BBQ4All Magazine numero 17 - Maggio 2020

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MAGAZINE

N°17/ANNO 2 - MAGGIO 2020

la ricet ta scientifica di gianfranco lo cascio

CUB AN SAN DW ICH

COME SI FANNO

SPECIALE PANINI lampredotto, porchetta, pane e panelle, philly cheese steak, burrito, kebab sandwich, croque monsieur, po'boy

PIADINA E FOCACCIA BARESE INTERVISTA ALLO CHEF

MAX MARIOLA

"Pensate al panino come una pietanza, togliendo il pane, dovreste poterlo servire come un piatto"


D I R E T TO R E E D I TO R I A LE

Rossella Neiadin

R E D AT T O R E C A P O

Michela Bongiorni REDAZIONE

Enio Berton, Virgilio Brunetti, Roberto Dal Bosco, Tommaso Di Gregorio, Salvatore Di Mento, Luca Gallozza, Mariangela Ibba, Gianfranco Lo Cascio, Riccardo Meniconi, Emiliano Nencioni, Andrea Spaggiari, Alessandro Trezzi, Carlo Trono, Alberto Zonghetti. REALIZZAZIONE GRAFICA

Impaginazione a cura di Carlo Trono Le illustrazioni dell’articolo “La banalità del pane” sono di Eleonora Castagna Le illustrazioni degli articoli “La focaccia barese: non chiamatela pizza!” e “E quel progetto di esportare la piadina romagnola?” sono di Ozzy Bellesi S TA M P A

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EDITORIALE di GIANFRANCO LO CASCIO

Dottore mi aiuti! ho un attacco di

PANE Di merende adolescenziali e panini inverecondi mangiati sul divano

Certe volte mi piglia come una smania, un tumulto interiore che mi sospinge con nervo davanti allo sportellone argenteo del frigorifero. I miei attacchi di pane si consumano di notte, quando nessuno guarda e il divano diventa un’isola, un fazzoletto di terra sul quale piantare una tenda e trovare un po’ di pace. Il cielo stellato sopra di me, toastino notturno dentro di me. Lo chiamo toastino perché è solo mio. Mi piace mangiarlo in solitaria, mi piace tutto del rito che lo accompagna. Mi piace scegliere la seconda fettina di pane nella confezione, perché la prima di solito è secca e col cappero che la mangio. Mi piace imburrare la base con il coltello dalla punta arrotondata, magari scaldato sul fornello per far sciogliere il burro più velocemente. Mi piace l’odore lattico e quasi zuccherino che si sprigiona quando la mollica unta sfiora la ghisa e arrossisce per la vergogna, mi piace lo sfrigolìo e il vapore che ammanta la cucina. Mi piace fare quattro mucchietti del salume di turno, generalmente mortadella o coppa di maiale, grandi quanto un boccone. Mi piace esagerare con il formaggio, strati su strati di scioglievole formaggio, che poi scaldandosi tracìma come magma e lava via tutti i peccati. E ustiona pure le mucose. Ma non importa, perché la bocca non brucerà mai quanto il mio cuore. Lo confesso: amo il toastino più di molte persone. Ed è per questo che ho deciso di dedicare un intero numero del BBQ4All Magazine ai toast, ai sandwich, ai panini insomma. Panino s. m. [dim. di pane]. – Piccola forma di pane, in genere tondo o ovale, talora anche di pasta dolce, spesso reso più soffice con l’aggiunta di altri elementi all’impasto (p. all’olio, al burro, al latte); viene spesso tagliato orizzontalmente e farcito con ingredienti varî: p. ripieno; p. imbottito; p. al (o col) prosciutto, salame, formaggio e sim.; mangiare un p. al bar; preparare i p. per la gita al mare. Questa è la definizione che accompagna le merende, i pranzi veloci, i peccati notturni da prendere a morsi davanti alla tv. Il panino italiano nasce ad inizio '900, e Alberto Cougnet è il primo a distinguere tra sandwich e panini ‘gravidi', inserendo questi ultimi in un ricettario, indicati con un vocabolo italiano, anzi fiorentino. All’epoca il sandwich era borghese e aristocratico (protagonista di antipasti, buffet, pic-nic, viaggi), mentre il panino, variato da città a città, era cibo per lavoratori e gente qualunque. MAGGIO 2020

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di carne con cui viene riempito. Il condimento può variare: c'è chi preferisce gustarlo con insalata e pomodori, chi con il formaggio fuso e chi nella versione classica con pane di segale, cetriolini sottaceto e senape. Fan Fact: visitando il locale a New York dove il film "Harry ti presento Sally" è stato girato, Katz's Delicatessen, potrete anche sedervi allo stesso tavolino dove era seduta la giovane protagonista e, alzando gli occhi al soffitto, leggere: dove Harry ha incontrato Sally… spero che tu possa provare quello che ha provato lei! E il termine “sandwich” invece, da dove salta fuori? Proprio per risparmiare tempo, se non denaro, a metà ‘700 il conte inglese John Montagu di Sandwich aveva cominciato a farsi portare direttamente alla scrivania e al tavolo verde una generosa porzione di roastbeef chiusa tra due fette di pane. La cosa gli era piaciuta a tal punto da richiedere lo stesso servizio quando si trovava fuori casa, diffondendo il nuovo verbo dello street food. Non è la prima volta che parliamo di sandwich noi di BBQ4All, permettetemi di fare un riassunto prima di introdurvi alle

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sale dorate di pane tostato e farcito con la qualunque. PASTRAMI SANDWICH (Aprile 2019) È impossibile visitare la città di New York senza addentare un panino ripieno di questa carne affumicata: sarebbe come visitare l'Italia senza mangiare il gelato o la pizza. Il pastrami può essere preparato con la carne di manzo, di tacchino, di maiale, di montone, ma di fatto il più apprezzato rimane il beef pastrami. Il classico sandwich farcito con questa prelibatezza affumicata può essere alto anche 10 cm, grazie allo strato esagerato

BURGER (Giugno 2019) Polpetta rotonda stretta fra due strati di pan brioche. L’hamburger deve avere dei tratti caratteristici che i nostri fratelli americani hanno delineato per noi. Non sto parlando di ricette o di condimenti, ma mi riferisco alle migliori tecniche per ottenere i migliori risultati. Come si prepara il Patty perfetto? Un buon compromesso può essere quello di utilizzare 4 parti di magro, 4 parti di tagli ricchi di collagene e 2 parti di grasso. Punta di petto e reale andranno benissimo. Il grasso potrete riciclarlo da questi stessi tagli.


fatto un cucchiaio commestibile che può contenere un numero infinito di cibi. E non esiste un prototipo di categoria, non c'è il taco numero uno. A Baja California li riempiono di marlin affumicato, nello stato del Querétaro servono tacos di manzo, fritti nello strutto di maiale; in Chiapas servono il pito tacos, fatto con polpettine di fiori dell'albero del corallo, impanate e fritte e poi servite nel taco con zuppa di pomodoro.

Per macinare è necessario un tritacarne, ma se non lo avete arrangiatevi con un robot da cucina. Tagliate la carne a cubetti, grasso compreso, lasciatela nel freezer per una mezz’ora. Mettete tutto dentro al robot e tritate facendo girare il motore ad impulsi. Controllate e fermatevi quando avrete raggiunto la consistenza di vostro gradimento. Questo metodo, oltre a garantire la giusta struttura della vostra polpetta, limita la formazione della carica batterica che risulterà nettamente inferiore rispetto a quella della carne già macinata dal macellaio. Oppure procuratevi un burger BBQ4All.

che l'espressione echarse un taco (farsi un taco) è diventato sinonimo di mangiare un boccone; così come la frase Le echas mucha crema a tus tacos (hai aggiunto molta panna acida ai tuoi tacos) si usa per definire una persona che si dà troppe arie, che si crede migliore di ciò che è in realtà. Inventato tra 1.000 e 500 a.C., il taco è di

HOT DOG (Ottobre 2019) La conquista deI salsicciotto tedesco, il Wurst, non si limitò alla sola Europa, ma nel XVIII secolo ha solcato l’oceano conquistando anche i futuri Stati Uniti, determinando la nascita dello street-food più conosciuto al mondo: l’Hot-Dog. Tutto partì dallo stato del Winsconsin dove si stabilirono i primi immigrati tedeschi portando con sé le proprie tradizioni, tra cui la deliziosa salsiccia che iniziarono a commercializzare. Inizialmente veniva venduta senza il classico panino di forma allungata, servita bollente direttamente dalla piastra su un foglio di carta. Un supplizio per i poveri clienti. Ma in Missouri la signora Anton Feuchwanger pensò bene di schiaffare la salsiccia nel pane, incrementando anche gli affari del fratello panettiere. Sicuramente l’aggiunta del panino permetteva di mangiarla più agevolmente e di accompagnarla anche con diverse salse. Le origini dell’Hot Dog sono incerte ed esistono diverse leggende. Tuttavia, a consacrarlo agli inizi del ‘900 fu la famosa vignetta di Tad Dorgan, che disegnò un bassotto allungato dentro un pani-

TACO (Settembre 2019) Esistono taco con carne di manzo, di maiale, di pollo, di pesce oppure esclusivamente di verdure. Originari di Città del Messico, sono nati come cibo povero ma sono man mano diventati un cibo da strada idolatrato in tutto il mondo. In Messico il taco non è solo un cibo, ma è diventato un modo di dire, uno stile di vita. Come scrivono Déborah Holtz e Juan Carlos Mena, autori di Tacopedia, i messicani li mangiano talmente spesso MAGGIO 2020

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reputazione del ristorante dell’albergo di turno. Non sono ammessi errori. Eppure, i cuochi costretti a prepararlo agli affamati ospiti lo adorano perché pare ricordi loro i tempi della gavetta, quando per espiare una colpa o per riparare a un errore venivano messi in cucina a preparare Sandwich a ripetizione. KATSU SANDO (Febbraio 2020) Il Tonkatsu (豚カツ, とんかつ o トン カツ) è la cotoletta di maiale fritta giapponese che fa parte della categoria degli “agemono”, i cibi fritti del Sol Levante. Si prepara partendo da una fetta di carne di maiale spessa 1-2 centimetri, si immerge in una pastella di acqua e farina, si arrimìna nel panko (il pan grattato nipponico) e si glorifica friggendola in immersione in abbondante olio. A cottura ultimata si taglia a striscioline e si serve con cavolo cappuccio affettato sottile e zuppa di miso. Oppure si schiaffa tra due fette di pane morbido, il famoso pane al latte giapponese, lo shokupan, insieme al cavolo cappuccio tagliato a chiffonade e abbondante salsa agrodolce. È così che nasce uno dei miei sandwich preferiti: il Katsu Sando. PANE E PANELLE Un panino inventato a Palermo, la città dove sono nato, durante la dominazione araba intorno all’anno mille. Per prima cosa si prepara un impasto di farina di ceci, acqua e finocchietto , si cuoce e si lascia freddare. Dopodiché si taglia in fogli sottili, si frigge e si infila nel pane. Nel corso dei secoli il piatto ebbe tanto di quel successo da finire sulle tavole no con la testa e la coda di fuori. Ironia apprezzata e capita da pochissimi, tanto che in molti iniziarono a credere che fosse veramente fatto con carne di cane. CLUB SANDWICH (Gennaio 2020) Tre strati di carboidrati imburrati e tostati che fanno quadrato tra succulenti straccetti di pollo, bacon sfrigolato e croccante, una botta fresca di insalata verde e pomodori affettati, il tutto avvolto e benedetto da un seduttivo strato di maionese. Nato a fine ‘800 in America, è un’icona del fast food (anche se la preparazione è decisamente slow) molto prima che arrivasse il Big Mac. Considerato il piatto jolly in tutti gli Hotel, richiesto a qualsiasi ora del giorno e della notte, è in grado, da solo, di intaccare la 6 - BBQ4All MAGAZINE


più illustri, passando dai reali fino ai più grandi scrittori e letterati del secolo passato. Io non sarò un illustre scrittore, ma di Pane e Panelle, di quelli con la mafaldina e i crocché bollenti, ne ho mangiati bancali. KEBAB SANDWICH Si dice sia di origine persiana: sembra che già nel ‘400 i cavalieri persiani cuocessero la carne montandola sulle spade. In Europa invece la sua importazione risale a circa 50 anni fa, non si sa bene ancora se per mano degli inglesi o dei tedeschi. Forse venne servito per la prima volta nel 1966 a Stoke Newington, a Londra. Oppure a Berlino, grazie a due emigrati turchi nei primi anni 70’.

(secondo volume su sette della sua opera letteraria più importante, Alla ricerca del tempo perduto, 1913-1927). “Ora lasciando il concerto, nel prendere il sentiero che va in albergo, ci siamo fermati un momento sulla diga, mia nonna ed io, per scambiare qualche parola con la signora de Villeparisis, che ci ha detto di aver ordinato per noi all’hotel croque-monsieur e crema d’uova.” Il croque-monsieur deve essere preparato con il pan de mie farcito con besciamella densa e burrosa, formaggio a pasta filante (Emmentaler o Groviera) e prosciutto cotto; la parte superiore del panino deve essere ricoperta con

uno strato grondante di besciamella e formaggio grattugiato. E poi deve essere tassativamente gratinato. CUBAN SANDWICH L’ho tenuto apposta per ultimo, non vedo l’ora che leggiate la Ricetta Scientifica di questo mese per replicarlo a casa alla perfezione. Pane cubano, prosciutto affumicato, maiale succoso, formaggio filante e cetriolini croccanti. Non è un elenco di ingredienti, è la trama di un film a lieto fine. A proposito di film, chi ha visto “Chef, la ricetta perfetta”? [Segue a pagina 80]

Il kebab viene cotto sullo spiedo (shish), che può essere orizzontale o verticale (döner kebab). La parola döner sta proprio ad indicare il movimento rotatorio dello spiedo. Il classico panino con Kebab, quello che abbiamo mangiato tutti almeno una volta nella vita (io qualcuna di più), viene generalmente realizzato con la pita, un pane antichissimo e molto versatile. CROQUE MONSIEUR Tra gli estimatori più famosi di questo toast troviamo lo scrittore Marcel Proust, al quale si deve la prima citazione letteraria nel romanzo All’ombra delle giovani figlie in fiore, pubblicato nel 1918 MAGGIO 2020

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INDICE MAGGIO 2020 - NUMERO 17 ANNO 2

RUBRICHE

3 . L ' E D I TO R I A L E D I G I A N F RA N CO LO CASC I O

HO UN ATTACCO DI PANE

1 0 . PO RT FO L I O G AST RO N OM I CO

LA banalità del pane 18. ARTE BIANCA/1

LA FOCACCIA BARESE 24. ARTE BIANCA/2

LA PIADINA ROMAGNOLA 2 8 . I N T E R V I S TA

MAX MARIOLA

RICET TE DI MAGGIO SPECIALE PANINI 32. LAMPREDOTTO E TRIPPA 36. PANE&PANELLE 38. PORCHETTA 42. Philly cheesesteak 44. LAMB kebab 48. BURRITO 50. Le Croque Monsieur 54. PO'BOY 58. CROSTATA MANDORLE E GRAND MARNIER 60. ABBINAMENTI CONSIGLIATI

APPROFONDIMENTI

65. COSTUME

IL MALE VEGETARIANO SPIEGATO ALLE RAGAZZE 69. LE RAZZE

RUBIA GALLEGA 7 2 . STO R I A LO SPIEDO 76. THE CHEMICAL GRILLER ADDENSARE UNA SALSA - PARTE II

8 0 . L A R I C E T TA S C I E N T I F I C A D I G I A N F R A N C O L O C A S C I O

CUBAN SANDWICH AMIGDALA 96. SEGUO

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PORTFOLIO GASTRONOMICO a cura di ALBERTO ZONGHETTI

la

banalità del

pane

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Farina, acqua, lievito. Assoluta semplicità. Banalità, verrebbe da dire, con l’accezione del linguaggio moderno che ne evidenzierebbe l’ovvietà, la mancanza di originalità o di eccezionalità. Invece il termine “banalità” a cui voglio riferirmi nel titolo è, piuttosto, riferito al significato etimologico originario: dal francese banal, in origine è inteso come appartenente al signore, al padrone; successivamente, significava comune a tutto il villaggio. Nell’antichità feudale qualcosa di banale, come un luogo, un edificio, un apparecchio, era qualcosa il cui uso era concesso all’intera comunità. Così la banalità di un acquedotto, di un mulino, di un forno, aveva un’accezione ben diversa da quella odierna; ciononostante si intende bene come il significato si sia poi esteso al non originale, al triviale, all’ovvio: il banale è il comune. Il pane pertanto “apparteneva” prima al feudatario, al vescovo, al monastero – a chiunque insomma detenesse il potere sul territorio – perché sia la produzione casalinga che i forni comuni nei quali si cuoceva il pane erano loro proprietà: l’uso era sottoposto ad una tassazione. Successivamente, il pane divenne “comune a tutto il villaggio” perché la gestione dei forni, in età comunale (siamo intorno al XII secolo), passò alla gilda dei panettieri. Curioso, vero? Il significato della parola banal sembra trasformarsi proprio come chi detiene la produzione del pane. Perché era così importante la gestione di un alimento apparentemente così semplice? Perché il pane è, contemporaneamente, cibo e simbolo. Lontanissimo dall’essere banale nella moderna accezione, è l’emblema della eccezionalità, il simbolo del nutrimento, metafora stessa dell’esistere umano. Iniziamo quindi il nostro viaggio: io sarò solo un semplice narratore che cercherà di semplificare un discorso complesso senza però tradirne la profondità e l’importanza, a vantaggio di tutti noi che amiamo non solo la griglia, ma la cucina e la ricchissima cultura del cibo. Viaggio che sarà suddiviso in due tappe e sarà scandito da parole chiave come riferimento per il nostro percorso: nella prima darò voce all’antropologia, la scienza che studia gli uomini e le loro usanze nelle difMAGGIO 2020

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ferenti società, e si parlerà di ciò che rappresenta il pane per l’uomo; nella seconda sarà la storia a raccontarci il percorso del pane presso i popoli nei vari secoli. LAVORO Sembra facile, ma il pane si costruisce col lavoro, tanto: coltivare la terra, seminare il grano, attendere che cresca, raccoglierlo. Batterlo, per isolare il chicco dalla paglia. Preparare un luogo appropriato (asciutto, fresco) per conservare il chicco, e ogni tanto macinarlo, con abili gesti manuali o con macchine complesse, mosse dall’acqua o dal vento o, più recentemente, da un motore elettrico. Stivare la farina in sacchi grandi e piccoli, mantenendola, anch’essa, in luoghi adatti. Impastarla con l’acqua, far lievitare la pasta con minuscoli enzimi, per loro natura pericolosi, ai quali abbiamo insegnato a comportarsi bene, costringendoli a lavorare per noi. Attendere un po’ e mettere in forno, dosando sapientemente il calore della fiamma. La quantità di cultura, cioè di sapienza e di lavoro, che questo lunghissimo procedimento contiene in sé ha dell’incredibile. Sembra quasi la somma delle abilità umane, delle tecniche e dei saperi messi insieme in svariati millenni, fino a renderci capaci di addomesticare la natura e di trasformare il mondo. L’uomo doma la natura, le forze intangibili del creato spesso ostiche e avverse. CIBO E SIMBOLO Il pane è uno degli alimenti più ricchi di significati, di funzioni e di valenze culturali: porta con sé memorie, valori simbolici, tradizioni che vanno oltre il semplice sfamare il corpo: il pane nutre anche lo spirito. Studiare il pane significa conoscere quali sono le sostanze di cui è fatto, le tecniche e la sapienza necessari alla sua produzione e al suo consumo e, infine, le reti di relazioni sociali e i significati culturali che caratterizzano le tante forme che assume, nella nostra e nelle altre culture. Il pane rappresenta per l’uomo il riscatto dalla fame e diventa, nel mondo rurale, il simbolo per eccellenza dei cicli stagionali; si inserisce in tutta quella serie di riti che servono a riscattarsi dal senso di insicurezza e precarietà su cui si basava il vivere quotidiano. Al tempo stesso non si può non riportare l’importanza che questo rivestiva 12 - BBQ4All MAGAZINE

nel consumo comunitario del pasto, nella necessità di dividerlo e di offrirlo agli altri, di scambiarlo, di ostentarlo per affermare posizioni di prestigio sociale. La presenza di questo alimento all’interno degli eventi festivi e cerimoniali ne attesta le valenze magiche e simboliche, tanto da divenire offerta votiva, dono o talismano. Per capire meglio questo complesso modo di essere insieme cibo e simbolo, occorre però affidarci a tre categorie che caratterizzano il pane: l’uso, la forma e gli ingredienti. L’USO Bisogna subito distinguere l’uso quotidiano che si fa del pane (quindi a scopo nutritivo) da quello cerimoniale. Se il primo infatti sfama, il secondo veicola una varietà di significati, e non sempre occorre consumarlo. Il suo complesso simbolismo si riferisce ad ambiti quali la sessualità e la fecondità umana, la fertilità della terra, il ciclo vita-morte, la salute e il benessere di uomini e animali. Lo ritroviamo come elemento portante di tutta quella ritualistica relativa al ciclo della vita (nascita, iniziazione, matrimonio, morte) e dell’anno (semina, coltivazione, raccolta, feste del raccolto). Questo perché nelle società arcaiche la vita era concepita in termini di cicli e il grano, che consentiva di avere il pane, era sentito come metafora sacra di questa concezione. Possiamo cogliere il valore sacro di questo alimento da una

semplice osservazione: un po’ ovunque produzione, preparazione e consumo di questo cibo sono accompagnati da gesti, preghiere, formule e riti di propiziazione e ringraziamento. LE FORME La sagoma, lo spessore, la dimensione, invece, sono sempre simboliche. La forma è il mezzo attraverso il quale l’uomo dialoga con il sacro. Gli antropologi ci dicono infatti che la forma non nutre: veicola informazioni e non calorie. Nella confezione e nella modellazione dei pani rituali si riassumono i significati simbolici e rituali di una determinata festa. Ogni festa ha ovviamente i suoi cibi rituali, ma ritroviamo il pane quasi sempre protagonista di altari e banchetti, di doni e di voti. Quest’ultimo però, proprio perché deve sottolineare la particolare dimensione festiva rispetto a quella feriale, è diverso da quello quotidiano soprattutto per la forma che deve riassumere in sé i significati simbolici e rituali di una determinata festa. Il pane diventa così il marcatore culturale di quella particolare festa, caratterizzandola in maniera netta (pensiamo al panettone a Natale, ai pani di San Giuseppe, alla colomba pasquale).


Le sue varie tipologie veicolano messaggi e significati culturali attraverso le diverse forme, che possono essere svariate: geometriche, vegetali, floreali, antropomorfiche, simbologie astrali, iconografie greco-romane e giudaico-cristiane. Tutte sono il retaggio delle antiche offerte primiziali alle divinità. GLI INGREDIENTI Che sia alimento o che sia segno, il pane è sempre una combinazione di ingredienti, in base ai quali possiamo distinguerne varie categorie: con o senza lievito, con l’uso di differenti cereali e con l’aggiunta di altri ingredienti all’impasto base per distinguersi dal pane quotidiano. Gli elementi che lo compongono possono cambiare anche a seconda dei destinatari del suo consumo, ricchi o poveri, ma anche in base alla loro simbologia. Questo vale in special modo per i pani votivi e cerimoniali. Ma la caratteristica più importante da osservare, in questo contesto, è la presenza o meno del lievito, e di come e quanto è fatto lievitare il pane (orizzontalmente o verticalmente). Tuttavia, lo straordinario spessore

simbolico attribuito al pane non si comprenderebbe senza una reale eccellenza del manufatto. L’ampiezza e l’importanza dei valori assunti di questo prezioso alimento nella nostra cultura non sarebbero state possibili senza un alto valore “intrinseco” del prodotto, senza un gusto, un sapore, un profumo, una qualità alimentare e gastronomica impareggiabili. Prima di diventare altro, il pane è stato davvero, concretamente, il re degli alimenti, e ha potuto esserlo perché su di esso gli uomini hanno investito tutte le loro energie fisiche e mentali. DACCI OGGI IL NOSTRO PANE QUOTIDIANO Così recita la preghiera del Padre Nostro: per il Cristianesimo il pane eucaristico diventa il corpo di Cristo, una sostanza divina commestibile che, sotto forma dell’ostia, viene offerta al fedele. Un ruolo fondamentale, di assoluta centralità. Troviamo però anche altri significati: il pane è la grazia spirituale concessa a chi pratica le più elevate con-

templazioni, è la sacra dottrina, è Cristo stesso. Come fondamento dell’alimentazione esso rappresenta anche l’essenza della carità, la consolazione per chi ha fame in senso fisico e spirituale, la comprensione delle Scritture. A causa della sua lenta e articolata preparazione, rappresenta il travaglio fruttuoso, quello che una volta superato rende più forte lo spirito. Ma questa preghiera per molti non aveva affatto un significato simbolico, era propria una litania scaccia-fame. Pregare Dio di assicurarci il pane vuoI dire, in ogni caso, chiederGli (chiunque Egli sia) di farci essere noi stessi, di conservare quella identità umana, quella dignità, quella capacità di pensare e di fare che faticosamente abbiamo saputo costruire e trasmettere dall’una all’altra generazione. MAGGIO 2020

