ottenute su un piatto coprendole con un foglio di carta da forno bagnato e ben strizzato.

16. Prendete una sfoglia, e dividetela a livello immaginario in 4 parti per orizzontale. Sul 2° quarto basso, adagiate un cucchiaio del ripieno di verdure e pollo. 17. Chiudete i lembi laterali della sfoglia verso il centro. 18. Ora coprite il ripieno con il lembo basso della sfoglia e arrotolatela sino quasi a chiuderla. 19. Sbattete in una piccola boule un uovo. 20. Spennellate i bordi della sfoglia di riso e arrotolate per chiudere l’involtino. Ripetete per tutti gli altri. 21. In una padella ampia, versate abbondante olio per frittura e portatelo a 170° C. 22. Immergete con molta attenzione i vostri involtini e dorateli leggermente. 23. Scolate l’olio in eccesso e adagiateli su carta assorbente. 24. Servite con salsa a piacere.

IN GREDIEN TI

PER 4 P ERSO N E Per il ripieno • mezzo petto di pollo • 50 g di cavolo cinese (o cappuccio ) • 2 carote • 200 g di germogli di soia o bamboo • 2 cipollotti • un uovo • 30 g di zucchero • 40 g di salsa di ostriche • 150 g di salsa di soia chiara • 10g olio di sesamo • olio per friggere q.b. • olio extravergine di oliva q.b. • 20 g zenzero fresco • un limone • 5g di polvere cinque spezie Per le sfoglie di riso (8 pezzi) • 100g di farina di riso • 40g di amido di mais • 160g d’acqua • un pizzico di sale • un uovo

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SPECIALE CINA - LA RICETTA a cura di MICHELA BONGIORNI

J I AOZ I

餃子

i ravioli della fortuna In nessun altro luogo come in oriente la cucina è il risultato del connubio tra l’atto vero e proprio di preparare i cibi e la filosofia. In Cina, in particolare, è il taoismo, fondato sul principio del bilanciamento degli opposti, a influenzare anche l’arte culinaria. Yin e Yang, nero e bianco, oscurità e luce. Basandosi sulla cucina taoista ogni cibo può essere diviso tra questi due opposti: è yang tutto quello che cresce all’aria aperta e al sole, mentre è yin quello che cresce nell’oscurità e nella terra. Se è salato è yang. Se è dolce è yin. Se è piccolo, secco e piccante è yang mentre è yin se è grande, soffice e morbido. Se è di colore freddo è yin, se è caldo yang. Se i cibi sono fritti, essiccati, grassi, quindi caldi, sono yang, mentre se sono freddi come frutta, verdure, crostacei sono yin. Insomma, ogni pietanza deve

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esprimere l’armonia tra questi due elementi e deve rispettare le quattro leggi della cucina taoista: buon sapore, buon aspetto, buon aroma e buon livello nutritivo. La gastronomia cinese tradizionale si fonda, inoltre, sulla teoria taoista dei cinque elementi. Cinque sono i gusti (amaro, acido, dolce, salato, piccante), così come le consistenze (croccante, liscia, sugosa, secca e morbida). Non a caso sono proprio cinque le spezie che compongono la miscela largamente usata nella preparazione dei piatti tradizionali (ne parliamo più avanti nella rubrica dello speziale). Secondo questa teoria, dunque, tutti e cinque i nostri sensi devono essere sollecitati dall’incontro con questa realtà gastronomica.


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Senza addentrarci troppo nella filosofia taoista, è certamente vero che nella cucina cinese si ritrova un altro aspetto di questa scuola di pensiero: quello di avvolgere, di riportare insieme le cose, secondo la visione per la quale tutto nell'universo è soggetto ad un eterno ciclo. Si avvolge il cibo e si ricompone un qualcosa di prezioso, si chiude il cerchio in unione armoniosa di sapori e di aromi. Ed è proprio nei ravioli cinesi che questa affascinate tradizione dell’avvolgere il cibo trova il suo significato più completo.

JIAOZI

Chiamati inizialmente Tiao (corno) per la loro forma, sono stati in seguito denominati anche Bianshi (cibo piatto) grazie al loro aspetto appiattito. Solo dopo molto tempo il nome è stato cambiato in Jiaozi (餃子); questo termine indica quel lasso di tempo che va dalle 23,01 alle 23,59 prima del Capodanno cinese, in cui pare che mangiare ravioli sia di buon auspicio. Vengono chiamati così soprattutto nel nord-est della Cina, ma al sud sono conosciuti anche come Hum Tun o Won Ton. Mettiamolo subito in chiaro: noi sbagliamo di grosso a considerarli una specie di aperitivo prima della grandi abbuffate negli All you can eat. I ravioli sono un rito, collegato a grandi ricorrenze come quella di celebrare l’equinozio che saluta l’inverno e dà il benvenuto alla primavera, durante i matrimoni e in ogni altra occasione in cui si voglia augurare la felicità a qualcuno. Secondo la tradizione tutta la famiglia deve partecipare alla loro preparazione, dalla lavorazione dell’impasto sino alla 42 - BBQ4All MAGAZINE

cottura, per poi consumarli con grande gioia e chiasso su un grande tavolo circolare. È un piatto molto povero da mangiare, consumato perlopiù senza condimento o condito con qualche salsa. Si racconta anche che in passato venisse messa una moneta all’interno di uno dei ravioli in modo da rendere ricco il fortunato che l’avesse trovata.

LE ORIGINI

Ma com’è nato questo delizioso raviolo? Avete mai notato quanto assomigli nella forma a un piccolo orecchio? Ebbene, in effetti pare che sia proprio la parte esterna del nostro organo uditivo la causa della loro invenzione. Secondo molte testimonianze pare sia stato Zhang

Zhongjing, medico cinese che scrisse il Trattato sulle malattie febbrili e malattie varie, ad inventare il delizioso fagottino. Quando Zhang si ritirò dal servizio, tornò nella sua città natale e ne divenne il sindaco, aprendo anche una piccola clinica. A causa del forte freddo, molte persone soffrivano di geloni molto dolorosi alle orecchie, ma la sua clinica era veramente minuscola per poter ospitare tutta quella gente. Installò così una tenda al centro del paese, posizionò un calderone lì davanti e cominciò ad offrire una zuppa fatta con erbe mediche a tutti coloro affetti dai dolorosi geloni. Questo medicinale venne chiamato Quhuan jiao’er tang (去寒嬌耳湯, zuppa di erbe per dissipare il freddo e proteggere le orecchie) Era una minestra fatta con carne di pecora, peperoni piccanti e molte altre erbe. Successivamente questi ingredienti sminuzzati furono messi all’interno di dischi di pasta, buttati poi nella zuppa di erbe e cotti. Nacquero così i ravioli, offerti ad ogni paziente insieme a una scodella di minestra. I malati, bevendo la zuppa e mangiando ravioli, si accorsero che tutto il corpo cominciava a riscaldarsi, comprese le orecchie. Per questo motivo, per molti anni a seguire, la popolazione decise di festeggiare il ricordo di questo evento creando ravioli a forma di orecchio.

LA SFOGLIA

Non è difficile trovare nei supermercati italiani più forniti i dischi di sfoglia già pronti per preparare in casa degli otti-


mi ravioli cinesi. Il problema di queste sfoglie già pronte, però, è che sono tutte dello stesso spessore, mentre l’ideale sarebbe stendere dei dischi di pasta un po’ più spessi al centro e un po’ più sottili ai bordi, in modo da poterli chiudere con facilità ma anche renderli più resistenti nel punto in cui devono trattenere il ripieno. Volendo preparare in casa anche la pasta, quindi, il mio consiglio è quello di recarsi negli alimentari cinesi o nei reparti dei supermercati specializzati in cibo orientale, in modo da acquistare una farina fatta appositamente per i Jiaozi. Si può utilizzare anche una normale farina 00, ma il risultato potrebbe non essere soddisfacente: i ravioli, da cotti, dovrebbero essere bianchi quasi trasparenti ed abbastanza resistenti, utilizzando una farina 00 invece rischiereste di averli molto morbidi e perlopiù opachi. È consigliabile utilizzare un mattarello di legno non troppo grosso e ingombrante, in modo da muoversi liberamente sul piano di lavoro. La pasta deve essere preparata prima del ripieno, così da poterla mettere a riposare per almeno una mezz’oretta, impastando tre parti di farina, una di acqua e un pizzico di sale a piacere. Una volta pronta, va lasciata per almeno 30 minuti in un posto umido. Trascorso questo tempo, si crea con la pasta un piccolo cilindro del diametro di

2,5 cm, dal quale si tagliano delle fettine tutte uguali che poi andranno stesi col mattarello sul piano di lavoro infarinato, dando loro una forma circolare. Ricordate: l’interno deve essere lasciato un po’ più spesso rispetto ai bordi.

IL RIPIENO

Nel sud est della Cina, il ripieno viene fatto principalmente con carne di maiale, manzo, agnello combinata con verdure miste come cipollotto, porro e cavolo cinese; sono comunque moltissime le possibili varianti: dai gamberi alla carne di pollo, dalle sole verdure alla nostra adorata carne affumicata (come potrete leggere sul nostro Magazine - numero di Maggio 2019 - abbiamo riempito i ravioli al vapore con gli avanzi di pulled pork). La cosa importante da ricordare è che l’impasto del ripieno non deve essere troppo liquido, anzi deve risultare compatto, in modo da poter essere trattenuto bene dall’involucro di pasta, e che tutti gli ingredienti devono essere tagliati in pezzi piccolissimi (pochi millimetri). E’ utile lasciarlo riposare in frigo, una volta pronto, per un’oretta. Al momento di realizzare i ravioli, si mette un cucchiaino di ripieno al centro di ogni disco, chiudendolo poi formando tante pieghette sul bordo. In realtà ci sono differenti modi per chiuderlo, l’unica cosa davvero importante è che i

bordi siano saldi e stretti in modo che il contenuto non fuoriesca durante la cottura. Quindi, niente panico se non avete la manualità per renderli perfetti: potete chiuderli anche in modo semplice, senza fare le pieghe. L’importante, lo ripeto, è che siano ben saldi.

LA COTTURA

Erroneamente crediamo che i ravioli vadano cotti solo al vapore (e magari successivamente piastrati). In realtà in Cina si consumano anche bolliti (o addirittura fritti). Se volete cuocerli al vapore, è utile avere il cestello di bambù dentro il quale appoggiarli, distanziati fra loro per fare in modo che non si attacchino durante la cottura. Se optate per la bollitura in acqua salata, bisogna fare molta attenzione, anche in questo caso, che non si attacchino tra di loro e nemmeno al fondo della pentola. E’ consigliabile girarli di tanto in tanto, molto delicatamente, fino a quando non diventano trasparenti e vengono a galla. A quel punto possono anche essere saltati in padella con un po’ di salsa di soia, oppure serviti così, bolliti o al vapore, accompagnati da una salsa fatta con aceto di riso, salsa di soia, aglio tritato, olio di sesamo e un pizzico di zucchero. O da qualsiasi altra salsa vi suggerisca la vostra voglia di sperimentare.

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SPECIALE CINA - APPROFONDIMENTO E RICETTA a cura della REDAZIONE

a tutto

NOODLES Se la diatriba tra Italia e Cina sulla paternità degli spaghetti è di lungo corso, non si può affermare lo stesso quando parliamo di noodles, che contrariamente a quanto ci si possa aspettare non sono un piatto di origine giapponese, bensì cinese. Questi spaghetti hanno origini antichissime. Qualche anno fa, nel sito archeologico di Lajia, alcuni studiosi rinvenirono un reperto straordinario: i più antichi noodles della storia realizzati con farina di miglio e risalenti a circa 4000 anni fa. Secondo altri storici, la loro origine sarebbe da individuare nella città di Lanzhou capoluogo della provincia di Gansu nel nordovest della Cina. La posizione strategica lungo la via della seta unita alla diffusione delle tecniche di macinazione del frumento e alla continua capacità degli orientali di sperimentare nuovi metodi culinari per-

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misero la diffusione del prodotto prima in tutto il paese, e poi anche nel resto del mondo. Ecco quindi che i noodles sono diventati ovunque il simbolo della cucina orientale. In Cina erano originariamente conosciuti come Lamian, lavorati a mano con energia, si ottenevano sbattendo più volte e scenograficamente un’unica palla di impasto su un piano, che successivamente veniva poi tirata a mano per conferire massima elasticità. Lamian è la combinazione di “la” che significa tirare e “mian” che significa tagliolini, e pare che la prima ricetta di questa prelibatezza si trovi già in un codice della dinastia Ming del 1504. Esistono diverse varietà di lamian che differiscono per la regione di provenienza. Oltre ai già citati Lanzhou lamian 兰 州拉面, troviamo gli Shandong lamian 山西拉面, gli Henan lamian 河南拉面 e i Longxumian 龙须 面, tagliatelle lunghe e sottili. Un’altra distinzione è quella che caratterizza l’impasto. Si avranno quindi i mian 面 (paste di grano) e fen 粉 (quelle di riso). Tra i più comuni è possibile citare i 面薄 miànbó (dove 薄 vuol dire sottile), quindi spaghetti sottili all’uovo, quelli che sarebbero i nostri tagliolini; i 拉面 lāmiàn spaghetti tirati a mano, solitamente di grano e acqua; i 刀削面 dāoxiāomiàn, tagliatelle tagliate a coltello direttamente dalla matassa dell’impasto sulla pentola di cottura, una specialità dello Shanxi; i 米粉 mǐfěn (dove 米 è riso e 粉 vermi-

celli), quindi spaghetti di riso sottili anche detti vermicelli; gli 河粉 héfěn paste di riso piatte, molto larghe tipo pappardelle; e infine i 冬粉 dōngfěn vermicelli di fagiolo mung. Quindi, come potete intuire, nella categoria “noodles”rientrano in realtà tipi di pasta anche molti diversi tra loro. Per semplificare, e aiutarvi a capirci qualcosa di più, ecco un piccolo riassunto. Noodles di riso: particolarmente diffusi oltre che in Cina anche nel sud-est asiatico. Essendo realizzati con farina di riso tendono ad essere di colore pallido, quasi bianchi, e molto molto friabili. Lo spessore è variabile. Generalmente sono precotti ma necessitano comunque di qualche minuto in acqua bollente prima di essere consumati. Noodles di fagiolo mung: sono conosciuti con il nome di spaghetti di soia o vermicelli di soia. Sono molto simili ai noodles di riso, ma più elastici e con una consistenza maggiore. Hanno un colore scuro e leggermente trasparente e necessitano di cottura prima di essere utilizzati. Tendono ad appiccicarsi tra loro se non tenuti molto idratati. Noodles integrali: sono simili a quelli di soia ma un poco più spessi, e dal gusto più intenso. Hanno un tempo di cottura lievemente superiore. Noodles all’uovo: consumati molto anche in Giappone sono disponibili sia freschi che secchi. Questi ultimi sono più veloci e comodi da preparare. È consigliabile metterli in ammollo prima di prepararli, in modo da renderli più gustosi. Noodles udon: sono i tipici noodles consumati perlopiù in Giappone, e sono disponibili sia freschi che secchi. E’ assolutamente necessario metterli in ammollo prima di cucinarli.


Noodles istantanei: il creatore di questi noodles è il giapponese Momofuku Ando che nel 1971 inventò il Chicken Ramen, ossia il primo ramen istantaneo al mondo. Successivamente, nel 1971, inventò il primo ramen istantaneo servito in una ciotola usa e getta, i Cupnoodles. Momofuku ha dunque contribuito allo sviluppo dell’industria diventando il presidente della Japan Instant Food Industry Association. Attualmente i noodles istantanei sono quelli più diffusi nel mondo. Secondo una ricerca condotta nel 2015, 52 paesi hanno consumato 97,7 miliardi di porzioni (Cina e Hong Kong 40.430 milioni e l’Indonesia 13,20 miliardi) In ogni caso, la cucina cinese è molto legata alla tradizione e questa vuole che gli spaghetti, per la loro particolare forma allungata, stiano a simboleggiare la longevità: vengono mangiati in ricorrenze quali anniversari e compleanni, come

buon auspicio di lunga vita. L’ideale sarebbe cuocere un unico spaghetto molto lungo. Oggi dimenticheremo gli spaghettini istantanei e li prepareremo partendo dalla farina di frumento. Poi starà a voi e al vostro gusto condirli come più vi piace. Gi spunti, anche in questo numero del Magazine, non vi mancheranno di certo. Preparazione: 1. In una ciotola, mescolate la farina e l’amido, quindi salate l’acqua ed iniziate ad incorporarla lentamente. 2. Usate le mani e continuate a mescolare fino a quando l’impasto non risulterà liscio ed omogeneo. 3. Fatelo riposare per 30 minuti in frigorifero coperto da un canovaccio. 4. Passato questo tempo, toglietelo dal frigorifero, versate qualche goccia di olio di sesamo e lavoratelo per qualche minuto con le mani, quindi riponetelo in

frigo per circa 4 ore sempre coperto con un canovaccio. 5. Cospargete il piano di lavoro con della farina e stendeteci, grazie all’aiuto di un matterello, l’intero impasto tirandolo in maniera omogenea. 6. Spolverate la sfoglia con un cucchiaio di amido di mais, quindi piegatela a metà. 7. Versate di nuovo un cucchiaio di amido a pioggia sulla pasta e piegatela ancora a metà. 8. Lasciate riposare il tutto per 30 minuti sulla spianatoia. 9. Ora, con un coltello, tagliate l’impasto in modo da ottenere spaghetti sottili ed il più possibile uguali, tutti dello stesso spessore. 10. Ponete sul fuoco una pentola di acqua e, una volta che ha raggiunto il bollore, aggiungete i noodles cuocendoli per 2 minuti. Conditeli a vostro gusto.