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PANE E COMPANATICO Esiste una sorta di grammatica dell’alimentazione – non scritta - la cui più importante regola universale è quella che vede il pasto composto da un alimento base, che fornisce l’essenziale di ciò che viene considerato come nutrimento, associato a un companatico a base di ingredienti vari (carne, pesce, latticini, verdura e condimenti vari). Il companatico ha il compito di insaporire l’alimento base, di norma abbastanza neutro nel gusto. La formula è quindi molto semplice: nutrimento + companatico dove, a un’analisi più approfondita, scopriremo che l’alimento base è sempre un farinaceo, mentre il companatico assume forme diverse. Se al farinaceo spetta il compito di apportare quante più calorie possibili (necessarie a generare forza lavoro) al companatico spetta quello di colmarne le carenze, apportando amminoacidi, vitamine e sali minerali. In virtù dell’essere un vero e proprio nutrimento, il pane è considerato primario nell’alimentazione, poiché sazia, dà forza e vigore. Il companatico d’altro canto è secondario, è un piacere utile a condire ciò che è imprescindibile sulla tavola: è la mancanza di nutrimento, non di condimento, che fa patire la fame. Scopro quindi ora perché mio suocero, il quale patì la fame durante il secondo dopoguerra nutrendosi di alimenti razionati e di pane - tanto pane, altro non c’era - è così critico nei mieiconfronti, dato che solitamente ne limito il consumo ad una fetta o due al massimo durante il pasto (bruschette escluse!): durante i primi tempi mi guardava con sospetto, insisteva offrendomi ad ogni piatto bocconi di pane ma io non capivo e declinavo con malcelato imbarazzo. Un giorno esplose, additandomi come un…non ricordo bene cosa, ma non era un complimento! Ricondussi l’accaduto ad una delle sue numerose intemperanze, senza capirne bene le ragioni. Ultimamente mi addita, con maggiore rispetto, come quello che tanto non mangia pane. Evidentemente il mio consumo del carboidrato non è sufficiente secondo la sua visione della questione; ma ora la questione è chiara, sono un parassitario divoratore di companatico! Non ho conosciuto la fame e oso saziarmi con ciò che, nella sua idea, è accessorio! Faccio parte delle smidollate nuove generazioni che si permettono questo affronto! Sacrilegio! Però non preoccupatevi, andiamo d’accordo abbastanza…ci rispettiamo con stima. IL PANE NELLA STORIA Questo alimento accompagna la storia dell’uomo da almeno diecimila anni. È infatti nell’era di passaggio tra Paleolitico e Neolitico (tra il 10.000 e l’8.000 a.C.) che l’uomo inizia a coltivare cereali (grano, segale, farro). Ne sono testimonianza ritrovamenti archeologici in varie zone dell’Europa occidentale e del Medio Oriente. È difficile stabilire una data esatta in cui l’uomo “inventò” il pane. Per lunghi periodi, infatti, l’uomo si cibò dei chicchi interi – crudi o cotti – o macinati con pietre. Il passaggio successivo avvenne quando la farina, di grana grossa e non pura, fu unita all’acqua. La pappa così composta aveva un buon potere nutrizionale, ma non era facilmente digeribile. Il primo passo importante nell’evoluzione del pane si ebbe probabilmente per caso: quando cioè un recipiente con farina e acqua fu lasciato a lungo vicino a un fuoco. Si vide allora che questi ingredienti tendevano a rassodarsi e a creare un impasto più o meno omogeneo; oppure potrebbe essere capitato che un impasto di acqua e farina venisse appoggiato su una pietra calda, in modo da consolidarsi rapidamente e dare origine a 14 - BBQ4All MAGAZINE

una rudimentale focaccia. I popoli della Mesopotamia si nutrivano principalmente di cereali, soprattutto orzo, da cui ricavavano pappe calde, pani molli, focacce. GLI EGIZI, I PRIMI PANETTIERI In questa storia un capitolo decisivo l’hanno scritto gli Egizi, gran popolo che secondo lo storico Erodoto (484 - 425 a.C.) «fece ogni cosa in modo diverso dai comuni mortali». Eccellenti agricoltori, in pratica sono stati loro i primi veri panettieri ed hanno posto le basi affinché il pane potesse conoscere un successo senza fine e senza frontiere. In sostanza, ai tempi in cui i Romani ancora si nutrivano di una semplice pappa di farina e i Greci di una specie di sfoglia cotta sul fuoco, gli Egizi già applicavano con sistematicità quella che assai più tardi sarebbe stata chiamata la lievitazione naturale. Erano capaci, insomma, di mettere in tavola pagnotte gonfie e appetitose, fragranti e profumate. Tutto ciò allora era considerato un fenomeno misterioso, dall’origine forse soprannaturale. Come facevano, gli Egizi, a compiere un tal miracolo? Non dimentichiamo che questo popolo produceva la birra e aveva una certa dimestichezza con la fermentazione spontanea. In ogni caso, avevano scoperto che per ottenere il “magico” risultato bastava aggiungere all’amalgama di chicchi macinati ed acqua un pezzetto di pasta avanzata il giorno prima, dal sapore un poco acidulo, che per questo veniva gelosamente custodita - come fosse cosa sacra - in ogni casa egizia (oggi, la piccola quantità di pasta tenuta da parte è chiamata levatina). Maestri indiscussi nell’arte della panificazione, si guadagnarono l’appellativo di «mangiatori di pane», tanto che già allora lo preparavano in una cinquantina di modi e forme differenti: utilizzavano vari tipi di farina, di orzo, di amido o di frumento, che venivano lavorati con miele, burro, latte, uova. Il pane più diffuso si chiamava ta; quello mangiato dai soldati era chiamato “pane degli asiatici”. La fabbricazione era casalinga; le ville signorili avevano la propria officina di panificazione. Il panettiere si cominciò ad affermare a partire dal Nuovo Regno, periodo in cui si diffuse l’uso del forno, che permise la fabbricazione commerciale del pane. IL POPOLO EBRAICO Più tardi gli Egizi trasmisero i segreti della panificazione agli Ebrei, che però producevano soltanto una sorta di panini rotondi spessi circa tre centimetri. Nella cultura ebraica, durante il periodo di Pessach (la Pasqua ebraica) era proibito mangiare cibo lievitato, pertanto anche il pane doveva essere azzimo ovvero senza lievito. Presso il popolo d’Israele, che attribuiva al pane importantissimi significati religiosi, la professione di fornaio godeva di grande prestigio ed ogni città aveva un forno pubblico adibito alla cottura dell’impasto. I RINOMATI PANI GRECI Dagli Egizi appresero a panificare anche i Greci, nel cui mondo l’idea del pane era strettamente legata a quella della fecondità della terra (basti pensare a Demetra, la dea raffigurata con le messi, celebrata durante i riti dei misteri eleusini connessi ai culti agrari). Gli allievi, poi, si dimostrarono degni dei loro abili maestri:


tra l’altro perfezionarono la costruzione dei forni, portando quest’arte ad elevati livelli, e produssero pane in tante ottime specie utilizzando diversi cereali: se l’orzo era ritenuto sacro, erano adoperati anche avena, spelta, grano. La panificazione si svolgeva in ambito domestico ed era una pratica tipicamente femminile.

La stessa molitura dei cereali non restò più la stessa: i vecchi mortai furono a poco a poco accantonati per far posto alle macchine rotanti, a trazione animale, umana o idraulica. Ma la più grande innovazione introdotta nell’industria panaria dai Romani fu senza dubbio l’abbinamento del forno e del mulino.

Secondo cronisti dell’epoca, già nel periodo classico - cioè tra il VI ed il V sec. a. C. - ce ne erano ben 72 tipi diversi: 50 di impasto semplice e 22 più complessi (gli antenati della pasticceria), con miele, latte, vino, formaggio. Rinomati erano per esempio i pani di Cappadocia (lievitato col latte) e di Cipro (cotto sotto la brace) o il profumato amogee, il pane dei contadini, ottenuto da una miscela di cereali. Omero nell’Odissea fa pronunciare a Ulisse queste parole per descrivere Polifemo: “Era un mostro gigante, e non somigliava a un uomo mangiatore di pane”. Ciò significa che nutrirsi di pane era segno di civiltà, ciò che distingueva l’uomo dai barbari e dagli essere mostruosi dominati dall’irrazionalità e dal caos.

Nella città eterna, dove sorsero le prime botteghe per lo smercio di pane (risulta che nel terzo secolo d. C. ce ne fossero ben 254), compare anzitutto la categoria dei mugnai e successivamente quella dei fornai panettieri: sotto Traiano (che, nato nel 53, fu imperatore dal 98 al 117 d. C., anno della sua morte), riuniti in corporazioni presero a fornirlo a tutta la collettività. All’epoca dell’Impero Romano il pane era l’alimento base per gran parte della popolazione e, per evitare sommosse e rivolte, bisognava assicurarlo a tutti. Per questo, vigeva una specifica legislazione, un editto stabiliva tra l’altro che il pane di frumento fosse più sano e preferibile alla sorta di polenta (puls) e agli altri impasti di cereali in uso, e che era consentito acquistare frumento in pubblici granai ad un prezzo inferiore a quello di mercato.

PANEM ET CIRCENSES E nell’antica Roma? Come in tutte le grandi civiltà, soprattutto presso quelle mediterranee, il significato simbolico del pane era alquanto rilevante. A Roma, però, entrò nell’uso quotidiano soltanto verso la fine del periodo della Repubblica: stando a quanto racconta Plinio, la sua cottura fu introdotta nel 168 a. C., ad opera di alcuni schiavi catturati in Macedonia dopo la sconfitta del re Perseo. Fino ad allora i Romani mangiavano cereali sotto forma di chicchi crudi allo stato lattiginoso o arrostiti sul fuoco, e minestre di fave, lenticchie, piselli, fagioli e ortiche. Il modello di forno introdotto dalla Grecia fu nel volger di poco tempo perfezionato, per adattarlo alle esigenze di una «industria» di fondamentale importanza in una grande città come Roma.

Quali e quanti tipi di pane si facevano nella potente antica Roma? Plinio ci parla per esempio del panis streptipcius, forse un antenato dell’odierna pizza (era composto da un impasto leggero di farina, acqua, latte, olio, strutto e pepe, e veniva cotto rapidamente a sfoglie sottili), dell’artologalum (una sorta di sfoglia che serviva da antipasto), del panis adipatus (grassottello, in effetti, perché condito con pezzi di lardo e pancetta), del panis testicius (antenato della piada romagnola) preparato e consumato dai legionari nei loro accampamenti. Ma i pani erano moltissimi, e tutti in certo modo speciali perché - come si può notare persino dai nomi loro attribuiti - riflettevano una divisione rigidamente classista della società. I fornai romani realizzavano anche prodotti con forme bizzarre ed artistiche, in base all’estro del panificatore ma anche MAGGIO 2020

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allo status del committente: a forma di chiavi, dadi, trecce e quant’altro desiderassero i clienti. Non possiamo infine dimenticarci del gradilis, il pane che, in omaggio alla demagogica promessa di offire «panem et circenses» (pane e giochi circensi), veniva distribuito al popolo durante i giochi negli anfiteatri. L’ETA DI MEZZO L’abilità raggiunta dai fornai romani andò perdendosi nel corso delle invasioni barbariche e dell’alto Medio Evo, periodo durante il quale soltanto i monasteri possedevano panetterie di qualche importanza. Intanto, i diritti dei signori feudali si estendevano, come abbiamo visto all’inizio del nostro percorso, addirittura alla preparazione casalinga del pane: imponevano l’uso dei loro forni ai contadini, vale a dire alla gran massa dei più poveri, per ricavarne tasse d’ogni tipo. In ogni caso, il pane era il cibo di base per ogni classe sociale nel Medioevo, accomunava poveri e ricchi, cambiava solo il tipo: se i nobili potevano permettersi quello bianco, il contado aveva il nero, includendo ogni parte dei cereali che avevano a disposizione. Il frumento, disponibile nelle parti meridionali del Mediterraneo, era sostituito, a seconda della disponibilità del luogo, da avena, farro, spelta, orzo, segale, crusca, miglio, castagne e legumi.

corazioni che a volte nascondevano simbologie: a reticolo, a scacchiera, a losanga, a rombo, vegetali e floreali. Accanto a questa molteplicità di pani dolci e salati non mancava la presenza del pane azzimo – senza lievito - simile alla nostra piadina, soprattutto tra i ceti più bassi. Il pane come lo conosciamo oggi, insomma, deriva in buona parte propria da questo periodo. Infatti, nei secoli successivi, la storia del pane non prosegue come un piacevole viaggio tra ingredienti e tecniche, ma si intreccia sempre più con tematiche politiche, sociali, economiche. DIFFERENZIAZIONE SOCIALE E RIVOLUZIONI La storia del pane come nutrimento è, come abbiamo visto nei secoli precedenti, anche quella di una crescente differenziazione sociale, tra ricchi e poveri e tra città e campagna che si afferma soprattutto a partire dal Cinquecento. Nelle città si inizia a esigere sempre di più il pane bianco, in maniera direttamente proporzionale alla crescente ricchezza dei cittadini. I contadini, dal canto loro, iniziano sempre più a coltivare il grano e il frumento per soddisfare le esigenze della città, riservando per il loro consumo cereali meno nobili come l’orzo, il grano saraceno, il farro, l’avena e il sorgo.

In tempo di carestia il pane si impastava con quel che c’era a disposizione: radici, erbe, perfino cenere corteccia di alberi triturata. Solo in epoca comunale i fornai tornarono ad essere numerosi e fondarono una delle corporazioni più potenti, anche perché liberavano la popolazione dal controllo dei forni esercitato dalla Chiesa, dai conventi o dai feudatari. Il pane lievitato era più comune nelle regioni del sud, dove la fermentazione dei cereali era più semplice per ragioni climatiche, mentre al nord si usava spesso pane azzimo. All’inizio del Medio Evo la «civiltà del pane» individuava il mondo mediterraneo e la «civiltà della carne» i popoli provenienti dall’Europa settentrionale. Allora mangiare carne divenne necessità sociale ed esibizione di status di contro al mangiare vegetali, che si trasformò nell’espressione della povertà e della debolezza.

La mancanza di pane (o anche la sola paura di non averne) è un incubo che serpeggia costantemente nella storia dell’umanità. Nell’ Italia del ‘600, epoca di grandi difficoltà economiche e sociali, iniziano le rivolte per il pane, sul quale gravavano un’infinità di tasse, le più impopolari che siano mai state inventate: dalla gabella per la farina al dazio per la cottura nei forni di proprietà padronale. Proviamo a rileggere i capitolo XII e XIII dei Promessi sposi in cui Manzoni racconta con straordinaria efficacia narrativa l’assalto al forno di Milano durante la carestia del 1628. Non dimentichiamoci infine della Marcia su Versailles, il 5 ottobre 1789, nella quale le donne parigine, in protesta per la mancanza del pane, il costo sempre maggiore e la carestia in atto, radunarono molti rivoluzionari e marciarono verso la reggia di Maria Antonietta: fu un evento che originò la Rivoluzione Francese.

IL RINASCIMENTO La vera grande rivoluzione nel campo della panificazione si ebbe solo nel Rinascimento. Nel pane, fino ad allora lievitato naturalmente, fu introdotto il lievito di birra, prodotto dalla complessa lavorazione di lieviti naturali e malto, appunto il principale ingrediente per produrre la birra. Fu grazie a questo ingrediente e al sempre più massiccio consumo di prodotti panificati da parte delle classi più agiate che i fornai diedero libero sfogo alla loro fantasia creativa; pani all’olio, al burro, alle olive, alle erbe aromatiche; e poi panini dolci con le uvette, con il cioccolato, con l’anice. Il migliore pane comune era quello di frumento, spesso “tagliato” con altri cereali, spelta o miglio, a seconda delle disponibilità. Anche le forme erano varie: pagnotte, pagnottelle, trecce, spighe; ma anche le più bizzarre secondi i gusti personali o i capricci dei nobili.

L’ETÀ MODERNA E L’INDUSTRIA Fino alla seconda metà del Settecento il lavoro dei fornai era rimasto praticamente immutato. Si erano affinate le farine, era stato introdotto il lievito di birra per rendere i pani più leggeri e morbidi, ma null’altro era cambiato nei forni: confezionamento e lievitazione dell’impasto la sera prima, sveglia in piena notte del fornaio che, all’alba, preparava il forno a legna. I primi tentativi di meccanizzazione del lavoro del fornaio avvennero già nella seconda metà del Settecento, ma fu solo a metà Ottocento che furono create le prime vere innovazioni tecnologiche. Nacquero le impastatrici meccaniche – poi sostituite da quelle elettriche –, le spezzatrici, le formatrici. Oggi quello del fornaio resta un lavoro pesante, ma assai meno impegnativo di un tempo, perché tutte le fasi della panificazione sono meccanizzate e le macchine hanno sistemi elettronici preimpostati per le varie fasi di lavorazione.

Non dimentichiamoci poi degli opulenti banchetti rinascimentali, nei quali l’estetica dei cibi e delle pietanze veicolava il prestigio del padrone di casa. I pani, soprattutto quelli dolci, assumevano forme di pupazzi, animali, personaggi, con de-

IL PANE E L’ARTE Mi sento in dovere di aprire una breve divagazione all’interno della Storia dell’Arte; non solo perché è il mio ambito di lavoro ma, soprattutto, perché è decisamente pertinente con il no-

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stro percorso. Seguitemi: il pane è cibo e simbolo, ma anche fonte di ispirazione artistica. E’ soggetto frequente all’interno delle iconografie di tutti i secoli, ma voglio citare solo un artista: Salvador Dalì, surrealista catalano, vissuto tra il 1904 e il 1989, famoso per l’eccentricità della sua vita e delle sue opere, scriveva: “il pane è stato uno dei più antichi oggetti di feticismo e di ossessione della mia opera, il primo a cui sono stato più fedele”. Fin da bambino, esso era stato il suo alimento preferito e gli aneddoti riguardanti i rapporto tra Dalì e questo cibo sono numerosissimi: la pagnotta triangolare (pa de crostons) svuotata e usata come cappello, la delirante Rivoluzione del Pane, una sorta di manifestazione collettiva e planetaria che lo vedeva camminare nelle strade delle più importanti città con baguette lunghe fino 12 metri; e poi la forma del pane usato come decorazione (ne vediamo centinaia), lungo le mura del perimetro esterno - dal surreale colore fucsia acceso - del suo mausoleo, il Teatro-Museo di Figueres. Due sono i simboli che diventano essenziali per l’esistenza stessa di Dalì, l’uovo, emblema della vita uterina, e il pane, simbolo della vita terrena e di quella divina “l’ostia, l’immagine della fame soddisfatta, la base della comunione tra gli uomini”. Il nostro artista amava particolarmente - udite, udite - utilizzare fettine di pane abbrustolito per tirare fuori la polpa dei ricci di mare. Non so a voi ma questo episodio mi ricorda un personaggio di nostra conoscenza: eclettico, geniale, visionario, amante alla follia dei ricci (li vende pure online!), …che dite?

una nuova voglia di naturalità, di genuinità, di semplicità, di convivialità, di sicurezza; nuove spinte morali, ambientali, spirituali. Perché, durante il periodo di quarantena – marzo-maggio 2020 – ,la gente sembrava impazzita nel panificare in casa, tanto che gli scaffali dei supermercati si presentavano spesso vuoti nella sezione dedicata alle farine? (io no, non ho avuto proprio tempo, tra il correre dietro ai tre figli e alle lezioni online per i miei studenti: già è un miracolo aver acceso il kettle un paio di volte alla settimana). Perché le persone si annoiavano? Per riempire i tempi morti? Non credo. Mi piace pensare ad una nuova consapevolezza di un ritorno alle origini, nata nell’ultimo decennio, e culminata, per drammatica necessità, in questi mesi: non un revival nostalgico, intendiamoci, o un vagheggiamento del passato, ma un recupero lucido e contemporaneo - mosso da una nuova fame, emotiva, di senso, una fame spirituale -, un recupero delle buone pratiche di comunità e dei relativi valori; una riscoperta di un tempo lento, arcaico, legato maggiormente al calendario agricolo. Un nuovo tempo del pane. Un nuovo tempo dell’uomo.

IL PANE OGGI Nel secondo dopoguerra abbiamo lentamente assistito all’esodo rurale verso le città, al progressivo miglioramento delle condizioni economiche dei ceti meno abbienti; successivamente l’aggressione pubblicitaria e l’affermazione del modello consumistico. Sono mutate le abitudini e gli stili di vita delle popolazioni d’Occidente, ponendo fine alla panificazione domestica. Nell’era consumistica, in particolare negli anni’90 del secolo scorso, la grammatica dell’alimentazione stata stravolta: il companatico è diventato assolutamente centrale relegando il pane ad elemento accessorio, superfluo. Ma negli ultimi anni qualcosa è cambiato. I forni contadini hanno ripreso a funzionare nelle aziende agrituristiche, molti ristoranti producono il pane internamente come segno distintivo di genuinità; si è sviluppato il dibattito sulle farine e sulla qualità delle stesse – tralasciamo le mode alimentari – unitamente al recupero dei cereali antichi. Si è tornato a fare il pane in casa; forse per fronteggiare la crisi, ma anche con motivazioni più profonde, inconsce: MAGGIO 2020

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L'ARTE BIANCA a cura di ALESSANDRO TREZZI

LA FOCACC I A BA R E S E non chiamatela pizza!

Immaginate di intraprendere un viaggio ideale della nostra penisola da Nord a Sud, assaggiando tutte le tipologie di focaccia presenti sul nostro territorio. Un’impresa titanica, vero? Questo prodotto stupendo ha ormai molteplici forme, e può cambiare nome e identità a pochi chilometri di distanza come spesso accade per tante preparazioni dello stivale. Pensate che nel 2014 Regione Toscana, Unioncamere, Accademia della Crusca e Accademia dei Georgofili hanno inventariato le versioni della loro “schiacciata”: sono venuti fuori ben 617 nomi. Del resto in alcune regioni d’Italia le focacce sono delle vere e proprie istituzioni, prodotti di culto celebri, rinomati e per le quali si combattono guerre spesso inutili. Basti pensare alla genovese, morbida, fragrante, con i classici e rinomati buchini ricolmi di salamoia, amata al punto da essere oggi il sinonimo stesso di focaccia. Eppure, nell’eterna diatriba tra Nord e Sud, c’è chi ovviamente non è d’accordo, chi ritiene che “la sola e unica” sia un’altra indiscussa eccellenza. Noi, come ben sapete, di queste insulse lotte ce ne freghiamo altamente; quel che ci interessa è scovare le bontà universali e farle nostre, con tutte le disquisizioni necessarie per riprodurle nel modo perfetto. E tra queste bontà non si può certo escludere lei, la splendida focaccia barese. C’È FOCACCIA E FOCACCIA Chiariamo anzitutto un punto fondamentale, armandoci di un semplice tecnicismo utile a dare delle definizioni: mentre per pizza intendiamo un qualsivoglia prodotto lievitato steso e infornato al momento, la focaccia beneficia di un’ulteriore lievitazione in teglia, che consegna più morbidezza alla mollica, una struttura uniforme e un’alveolatura omogenea. Questa è, ad esempio, la differenza tra la cosiddetta pizza bianca consumata in lungo e in largo nel Lazio e una focaccia bianca; troppo spesso si confonde tra l’una e l’altra per la sola aggiunta del pomodoro, ma così non è. Una definizione che nasce dalla necessità di distinguere uno spettro enorme di prodotti in due grandi famiglie. Non mancano le dovute eccezioni, merito di denominazioni regionali e di tradizioni secolari. Ne è un esempio la pizza al trancio milanese, derivata dallo sfincione palermitano e dalla schiacciata toscana, che in realtà è un focaccione al pomodoro in quanto lievita dopo la stesura in teglia, chiamato pizza per semplice associazione visiva. Ancora, la focaccia con il formaggio di Recco tanto focaccia non è, in quanto non solo non lievita in teglia, ma non ha neppure il lievito. 18 - BBQ4All MAGAZINE

BARESE O PUGLIESE? In questa stupenda regione del Sud Italia, terra delle cime di rapa e del pane di Altamura, la varietà di prodotti venduti nei forni è a dir poco imbarazzante, specialmente per quanto riguarda l’impasto. Di fatto, il disciplinare redatto nel 2012 per il marchio Autentica Pizza Barese predisposto dalla LUCA (Libera Unione Commercianti Apulia) risulta fin troppo rigido e severo, e quindi poco utilizzato. Nonostante la difficoltà di reperire notizie e precise e documentabili, è possibile trovare un filo conduttore per la maggior parte delle focacce prodotte, nate probabilmente per sfruttare il calore iniziale del forno a legna non ancora a temperatura per cuocere il pane, e utilizzata per sfamare i panettieri durante le ore di lavoro. La ricetta originale prevedeva semola rimacinata di grano duro, patate lesse, acqua, lievito e sale. Le principali varianti più o meno ufficiali sono la “focaccia alle patate” e la “bianca”, ma la classica e riconosciuta come immagine collettiva prevede un topping composto da olio, pomodorini freschi, olive nere e origano. Una preparazione talmente celebre da esser divenuta persino protagonista di un film del 2009, “Focaccia Blues”, storia del panificatore di Altamura che nel 2002 fece chiudere il vicino McDonald’s a colpi di pane e focaccia. Urge però un chiarimento: tra la “barese” e la più generica “pugliese” c’è una differenza di fondo; proviamo a circoscriverle muovendoci con i piedi di piombo, non vorremo fare torto al campanilismo di nessuno. Per focaccia pugliese s’intende un lievitato fatto con gli ingredienti sopra citati (farina, patate lesse, acqua, lievito e sale); la differenza con la barese, con cui condivide gli ingredienti, sta nella fase che precede la cottura: mentre la versione pugliese passa per un’ulteriore fase di lievitazione in teglia, la versione barese viene stesa, condita e subito infornata. In questo modo cambia la struttura; la prima è più alta e soffice, l’altra bassa e croccante; la preferenza è una faccenda di gusti personali, e a noi, come sapete, importa fino a un certo punto. Differenza secondo la quale tecnicamente rientrerebbe tra le pizze, ma poco importa. FARINA O FARINE? Anche per la questione materia prima è possibile trovare un’infinità di punti di vista. C’è chi usa solo farina di grano tenero, chi solo semola, e chi un mix di entrambi. Il grano duro è indiscutibilmente molto utilizzato nel nostro sud, e il prodotto adatto alla panificazione è la cosiddetta semola rimacinata.


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Parliamoci chiaro, le prerogative di questo agente lievitante sono tre: aumento del complesso aromatico, struttura e shelf-life. Volete più sapore? Usate farine e materie prime di qualità, bastano e avanzano. Volete una struttura solida? Gestite bene le fasi di impastamento e maturazione, non serve altro per pizze e focacce. Volete più shelf-life? Bilanciate in maniera corretta idratazione e cottura, tenendo conto poi che grazie a patate e grano duro (e alla maggiore umidità residua) tale prodotto vi durerà di base molto più a lungo. Ma poi a chi volete darla a bere, vi conosco: tempo 5 minuti e ve la siete già sbranata. Vogliate dunque perdonarvi se vi consiglierò strenuamente l’utilizzo del lievito di birra e di una maturazione in frigorifero: vi salva la vita e il risultato non sarà da meno, ve lo posso assicurare. Anzi, sarà stabile e certificato.

Tra i due grani, duro e tenero, esistono differenze sostanziali. Il colore del grano duro tende al giallo per la presenza di carotenoidi; il glutine, corto e stretto, consente una maglia glutinica fitta e resistente, con alveoli piccoli e uniformemente distribuiti. In genere è in grado di assorbire e trattenere maggiori quantità d’acqua (60-68% contro i 50-60% del grano tenero) e ha una resa più elevata. Di contro, è meno stabile e più tenace, ragione per cui, con l’obiettivo di rendere le ore di riposo più equilibrate e soggette a minor rischio di collasso, oltre a spezzare la resistenza già citata, il grano duro s’impiega spesso insieme a quello viene tenero. Consiglio che, neanche a dirlo, ritroveremo nella nostra ricetta. Infine, visto che l’assorbimento mimino è maggiore, gli impasti di grano duro risultano di norma meno asciutti rispetto ai corrispondenti di grano tenero, e somigliano ad un impasto per gnocchi. Le 20 - BBQ4All MAGAZINE

dosi che consentono maggior equilibrio sono in genere 50 e 50, ma tutto dipende dall’idratazione e dalla quantità di patate, in quanto entrambe accrescono l’umidità dell’impasto. Tenete sempre a mente infatti che al crescere di tale condizione la percentuale di farina di grano tenero dovrà essere più alta, in quanto consente struttura salda e una migliore asciugatura. L’IMPASTO Tradizionalmente per la preparazione della focaccia barese viene usato il lievito madre, soprattutto considerando che a preparare la focaccia in Puglia erano soprattutto i panettieri, una volta la settimana, per concedersi qualche gioia durante le ore lavorative. E tuttavia la gestione del lievito madre complica la vita degli impasti casalinghi, risultando per altro meno sicura e fin troppo variabile per assicurare un risultato standardizzato e ripetibile.

Il vero discriminante dell’impasto tuttavia è l’utilizzo delle patate; lessate, schiacciate e fatte raffreddare, fanno compiere il vero salto di qualità, che si mantiene anche un paio di giorni in più grazie alla maggiore umidità che le patate trasferiscono alla mollica. La percentuale varia dal 10 al 20% del peso totale dell’impasto, un valore da bilanciare in relazione altri ingredienti; esagerando, e tenendo elevata l’idratazione (che qui varia dal 60 al 70%), può diventare complicato manipolare massa e panetti, oltre che a cuocere correttamente l’impasto con conseguenti problemi di digeribilità. IL TOPPING Il 90% delle versioni che ho avuto la fortuna di testare e sperimentare prevedeva quantità modeste di olive nere insieme al pomodorino. Un abbinamento che ha dell’incredibile: il retrogusto acido con tendenza al dolce del pomodorino viene bilanciato dalla componente piacevolmente amarognola delle olive. Un buon extra vergine arrotonda il sapore, lasciando all’origano un ulteriore upgrade aromatico, fresco e balsamico. Nulla vieta, volendo, di usare le olive verdi, anche perché l’originale tipologia di questo ingrediente non è ancora del tutto chiara.


I N G RED I EN TI

PER 3 TEG LIE 3 0X 4 0CM PER L’IMPASTO: • 500 g di farina 00 (300 W); • 500 g di semola o di sfarinato di grano duro; • 650 g acqua; • 150 g di patate lessate, schiacciate e fatte raffreddare; • 50 g olio EVO; • 15 g lievito di birra fresco; • 25 g malto d’orzo in sciroppo o 5 g di malto diastasico in polvere; • 25 g sale fino. PER LA SALAMOIA: • 85 gr acqua calda; • 35 gr olio EVO; • 11 gr sale fino. PER LA FARCITURA: • 400 g di pomodorini; • 100 g di olive nere denocciolate; • origano essiccato.

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LA RICETTA La preparazione della focaccia barese si svolge in fasi distinte, seguirle con scrupolo e rispettare i tempi è il vero segreto per un ottimo risultato. Le fasi da seguire sono sei: 1. Impastamento; 2. Puntata o prima lievitazione; 3. Staglio o formatura dei panetti; 4. Appretto o seconda lievitazione; 5. Stesura e farcitura; 6. Cottura. La principale difficoltà consiste nella manipolazione di una massa leggermente più umida rispetto a quella classica della focaccia. Più pratica fate meglio è; cercate di non andare in panico buttando farina sul piano nella speranza di risolvere problemi inesistenti. La panificazione richiede pazienza: dovesse capitarvi di ottenere un risultato troppo umido, lasciatelo leggermente all’aria aperta per asciugarne la superficie e renderlo più maneggevole. 1. IMPASTAMENTO Cominciate sciogliendo lievito e malto nell’acqua e aggiungete il tutto al mix di farine precedentemente mescolate tra loro. Una volta ultimato l’assorbimento dei liquidi è il turno delle patate; abbiate cura che non siano calde, e nella fase di raffreddamento ricordatevi di coprirle con della pellicola perché non si ossidino. Verso la fine mettete il sale e solo all’ultimo l’olio, poco a poco e a filo, perché il peso potrebbe compromettere la formazione della maglia glutinica rovi-

nando il lavoro svolto. 2. PUNTATA Una volta ottenuta la massa liscia e asciutta, posizionatela in un contenitore stretto dai bordi alti e lasciatela puntare per mezz’ora a temperatura ambiente. Considerando l’elevata umidità dell’impasto per pugliese, in questo frangente non dovete temere particolarmente la formazione della pelle; tra acqua e patate il rischio che si formi e praticamente inesistente. 3. STAGLIO Ricavate tre pagnotte di egual peso da sistemare in altrettanti contenitori ben oliati, per poi riporre tutto in frigorifero a circa 4°C per 18-24 ore. 4. APPRETTO Al termine di questa fase l’impasto sarà quasi triplicato; ungete tre teglie di alluminio (le più adatte allo scopo, perché a causa della conduzione uniforme del calore e dello spessore più elevato evitano che la base diventi croccante prima del tempo) e rovesciateci dentro i panetti. 5. STESURA E FARCITURA Con le vostre abili mani stendete la focaccia in modo che sia uniforme in tutta la sezione. Completata la stesura, mescolate gli ingredienti della salamoia e versatene metà su tutta la superficie, dopodiché, utilizzando i polpastrelli, premete con forza per lasciare la vostra impronta, e terminate di distribuire il liquido in modo che finisca nelle fossette appena formate.

Tagliate a metà i pomodorini e posizionateli nei buchi sul dorso, alternandoli con le olive nere denocciolate. Un’ultima spolverata di origano e il gioco è fatto. 6. COTTURA Nel caso utilizziate un classico forno casalingo, preriscaldate il forno a 240 °C in modalità statica e cuocete per circa 14-15 minuti, fino a completa doratura. Per agevolare la cottura del fondo, lasciatela sul pavimento nella prima fase per rendere la base croccante al pari della parte superiore. Se doveste invece avere a disposizione un forno elettrico professionale, ormai ampiamente diffusi anche in casa, preriscaldate sempre a 240 °C, utilizzando però il 100% della potenza della platea (il piano inferiore) e solo il 20% di potenza del cielo (la parte superiore), più che sufficiente per una doratura uniforme. Sfornate e lasciate raffreddare su una griglia rialzata per evitare che la condensa rovini la friabilità della base, e irrorate con un ultimo filo di olio extra vergine, in modo che il calore faccia sprigionare tutti i profumi. Ah, una piccola aggiunta di origano non fa male a nessuno. Tagliate, e gustatevi l’aroma stupefacente di questo soffice materasso, che esplode letteralmente in corrispondenza dei pomodorini e dei buchi colmi di salamoia.

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L'ARTE BIANCA a cura di ALESSANDRO TREZZI

INGREDIENTI

P ER C I RC A 1 2 PIAD IN E • 1 kg di farina di grano tenero di tipo 1 (200-220 W); • 600 gr di acqua; • 160 gr di strutto morbido; • 15 gr di sale fino; • 6 gr di bicarbonato di sodio

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E quel progetto di esportare

LA PIADINA ROMAGNOLA

“Ovunque si trovino su questa terra, gli esseri umani producono pani bassi con il cereale più diffusamente disponibile.” (Aralyn Beaumont) Esiste forse una frase più vera? Che si parli di pita, di tortillas messicane, di arepas venezuelane, di kisra sudanese o di dosa indiano, da secoli l’uomo prepara del pane basso e senza lievito per farcirlo con qualsiasi cosa gli capiti a tiro. Cibo povero, del popolo, in altri tempi relegato alle classi meno abbienti e fortunate. Anche la nostra Italia, ovviamente, di questi pani ne è piena: il carasau sardo, la crescia marchigiana, la tigella emiliana e ovviamente la specialità più famosa della penisola, la piadina romagnola. LA STORIA Che si sappia: di piada non ne esiste una sola, e le sue vere origini si perdono nella notte dei tempi. Quel che è certo è ciò che noi intendiamo per “piadina romagnola” nacque solo nel Novecento. Nel VII secolo a.C. gli Etruschi furono la prima popolazione a usare un impasto di farina e grassi come sostitutivo del pane. Ma è con i Romani che una simil-piada cominciò realmente diffondersi: il nome latino era panis depesticius, ovvero pane schiacciato; si trattava di un pane azzimo con cui si alimentavano i soldati durante le campagne belliche, grazie alla facilità con cui veniva preparato e conservato. La prima apparizione testuale è del 1371, e più precisamente di un documento della comunità di Modigliana che ne attestava il tributo di due l’anno da consegnare alla Chiesa. Nel 1572 il medico riminese Costanzo Felici si rivolgeva alle “piacente, cresce o piade” come “pessimo cibo, con tutto che a molti tanto piaccia”. Altre sporadiche apparizioni nel 1622 e nel 1801, e poi il successo: a far esplodere il fenomeno ci pensano Giovanni Pascoli (che le definì “il pane del lavoro”) e il turismo. Gremite folle che, proprio in Romagna, consumavano tonnellate di pani bassi preparati dalle donne fuori dall’uscio. “Piada, pieda, pida, pié, si chiama dai romagnoli la spianata di grano o di granoturco o mista, che è il cibo della povera gente; e si intride senza lievito; e si cuoce in una teglia di argilla, che si chiama testo, sopra il focolare” diceva il poeta di San Mauro. LE MILLE PIADE PIÙ UNA Secondo il Consorzio di Promozione e Tutela della Piadina Romagnola Igp, ci sono 94 marchi di piadina registrati nel mondo. In Italia però la piadina romagnola è un marchio IGP dal 24 Ottobre 2014; ergo, se non la vendete in Romagna, non può

essere denominata romagnola. A meno che, come cantava Samuele Bersani in Freak, non si pensi a un progetto serio per esportarla. Comunque, non crediate che questo ci fermerà dal darvi tutte le indicazioni per rifarla a casa. Nossignori, ci basterà chiamarla “Piadina BBQ4All” e nessuno si farà male. Una cosa però possiamo dirla, e cioè che le versioni più famose sono due: - La riminese grande e sottile (dai 23 ai 30 cm di diametro, spessa massimo 3 millimetri); - La forlivese piccola e grossa (dai 15 ai 25 cm di diametro, alta dai 4 agli 8 millimetri). LA PIADINA PERFETTA Che siate amanti di una o dell’altra tipologia, materie prime e processo non cambiano. Come al solito, ci tocca fare una disamina del prodotto finale per comprendere con precisione cosa dobbiamo ottenere, e qual è il modo migliore per farlo. Il tutto al di là di tradizioni, fissazioni e leggende metropolitane. Il nostro obiettivo è un disco di pasta non lievitata, largo e sottile, fragrante, gustoso, dalla leggera crosticina friabile e dall’inconfondibile morbidezza interna. Potrebbero presto entrare nel Disciplinare le piadine di farro e integrali, ma non è questa la sede per complicarci la vita. Simili cereali richiederebbero un processo differente, in quanto cambia sia l’assorbimento farinografico sia la capacità di formare glutine resistente. Personalmente poi, preferisco puntare ad un impasto dal gusto equilibrato e dalla consistenza scioglievole, che possa ben accompagnare salumi e formaggi delle tipologie più disparate. Mettetevi il cuore in pace quindi: per quanto l’uso di farine alternative sia oggetto di moda, la piadina perfetta si fa con la farina bianca di grano tenero, l’unica che vi assicura struttura e consistenza adeguata. Una farina 0 quindi, o meglio ancora una tipo 1 macinata a dovere, che possa darvi modo di raggiungere lo stesso standard qualitativo di una farina più raffinata con il surplus di un complesso aromatico più completo dato dalla maggior presenza di parte cruscale. Forza bassa, 200-220 W, in quanto necessitiamo di un prodotto che dovrà riposare giusto il tempo per poter essere steso a dovere, e la cui estensibilità risulti perciò adeguata. C’È CHI DICE LATTE, C’È CHI DICE ACQUA. Sebbene l’apporto di materia grassa sia utile a rendere l’impasto più malleabile e dalla shelf-life più duratura, l’utilizzo della sola acqua rende sicuramente il tutto più leggero senza farvi perdere granché nelle caratteristiche finali. MAGGIO 2020

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L’idratazione sarà del 60%, per un impasto morbido ma non troppo elastico. Niente lievito abbiamo detto, in quanto la piadina non deve assolutamente gonfiare, o otterremmo un risultato completamente differente per fisionomia e caratteristiche tecniche. Solo una punta di bicarbonato per agevolare la friabilità, aiutando la crosticina a sollevarsi leggermente dalla mollica durante la cottura. Al solito, il sale per gli impasti non serve solo per dare sapidità ma per stabilizzare la struttura del glutine. Non essendoci tuttavia lievito, il suo contributo può ritenersi meno rilevante, ragion per cui ci atterremo all’1.5% sul peso della farina. Importante è invece il ruolo dello strutto. Meno indigesto dell’olio extra vergine di oliva? Sicuramente, ma il contributo di questo grasso per un simile impasto non è assolutamente sostituibile da nessun altro elemento, proprio a causa del suo alto punto di fusione (circa 42°C) che permette di conservare per lo più intatte le sue caratteristiche e di rendere la sofficità della mollica il punto target che ci interessa raggiungere. Non è sostituibile col burro (che ha un punto di fusione basso, tra i 28 e i 33 °C) e tantomeno dall’olio extravergine di oliva, che per darvi un risultato quantomeno vicino a quello dello strutto dovrebbe essere impiegato per una quantità tre volte superiore. Farina, acqua, strutto, bicarbonato e sale. Fine, non vi serve altro. 26 - BBQ4All MAGAZINE

LA RICETTA L’impasto può essere condotto sia a mano che per mezzo di una planetaria o un’impastatrice a spirale. Qualunque sia il metodo utilizzato, l’ordine di inserimento degli ingredienti non cambia; versate tutta la farina nella vasca con il bicarbonato e aggiungete il 75% dell’acqua della ricetta, impastandola fino a che non sarà completamente idratata e la massa inizierà ad essere liscia e omogenea. A questo punto aggiungete il sale tutto insieme, aumentate la velocità (o la forza impressa dalle vostre possenti mani) e proseguite aggiungendo l’acqua poco alla volta, solo quando la precedente risulterà completamente assorbita. Lo strutto, come tutti i grassi, andrà incorporato solo alla fine una volta formato il glutine; in caso contrario potrebbe pesare sulla struttura dell’impasto vanificando tutto il lavoro svolto. Aggiungetelo quindi in piccoli tocchi, aspettate che la quantità venga assorbita e proseguite, fino a terminare gli ingredienti. Formate una palla e lasciatela riposare a temperatura ambiente in una ciotola coprendo con pellicola a contatto per circa un’ora. Trascorso il riposo, utile solo a permettere all’impasto di risultare più lavorabile, dividete la massa in 12 parti uguali, che risulteranno essere di circa 150 gr. Formate dei panetti tondi e lasciateli riposare per altri 60 minuti per agevolare il lavoro di stesura; dopo il relax l’impasto risulterà infatti più estensibile e vi richiederà meno farina. Secondo la tradizione, la piadina vie-

ne cotta sul testo romagnolo, una sorta di padella di terracotta che tuttavia ha bisogno di particolari cure nella manutenzione, in quanto delicata e soggetta a rotture. Di fatto, ora sono molto più diffusi i testi in ghisa o in lamiera: hanno uno spessore di tre o quattro millimetri e la superficie si scalda in modo uniforme, consentendo così una cottura omogenea della piadina. Voi, amanti del barbecue, avrete sicuramente una buona piastra in ghisa da utilizzare per la cottura. In caso contrario lavorate con rame o alluminio (materiale con un coefficiente di conducibilità termica elevato), in modo da garantire una distribuzione di calore il più possibile uniforme al vostro prodotto. La cosa importante in tutto ciò è cuocerle poco prima di magnarvele, in quanto le piadine appena fatte non conserveranno le loro caratteristiche in eterno, a meno che non le mettiate sottovuoto. Munitevi di mattarello, cospargete di semola rimacinata di grano duro quel tanto che basta per stenderle senza farle attaccare, e ricavate un disco di circa 25 cm di larghezza e dallo spessore uniforme di 4-5 mm. Sovrapponetele su un piatto e copritele con un panno mentre riscaldate il vostro potente mezzo; misurandolo con un termometro laser, il vostro piano dovrà essere caldo almeno 250 °C per garantire una cottura rapida e indolore alla piada. Una volta pronti, partite a cuocere la prima, per poi proseguire in rapida successione con tutte le altre. Scaldatela bene da un lato, bucando con la forchetta le bolle che si formeranno per evitare che l’impasto si sollevi troppo; appena la base sarà colorata e con i classici spot bruniti, giratela e ripetete l’operazione. In queste condizioni la cottura vi durerà circa 4-5 minuti. Lasciate riposare le piadine pronte sempre in un piatto coprendo con un canovaccio, meglio ancora al caldo in un contenitore isotermico. Ci siete. Prendete il crudo migliore che possiate trovare, spalmate sulla base uno strato abbondante di squacquerone e tuffate sopra abbondanti fette di questo salume dolce e meraviglioso. Condite un ciuffo di rucola selvatica con olio, sale e una punta di aceto balsamico e completate l’opera. Chiudete, mordete e siate felici.


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INTERVISTA a cura di ANDREA SPAGGIARI

D agli schermi di G ambe ro R o s s o a q ue l l i di Yo ut ube . Q uesto mese vi par liam o di un o C he f che di r ice t t e n e h a viste tan te e ha de cis o di co n div ide r l e co n t ut t i g l i appassionati della cucin a t radiz io n al e it al ian a

MAX MARIOLA

L’emergenza sanitaria ha portato una vera rivoluzione in molti settori, primo fra tutti quello della ristorazione. Da un giorno all’altro tutti gli esercizi commerciali hanno dovuto prima fermare le attività per poi ripartire gradualmente con la consegna a domicilio e, da poco, con l’asporto. Ovvio quindi che questa perturbazione tutt’altro che passeggera, abbinata al molto tempo libero dovuto al confinamento, abbia risvegliato la voglia di cucinare degli italiani. Mai come in questi ultimi mesi sono quindi fioccate le proposte di video-ricette, tutorial e corsi on-line in risposta alla crescita esponenziale della domanda di contenuti didattici. E se da un lato gli strumenti per diffondere contenuti non difettano, bisogna dirsi chiaramente che non basta una telecamera puntata sul piano di lavoro per fare di un cuoco un bravo divulgatore: servono esperienza, entusiasmo e tanta voglia di “metterci la faccia” per riuscire a servire contenuti che generino il giusto grado di coinvolgimento. Questo mese abbiamo parlato con un cuoco che della divulgazione attraverso lo schermo ha fatto un mestiere, Max Mariola. Romano verace, sempre sorridente e dotato di una spiccata autoironia, Max ha iniziato assistendo i più grandi chef del mondo sui set televisivi di Gambero Rosso Channel in un’epoca in cui questi personaggi non erano ancora le superstar che siamo abituati a conoscere oggi. Una gavetta che lo ha portato in seguito a 28 - BBQ4All MAGAZINE

guadagnarsi un posto sotto i riflettori da protagonista di varie programmazioni, la più recente delle quali – “I panini li fa Max” – lo ha consacrato specialista del panino gourmet. Max non è però solo un volto del piccolo schermo, è anche uno Youtuber molto prolifico con oltre 280 video all’attivo. Dal set casalingo della sua cucina escono ricette per tutti i gusti: dai primi tradizionali della cucina romana – la sua Gricia conta 1,7 milioni di visualizzazioni – ai secondi di pesce, ci sono tutorial per tutti i gusti. Ma basta una buona conoscenza dell’argomento e una faccia simpatica per farsi un seguito attivo e fedele? Noi crediamo di no: sembrerà scontato ma senza una passione viscerale per il proprio lavoro e un amore per il proprio pubblico non si possono creare contenuti coinvolgenti. Fate una prova e andatevi a leggere i commenti dei video più visti di Max: oltre a farvi due risate con quelli più esilaranti troverete intere paginate di ringraziamenti e affettuosi complimenti. Con Max abbiamo avuto la fortuna di fare una lunga chiacchierata dai molti risvolti: si è parlato di ricette tradizionali, ingredienti e tecniche di cottura, ma anche del suo punto di vista sulle possibili evoluzioni del settore. Vi consigliamo di seguirla fino in fondo, soprattutto se avete piantato un po` di cicoria nell’orticello dietro casa. Potrebbe tornarvi utile per una succulenta sorpresa…


Max, il tuo percorso professionale è a dir poco articolato: parla della passione che vince su tutto, di tanta esperienza e qualche opportunità colta al momento giusto. Ce lo racconti? Ho cominciato a frequentare le cucine trent’anni fa, subito dopo aver lasciato l’istituto d’arte e spinto dalla passione per questo mondo. Son partito come sguattero e per guadagnarmi un’opportunità ai fornelli frequentavo le scuole serali. È lì che ho incontrato Laura Ravaioli - una delle prime chef a realizzare ricette in video – che nel `99 mi ha proposto di aiutarla nel progetto di Gambero Rosso Channel, uno dei primi canali tematici di food al mondo. Ho colto la palla al balzo e in poco tempo ho fatto da assistente a oltre 300 cuochi – da Gualtiero Marchesi e Joël Robuchon passando per il cuoco di osteria - ognuno dei quali mi ha trasmesso qualcosa, in un periodo in cui gli chef costruivano la propria notorietà in cucina prima ancora che sullo schermo. Ho in seguito completato varie collaborazioni: ho disegnato strumenti di cottura, fatto da consulente per aziende alimentari, ristoranti, gruppi di hotel e grandi gruppi della distribuzione. Il tuo stile di comunicazione è molto diretto e spontaneo, perfetto per piacere a un pubblico vasto e variegato. Ma soprattutto quando si opera sui social bisogna fare i conti anche con commenti un po’ “speciali”. Come vivi questo rapporto con il tuo pubblico? La maggior parte dei miei follower mi ringrazia, dicono che li metto di buon umore. Ma è vero anche il reciproco: mi sveglio la mattina e non vedo l’ora di vedere cosa scrivono sotto ai miei video, mi dà una grande soddisfazione. Sono un idealista e credo che una delle ricompense più grandi venga proprio dalla riconoscenza delle persone. Mi diverte giocare con quelli che mi punzecchiano e mi piace vedere come ci sia una schiera di “fedelissimi” che mi difende dagli attacchi dei detrattori. Anche questo è un piccolo piacere quotidiano. E come si fa a “spiccare” dalla massa? Non è propriamente semplice costruirsi un pubblico fedele su internet. Come dice sempre giustamente mia moglie, qui fuori c’è posto per tutti. L’importante è scegliersi un posizionamento nel quale ci si rispecchia e rimanerne fedeli. Io sono per le cose semplici e genuine, adoro scegliere

i miei ingredienti al mercato per trovare l’ispirazione e sono molto lontano come filosofia da quei cuochi – e son sempre di più – che ordinano i loro ingredienti al telefono e non curano la scelta. Credo fermamente che per avere successo in questo mestiere serva essere prima di tutto ottimi selezionatori e, in seconda istanza, bravi esecutori. Inoltre, non bisogna avere paura di usare pochi ingredienti. La semplicità è tutt’altro che banale e pochi elementi di qualità eccellente bastano per definire un piatto ben riuscito. Tendo sempre a diffidare di ricette troppo complesse perché il rischio è di perdere la percezione dei singoli ingredienti. Oltre ad essere un volto del piccolo schermo sei anche un consulente nell’ambito della ristorazione professionale. Quali cambiamenti credi che impatteranno su questo settore nei prossimi anni? Sei anche tu dell’idea che il medio di gamma scomparirà? Io la vedo in modo leggermente diverso: non

credo che la battaglia si giocherà tra alto e basso di gamma bensì soprattutto a livello di dimensioni. Da una parte immagino un aumento del peso delle catene, capaci di gestire grandi volumi di coperti grazie a un attento controllo dei processi e dei costi. In genere questi ristoranti non operano a livelli qualitativi eccelsi e rispondono a una domanda con poche pretese, che cerca soprattutto un prezzo basso. All’estremo opposto credo si posizioneranno sempre più le piccolissime realtà: un singolo o un’impresa famigliare, con proposte di nicchia estremamente caratterizzate. Quella che vedo scomparire è invece la categoria degli improvvisati, ovvero tutta quella fascia di imprenditori che, senza una formazione specifica, avevano visto nella ristorazione un’operazione di investimento redditizia. Vediamo delinearsi una situazione in cui non bastano un cuoco e un manager per far funzionare con successo un ristorante. Certo, qualche eccezione alla regola ci sarà sempre, ovvero locali che si son costruiti nel tempo una solida reputazione e che riMAGGIO 2020

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mangono fedeli alle loro scelte. Vedo invece sempre più in difficoltà – e le conferme in tal senso non sono mancate negli ultimi due mesi - i cosiddetti ristoranti gourmet, strangolati da costi altissimi e costretti a far quadrare i conti con attività collaterali come i bistrot e il catering. Con un calo delle presenze massiccio e le incertezze che si delineano per i mesi a venire si prospetta una complessità dello scenario davvero difficile da gestire. Prevedi cambiamenti anche nel tuo lavoro? Come ti muoverai in questo periodo di grande incertezza? Credo molto all’elasticità come principio ispiratore. Se non posso gestire un progetto da solo mi avvalgo di collaboratori con cui posso avere un rapporto diretto, scelgo di essere sempre presente in prima persona e opero solo con aziende che godono della mia fiducia. Questo vale anche per le partnership: se associo la mia immagine a un prodotto voglio essere sicuro di riconoscermi nei valori ispiratori. Spendiamo due parole sulla cucina tradizionale. Tu sei uno specialista di quella romana: ci hai fatto “assaporare” il guanciale, il pecorino, i broccoletti e la focaccia di Roscioli per citare alcuni degli ingredienti più conosciuti. Quando si parla di ricette e piatti 30 - BBQ4All MAGAZINE

tradizionali, pensi siano più importanti gli ingredienti “giusti” o la consapevolezza nella preparazione? Su Youtube ci seguono da tutto il mondo, a tal punto che abbiamo dovuto cominciare a mettere i sottotitoli per favorire il seguito dei nostri amici non italiani, e una delle domande più frequenti riguarda proprio gli ingredienti. “Posso mettere la pancetta invece del guanciale? Posso usare un altro formaggio al posto del pecorino?” Io lo capisco che sia difficile trovare certe specialità al di fuori dall’Italia, ed è un’eresia pretendere che tutti usino solo gli ingredienti “tradizionali”. Quindi rispondo: “ben venga la pancetta, basta che sia di qualità. Usa pure un altro formaggio, basta che si possa sciogliere per fare una crema.” Sono davvero liberale e anche nei miei video dico spesso che “a casa mia faccio quello che mi pare”. Non dimentichiamo che tutte le ricette odierne sono in qualche modo un’evoluzione di quelle originarie: noi italiani siamo fatti cosi da sempre, c’è sempre qualcuno che mette o toglie qualcosa, tanto vale farsene una ragione. Figuratevi che in qualche famosa cucina romana si limitano a strofinare la padella con la cipolla – pur di poter dire che “non la mettono” – quando fanno l’amatriciana. Capite bene quindi che essere radicali porta a contraddizioni davvero difficili da giustificare: diamoci allora come obiettivo un legame con la ricetta originale

e la qualità degli ingredienti e il resto verrà da sé. Anche perché la maggior parte delle ricette tradizionali italiane hanno come vocazione di innalzare “quello che c’è” a piatto di portata. Una sorta di antenato del principio di sostenibilità, tanto in voga oggi. Questo è forse il principio più nobile da rispettare, no? Partiamo sempre dal presupposto che la cucina italiana è fatta da pochi ingredienti, il più importante dei quali è l’ingegno. Un esempio tra mille, ciceri e tria: ricetta originaria del Salento, prevede di friggere una parte di pasta per aggiungerla alla “normale” pasta e ceci bollita. Stesso ingrediente, due consistenze diverse, esplosione di gusto. Un altro aneddoto che racconto spesso riguarda Fulvio Pierangelini, uno dei cuochi che mi ha insegnato di più. Una delle sue ricette più famose é la passatina di ceci con gamberi, un piatto che ha fatto parlare il mondo. La leggenda narra che un giorno di presentò al suo ristorante il Marchese Incisa della Rocchetta, proprietario di Sassicaia, nel giorno di chiusura. Lui aveva delle mazzancolle fresche che ha accompagnato con una crema di ceci e del pomodoro, ideando un piatto delizioso con letteralmente solo quello che aveva a disposizione. Questi, per me, sono i veri geni.


Come chi ha ideato la lasagna, il tiramisù, i cannelloni e i tortellini, non quelli che si inventano spume e schiumette. Io sono anche contrario a certi processi come le cotture sottovuoto perché non ci consentono di metterci alla prova, tutto è standardizzato. Nel barbecue, per esempio, nelle cotture dirette ci confrontiamo con un fuoco da gestire, dobbiamo padroneggiare la posizione e la temperatura degli ingredienti per ottenere il risultato voluto. Nel confronto tra te e la padella misuri quanto sei bravo: a non scuocere la pasta, a mantecarla come si deve… e il risultato finale è il tuo premio. Si chiama esperienza ed è una di quelle cose che non si possono comprare. Io posso farti dieci cacio e pepe e non saranno mai uguali: potrai riconoscere la mia “mano” ma innegabilmente non saranno il risultato di un processo standardizzato. Che intendiamoci, non è il male assoluto, è solo più adatto al banco gastronomia di un supermercato che alla cucina di uno chef o di un appassionato.