INGREDIENTI

P ER 4 P ERS O N E • • • •

1 kg di farina di frumento 3 g di sale 10 g amido di mais 500 cl di acqua

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SPECIALE CINA - RICETTA a cura di MICHELA BONGIORNI

HONG S H AO R O U

红烧肉

Il maiale brasato del generale Mao Ehi, ti va di mangiare cinese stasera? Quante volte ci siamo sentiti fare questa domanda, complici anche i vari film americani nei quali l’abbiamo ascoltata più volte ? È una frase che crea subito l’atmosfera giusta: ci sentiamo immediatamente newyorkesi dalla vita frenetica, con un lavoro che assorbe la maggior parte del nostro tempo in una città caotica che non dorme mai, anche se viviamo in Italia, magari in un paesino sperduto in cui il baretto del circolo chiude alle 21, e dove l’unica cosa frenetica che conosciamo è il viavai delle signore al mercato della frutta del lunedì mattina, attirate dal 3x2 sulle pere. A quel punto cerchiamo il primo ristorante a tema della zona, spesso situato in capannoni anonimi di quartieri deserti, accanto al ricambio gomme e al negozio di bricolage, e ci sentiamo felici come bambini nel mangiare la vera cucina cinese che in Cina non esiste. Eh già, come direbbe il buon vecchio Vasco. Tutto quello che noi ingurgitiamo in questi luoghi è di fatto una versione riadattata, calibrata sui nostri gusti e in certi casi totalmente stravolta di quello che i veri cinesi mangiano in Cina. Stiamo parlando di un paese enorme: dai confini a nord, dove in inverno si raggiungo-

no i 40 gradi sotto lo zero, si passa per il deserto dello Xinjiang a nord-ovest, per poi incontrare praterie, montagne, foreste pluviali e spiagge, fino ad arrivare alle aree subtropicali dove si superano spesso i 40 gradi sopra lo zero. La vastità del territorio e i diversi climi che si incontrano, dunque, si riversano anche nella abitudini culinarie degli abitanti. Potrete quindi immaginare quanti autentici piatti cinesi esistano che noi non conosciamo affatto, attirati come siamo da ristoranti in serie che ci propinano versioni annacquate e adattate alla cultura occidentale di quei pochi fanta-piatti ormai sdoganati: gli involtini pLimaveLa, il gelato fLitto, il Liso cantonese… Il primo ristorante cinese in Italia tirò su le serrande a Roma nel 1949. Successivamente aprirono locali simili anche a Firenze, a Milano e pian piano in tutta Italia. Nonostante il grande successo ottenuto fin da subito, complici il gusto esotico delle pietanze e i costi relativamente contenuti, il vero problema che questi locali incontrarono fu quello della reperibilità dei prodotti, oltre ad una certa diffidenza di fondo della clientela italiana a buttarsi a capofitto in sapori molto distanti dalla propria tradizione: insomma, esotico sì ma non troppo. Tutto questo ha portato naturalmente ad una

forte rivisitazione dei piatti della tradizione cinese: innanzitutto, le spezie sono state fortemente ridotte, a favore di sapori più delicati e più vicini a quelli occidentali. Anche l’utilizzo di molte carni comunemente usate in oriente è stato limitato: niente montone, pecora, zampe di gallina e tartaruga, ma principalmente pollo, maiale e manzo. Infine la tipologia di cottura ha subito dei cambiamenti rispetto alle abitudini originarie: mentre la cucina cinese predilige cotture più lente come quella al vapore, sono stati i piatti fritti o saltati nel wok quelli ad aver trovato più fortuna da noi. In ogni caso, gli stili di cucina cinese più diffusi in Italia sono due, quello cantonese e quello chuan, rispettivamente provenienti da due regioni: Guangdong e Sichuan. In realtà, sono ben otto le regioni della Cina da cui provengono altrettanti stili culinari e il piatto che ho scelto oggi è originario dalla regione dello Hunan, nella Cina meridionale. Preparazione amatissima dal generale Mao, il maiale brasato (Hong Shao Rou, 红烧 肉) è un piatto che si è diffuso in tutto il territorio cinese, seppur con numerose varianti: ad esempio a Shanghai il gusto è decisamente più sapido, mentre in altre città si punta molto su un gusto più dolce e caramellato.

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È una pietanza che, a mio avviso, si presta molto bene ad essere adattata alla griglia (ovviamente, come sempre, non abbiamo la pretesa di presentarvi la ricetta originale, ma ci piace giocare con una nostra variante). Cercando qualcosa di meno conosciuto da presentarvi rispetto ai piatti triti e ritriti, ho pensato che la pancia del maiale, cotta a lungo sul nostro dispositivo, fosse la miglior proposta che potessi farvi. Quindi, per dirla con Lao Tzu, ogni viaggio inizia sempre con un primo passo: il vostro primo passo è accendere il carbone. Poi non vi resta che leggere la ricetta per raggiungere la meta. Preparazione: 1. Staccate la cotenna dalla pancia del maiale senza lasciarle attaccato il grasso; 2. Rubbate (strofinate) la pancia del maiale con la paprika e il sale, accendete il vostro dispositivo, stabilizzatelo ad una temperatura di circa 110 gradi e mettete in cottura indiretta sia la pancia che la cotenna; 3. Aggiungete chips di legno aromatico per affumicare (il melo è l’ideale) e chiudete il coperchio. Non apritelo più per almeno un paio d’ore; 4. Quando la pancia del maiale avrà raggiunto i 70 gradi al cuore, cominciate a preparare il sughetto: tritate finemente il porro, fatelo soffriggere in un tegame con l’olio di semi e aggiungete lo zenzero fresco; a questo punto, togliete la pancia del maiale dal vostro dispositivo (ma lasciate ancora la cotenna) e tagliatela il più velocemente possibile in bocconi larghi circa 4 cm e spessi 2. Buttate i bocconi ottenuti nel soffritto, bagnate il tutto col vino e lasciatelo evaporare. 5. Una volta evaporato il vino, aggiungete la salsa di soia, lo zucchero di canna e due bicchieri d’acqua: coprite il tegame e lasciate cuocere la pancia a fuoco lento fino a quando il sughetto non sarà ben ritirato e la carne tenerissima; 6. Poco prima di servire il maiale brasato, scaldate abbondante olio di semi in un pentolino alto e friggete la cotenna che avevate lasciato a disidratare nel dispositivo: quando sarà scoppiata, toglietela dall’olio e servitela con lo stufato, al posto del pane.

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I N G RED I EN TI

PER 4 PER SONE • 500 g di pancia di maiale in un unico pezzo con cotenna • due cucchiai di paprika dolce • due cucchiaini di sale • 200 ml di salsa di soia classica • 200 ml di vino bianco • 60 g di zucchero di canna • due bicchieri d’acqua • un porro • olio di semi d’arachide q.b. • zenzero fresco q.b.

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S P EC I A LE :

LA rivincita del POLLO 50 - BBQ4All MAGAZINE


quanto amiamo le

ALETTE DI POLLO

Le abbiamo viste mille volte ingurgitate da omoni barbuti come se fossero caramelle, nei vari film americani e nei reality di seconda categoria. Le abbiamo utilizzate per le sfide di resistenza fra omaccioni cattivi (e qualche volta anche signorine temerarie) alla loro elevata piccantezza. Ci hanno fatto venire l’acquolina in bocca solo a sentirne l’odore. Oggi le abbiamo cucinate in due versioni differenti perché siamo dei viziosi che non si accontentano mai. Nate intono agli anni ‘60, le chicken wings più famose sono certamente quelle della città di Buffalo (New York). Le loro origini sono incerte, ma sicuramente quelle deliziose alette di pollo hanno avuto da allora un successo strepitoso. Che siano state inventate da Teressa Bellissimo nel 1964 presso l'Anchor Bar, 1047 Main Street, oppure da un uomo di nome John Young trasferitosi dall’Alabama a Buffalo, è certo che durante gli anni ‘70 e ‘80 le ali diventarono famosissime come cibo da bar e come gustoso antipasto, sia negli Stati Uniti che in Canada. Nel 1982 e nel 1983 nacquero Buffalo Wild Wings e Hooter’s, entrambe specializzati in questa preparazione. Nel 1990 McDonald’s iniziò a vendere le Mighty Wings nei suoi ristoranti degli Stati Uniti, e nel 1994, dopo quattro presenze al Super Bowl della squadra di football Buffalo Bills, la Domino’s Pizza cominciò a servire le ali di Buffalo, seguita da Pizza Hut nel 1995. Nello specifico, le alette delle città statunitense vengono marinate in una salsa piccante a base di peperoncino Cayenna, la Frank's RedHot sauce, e nel burro. Successivamente vengono fritte e accompagnate dalla salsa al Blue Cheese e da bastoncini di sedano croccante e carote, pensati proprio per alleviare la piccantezza del piatto. Tuttavia, negli anni la moda di cucinare le chicken wings non si è fermata e sono nate moltissime ricette alternative, così come altrettante salse con le quali servirle. Tutto il mondo ha cominciato ad apprezzare le alette di pollo, preparandole in diversi modi (anche al barbecue) e accompagnandole a salse spesso ispirate alle cucine orientali o caraibiche. Abbiamo pensato a due variazioni sul tema: una con una salsa piccante ma sorprendente e un po’ più strong, e una che si avvicinasse alle originali, quindi fritte, ma con una tecnica particolare per renderle croccantissime. Queste seconde, non essendo piccanti, sono adatte anche a commensali più delicati, ma non perdono niente in termini di gustosità e “ciliegiosità”. Cosa vuol dire? Che una tra l’altra come le ciliegie (se vale petaloso, vale anche ciliegioso!). Provatele e diteci se non abbiamo ragione.

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POLLO - RICETTE a cura della REDAZIONE

B LAC K LABEL CHICKEN WINGS I N GREDIEN T I

PER 4 P ERSO NE • un kg di alette di pollo per la marinatura • 25 cl di Johnny Walker Black Label • mezzo limone • un cucchiaio di olio extravergine d’oliva • sale q.b. • pepe q.b. per la salsa • un cucchiaio di cipolla in polvere • un cucchiaio di aglio in polvere • un peperoncino (preferibilmente un habanero tipo chocolate) • un cucchiaio di salsa Worcestershire • due cucchiai di miele millefiori • 250 g di ketchup • un cucchiaio di aceto di mele • un bicchiere di Johnny Walker • un bicchiere di succo di mela • tre cucchiai di melassa • mezzo cucchiaio di peperoncino di Cayenna in polvere • pepe q.b. • sale q.b. N.B. Se non riuscite a trovare la melassa è possibile compensare con lo zucchero di canna. Va tenuto però in considerazione che la melassa conferisce il caratteristico colore scuro alla salsa. Utilizzando esclusivamente lo zucchero il colore della salsa virerà verso il rosso piuttosto che verso il nero.

Blind me Erase what was Stillborn, i have become… Canta così Zakk Wylde frontman dei Black Label Society in Stillborn. Forse non tutti sanno che il nome della band deriva dalla viscerale passione che Wylde aveva per il Johnny Walker Black Label. Nel creare questa ricetta è stata presa ispirazione da quest’aneddoto e si è immaginato che il cantante invece che amare il whiskey fosse patito di pollo. Dall’aspetto molto cupo, a tratti definibile heavy, queste alette sono dei perfetti finger food da servire accompagnati alla salsa dolce, dai sapori molto southern, a cui abbiamo pensato di abbinarle. Preparazione: 1. Tagliate le alette seguendo le giunture e dividete ogni singola aletta in tre parti. 2. In una ciotola sufficientemente capiente versate tutti gli ingredienti e mescolateli con cura. 3. Aggiungete adesso le alette di pollo e coprite con la pellicola da cucina. 4. Riponete la ciotola in frigo per un minimo di 4 ore. Meglio se tutta la notte. 5. Fate soffriggere leggermente il peperoncino. 6. Sfumate con il Johnny Walker.

7. Aggiungete adesso i liquidi e le polveri e mescolate con cura. 8. Aggiungete il ketchup e portate a ebollizione. 9. Fate sobbollire il composto a fuoco lento fino a farlo ridurre di circa un terzo. 10. Aggiungete adesso ancora un po’ di Johnny Walker (è stato detto che la salsa sarebbe stata “heavy”). 11. Frullate ora il composto. 12. Aggiungete infine il miele per lucidare e aumentare la dolcezza, poi lasciate raffreddare. 13. Settate il kettle per una cottura indiretta (160°C circa). 14. Tamponate con un foglio di carta assorbente le alette in modo dal eliminare la marinatura in eccesso. 15. Disponete adesso le alette nella parte della griglia lontane dalle braci e lasciate cuocere fino al raggiungimento dei 72°C avendo cura di girarle almeno una volta. 16. Con un pennello spalmate la salsa sulle alette e passatele sulla fiamma diretta da entrambi i lati. Com’era quella famosa pubblicità? Se non ti lecchi le dita godi solo a metà. Forse un po’ abusata, e come sapete noi non amiamo moltissimo i tormentoni, ma sicuramente è uno slogan che possiamo prendere in prestito in questo caso, perché descrive perfettamente ciò che accadrà dopo che le avrete servite. MARZO 2020

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POLLO - RICETTE a cura della REDAZIONE

C R I S PY FRIED CHICKEN WINGS Avete presente quei fritti perfetti, non grondanti d’olio, senza la pastella molliccia, asciutti, croccanti, che fanno crunch al morso? Il segreto è la pastella fatta con la farina di riso, senza glutine, senza uova, croccantissima. Velocissima da preparare, deve avere la giusta consistenza e non deve essere né troppo liquida né troppo cremosa. L’assenza del glutine le impedisce di raggiungere la tipica viscosità di altre pastelle. L’utilizzo di acqua frizzante (comunque sempre molto fredda) può agevolare il raggiungimento di una consistenza più ariosa, poiché l’anidride carbonica contenuta fa gonfiare maggiormente la pastella mentre si sta friggendo. Le alette, una volta immerse, devono essere completamente ricoperte da questa cremina bianca semi-liquida. Dopodiché non ci accontentiamo: le passiamo nel Panko per un risultato ancora più goloso e crispy. Si fa prima a farle che a descriverle. Quindi non perdiamo tempo. Preparazione: 1. Togliete la pelle dalle alette di pollo e lasciatele da parte. Se volete un risultato più comodo al momento in cui andate a consumarle, potete anche disossarle.

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2. Preparate la marinata e poi immergetevi le alette. 3. Lasciatele riposare in frigorifero per almeno quattro ore. 4. Preparate la pastella, ricordando che deve essere semi-liquida. 5. Togliete le alette dalla marinata e passatele nella carta assorbente per levare quella in eccesso. 6. Passate le alette nella pastella facendo attenzione che vengano completamente ricoperte, poi passatele nel Panko. 7. Fate scaldare l’olio fino al raggiungimento di 180°C e poi immergetevi le alette. 8. Friggete per circa sette minuti; quando saranne dorate da tutti i lati, toglietele e passatele nella carta assorbente. Servitele caldissime e con una salsa di accompagnamento nella quale pucciarle senza pietà. Ricordatevi una cosa: vi abbiamo dato le dosi standard, ma sappiamo già che un kg di alette, specie fritte in questo modo, non vi saranno sufficienti, quindi raddoppiate le dosi e andate sul sicuro. Non vorremmo mai che ci accusaste di dare dosi da dieta ferrea!

I N G RED I EN TI

PER 4 PER SONE • un kg di alette di pollo per la marinatura • 100g olio • 70g di mirin (sostituibile con lo sherry) • 20 g salsa di soia per la pastella • 60g di farina di riso • 45. g di amido di riso (o patata/mais) • acqua frizzante fredda 500ml • 6 g sale • Panko q.b. (o pangrattato) • Olio per friggere q.b.


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PO L LO PA N K O PA N K O PO L LO

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POLLO - RICETTE a cura della REDAZIONE I Nuggets sono dei bocconcini dorati e croccanti di carne tritata di pollo impanati e fritti nell’olio bollente. Ideati da Robert C. Baker, professore in scienze dell’alimentazione specializzato in avicoltura alla Cornell University nello Stato di New York, fecero la loro prima comparsa sulle tavole statunitensi intorno al 1963. Fino agli anni ’50, il chicken non era un alimento molto apprezzato dagli americani, che preferivano di gran lunga mangiare il manzo e il maiale. A sottolineare tutto ciò, esistevano solo due modi di cucinare il pennuto: intero al forno, e a pezzi fritto. A capitanare l’inversione di tendenza fu l’innovatore Baker che pubblicò nel 1950 un bollettino di poche pagine, il “Barbecued Chicken and other meats” (Pollo alla brace e altre carni), in cui forniva le istruzioni per realizzare un barbecue di successo con il delizioso e nutriente volatile. All’interno dell’opuscolo, venivano date tutte le indicazioni per costruire un dispositivo in pietra fai da te e per preparare una deliziosa salsa (a base di olio, aceto di mele, uova e pepe), con la quale spennellare il pollo prima e durante la cottura. Il professore, infatti, era solito affermare Barbecued broilers without sauce are like bread without butter! (i polli alla brace senza salsa sono come il pane senza burro). Conquistato il grande pubblico con la sua ricetta, ad oggi ancora apprezzatissima e conosciuta con il nome di Chicken Cornell, Baker si prefissò un nuovo obbiettivo: ideare nuovi sistemi di lavorazione della carne avicola. Il suo grande impegno portò alla creazione di alcuni prodotti molto noti, come il prosciutto di tacchino, l’hot-dog e i nuggets di pollo. La fortuna di quest’ultimo prodotto è data dalla spessa panatura perfetta, nata da un profondo studio scientifico per legare bene la pastella alla carne in modo che non si staccasse durante la frittura.

La polemica

Nell’ultimo ventennio i piatti precotti della grande distribuzione realizzati con carni macinate, in particolar modo le cotolette e le crocchette di pollo e di tacchino, sono sul banco degli imputati perché l’opinione pubblica accusa le grandi case produttrici di realizzarli non solo con la polpa dell’animale, ma con l’intera carcassa tritata (occhi, becchi, zampe ed intestino ).