Eccovi il panino perfetto per i fanatici del babecue: pizza bianca dei forni Roscioli ripiena di punta di petto alla fornara, cicoria di campo e maionese al peperoncino. Cominciate condendo leggermente con un classico SPG – sale, pepe nero e aglio in polvere – e un po’ di rosmarino la punta di petto, preferibilmente di vitello da latte. Mettetela a cuocere in low and slow (tra i 120 e i 140 gradi) con una teglia per raccoglierne i succhi. Irrorate durante la cottura con un po’ di vino bianco e i succhi stessi che gradualmente verranno rilasciati dalla carne, dovreste averne per circa 4 ore. Il vostro obiettivo è di portarvi tra i 65 e gli 80 gradi al cuore, quel che basta per intenerire il collagene senza però comportarne il completo scioglimento come in un brisket. Nel frattempo sarete andati a fare cicoria nei campi, la avrete raccolta con le vostre

manine, la avrete lavata, bollita e ripassata con aglio e olio extravergine - di quello buono, mi raccomando! Fate quindi una maionese classica mixando tuorli d’uovo, olio di girasole e qualche goccia di aceto bianco, incorporando anche del peperoncino macinato. Quando la carne è pronta, aprite la pizza e tostatela come se fosse una bruschetta. Spalmate poi di maionese piccante tutta la superficie interna della pizza, mettete la cicoria ed infine le fettine di carne non senza averle preventivamente bagnate nel loro succo caldo per accentuarne la morbidezza. Buon appetito! Max Mariola Chef, docente,conduttore di programmi TV fb.com/ ChefMaxMariola instagram.com/chefmaxmariola/ www.maxmariola.com

Parliamo del panino gourmet. Cosa fa fare il salto di qualità a una preparazione che molti considerano solo uno “svuotafrigo”? Il panino è un piatto vero e proprio e va ideato come tale. A volte mi dicono che sono esagerato nelle dosi o nel processo, ma la chiave è davvero affrontarne la preparazione come si farebbe con una pietanza. Ci sono quattro caratteristiche fondamentali: il pane deve essere buono, vi serve una salsa che unisca e ammorbidisca il tutto, ci deve essere la verdura e, ovviamente, vi serve la proteina. Chiariti questi capisaldi, quando penso alla realizzazione di una ricetta la immagino davvero come un piatto da mettere dentro al pane. Badate che quest’ultimo non è solo un contenitore per i vostri ingredienti: è la prima cosa che incontrate quando affondate il morso e deve contribuire alla ricerca dell’equilibrio globale della vostra preparazione. Può portarvi croccantezza o morbidezza, aiutarvi ad assorbire le salse e i condimenti e contribuisce a mantenere caldi gli ingredienti. Però non dimenticatevi la cosa più importante: la vostra preparazione deve poter essere tale che, togliendo il pane, la si potrebbe servire come un piatto. In questo modo non potete sbagliare. Non possiamo congedarci dal re dei panini senza una ricetta pensata per gli amanti della griglia. Cosa ci puoi suggerire? MAGGIO 2020

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SPECIALE PANINI - RICETTA a cura di MICHELA BONGIORNI

Hai mai assaggiato il

LAM P R E D OT TO nella passerina?

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Dovendo scegliere una sola esperienza, gastronomicamente parlando, che passando da Firenze non si può proprio evitare di fare, quella di fermarsi a un baracchino a mangiare i’ lampredotto ni’ pane bòno è sicuramente al primo posto; ovvero, per chi non è toscano e ha difficoltà a comprendere il vernacolo, fermarsi a uno dei tanti chioschi di trippai presenti in vari punti della città (famoso è quello alla Loggia del Porcellino, nome popolare che indica la Loggia del Mercato Nuovo) per assaggiare il re dello street food toscano: il panino col lampredotto. Stando alle cronache, già nel Quattrocento si parlava di trippe e di botteghine fumose a pochi passi dall’Arno, dove si bollivano e si vendevano le interiora a prezzi molto convenienti per chi aveva fame. Erano di fatto proteine a buon mercato, rese più appetibili e gustose, nel corso dei secoli, grazie a ricette golose. COSA È LA TRIPPA, COSA È IL LAMPREDOTTO? Pare che in molti, appena sentono nominare la trippa, pensino subito all’intestino del bovino, in realtà sbagliando. Essa infatti fa parte del cosiddetto Quinto Quarto, termine usato per indicare in generale le frattaglie; nello specifico è ricavata dalle quattro parti dello stomaco del bovino: tre prestomaci (il rumine, il reticolo, l’omaso) e lo stomaco vero e proprio (l’abomaso). Il rumine è il primo e il più grasso dei tre prestomaci. Il reticolo è il secondo prestomaco ed ha un aspetto spugnoso e reticolare che ricorda una cuffia. L’ omaso è il terzo prestomaco ed

è il più magro; ha una struttura lamellare ed è chiamato anche “millepieghe” e “millefoglie”. L’abomaso è lo stomaco vero e proprio ed è il Lampredotto tanto famoso a Firenze, di colore scuro e piuttosto grasso. Prende il nome dalla lampreda, un’anguilla un tempo molto diffusa nell’Arno, della quale ricorda l’aspetto ondulato, e viene gustato generalmente bollito e poi servito dentro il panino insieme a una salsa verde. Per la trippa alla fiorentina, invece, si usano di solito rumine o reticolo già puliti e precotti, poi tagliati a striscioline e infine stufati insieme alla passata di pomodoro. Oggi noi faremo entrambe le preparazioni, dando una nostra personale rivisitazione delle ricette tradizionali, come ben sanno i lettori di lungo corso del BBQ4All Magazine. Poi metteremo tutte e due le preparazioni dentro un bel paninozzo. Già, ma quale? Mica un panino qualsiasi. Dobbiamo usare il Semelle, detto anche Passerina. E qui dobbiamo fare una piccola digressione. LA PASSERINA Immagino che tutti conosciate la corroborante verve dei toscani. Chiunque abbia letto qualche volta il Vernacoliere, famoso mensile di satira, umorismo e mancanza di rispetto in vernacolo livornese (cit.) sa bene di cosa parliamo. I toscani non vanno mai troppo per il sottile, e spesso non vengono compresi. Ne sa qualcosa Roberto Benigni che, negli anni ‘80, dopo essersi lasciato sfuggire un affettuoso “Wojtylaccio” nei confronti del Papa, venne investito da polemiche indignate, e

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ne sa qualcosa anche Paolo Ruffini che pochi anni fa disse alla Loren, durante una premiazione cinematografica, “sei sempre una topa meravigliosa!”, scatenando le ire di signore e signorine che urlarono alla battuta sessista. Il fatto è che i toscani hanno un amore per un certo linguaggio colorito e certamente si indignano quando sentono parlare di mancanza di rispetto (Nencioni, dico a lei). Questo perché le battute toscane e i relativi doppi sensi non sono mai da intendersi come offese, i toscani non ridono mai DI voi, ma CON voi (ai tempi del Covid-19 abbiamo riscoperto un certo amore per le preposizioni semplici, dunque usiamole), quindi hanno un’idea abbastanza singolare del politicamente corretto. Anch’io, che sono donna e alquanto rompicoglioni quando si parla di rispetto, ho sempre considerato simpatica e innocua la battuta di Benigni e un bellissimo complimento quella di Ruffini. Mi rendo conto, però, che bisogna essere toscani per capirlo davvero. Tutto questo preambolo è solo per dirvi che sì, il nome del pane usato per il lampredotto rimanda esattamente alla cosa cui avete pensato subito, con buona pace dei vostri bambini quando vi chiederanno “perché si chiama passerina?”. Potete comunque salvarvi chiamandolo Semelle, e non avrete pensieri.

ingredienti più costosi, ha poi subito nel corso degli anni delle rivisitazioni ed è diventato più popolare, risultando alla fine simile a una rosetta, mantenendo però il nome.

Unico pane salato toscano, nato per essere inzuppato nel latte o nel caffè, è un panino tondo e bianco che ha al centro un profondo taglio. Originariamente nato per i ricchi, poiché veniva fatto con

Insomma, adesso siamo pronti per buttarci a capofitto in queste due preparazioni tipiche toscane, quindi armatevi di trippa e di lampredotto, di farina e di lievito di birra e andiamo.

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Noi la si chiamava anche la passerina. Voleva dire fatto come la natura. La passerina per noi l’è la natura. Ecco, c’ha questo… queste due labbra, con questo cosino… questo taglio ni’ mezzo. (dal Vocabolario del fiorentino contemporaneo, Accademia della Crusca). Bene, chi scrive sta a Pisa, e vi sembrerà strano ma, benché ci troviamo a soli 80 km di distanza da Firenze, i fornai pisani non hanno assolutamente idea di cosa sia il Semelle. Vi lascio oltretutto immaginare le battute che mi sono presa quando, per spiegare bene cosa cercassi, lo chiamavo con l’altro nome. Finché a un certo punto ho pensato: abbiamo in redazione un esperto di panificazione, chiederò a lui una ricetta e mi preparerò i panini da sola. Gli ho anche promesso che lo avrei scritto: Trezzi mi ha aiutato con la Passerina. Ogni promessa è debito, Alessandro. L’articolo non sarebbe stato completo se non avessimo avuto il pane giusto. E anche se andrò incontro al biasimo di chi mi accuserà di far battute da terza media, pazienza.

I N G RED I EN TI PER I PANINI DA 150 G L’UNO: • 1 kg di farina di tipo 1 o 0 W 270-300 • 650 g di acqua • 1 g di lievito di birra fresco • 15 g di sale • 3 g di malto diastasico PER LA TRIPPA ALLA FIORENTINA: • 500 g di millepieghe già pulito e precotto • un gambo di sedano • mezza cipolla bianca • uno spicchio d’aglio • due foglie di alloro • due cucchiai di concentrato di pomodoro • un cucchiaio di passata di pomodoro • pepe q.b. • olio extravergine di oliva q.b. • sale q.b. PER IL LAMPREDOTTO: • 500 g di lampredotto già pulito • un gambo di sedano • una carota • una cipolla • un pomodoro maturo • sale q.b. PER LA SALSA VERDE • 200 g di prezzemolo • un’acciuga sott’olio • sale q.b. • pepe q.b. • un cucchiaino di aceto di mele • tre cucchiai di olio extravergine di oliva • un peperoncino


gete il concentrato e la passata di pomodoro, infine le due foglie di alloro. Versate un bicchiere di acqua e aspettate che riprenda bene il bollore. 5. A questo punto cominciate ad affumicare con chips di melo, chiudendo il coperchio e stabilizzando il kettle ad una temperatura di 170/180°C. Fate cuocere la trippa per circa due ore, girandola e controllandola ogni tanto e aggiungendo acqua per non farla asciugare troppo. Quando sarà pronta aprite il coperchio e fate ritirare per bene il sughetto.

I PANINI: PREPARAZIONE 1. Preparate il poolish mescolando 400 g di farina, 400 g di acqua e il lievito; dovete solo idratare la farina, poi coprire con una pellicola e lasciar riposare dodici ore a temperatura ambiente: il poolish è pronto quando si formano delle crepe in superficie. 2. Prendete il poolish, aggiungete la restante farina e la restante acqua (quindi 600 g di farina e 250 g di acqua), il malto diastasico e il sale: impastate come vi ha insegnato il buon Trezzi, poi lasciate raddoppiare nel forno con la luce accesa (indicativamente per due/tre ore). 3. Formate i panetti, di circa 150 g l’uno, chiudendoli bene verso il centro, passateli in un poco di farina o di semola e metteteli a lievitare ben distanziati su una teglia rivestita di carta forno. 4. Copriteli con un panno umido (triplicheranno, tenete conto di questo) e metteteli di nuovo nel forno con luce accesa per una o due ore. 5. Quando saranno ben lievitati, preriscaldate il forno statico a 230°C e quando sarà bello caldo, poco prima di infornare i panetti, fate un taglio profondo al centro di ognuno, usando un coltello tagliente: andate dritti senza paura, se il panetto è asciutto si taglia facilmente, altrimenti passate sul coltello un velo di farina. 6. Infornate per circa 35-40 minuti. Per i primi 15-20 minuti mettete un pentolino d’acqua bollente e spruzzate con il vaporizzatore, poi toglietelo. Gli ultimi 5 minuti aprite leggermente il forno per far uscire il vapore. Sono pronti quando la T interna è 95°C, la mollica è asciutta alla prova

stecchino e bussando da sotto suonano vuoti. LA TRIPPA ALLA FIORENTINA: PREPARAZIONE 1. Accendete le braci e predisponete il kettle in modo da poter collocare il wok nell’apposito spazio sulla griglia. La braci vanno sotto al wok ma non a contatto. 2. Preparate un trito di sedano, cipolla, aglio e carota. 3. Quando il wok sarà ben caldo versateci tre cucchiai di olio extravergine di oliva e il soffritto che avete preparato. 4. Facendo attenzione che il soffritto non bruci, fatelo imbiondire leggermente e poi aggiungere la trippa tagliata a listarelle. Fate insaporire, aggiustate di sale e pepe, poi aggiun-

IL LAMPREDOTTO E LA SALSA VERDE: PREPARAZIONE: 1. Preparare il brodo vegetale e fate bollire il lampredotto per circa un’ora e mezza. 2. Col frullatore a immersione, preparare la salsa verde mixando tra loro il prezzemolo (compresi i gambi), le acciughe, un pizzico di sale, l’olio extravergine di oliva, l’aceto e il peperoncino. Se vedete che la salsa è troppo asciutta, aggiungete un po’ di olio e di aceto. In ogni caso assaggiatela sempre per aggiustarla di sale. A questo punto siete pronti per farcire i panini: apriteli a metà e metteteci dentro la trippa al sugo o il lampredotto con la salsa verde, a seconda del gusto dei vostri commensali. Se volete fare proprio un’esperienza completa, pucciate -o meglio inzuppate, ché a Firenze si inzuppa e non si puccia- la parte superiore dei panini nel brodo del lampredotto prima di richiuderli.

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SPECIALE PANINI - RICETTE a cura della REDAZIONE

PA N E E PA N E L L E quando due parole diventano una

Ipotetici dialoghi che potreste sentire in giro per la Sicilia Tra muratori a metà mattina: - Compà! C’è fame! chi manciamu? - Paneepanelle! Il figlio al genitore: - Mamma che mi porto a scuola come merenda? - Paneepanelle! Due amici dopo una notte brava in discoteca: - Fra’ bellissima la serata, ma ora ho fame, fra’! Che possiamo mangiare fra’? - Paneepanelle fra’! Una coppia di fidanzati all’aperitivo - Amo’ che mangiamo con l’aperitivo? - Paneepanelle! Due bancari in pausa pranzo: - Collega stai andando a mangiare? Cosa mangi? - Paneepanelle! In famiglia la sera: - Ragazzi non ho voglia di cucinare. Cosa vorreste mangiare? - Paneepanelle! 36 - BBQ4All MAGAZINE

Come è possibile immaginare dai dialoghi esemplificativi, il panino con le panelle in Sicilia è LA soluzione. Reperibile praticamente h24-7/7 è l’alternativa più semplice e comoda per placare i morsi della fame. Questo piatto, tipico soprattutto della Sicilia occidentale, è venduto ovunque, dai ristoranti più blasonati fino ai camioncini mobili disposti strategicamente nei piazzali dei paesi. Come già descritto nel numero di Giugno 2019 (panelle e sliders) questa pietanza vede i suoi natali a Palermo, durante la dominazione araba intorno all’anno mille. La farina ottenuta dalla pestatura dei ceci veniva amalgamata con acqua e cotta fino a creare un impasto solido. Il sapore di questa preparazione non era esattamente un’esplosione di gusto. Fu grazie all’ingegno e alla maestria dei palermitani che questo piatto entrò negli annali della cucina siciliana. All’idea originale importata dagli arabi, i mastri panellari, apportarono delle piccole modifiche per rendere quel miscuglio più affabile e gustoso. Per prima cosa aggiunsero il finocchietto all’impasto, per conferire maggiore aroma e sapore; poi una volta tagliato in fogli sottili, esso ve-

niva fritto e infine infilato in una pagnotta di pane. Un piatto povero, semplice, che però sfamò il popolo per anni grazie alla sua versatilità. Nel corso dei secoli il piatto ebbe tanto di quel successo da finire sulle tavole più illustri, passando dai reali fino ai più grandi scrittori e letterati del secolo passato. Con il conseguente diffondersi delle panelle, anche i locali che le vendevano accrebbero il loro successo. In particolare nel cuore di Palermo, grazie all’iniziativa di Salvatore Alaimo, nel 1834 nacque una focacceria. Alaimo aveva passato venticinque anni al servizio dei Principi di Cattolica come maestro di sevizio (vi ricordate i monsù delle sarde a beccafico del numero di dicembre?); terminata quest’avventura decise di investire su se stesso e aprì questo locale nei meandri del centro di Palermo. Neanche nei suoi sogni più reconditi avrebbe potuto immaginare che quella piccola focacceria sarebbe stata la testimone di tanta storia del nostro Paese e sarebbe resistita per quasi 200 anni. Da Garibaldi a Falcone, su quei tavoli si sono seduti tra i più grandi personaggi del panorama italiano e internazionale; in molti hanno ceduto


I N G REDI EN TI

PER 10 PANINI CIRC A • 500 g di farina di ceci • 1,5 lt di acqua • un cucchiaino di sale raso • un mazzetto di finocchietto selvatico (in alternativa potete usare il prezzemolo) • pepe q.b. • olio per la frittura (preferibilmente d’arachidi)

alla gola e si sono fatti inebriare del gusto delle panelle. Sull’onda del successo di questa focacceria, le friggitorie e i panellari si moltiplicarono fino a diventare capillari su tutto il territorio dell’isola. Non c’è piazza, scuola, mercato che non abbia un panellaro vicino. Chi con un chioschetto mobile, chi con un camioncino, chi in un piccolo negozio, tutti continuano imperterriti a friggere panelle per deliziare i siciliani e i turisti. Negli anni l’offerta gastronomica si è ampliata e differenziata, offrendo una più ampia gamma di abbinamenti per fare contenti i palati più difficili. Possiamo annoverare diversi tipi abbinamenti per imbottire i panini: - la versione classica: panelle in un panino tipo mafalda condite con una spruzzata di limone - la versione palermitana, le panelleecrocché: panelle e soffici crocchette di patate. - la versione “per i bambini”: panelle, wurstel (anche questi fritti) e ketchup - la versione “per i bambini veg”: panelle, patate fritte e maionese - la versione gourmet: panelle e salmone fresco sott’olio - la versione mazarese: panelle, gambero rosso crudo e una spruzzata di limone - la versione mazarese overflow: panelle, gambero rosso pastellato e fritto - la versione BBQ4All: panelle e sliders. Oggi vi proponiamo la ricetta base per

fare l’impasto da friggere. Il resto è alla vostra inventiva! PREPARAZIONE: 1. In una pentola capiente mescolate la farina di ceci setacciata e l’acqua. 2. Aggiungete il sale e il pepe. 3. Mescolate il tutto con una frusta (o in alternativa con un frullatore a immersione) in modo da non creare grumi e ottenere un impasto liscio e setoso. 4. Accendete la fiamma a fuoco medio e cominciate a mescolare il composto. 5. Quando si stacca dai bordi della pentola aggiungete il finocchietto con-

tinuando a mescolare per qualche altro minuto. 6. Versate adesso il composto in uno stampo (per plumcake) unto con un po’ d’olio. 7. Lasciatelo raffreddare una notte. 8. Quando si sarà raffreddato ribaltatelo su un tagliere e affettatelo sottilmente 9. Mettete l’olio a scaldare. 10. Friggete adesso le panelle nell’olio bollente. 11. Scolatele su carta assorbente, poi salate e pepate a piacimento. 12. Servite all’interno del panino con una spruzzata di limone.

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SPECIALE PANINI - RICETTA a cura di EMILIANO NENCIONI

L A P O R C H E T TA è maiale porchettato

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Che sollievo finalmente poter usare i termini con il loro giusto scopo e contesto! La porchetta, stavolta non ci piove, è un caso lampante e omologabile di alimento porchettato; non solo, è l’origine di molti abusati suffissi in -ettato presenti nel mondo del barbecue. Non sapete di cosa stia parlando? Probabile. In tal caso, o la mia azione di stigmatizzazione verso certe parole è andata a buon fine, o il vostro è solo un colpevole tentativo di fare lo gnorri. La motivazione di tutto questo è presto detta: la porchetta è sostanzialmente un maiale avvolto su se stesso e ripieno di ancora altro maiale, in breve; questo ha causato tutta una serie di eredità linguistiche, arrivando ad attribuire una condizione di porchettato a molti alimenti avvolti, farciti e legati con lo spago. Fin qui tutto bene, tutto tollerabile, tutto perfettamente sensato. Ma poi vi siete inventati il briskettato ed è andato tutto allo sfascio: qualsiasi cosa cotta a bassa temperatura e coperta di sale pepe e aglio avrebbe potuto fregiarsi della medaglia di briskettato. Se non ne avete mai sentito parlare significa che avete iniziato la vostra carriera di griller sui social network da relativamente poco tempo, e che qualcuno ha combattuto delle sanguinose battaglie per la vostra integrità linguistica. Prego, non c’è di che. Ma sto divagando: voglio parlarvi della porchetta, the original porchettato. Nelle sue forme più arcaiche e tradizionali è prodotta partendo da un intero suino, epidermide e tutto, ripulito delle interiora, riempito di spezie (per lo più rosmarino e finocchietto) e del suo stesso fegato a tocchi; un bastone infilza poi il maiale per tutta la sua lunghezza e viene usato come spiedo per una lenta cottura girevole. È proprio questa immagine un po’ truculenta e un po’ medievale che mi ha tenuto lontano da questa nostra tipicità molto italiana, fino all’età adulta. Questo, e altri dettagli, tipo la frequente esposizione della porchetta completa di testina del maiale abbrustolita, con quell’espressione un po’ triste e un po’ sorpresa, sicuramente amareggiata, inutilmente sbeffeggiata da una mela ficcata nelle fauci; la porchetta poi, leader indiscusso dello street food pre-invasione dei fast food (e francamente prima che il cibo di strada si chiamasse street food), presente in fiere e sagre ma anche e soprattutto in discutibilissimi

Ford Transit con la sponda ribaltabile, immancabili su ogni strada di grande comunicazione, non era esattamente l’emblema della sanificazione, del rispetto delle norme HACCP e dell’incontaminazione dell’alimento. Tutt’altro: in toscana specialmente, regione dove sono cresciuto e dalla quale vi scrivo, la figura del porchettaro notturno è legata a doppio filo alle gesta dell’omonimo fumetto di Marco Citi (di Ponsacco, PI), presente sulla pubblicazione assurta a lettura obbligatoria per qualsiasi toscano non voglia farsi cogliere impreparato dall’ironia velenosa del livornese di turno: il Vernacoliere. Insomma, nella mia immaginazione di adolescente e giovane adulto la porchetta poteva essere solo il laido coprotagonista di una striscia satirica che parlava di sporcizia, evasione fiscale, imbarazzanti signore non più giovani fasciate da inadeguati abitini che tornavano dall’overnight in discoteca, e battute sui pisani. Quale non fu il mio sconcerto nell’apprendere che della porchetta si mangia-

va - e si gradiva particolarmente - anche la cotenna del maiale! Fu proprio a una sagra paesana che, combattuto fra il digiuno forzato e un panino con la porchetta, nel comprare il mio primo assaggio, concentrandomi per non guardare la testina arrostita dritto negli occhi, mi rivolsi all’ambulante (non erano ancora pitmaster o street chef) con tono polemico e sprezzante: “scusi eh, ma almeno faccia in modo di non lasciarmi la cotenna nel panino”, indicando un pezzettone croccantissimo finito tra le mie fette. La reazione del professionista della ristorazione itinerante fu più di dispiacere, amarezza e delusione che di stizza: “O’bimbo... ma se t’ho scelto il pezzo meglio, dè, è il su’bello, senti com’è bono, dai retta vai!”. Pagai, e il signore continuò a rivolgere una meritatissima mano a cucchiaio alla mia figura che si allontanava. Buona era buona. Molto buona, in effetti: ma non riuscivo a non rimanere sconvolto dall’idea della testa arrostita con la mela in bocca, che mi guardava e mi giudicava. MAGGIO 2020

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SPECIALE GRIGLIATE - LA RICETTA a cura di MICHELA BONGIORNI E’ stato con BBQ4All che ho riscoperto il piacere della porchetta: non più cibo da attacco di fame caratteristico di certi dolenti furgoncini in viali desolati a ridosso delle pinete (insomma, i mangia-e-tromba, si chiamano qui), ma un alimento succulento finalmente preparato, cotto e consumato in perfetta igiene, fresco di cottura. Soprattutto, della porchetta avrei visto solo la parte commestibile, non l’inutile e crudele ornamento della testina arrostita. Era tutto lì il nocciolo: la gestione del senso di colpa, il faccia a faccia, il confronto. E’ proprio per questo che dal macellaio dovrete farvi preparare una bella pancettona, cotenna e tutto (perchè aveva ragione il signore del furgoncino, una buona cotenna croccante è la parte migliore), che non abbia solo grasso ma anche un bel po’ di carne (e il macellaio protesterà perché dovrà sciupare le costine); aggiungete anche un bel pezzo di lonza, o di filetto, sarà il vostro nucleo porchettiforme. Vi servirà per preparare il piatto di quest’articolo: il panino con la porchetta con salsa agrodolce di cipolle e arance. PREPARAZIONE: 1. Togliete eventuali setole residue sulla cotenna servendovi di pinze o di un cannello. Cospargete l’interno della pancetta con la miscela di spezie che vi ho suggerito (ma sentitevi liberi di aggiungere o togliere aromi a vostro piacimento). 2 Adagiate i filetti al centro della pancetta e, sempre tenendo la parte con la cotenna all’esterno create un rotolo che li avvolga; fermate il tutto con dello spago e una serie di nodi ben piazzati. C’è tutta una serie di tutorial in giro su comemeseguire una legatura a regola d’arte. Ve lo abbiamo spiegato anche noi sul Magazine di Marzo 2019, sempre parlando della Porchetta. Se proprio non siete capaci, potete farlo anche alla buona, senza incorrere in sanzioni penali. 3. Predisponete il vostro kettle per una cottura indiretta, o accendete un solo bruciatore del vostro dispositivo a gas, stabilizzando ad una temperatura di 150°C in camera di cottura. 4. Se avete un girarrosto è il momento perfetto per vantarvi del vostro acquisto e usarlo, in caso contrario appoggiate la pietanza sulla griglia e ri40 - BBQ4All MAGAZINE

cordatevi di ruotare la porchetta sul suo asse di tanto in tanto. Chiudete il coperchio e aspettate fino a quando la temperatura al cuore non sarà arrivata a circa 85°C. Ricordate, non state facendo un pulled pork. La carne deve arrostirsi, non sfilacciarsi: l’interno deve essere cotto, ma succoso, umido: la porchetta asciutta non va bene per niente. 5. A 85°C arriva la parte delicata: la cotenna. Se una cotenna croccante e friabile è gustosa e piacevole al palato, una pellaccia molliccia è disgustosa e stomachevole; non solo: diffidate di chi spaccia per croccante una cotenna dura come il vetro. Che scrocchia sì, ma il rumore lo fanno i vostri molari che vanno in mille pezzi. Come avrete già letto, è l’acqua presente nella pelle che, andando velocemente in ebollizione, fa gonfiare gli strati dell’epidermide facendoli diventare friabili, simili a dei pop corn. La chiave è tutta lì, nella velocità. Bisogna alzare la temperatura in maniera repentina, introducendo un provvidenziale cesto di bricchette ben accese nel kettle o dando potenza ai bruciatori del vostro dispositivo a gas. Fate scoppiare, non bruciate: se in un punto l’umidità nella pelle è già andata tutta via, non avrete nessuna esplosione, solo cotenna simile a un cristallo temperato. Inutile insistere. Evitate di fare il Wile E. Coyote della situazione e inventarvi astrusi stratagemmi, tipo - sì, l’ho visto consigliare online - ricorrere a una pistola termica da carrozziere per sparare aria a 400°C sulla cotenna. LO SO che vi tenta, ma quell’oggetto non è pensato per scopi alimentari, rischiate di lanciare polveri combuste e chissà quali altre schifezze direttamente sul cibo che andrete a mangiare. 6. Terminata l’Operazione Deflagrazione lasciate la porchetta a fare qualche minuto di rest e dedicatevi alla salsina di accompagnamento. 7. Affettate le cipolle e le arance sbucciate e private della peluria bianca, mettetele in un pentolino assieme allo zucchero e all’aceto di mele e cuocete piano piano, col coperchio, senza dimenticare di mescolare. 8. Quando si sarà formato un composto denso schiacciatelo grossolanamente con una forchetta o un pestello e aggiungete lo sciroppo d’acero. A questo punto, frullate il tutto e ri-

mettetelo nel pentolino per farlo un po’ ritirare, facendo attenzione che non si bruci. 9. Con un coltello affilato tagliate a fette di 10 - 12mm la porchetta, facendo attenzione allacotenna: mettete da parte il vostro ego e togliete di mezzo la cotenna moscia, o dura e non scoppiata. Sarà tutto buono lo stesso, meglio togliere un po’ di cotenna che ritrovarsi con un pezzo di SecurGlass in bocca. 10. Aprite in due un bel panino, fatelo tostare leggermente e farcitelo con estrema generosità di porchetta: questo non è un alimento che si presta a dosi minimaliste, meglio di più che di meno. 11. Coprite la carne con un velo massiccio di salsa agrodolce e servite il panino. Alcune raccomandazioni per la consumazione e per l’irrinunciabile condivisione social: le urla cavernose rivolte verso la porchetta sul girarrosto vanno benissimo; le gesta di tripudio a ogni esplosione di cotenna sono tollerate e incoraggiate; rubare la cotenna migliore al vicino di posto è gesto goliardico e generalmente ben accetto; le rimembranze di quella volta, “com’era buona la porchetta in quel furgoncino una sera tardi”, stringono il cuore e fanno convivialità ma attenti a micidiali e irrimediabili gaffe. Soprattutto, nel momento di pubblicare le vostre Stories, ricordatevi che non state facendo un video ASMR (risposta sensoriale apicale autonoma): piantatela di ficcarvi mezzo smartphone in bocca per farci sentire come scrocchia la cotenna che siete stati così bravi a preparare, evitateci la pena di vedere a tutto schermo la vostra masticazione, il vostro palato molle, fate pure a meno di tenere il boccone mezzo fuori dalle ganasce per far vedere che è proprio quella. la vostra cotenna, a fare quei suoni croccanti. Ci crediamo, dopotutto state seguendo le metodologie del Magazine BBQ4All, per cui non c’è motivo di dubitare. La camera frontale del vostro smartphone non è un endoscopio, non fate cose brutte a vedersi, che poi è imbarazzante anche dovervelo dire. Ve l’ho detto. A posto così?


I N G REDI EN TI

PER 6 PER SONE PER IL PANINO CON LA PORCHETTA • sei panini • una pancia del maiale da circa un kg • due filetti di maiale da circa 500 gr l’uno • un cucchiaino di sale • pepe in abbondanza • mezzo cucchiaino di semi di finocchio • un cucchiaino e mezzo di aglio in polvere • un cucchiaino e mezzo di rosmarino in polvere • olio extravergine di oliva q.b. • spago da cucina PER LA SALSA AGRODOLCE • mezza cipolla • 2 arance • un cucchiaino di zucchero • un cucchiaino di aceto di mele • un cucchiaino di sciroppo d’acero

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SPECIALE PANINI - RICETTE a cura della REDAZIONE

P H I L LY CHEESESTEAK il mio ring è la strada!

Quando si parla di Philadelphia (la città, non il formaggio spalmabile), una delle prime cose a cui si pensa è la scalinata del Philadelphia Museum of Art. Questo luogo, reso celebre grazie ai film di Rocky, da cui abbiamo tratto la citazione del titolo, non è l’unica cosa per cui Philly, nome con cui viene chiamata in slang la città, merita di essere menzionata. Oltre alle bellezze architettoniche infatti, il famoso centro urbano della Pennsylvania è famoso anche per specialità gastronomiche come il Philly cheesesteak. Guarda caso, oggi parliamo proprio di quello. Così come nel film Rocky il protagonista era un pugile di origini italiane, anche la discendenza di questo panino è legata all’italico ingegno. Infatti, secondo quanto riportato dalla guida turistica di Philadelphia, la paternità di questo panino è da attribuire a Pat e Harry Olivieri, due fratelli che avevano aperto una 42 - BBQ4All MAGAZINE

bancarella di hot dog intorno agli anni ‘30, agli angoli della 9th Street, Wharton Street e Passyunk Avenue. Un giorno del 1933, secondo la storia, Pat mandò Harry al mercato per comprare una bistecca non troppo costosa da servire ai loro clienti. Quando Harry tornò, nacque la geniale idea: la affettarono sottilmente, quindi la grigliarono insieme ad alcune cipolle tritate. L'aroma attirò un tassista, cliente abituale della bancarella, che chiese di provare il piatto. Beh, gli piacque talmente tanto che consigliò ai fratelli Olivieri di smettere di servire hot dog e di cominciare a servire quel panino con la bistecca. Nel giro di pochissimo tempo la notizia si diffuse tra i tassisti e presto quel chioschetto divenne una meta obbligatoria per il pranzo. Dato lo straordinario successo, i due fratelli decisero di aprire il loro ristorante, il Pat’s King of Steak, nello stesso luogo in cui sorgeva il loro chiosco. Il caso volle però che sull’angolo nord, opposto al lor ristorante, ce ne fosse un altro, il Geno’s Steak.

Se in ambito pugilistico l’avversario da battere per Rocky era Apollo, sulla scena alimentare, lo scontro fu sicuramente quello tra Pat’s vs Geno’s. I due ristoranti infatti, sin dall’apertura, si combatterono a colpi di panini per diventare i leader del mercato. Sembra che l’aggiunta al panino del cheese whiz (crema di formaggio spalmabile) sia da attribuire a Geno’s, e che per risposta Pat’s abbia presentato la variante col provolone. Fatto sta che dopo oltre 50 anni entrambi i ristoranti servono ancora sandwich nella loro storica location. Entrambi aperti h24 7su7, round dopo round si combattono il primato come miglior Philly cheesesteak della città. Nella nostra personalissima versione abbiamo optato per un politically correct e vi proponiamo entrambe le versioni. A voi l’ardua sentenza!


PREPARAZIONE 1. Settate il kettle per una cottura diretta. 2. Affettate finemente la cipolla e i peperoni. 3. Fateli rosolare con un filo d’olio usando una padella in ghisa, salate e pepate. 4. Aprite in due i panini e spalmate sulla parte della mollica un po’ di burro. Fateli adesso dorare sulle braci.

5. Quando le verdure saranno cotte, spostatele in una terrina e usando la stessa padella fate cuocere molto velocemente gli straccetti di ribeye con un filo d’olio. 6. Componete adesso il panino iniziando dalla carne, poi le verdure e infine il formaggio. 7. Ponete infine il panino nel kettle, giusto il tempo di fare sciogliere il formaggio.

Fateci sapere per quale delle due versioni avete optato, anche se sappiamo che sarete talmente golosi e curiosi da provarle entrambe. In quel caso, diteci qual è stata la vostra preferita.

INGREDIENTI PER 4 PERSONE

• Una ribeye GLC Top Selectione del BBQ4All Megastore tagliata a fettine sottili • una cipolla bionda • mezzo peperone rosso • mezzo peperone giallo • 2 panini o una baguette divisa in due parti • 2 fette di provolone o in alternativa il cheese whiz (crema di formaggio spalmabile) • Sale q.b. • Pepe q.b. • Olio extravergine di oliva q.b. • Burro q.b.

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SPECIALE PANINI - RICETTE a cura della REDAZIONE

LAMB K E BA B dalla griglia con amore

Tutti noi abbiamo sognato di farlo dopo l’immancabile attacco di fame ogni volta che alla TV vedevamo i cowboy o i guerrieri arabi sedersi nelle radure intorno ad un fuoco, a far cuocere nelle fiamme dell’inferno quei fantastici spiedini di carne succulenta. Dai, ammettetelo, siete stati rapiti da quelle immagini e il più delle volte vi hanno fatto alzare dalla sedia per andarvi a prendere qualcosa da mangiare. Ebbene, fin dal momento in cui ha scoperto come ammaestrare il fuoco, l’uomo ha sempre cercato di cuocere i suoi pezzi di carne attraverso uno spiedo, prima realizzato in legno e poi nel corso dei secoli utilizzando altri tipi di accessori. È nato così Il Kebab, che significa proprio “carne arrostita “. Pare che la sua origine sia persiana: sembra che già nel ‘400 i cavalieri persiani cuocessero la carne utilizzando le loro spade, nei loro accampamenti. In Europa invece la sua importazione risale a circa 50 anni fa, non si sa bene ancora se per mano degli inglesi o dei tedeschi. C’è chi afferma che la prima tavola calda dove venne servito il kebab fu aperta nel 1966 a Stoke Newington, a Londra. C’è chi invece riferisce della sue prima presenza a Berlino, grazie a due emigrati turchi nei primi anni 70’. 44 - BBQ4All MAGAZINE

In ogni caso, la sua preparazione prevede carne di agnello, montone o capra e non maiale per via dell’assoluto divieto di mangiarne, causa questioni religiose. Quando parliamo di Kebab, descriviamo un mondo molto variegato sulle tipologie di questo piatto. In Turchia esistono più di cinquanta preparazioni diverse, a seconda della zona in cui viene preparato, degli ingredienti utilizzati, del modo di cuocerli e del tipo di carne usata. In generale comunque si realizza infilzando fette di carne sovrapposte nello spiedo. Si inizia con parti magre e si conclude con le parti grasse che, essendo nella parte alta, quando sottoposte a calore tendono ad irrorare la carne sottostante con i loro grassi, rendendo nel complesso l’intero blocco succoso e saporito. Nel tempo, a causa di una diffusione sempre maggiore di questo cibo, si è andata perduta in parte la qualità del prodotto. I locali commerciali utilizzano sempre più spesso prodotti congelati dal sapore piatto e livellato ad uno standard di gusto: sa di poco e sa ovunque della stessa cosa. Possiamo infatti riconoscere facilmente un prodotto commerciale da uno artigianale già dall’aspetto visivo. Quello commerciale rimane molto compatto e dalla forma regolare, quello artigianale si distingue per l’irregolarità nella forma e per la netta distinzione delle carni,

I N G RED I EN TI PER 2 PERSONE

• due panini di tipo Pita • 400 g di coscia d’agnello GLC Selection • 100 g di cavolo cappuccio • 2 melanzane viola di Firenze • 2 pomodori ramati • una cipolla rossa • 8/10 foglioline di menta • 100 ml olio extravergine • mezzo limone • 2 spicchi aglio • sale q.b • pepe q.b • olio extravergine di oliva q.b. • due cucchiai di salsa tzatziki MIX DI SPEZIE PER L’AGNELLO: • un cucchiaio di aghi di rosmarino fresco • un cucchiaino di cumino in polvere • mezzo cucchiaino di cannella • mezzo cucchiaino di noce moscata • un cucchiaino di aneto • un cucchiaino di cardamomo in polvere • un cucchiaino di sale


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nella stratificazione dello spiedo. Il tipo di cottura del Kebab avviene mediante spiedo (shish) che si divide in orizzontale e verticale (döner kebab). La parola döner sta proprio a significare il movimento rotatorio dello spiedo. Sebbene nasca come un prodotto realizzato alla brace, la commercializzazione ha fatto sì che esso venga cotto oggi grazie a delle macchine apposite, alimentate da bruciatori a gas o tramite resistenza elettriche. Noi lo riporteremo alle origini, cuocendolo nel nostro dispositivo. Il classico panino con Kebab, che troviamo nei locali etnici occidentali, viene generalmente realizzato con uno specifico tipo di pane: la pita. Realizzeremo il nostro panino con un cosciotto di agnello che dovrà essere ben disossato, in modo da ottenere un unico pezzo da cui andremo a ricavare le fettine da inserire nella pita. Dopodiché lo condiremo con le spezie e lo metteremo a marinare, prima di cuocerlo, condirlo e mangiarlo con estrema soddisfazione. PREPARAZIONE: Un giorno prima 1. Iniziate col preparare il cosciotto di agnello, disossandolo a libro e ungendo ambo il lati con un velo d’olio leggerissimo. 2. Preparate il mix di spezie: tritate finemente gli aghi di rosmarino fresco, aggiungete il resto delle spezie e cospargetelo per tutta la superficie della carne. 3. Ora arrotolate il cosciotto a cilindro e avvolgete ben stretto con la pellicola trasparente al fine di realizzare una sorta di salsicciotto. 4. Infilzatelo con uno spiedo di legno o di acciaio lungo circa 30 cm e ponetelo in freezer a congelare. Il giorno dopo 1. Predisponete il vostro dispositivo per una cottura indiretta con temperatura in griglia di circa 140°C. 2. Tagliate le melanzane a fette spesse. Spennellatele con l’olio extravergine e mettetele in cottura diretta sino a formare delle belle grill marks, poi spostatele in indiretta e fatele cuocere per circa 20 minuti, finché non risultino tenere. 3. Affettate i due spicchi d’aglio e fateli tostare su un foglio di alluminio, fin-

ché son ben dorati da ambo le parti, poi teneteli da parte. 4. Togliete dal freezer il vostro spiedo di carne. Eliminate la pellicola e mettetelo in cottura indiretta sino ai 72°C al cuore. Ora preparate la linea degli altri ingredienti di contorno. 5. Mondate il cavolo, lavatelo e tagliatelo a striscioline. Tagliate il pomodoro a fette circolari non troppo spesse. Tagliate una cipolla rossa a fettine di qualche millimetro. 6. Create un salmoriglio con olio, sale, pepe, menta tritata e il succo di limone. 7. Quando l’agnello raggiungerà i 72° C al cuore, spostatelo rapidamente in cottura diretta per qualche minuto, girandolo ripetutamente al fine di cauterizzare maggiormente la superficie. 8. Toglietelo dalla griglia, appoggiate il vostro spiedo ad un tagliere e affettate verticalmente in piccoli pezzi di carne. 9. Scaldate la pita per qualche secondo sulla griglia, apritela e riempitela stratificando in questo modo: dapprima il cavolo cappuccio, poi due fette generose di pomodoro, infine una fetta di melanzana. Irrorate leggermente col salmoriglio, disponete qualche fettina di aglio tostato e poi coprite il tutto con abbondante carne. Finite la vostra pita, adagiando sopra la carne alcune fettine di cipolla. 10. Ora è il momento di aggiungere la salsa. Una cucchiaiata per ogni pita è più che sufficiente. Per la salsa lasciamo a voi la scelta. Noi consigliamo una tzatziki, perché restituisce un tocco di freschezza e acidità grazie ai cetrioli e lo yogurt. Per concludere una curiosità. Anche James Bond nel libro “Dalla Russia con amore” mangia un Kebab di agnello con cipolla, per il quale ha una vera passione, al suo arrivo in Turchia per la missione da compiere. D’altronde il suo autore, Ian Fleming, era uno che prestava attenzione al cibo. Egli stesso affermava: “Ricavo un ridicolo piacere da quello che mangio e bevo. Dipende dal fatto che sono scapolo, ma soprattutto dal vizio di curare esasperatamente i particolari. Sono pedanterie degne di una vecchia zitella, ma in genere quando lavoro devo mangiare da solo, e fare caso a tutto rende la cosa più interessante.” MAGGIO 2020

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SPECIALE PANINI - RICETTE a cura della REDAZIONE I N G RED I EN TI PER 4 PERSONE

• 4 Tortilla • 500 g di Hanger Steak GLC Top Selection • 100 ml di salsa Tamari • 200 g di mascarpone • 4 peperoni Corno di Toro rosso • 300 g di puntarelle • due cucchiaini di sale • mezzo cucchiaino di pepe nero • un limone • Olio extravergine di oliva q.b. PER LA SALSA CHIMICHURRI • 15 g di Memphis Dry Rub BBQ4All • 100 g di pomodori datterini gialli • uno scalogno • un ciuffo di prezzemolo • un ciuffo di origano fresco • 50 ml di Olio extravergine di oliva • 50 ml di Aceto di mele barricato • 50ml di Acqua tiepida • Sale q.b. • Pepe q.b.

U N B U R R I TO BURROSO ed è subito WOW!

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In un numero tutto dedicato al mondo dei panini, entra di diritto il Burrito. Ve ne avevamo già parlato nel Magazine di Settembre 2019, ma ora vogliamo dedicargli ulteriore attenzione, essendo un cibo così diffuso, con mille sfaccettature e altrettante possibilità di realizzarlo. Ripassando un po’ la storia di questa deliziosa preparazione, dobbiamo ricordare che è indubbiamente un punto forte della cucina Tex Mex, ma che già dagli anni 80 ha spopolato in tutto il mondo. Nato verso gli inizi del secolo scorso durante la Rivoluzione messicana, fu inventato da Juan Mendez, che decise di avvolgere il cibo che vendeva all’interno di una tortilla affinché rimanesse caldo durante le fughe, dovute alle persecuzioni del dittatore Porfirio Diaz. Il successo di questa preparazione fu enorme, tanto da permettere a Juan di poter acquistare un piccolo asino per espandere il proprio commercio anche nelle zone limitrofe. Fu così che decise di dare il nome al piatto, chiamandolo burrito, che in lingua spagnola significa asinello. Questo rotolo inizialmente veniva riempito di fagioli riscaldati e carne essiccata, a causa della mancanza di frigoriferi che potessero permettere l’utilizzo di ulteriori ingredienti degradabili. Oggi sappiamo che non c’è limite alla scelta delle farciture. Lo troviamo in innumerevoli varianti, con diverse specialità di carne, di verdure, di formaggi. Forse è proprio la sua versatilità ad averlo reso così famoso nel mondo. Una cosa però è certa: per comporre un ottimo burrito, sono cinque gli elementi che non devono mai mancare: la carne, la verdura, il formaggio, l’elemento piccante e la salsa. Scegliendo accuratamente questi elementi e bilanciandoli tra loro, siamo certi di ottenere un prodotto che farà esplodere le nostre papille gustative. Per questo motivo abbiamo pensato che un’altra versione del burrito non poteva che essere un modo come un altro per rendervi la vita in griglia ancora più entusiasmante. Infatti per questa meravigliosa composizione dei cinque elementi, siamo partiti da qualcosa di veramente esplosivo. Un taglio povero, ma ricco di sapore: Hanger Steak, ovvero il lombatello di manzo. Già preso da solo è, tra i tagli del manzo, veramente eccezionale per sa-

pore intenso, mineralità e fibrosità. L’elemento umami che abbiamo voluto apportare a questo taglio è la salsa Tamari, che formerà una bella marinatura per un ulteriore boost di gusto e forza. Vediamo quindi quali sono gli altri ingredienti che caratterizzano il nostro burrito e che abbiamo scelto per voi. Il mascarpone: un formaggio dolce e spalmabile che ben si lega al lombatello e agli elementi di contorno, perché restituisce un po’ di dolcezza e di burrosità. Noi lo andremo ad aromatizzare con pepe nero e la scorza grattugiata di mezzo limone. Il peperone Corno di Toro rosso: scelto per intensità di sapore ma soprattutto per l’estrema croccantezza e l’altrettanta dolcezza che si accompagnano bene al sapore intenso della carne. Puntarelle: questi straordinari germogli di cicoria catalogna dal sapore vagamente amarognolo bilanciano perfettamente il formaggio e il peperone. Tenere e croccanti, saranno leggermente condite a parte, con un filo d’olio, qualche goccia di limone, sale e pepe nero. Salsa: questo è proprio un discorso a sé, perché andremo su qualcosa che tiri fuori il meglio dalla hanger steak. Riprenderemo la ricetta della Chimichurri e ne faremo una versione adatta al nostro burrito. Procediamo ora con ordine per comporre il tutto all’interno di una tortilla calda e avvolgente.aperti h24 7su7, round dopo round si combattono il primato come miglior Philly cheesesteak della città.

bene; quindi lasciare riposare in frigo fino all’utilizzo. Questa operazione può essere fatta anche il giorno prima. Lasciando così maturare la salsa si otterrà un sapore più intenso. 3. Avviate il dispositivo per una cottura diretta con tecnica Flip&Brush. 4. All’interno di una ciotola, mescolate il mascarpone con pepe nero, un pizzico di sale e la buccia di mezzo limone grattugiata. Tenete da parte. 5. Prendete i peperoni corno, lavateli, dividete per metà eliminando tutti i semi e la placenta. Quindi tagliateli a strisce di un centimetro. 6. Lavate le puntarelle, spuntate la base e affettate a julienne. Mettete in un recipiente con acqua fredda e ghiaccio per circa 15 minuti, finché si arricceranno. Dopodiché condite con olio, sale e qualche goccia di limone 7. Scolate la vostra hanger steak dalla marinatura. Asciugate bene e fatte un seasoning con un velo d’olio su tutta la superficie della carne. 8. Cuocete applicando la tecnica del Flip&Brush sino a 58° C al cuore. Rest di qualche minuto. 9. Ora avete un po’ di tempo per scaldare le vostre tortilla. 10. Tagliate controfibra la bistecca, ricavando fettine dello spessore di un cm. 11. Componete il burrito, spalmando uno strato sottile di mascarpone aromatizzato sulla tortilla. Adagiate le puntarelle, immergete ogni pezzo di carne dentro la salsa Chimichurri e posizionatelo al centro del pane. Distribuite il peperone rosso sopra la carne. Chiudete il tutto. Ho sentito dire in giro che “riceverete l’applauso dai tovaglioli e si gireranno anche le cannucce dai bicchieri per guardarvi” (cit. Gianfranco Lo Cascio)

Nella nostra personalissima versione abbiamo optato per un politically correct e vi proponiamo entrambe le versioni. A voi l’ardua sentenza! PREPARAZIONE: 1. Prendete innanzitutto la vostra Hanger Steak del Megastore e marinatela per mezz’ora, all’interno di un sacchetto a zip, con la salsa Tamari. 2. Preparate la salsa, tagliando a brunoise i pomodorini datterini gialli, affettando lo scalogno, tritando il prezzemolo e defogliando l’origano fresco. Inserite in una ciotola tutti gli altri ingredienti e mescolate per MAGGIO 2020

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SPECIALE PANINI - RICETTE a cura della REDAZIONE

LE CROQUEMONSIEUR Vuoi mangiare un signore caldo caldo?

Quasi sicuramente, se avete visitato Parigi, vi sarà capitato di leggere un menù esposto nelle tante caffetterie o negli innumerevoli bistrot che popolano il centro cittadino. Scorrendolo con attenzione, per non incappare nel rischio di ordinare del cibo indesiderato, il vostro interesse potrebbe essere stato attirato da una specialità amatissima dai francesi, Le Croque Monsieur. Tradotto letteralmente significa mordere il signore: si tratta di un toast - anche se definirlo così è riduttivo - farcito prima con besciamella, formaggio, prosciutto cotto e poi gratinato in forno. È un piatto ideale per una pausa pranzo o per uno spuntino veloce; fin dal suo esordio ha fatto innamorare di sé i francesi che lo considerano uno dei simboli della propria cultura, al pari della pizza in Italia. Le sue origini sono un po’ fumose, così come la motivazione sulla scelta del nome. Lo storico René Girard ci racconta nel suo lavoro pubblicato nel 1948, Histoire des mots de la cuisine française, l’origine divertente del croque-monsieur. Nel 1901 a Parigi, in Boulevard des Capucines, c'era un piccolo caffè che si chiamava "Le Bel Age". Il capo, Michel Lunarca, aveva la reputazione di essere un cannibale, malignità indubbiamente messa in giro dai concorrenti. Ogni giorno un gran numero di clienti entrava nella

caffetteria di Michel e questo fatto aveva attirato sul malcapitato l’invidia di tutti i gestori delle caffetterie parigine. Così, per rovinargli gli affari, diffusero la maldicenza su di lui. Lunarca, però, per niente scoraggiato dalla bugia, iniziò a scherzare apertamente con i clienti sulla sua preferenza per la carne umana, tanto da attirare sempre più avventori. Quando presentò il nuovo sandwich (da lui inventato un giorno in cui, a corto di baguette, decisa di usare il pan de mie, simile al pane in cassetta ma dal gusto dolce e senza la crosta), alla domanda su cosa avesse usato per il ripieno rispose “carne di signore”, scatenando l’ilarità generale. Tra gli estimatori più famosi di questo toast troviamo lo scrittore Marcel Proust, al quale si deve la prima citazione letteraria del croque-monsieur nel romanzo All’ombra delle giovani figlie in fiore, pubblicato nel 1918 (secondo volume su sette della sua opera letteraria più importante, Alla ricerca del tempo perduto, 1913-1927). “Ora lasciando il concerto, nel prendere il sentiero che va in albergo, ci siamo fermati un momento sulla diga, mia nonna ed io, per scambiare qualche parola con la signora de Villeparisis, che ci ha detto di aver ordinato per noi all’hotel croque-monsieur e crema d’uova.” MAGGIO 2020

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A sottolineare ancora di più l’importanza di questa pietanza nella quotidianità del popolo francese fu l’inserimento del goloso sandwich all’interno della IX edizione del Dizionario dell’Accademia di Francia: “Vivanda formata con due fette di pane tra le quali è messo del prosciutto ricoperto di formaggio che viene cotta al forno.” La definizione, messa su carta dopo molte ore di discussione e che parlava appunto di cottura al forno, non convinse la moglie di Louis Leprince-Ringuet, fisico, ingegnere delle telecomunicazioni, storico della scienza e della saggistica francese, e membro dell’Assemblea atta a decidere quali nuove parole dovessero essere inserite nel vocabolario. La donna, dopo aver ascoltato la versione finale, rispose al marito che per tostare il panino non bisognava usare il forno, perché esisteva l’apposita griglia: le grill à croques-monsieurs. Dopo la drammatica scoperta il fisico cercò di convincere i colleghi ad apportare la modifica mostrando loro l’utensile, senza riuscirvi. Forse perché dopotutto la ricetta poteva essere realizzata comodamente anche senza l’arnese apposito. Passando alla pratica, come si prepara? L’accademia culinaria di Francia ha stabilito che un vero croque-monsieur deve essere preparato con il pan de mie farcito con besciamella, formaggio dalla pasta filante (Emmenthal o Groviera), prosciutto cotto; lo strato superiore del panino deve essere ricoperto con besciamella e formaggio. Dopo qualche anno comparve la prima variante, il croque-madame; a differenza dell’originale il sandwich è abbrustolito in padella nel burro fuso ed è sormontato da un uovo fritto, che ricorda il cappellino a falda larga indossato all’epoca dalle signore: da qui il nome. In seguito sono nate molte altre versioni più o meno famose come: - il vegetariano croque-mademoiselle,

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probabilmente dedicato alle fanciulle perché, essendo prive di marito dovevano stare attente alla linea, diversamente dalle donne sposate che un uomo lo avevano già accalappiato; - il croque-provençal realizzato con il pomodoro; - il croque-norvégien dove il salmone sostituisce il prosciutto; - il croque-auvergnat con il formaggio blu d’Alvernia, prodotto nell’omonima regione nel sud della Francia. E tantissime altre ricette. Se, dopo tutte queste chiacchiere, vi è venuta voglia di sgranocchiare un signore, ecco a voi la ricetta. PREPARAZIONE: 1. Tritate grossolanamente il formaggio con un coltello. 2. Preparate il dispositivo per una cottura indiretta a 250 gradi. 3. Prendete un fetta di pane, spalmateci sopra una generosa dose di besciamella e ricopritela con una una fetta di prosciutto. Potete utilizzare un prosciutto affumicato, tipo Praga. 4. Ricoprite il salume con abbondante formaggio. 5. Chiudete il tutto con il pane. 6. Per creare il topping, rivestite la parte alta del toast con un po’ di besciamella e di formaggio. La besciamella dovrà essere della consistenza di una crema pasticcera. 7. Mettete il toast su una teglia foderata con carta forno e ripetete la procedura con un altro panino. 8. Ponete la teglia sulla griglia, dalla parte opposta delle braci, chiudete il coperchio, lasciate andare i toast per 5 minuti circa. 9. Sono pronti quando il formaggio sarà fuso e leggermente dorato. Vi ricordo che è vietato l’utilizzo di qualsiasi tipo di sottiletta, pena la ghigliottina.