Una cosa è certa: fin dal loro esordio questi preparati sono nati dalla necessità di sfruttare il più possibile la materia prima trattata, dopo aver prelevato le parti nobili (nel caso del pollame, il petto e le cosce). All’inizio la carne veniva staccata manualmente dallo scheletro, ma il grande boom economico e la crescita esponenziale della domanda di questo tipo di alimenti resero necessaria la sostituzione della forza lavoro umana con le macchine, per velocizzare il processo di produzione. Dunque, negli anni ’60 fece la sua comparsa nel panorama dell’industria alimentare la separazione meccanica della carne. In che cosa consiste questo procedimento? Gli operai introducono poco per volta le carcasse in un grande setaccio che separa la polpa (compresi i tendini e le fibre muscolari) dalla struttura ossea con un processo di spremitura meccanico, ottenendo così un impasto omogeneo e malleabile con cui realizzare würstel , cotolette, crocchette, ripieni di tortellini etc. Il Reg. CE 853/04 definisce la carne separata meccanicamente “il prodotto ottenuto mediante rimozione della carne da ossa carnose dopo il disosso o da carcasse di pollame, utilizzando mezzi meccanici che conducono alla perdita o modificazione della struttura muscolo fibrosa”. Quindi, tutte le preparazioni create utilizzando questo tipo di prodotto, oltre ad essere a basso costo, si possono tranquillamente definire cibo spazzatura, perché arricchite di additivi, conservanti, sodio, grassi e aromi artificiali che nascondono il vero sapore. Inoltre i consumatori temono che la carcassa della bestia, prima di subire la fase di spremitura, venga immersa nell’ammoniaca per essere disinfettata nonostante l’autorità per la sicurezza alimentare europea (EFSA) vieti del tutto questa pratica. Tuttavia la degradazione delle fibre causate dal tipo di lavorazione aumenta fortemente il rischio di contaminazione, per cui gli alimenti, prima di finire sul banco frigo dei supermercati, devono sempre subire una pre-cottura per eliminare ogni rischio di proliferazione batterica (sulle etichette deve essere obbligatoriamente riportata la dicitura “consumare previa cottura”). Facendo attenzione alla lista degli ingredienti su questo tipo di prodotti, scoprirete che molti dei vostri cibi preferiti riportano la scritta “realizzato con carne MARZO 2020

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separata meccanicamente”. Sul sito de “Il fatto alimentare” troverete l’elenco di tutti gli impanati di pollo e di tacchino che utilizzano questo tipo di prodotto e in che percentuale. Come sempre, l’unico modo per essere sicuri di non mangiare quell’impasto rosa e simile al Pongo che vedete nelle foto in giro per il web è preparasi da soli un bel piatto di nuggets dall’inizio alla fine. Ecco la nostra proposta: dopo aver marinato il pollo nel succo d’arancia ed averlo cotto a bassa temperatura affumicandolo, lo triteremo e lo impaneremo nel panko. Come avete letto nel numero di Febbraio, questo tipo di panatura quando entra a contatto con l’olio caldo non frigge, ma gonfia incamerando aria; il sapore del fritto non sovrasterà, quindi, il gusto dell’alimento. In questo modo i nuggets manterranno la loro tipica croccantezza ma al contempo conserveranno succosità e morbidezza. Preparazione: 1. In un contenitore versate l’olio d’oliva, il succo d’arancia, il miele, il sale il pepe e la senape ed emulsionate gli elementi insieme con la frusta. Versate il composto ottenuto all’interno di un sacchetto insieme al pollo (così il petto sarà totalmente avvolto dalla marinatura) e riponetelo in frigo per una notte. 2. Togliete il pollo dalla marinata ed asciugatelo bene con la carta da cucina, almeno un’ora prima della messa in cottura. 3. Preparate il vostro dispositivo per una cottura indiretta a 130°C , mezza ciminiera di bricchetti sarà più che sufficiente. Una volta inserito il combustile nel dispositivo, chiudete il coperchio. 4. Spennellate il petto con l’olio extravergine di oliva e aromatizzate la superficie con sale e pepe. Appoggiatelo direttamente sulla griglia dalla parte opposta delle braci e affumicatelo con due manciate di petali di legno aromatico. Chiudete il coperchio e lasciatelo cuocere. 5. Mentre il pollo è in cottura, preparate il panko. Prendete 300 g di pane, eliminate la crosta e frullatelo nel mixer per pochi secondi, perché deve avere una consistenza molto grossolana. 6. Distribuitelo su una teglia rivestita di carna forno e fatelo essiccare a 60° C per 20 minuti circa. Mi raccomando, il pane va solo disidratato e non cotto, quindi è 58 - BBQ4All MAGAZINE

imperativo che mantenga un bel colore bianco. 7. Quando il pollo ha raggiunto al cuore una temperatura di 70° C, toglietelo dalla griglia e lasciatelo intiepidire. Successivamente, tagliatelo a fettine e frullatelo nel mixer insieme al pane bianco e a due cucchiai di latte. Se l’impasto dovesse risultare troppo asciutto, aggiungete un poco di latte. Alla fine deve diventare compatto e malleabile. 8. Unite al composto un po’ di timo in polvere ed amalgamate il tutto. Aggiustate con sale e pepe. 9. Realizzate delle palline e schiacciatele passandole prima nella farina, poi nell’uovo sbattuto con un pizzico di sale ed infine nel panko che avrete distribuito su un piatto. 10. In una padella scaldate l’olio di semi e friggete poco alla volta i nuggets. Quando sono belli dorati da entrambe le parti, toglieteli dal fuoco e passateli nella carta da cucina per eliminare l’olio in eccesso. Serviteli caldi e con una gustosa salsina di accompagnamento.

INGR EDI EN TI

PE R 4 PER SONE • 400 g circa di petto di pollo • 1 l di succo d’arancia • due cucchiai di olio d’oliva extravergine • mezzo cucchiaio di miele • sale q.b. • pepe q.b. • 100 g di Parmigiano grattugiato • mezzo cucchiaino di senape • due cucchiai di latte • due uova • farina q.b. • 1l di olio di semi d’arachidi • 400g di pane bianco in cassetta o panko


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POLLO - RICETTA a cura di MICHELA BONGIORNI

I L G A L LE T TO pudico Uno dei grandi classici, quello che proprio non può mancare sulle tavole dei griller amanti del pollo (so che ci siete, uscite allo scoperto e nessuno si farà male) è il galletto grigliato. Con la scusa de lo faccio perché piace ai bambini, o mia suocera lo ama o mia moglie vuole solo carne bianca, vuoi o non vuoi il pennuto è onnipresente in tutte le varie braciate familiari e domenicali, insieme alle verdurine e alle patate. Il povero e bistrattato galletto, definito spesso su Facebook banale, scontato, insapore, inutile è come una moglie tradita ma dalla quale i fedifraghi tornano sempre. Insomma, in moltissimi lo cuociono, ma in quanti lo fanno diventare davvero buono? Non sarà che la pessima reputazione del galletto, come del pollo, dipenda dal risultato finale, con carne asciutta e stoppacciosa, pelle flaccida e sapore deludente? Ho visto galletti maltrattati in griglia durante tutta la mia adolescenza, quando mio padre, da perfetto uomo di casa, decise di diventare l’addetto alle grigliate. Quei poveri polletti, sbattuti sulla griglia in cottura diretta, girati e rigirati dopo essere stati spennellati con un rametto di rosmarino bagnato nell’olio, la cui carne al morso era simile alla suola di gomma delle mie Converse e terribilmente pericolosa per le protesi di nonna, hanno popolato i miei incubi. La pelle, poi. La pelle, santo cielo. Se la masticavi abbastanza a lungo potevi farci le bolle come con le Big Bubble. A quel tempo mi limitavo a constatare i danni, adesso so perfettamente perché il risultato era così devastante. Somministrando calore diretto al galletto, mio

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padre non dava il tempo alla pelle di disidratarsi e la rendeva bruciacchiata ma molliccia. Al contempo, la carne perdeva tutta la succosità diventando dura e asciutta. In realtà, ho già avuto modo di dirlo in passato, se cucinato bene il pollo, o il galletto in questo caso, è una preparazione passe-partout che piace proprio a tutti: vi salva la vita con gli ospiti che si rifiutano di assaggiare carne al sangue (anche se sono sicura che ultimamente ne avrete convertiti parecchi), i bambini lo adorano, le mamme anche, per non parlare delle fidanzate perennemente a dieta. È un cibo rassicurante, confortevole, di cui tutti si fidano perché lo conoscono. Il punto però è uno: deve essere cucinato in modo perfetto, perché in caso contrario diventa schifosissimo e immangiabile. Niente paura, non è difficile. Basta somministrargli calore dolce per convezione, quindi mettendo il galletto in cottura indiretta, con coperchio chiuso e a temperatura moderata. A quel punto la pelle, preventivamente cosparsa di olio e di spezie, tenderà a disidratarsi. Allo stesso tempo, la temperatura di esercizio intorno ai 140°C favorirà la reazione di Maillard, generando una superficie scura, profumata e croccante. Infine, la carne, contraendosi lentamente grazie alla temperatura non altissima, manterrà un livello di succosità molto elevato. Un consiglio? Aprite il galletto incidendolo sulla schiena invece che sul petto: in questo modo si riesce a limitare la perdita di umori preziosissimi, che invece escono copiosi dalle parti esposte al taglio usando il metodo tradizionale.

E inoltre il pennuto a quel punto assume una posa maliziosamente pudica e accattivante, che volendo è anche una dichiarazione di intenti: dalla scontata e un po’ noiosa esperienza coniugale del sabato sera, è pronto a mettersi le calze a rete del gusto e farvi fare le capriole. Preparazione: 1. Aprite a libro i galletti, dopo aver controllato che non abbiano residui di piumaggio (e in tal caso rimuoveteli o bruciateli con un cannello) incidendoli sulla schiena, spennellateli con un velo d’olio e insaporiteli con un po’ di sale, un po’ di pepe e un cucchiaino di rub Tennessee BBQ4All. Potete fare questa operazione anche una notte prima. 2. Accendete mezza ciminiera di bricchetti e versateli nel dispositivo per una cottura indiretta. Chiudete il coperchio e stabilizzate il dispositivo a 140°/150°C. 3. Ponete i galletti in cottura indiretta con la pelle rivolta verso l’alto e chiudete il coperchio del dispositivo: in questa fase, se volete, potete anche affumicare con chips di legno aromatico, senza mai esagerare. 4. Nel frattempo in una ciotola, emulsionate il succo di limone, l’olio, la senape e il miele. 5. Quando i galletti avranno raggiunto i 72°C interni e la pelle sarà croccantina, spennellateli con l’emulsione che avete preparato e chiudete di nuovo il coperchio per farla rapprendere. 6. Quando saranno belli lucidi e glassati, toglieteli dalla griglia e serviteli: non sarà necessario litigarsi le cosce coi vostri figli, perché scoprirete che l’intero galletto sarà succulento e umido al punto giusto.


I N G RED I EN TI

PER 4 PER SONE • 2 galletti • 125 ml di succo di limone • 250 ml di olio extravergine di oliva • due cucchiai di miele millefiori • 1 cucchiaio di senape di Digione • sale q.b. • pepe q.p. • mezzo cucchiaio di Tennessee Mild Dry Rub BBQ4All

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IL DOLCE - RICETTA a cura della REDAZIONE

una

C H E E S ECA K E

che veniva da lontano

Che vi troviate da Billy’s Bakery sulla 9th Avenue nel quartiere Chelsea di New York o al Junior’s Bar sulla 45th Street di Wall Street di Broadway, di una cosa siamo certi: avete in mano una meravigliosa fetta di cheesecake newyorkese. È la torta al formaggio più diffusa al mondo e uno tra tra i dolci più antichi. Per quanto la si accosti alla tradizione americana, la storia dice ben altro riguardo alle sue origini. La sua collocazione tra i riferimenti storici è nel 776 a.C., a Delos in Grecia. Pare che proprio nell’isola greca, durante i primi giochi olimpici, gli atleti venissero rifocillati con un dolce a base di formaggio di pecora e miele. Ne fa riferimento Callimaco, poeta e filosofo greco del III° sec. a.C., attribuendo la ricetta ad Egimio, autore di un testo sulle torte al formaggio. Un secolo dopo anche Marco Porcio Catone, detto Catone il Censore, nel Liber De Agri Cultura, cita un dolce realizzato con dischi di pasta contenente un ripieno di formaggio e miele aromatizzato con alloro. In Grecia tutt’oggi si porta avanti la tradizione di questa deliziosa torta. Si chiama mizithropita e prende il nome dal formaggio utilizzato, il mizithra. Si realizza una base con impasto di farina, con la quale si crea una piccola pallina. Quest’ultima viene riempita al centro con il mizithra e successivamente schiacciata a formare una pita che andrà fritta nell’olio e guarnita con miele. Se ci pensate, ricorda la Seadas. Che sia anche quest’ultima una discendente dell’antica cheesecake? Non diciamolo ai sardi. Spostandoci per l’appunto in Italia, si 62 - BBQ4All MAGAZINE

trovano versioni di torta al formaggio quasi in ogni regione: dalla torta laurina laziale, alla pastiera napoletana, dalla pizza di ricotta abruzzese, alla versione lucana con il liquore Strega, fino alla parmense torta Susanna, una crostata ripiena di ricotta e ricoperta di un guscio golosissimo di cioccolato fuso. Spostandoci sulle Isole, la Sicilia e la Sardegna sono protagoniste nell’utilizzo del formaggio nelle preparazioni dolciarie. I greci, che importarono in Sicilia la ricotta, insegnarono alla popolazione locale a produrla. Gli ellenici già producevano la placentam, un torta a base di questo goloso formaggio, e una leggenda narra che siano stati proprio loro i primi ad inventare la cassata siciliana.

Analizziamo questi tre aspetti.

Oltre a questa torta famosa, altri a base di formaggio caratterizzano la pasticceria siciliana: i cannoli, le cassatelle, i cartocci, la cuccìa di Santa Lucia e gli sfinci di San Giuseppe. La Sardegna annovera anch’essa una vasta scelta di prodotti dolciari a base di formaggio. Ricordiamo, tra tutti, le casadinas, cestini di pasta di semola friabile ripiene di ricotta, uova, uvetta e aromatizzate con scorze di arancia e limone, e la seadas, già menzionata prima. Ecco che ritorna così quel disco di pasta che racchiude un formaggio di pecora e che si accompagna divinamente con il miele.

Crema al formaggio: qui troviamo le vere differenze. La tipologia del formaggio utilizzato varia di Paese in Paese, perché di solito si predilige il prodotto locale. Sicuramente viene utilizzato un formaggio cremoso. In Italia si adoperano più diffusamente la ricotta e il mascarpone, in proporzioni variabili. In Francia questa torta viene fatta con il neufchâtel.

Tornando alla nostra cheesecake, la versione che noi tutti conosciamo ha come caratteristiche tre elementi principali: il fondo croccante, spesso qualche centimetro, principalmente costituito da biscotti secchi, la crema al formaggio voluminosa e morbida, e il topping di decorazione che conferisce una nota acidula.

Fondo: è prevalentemente fatto di biscotti secchi, tritati e poi uniti al burro fuso per creare una base di sostegno della crema, solida e saporita. A Malta, si utilizzano i biskuttini tar-raħal e la farina di mandorle. In Polonia, nel popolare Sernik invece il fondo viene omesso e l’intera cheesecake è di solo formaggio Twarog, molto simile alla ricotta. In Ungheria, la Sajttorta, facile da trovare a Budapest, ha come base il muesli. Troviamo delle versioni di torta al formaggio anche in Giappone (Cotton Cheesecake), in Nepal (Panira madhye keka), in Sudafrica (Rose Cheesecake), in Germania (Käsekuchen) e in Svezia (Ostkaka).

La versione più moderna e ormai globalizzata utilizza il più famoso Philadelphia nato nel 1872 da un lattaio newyorkese di nome William Lawrence. Tentando di ricreare proprio il Neufchâtel, produsse questo nuovo prodotto caseario cremoso che è diventato quello più diffuso al mondo e utilizzato principalmente come base moderna dell’attuale cheesecake. Guarnizione: questo dettaglio del dolce è di libera interpretazione. Segue spesso il gusto personale di chi lo prepara: spes-


so la versione newyorkese prevede una copertura di frutta fresca, con o senza coulis. In ogni caso, niente vieta di potersi deliziare di una fetta di cheesecake senza guarnizione. Per voi abbiamo adottato la versione con coulis e frutta fresca. Esistono fondamentalmente due modi per fare una cheesecake: la versione a crudo e quella cotta. Cosa le differenzia? L’uso degli ingredienti che fanno da legante. Nella versione cruda e fredda, l’elemento legante può essere di origine animale come un foglio di gelatina o vegetale come l’agar agar. Nella versione cotta, che principalmente prevede la ricotta come formaggio, si prevede l’uso di uova e/o panna che creino consistenza e sapore.

Veniamo adesso alla nostra versione della cheesecake. Creeremo il classico fondo realizzato con biscotti secchi, ai quali daremo una nota croccante e saporita inserendo una percentuale di frutta secca, precedentemente caramellata e affumicata, e un tocco di Rub Mount Nimba BBQ4ALL con note di caffè, cioccolato e vaniglia. Andremo inoltre ad affumicare la ricotta su placca di legno, che poi utilizzeremo come formaggio principale di questo dolce. Inseriremo poi il mascarpone come elemento cremoso, per dare morbidezza e delicatezza.

La ricotta sarà l’ come ingrediente principale, di tipo vaccino, grassa e corposa, che unita alle uova sosterrà il volume dell’intero dolce.