I N G REDI EN TI PER 6 PERSONE

• 12 fette di pane in cassetta • 6 fette di prosciutto cotto • 400 g di formaggio Emmenthal o Groviera • 500ml di besciamella preparata secondo la ricetta di Gianfranco Lo Cascio del numero di Aprile 2020, con le seguenti dosi: 500ml di latte intero freddo o a temperatura ambiente 50g di burro 50g di farina debole

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SPECIALE PANINI - RICETTA a cura di MICHELA BONGIORNI

P O ' B OY

dalla Louisiana a Mazara

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I N G REDI EN TI PER 2 PANINI

• due ciabattine ai cereali da circa 250 g l’una • 400 g di Gamberi di Mazara GLC Top Selection (puliti e sgusciati) • 100 g di insalata iceberg • un lime • mezzo cucchiaio di olio extravergine di oliva • 400 g di farina 00 • 200 g di acqua frizzante fredda • sale q.b. • pangrattato q.b. • mezzo litro di olio di semi di arachidi PER LA MAIONESE AL LIME: • 200 g di yogurt greco • 100 g di maionese • un lime • sale q.b. PER LA SALSA PICCANTE: • due peperoni rossi • tre pomodori tondi non troppo maturi • mezza cipolla bianca • 200 g passata di pomodoro • due cucchiaini di salsa salsa Worcestershire • due cucchiaini di aceto di mele • un cucchiaino di zucchero • un peperoncino • mezzo cucchiaino di zenzero in polvere • due cucchiaini di sciroppo d’acero • sale q.b. • tre cucchiai di olio di oliva

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Il nome di questo famoso sandwich di New Orleans, richiama certamente le sue umili origini. Come accade spesso quando si cerca di risalire alla storia di una preparazione ormai famosa e tradizionale, anche l'origine del Po’ Boy ha diverse versioni, spesso di dubbia veridicità. Di fatto, la storia più ampiamente accettata sostiene che il sandwich fu inventato da Clovis e Benjamin Martin, fratelli ed ex conducenti del tram, che aprirono un ristorante in St. Claude Avenue a New Orleans negli anni '20 del Novecento. Quando, nel 1929, venne proclamato lo sciopero dei conducenti, i fratelli Martin, in segno di solidarietà, sposarono la loro causa e crearono un panino molto economico condito con sugo e roast beef, da servire ai disoccupati nella parte posteriore del loro ristorante. Ogni volta che un lavoratore andava a prenderne uno, dalla cucina saliva il grido "here comes another poor boy!" (ecco che arriva un altro povero ragazzo!). Alla fine cominciò ad essere chiamato così proprio il panino, Poor Boy, contratto successivamente in Po’ Boy. Oltre alla versione col roast beef, nel tempo questo sandwich ha conosciuto molte altre varianti: nella baguette vengono spesso serviti più tipi di fritto fra cui pesce, pollo e anatra. Una delle versioni più famose è certamente quella coi gamberi fritti, insalata, maionese e salsa piccante della Louisiana. 56 - BBQ4All MAGAZINE

Bene, noi abbiamo deciso di rendere il Po’ Boy un ragazzino un po’ meno povero usando i gamberi, sì, ma quelli rossi di Mazara del Vallo. Quelli che ormai avete imparato a conoscere, grazie anche allo speciale del Magazine di Dicembre 2019. Burrosi, sontuosi, dolcissimi, i gamberi rossi di Mazara si sono sposati benissimo con la croccantezza dell’insalata iceberg e con la maionese al lime. Tuttavia, vi assicuro che ficcare i gamberi fritti in un panino non sarà semplice, perché difficilmente riuscirete a resistere alla tentazione di mangiarveli così, appena scolati dall’olio, croccanti e caldissimi. Per cui, ho pensato di darvi anche un ricetta di una salsa piccante (ma non troppo) che si inspiri a quella della Luoisiana, fatta però con peperoni e pomodori cotti in ember roasting, ovvero a contatto diretto con le braci, in cui intingere i deliziosi e irresistibili crostacei fritti mentre preparate i panini per il resto della ciurma. Ok, siamo pronti? Sgusciate e pulite bene i gamberi rossi (ma non buttate vie le teste, sarebbe un peccato mortale! Usatele per la bisque) e scaldate l’olio di semi. Il Po’ Boy ci aspetta. PREPARAZIONE: 1. Accendete mezza ciminiera di bricchette e, quando saranno pronte, versatele nel vostro dispositivo, appoggiandoci sopra direttamente

i peperoni e i pomodori. Fate attenzione a girare gli ortaggi ogni tanto, in modo che si arrostiscano da tutti i lati. Quando saranno pronti, la buccia sarà bruciacchiata e loro si saranno ammorbiditi, trasferiteli in una teglia di alluminio e lasciateli raffreddare. 2. Spellate i peperoni, privateli dei semi e tagliateli a brunoise; spellate i pomodori e schiacciateli con una forchetta. 3. Tritate finemente la cipolla, e mettetela a soffriggere in un pentolino con l’olio e il peperoncino anch’esso tritato molto finemente. Aggiungete poi i peperoni, i pomodori schiacciati, la passata di pomodoro. 4. Aggiustate di sale e lasciate cuocere il sugo per qualche minuti, poi aggiungete la salsa Worcester, lo zenzero in polvere, l’aceto di mele e lo zucchero. Lasciate sobbollire la salsa a fuoco dolce per un’oretta buona, girandola di tanto in tanto e facendo attenzione che non si asciughi troppo. 5. Aggiungete alla fine lo sciroppo d’acero e fatela cuocere ancora qualche minuto, poi spegnete il fuoco. A questo punto potete scegliere se passarla con il frullatore a immersione o se lasciarla più rustica (io ho optato per la seconda opzione). 6. Mescolate lo yogurt con la maionese, aggiustando di sale, e grattugiateci dentro la scorza del lime. 7. Preparate una pastella con farina, acqua frizzante e un pizzico di sale, e tuffateci i gamberi, che poi passerete anche nel pangrattato. 8. Scaldate l’olio di semi di arachidi a 180°C e friggete i gamberi per pochi minuti, poi scolateli e passateli nella carta assorbente. Nel frattempo affettate sottilmente l’insalata iceberg, e conditela con un pizzico di sale, olio e succo di lime. 9. Aprite i panini a metà, tostateli un po’ e poi adagiate sul fondo l’insalata, i gamberi e infine la maionese al lime. 10. Servite a parte la salsa piccante, che potrete mettere nel panino o usare come accompagnamento al cartoccio di gamberi fritti che sicuramente vi sarete tenuti da parte. Poveri ragazzi, dovete mangiarvi ‘sto panino! So’ sacrifici.


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RICETTE a cura della REDAZIONE

LA CROSTATINA

ALLE NOCCIOLE E GRAND MARNIER Tu non ci basti mai, davvero non ci basti mai!

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Oh no, ancora una crostata? Lo sappiamo che lo avete pensato. Ne siamo consapevoli, vi abbiamo presentato nei mesi crostate in tutte le salse e anche questo mese abbiamo optato per questa scelta. Ma c’è un motivo. Con l’arrivo della bella stagione è quasi impossibile non parlare di questa specialità: è uno dei simboli della primavera, e anche se qualcuno potrebbe pensare “eh capirai, avanguardia pura!” a noi piace un sacco, e soprattutto la riteniamo adatta per il menù presentato in questo numero. Fra le altre cose, è il dolce per eccellenza dei pic-nic, perché facilmente trasportabile e perché si può mangiare direttamente con le mani senza forchettina e piattino (e in periodi come questi, in cui si può passeggiare ma non sostare a lungo in un posto, portarsi dietro una merendina comoda e veloce da ingurgitare non è un male). Come tutte le ricette, anche questa ha una storia. La sua nascita sembra risalire intorno all’anno 1000 a Venezia, quando venne trasformata una ricetta salata già esistente dall’età pre-cristiana, in una torta con la semplice aggiunta dello zucchero di canna, proveniente dai viaggi della Serenissima in Cina. Alcuni studiosi sostengono (senza però dirci quando) sia nata dalle mani delle suore del convento di San Gregorio Armeno a Napoli, e che la tipica decorazione a reticolo rappresenti le grate dei parlatori. Dietro al nome crostata si nasconde una grandissima varietà di ricette e di gusti. A partire dalla frolla semplice, al burro o aromatizzata al cacao, alla vaniglia, agli agrumi e alla nocciola; passando dal tipo di cottura, in cui la base e il ripieno possono essere cotti insieme o separatamente; fino ad arrivare al ripieno che può comprendere ogni tipo di marmellata e di confettura e una moltitudine quasi infinita di creme alla vaniglia, alla ricotta, al limone, all’arancia, al cioccolato, al tè verde e chi più ne ha più ne metta. Oggi andiamo proprio sul classico, presentandovi la preparazione must della bella stagione: la crostata di frutta fresca. Per realizzarla utilizzeremo la pasta frolla con la farina di nocciole IGP del Piemonte tostate, la crema al Grand Marnier e i frutti di bosco. Il sapore dolce e burroso della frutta secca con un leggero sentore di cacao (esaltato dalla tostatu-

ra), si sposa alla perfezione con la nota aromatica all’arancia del liquore; mentre la leggera punta di acidità dei mirtilli, delle more e dei lamponi dona quel tocco di freschezza in più stemperando al contempo la dolcezza persistente della pasta e del ripieno, permettendoci di assaporarne tutti i singoli elementi. Per ovviare all’unica difficoltà di questa preparazione, ovvero la decorazione di un dolce di dimensioni più grandi, che richiede una grande manualità (solitamente i risultati casalinghi sono molto deludenti, poiché spesso la frutta è maldestramente affettata e distribuita ancora peggio, tanto da risultare molto spesso affogata nella crema), vi abbiamo proposto queste goduriose crostatine. In questo modo vi basterà disporre i lamponi, le more e i mirtilli centralmente, lasciando la crema a vista. Semplice, veloce e di sicuro effetto. Preparate i telefoni, la foto da postare sui social è in agguato. PREPARAZIONE: 1. Preriscaldate il forno alla temperatura di 200° C. 2. Disponete le nocciole su una teglia e infornatele fino a quando non saranno belle dorate. Non devono assolutamente bruciare, altrimenti daranno un fastidioso sentore amaragnolo alla frolla. 3. Tritate nel mixer la frutta secca fino a farla diventare polvere. 4. In una ciotola capiente versate la farina setacciata, la polvere di nocciole, lo zucchero, il burro freddo (tagliato a cubetti) e i tuorli. 5. Lavorate l’impasto con le mani fino a quando non avrete ottenuto un panetto compatto, che avvolgerete nella pellicola alimentare. Lasciatelo riposare in frigo per almeno un’ora. 6. A questo punto preparate la crema. In un pentolino versate il latte a temperatura ambiente, i tuorli già sbattuti, la farina setacciata, lo zucchero e il liquore. Ogni volta che inserite un ingrediente mescolate vigorosamente con la frusta per evitare la formazione di grumi. 7. Ponete il pentolino su una fiamma medio alta continuando a mescolare il composto. Quando la crema arriva al bollore spegnete la fiamma e continuate a mescolare. Fate raffreddare completamente la crema. 8. Su una spianatoia spolverata con la farina, stendete con un matterello

la pasta frolla sottilmente. Coppate la sfoglia ottenendo dei cerchi con i quali foderare gli stampi imburrati. Bucherellate il fondo con l’aiuto di una forchetta. 9. Preparate il forno (statico) per una cottura a 180° C. 10. Ritagliate dei dischi di carta forno con i quali ricoprire la pasta frolla per ottenere una base omogenea; metteteci un peso all’interno, dei fagioli o dei ceci secchi andranno benissimo. 11. Infornate per 15-20 minuti circa. 12. Quando le crostatine sono pronte, sformatele delicatamente e lasciatele raffreddare su una griglia. 13. Con la crema, completamente raffreddata, riempite i gusci di frolla e decorateli secondo il vostro gusto con i frutti di bosco. Lucidate con della gelatina neutra o poca marmellata di albicocca diluita con acqua. 14. Riponete le mini crostate in frigo almeno per mezza giornata prima di servirle. Se volete al momento del servizio potete colarci sopra un po’ di cioccolato fuso.

I N G RED I EN TI

PER 6 PER SONE PER LA FROLLA: • 300 g di farina 00 • 100 g di nocciole sgusciate • 130 g di burro • 120 g di zucchero a velo di canna PER LA CREMA: • 400ml di latte intero • 4 tuorli d’uovo • 100 g di zucchero • 4 cucchiai Grand Marnier • 30 g di farina PER LA DECORAZIONE: • 50 g di more • 50 g di lamponi • 50 g di mirtilli • Gelatina neutra per lucidare

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VINI VINIABBINATI ABBINATIa acura curadidiENIO ENIOBERTON BERTON

CHIANTI E LAMPREDOTTO: UNA STORIA D’AMORE. Il lampredotto riporta la mente in Toscana, dove il consumo del quinto quarto vive nella tradizione popolare e fonda le sue origini nel medioevo. La storia del lampredotto ci porta ai fasti della Firenze e di tutta la Toscana del Quattrocento; da subito l’arte dei lampredottai si è affiancata a quelli dei vinattieri, gli antichi Enotecari, associazione che venne fondata a Firenze nella seconda metà del 1300. Ma i vinattieri da dove facevano arrivare il vino? Ovviamente dalla zona del Chianti, come veniva indicata la zona tra Firenze, Arezzo e Siena da una pergamena del 790; altre pergamene, rinvenute nella chiesa di Santa Cristina ora S.Giovanni Battista a Lucignano d’Arbia, del 913, fanno riferimento alla vinificazione e produzione di vino in Chianti. Grazie agli insegnamenti dei monaci, nel corso del XII secolo alcune famiglie nobili cominciarono a produrre vino: stiamo palando dei Ricasoli o gli Antinori, nomi ancora importanti nel panorama vinicolo italiano e mondiale. Il consumo del prodotto vinicolo si diffuse non solo sulle tavole dei nobili ma divenne una bevanda popolare utilizzata, in alcuni casi, anche come farmaco. Da documenti dell’epoca il vino rosso era chiamato “rutilante” o “vermiglio” mentre quello bianco veniva chiamato “vernaccia” (altro nome che ora viene usato per un vino toscano bianco); quello prodotto in Chianti era “vernaccia” quindi bianco. Non si ha notizia di quando da bianco il vino prodotto in quella zona divenne rosso. Fin dal 1364 venne imposta la vinificazione, con regole ben precise, da Giovanni da Durante e Roberto di Giudo Bernardi. Tra le prescrizioni si legge l’aggiunta di uva passa per eliminare le impurità, albume, mandorle e sale per chiarificarlo e petali di rosa per dargli un bel colore.

Nel 1400 furono imposte ulteriori regole dalla Lega del Chianti per tutelarlo dalle contraffazioni, imponendo sigilli sui contenitori e tempi di vendemmia ben precisi. Nel 1716 il granduca Cosimo III emanò provvedimenti per regolare la produzione, la vendita ed il nome, stabilendo anche i confini delle varie zone e le pene per la contraffazione ed il traffico clandestino. I vini identificati furono il Chianti, il Pomino,il Carmignano e il Val d’Arno di Sopra. Si arriva con varie sperimentazioni, dapprima dall’Accademia dei Georgofili e poi da Bettino Ricasoli, il barone di ferro, ad un uvaggio che viene usato dal 1874 e che la creazione della DOCG nel 1984 inserì nel disciplinare di produzione. Nel 1924, 33 produttori fondarono il consorzio Gallo Nero tuttora marchio di tutela del Chianti classico DOCG. Nell’immaginario collettivo il Chianti viene associato al fiasco, il contenitore di vetro soffiato avvolto da paglia, che ha segnato, nel corso degli anni, la storia bella e brutta del vino. Bloccata, per legge, l’esportazione di fiaschi vuoti nel 1930, fu comunque utilizzato per la vendita di prodotto di scarsa e dubbia qualità nel corso degli anni 50 e 60, creando non poco danno all’immagine del vino nel mondo. Esistono due DOCG per il Chianti. La denominazione Chianti Classico DOCG, che racchiude la zona storica del Chianti tra cui Castellina, Radda, Greve e Gaiole e la denominazione Chianti DOCG che viene suddivisa in 7 sottozone che sono: Colli Aretini, Colli Fiorentini, Colline Pisane, Colli Senesi, Montalbano, Montespertoli e Rufina. Direi che, a questo punto, bando alle ciance, armiamoci di un bel panino col lampredotto ed apriamo una bottiglia di un vino potente ma giovane che non richieda troppi convenevoli o mega bicchieri ma che ci permetta di contrastarne la sua succosità.

CO L LE Z I O N E O RO Vino: Cantina:

Chianti Superiore DOCG Collezione Oro 2018 Tenute Piccini

Prodotto dalla cantina Tenute Piccini fondata nel 1882 da Angiolo Piccini, in una tenuta di solo 7 ettari di terreno a Poggibonsi, dove iniziò la produzione nei classici fiaschi. Attualmente opera nel territorio toscano con quattro tenute ed altre due in Basilicata e in Sicilia. In Toscana le tenute si trovano nella zona del Chianti Classico, del Brunello di Montalcino e nella Maremma grossetana. Un altro punto di produzione si trova nella zona della DOCG Chianti. L’azienda occupa una superficie di circa 200 ettari, più altri 500 in affitto, con una produzione media annuale di 15 milioni di bottiglie. È prodotto da uve sangiovese e merlot, che vengono raccolte a mano in piena maturazione e, separatamente, portate a fermentazione a temperatura controllata. Terminata la malolattica, il vino viene sottoposto ad un affinamento in vasche di cemento per circa 8 mesi per poi subire un ulteriore periodo di affinamento in bottiglia. Dal colore rosso rubino acceso, al naso risulta complesso con note di frutta rossa, prugna e amarena su tutto, con sentori di spezie fresche quali pepe appena macinato. In bocca risulta pieno, equilibrato, caldo, si confermano le note olfattive. Fin di bocca persistente. Da servire a 16/18 gradi in calici o anche in bicchieri di plastica… Uve: 75% Sangiovese, 15% Merlot Zone produzione: Zona Chianti DOCG Grado alcolico: 13,50%

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IL VINO ADATTO AL GAMBERO ROSSO DI MAZARA Possiamo cuocere il gambero come vogliamo, ma la sua caratteristica nota dolciastra rimane sempre presente e ci fa ricordare le sue origini. La terra di Sicilia viene associata, molto spesso, alla pesca e all’agricoltura, viene legata agli agrumi e, solo da alcuni decenni, alla viticoltura. In realtà la tradizione vitivinicola dell’isola ha le sue origini con gli sbarchi dei fenici tra l’VIII ed il VII secolo a.C. ma fu con l’arrivo dei primi coloni dalla Magna Grecia che iniziò una vera e propria attività continuata sotto il dominio dei Romani, per poi arrestarsi durante il periodo barbarico e riprendere con i Normanni e le successive dominazioni degli Aragonesi e degli spagnoli. Un anno importante per la viticoltura dell’isola è il 1773, quando il commerciante inglese Woodhouse, a causa di una forte tempesta, attraccò con il suo brigantino a Marsala e, narrano le leggende, per festeggiare lo scampato pericolo si inebriò con un vino locale molto simile al Porto ed allo Cherry, estremamente in voga nei paesi anglosassoni. Di lì a breve cominciò ad acquistarlo e ad inviarlo via mare in Inghilterra, non prima di averlo addizionato con dell’alcol sia per preservarlo lungo il viaggio, sia per aumentarne il grado alcolico. La produzione del vino Marsala iniziò così ad aumentare e a coinvolgere anche i nobili locali tra cui i Florio. che costruirono una cantina similare a quella costruita da Woodhouse, vicino al porto di Marsala. Ma oltre al Marsala la Sicilia venne utilizzata, nel corso degli anni, come produttrice di vino da taglio, in quanto l’alta gra-

dazione della sua produzione consentiva di aumentare il grado alcolico ai vini del nord Italia. Solo dopo gli anni 60, alcuni imprenditori capirono le potenzialità del vino di Sicilia ed iniziarono le produzioni del prodotto in bottiglia. Oggi la Sicilia produce circa 4,3 milioni di ettolitri di vino (dati 2019 fonte Istat), circa un decimo della produzione nazionale. Nell’isola esiste una sola DOCG e 23 DOC sparse per tutto il territorio. Nella produzione, oltre ai classici internazionali quali il Syrah, Chardonnay, Sauvignon, Cabernet Franc e Merlot, troviamo una folta serie di vitigni autoctoni tra i quali vale la pena di citare il Nero d’Avola, e lo Zibibbo (o Moscato d’Alessandria) con cui si produce il Passito di Pantelleria. Tra i vitigni a bacca bianca, inoltre, troviamo il Caricante, il Cataratto, il Greganico, il Grillo, l’Inzolia usati nella produzione del Marsala, oltre ad essere vinificati in purezza. Tra i vitigni a bacca rossa troviamo il Frappato, il Perricone, il Nerello Cappuccio ed il Nerello Mascalese (croce e delizia del mio esame da sommelier, penso che lo ricorderò per tutta la vita). Quindi, tornando ai nostri gamberi, per gustarli e non rovinare la loro dolcezza dobbiamo ricercare un vino fresco, con una accentuata acidità ed un giusto equilibrio tra calore e corpo. Possiamo restare nell’isola e assaggiare un vino fermo prodotto con i vitigni a bacca bianca sopra elencati o possiamo spaziare tra la bollicina, più o meno nobile, sia italiana che francese o viaggiare verso la Nuova Zelanda.

I L G R I L LO D E L BA R O N E Vino: Cantina:

Terre Siciliane Grillo IGT “Il Grillo del Barone” 2019 Barone di Serramarrocco

Restiamo nell’isola siciliana e nei d’intorni di Marsala, più precisamente ad Erice, per scoprire come un vitigno, di solito tagliato con altri vini, possa sprigionare profumi e sapori non comuni. Le origini dell’azienda si disperdono nel tempo per arrivare attorno al 1630, quando Don Giovanni Antonio Marrocco y Oriales, Signore di Serramarrocco e Capitano di Giustizia di Salemi, grazie al suo contributo dato alla popolazione colpita dalla peste, fu elevato dal grado di Signore a quello di Barone dal re Filippo IV di Spagna e Sicilia. Già a quel tempo la zona era nota per la sua produzione vinicola. Ritornando ai giorni nostri, nel 2001, il discendente Marco di Serramarrocco, dopo una carriera di broker finanziario a Londra, iniziò un progetto di riordino fondiario che ha portato nel 2013 al riconoscimento, da parte della regione Sicilia, della denominazione Vigna di Serramarrocco come prima vigna della DOC Erice. Attualmente l’azienda ha 60 ettari di terreno di cui 22 a vigneto dove sono allevate uve di Pignatello, Nero d’Avola, Zibibbo, Grillo, Cabernet Franc e Cabernet Sauvignon, oltre ad altri vitigni autoctoni a solo scopo sperimentale. Le uve del vigneto delle “Quojane” danno origine a questo vino tramite una maturazione in vasche di acciaio ed un successivo affinamento per almeno tre mesi in bottiglia. Dal colore giallo paglierino con riflessi oro, all’olfatto sprigiona note di pesca bianca, biancospino e frutta esotica. In bocca una persistente mineralità e sapidità, fresco. Fin di bocca persistente e balsamico. Da servire a 10/12 gradi in calici Uve: 100% Grillo Zone produzione: Erice Grado alcolico: 13,00% MAGGIO 2020

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VINI LIQUOROSI O FORTIFICATI Il mese scorso ci eravamo lasciati con la definizione dei vini passiti, in questo numero proviamo a chiarire cosa e quali siano i liquorosi o fortificati. Questi ultimi sono ottenuti da vino o mosto la cui fermentazione viene bloccata dall’aggiunta di alcol o acquavite, in modo da ottenere un prodotto il cui grado zuccherino sia almeno al doppio rispetto a quello di partenza. L’aggiunta avviene attraverso l’uso di un preparato composto da altro mosto o vino, reso infermentiscibile dall’aggiunta dell’alcol, chiamato mistella e dalla base alcolica scelta. La presenza di zuccheri non fermentati deve essere al massimo 40 gr/litro per i vini liquorosi secchi e superiore ai 50 gr/ litro per quelli dolci. La base di partenza determina in modo rilevante il risultato finale, per cui fortificare del mosto significa ottenere sicuramente un prodotto finito più dolce rispetto al fare la stessa operazione con un vino che abbia quasi completamente svolto la fase di fermentazione. Il processo di maturazione ed affinamento avviene in botti non completamente piene, che favoriscono lo scambio di ossigeno e l’ossidazione controllata del vino. La proliferazione batterica sulla superficie ne garantisce la maturazione controllando il corretto grado di ossidazione. In alcuni vini un particolare lievito appartenente alla famiglia dei Saccharomyces, la flor, governa ulteriormente lo scambio di ossigeno. Altra particolare tecnica di maturazione è il metodo soleras o “Solera y criaderas” che consiste nello scambio di vino tra annate diverse tramite una piramide di botti dove il prodotto più

recente si trova nella botte in cima alla piramide. Ogni anno esso viene travasato nelle botti sottostanti quando avviene il prelievo per l’imbottigliamento nelle botti a terra. Il grado alcolico e la presenza degli zuccheri non fermentati garantiscono, a questa particolare categoria di vini, una longevità e un affinamento che possono tranquillamente superare i 50 anni. Il processo di fortificazione è stato usato, nel passato, per garantire la conservazione del prodotto nei lunghi viaggi navali dai luoghi di produzione fino alla destinazione, prevalentemente, in Inghilterra o Paesi Bassi. La produzione di vino liquoroso dolce è diffusa in tutta Europa, famosi sono i Madeira dolci , alcuni tipi di Porto, il Vin doux Naturel francese, lo Cherry spagnolo e, in Italia, solo per citare i più noti, la Vernaccia di Oristano DOC liquoroso, l’Aleatico di Gradoli DOC liquoroso, Il Gioia del Colle DOC Aleatico liquoroso, il Salice Salentino DOC Aleatico liquoroso dolce, il Pantelleria DOC Moscato liquoroso, il Pornassio o Ormeasco di Pornassio DOC passito liquoroso e il San Martino della Battaglia liquoroso DOC. Tra le produzioni di quello liquoroso secco oltre al nostro Marsala troviamo alcuni tipi di Porto e di Madeira. Se i vini liquorosi secchi sono ottimi come aperitivo o come vino da meditazione, quelli dolci possono accompagnare in maniera perfetta le nostre torte o i pasticcini con la crema e la frutta, così come una buona pasticceria secca. Tra Italia, Spagna, Portogallo e Francia, come al solito a voi la scelta.

M U S C AT D E B E AU M E S D E V E N I S E Vino: Cantina:

Muscat de Beaumes de Venise 2012 Delas Frères

Questa volta ho scelto un vino francese proveniente da una zona non da tutti conosciuta. Il comune di Beaumes de Venise si trova nella valle del Rodano del sud, ai piedi della catena montuosa Dentelles de Montmirail che la salvaguarda dal vento maestrale della zona. La cantina fondata dal 1835 dall’omonima compagnia mercantile ha avuto, nel corso degli anni, periodi alterni. Negli anni ’70 il gruppo Roederer ha acquisito l’azienda e, sotto le mani esperte di Fabrice Rosset, ha iniziato un profondo restyling sia in vigna che in cantina. Attualmente ha circa 30 ettari di vigneto suddivisi tra la Côtes du Rhône, l’Hermitage, Saint-Joseph e Crozes-Hermitage. Le uve vengono raccolte manualmente con passaggi successivi, per garantire la vendemmia al momento ottimale di maturazione dell’acino. Dopo la pressatura e la svinatura, le fermentazioni vengono eseguite in una cella fredda a 15 ° C per un massimo di ventuno giorni. I vini vengono quindi trasferiti in alcool neutro per raggiungere il grado minimo di 15° C e un contenuto zuccherino residuo di 110 gr/litro. Prosegue l’affinamento in vasche di acciaio fino alla primavera successiva per poi essere imbottigliato. Dal colore giallo dorato tenue, al naso sviluppa intensi sentori di fiori bianchi e frutta fresca a polpa bianca confermati dal palato, dove le note agrumate sono accompagnate da una freschezza che bilancia la nota dolce del moscato. Rotondo, di corpo non stucchevole. Da servire a 10/12 gradi in calici piccoli Uve: 100% Muscat Petit grains Zone produzione: copre i comuni di Beaumes-de-Venise, Suzette, Lafare e La Roque-Alric nel dipartimento del Vaucluse (Rodano Francia) Grado alcolico: 15,00% 62 - BBQ4All MAGAZINE


BIRRE CONSIGLIATE a cura di RICCARDO MENICONI

LA MARGOSE La Focaccia barese è un prodotto da forno lievitato tipico della zona di Bari, Andria e Taranto. Sicuramente molti di voi si saranno cimentati nella preparazione di questa magnificenza della panetteria italiana durante questo periodo di "pausa". La ricetta ha radici antichissime e ne esistono centinaia di varianti. Una volta lievitata in teglia si può condire in svariati modi, io impazzisco letteralmente per la versione con pomodorini, olive baresi e origano, naturalmente il tutto innaffiato con dell'abbondante e profumatissimo olio di quelle terre. Ogni volta che la preparo la casa si inonda di quel profumo unico, inebriante, sensuale. Ti senti catapultato lì, affacciato sul mare, con alle spalle l'imponente basilica di San Nicola, il sapore della salsedine in bocca ed il moto delle onde che ti cullano dolcemente; la focaccia non è cibo, è amore. E da lì, da quel mare, da quell'aria salata, che nasce una birra unica nel suo genere. Nel birrificio Birranova, a pochi chilometri da Bari, prende forma la Margose. Parliamo prima dello stile Gose, che pro-

babilmente uscirà dalla comfort-zone di alcuni di voi (ma vi assicuro che una volta provata non si torna più indietro!). Si tratta di una birra ad alta fermentazione, dal gusto leggermente sour, sapido e dolce allo stesso tempo, classicamente prodotta con grano, orzo, ed acqua ad alto contenuto salino (e spesso con aggiunta di coriandolo). Nello specifico la nostra Margose, 4,6°, si presenta luminosa come il sole e fresca come la primavera, con la sua schiuma poco persistente, leggera, e con il suo colore dorato ed i profumi agrumati di buccia di limone, le note di miele e pepe, e la presenza evanescente di zagara e camomilla. In bocca la fine gasatura precede un inizio dolce, che subito lascia spazio alle venature acidule e soprattutto alla nota salata (proveniente, ovviamente depurata, dall'acqua del vicino Adriatico). Oltre al frumento e al malto d’orzo compare anche una percentuale di Avena e tra le spezie, come dicevamo, il coriandolo. L'unico consiglio che mi sento di dare è: compratela, mettetela in fresco (8°), infornate la focaccia, e preparatevi a commuovervi.

BEACH BOYS PILS Siamo a Philadelphia, città del formaggio spalmabile (eheh), di Rocky Balboa, della Liberty Bell, ma soprattutto del Philly Cheese Steak! Questo piatto è compagno fedele di ogni americano degno di questo nome, un panino dalle molteplici varianti, ma con solide basi negli ingredienti: ciccia, cipolle caramellate e formaggio, tanto godereccio formaggio filante. Credo proprio che dopo aver mangiato uno di questi colossi di pane e carne, avrete bisogno anche voi di farvi una corsetta sulla celeberrima scalinata del Philadelphia Museum of Art, scegliete voi il sottofondo musicale, anche se io andrei sul classico con la celebre colonna sonora "Gonna Fly Now". Ovviamente, durante il pasto (e soprattutto dopo i 72 scalini) avrete sicuramente sete, e cosa vi disseterebbe di più, rimanendo in stile "tu vo' fa l'americano" se non una Beach Boys Pils del birrificio Mukkeller, nato a Porto Sant'Elpidio (Marche) nel 2010. Lo Stallone italiano, birra italiana!

Andiamo quindi a sorseggiare questa West Coast Pilsner, 5,3°, che unisce la nobiltà classica di una Pils, al carattere esuberante dei luppoli americani Amarillo e Citra. Bando alle ciance, siamo assetati! Al primo assaggio veniamo assaliti, senza opporre nessuna resistenza, dal gusto di pompelmo, cedro, limone e lime, che puliscono piacevolmente la bocca, accompagnati da note finali vegetali, quasi resinose, balsamiche. Il carattere dello stile, ovviamente, non manca: l'agrume viene ben supportato dal classico sapore di crosta di pane, prerogativa dell'originale Ceca. Il suo colore è dorato opaco, movimentato da alcuni riflessi tendenti al verde, la schiuma bianca e persistente "a prova di baffo", l'aroma di luppolo pervade il naso, nascondendo quasi la vera natura di questa birra - coprendo in parte la tipica nota di craker - che si riprende ammirevolmente nella bevuta. Vi consiglio di berla in una Pinta... Americana, magari in compagnia di ADRIAANAAAAAA. MAGGIO 2020

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TIMPA ll Mediterraneo racconta una storia affascinante, fatta di contaminazioni - in senso buono, in questo periodo è bene specificarlo- culturali, intrisa di conflitti, di incontri, di avvicendamento di popoli, di migrazioni. Il mio intento oggi è celebrare quel legame, piuttosto evidente, tra Italiani ed Arabi, in un luogo che universalmente rievoca l'unione e la famiglia: la cucina. In questo stesso numero potrete leggere la ricetta per prepararvi da soli la portata principale, un succulento, profumato, Kebab di Agnello: lo streefood mediorientale per eccellenza, che con il solo odore di cumino, coriandolo, cannella, e di tutte le tipiche spezie Shawarma, rievoca i caotici mercati di Riyad. Noi siamo addetti al beverage, è quindi d'obbligo portare in tavola una birra degna della storicità di questa convivenza; voliamo quindi in Sicilia, precisamente a Ragusa, dove la contaminazione Araba è stata ed è tutt'ora fortemente radicata, ed entriamo direttamente nel birrificio Yblon, il cui motto è "l'aspetto più importante della birra è il potere di connettere le persone". Beh... direi più che azzeccato! Opteremo per la Timpa, Belgian Saison, prodotta con malto pils belga e luppoli europei.

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Versandola notiamo subito una spessa schiuma, piuttosto compatta e persistente, e ad un primo esame visivo si presenta di colore giallo, leggermente opaco ma molto intenso. Al naso la sentiamo speziata, fresca, delicata ma complessa, con lievi note di frutta gialla (pesca principalmente), date sicuramente dagli esteri – brevemente: profumi fruttati creati dall'azione del lievito durante la fermentazione –; non manca però la lieve presenza del miele, dovuta molto probabilmente al Pilsner utilizzato nella realizzazione. Assaggiandola la prima cosa che notiamo è la carbonazione tipica dello stile, che pulise piacevolmente, ma non disturba in bocca; i 6,5° sono abilmente nascosti dal corpo inizialmente dolce, che si asciuga gradualmente lasciando il posto ad un amaro molto calibrato, e ad una freschezza che invoglia a berne ancora. Il gusto rimane coerente con l'olfatto, frutta gialla, noce moscata, miele, e l'amaro elegante rilasciato dai luppoli nobili europei. Una bevuta che, come la cultura Araba con quella del Sud Italia, si unisce magistralmente al piatto, portandoci lontano. Vi consiglio di servirla in un Tulipano, ad una temperatura di servizio di 8°- 10°


COSTUME a cura di ROBERTO DAL BOSCO

IL MALE

VEGETARIANO spiegato alle C’è un libro che dovrebbe fungere da Bibbia di chi vuole davvero combattere le orde vegane – e più in generale vegetariane. Si chiama The vegetarian Myth. Si tratta di un testo fondamentale, che dovreste regalare a qualunque vostra amica vegetariana, sostiene il medico nutrizionista Michael R. Eades. Non che non lo si possa offrire in cadeau anche ai vegani maschi: è che, in molte pagine, è pienamente percepibile una sensibilità femminile, invero ferita negli anni dal male vegetariano. L’autrice, Lierre Keith, è una signora americana ambientalista e femminista radicale (ecofemminista: c’è la parola). Uno può fare a meno di sentire le sue idee, ma non può ignorare la storia personale di dolore e consapevolezza di cui dà testimonianza. Il responso è netto ed incontrovertibile. «una dieta vegetariana – soprattutto una versione a basso contenuto di grassi – non fornisce un’alimentazione sufficiente per il mantenimento in buone condizioni del corpo umano nel lungo periodo. Per parlare chiaro: vi danneggerà». Non lo dice solo perché ha studiato la materia sui libri, ma perché l’ha vissuto – purtroppo – sulla sua pelle. «Avevo sempre fame, ma credevo che la rettitudine e la giustizia sarebbe-

ra g a z z e !

ro state il mio nutrimento. Ho fatto in modo che fosse vero. Il corpo e il cervello si sono consumati, giorno dopo giorno. Fino all’ultima ora della mia vita vegana, ho fatto in modo che fosse vero». VITA DI DOLORE Giovanissima, dopo due anni che aveva intrapreso il veganismo, la salute di Lierre peggiorò, e non poco: «l’ha fatto in modo catastrofico. Ho sviluppato una patologia degenerativa delle articolazioni che mi accompagnerà per il resto della vita». Era cominciata con un dolore di fondo, dice, in una zona

del corpo che nemmeno pensava che potesse essere sensibile. Qualche mese dopo percepiva come delle schegge dentro la sua schiena. Gli anni che seguirono furono di sofferenza con il consueto calvario medico che potete immaginare: visita questo specialista, visita quest’altro, magari badando a chiedere appuntamento a quelli vegan-friendly. «Ci sono voluti quindici anni per avere una diagnosi invece che una pacca sulla testa». Nessuno dei medici prendeva in considerazione il fatto che potesse

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trattarsi di discopatia degenerativa, tantomeno nessuno osava ammettere che la colonna vertebrale di una teenager non cade a pezzi da sola. Ora, dice guardando la radiografia, «la mia spina dorsale assomiglia ad un incidente aereo». Non che ci siano voluti anni perché sentisse che nel suo corpo le cose andavano male: «dopo sei settimane di dieta vegana sperimentai il mio primo episodio di ipoglicemia, sebbene non abbia imparato a classificarla prima che fossero pasLierre Keith sati 18 anni, e fosse diventata parte della mia vita». Ma il male vegano non si arresta, racconta, e si propaga per il corpo sino ad intaccare persino l’essenza sessuale della persona. «Dopo tre mesi di dieta le mie mestruazioni cessarono, il che avrebbe dovuto costituire un indizio del fatto che probabilmente non si era trattato di una buona scelta». In realtà, anche questo dettaglio fu incredibilmente ignorato per decenni. Ma non finisce qui. Spossatezza, senso continuo di freddo. La pelle le diventò così secca da desquamarsi, e d’inverno il dolore era tale da non riuscire a dormire. A 24 anni arriva la gastroparesi: la parziale paralisi dello stomaco, malattia che ha come risultato la stagnazione del cibo dentro la sacca gastrica per un tempo abnorme. Tra i non pochi sintomi del problema: nausea cronica, vomito, bruciore di stomaco, perdita di peso, spasmi addominali, gonfiore, reflussi gastroesofagei. Nessuno però, guarda guarda, gliela diagnostica né gliela cura. Deve aspettare i 38 anni, quando si affida ad un medico «specializzato nel recupero dei vegani». (Sì, esistono: Dio li benedica). «Sono stati 14 anni di nausea costante, ed ancora adesso non posso mangiare dopo le cinque del pomeriggio». Vi basta? Ma neanche per scherzo. A tutto ciò si sommano depressione ed ansia. «Tutto era crollato, vuoto, privo di significato, quasi ripugnante». Uscita dal tunnel, riesce a capire il perché. La serotonina, la sostanza endogena ritenuta fondamentale per il benessere, è prodotta a partire da un aminoacido chiamato triptofano. Il quale è contenuto proprio negli alimenti aborriti dal veganesimo: carne, latte, uova. Il bianco d’uovo disidratato ne contiene all’1,27%; il parmigiano all’1,47; il manzo all’1,12%. L’assunzione di triptofano, peraltro, non comporta alcun miglioramento se non vi sono anche i grassi saturi, cioè propriamente i trigliceridi che trovate nel grasso animale. I grassi saturi sono fondamentali per consentire l’operatività dei neurotrasmettitori. Quella del grasso che fa male – definita in scienze alimentari «Ipotesi lipidica» – è un altro mito sul quale andrebbe posta qualche domanda. ANORESSIA VEGETARIANA? Senza carne, uova e latte, non c’è felicità? Parrebbe di no, soprattutto se poniamo a mente una spiegazione alimentare del triste caso dell’anoressia. L’idea che 66 - BBQ4All MAGAZINE

avanza – terribile – è quella di un’associazione tra vegetarianismo e disturbi alimentari. I dati cantano: «un numero compreso tra il 30% e il 50% delle ragazze e delle donne che ricorrono a un trattamento per l’anoressia e la bulimia sono vegetariane». Un terzo dei pazienti che vengono ricoverati in cliniche per l’anoressia, come il Bloomington Hospital (Indiana) e l’Harvard Eating Disorder Clinic seguono una dieta veg. Metà dei pazienti del Radder Institute a Los Angeles, dove opera la nutrizionista Sheri Weitz, sono vegetariani. A questo fenomeno, la correlazione tra vegetarianismo e anoressia/bulimia, non c’è una risposta sociopolitica. C’è una risposta biochimica: le diete vegetariane hanno tipicamente un basso contenuto di triptofano, cioè del precursore della serotonina. «Gli studi hanno dimostrato in continuazione che rimuovendo il triptofano dalla dieta si riduce la serotonina, ed aumentano la depressione (compresa la depressione stagionale), l’insonnia, gli attacchi di panico, la rabbia e anche la bulimia e la dipendenza chimica» scrive la psicologa dell’alimentazione Julia Ross nel suo libro The Diet Cure. In pratica «le donne e le ragazze vegetariane che si rivolgono alle cliniche per i disturbi alimentari in così grande numero non hanno cominciato come anoressiche che hanno casualmente scelto una dieta vegetariana. È accaduto l’opposto. Cominciarono scegliendo il vegetarianismo, e la mancanza di triptofano le ha predisposte a un disordine alimentare». Anche la carenza di zinco è un problema per l’umore e per la comparsa di sintomi ossessivo-compulsivi. E lo zinco è una delle cose che può mancare nella dieta vegetale, visto che si trova soprattutto nella carne rossa e nei tuorli d’uovo. Assieme a quella di triptofano e zinco, anche la carenza di niacina – la vitamina PP, quella senza la quale i nostri bisnonni si ammalavano di pellagra – pare essere interessata nei disordini alimentari. La dottoressa Ross, che ha studiato la biochimica dell’anoressia, ritiene che la principale questione sia la mancanza di triptofano: senza di quello, niente serotonina, cioè il neurotrasmettitore che ci fornisce autostima e benessere. Una persona priva di vero cibo, scende nei livelli di serotonina; quello che resta, senza autostima, è una psiche che si attacca alle compulsioni. Quando la serotonina cala, scrive la Ross. «Si diventa ossessionati da pensieri che non si possono scacciare, o da comportamenti che non si possono arrestare». In pratica una sindrome ossessivo-compulsiva di origine alimentare: «così come gli ossessivi compulsivi con bassi livelli di serotonina si lavano le mani cinquanta volte al giorno, qualche giovane a dieta può cominciare a prati-


care una costante e volontaria vigilanza sul cibo e sul corpo, che deve essere perfetto. Diventano ossessionati dal conteggio delle calorie (...) Via via che mangiano meno, i livelli di serotonina scendono ulteriormente, aumentando l’ossessione di mangiare ancora meno». Un circolo vizioso, tutto causato dalla mancanza del giusto, sano onnivorismo: «come la carenza di vitamina C (scorbuto) provoca un’eruzione di macchie rosse, così la carenza di triptofano (e di serotonina) dà adito alla comparsa di quei comportamenti ossessivi compulsivi che chiamiamo “controllo”. Possono anche esserci fattori psicologici in questo quadro, ma un cervello con poca serotonina è mal equipaggiato per risolverli». La Keith ammette di aver conosciuto tanti casi di anoressia, perfino tra i maschi. «Chiunque abbia conosciuto affetto da un disordine alimentare era vegetariano». IL QI DELLA SCATOLETTA DI TONNO

L’ultimo giorno da vegana di Lierre è descritto in modo struggente. Si era recata, nel disperato pellegrinaggio alla ricerca di una soluzione allo scompiglio devastante del suo corpo, da un maestro di Qi Gong, l’antica pratica cinese che cura le energie del corpo, cioè il qi (ne abbiamo parlato su queste colonne nell’articolo sulla storia della cucina cinese). Il maestro di Qi Gong deve essere in grado di leggere il qi di una persona quando la tocca in un punto preciso. Questi era nato in Cina, e li aveva studiato, per poi solo successivamente, da adulto, emigrare negli USA. Aveva avuto con probabilità una vita di privazioni, e non aveva la capacità di esprimersi subito in inglese. Per cui, Lierre dovette leggergli il volto quando egli le prese i polsi, lo strumento diagnosticoper eccellenza della disciplina. Il cinese sbiancò. La guardò «metà con timore e metà con orrore». «Non c’è nulla qui. Non hai alcun qi». Il maestro capì che il problema era l’alimentazione. «Niente carne? Niente pollo? Niente pesce? Non puoi fare questo». MAGGIO 2020

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Lierre cominciò a piangere. «Non voglio fare male a nessun animale». «Pesce grande mangia pesce piccolo» disse il cinese con limpida semplicità. La ragazza negò di essere un pesce, il maestro scrollò le spalle come per dire: certo che lo sei. Nella commozione, Keith non era pronta a capire quanto ciò fosse vero. «Lui sapeva la verità su di me: ero un cadavere che si muoveva grazie alla pura, testarda forza di volontà. La struttura di base del mio corpo stava crollando lentamente. Ero così fredda che le mie mani e i miei piedi dolevano mesi mesi l’anno. E non avrei potuto avere un bambino nemmeno se l’intera specie fosse dipesa da me». Così, finito il trattamento, Lierre cercò le forze per passare da un supermercato. Comprò una scatoletta di tonno. Arrivata a casa, la mise sul tavolo della cucina. Prese una forchetta. Aprì. Mangiò. «Non so descrivere cosa accadde dopo. “Mi sono sentita come se uscissi da un coma” mi disse una volta una ex vegana. Potevo sentire ogni cellula del mio corpo – ogni cellula, letteralmente, che pulsava. E finalmente, finalmente, nutrita. Oh Dio, pensai: è questo che si prova ad essere vivi». In seguito, pianse. Pianse ogni giorno per tre settimane: ma mangiando carne. Una cosa che le dava sensazioni talmente intense che dopo mangiato doveva sdraiarsi. Dopo qualche tempo, non pianse più, e trovò pure il coraggio di confessarlo a degli amici vegani. Alcuni confessarono a loro volta di non aver mai smesso di mangiare carne. HAPPY END CON CARNE Alla fine della storia, una volta uscita dal nero tunnel del veganismo, come sta Lierre? «La mia spina dorsale non è guarita, ma il passare ad una dieta costituita da prodotti di

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animali alimentati ad erba ha consentito un parziale recupero, e alleviato moderatamente i livelli di dolore. I miei recettori per l’insulina non sono ancora in numero adeguato, ma le proteine e i grassi mantengono la mia glicemia stabile e contenta». Le mestruazioni le sono riprese con regolarità, «sebbene abbia sviluppato un tumore agli organi riproduttivi del quale attribuisco la responsabilità alla soia». Già, la soia, un altro capitolo immenso, che ci teniamo per un altro episodio. Il senso di spossatezza e il freddo le sono rimasti. La depressione no, e dice che è stata vinta grazie alla spiritualità e ad una dieta ricca di nutrienti. «Ho perso vent’anni a causa della depressione: la maggior parte della mia giovinezza. Il mondo ha i suoi colori adesso, è perfino bello, e ne sono grata ogni giorno». Sottolinea: «il mio cervello, e il mondo che lo ha reso possibile, ha bisogno di essere nutrito. È semplice, ho bisogno di almeno 90 grammi di cibo proteico di qualità al mattino, altrimenti a mezzogiorno il mondo comincia a diventare un ripido precipizio di ansia e disperazione». Anche senza parlare di depressione, la definizione ci pare perfetta: un mondo senza carne non può che sembrarci «un ripido precipizio di ansia e disperazione». Il lettore, che giocoforza conosce le gioie della carne, non può che convenirne. Quella di Lierre Keith è una vera testimonianza: cioè, una vita che deve esserci di monito. «Non dovete sperimentare su voi stessi: vi è consentito apprendere dai miei errori». La dobbiamo prendere in parola. E non trascurare un sacrificio del genere. E adesso sotto a far cenere per tutti. Quando offrite il BBQ a qualcuno lo state salvando.


LE RAZZE - RUBRICA a cura di ROBERTO DAL BOSCO

RUBIA

gallega

La bionda galiziana è ambita assai. La bionda galiziana fa felice un uomo. La bionda galiziana non è una birra, non è una sigaretta, tantomeno è una donna. La bionda galiziana è un bovino. Il carnivoro disinibito conosce il suo nome spagnuolo, rubia gallega. Togliete una elle e ottenete il nome in galiziano: rubia galega. La sostanza non cambia: siamo al top dei top, con alcuni specialisti che la piazzano sulla vetta della classifica bovina mondiale accanto alla Wagyu. La rubia viene dalla Galizia, la regione – pardon, la comunidad autónoma – che si affaccia all’Oceano. Vive in tutta la Galizia, ma tre quarti della popolazione rubia si concentra nella provincia di Lugo (che non è Lugo di Romagna e nemmeno Lugo in provincia di Vicenza: è una località galiziana). È facile trovarla in montagna sopra i 550 metri nel nord della provincia: Serra da Carba, Serra de Lourenzá e Serra de Xistral. Dicono che abbia parentado francese, in particolare di quella che chiamano la Blonde d’Acquitaine. Oltralpe infatti è chiamata Rouge de Galice. In passato è stata considerata una vacca di razza mista, atta a produrre, oltre che la carne, il latte, utilizzato nella produzione di un formaggio chiamato Tetilla, il quale ha ottenuto la certificazione DOC dal 1993 e la certificazione europea DOP dal 1996.

Il primo standard della razza è fissato al 1933, ma la selezione è molto risalente. Si ritiene che nel XX secolo si verificarono alcuni incroci con le razze portoghese Barrosã, Braunvieh, Simmenthal e British Shorthorn. La rubia mangia un’erba grassa, ricca di iodio – fenomeno dovuto alla salsedine nell’aria atlantica. Cresce dentro un clima dolce, e viene lasciata pascolare liberamente per tutto l’anno, riducendo il suo stress praticamente a zero. Ciò le permette di sviluppare grasso all’interno dei muscoli, che come sappiamo è la chiave di volta nella qualità della carne. MORFOLOGIA DI UNA BIONDA Possiede un petto profondo, lungo e arcuato. La schiena e i lombi sono larghi, piatti e muscolosi. Cosce, glutei e gambe sono lunghi e convessi. Lo scheletro è robusto e ben sviluppato. Tutte queste condizioni coincidono con la conformazione larga ed abbondante degli animali specializzati nella produzione di carne. Il maschio arriva a pesare 9001100 chilogrammi; la femmina 650-700. La carcassa della femmina arriva a toccare i 380 chili. Si chiama rubia perché il suo pelo può essere rosso-biondo, color grano o color cannella (detta capa teixa). Il tal colore rubio ammette oscillazioni che vanno dal chiaro (marelo) allo scuro (vermello): il termine bion-

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do in lingua galiziana ha la stessa radice di rubor in castigliano (che indica un colore rossastro) ed entrambi derivano dal latino rubor, ruboris che indica il rossore del volto (da cui la parola italiana rubizzo). Le mucose sono rosa e gli zoccoli e le corna di colore chiaro, dal bianco rosato al color castagna, con qualche oscuramento nelle estremità. La rubia è di temperamento tranquillo e si rivela adatta per il lavoro animale, ma è considerata lenta rispetto alle altre razze. La sua cifra è il tempo: viene fatta invecchiare molto a lungo, specie se prendiamo come paragoni le razze anglo. Parliamo di 8-15 anni, siamo ad un passo dalla patente e dalla tessera elettorale. STORIA DI UNA ROSSA Nel volume Razas bovinas españolas (1984) Vallejo e Sánchez raccontano di come la rubia sia figlia della storia europea e dei suoi rivolgimenti. Tra il 1840 e il 1892, lo sviluppo economico emerso in Inghilterra sulla scia della rivoluzione industriale generò un mercato del bestiame più favorevole alla Galizia rispetto al tradizionale mercato che si svolgeva in Castiglia. Fu l’Inghilterra il fattore chiave nello sviluppo del mercato – e quindi della nuova razza. Lo scambio con gli inglesi fu condotto direttamente attraverso i porti di La Coruña, Carril e Vigo, e pure per via indiretta attraverso il Portogallo, raggiunto scavalcando i valichi di frontiera: il bestiame veniva spedito oltremanica dal porto di Porto. I galiziani estendevano i loro commerci anche con Gibilterra. Il risultato fu che, a differenza dei castigliani (con cui pure continuavano ad avere traffici) i gallegos rappresentavano l’unica realtà iberica ad essere aperta all’incombente potenza industriale britannica.

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L’idillio anglo-galiziano si interruppe negli anni 1890, quando il commercio con l’Inghilterra fu definitivamente sospeso, a seguito dello sviluppo di navi refrigerate e quindi della creazione di nuove possibili rotte per la carne con il Nord America e l’Argentina. Questo impasse economico portò gli allevatori galiziani a escogitare un miglioramento genetico del loro bestiame. Scelsero dunque di introdurre altre razze per migliorare la rubia. Così, tra Otto e Novecento, importarono in Galizia tori da monta di varie razze come Durham, Angus, Hereford, Swiss Brown, Simmenthal. La storia della rubia parte da qui: l’identità razziale, annotata negli anni da alberi genealogici per lo più voluti dagli inglesi, fu per sempre compromessa ma a vantaggio di una razza oggi considerata stabile nell’Olimpo della zootecnia. Il primo congresso agricolo e zootecnico tenutosi in Spagna, ebbe luogo a Lugo nel 1906. Stabilì la necessità di effettuare una selezione scientificamente diretta. Nel 1916 fu pubblicata la prima monografia sulla razza. Si distinguevano due varietà: rubia delle valli e rubia delle montagne. Nel 1933 la direzione generale del bestiame pubblicò il Regolamento ufficiale dei libri genealogici e fu stabilito per la prima volta lo standard della razza rubia gallega. Il lavoro di selezione dette i suoi frutti. L’effetto immediato fu un avanzamento concreto, e quantificabile, della razza. Scrive lo studioso Luciano Sánchez García in Raza vacuna rubia gallega: evolución, situación actual y perspectivas zootécnicas che il peso medio dei tori da monta nel concorso nel 1913 era di circa


600 kg, mentre nel 1950 alla fiera di Campo de Madrid era di 984 kg.

punti nelle femmine o 70 punti nei maschi, su una scala fino a 100.