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Preparazione: 1. Settate il vostro dispositivo per una cottura indiretta stabilizzandolo sui 120° C in griglia. 2. Fondete 30 g di burro in un pentolino e unitelo alla frutta secca in una boule. 3. Aggiungete 20 g di zucchero e il rub, quindi mescolate sino a ricoprire interamente la frutta secca. 4. Utilizzate una teglia per stendere la frutta secca e lasciatela affumicare con chips di noce pecan per circa due ore, nel vostro dispositivo. 5. Lasciatela raffreddare e poi tritatela con l’ausilio di un mixer. 6. Tritate con un mixer i biscotti secchi. 7. Sciogliete i restanti 70 g di burro e uniteli in una ciotola insieme a 30 g di zucchero, ai biscotti e alla frutta secca tritata, fino ad amalgamare bene l’impasto. 8. Coprite il fondo e i lati di una tortiera da 24 cm di diametro, con carta da forno. Versate all’nterno l’impasto di biscotti. 9. Stendete bene il fondo, compattandolo con le dita e uniformandolo sino ad ottenere uno strato spesso omogeneo e liscio. 10. Realizzate un leggero bordo rialzato di circa 2 cm tutto intorno. 11. Lasciatelo riposare in frigo per mezz’ora. 12. Bagnate una placca di legno di cedro e, dopo averci messo sopra le vostre formine di ricotta, fate affumicare in cottura diretta per circa 10 minuti, sino a colorazione della ricotta. 13. Toglietele e lasciatele raffreddare. 14. Iniziate sbattendo le uova con lo zucchero in una ciotola capiente. 15. Inserite nella ciotola il mascarpone e, con l’aiuto di una frusta, amalgamate il formaggio alle uova sino ad ottenere un composto liscio. 16. Incidete una bacca di vaniglia in due parti ed estraetene la polpa al suo interno, quindi inseritela nel composto di formaggio. 17. Unite la ricotta al composto, legando i due ingredienti. 18. Aggiungete la scorza di un limone grattugiato e il succo di limone, e continuando a mischiare con la frusta aggiungete anche il sale e la panna non montata. 19. Versate l’intera crema ottenuta all’interno della tortiera. 20. Riponetela in frigo e settate il dispositivo sui 180°C in griglia per una cottura indiretta, con vent out aperte di un quarto. 21. Lasciate cuocere nel vostro dispositivo per mezz’ora circa, dopodiché stabilizzate sui 150/160° C e lasciate cuocere ancora per 20 minuti. 22. A fine cottura, chiudete le vent in e aprite del tutto le vent out e lasciate raffreddare completamente l’interno del dispositivo. 23. Lavate i lamponi e fateli cuocere a fuoco medio in una padella antiaderente per due minuti circa. 24. Spostateli dalla fiamma e unite lo zucchero a velo e il limone, rimestando con una frusta . 25. Fate andare ancora un minuto a fuoco medio. 26. Toglieteli dal fuoco e passateli al colino, pressando con una spatola e raccogliendo la salsa in un contenitore; poi lasciatela raffreddare. 27. Sformate la torta dallo stampo quando già fredda. 28. Mescolate la panna acida con lo zucchero a velo e ricoprite la superficie della torta, livellandola. 29. Versateci sopra la coulis di lamponi e adagiate a piacere i frutti di bosco. Servitela fredda. Meglio ancora, servitela dopo averla fatta riposare almeno mezza giornata in frigorifero, perché si fondano i sapori. 64 - BBQ4All MAGAZINE


I N G RED I EN TI

PER 4 PER SONE Per la base • 200 g di biscotti secchi • 40 g di nocciole • 40 g di mandorle • 40 g di noci o anacardi • 100 g di burro • 50 g di zucchero • 30 g Rub Mount Nimba BBQ4ALL Per la farcitura • 600 g di ricotta • 250 g di mascarpone • 100 g di zucchero • 2 uova • 100 ml di panna fresca • una bacca di vaniglia • 3 g di sale • un limone (scorza grattugiata) • un cucchiaio di succo di limone Per la coulis ai frutti di bosco • 250 g di lamponi • 50 g di zucchero a velo • 30 g di succo di limone Per la guarnizione • 300 ml di panna acida • 40 g di zucchero a velo • Frutti di bosco a piacere

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VINI VINIABBINATI ABBINATIa acura curadidiENIO ENIOBERTON BERTON

È ORA DI

BERE! abbinamenti consigliati

CON LA PANCIA DI MAIALE

Questa bomba calorica, dove lo zenzero ha il difficile compito di sgrassare il piatto, la possiamo cucinare con o senza la cotenna ma, ai fini del nostro abbinamento, cambia ben poco. Ci troviamo di fronte sicuramente ad un piatto ricco e corposo che, come detto, lascia allo zenzero il difficile compito di dare freschezza e contrastare le parti grasse cercando di non coprirne il gusto. La scelta di un vino rosso in questo caso è d’obbligo, ma si potrebbe spaziare partendo da qualche vino frizzante (magari un Gutturnio o un Lambrusco) fino ad arrivare su un rosso maturo con un’anima strutturata ma con tannini non troppo aggressivi o giovani.

V I S TO R TA Vino: Cantina:

Merlot Vistorta 2011 Conti Brandolini d’Adda

La cantina Conti Brandolini d’Adda si trova nel comune di Sacile in provincia di Pordenone, la cui storia è strettamente legata al fiume Livenza che attraversa l’attuale centro storico. In località Vistorta sono presenti la tenuta e l’antica sede in una villa veneziana. I vigneti di Merlot sono dislocati attorno alla villa, mentre nella sede di Cordignano (in provincia di Treviso) sono presenti le altre varietà. Fondata nel 1800 dal conte Guido Brandolini ha subìto, nel corso degli anni, una conversione ai metodi biologici seguendo le regole di produzione dei grandi vini francesi che l’attuale erede, il conte Brandino, con l’aiuto dell’enologo francese George Pauli, ha fatto propri. La raccolta e la spremitura avvengono separate vigneto per vigneto; il mosto rimane a contatto con le bucce fino ad un massino di 25 giorni per poi essere, in parte, posto in barrique per la fermentazione malolattica. Una volta assemblato, continua la vinificazione in barrique per 12 mesi, successivamente viene affinato in bottiglia per almeno 5 mesi. Dal colore rosso rubino brillante, al naso i profumi di frutti a bacca rossa ed i sentori di frutta sotto spirito ti avvolgono e già ti fanno pregustare il sorso. L’evoluzione nel bicchiere fa spuntare note di caffè e di cacao. In bocca risulta pieno, corposo confermando le note di frutta soprattutto di sottobosco. Fin di bocca pulito, persistente. Da servire a 18/20 gradi in calici ampi. Uve: 100% Merlot Zone produzione: Vistorta (PN) Grado alcolico: 12,50%

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CON I JIAOZI

Jiaozi in cinese, in giapponese gyoza ed in coreano gyoja: sono un piatto tipico della tradizione culinaria di questi paesi. In Cina sono spesso offerti durante il capodanno cinese come forma di augurio e di buona fortuna per il nuovo anno, grazie alla loro forma molto assomigliante ad una moneta, il tael d’oro. Il ripieno e il tipo di cottura sono molto importanti per decidere quale vino abbinarci. La cottura al vapore è la più conosciuta nel nostro continente anche se sono ugualmente ottimi sia bolliti che brasati. Per quanto riguarda il ripieno, oltre alla tradizionale carne di maiale tritata possiamo trovarli con crostacei o con verdure. In accompagnamento, la salsa di soia non può mancare ma non dimentichiamo anche lo zenzero e l’aceto di riso. Il vino deve reggere le note aromatiche del piatto e la delicatezza della pasta che avvolge il ripieno ma non deve assolutamente sovrastarne il sapore. La scelta, pertanto, può cadere sulle classiche bollicine, rigorosamente brut mi raccomando, oppure possiamo idealmente rimanere da quella parte del globo scendendo verso il polo sud per arrivare nella nazione che molti definiscono l’Italia dall’altro capo del mondo, la Nuova Zelanda. È un Paese conosciuto per i grandissimi giocatori di rugby che con la loro danza propiziatoria, l’Haka, cercano di incutere timore agli avversari. Non incute timore ma fa sorgere curiosità la vasta produzione di vino di qualità, soprattutto di quello bianco, con il Sauvignon Blanc che primeggia su tutti. Le coltivazioni iniziarono con l’arrivo dei primi immigrati dall’Europa confinati, per un lungo periodo, nella parte nord del Paese. Fu negli anni ‘60 che, da una intuizione di due fratelli giocatori di rugby, Phil e Ross Spencer, iniziò la coltivazione del Sauvignon Blanc nella zona di Malborough nella parte nord dell’isola più a sud. Grazie alle bottiglie con il classico tappo a vite (che secondo molti è il miglior tappo per i vini bianchi) le aziende neozelandesi hanno invaso il mercato mondiale con vini freschi sapidi e profumati. I vitigni sono il Sauvignon Blanc, lo Chardonnay, il Muller-Thurgau e il Pinot Nero.

T E KO KO Vino: Cantina:

Marlborough Sauvignon Blanc Te Koko 2016 Cloudy Bay

Coltivato nella zona di Marlborough e più precisamente nelle aree vinicole di Rapaura, Brancott e Renwick, questo vino viene prodotto dalla cantina Cloudy Bay nata nel 1985 e di proprietà del grande gruppo francese LVMH (Dom Perignon,Ruinart, Moet e Chandon, Hennessy solo per citare alcune loro Maison). La vendemmia, rigorosamente manuale, avviene nella prima settimana di aprile – siamo dall’altra parte del mondo, ricordatelo- e dopo una leggera pressatura la fermentazione continua in botti di rovere francese con i propri lieviti. Continua l’affinamento in botte sulle fecce fini. Alla vista risulta giallo paglierino, al naso le note fruttate arrivano schiette e precise, con sentori di pompelmo e di pesca bianca impreziosite da crema di limone e cera d’api. In bocca risulta fresco, equilibrato con note di legno e di leggera affumicatura. Fin di bocca persistente, gradevole e fresco. Da servire a 10/12 gradi in calici tulipano. Uve: 100% Sauvignon Blanc Zone produzione: Marlborough Grado alcolico: 12,50%

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BIRRE CONSIGLIATE a cura di RICCARDO MENICONI

CON I NUGGETS DI POLLO

B I R RA N U G G E TS IMPERIAL ZEST Pepite di pollo croccanti e succulente. I Nuggets sono deliziosi bocconcini perfetti da abbinare ad un ottima pinta bevuta al bancone del nostro pub preferito. Se poi li rendiamo speciali con una marinatura agli agrumi, una leggera affumicatura e la panatura super croccante del panko possiamo solo sperare che non finiscano mai. Naturalmente vorremmo vederli recapitare al nostro sgabello insieme ad una birra in grado di esaltarne ed accompagnarne le incredibili sfaccettature di sapori e consistenze. In questo caso l'abbinamento può sembrare azzardato, soprattutto dal punto di vista del volume alcolico, ma noi siamo impavidi e non ci lasciamo certo scoraggiare da un numero scritto sull'etichetta, no? Anche perchè l'Imperial Zest questo numero lo nasconde molto bene, pericolosamente bene oserei dire. Sorella maggiore della Zest del birrificio Extraomnes, possiamo definirla come una Saison "on steroids", o come si legge sulla scheda tecnica, Belgian Strong ale. Versandola nel bicchiere ci incanta fin da subito con il suo colore arancio opaco con sfumature dorate. La schiuma è da manuale, compatta, spessa e molto persistente, al primo sorso vi sembrerà di affondare le labbra in una nuvola profumata. Al naso spiccano note di agrumi come pompelmo, arancia e mandarino, accompagnate dalla dolcezza dell'ananas maturo e da sentori di litchi. In bocca è molto coerente, ritroviamo una bella polpa d'arancia e di frutta gialla matura con note predominanti di zest di agrumi. Il corpo è incredibilmente snello e veloce, sostenuto da una base maltata di cereale e da note speziate di pepe che nel finale tendono ad amplificarsi insieme ad un leggero calore etilico, che vi si propagherà dal centro del petto seguito da un infinito benessere. Va infine a chiudere con un perfetto bilanciamento tra dolce e amaro, in un limbo di secchezza che subdolamente vi attirerà verso il sorso successivo. Attenzione, questa birra è in grado di metterti K.O senza che neanche ve ne accorgiate. È facile farsi trasportare da questo grande capolavoro brassicolo. Vi consiglio di servirla ad una temperatura di 10-12°C in un calice a tulipano.

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CON IL GALLETTO

MUKKELLERINA Mentre scrivo posso sentirne l'odore, immaginando la pelle che sfrigola sulla griglia rovente, la succosità delle carni, l'incredibile lucentezza data dalla glassa al miele e limone. Una vera e propria poesia gastronomica. Il galletto alla griglia è un piatto semplice ma che può dare grandi soddisfazioni, schietto e diretto, un comfort food nella massima espressione. Perfetto da abbinare a una birra da bere...sempre, sempre, sempre!!! Questa è la dicitura che troviamo nel retro dell'etichetta della Mukkellerina, la Keller di casa Mukkeller, mi scuserete il gioco di parole. È un birrificio che sorge sulle coste del Fermano, più precisamente a Porto Sant'Elpidio, vincitore nel 2019 come miglior birrificio d'Italia al Birra dell'anno, concorso dell'Assocazione Unionbirrai che premia ogni anno le migliori birre nelle proprie categorie secondo il BJCP e il miglior birrificio in assoluto. Ma veniamo alla birra, probabilmente la mia Keller italiana preferita. Nel bicchiere scende limpida, cristallina dal colore dorato coronato, dalla perfetta schiuma bianca dal perlage fino e compatto. Al naso esce subito un guizzo di miele millefiori, e quel cereale che ti apre lo stomaco, come dal fornaio in piena notte aspettando il tuo trancio di pizza appena sfornato. Il tutto contornato da note erbacee e di fieno un po' secco. In bocca entra decisa, ritroviamo la crosta di pane ed il miele, scende bene, l'amaro è sottile ed equilibrato dai sapori garbatamente maltati; chiude asciutta, la bevuta è veloce e serrata, non c'è tempo per riprendere fiato, ne devi fare subito un altro bel sorso. I 4,8 gradi abv in fondo ce lo permettono e la bottiglia da mezzo litro aiuta. Bevi e fatte grossu ci intima l'etichetta, e chi siamo noi per non obbedire? Salute!

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IL COCKTAIL CONSIGLIATO a cura della REDAZIONE

WA S A B I M A RY

L'involtino primavera è un piatto tipico della cucina cinese, servito spesso come antipasto ma può essere anche un ottimo aperitivo. Quindi perché non abbinarlo ad un cocktail dai sentori orientali come un Wasaby Mary a base di sakè? Il sakè è la bevanda alcolica tradizionale giapponese e si ottiene tramite la fermentazione del riso, non dalla distillazione come parecchi credono. Sembra abbia fatto le prime apparizioni nella Cina del 5000 a.C. e che solo successivamente sia stato portato in Giappone. I primi produttori, dovendo scindere gli zuccheri complessi in zuccheri semplici per permettere ai lieviti di trasformali in alcool, e non conoscendo ancora la tecnica della maltazione, erano costretti a masticare il riso per poi sputarlo per farlo fermentare. Da questo processo prende il nome il primo sake, “Kuchikami”, letterlamente masticato in bocca. Si consuma principalmente durante i pasti, come un vero e proprio vino di riso, e può essere servito sia freddo, in bicchiere di vetro, o caldo, in tazze di ceramica. Freddo, se di buona qualità, è paragonabile ad un nostro vino bianco, con sentori molto particolari e intriganti. Se lo vogliamo invece gustare caldo va scaldato a bagnomaria nella sua bottiglia tradizionale, il tokkuri, e va lasciato intorno ai 37/40 gradi per apprezzarne al meglio ogni sfumatura. Nel nostro caso andrà a sostituire la vodka e donerà un'incredibile aromaticità e complessità al drink. Procediamo quindi alla preparazione. Riempiamo il mixing glass di ghiaccio e versiamo: - 2 parti di sakè - 3 parti di succo di pomodoro - 2 gocce di tabasco (o più a vostro piacere) - una goccia di salsa Worchestershire - un quarto di parte di succo di limone - un pizzico di wasabi - sale e pepe q.b. Mescoliamo velocemente e striniamo in un tumbler alto colmo di ghiaccio. A guarnire un gambo di sedano e una fettina di zenzero fresco. 70 - BBQ4All MAGAZINE


LO SPEZIALE DEL BARBECUE a cura di LUCA GALLOZZA

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CINQUE SPEZIE CINESI

Conosciuta e apprezzata ormai in tutto il mondo, la polvere cinque spezie è una miscela largamente utilizzata nella cucina cinese. Riuscire a risalire alle esatte origini di questo blend di sapori non è molto facile. C’è chi sostiene sia stato un cuoco inciampato per puro caso in questa combinazione felice di aromi e chi invece pensa che i cinesi stessero cercando una specie di polvere esplosiva e meravigliosa che si adattasse a qualsiasi preparazione. La Cina è certamente un grande paese in cui le spezie, le erbe aromatiche e quelle medicinali costituiscono le componenti immancabili di ogni pietanza, valorizzano il sapore dei piatti e possiedono anche proprietà terapeutiche Sappiamo che sotto gli Han (206 a.C- 221 a.C) in Cina si decise di recuperare tutte le opere letterarie per rielaborarle secondo modelli concettuali precisi. Tra le ope-

re principali dell'epoca c’è lo Huangdi Neijing (Libro interno dell’Imperatore Giallo), considerato ancora oggi una delle fonti principali della medicina tradizionale e della cultura cinese; esso comprende anche lo yangsheng (养生, coltivare la vita), ovvero l'insieme di quei principi che servono a coltivare la propria vita in tutti i vari aspetti per renderla migliore. I cibi ritenuti come principale rimedio preventivo e terapeutico vengono classificati in macro-categorie: cereali, frutta, verdura, carne e pesce. A questo periodo, quindi, risale la frase cardine della dietetica cinese: cura con i cinque sapori, i cinque cereali e le cinque erbe. La teoria dei cinque elementi è il punto cardine di tutto il pensiero filosofico cinese: secondo questa teoria, ogni vita umana si svolge sulla base dei cinque elementi: legno, fuoco, terra, metallo e

acqua. Questo modello viene utilizzato anche in cucina, raggiungendo per quanto possibile l’armonia tra i pasti. Secondo la Medicina Tradizionale cinese, anche i cinque gusti – aspro, amaro, dolce, piccante e salato - si rispecchiano nei cinque elementi, tramite i quali è dunque possibile influire sulle funzioni dell’organismo. Nello specifico: dolce e neutro per l’elemento terra, piccante per l’elemento metallo, salato per l’elemento acqua, amaro per l’elemento fuoco, aspro per l’elemento legno. La polvere cinque spezie rispetta esattamente questo equilibrio ed è la mistura ideale per insaporire carni bianche come anatra, pollo o maiale, ma anche i frutti di mare prima della cottura. Analizziamo a fondo questo fantastico miscuglio e vediamo le proprietà individuali di ognuno degli aromi che lo compongono.

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ANICE STELLATO (LEGNO) Nome scientifico: Illicium verum Nome Volgare: Anice stellato cinese, badiana Origine: Cina Parti utilizzate: Semi

CANNELLA (FUOCO) Nome scientifico: Cinnamomum verum Nome Volgare: Cinnamomo, cannella vera, cannella di Ceylon Origine: Sri Lanka Parti utilizzate: Corteccia

PEPE DI SICHUAN (METALLO) Nome scientifico: Zanthoxylum piperitum Nome Volgare: Fagara, fiore del pepe Origine: Cina, Sichuan. Parti utilizzate: bacche, foglie

Nonostante questa spezia fosse nota in Cina da tempi immemori, Marco Polo ne custodì gelosamente le origini, perché commercialmente si vendeva a peso d'oro. Fu poi un marinaio inglese di nome Cavendish ad importarla in Europa alla fine del XVI secolo. Il frutto a 8 punte a forma di stella, oltre ad avere un aspetto molto elegante, è da molti considerato sensuale. L'anice stellato è il frutto della badiana. La raccolta avviene quando è ancora verde per essere poi essiccato al sole assumendo il caratteristico colore bruno-rossastro. All'interno dei baccelli sono presenti i semi, con un forte sentore di anice. È utilizzato nella medicina tradizionale cinese per curare infiammazioni, nervosismo, insonnia e dolore; ha proprietà antibatteriche, antimicotiche e antiossidanti. Il suo sapore è simile a quello della cannella unita agli agrumi e ai chiodi di garofano, e si concentra solo nel pericarpo (o guscio) e non nei semi. Questa spezia è originaria della Cina e non ha niente in comune con l'anice che si trova nel bacino mediterraneo, seppur condividano al loro interno lo stesso olio essenziale, l'anetolo. Non deve essere confuso nemmeno con un altro tipo di anice stellato, quello giapponese, detto anche Shikimi, che ha frutti più piccoli e rotondi e semi con un piccolo uncino. Quest'ultimo è pericoloso in quanto contiene oli essenziali neurotossici e stupefacenti. In cucina oltre ad essere una delle componenti principali della miscela delle cinque spezie cinesi, l’anice stellato può essere utilizzato intero per piatti a lunga cottura. Lo troviamo anche in pietanze vietnamite, giamaicane e indiane.

È una spezia antica diffusa in vari paesi come le Seychelles, il Madagascar e il Sudamerica. La qualità migliore, più raffinata e costosa è la cannella Ceylon, originaria dello Sri Lanka. Fu scoperta dai portoghesi nel 1505, motivo per il quale gli inglesi e gli olandesi si contesero il dominio dull’isola per molti anni a venire. La Compagnia delle Indie ne detenne il monopolio sino ai primi dell'ottocento finché non venne liberalizzata. La varietà che però più facilmente viene utilizzata nella miscela delle cinque spezie è la cannella Cassia, che ha un aroma meno raffinato, leggermente più amaro e pungente rispetto a quella Ceylon. Entrambe sono ottenute dalla corteccia di un alloro sempreverde. All'età di due anni, l'albero viene tagliato per far si che cresca a cespuglio e formi nuovi germogli che diventeranno, appunto, cannella. Ha proprietà benefiche antimicrobiche, eupeptiche e carminative. Tuttavia è bene ricordare che la cannella contiene delle sostanze chiamate Cumarine le quali, se assunte in quantità elevata, possono essere epatotossiche, cioè dannose per il fegato e i reni. La Cassia ne contiene anche 63 volte di più rispetto alla Cannella Ceylon, per cui è bene stare attenti: l’Istituto federale tedesco per la valutazione dei rischi nel 2011 ha espresso la dose giornaliera tollerabile di cumarine in 0,1mg per kg di peso corporeo, e un cucchiaino da caffè di Cannella Cassia può contenere tra i 5,8 e i 12,1 mg di cumarine. Il suo aroma caldo, lievemente piccante e amarognolo in cucina trova applicazione in diverse pietanze. Fantastica in abbinamento a mele, panna, cioccolato, banana, agnello, maiale, pollo, cacciagione, ma anche a pane speziato, composte di frutta e vin brulè.

Nonostante lo si chiami pepe, non ha nulla a che vedere con la spezia a cui pensate voi. Si tratta del frutto del frassino cinese. I piccoli grani di questa pianta, che assomigliano in effetti alle bacche del pepe, vengono lasciati essiccare al sole affinché acquisiscano un colore rosso – marrone. La sua caratteristica principale è quella di creare intorpidimento alla bocca, rilasciando un aroma caldo e legnoso. Harold McGee, autore del libro sulle scienze alimentari “Il cibo e la cucina”, paragona la sensazione stimolata dal pepe di Sichuan a quella che si ottiene se si accosta la punta della lingua ai poli di una batteria a 9 volt. Gli oli essenziali vengono sprigionati facendo tostare i suoi grani per qualche minuto. Si abbina bene all'anice stellato, in cucina è perfetto per pollo, anatra, cacciagione, maiale, manzo, funghi , patate e zenzero.

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SEMI DI FINOCCHIO (TERRA) Nome scientifico: Foeniculum Vulgare Nome Volgare: Finocchio selvatico, finocchio comune Origine: Italia Parti utilizzate: bulbo, stelo, foglie, semi

CHIODI DI GAROFANO (ACQUA) Nome scientifico: Syzygium aromaticum o Eugenia caryophyllata Nome Volgare: Chiodo di garofano Origine: Molucche Parti utilizzate: fiori o boccioli

Con fiori ad ombrello e foglie a barba, le sue piante arrivano sino a due metri di altezza. I suoi semi assomigliano a quelli del cumino, ma più verdi e dal sapore robusto con un aroma caldo. Come l'anice descritto sopra, contiene anetolo nei suoi oli essenziali. Questo gli conferisce un gusto che assomiglia vagamente all'anice, ma più dolce. Proprio per via del suo sapore si abbina bene con carni dal carattere selvatico e ferroso come quelle di cervo e di cinghiale. È una spezia molto utilizzata anche nella concia degli insaccati quali salsiccia luganega e finocchiona. Viene utilizzata per le sue proprietà toniche, aperitive (cioè in grado di stimolare la secrezione gastrica con conseguente stimolo dell’appetito), digestive, depurative, antispasmodiche, carminative (ovvero in grado di lenire i dolori delle coliche). Si sposa benissimo con: maiale, anatra, manzo, agnello, pesce, crostacei, formaggio, uova e legumi.

Questa spezia si ricava dai boccioli essiccati dell'albero sempreverde del Syzyum aromaticum, la sua origine risiede nell'Indonesia. Questa pianta sempreverde, produttore di chiodi di garofano, può vivere oltre 100 anni e raggiungere un altezza di 20 metri; i boccioli lucidi e chiari profumano l'aria circostante con il loro aroma dolcissimo. Gli alberi crescono lentamente e prima che fioriscano le prime gemme occorrono circa 8 anni. Dopodiché vengono raccolte a mano, non appena il loro colore vira al rosa brillante, e fatte essiccare. Greci e Romani già commerciavano questa spezia, ma solo nel Medioevo raggiunse la sua popolarità in Europa grazie ai navigatori portoghesi e olandesi. I chiodi di garofano furono molto apprezzati per gli usi medici e culinari e per la conservazione dei cibi. Diventarono quindi una spezia pregiatissima con la quale fare profitti. Tra le proprietà troviamo quelle antiossidanti, antibatteriche e antimicotiche, grazie ad un composto attivo, l'eugenolo. Per questo in Cina già dal II secolo utilizzavano i chiodi di garofano per curare indigestione, nausea e mal di denti. Per via del loro aroma caldo, lievemente salato, canforato, acuto e forte, i chiodi di garofano creano una leggera insensibilità alla bocca. In ambito culinario, si adattano ai piatti sia salati che dolci, anche se a causa del loro sapore molto intenso vanno utilizzati con cautela. Si abbinano bene a maiale, prosciutto cotto, mele , arance, vino rosso. Un consiglio? Provateli nel ragù! Altre applicazioni di questa spezia si trovano in cosmetica dove viene usata sopratutto per la formulazione di profumi maschili.

LE PROPORZIONI

Ora che conosciamo molto bene ogni spezia contenuta all'interno della miscela cinque spezie, non ci resta che parlare della ricetta. Ne troverete in commercio centinaia che si differenzieranno l'una dall'altra per note più o meno piccanti, più o meno dolci, più o meno amarognole e così via. L'unica cosa che certamente posso dirvi è che, nonostante ci siano queste variazioni in commercio con dosaggi personalizzati dai produttori stessi, in Cina è di uso comune utilizzare tutte le componenti in ugual peso. Pertanto se volessimo creare la nostra miscela delle cinque spezie cinesi, non dovremmo far altro che prendere gli ingredienti singoli, scegliere la nostra unità di misura a seconda della quantità che vogliamo produrre e pesare in egual modo ogni spezia. Questa non è una regola fissa. Ognuno può personalizzarla aggiungendo o togliendo note a proprio piacere, alternando le quantità dell'una o dell'altra spezia, facendo però attenzione a non turbare l’equilibrio fra i vari gusti a cui la cucina cinese fa riferimento. Una delle cose che dovete sapere è che tutte e cinque le spezie insieme donano ai cibi un retrogusto intenso di liquirizia. In ogni caso, giocate con questa polvere adattandola alla vostra esigenza di volta in volta e non ve ne pentirete. Vi restituirà profumi e sapori mai percepiti che la faranno diventare una delle miscele che più apprezzerete.

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THE CHEMICAL GRILLER a cura di VIRGILIO BRUNETTI

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SALSE CINESI

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Quando mi aggiro tra gli scaffali di un market etnico sono sempre combattuto, perché nella mia testa si avvicendano due sentimenti contrastanti: curiosità e sospetto. Soprattutto il made in China nel nostro immaginario è sinonimo di prodotto scarso a basso costo e, quando si tratta di alimenti, l’allerta è massima. Eppure molti di noi non si fanno specie a mangiare in un all you can eat di finto cibo giapponese, giusto? Spesso riesco a fugare i miei dubbi semplicemente leggendo la lista degli ingredienti (e la data di scadenza). Basta avere il minimo sindacale di cultura per capire se un prodotto ha un valore gastronomico o meno, soprattutto se ha una lista di ingredienti che comprende esclusivamente acqua, sale, zucchero e esaltatori di sapidità. Il mondo delle salse, soprattutto quelle esotiche, mi attizza sempre parecchio e spesso non resisto: le compro pur non avendo la più pallida idea di come possano essere utilizzate; non ridete, sono sicuro che la maggior parte di voi ha un arsenale abbandonato in frigo e in dispensa a fare la muffa. Alcune salse più di altre ci sono familiari proprio perché le ritroviamo nei menù dei ristoranti cinesi, altre molto meno. Negli sconfinati menù del vostro ristorante di fiducia vi sarete sicuramente imbattuti nella famigerata Salsa d’ostriche. In realtà è particolarmente diffusa sia nella cucina cinese ma anche in quella malese, quella thailandese e quella vietnamita; insomma, un quarto della popolazione mondiale l’apprezza. Vi sarete chiesti: ma contiene davvero ostriche? Ebbene sì, infatti nella versione originale l’ingrediente base sono effettivamente i preziosi molluschi cotti lungamente fino ad ottenere un fondo di cottura denso e scuro dal forte odore caratteristico; nelle versioni industrializzate la base è una percentuale variabile di estratto d’ostriche al quale si aggiungono amidi, zucchero, sale, glutammato monosodico o altri esaltatori di sapidità. Sapete bene che un eccesso di glutammato appiattisce il sapore di qualsiasi ingrediente, quindi un buon condimento deve avere un’elevata percentuale di concentrato dell’ingrediente base grazie al quale l’uso dell’esaltatore di sapidità è inutile (leggete le etichette). Quella d’ostriche è una salsa fortemente umami e dolce, dall’aspetto molto scuro e denso. È utilizzata in gran parte come condimento di cibi cotti, come i cavoli cinesi al vapore e il pollo saltato al wok. La sua genesi è relativamente recente: fu inventata per caso da Lee Kum Sheung a Nanshui, Zhuhai, nella provincia del Guangdong, in Cina. Nel 1888 Lee gestiva una bancarella che vendeva tè e brodo d’ostriche; un giorno stava cucinando i molluschi come al solito, ma perse la cognizione del tempo e li lasciò cuocere a fuoco lento fino a quando non sentì un forte e insolito odore. Sollevando il coperchio della pentola, scoprì che la zuppa di ostriche normalmente limpida si era trasformata in un composto denso e brunastro che aveva un gusto sorprendente. Presto Lee iniziò a vendere la sua nuova salsa, che ebbe un successo clamoroso tanto che ancora oggi l’azienda Lee Kum Kee da lui fondata è una dei maggiori produttori di condimenti asiatici nel mondo. Ricordatevi che per essere definita buona, deve essere a base d’ostriche e non di glutammato. Il brand Thailandese Mae Krua ad esempio, con il suo 30% di estratto in cima alla lista degli ingredienti, è una buona scelta.

come la meno famosa (in Italia) Hoisin: una tradizionale salsa cinese dall’aspetto denso, scuro e brillante. La parola da cui prende il nome sta per frutti di mare; peccato che nella lista degli ingredienti non se ne trova traccia. Alla base di una buona Hoisin c’è il delicato equilibrio di dolce, acido, amaro e salato; è anche una salsa profondamente umami, speziata, moderatamente agliata e piccante. È molto complessa, il cui corpo è strutturato dalla presenza di derivati della soia fermentata e dall’amido usato come addensante. L’acidità e la dolcezza si bilanciano grazie allo zucchero e all’aceto di riso. Gli aromi che fanno parte delle cinque spezie cinesi (finocchio, anice stellato, cannella, chiodi di garofano e pepe di Sichuan) le danno l’inconfondibile impronta asiatica, resa più rustica per l’aggiunta di aglio e peperoncino. Queste caratteristiche rendono la Hoisin versatile sia in purezza che come ingrediente base di altre preparazioni; proprio per questo alcuni la definiscono la salsa barbecue cinese o il ketchup cinese. Meathead Goldwyn nel suo Amazing Ribs ne consiglia l’utilizzo in alcune preparazioni squisitamente barbecue, come le sue Hoisinful Nine Dragon Ribs e Chinatown Char Siu Ribs. La deriva asiatica delle preparazioni in griglia è un trend assolutamente hot negli States, tuttavia la Hoisin è un complemento imprescindibile di una delle ricette più famose e complesse della cucina cinese: l’anatra laccata alla pechinese. In Italia la reperibilità di brand sicuri dal punto di vista qualitativo è affidata ai numerosi market etnici presenti sul nostro territorio; vi suggeriamo l’acquisto della Hoisin a marchio Lee Kum Kee che non avrete problemi a reperire on-line. Quando vi siete seduti per la prima volta in un ristorante cinese probabilmente avete ordinato involtini primavera; insieme all’immancabile salsa di soia vi hanno sicuramente servito un intingolo dalla composizione indefinita di colore rosso-arancione dal sapore dolce-acido. Vi siete sicuramente chiesti come si chiama ma la risposta è banale: salsa agrodolce. Immagino che abbiate anche domandato come si faccia, perché vi è così tanto piaciuta da volerla riprodurre a casa, ma siete anche rimasti male perché la cameriera non vi ha dato una risposta comprensibile. Sappiate che generalmente quella che vi servono è fatta con ketchup, aglio, zucchero e aceto oppure molto più facilmente è stata comprata all’etnico dietro l’angolo. Le varianti di questa salsa sono innumerevoli e anche nell’ambito della cucina cinese ci vorrebbe un trattato per poterle descrivere tutte, soprattutto perché molte preparazioni la richiedono sia come parte della ricetta sia come intingolo d’accompagnamento. Inoltre varia in base all’alimento che si vuole condire; in Cina ne esiste una variante per ogni ricetta a base di manzo, di anatra, di verdure, di tofu, di pesce, ecc... Ma tranquilli, la variante più diffusa si basa semplicemente su una riduzione fatta con zucchero, aceto di riso, salsa di soia e spezie (chiodi di garofano e zenzero fresco), mentre nella versione occidentalizzata viene aggiunto il concentrato di pomodoro. Si potrebbe dire dunque che la Sweet&Sour è una categoria di salse. Tra queste degna di nota la Duck Sauce, che è un condimento comune per l’anatra arrosto; non è altro che una riduzione di polpa di prugne, aceto di riso, zucchero, zenzero fresco e peperoncino. In alcuni casi le prugne possono essere sostituite dalle pesche, dalle albicocche, dal mango, dall’ananas e dalla papaia verde (giusto perché le varianti non sono mai troppe).

Come tutti i condimenti umami, anche questo rappresenta un accostamento interessante per carni grigliate; esattamente MARZO 2020

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B Ě I J Ī N G K Ǎ O YĀ

北京烤鸭

la ricetta definitiva dell'anatra alla pechinese L’Anatra laccata alla pechinese è probabilmente il piatto più iconico della cucina cinese, un piatto imperiale divenuto prima popolare e poi globalizzato quasi mai declinato in stile fast(trash)food. La caratteristica più attraente e affascinate di questa preparazione è la laccatura della pelle che deve risultare lucida, croccante e ambrata. Nella versione tradizionale in effetti veniva servita esclusivamente la pelle dell’anatra, una delizia di cui solo l’imperatore e la sua corte erano degni. L’anatra laccata fortunatamente non si è estinta con la dinastia dell’ultimo imperatore della Cina, e pur rimanendo un piatto raffinato ha conquistato i ceti più popolari grazie alla perizia dei numerosi cuochi cinesi specializzati quasi esclusivamente nella sua preparazione che richiede tecnica, attenzione per le materie prime, pazienza, dedizione ed esperienza. È sicuramente un piatto da ristorante ed è proprio dai locali di Beijing che ha iniziato a conquistare il mondo. È caratterizzata da una complicata preparazione che si completa con la presentazione del piatto al cliente; tutto avviene in maniera assolutamente codificata, ed è proprio in questa fase che questo cibo assurge alla dignità di esperienza gastronomica. Il cerimoniale di presentazione è fondamentale ed è rispettato in tutti i ristoranti che servono questo piatto. Di solito viene mostrata per intero ai com76 - BBQ4All MAGAZINE

mensali, poi lo chef inizia ad affettare l’anatra laccata con un coltello affilatissimo e gesti precisi per ottenere fettine oblique sottili e regolari. Al cospetto di ospiti di riguardo, la pietanza viene servita con il brodo e le carne a parte. La presentazione classica invece prevede l’abbinamento con un mix di verdure fresche a listarelle. Con una salsa agrodolce e fruttata (甜面酱 tiánmiànjiàng) si spennellano sfoglie sottilissime simili a crêpes (春餠 chūn bǐng) su cui si dispongono le fettine di anatra. Per il palato l’esperienza è unica. Croccante, morbido, succoso, umami, dolce, grasso si presentano tutti contemporaneamente. La sensazione di provare allo stesso tempo armonia e contrasto è impareggiabile. Un antico detto cinese dice che: non sei stato a Beijing se non hai assaggiato la vera anatra laccata. Il direttore del BBQ4All Magazine Rossella Neiadin vi consiglia di fare un viaggetto a Pechino a mangiare l’anatra al ristorante Da Dong, 北京大董烤鸭店. Il primo a fare dell’anatra un piatto “popolare” fu Yang Quanren: 150 anni fa aprì il ristorante Quanjude, che esiste ancora oggi e, anzi, si è diffuso fino a diventare un famoso franchising globale di cibi cinesi. Un secolo e mezzo fa Yang Quanren ha rivoluzionato il modo di preparare l’anatra laccata: se fino ad allora veniva cotta sdraiata in forno, da quel momento venne introdotta la cottu-


THE CHEMICAL GRILLER a cura di VIRGILIO BRUNETTI ra in sospensione nei forni chiusi. Questo sistema consente al grasso di colare lentamente e lascia la pelle più asciutta e croccante. Tale è stato il suo successo che, attualmente, il metodo Quanren si è imposto come tradizionale. Il forno aperto è alimentato con legna di alberi da frutto: fino a qualche anno fa si utilizzava esclusivamente legno di giuggiolo, ma ora sono stati sdoganati anche quelli di pero, melo e ciliegio. Le anatre utilizzate per questa preparazione hanno circa 100 giorni e nell’ultima settimana vengono alimentate forzatamente con un sistema simile a quello usato per l’ingrasso delle oche da foie gras. Dopo la macellazione l’animale viene gonfiato, per far staccare la pelle dalla carne e successivamente vengono eliminate le viscere, con un metodo di estrazione che permette di mantenere intatto il corpo. A questo punto l’anatra viene rapidamente immersa in acqua bollente, poi viene spennellata con uno sciroppo dolce a base di miele e appesa ad asciugare per 24 ore. Prima della cottura viene versato del brodo bollente nelle cavità dell’anatra: questo consente alla carne di cuocere lentamente e a temperatura costante, mentre la pelle si disidrata, si cuoce e si affumica a contatto con il calore più forte delle braci. Solo dopo tre passaggi in tre forni con temperature diverse l’anatra è pronta e tutto il grasso adeso alla pelle si sarà fuso e drenato. Il fatto che le anatre vengano appese in posizione verticale favorisce lo scorrimento del grasso fuso tra la carne e la pelle del volatile. Questa tecnica di cottura è estremamente affascinante e il tecnicismo ha basi scientifiche solide; inoltre approccia in maniera interessante alcune tecniche di cottura che potremmo definire assolutamente barbecue. Ma come prepararla in casa? Metteremo adesso gli accenti su tutti i passaggi fondamentali per ottenere una anatra laccata perfetta: dalla scelta del volatile fino al servizio. La prima variabile è la selezione dell’anatra, che deve essere grassa, della dimensione giusta e la cui carcassa, in fase di macellazione, deve essere mantenuta il più possibile integra al fine di poter staccare adeguatamente la pelle dalla muscolatura sottostante. Vediamo sommariamente tempi e fasi di preparazione. Primo giorno: pulire accuratamente l’anatra da tutti i residui di piumaggio e rimuovere il collo preservando la pelle in modo da poterla legare. Appendere l’animale in frigo ad asciugare per una notte. Secondo giorno: separare la pelle dalla carcassa insufflando aria con una pompa da bicicletta oppure con un compressore o ancora manualmente aiutandosi con il manico di un cucchiaio. Sbollentare rapidamente l’anatra in acqua bollente per rassodare la pelle. Nappare la pelle dell’anatra con una miscela in parti uguali di sciroppo di malto e salsa di soia. Appendere in frigo una notte per asciugare. Terzo giorno: cuocere l’anatra appesa verticalmente in un dispositivo a legna o a carbone. Utilizzare un setup indiretto, privo di fonti di vapore e affumicare con legno fruttato (melo e ciliegio). Mantenere una temperatura moderata e prolungare la cottura affinché il grasso sottocutaneo venga renderizzato, fondendo, e possa drenare attraverso lo spazio libero tra muscolatura e pelle. Ricordatevi che la pelle è la protagonista della preparazione mentre la carne ha un ruolo marginale. L’anatra sarà pronta quando la pelle sarà perfettamente croccante, lucida, di un intenso colore ambrato.

Ma qual è la chiave per ottenerla croccante? Bisogna eseguire necessariamente tre passaggi funzionali al risultato: 1. Innanzitutto, fino a quando tutta l’umidità interna non viene rimossa, è impossibile portare la pelle a una temperatura sufficientemente elevata perché si brunisca correttamente. Ricordate? Il nemico numero uno della reazione di Maillard è l’acqua. 2. La pelle deve cuocere lentamente ed in maniera progressiva, sviluppando il sapore e la tipica texture croccante. Questo significa che l’ambiente di cottura deve essere ventilato ed il calore somministrato deve essere indiretto, costante e secco con un buon aroma di fumo di legno fruttato. Inoltre la precottura della pelle con acqua bollente e il trattamento con zuccheri riducenti favoriranno lo sviluppo della Maillard. 3. Infine, se il grasso liquido rimane intrappolato a ridosso della pelle, a fine cottura si rapprenderà e la pelle sarà intrisa di grasso vanificando il lavoro precedente. Per questo motivo l’anatra viene appesa e cotta in verticale. Lo scollamento della pelle favorisce il drenaggio per gravità. Questo stesso approccio non è forse la base per ottenere anche un prefetto Beer Can Chicken? Il “trucco” del Bicarbonato di sodio e del sale. Tradizionalmente, prima della cottura, l’anatra viene tenuta in frigo ad asciugare, per aumentare la croccantezza e l’imbrunimento della pelle. Ecco, in questa fase si può applicare a secco una piccola quantità di bicarbonato e sale da cucina sulla superficie esterna del pennuto. I sali agiranno in due modi: aumentando il pH, con la conseguenza che le reazioni di Maillard avverranno in modo più efficiente, e modificando le proteine del tegumento, rendendo la pelle più croccante e friabile. La preparazione dell’anatra laccata non termina con la cottura. Volendo seguire la tradizione si dice che i cinesi gustino l’anatra alla pechinese tre volte: mangiando la pelle, poi la carne saltata e infine la zuppa con il brodo. L’unica problema di questa preparazione è solo e soltanto uno: crea dipendenza. MARZO 2020

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APPROFONDIMENTO a cura di ROBERTO DAL BOSCO

la Bistecca? sintetica una storia sbagliata

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Quando mangiate una picanha perfettamente cotta e la sentite cambiare consistenza all’interno della vostra bocca, quando odorate le molecole della Maillard che vi chiamano a sé, quando vi sentite fieri di essere l’ultima, fortunatissima parte della filiera alimentare, mai pensereste che qualcuno in questo universo di gioia vi voglia togliere questi piacere, o meglio, sostituire. Proprio così: le ricerche per i surrogati della carne vanno avanti da decenni e nonostante gli ostacoli immani (capita, quando si sfida la natura e la bellezza financo gustativa del creato) continuano imperterriti, basandosi su tecniche ed ideologie sempre nuove.

Certo, per il Grill Master si tratta di pura blasfemia. Siccome la carne finta è arrivata persino nei fast food italiani, c’è da cominciare a prendere la misura con il fenomeno.

BISTECCHE PETROLIFERE

Se qualcuno deve pensare ai terribili anni Settanta, non può in alcun modo evitare di pensare agli shock petroliferi. I prezzi della benzina alle stelle, gli Stati che proponevano domeniche senz’auto quando l’inquinamento non era nemmeno considerato. Lo shock avveniva soprattutto perché all’epoca si pensava che all’oro nero non vi fosse alternativa. Erano anni foschi: poco prima, un tale Paul Ehrlich, un entomologo, aveva pubblicato un libro chiamato The Population Bomb in cui diceva che, a causa della sovrappopolazione, in pochissimi anni saremmo morti tutti per la fame e per le guerre conseguenti. Non poteva essere che negli anni Settanta, quindi, gli scienziati se ne venissero fuori con la bistecca derivata dal petrolio. E invece si inventarono una carne completamente sintetica, ottenuta dalla sostanza che spinge avanti le automobili. La sfida era di ottenere proteine da colture di microrganismi su derivati del petrolio, da utilizzare come mangimi e come alimenti direttamente rivolti agli uomini. L’Italia fece la sua parte: in Calabria un maxi stanziamento statale mise in piedi, in un’ex salina, gli stabilimenti dell’impresa Liquichimica Biosintesi; dopo soli due mesi di attività, il Ministero della Sanità dichiarò che quelle bioproteine potevano essere cancerogene per l’intero ciclo alimentare (!). L’impianto venne chiuso e tutti i dipendenti vennero messi in cassa integrazione, rimanendoci 23 anni (!!). Nel resto del mondo, la questione della minaccia di fame e di sovrappopolazione cominciò a sfumare: le previsioni catastrofiste di Ehrlich erano completamente errate. Si era pensato che Paesi come l’Italia e il Giappone, con poca terra e tanta popolazione, fossero destinati al precipizio alimentare. Non fu così: agricoltura e zootecnica progredirono nel trend di innovazione partito nel dopoguerra, e della fame, nel mon-

do sviluppato, non si vide nemmeno l’ombra. La bistecca petrolifera sparì. Tuttavia l’imperativo di sostituzione della carne non muore, semplicemente si trasforma. Suona un po’ apocalittico ma è proprio così.

LA CARNE COLTIVATA

La cosiddetta carne coltivata (detta anche carne pulita, carne sintetica, carne artificiale o carne in vitro) è prodotta dalla coltura in provetta di cellule animali, anziché da animali macellati. È una forma di agricoltura cellulare. In pratica una bistecca di Cultivated Beef mai è stata parte di un animale intero, e quindi capite come – nella cornice sempre più utilitarista della nostra società che inorridisce rispetto al dolore – vi siano conseguenze etiche rilevanti per il trattamento degli animali. Il concetto di carne coltivata fu lanciato nei primi anni 2000 da Jason Matheny, tecnologo legato a istituzioni dei servizi segreti americani. L’idea è quella di usare le tecniche di rigeMARZO 2020

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nerazione dei tessuti tipiche della medicina rigenerativa per creare bistecche a partire da singole cellule. Matheny fondò New Harvest, la prima organizzazione no profit al mondo dedicata a sostenere la ricerca sulla carne in vitro. La possibilità teorica di coltivare carne in modalità puramente industriale è un sogno che attirava perfino Winston Churchill, che nel 1931 ebbe a dire: «sfuggiremo all’assurdità di coltivare un pollo intero per mangiare il petto o l’ala, coltivando queste parti separatamente sotto un terreno adatto». Dalla sparata futurologica del primo ministro inglese passarano 40 anni prima che Russel Ross, luminare di patologia e degli studi sull’arteriosclerosi, riuscisse a coltivare con successo fibre muscolari (1971). Nel 1998 tale Jon F. Vein depositò un brevetto per la produzione di carne ingegnerizzata per il consumo umano. Nel 2001, un dermatologo, un medico e un uomo d’affari olandesi depositarono un altro brevetto basato su una matrice di collagene e di cellule muscolari. La NASA si dedicò alla possibilità di fornire agli astronauti carne di tacchino cresciuta nello spazio; un consorzio di bioscienze americano nel 2002 creò un filetto di pesce a base di cellule di pesce rosso (!), mentre l’Harvard Medical School esibì a Nantes in Francia – dove sennò? – della carne ottenuta da cellule di rana che fu cotta e mangiata nel 2003. I primi veri risultati di questa tentata rivoluzione bioculinaria si videro nel 2013, quando il dottor Mark Post, professore all’Università di Maastricht, creò il primo di hamburger coltivato direttamente a partire da cellule. Invitarono in Olanda esperti di cucina per provare quella che i giornali italiani ribattezzarono come sinto-carne. L’hamburger fu cucinato dallo chef Richard McGeown del Great House Re80 - BBQ4All MAGAZINE

staurant di Couch, Polperro, in Cornovaglia, e assaggiato dalla critica Hanni Rützler, da un ricercatore alimentare del Future Food Studio e dal food writer Josh Schonwald . «Il sapore è come quello della carne. Sentivo la mancanza del grasso, ma in generale sì, sembra di masticare un hamburger», disse Schonwald. La Rützler aggiunse che anche in una prova alla cieca avrebbe scambiato il prodotto per carne piuttosto che per un surrogato alla soia. Era stata loro servita una svizzera creata da cellule staminali di vacca, a cui erano stati aggiunti succo di barbabietola rossa, zafferano, sale, uova in polvere e Parmigiano grattugiato. Si scoprì che l’esperimento, che aveva costi importanti (circa $325.000), era stato finanziato anche dal co-fondatore russo-americano di Google, Sergej Brin. Post fece da apripista, altri pionieri che prototiparono bistecche e polpette in provette si fecero avanti; nessuno però arrivò alla commercializzazione. Mosa Meat, società neerlandese fondata nel 2015 dallo stesso Post, è al momento l’unica realtà che ha un piano per arrivare alla produzione industriale di bistecche in vitro. Nel 2018 raccolse un round di €7,5 milioni di finanziamento dai Venture Capital. Secondo l’azienda, la vendita al consumatore potrebbe iniziare attorno al 2021, con un prezzo di $11 dollari ad hamburger. Inseguono molte aziende di tutto il mondo, da Israele alla Silicon Valley. Tuttavia i Paesi Bassi rimangono in testa alla ricerca. Un sito annuncia l’apertura del Bistro in Vitro, il primo ristorante dedicato alla carne sintetica, ma a guardare bene pare si tratti di uno scherzo per promuovere un documentario. Segnaliamo quindi che la carne coltivata può aprire una por-


ta ulteriore, quella che dà su uno dei penultimi tabù rimasti all’uomo moderno: il cannibalismo. In pratica, se mi creo un muscolo umano a partire da cellule, senza quindi uccidere un uomo intero, non faccio nulla di male, teorizzano alcuni sostenitori. Si tratterebbe di un semi-cannibalismo, di uno pseudocannibalismo, di un cannibalismo cruelty-free (proprio così). Non si tratta di uno sterile esercizio intellettuale, visto che uno scienziato pubblicato in tutto il mondo, Richard Dawkins, nel 2018 ha suggerito apertis verbis il fatto che mangiare carne umana creata in laboratorio possa aiutare a superare il «tabù contro il cannibalismo». «È da tanto che lo aspettavo» ha scritto su Twitter il professore oxoniano, generalmente noto come campione mondiale dell’ateismo. Senza passare per le bistecche cellulari, è noto come a fine 2019 uno scienziato comportamentale svedese, Magnus Söderlund, abbia cominciato a discutere della consunzione di carne umana come aiuto contro il cambiamento climatico. I problemi più immediati, nell’infelice mondo della bistecca sintetica, li dà comunque un’altra sostanza: la soia.

HAMBURGER CHE FANNO VENIRE LE TETTE AGLI UOMINI I surrogati della carne attualmente disponibili sul mercato (chiamati anglofonicamente meat analogue, meat alternative, meat substitute, mock meat, faux meat, imitation meat, vegetarian meat, fake meat, vegan meat) sono quasi sempre a base di soia e derivati. La sostituzione della carne ha una lunga storia che parte (come si vede sull’articolo di questo mese dedicato alla cucina cinese) dall’antichità del Regno di Mezzo. Il tofu era utilizzato come succedaneo della carne in Cina già durante il periodo della dinastia Han occidentale (206 a.C.- 9 d.C.). La parola per definirlo, in un documento scritto all’ambasciatore della dinastia dei Tang meridionali Tao Gu (903-970), è xiǎo zǎiyáng, ossia piccolo montone. L’influsso buddista non fece che aumentare il potere di tofu e famiglia nella dieta dei cinesi, senza però piegarne del tutto le abitudini carnivore. Anche nel Medioevo europeo si cercarono temporanei sostituti della carne nel periodo della Quaresima (che succede, appunto, ai giorni di festa in cui la carne-vale). I cristiani medievali, scrive Melitta Weiss in Food in the Medieval Times, tritavano mandorle e uva come sostituto della carne tritata, e tagliavano il pane a dadini per creare un effetto-ciccioli. In era moderna a cercare forsennatamente di sostituire la carnazza fu il nutrizionista statunitense John Harvey Kellogg, l’indimenticato inventore della colazione americana a base di cereali. Egli evitava così agli uomini il bacon mattutino, ed anzi teorizzava un ruolo anafrodosiaco (cioè, il contrario di afrodisiaco) dei corn flakes poi industrializzati dal fratello. Will Keith Kellogg; infatti, uno dei suoi interessi maggiori era di portare avanti la campagna nazionale contro la masturbazione, grande preoccupazione dell’epoca che segnò pure la non ancora spenta abitudine di circoncidere in massa i bambini nordamericani. Dobbiamo aspettare i nostri anni per vedere ufficialmente aperta l’era dei surrogati totali. Nell’aprile 2013, Beyond Meat, una società che godeva di centinaia di milioni di dollari di investimenti da fondi venture e me-

ga-ricconi come Bill Gates, iniziò a vendere il pollo sintetico (Beyond Chicken) nei negozi di Whole Foods, catena di supermercati bio da poco comprata da Amazon; il cibo era composto da proteine di soia e piselli, fibre e altri ingredienti, ed ebbe successo commerciale, portando la società californiana a lanciare prodotti di pseudo-carne bovina e suina. Beyond Meat andò in borsa nel maggio 2019 ad un prezzo di $25 ad azione; a metà dicembre si è arrivati a $72: se ci avevi investito 10.000 dollari te ne potevi uscire con 28.800. Cioè quasi il triplo. Nel 2016, un’altra azienda di cripto-soia carnale, Impossible Foods, introdusse un sostituto della carne bovina, che, affermava, aveva l’aspetto, il gusto e proprietà di cottura simili alla carne vera e propria. Impossible Meat a differenza del concorrente non è scesa in borsa, ma dai round di finanziamento che ha cercato a novembre possiamo sapere che si dà un valore tra i 3 e i 5 miliardi di dollari. L’azienda riesce a stipulare un contratto con una mega-catena di hamburger presente anche in Italia, dove è nel pacchetto di una oggi discussa famiglia di capitalisti. La sfida è vinta: l’hamburger di non-carne entra nel menu internazionale dei fast food. Ma l’America profonda, quella del rodeo e delle ribs, non è rimasta con le mani in mano davanti all’avanzata anti-BBQ. Secondo James Stangle, un medico di medicina veterinaria del Sud Dakota, l’hamburger a base di soia servito dalla nota catena di fast food contiene 18 milioni di volte più estrogeni rispetto ad un normale hamburger di carne bovina. Il che porta ad effetti problematici, specie per il consumatore maschio. «Solo sei bicchieri di latte di soia al giorno hanno abbastanza estrogeni per far crescere le tette su un maschio», ha scritto il professor Stangle. La crescita del seno in un corpo maschile, detta anche ginecomastia, è un effetto legato alla sovrabbondanza di estrogeni nell’organismo; il fenomeno è ben conosciuto dai body builder, perché alcuni derivati sintetici del testosterone (quelli che chiamano steroidi) in alcuni casi possono aromatizzare, cioè trasformarsi in estrogeni, gli ormoni che esplicano le fondamentali funzioni per la comparsa e il mantenimento dei caratteri sessuali femminili. Mica è finita: un altro studio del 2008 ha scoperto che «gli uomini che hanno mangiato più soia hanno una minore concentrazione di spermatozoi». Il dottor Stangle inoltre racconta di un ingrediente dimenticato dell’hamburger di soia della nota catena: la leghemoglobina, usata per dare il colore rosso all’hamburger surrogato. Per ottenere questo risultato, gli scienziati avrebbero usato l’ingegneria genetica su alcuni lieviti. Tecnicamente, quindi, quell’hamburger di soia è un OGM – oltre ad essere una bomba di estrogeni. Riguardo all’hamburger senza carne, «la cosa buffa è il fatto che sia un OGM e che le persone che hanno più probabilità di mangiarlo sono quelle che hanno più probabilità di essere contro gli OGM» dice Stangle. Insomma, quanto vogliono complicare l’esistenza a chi vuole mangiarsi della carne in santa pace? In attesa della risposta, impariamo una cosa certa: mangiare carne finta può trasformarti, nell’anima e nel corpo. Quindi, ora e sempre, viva la ciccia, viva la ciccia vera, viva il fuoco che la cuoce, viva gli amici che te la sbafano, viva le persone che la conoscono e la rispettano. MARZO 2020

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“VIRGINIA Signo', ma io credo che tutta questa cipolla abbasta. ROSA Adesso mi vuoi insegnare come si fa il ragù? Più ce ne metti di cipolla più aromatico e sostanzioso viene il sugo. Tutto il segreto sta nel farla soffriggere a fuoco lento. Quando soffrigge lentamente, la cipolla si consuma fino a creare intorno al pezzo di carne una specie di crosta nera; via via che ci si versa sopra il quantitativo necessario di vino bianco, la crosta si scioglie e si ottiene così quella sostanza dorata e caramellosa che si amalgama con la conserva di pomodoro e si ottiene quella salsa densa e compatta che diventa di un colore palissandro scuro quando il vero ragù è riuscito alla perfezione. VIRGINIA Ma ci vuole troppo tempo. A casa mia facciamo soffriggere un poco di cipolla, poi ci mettiamo dentro pomodoro e carne e cuoce tutto assieme. ROSA E viene carne bollita col pomodoro e la cipolla. La buonanima di mia madre diceva che per fare il ragù ci voleva la pazienza di Giobbe. Il sabato sera si metteva in cucina con la cucchiaia in mano, e non si muoveva da vicino alla casseruola nemmeno se l'uccidevano. Lei usava o il «tiano» di terracotta o la casseruola di rame. L'alluminio non esisteva proprio. Quando il sugo si era ristretto come diceva lei, toglieva dalla casseruola il pezzo di carne di «annecchia» e lo metteva in una sperlunga come si mette un neonato nella «connola», poi situava la cucchiaia di legno sulla casseruola, in modo che il coperchio rimaneva un poco sollevato, e allora se ne andava a letto, quando il sugo aveva peppiato per quattro o cinque ore. Ma il ragù della signora Piscopo andava per nominata.” Io di cognome faccio Lo Cascio ma vi garantisco una cosa: la formula del ragù che sto per rivelarvi metterà d’accordo proprio tutti. Sì, i tempi per realizzarlo sono un po’ lunghetti e i passaggi laboriosi, ma vi assicuro che ne vale davvero la pena. Il vostro ragù sarà meglio di quello della mamma, della nonna e di tutte le mamme e le nonne bolognesi e napoletane messe insieme. Vi serviranno pochi ingredienti e tanto tempo a disposizione. E siccome il tempo non va misurato in ore e minuti ma in trasformazioni, stavolta la trasformazione è di quelle radicali. Pronti per una full immersion di tre giorni sul concepimento del ragù migliore di sempre? Iniziamo. MARZO 2020

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GIORNO 1 Il grasso Lo strutto e il grasso bovino, si sa, sono ottimi per friggere. Hanno un punto di fumo molto alto (lo strutto 240°C e il sego bovino 230°C) e vengono utilizzati in moltissime ricette o adoperati nella frittura delle patatine. Donano una fragranza ed un gusto molto particolare alle pietanze, agli impasti, persino ai dolci. Per preparare la nostra versione del ragù ci occorre una discreta quantità di sego bovino. Non fate i maliziosi, la terza media l’avete finita diverse primavere fa. Il punto di fusione di un lipide è tanto più elevato quanto maggiore è il grado di “saturazione” degli acidi che lo costituiscono. Ovvero la fluidità di un lipide è tanto più elevata quanto maggiore è il grado di “insaturazione” degli acidi grassi che lo costituiscono. Mentre gli oli si presentano in forma liquida a temperatura ambiente, il sego è un blocco bianco e solido che comincia a sciogliersi solo se portato ad una temperatura superiore ai 40°C. Ed è proprio scaldando dei pezzi di grasso scartato dalla lavorazione della carne che dovrete autoprodurvi il sego. Ora vi spiego come. Per prima cosa procuratevi 500 grammi di grasso di manzo, quanto più pulito possibile, e fatevelo macinare dal macellaio: è importante che venga ridotto in piccoli pezzi. Io ho utilizzato il nostro pregiatissimo grasso di wagyu Miyabi GLC Top Selection (lo trovate sul Megastore), l’ho raffreddato in congelatore per un’oretta circa e l’ho tritato nel mixer ottenendo una sorta di sfarinato grezzo. Ma prima di fare qualsiasi cosa ho messo i guanti. Credetemi quando vi dico che questa roba unge, toccatela con le mani e dovrete lavarvela dalle dita con il napalm. A questo punto potete procedere in uno dei tre modi seguenti: 1. Trasferite il grasso triturato in una pentola a bordi alti, aggiungete 2 litri d’acqua e cuocete per circa 2-3 ore. L’acqua vi servirà a non superare il punto di fumo del grasso e a sciogliere il tutto gradualmente. Filtrate a caldo con un colino a maglie strette e trasferite in una ciotola di vetro. Lasciate raffreddare il sego a temperatura ambiente, il composto si solidificherà e diventerà bianco opaco, e vedrete tutte le impurità depositarsi sul fondo. Per eliminarle vi basterà capovolgere la ciotola, sformare delicatamente e grattare via lo strato di collagene e di piccole frazioni di carne che non sarete riusciti ad eliminare in fase di filtraggio. Conservate in frigorifero ben coperto. 2. Sistemate il grasso triturato in una pentola a bordi alti e scaldatelo a bagnomaria, collocandola in una seconda pentola riempita con acqua. Lasciate sciogliere lentamente, filtrate a caldo con un colino a maglia finissima in uno o più barattoli di vetro. Lasciate raffreddare e conservate in frigorifero. 3. Versate il grasso polverizzato in un sacchetto per la cottura sottovuoto e scaldate in sous vide a 90°C per 4-5 ore, o fino a quando il grasso non si sarà sciolto del tutto. Filtrate e colate in uno più barattoli di vetro. Lasciate raffreddare e conservate in frigorifero.

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Il brodo Per preparare il ragù scientifico vi occorre uno stinco di manzo, anteriore o posteriore non fa differenza. Fatevelo disossare dal macellaio e chiedetegli di segare l’osso a rondelle o a baguette, in senso verticale. Raschiate via il preziosissimo midollo e mettetelo da parte, ci servirà per il sugo. Con le ossa preparate un buon brodo tostandole a fuoco spinto con poco olio, poi deglassate con acqua la crosticina brunita che si sarà formata sul fondo fino a coprire per 2-3 cm; aggiungete una costa di sedano, una carota, una cipolla, alloro, bacche di ginepro e grani di pepe. Lasciate sobbollire e salate solo alla fine. Mettete da parte il brodo ottenuto perché vi servirà il giorno successivo.

GIORNO 2 Il sugo Ora inizia la parte interessante. Il mio ragù non prevede un’aggiunta di carne di maiale o insaccati, gli ingredienti sono solo: triplo concentrato di pomodoro, sedano, carota, cipolla, carne di manzo, brodo di manzo, grasso di manzo, midollo di manzo. Manzo elevato al manzo, una matrioska di bovidi in pratica. Niente mischioni di proteine animali, pussa via aggiunte di latte e derivati. Estraiamo il massimo dai pochi ingredienti elencati e tiriamo fuori un gusto potente, irruento ma lineare. Per ottenere un sugo carico, saporito e opulento ci occorrono due tagli di carne: • 1 ricco di tessuto connettivo, da cuocere insieme al triplo concentrato di pomodoro • 1 più magro, da macinare e con il quale “condire” e strutturare il sugo. È come il matrimonio eterno tra il ragù partenopeo e quello bolognese. È il meglio dei due mondi perché bilanciato e cotto con raziocinio. La carne ricca di collagene andrà ad arricchire la salsa, mentre il macinato darà consistenza e sapore, senza essere inutilmente violentato dall’esposizione prolungata al calore. Per arricchire la salsa con una buona quota di gustosa gelatina possiamo utilizzare: • Geretto anteriore o posteriore, un taglio molto compatto e ricchissimo di collagene. Lo stinco è senz’altro la mia prima scelta poiché mi consente di utilizzare anche il midollo che racchiude all’interno del suo osso; • Biancostato, situato nella parte bassa delle coste e particolarmente carico di collagene; • Punta di petto, il muscolo della parete addominale farcito di tessuto adiposo e del collagene delle costole;

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E come facciamo ad estrarre questa gelatina e trasferirla direttamente nel sugo? Semplicissimo, basterà portare la carne ad una temperatura superiore a 68°C. È proprio in quel momento che il collagene si scioglie e si trasforma in un gel saporito. Ricapitoliamo, per preparare questo primo sugo ci occorre: • 1 kg di polpa di stinco di manzo (in alternativa biancostato o punta di petto) • 1 litro di brodo di manzo • 500 gr di triplo concentrato di pomodoro • Il midollo ricavato dall’osso dello stinco • 1/2 cipolla rossa • 1 bicchiere di vino rosso • Qualche foglia di alloro fresco • Basilico • Bacche di ginepro • Olio extravergine di oliva • Sale • Pepe nero Mettete sul fornello una tegame di ghisa a bordi alti. Perché di ghisa? Perché accumula il calore e lo ridistribuisce sul fondo e lungo le pareti, equalizzando la temperatura lungo tutta la sua superficie. In alternativa potete utilizzare una pentola ampia di coccio o di acciaio a fondo spesso.

Tagliate la polpa dello stinco in grossi cubi e rosolateli a fiamma alta in un fondo di olio. Aggiungete la cipolla tagliate a cubetti, fate imbiondire, deglassate il tutto con il vino rosso e lasciate evaporare l’alcol. Unite il triplo concentrato di pomodoro e diluitelo con il brodo caldo, aggiungete il midollo, le erbe e le spezie e lasciate cuocere lentamente, su un alito di calore, per almeno quattro o cinque ore. Lasciate pippiare il sugo con il coperchio ben collocato e controllatelo di tanto in tanto, spegnete solo quando l’acqua sarà evaporata del tutto e la carne si sarà sfaldata. In questo modo avrete concentrato al massimo i sapori e avrete ottenuto un sugo carico e denso, color palissandro proprio come quello di Sofia Loren in Sabato, Domenica e Lunedì. Salate, filtrate il tutto e mettete da parte la carne, la mangerete a parte o la riutilizzerete in altre ricette. Hey. Qui è quando mi date retta e non prendete l’iniziativa di “pullare” la carne dentro al sugo. Non fatelo perché farà saltare tutte le proporzioni. Il sugo vi verrà fuori troppo denso e poi darete la colpa alla ricetta. La carne stracotta va tolta, tutta. E il sugo filtrato. Mangiatela dentro al “cuzzitiello” del filone con una bella grattata di ricotta salata. Ve lo ripeto: dovete toglierla. Ha dato ciò che doveva dare. Adesso non fa più parte della ricetta.

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La carne Adesso si passa alla preparazione del macinato, il condimento, il riempimento del sugo, l’ingredienti che serve a dare corpo al ragù e soprattutto sapore di tostato. Acquistate un pezzo magro, il girello è perfetto per questo scopo. Parliamo del taglio rotondeggiante e affusolato situato lungo il posteriore, un pezzo molto tenero e perlopiù utilizzato nella preparazione di carpacci o arrosti. Io ho scelto un Eye Round GLC Top Selection di black angus, ovviamente frollato e leggermente marezzato. Perché utilizzo carne relativamente magra? Perché il sugo sarà già bello carico di gelatina e la parte grassa la inseriremo successivamente con una manovra a sorpresa. Ingredienti • 1 kg di Eye Round (girello) GLC Top Selection • Olio extravergine di oliva q.b. Macinate o fatevi macinare la carne dal macellaio in maniera grossolana, non vogliamo un omogeneizzato di carne ma grani belli grossi e separati tra loro. Distribuite il macinato su una teglia ricoperta di carta forno, asciugate con cura con della carta assorbente e ungete leggermente con poco olio. Scatenate una massiccia reazione di Maillard cuocendo in forno preriscaldato, con il grill sparato a 230°C e posizionando la teglia al centro del forno. Lasciate lo sportello leggermente aperto per permettere al vapore di fuoriuscire. 90 - BBQ4All MAGAZINE

Ormai sapete come funziona, vero? La reazione di Maillard è quella reazione chimico-fisica che si manifesta quando proteine e zuccheri riducenti, in totale assenza di acqua, vengono esposti ad una fonte di calore. Queste molecole si riallineano e formano nuove molecole, non esistenti in natura, molto profumate, gustose e dal colore ambrato. E come otteniamo una crosta di cauterizzazione perfetta? 1. In totale assenza di umidità. 2. A temperatura della superficie di contatto di almeno 140°C 3. In presenza di zuccheri riducenti. Ce l’avete tutte e tre. Con ogni probabilità, la carne inizierà a buttar fuori dei liquidi. Non buttateli via ma toglieteli dalla teglia; per i motivi che ho già spiegato sopra. Versate il liquido nel tegame con il sugo attraverso un colino. Aggiungerà sapore. A queste punto non vi resta che rigirare il foglio di carta forno e lasciar rosolare l’altro lato, sempre a 230°C, a grill andante. Vi starete chiedendo il perché del forno. Ebbene, rosolando il macinato in pentola si sarebbe sviluppato un grande quantita-


tivo di vapore, che avrebbe sicuramente lessato la carne. E lì dove si fosse riusciti a tostarla, sprecando tantissimo tempo, avremmo ottenuto dei granelli secchi e completamente privi di umidità. Ci serve la reazione di Maillard ma ci serve anche succulenza e sapore. Ecco perché usiamo il metodo dello strato sottile in forno. Le due superfici cauterizzate ci daranno sufficiente Maillard. Ma la carne al centro conterrà ancora succosità e sapore. Ora mettete da parte e dedicatevi alla preparazione del soffritto non soffritto.

Le verdure Così come il macinato, le verdure tradizionalmente utilizzate per il soffritto ci serviranno per amplificare la nota tostata e per apportare dolcezza, nota erbacea e soprattutto freschezza. Non le abbiamo cotte insieme alla carne o al sugo per preservarne gusto, intensità e consistenza. A questo punto preparate una brunoise con: • 200 gr di cipolla rossa (40%) • 150 gr di carota (30%) • 150 gr di sedano (30%) Tagliate le verdure a cubetti di 2-3 mm, asciugatele con cura con della carta assorbente, ungente con olio, che veicolerà il calore, e distribuitele su una teglia ricoperta di carta forno. Cuocete in forno preriscaldato a 180°C posizionandole al centro del forno e rigirandole di tanto in tanto. Dovete ottenere dei cubetti di verdura caramellati, freschi, saporiti e sopratutto ancora intatti.

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L'assemblaggio Ci siamo quasi, se chiudete gli occhi potete già sentire l’eco degli applausi e lo schiaffo bruciante della suocera invidiosa.

aggiungere poca acqua calda, nel caso il “proto ragù” vi sembrasse troppo gelatinoso.

Per dare corpo, struttura e leggerezza al ragù dovete emulsionare la salsa con un grasso. Non con la panna, il latte e derivati. È importante però che il sugo sia ben caldo per ottenere una crema densa e vellutata.

Una volta raggiunti i 70°- 80°C “condite” la salsa emulsionata “sbriciolando” con le manine sante la carne macinata arrostita e le verdurine rosolate. Potreste anche azzardare e calare la pasta, ma vi perdereste 3/4 dell’esperienza. Pazientate un altro pochino, fate raffreddare a temperatura ambiente e poi lasciate maturare in frigorifero. Il ragù si addenserà e tutti gli ingredienti si sposeranno fra loro finché fauci non li separi.

A questo punto potete aggiustare di sale, pepe e quant'altro. Aggiungete 200 grammi di sego bovino fuso, tuffate il minipimer nel tegame e via a smurritiàre su e giù finché non diventa densa e di un colore arancione brillante. In questa fase potete

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Hey, di nuovo. Resistete alla tentazione. Dovete attendere la maturazione del ragù in frigo. Servono 24 ore


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GIORNO 3 È arrivato il momento di mettere la tavola. Quella dei giorni speciali, dei pasti da ricordare. Scaldate il quantitativo di ragù che vi occorre per condire la pasta in una padella ampia, che vi consenta di saltarla nel sugo in agilità. A me il ragù piace con i paccheri, quelli di Gragnano essiccati lentamente, ruvidi, porosi e che trattengono bene il sugo, ma nulla vi vieta di utilizzarlo per condire delle strepitose tagliatelle all’uovo. L’importante è che vi ricordiate di terminare la cottura della pasta nella padella del ragù, allungandolo con pochissima acqua di cottura. Saltatela bene per tirare fuori l’amido e spadellate per quei 3-4 minuti finali. Impiattate e servite incandescente, ma ricordatevi di tenere un po’ di ragù caldo da parte, da aggiungere sopra per fare il montino. Se vi piace, aggiungete una spolverata di Parmigiano Reggiano. Portate a tavola e prendetevi qualche secondo per osservare le reazioni…

“Venivano gli amici e dicevano: «Signo', ma come lo fate questo ragù che fa uscire pazzo a vostro marito? L'altra sera ci ha fatto una testa tanta "E il ragù di mia moglie sotto, e il ragù di mia moglie sopra..."» e mammà tutta contenta l'invitava; e quando se ne andavano dicevano: «Aveva ragione vostro marito». E si facevano le croci.” Preparate questo ragù per i vostri cari e fidatevi di me: vedrete tante di quelle mani incrociarsi in preghiera che manco alla messa della Vigilia di Natale.

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SEGUO - RUBRICA a cura di EMILIANO NENCIONI

SEGUO OSSES S IO NI IN G RIG LIA Episodio 0.1

Antefatto: Nella Seguo di Gennaio scorso vi avevo raccontato di quella volta che durante un corso di barbecue, nel 2015, ritrovai fortuitamente un manoscritto gettato - o dimenticato - in mezzo a un pallet di bricchette. Era l’opera di un appassionato di cottura su fiamma, emotivamente molto disturbato a giudicare dai contenuti e dalla grafia: si trattava della sceneggiatura di una sit-com dal gusto smaccatamente retrò, di ambientazione casalinga - familiare, ma con tematiche decisamente aderenti al mondo barbecue. Evidentemente rifiutata, o mai presentata a nessun network, la sceneggiatura è stata riproposta sulle pagine del Magazine e, contrariamente alle mie aspettative, è stata sottolineata da molte testimonianze clandestine, quella maniera criptata e carbonara che i (sei) lettori della Seguo hanno di fornirmi un feedback di apprezzamento pubblico in Community. Perché, come i lettori più fedeli ormai sanno, non si fanno complimenti. L’episodio pilota pubblicato sul numero di Gennaio continua con un secondo appuntamento, come se l’autore originale avesse avuto la baldanza di supporre che gli scout delle case di produzione potessero essere interessati. Il titolo, come anticipato a gennaio, è:

Mauro esige rispetto

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Riassunto della puntata precedente sotto forma di brevissime clip: Gianni e la fidanzata Tosca partecipano ad una grigliata alla casa paterna di lei, dove il nostro protagonista, appassionato di cottura su fiamma e frequentatore di corsi e community, conosce il padre Sergio e il fratellastro Massimo, un adolescente cupo e riflessivo; si auto invita Mauro, comic relief della serie, invadente vicino di casa e invaghito di Tosca fin dall’infanzia. In breve nascono dissapori e tensioni a causa delle convinzioni “tradizionali” in materia di grilling di Sergio e Mauro, e dell’inevitabile saccenza di Gianni; Massimo, silenzioso osservatore e da sempre detrattore dei metodi di cottura di suo padre, valuta l’idea di servirsi delle conoscenze del cognato Gianni per sovvertire l’ordine costituito dai modi arroganti e repressivi di Sergio. “Ossessioni in Griglia è registrato in presa diretta di fronte a un pubblico, le cui risate scandiranno il ritmo delle varie gag” Esterno, Bed&Breakfast “Il Sottocosto”: Gianni, la cui permanenza nottetempo in casa di Tosca non era stata prevista, si gode un agghiacciante latte macchiato e un cornetto sottovuoto la mattina successiva al drammatico incontro con la famiglia della fidanzata; arriva un messaggio di testo. <3 TOSCA <3 - Stasera mangiamo di nuovo a casa mia. Facciamo di nuovo il barbecue. Comportati meglio. GianPierGianni GrillMaster84 - Sai che tecnicamente è una grigliata sì? <3 TOSCA <3 - Iniziamo molto male >:-/ Ho parlato con mio padre e stasera starai tu in griglia, l’ho convinto a farti provare, dovrà essere tutto perfetto. GianPierGianni GrillMaster84 - Ah non sento affatto la pressione, no.

Stacco, cortile di casa di Tosca: Gianni sta ripassando i suoi appunti di cottura diretta e indiretta sul cellulare, alternando la lettura a esercizi di training autogeno e sporadica iperventilazione; Sergio, con la sigaretta perfettamente aderente all’angolo destro della bocca e degli occhiali da sole a goccia oversize, sbatte sul tavolo il sacchetto bianco pieno di carne appena comprata. S Sei baffe di costine di maiale! Ora le taglio tutte, separando osso per osso, e mi fai vedere la tua famosa tecnica “costine tu perfessiòn” [Sergio si rivolge a Gianni con un ghigno irriverente] G Nonono! No, non tagliamole: vanno cucinate così, intere, ovviamente trimmate, e verranno morbide, succose, umide… S Amico! [Sergio interrompe la spiegazione con una posa da vigile urbano anni ‘50, braccio teso con mano aperta in segno di stop e braccio opposto col pugno appoggiato sul fianco] Qui in casa mia le costine si sono sempre tagliate, e alla bimba [indica Tosca] piacciono belle croccanti, secche, magre, senza quel grassaccio! M Ecco, iniziano [Massimo, mimetizzato nell’ambiente circostante, appare dal nulla e passa davanti all’inquadratura], sta per avere luogo l’eterna lotta fra tradizione e innovazione, fra illuminismo e feudalesimo! G Sai, nel mio gruppo diciamo spesso che la tradizione è un’innovazione che ce l’ha fatta! [Gianni tira fuori il cellulare e mostra agli astanti una schermata di social network] S Nel tuo gruppo di professoroni mi pare si dicano tante cose, ma la tradizione non si batte! Noi italiani abbiamo una tradizione culinaria imbattuta e decisamente superiore [l’inquadratura scivola verso un primo piano di Sergio, la musica si fa epica e marziale], e adesso dobbiamo farci contagiare da quelle americanate? E’ gente che mette il ketchup sulla pasta! L’ananas sulla pizza! Un suono di arbusti e frasche smosse cattura l’attenzione della camera e del pubblico, l’inquadratura si sposta sulla siepe che funge da delimitazione col cortile dei vicini: è Mauro, che fa capolino dal fogliame, spezzando la tensione della scena precedente. MR Ehi ehi ehi!! Ma voi… Invitare mai? [stacchetto di batteria, il pubblico in sala ride sguaiatamente per interminabili secondi all’entrata dell’adorato comic relief della serie] G Noooooo!! [Gianni sprofonda nello sconforto e si sbatte una mano in faccia] MARZO 2020

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Massimo e Tosca, affranti, si tengono le mani a vicenda per darsi coraggio. Mauro scavalca il muretto di cinta e senza esitazione va ad aggiungersi al già problematico duo di appassionati di cottura su fiamma. MR E chi abbiamo qui? Abbiamo il Secco e il suo telefonino pieno di regolette, regoline, forni accesi per cinquantadue ore! L’ho letto sai, quel tuo gruppo, la setta! [Mauro ride sguaiatamente e batte il cinque a Sergio]. E c’è Tosca, e quello che cerca di nascondersi dietro il secchio del compost mi pare proprio sia il mio amico Massimo Scoperto! [Il pubblico ride sguaiatamente] M Oh… un soprannome dal gergo bancario oggi. Te la sei preparata, hai fatto ricerche, hai gugolato? [Massimo alza un sopracciglio e si isola dal gruppo con delle cuffie antirumore] MR Insomma Sergio, vedo che abbiamo delle belle costine! Sai come le chiamano ora? Ribs! Le cuociono per ore, le tuffano nello sciroppo d’acero, le spruzzano con l’aceto di mele, le spennellano con un ketchup che sa di ciliegia! Si! [Mauro, forzatamente entusiasta, si impadronisce dell’inquadratura; il pubblico affoga dal ridere] ...L’ho letto, l’ho letto sul social network! Allora mi sono iscritto, solo per andare a commentare e ho scritto… [prende fiato] S Me lo devi troppo dire!! [Sergio si forza ad usare un linguaggio molto giovane e “nativo digitale”] MR Ho scritto: “Scusate ma LE FANNO ANCHE DA UOMO?” Il frastuono delle risate del pubblico interrompe anche la recitazione, che rimane in pausa alcuni secondi. Qualcuno tossisce per il troppo sforzo. S Cioè dai verament-Ahahaha! [Sergio è sopraffatto dall’ilarità] MR Sì, come se intendessi che se ti piacciono quelle cose è come se tu foss - Ahahaha! [Mauro non riesce a proseguire per la crisi di riso]

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M Grandissime risate davvero, molto maturo come argomento, assolutamente non trivio o scontato, repertorio da stand up comedian ricercatissimo.[Massimo batte sarcasticamente le mani in un lento applauso, togliendo le cuffie antirumore ormai sconfitte] G A dire il vero a me le ribs kansas city style piacciono molto [alzando l’indice della mano destra, Gianni prova a riportare il discorso su livelli decenti], e non è proprio come… MR E TI PAREVA! [Mauro scoppia di nuovo a ridere e prorompe in una parodia del balletto del brano “In the Navy” conquistando totalmente il pubblico] S Va bene, dai, [Sergio si asciuga le lacrime e prova a ristabilire un certo ordine] ma poi ci sei rimasto in questo gruppo? Hai letto qualcosa? MR No, mi hanno buttato fuori subito, quella setta di professoroni! Pensa, si vantano della loro moderazione e del loro clima corretto e tutto gnè gnè gnè! Ma tanto erano insopportabili, ho trovato un altro gruppo molto più simpatico, e… G Possiamo tornare alla cottura di oggi? [Gianni, schiarendosi la voce, riprende il controllo] Avevo in mente di affidarmi a una classica cottura con metodo 3-2-1, MR Seeh, tre, due, uno, fiiiiii! [Mauro dopo il conteggio ad alta voce fischia e fa un gesto teatrale volto ad incorniciare le sue stesse pudenda] Durante le risate del pubblico il dolly alza la camera e l’inquadratura si sposta su Tosca, disillusa e afflitta, e Massimo, amaro e scuro come suo solito. M Non percepisci la bellezza potente di questa scena? [Massimo, particolarmente ispirato, scruta in disparte la conversazione sempre più animata dei tre uomini in griglia] T Cosa ci vedi di bello? E’ un’altra delle tue riflessioni nichiliste e autodistruttive? [Tosca, ormai demotivata, si strappa nervosamente le doppie punte] M E’ teatro, è tragedia, non vedi? Una situazione ad altissimo potenziale, in cui tutto non può che iniziare ad andare male: è come quando sei sulle montagne russe, e dopo l’interminabile salita iniziale sai che stai per precipitare in mille evoluzioni. Un crescendo di tensioni verso uno spannung terribile di litigio, rabbia, recriminazioni: è Jane


Eyre poco prima dell’incendio, è i Promessi Sposi dopo aver sentito “Scommettiamo?”, è il Re Leone all’arrivo del branco di gnu. T Ma fai sul serio? [Tosca è scocciata e incredula] M Non proprio, ho solo visto un’occasione propizia per tirare fuori il mio cinismo e un paio di citazioni letterarie, alle quali ho aggiunto un classico Disney per avvicinarmi un minimo alla pop-culture. Il dialogo introspettivo viene spezzato dalla voce di Mauro e dal suo passo nervoso e piccato mentre si allontana dalla griglia. MR Novvabbè! [urla Mauro con faccia indignata] ...non solo si ribella alla nostra tradizione in cucina, mi manca anche di rispetto! G Mauro ma che dici… torna qua per piacere, oppure rimani lì o altrove, ma francamente ti stai facendo un film tutto tuo! [Gianni prova a rimanere lucido e a sedare la questione] MR No! Non lo permetto! Tu puoi avere anche le tue opinioni, che, voglio dire… ma puoi anche averle! Ma io non ti ho mai mancato di rispetto! E io esigo il rispetto da te! G A parte che, va bene, lasciamo pure perdere il tuo modo di fare e di rivolgersi alle persone ma… quale rispetto? Ti ho solo dimostrato che le tue convinzioni in fatto di affumicatura sono sbagliate e vengono da un clamoroso fraintendimento, dai! [Gianni rivolge verso Mauro una inevitabile “mano a cucchiaio”] MR E dimmi tu se questo non è mancare di rispetto! Tu, davanti a tutti, ti metti non “a supporre”, ma a dimostrare che io ho torto? Ma come ti permetti! Questa cosa l’ho letta sul gruppo che seguo! Quello di gente vera, non di fanfaroni e delle cinquantadue ore di forno! Io ho un sacco di amici che dicono che ho ragione! E sono amici! Veri! Perchè io sono pieno di amici, e quando arrivo io ridono tutti con me! [Mauro, in crisi di valori, si aggrappa alle sue convinzioni] G Mauro, stiamo parlando di affumicatura nel barbecue. Tu mi dici che tieni la legna a bagno nel chianti due ore per affumicare all’aroma di vino, io ti parlo di esperimenti ben precisi che sconfessano questo mito e ti porto a testimonianza un sacco di articoli scientifici. E’ un fatto! Dov’è il problema? [Gianni, conciliante, si stringe nelle spalle e mostra la schermata di un noto blog a tema barbecue] MR Rispetta la mia opinione! [Mauro, con gli occhi spalancati, urla] G Sì, ma quella non è un’opinione: è uno sbaglio. Le opinioni

sono una cosa diversa.[Gianni alza l’indice della mano destra con ritrovata sicurezza] T Anche Parmenide [Tosca finalmente sbotta] contrappone il mondo Secondo Verità a quello Secondo Opinione. L’opinione è una tesi interiore, una nozione imperfetta, una conoscenza di primo grado! S Tosca! Quante volte ti avrò detto di non fare ragionamenti che le persone non capiscono [Severo ammonimento di Sergio] M Sarà per questo che mi accusate di stare sempre troppo zitto quando c’è gente? [Massimo prende la palla al balzo] MR Ma insomma, prima che prendesse la pinza in mano ‘sto secco le grigliate in questa casa erano divertenti! [Mauro incolpa Gianni] T Ma taci tu, che se ti togliamo sessismo e rutti non sai mettere due discorsi in fila! [Tosca reagisce] S ...Tosca! M Nessuno si è mai accorto che io alle grigliate mangiavo solo yogurt bianco? S ...Massimo! G Tosca ma veramente tu hai rischiato di metterti con questo qui? S ...Gianni! [Sergio è via via più inviperito e perde il controllo della situazione] Si scatena il parapiglia. I dialoghi si fanno indistinti. Nel vociare confuso che ne consegue, si sente solo Sergio urlare straziato: S Il barbecue è convivialità!! Dolly che sale, la camera si allontana, musica triste di pianoforte. Timidi applausi del pubblico. La bozza della puntata successiva continua a suscitarmi dei dubbi; il titolo è:

“Non fare quella faccia” Non so se lo leggerete mai. Forse è meglio che torni a parlare di parallelismi fra scienziati e tecniche di cottura del maiale, per non indispettire i miei sei (dato aggiornato) lettori. Emiliano Nencioni (Da un manoscritto anonimo)

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NEW YORK

SLIDERS 200g (4x50g)

Un piccolo hamburger che andrà letteralmente a ruba nelle occasioni di festa. Particolarmente adatto ai bambini per le dimensioni ridotte, è perfetto per aperitivi, cene informali, serate in famiglia. Un vero e proprio boccone di puro sapore, che si presta ad essere declinato in mille versioni e abbinato a un’infinità di sapori, ma sorprendentemente gustoso e succulento anche da solo.

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ORIGINAL

BURGER 200g

Diventa il re della griglia durante le giornate in compagnia di amici e familiari grazie a questo hamburger da 200 grammi. Il perfetto bilanciamento del gusto, dato dall’equilibrio ideale di parte grassa e parte magra nella composizione del patty, lo rende un prodotto di cui non potrai più fare a meno. Dimentica gli hamburger sottili e insapori e preparati a un’esplosione di gusto, senza rinunciare alla praticità di un prodotto confezionato in skin.


BURGER

STEAK 300g

Trecento grammi di carne macinata, condita e ricompattata in una polpetta dallo spessore consistente. Questo Burger Steak unisce le due cose fondamentali che tutti cercano in cucina: qualità ottima e velocità di preparazione. In pochi minuti potrai servire un piatto ricco, bello da vedere, con un sapore esplosivo e una qualità indiscussa. Un hamburger alto, saporito, soddisfacente, che si presta a essere servito in mille modi diversi, mai asciutto e stoppaccioso. Scalda bene la griglia prima di mettere il Burger Steak in cottura, rigiralo spesso per creare la crosticina esterna senza rischiare di bruciarlo, cuocilo per pochi minuti e servilo come una tagliata, aggiungendo il tuo condimento preferito. Un sicuro successo. Un vero salva-cena di altissima qualità.

DOVE TROVARCI puoi trovare la mappa interattiva di tutti i punti vendita costantemente aggiornata all’indirizzo http://products.bbq4all.it/dove-trovarci/


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H T T PS : / / C LU B M E G ASTO R E . B BQ 4 A L L. I T e c hi e di i nfo rmazio n i p iù d ettagliate, pr i ma c he i coac h fin is cano e le is crizio n i ch iu dano .


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