Nonostante vari piani agricoli che la regione ha varato sin dagli anni Quaranta, l’ideale di purezza razziale è stato via via abbandonato. Sono stati importati esemplari della razza del South Devon, con l’idea che fungessero da miglioratori della rubia tramite l’assorbimento incrociato. Nel 1955 fu creato il Consiglio di coordinamento per il miglioramento del bestiame e fu organizzata una delegazione tecnica per la razza. Il Consiglio approvò una selezione di piani di purezza con i quali intese ottenere per le imprese agricole una migliore conformazione della vacca, una migliore resa della carcassa e una migliore produzione di latte.

MANGIARE LA BIONDA Chi l’ha assaggiata sa che parliamo di un sapore marcato, talvolta persino piccante, che persiste in bocca. La carne è piuttosto tenera. Si dice inoltre che la salinità presente nel gusto sia dovuta all’aria Atlantica: con la rubia, insomma, l’Oceano si fa sapore.

Nel 1960 fu approvato dal Ministero dell’Agricoltura spagnuolo il Regolamento de Libros Genealógicos y Comprobación de Rendimientos del ganado (ganado è probabilmente l’unica parola che l’italiano fatica a tradurre intuitivamente: significa bestiame); nel 1969 apparvero le Normas Reguladoras del Libro Genealógico y Comprobación de Rendimientos del ganado vacuno de la raza rubia gallega, che avevano lo scopo di mantenere la purezza della razza attraverso la selezione, preservare la sua rusticità e sviluppare la sua precocità. Nel 1973 furono regolamentati di nuovo i libri genealogici. Il censimento della razza al 31 dicembre 2013 contava 65.469 bestie, con 50.252 femmine e 15.217 maschi distribuiti in 2.282 allevamenti, ma va tenuto presente che questa cifra indica solo gli animali registrati nel Libro genealogico, un requisito che esclude numerosi esemplari, come quelli che non rispondono in modo soddisfacente allo standard razziale, cioè quegli esemplari che non raggiungono una qualifica minima di 65

Nella rubia anche la marezzatura ha colori particolari, andando dal bianco perla al giallo- arancio. C’è in giro chi parla di frollatura per 40 giorni di modo da far esplodere il sapore. Lorenzo Cogo (nomen omen: cogo in veneto significa cuoco), giovanissimo chef stellato vicentino (il locale si chiama El Coq), ha dichiarato di detenere il primato: «negli ultimi anni la moda di questa tipologia di carne in Italia è sopraggiunta ma possiamo godere il fatto di esser stati tra i primi a proporla». Poi racconta il «gusto forte e deciso. Un gusto e una consistenza inimitabile. Il suo sentore speziato e la maturazione per un minimo di 40 giorni ne esaltano il sapore». Nel suo ristorante l’ideale rubio è in versione costata: «di varie pezzature, viene cucinata in forno e a brace, così da esprimere il suo meglio. Ma anche la tartare è estremamente particolare e gustosa». In un articolo del 2015 del quotidiano londinese Telegraph la giornalista si chiedeva se si trattasse della carne migliore del mondo. Lasciamo ai nostri palati la sentenza. Certo il nostro gusto va educato: mangiare la carne è un momento magico della vita, e quindi la materia prima non può che essere speciale, unica, pregiata. O vogliamo lasciare la magia delle nostre esistenze alla GDO? MAGGIO 2020

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LO SPIEDO - APPROFONDIMENTO STORICO a cura di VIRGILIO BRUNETTI

LO SPIEDO

una cottura secolare

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Probabilmente lo spiedo rappresenta la prima vera rivoluzione tecnologica nell’ambito della cottura al fuoco e, per molti secoli, con poche sostanziali modifiche è rimasto il più comune e apprezzato metodo per cucinare la carne. Non si sa esattamente quando e dove gli uomini abbiano iniziato a far ruotare la ciccia infilata su un’asta davanti alla brace, ma è certo che questo metodo ha cavalcato i secoli rimanendo praticamente invariato fino ai nostri giorni. Giampiero Rorato, giornalista e studioso di enogastronomia, in un suo saggio, riporta come l’uso di aste e spade per la cottura al fuoco della carne fosse una pratica di cui si trovano note già nell’Iliade di Omero (IX –VII secolo a.C.) e nelle opere del poeta latino Virgilio (7019 a.C.); se ne trovano testimonianze scritte nella cultura gastronomica della Magna Grecia e dell’antica Roma. Più tardi, durante la lenta e lunga agonia dell’Impero Romano, con la diffusione delle abitudini alimentari barbariche, l’arrosto diviene il pilastro della cultura gastronomica medievale. Carne arrostita al fuoco e cottura allo spiedo divengono definitivamente sinonimo con l’avvento sul territorio Italiano delle tribù germaniche, soprattutto dei Longobardi i quali si stanziarono in Italia settentrionale con centocinquantamila persone di cui trentamila guerrieri; il resto erano familiari. Dimorarono a lungo nella pedemontana veneto-friulana-lombarda: Cividale, Ceneda a Soligo, Breganze, Lessinia. fino a Brescia e poi a Pavia; sono tutte città che ancora oggi mantengono viva la cultura di questo metodo di preparazione. I Longobardi si insediarono in queste zone fin dall’anno del loro ingresso in Italia, avvenuto attraverso le Alpi Giulie nel 568, e vi rimasero da dominatori fino al 774, quando il Re Desiderio fu sconfitto dai Franchi di Carlo Magno. In 200 anni di dominio lo spiedo, prima arma poi strumento di cottura, diviene tradizione solida. Il termine latino venabulum (spiedo da caccia) si evolve in latino tardo in spetus e poi diviene spiede durante il regno Longobardo. Numerose fonti riportano accurate descrizioni dell’antico spiede longobardo: un’arma riadattata, una lancia, di ferro o di legno, appuntita ad una estremità, in modo da poter trafiggere e infilare i pezzi carne, appoggiata da un lato ad una forcella, mentre dall’altra parte sostenuta e nel contempo fatta MAGGIO 2020

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ruotare da una persona addetta a questo compito, una fatica che solo un uomo del medioevo poteva compiere. Col passare del tempo, i sostegni a forcella divengono due, fissati al fusto verticale degli alari del camino in modo da dispensare il rosticciere dalla fatica di reggere l’asta. L’iconografia medioevale mostra spesso servitori che manovrano con una mano gli spiedi, mentre tengono l’altra alzata nell’atto di proteggersi dalle vampe di calore, oppure per impugnare grandi mestoli per irrorare la ciccia durante la cottura. Sull’uso dello spiedo nel Medioevo esiste una vasta letteratura italiana che non solo ne conferma l’esistenza, ma insiste molto sulle caratteristiche delle carni cotte allo spiedo; a tal proposito mi sembra doveroso citare Otello Fabris, storico della gastronomia, il quale scrive un volume di oltre 440 dal titolo “Introduzione all’arte dello Spiedo” che raccoglie un numero impressionante di ricette, quasi a testimoniare come esso fosse stato per secoli il metodo più amato per la cottura di più o meno qualsiasi pietanza. Tra le 300 ricette presentate, tra cui molte e assai interessanti quelle dedicate all'oca, tante sono dedicate ad ingredienti insospettabili, come le tetti-

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ne di vitella, le chiocciole, le ostriche, il burro, le uova, i pesci. Di nuovo Giampiero Rorato testimonia come il consumo della carne rimane fortemente legato alle abitudini alimentari della nobiltà guerriera, nella convinzione che ci sia uno strettissimo legame tra consumo di carne e forza fisica; il medico senese del ‘300 Ugo Benzi scrive in un suo trattato: “le carni rustite sono de megliore e magiore nutrimento e più conveniente a li corpi robusti”. Il biografo di Carlo Magno, Eginardo (770-840) ricorda come, nei castelli dell’alto Me-

dioevo, lo spiedo fosse sempre in movimento vicino al fuoco in quanto grandi pezzi di carne dovevano ogni giorno essere portati in tavola per soddisfare la fame dei guerrieri e soprattutto di Carlo Magno e dei suoi comites. Questo tipo di cottura rimane sicuramente il metodo più apprezzato anche nel Rinascimento, tanto che lo stesso Leonardo da Vinci, genio assoluto della sua epoca, progetta e disegna spiedi azionati da sistemi meccanici; il foglio 21r del Codice Atlantico ci mostra due immagini di girarrosti di sua ideazione: uno azionato


vietata. L’allestimento di questi spiedi, dunque, perde una componete molto tradizionale, dato che gli ingredienti previsti devono essere modificati e di conseguenza snaturati. Rimane di base una vasta cultura, intrisa di storia, che riguarda questa affascinante tecnica, che però di fatto tenderà inesorabilmente all’estinzione, anche se abbondantemente semplificata dai girarrosti motorizzati. Ma come funziona? Contrariamente a quanto si possa pensare, questo metodo non secca la carne, anzi è in grado di conferire una doppia consistenza altrimenti impossibile da ottenere con altri mezzi: croccantezza fuori, succulenza dentro. Sappiamo che maggiore è la quantità di calore a cui viene sottoposto un pezzo di carne, maggiore sarà la contrazione delle fibre e la conseguente perdita di liquidi. Per questo motivo dobbiamo necessariamente mantenere la temperatura bassa ottenendo un doppio beneficio: il calore dolce e i tempi lunghi disidratano la superficie che, in questo modo, lascia spazio alla reazione di Maillard, creando quella croccante e golosa crosticina esterna. Lo sapete bene: una superficie non può essere croccante se al suo interno contiene acqua. Il lungo tempo di esposizione al calore secco asciuga la superficie delle carni allo spiedo rendendolo incredibilmente croccante esternamente.

da un contrappeso, l’altro dall’aria calda sollevata dai fuochi e incanalata tramite una rotazione proporzionale all’intensità delle fiamme stesse. Nonostante i geniali tentavi di automazione del grande Leonardo il ruolo del rosticcere rimane fondamentale ed immutato. Brillat Savarin scrisse trecento anni fa che “rosticceri si nasce, non si diventa” e chi almeno una volta si è impelagato nell’avventura di cucinare della carne su uno spiedo manuale sa benissimo di cosa parlo. Allestirlo non è banale, poiché bisogna equilibrare il pezzo da arrostire in modo che non sia in qualche modo pendente; la rotazione deve essere regolare, non ci devono essere rallentamenti ed accelerazioni dovute al carico, tutto deve girare come un orologio, al fine di rendere uniforme l’irraggiamento del

calore e di conseguenza la cottura. Oggi la tradizione del girarrosto rimane viva in luoghi specifici del territorio Italiano soprattutto in quelli che furono i domini dell’antico Regno Longobardo. Chi, come me, segue BBQ4All dagli albori ricorderà bene il tormentone dello Spiedo Bresciano e del suo disciplinare che si contrappone storicamente a quello dello Spiedo Veneto. Ai nostri giorni parte del declino di queste tradizioni è dovuto al loro forte legame con l’arte venatoria, soprattutto la caccia di animali da penna: molte delle prede prescritte nell’allestimento di questi spiedi sono di fatto animali protetti dalla legge. La polenta con gli osei richiede appunto tradizionalmente uccellini di dimensioni minime, la cui caccia è strettamente regolamentata e la vendita assolutamente

Esistono anche alcune malizie per potenziare l’effetto gustativo del girarrosto. Una su tutte, raccogliere i liquidi in caduta e usarli per spennellare la carne. Questa operazione, oltre a dare sapore, rallenta la disidratazione superficiale. Utile per esempio nei pezzi di carne molto grandi che necessitano tempi di cottura anche di alcune ore. Oggi esistono anche accessori, compatibili col girarrosto, come i cestini, che permettono di esporre ingredienti impossibili da innestare in uno spiedo ai benefici del girarrosto. Ad esempio le patate. L’effetto è il medesimo: crosticina croccantissima fuori, interno morbido e fondente. Ovviamente, le possibilità offerte dalla spada e dai cestini sono praticamente infinite. Basti pensare alle ali di pollo o di tacchino, alle salsicce, alle polpette, alle verdure, alle castagne, fino ad arrivare al pop corn. E ovviamente alla porchetta, di cui vi parliamo anche in questo numero. MAGGIO 2020

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THE CHEMICAL GRILLER a cura di VIRGILIO BRUNETTI

ADDENSARE UNA

SALSA parte II

Gli amidi sono polisaccaridi di riserva delle piante così come il glicogeno è il polisaccaride utilizzato come stock energetico nelle cellule animali. L’amido si trova nei semi, nei frutti nelle radici e nei fusti di molte piante; è composto da due polimeri tipicamente: amilosio (che ne costituisce circa il 20%) e amilopectina (circa l’80%). I rapporti variano in base all’origine botanica dell’amido. In entrambi i casi si tratta di polimeri del glucosio che si differenziano l’uno dall’altro per la struttura. Il primo è un polimero lineare che si avvolge ad elica, il secondo è invece un polimero ramificato. L’amilosio è presente per circa il 20% in granuli disponibile nell’amido. Non è in grado di influire sul processo di retrogradazione degli alimenti, grazie alle caratteristiche di questo tipo di polimero di glucosio. I cibi con la sua più alta percentuale sono: il mais, il frumento, i legumi. L’amilopectina è presente per circa 80% in granuli contenuti nell’amido. Il polisaccaride può influire maggiormente sul processo di retrogradazione degli alimenti; la sua più alta percentuale si trova nella patata, nel riso, nella manioca. GELATINIZZAZIONE E RETROGRADAZIONE La cosiddetta gelatinizzazione dell’amido è un processo di fondamentale importanza per l’alimentazione umana, si pensi 76 - BBQ4All MAGAZINE

solamente al fatto che interviene in modo determinante per la preparazione di prodotti come il pane, la pasta e il riso; è inoltre fondamentale in tutte le preparazioni di pasticceria, come la crema, i bignè o il pan di Spagna. Come abbiamo visto è formato da due molecole complesse, l’amilosio e l’amilopectina. Queste due molecole si aggregano a formare dei granuli insolubili in acqua a temperatura ambiente, e difficilmente attaccabili dagli enzimi digestivi. Per diventare digeribili, i granuli di amido devono essere portati a temperatura elevata, in ambiente acquoso: in queste condizioni essi si idratano, perdono la struttura ordinata e ne assumono una disordinata, con le caratteristiche di un gel: è il processo di gelatinizzazione degli amidi, che li rende attaccabili dagli enzimi. Essa avviene dunque grazie al riscaldamento in ambiente acquoso. I granuli di amido si idratano progressivamente, gonfiandosi e perdendo la struttura cristallina, amilosio e amilopectina entrano in soluzione con l’acqua, formando legami con essa, di conseguenza quest’ultima, libera, diminuisce mentre la viscosità della soluzione aumenta. Così, se scaldiamo una quantità sufficiente di granuli di amido in un litro di acqua, quando questi si saranno gonfiati avranno sottratto gran parte dell'acqua libera ed essa, che originariamente era liquida, sarà trasformata in una soluzione densa e viscosa.


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Quando l’amido gelatinizzato si raffredda, avviene un fenomeno chiamato retrogradazione o ricristallizzazione dell’amido, un processo che tende a farlo tornare in una configurazione simile a quella iniziale. Ciò che avviene con la retrogradazione è un riarrangiamento delle catene di amilosio e amilopectina, con conseguente esclusione di una parte d’acqua che era stata inglobata dalla struttura. La retrogradazione è un processo reversibile, nel senso che fornendo calore al prodotto l’amido gelatinizza nuovamente. Il processo di gelatinizzazione è influenzato dall’origine botanica dell’amido e dalla quantità di acqua. E’ molto importante dal punto di vista gastronomico e ne determina l’uso come addensante, soprattutto in pasticceria ma anche nella preparazione di salse. Capirete che l’importanza degli amidi a livello culinario è enorme, anche se già da molto tempo, a livello professionale, sono stati integrati e sostituiti da numerosi altri agenti addensanti più moderni e tecnologici. IL METODO DELLA NONNA: ADDENSARE CON FARINA E PATATE Il famoso metodo della nonna, per addensare un sugo o una zuppa, prevede l’aggiunta di una quantità arbitraria di patate o di farina bianca; realmente già questi due ingredienti possono essere considerati dei buoni addensati per uso domestico. Farina e patate sono alimenti amidacei ubiquitari ma vanno usati con cognizione di causa al fine di poterne prevedere gli effetti sulla preparazione finale.

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La farina 00 di tipo debole contiene prevalentemente amido ma anche una quota non trascurabile di proteine. Se idratata senza essere adeguatamente dispersa forma un impasto disomogeneo difficilmente solubile, che tende ad agglomerarsi gelatinizzando in superficie e rimanendo secco all’interno; si formano appunto i grumi. Affinché l’amido della farina lavori come addensante è necessario disperderlo in acqua a temperatura ambiente e idratarlo scaldandolo gradualmente. La miscelazione durante il riscaldamento contribuisce ad ottenere un composto liscio traslucido dalla texture cremosa-collosa. Il metodo base per capire come funziona la farina come addensante è una preparazione che ha poco a che fare con la gastronomia: la ponnula, ovvero la colla di farina cotta in acqua utilizzata da secoli per la lavorazione della cartapesta. Occorrono 50 grammi di farina 00 debole e 250 grammi di acqua: si stempera la farina fino ad ottenere un liquido lattiginoso senza grumi, poi lo si scalda ficnhé non si ottiene un composto denso che vela il cucchiaio. Che sia acqua, un brodo, una zuppa o un sugo l’errore che non si dovrebbe mai fare è addensare direttamente con la farina cruda un liquido caldo e permettere che i granuli di amido rimangano in sospensione dando appunto la terribile sensazione di masticare orrendi grumi di farina. La stessa cosa accade aggiungendo della patata cruda in pezzi o grattugiata. In entrambi i casi la sensazione sarà sgradevole, un disastro gastronomico.


Gli amidi della farina e della patata non riescono a solubilizzarsi e a gelatinizzare se non vengono dispersi, idratati e cotti a sufficienza. Quello che si dovrebbe sempre fare è quindi sospendere la fonte di amido in acqua, idratare e cuocere al fine di creare un gel solubile. Il rimescolamento, e quindi il lavoro meccanico durante il riscaldamento della miscela, è un altro fattore piuttosto importante sulla riuscita della preparazione e ha un effetto abbastanza consistente sulla texture e l’appearance. Teniamo anche bene in mente che le salse acide sono più difficili da addensare. ADDENSARE CON IL ROUX Quando un cuoco vuole fare il figo preparando un roux, dice che sta destrinizzando la farina. In effetti quando lo prepariamo non facciamo altro che modificare la struttura dell’amido contenuto nella farina di frumento, sfruttando le capacità termiche di un liquido altobollente ovvero un grasso (es. burro chiarificato) in assenza di umidità; più è alta la temperatura più efficace sarà la degradazione degli amidi ma anche la possibilità che si inneschino le reazioni di Maillard e alla lunga di carbonizzazione. Il grasso che si utilizza per preparare i roux non fa altro che impacchettare i singoli granuli di amido: ha l’unico scopo di proteggere il granulo dall’acqua e scaldarlo efficacemente. Il roux preparato correttamente è immediatamente solubile nelle basi acquose fredde tiepide e calde; la rapida ed uniforme gelatinizzazione dei granuli d’amido impacchettati nel grasso addensa la fase acquosa senza generare grumi e particelle sospese. L’obiettivo è ottenere una consistenza liscia, brillante e setosa. I classici roux chiari, biondi e scuri, corrispondono, dal punto di vista colorimetrico, al grado di destrinizzazione degli amidi; al progredire del grado di cottura della miscela di farina-grasso il roux si scurisce e acquisisce una diversa impronta aromatica. Infatti, ad alte temperature le proteine del burro e della farina generano insieme agli zuccheri riducenti una rilevante quantità di composti aromatici scuri dovuti alla reazione di Maillard; quindi un risultato molto ben tostato sarà anche più profumato e saporito e avrà applicazioni diverse rispetto ad uno chiaro dall’aroma più neutro. Importantissimo è sapere che la trasformazione dell’amido in altri composti quali destrine e composti di Maillard sottrae potere addensante al roux ma ne complessa l’impronta aromatica e ne aumenta leggermente il sapore dolce. Sebbene i roux siano un pilastro della cucina classica, la tipica cottura in padella genera risultati disuniformi in termini di potere addensante: in poche parole diviene difficile prevedere il risultato sul prodotto finito. Molte persone continuano a rifiutare l’applicazione del metodo scientifico in cucina, soprattutto quando la scienza osa mettere in discussione i dogmi della cucina classica, quella della nonna e della tradizione regionale italiana. Ma perché sbattersi se tanto da secoli “si è sempre fatto così”? La risposta è semplice: le ricette scientifiche sono ottimizzate perché chiunque possa ottenere risultati eccellenti e ripetibili. IL ROUX SCIENTIFICO Per rendere ripetibile la preparazione, bisogna utilizzare un metodo di cottura che permetta un rigido controllo fine delle temperature del dispositivo utilizzato, in questo caso il forno.

La preparazione richiede più tempo rispetto al metodo classico ma evita di dover controllare ad occhio la cottura miscelando continuamente il composto. Il roux tipicamente è composto da farina 00 di tipo debole e burro chiarificato e in parti uguali, potete variare la composizione del roux cambiando la tipologia di grasso: olio di cocco, lardo, grasso d’oca, olii vegetali con punto di fumo elevato, margarine, sego. Potete aggiungere alla miscela piccole quantità di erbe aromatiche e spezie secche polverizzate. Miscelate 250 grammi di burro chiarificato fuso e 250 grammi farina in una teglia alta o una pentola adatta alla cottura in forno; un totale di 500 grammi di composto, che saranno più che abbondati per l’uso in una cucina casalinga, giacché il roux preparato in questo modo è pastorizzato e conservabile in frigo per mesi in contenitore ermetico. Preriscaldate il forno in modalità ventilata a 180 gradi, posizionate la teglia e miscelate il composto ogni 20 minuti per uniformare la cottura in tutto il volume. Per un roux biondo saranno necessari 90 minuti, per un roux scuro 180 minuti. Versate il composto ancora caldo in un contenitore richiudibile ermeticamente, sterilizzato e resistente al calore. Lasciatelo raffreddare fino a temperatura ambiente e poi riponetelo in frigo. Potete ripartire il composto ancora allo stato fluido in piccoli stampi di silicone al fine di ottenere monoporzioni già pesate che potete conservare in surgelatore per un massimo di sei mesi. Quindici grammi di roux biondo sono sufficienti per addensare 200 grammi di latte o brodi. IL DRY ROUX Il potere addensante del roux è strettamente legato all’amido, principale costituente della farina di frumento. La componete grassa ha il ruolo di stabilizzare la dispersione dei granuli e di trasmettere efficientemente il calore necessario a rendere solubile l’amido nella fase acquosa della salsa. In una certa visione, il grasso del roux potrebbe essere considerato del tutto superfluo. Tostando a secco una farina debole in forno o in padella si ottiene un composto addensante che gelatinizza istantaneamente a contatto con l’acqua: molto utile qualora non sia necessario aggiungere un’ulteriore quota di grassi alle vostre preparazioni. Anche in questo caso, il livello di tostatura della farina ne determina le performance come addensante. Potete aggiungere il dry roux in una uguale quantità di burro fuso per ottenere rapidamente un classico roux oppure potete disperderlo direttamente nella salsa. Per ottenere il Dry Roux preriscaldate il forno a 180° in modalità statico e tostate la farina in un contenitore perfettamente asciutto. Processatene una quantità tale da avere sempre un’esposizione uniforme al calore e rimescolatela ogni 15 minuti fino ad ottenere una polvere dorata dal caratteristico odore tostato (ma non bruciato). Quello che andiamo ad ottenere è la forma grezza di un amido modificato, il dry roux casalingo è in realtà il precursore di un amido modificato trattato termicamente, per ottenere un composto in parte destrinizzato con la capacità di gelatinizzare istantaneamente a contatto con un liquido acquoso. Il nostro viaggio su come addensare le salse non è ancora terminato, ci vediamo nel prossimo numero per continuare questo percorso insieme. MAGGIO 2020

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LA RICETTA SCIENTIFICA - a cura di GIANFRANCO LO CASCIO

Cuban sandwich LA RICETTA SCIENTIFICA

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Carl Casper: Aspetta un attimo. Lo trovi noioso tu? Percy: No, mi piace. Carl Casper: Sì, io l’adoro. Quello che è successo di buono in vita mia è grazie a questo. Forse non faccio tutto bene nella vita, non sono perfetto, ma sono bravo in questo. E voglio condividerlo con te. Voglio insegnarti quello che ho imparato. Entro nella vita della gente con il mio mestiere. È la mia ragione di vita e l’adoro. E se ci provassi l’adoreresti anche tu. Percy: Sì Chef. “Que se sepa” di Roberto Roena risuona nelle casse del furgone a strisce gialle e bianche. C’è Martin che tra un ellisse disegnato coi fianchi e l’altro versa il Mojo, la salsa cubana per marinare il maiale. È così che si prepara la farcitura dei cubanos, i panini ripieni di spalla tagliata a fette, prosciutto cotto, formaggio e cetriolini sottaceto. Tutto rigorosamente imburrato e piastrato, nel film “Chef, la ricetta perfetta” così come nella vita vera. Quando il menù lo prevede non posso fare a meno di ordinarne uno. E siccome non credo di poter volare oltreoceano per un bel po’, ho deciso di preparare il cuban sandwich scientifico. Partiamo come sempre dalla base. MAGGIO 2020

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01.il PANE a cura di ALESSANDRO TREZZI

Il pane, in tutte le preparazioni in cui funge da contenitore, viene spesso visto come elemento secondario, di poca importanza. Si compra quel che si trova a buon mercato, tanto serve solo tenere insieme gli ingredienti, giusto? Sbagliato. Il pane è una prerogativa fondamentale per qualsiasi panino. Provate a pensarci: lavorate sodo per realizzare l’hamburger migliore della vostra vita, spendete ore e ore per cuocere minuziosamente un pulled pork da maestri, curate senza sosta la carne di maiale per il cubano, e poi per colpa di una materia prima scadente vi si sfracella tutto al primo morso, rovinandovi l’esperienza. Non si fa, non è cosa. Ragioniamo quindi sul risultato perfetto che ci interessa ottenere, in modo che sia possibile prepararlo in totale autonomia a casa nostra, aiutandoci a raggiungere il Nirvana boccone dopo boccone. Abbiamo bisogno di un panino estremamente friabile, dalla mollica presente ma leggera, che ceda al morso senza fatica, resista alla tostatura e che sia neutro in quanto a sapore, per lasciare il più completo spazio alla sinfonia di ingredienti che dovrà contenere. Dimenticatevi quindi farine integrali o di cereali diversi dal grano tenero: stiamo cercando un gusto equilibrato, estremamente scioglievole, una mollica che risulti arioso e quasi inesistente al palato pur conservando una sua struttura. Tradizionalmente il sandwich cubano si consuma, neanche a dirlo, con il pane cubano, che sostanzialmente è una sorta di baguette più cicciotta, con un’idratazione del 60-62%, senza le classiche estremità appuntite. In mancanza d’altro, spesso è possibile trovare ricette che utilizzano proprio la baguette francese come sostitutivo, ma risulta poco idoneo per i nostri scopi, perfetto come friabilità ma non come mollica. Bassa idratazione, crosta troppo dura e mollica troppo piena; se non 82 - BBQ4All MAGAZINE

stiamo attenti, la resistenza al morso sarà troppo elevata e gli ingredienti ci scapperanno tutti di lato. Un altro classico sostituto del pane cubano è la nostra ciabatta, un formato ad alta idratazione (75-80%), molto scioglievole ed etereo, che tuttavia presenta i difetti opposti: poca mollica (quasi inesistente a dire il vero), e quindi totale scomparsa dopo la particolare tostatura che il cubano deve subire. Come fare? Semplice, combiniamo i metodi e facciamo una pratica via di mezzo tra le due soluzioni: un pane friabile e strutturato come la baguette, croccante e scioglievole come la ciabatta. L’IMPASTO Come già anticipato, ci servirà una farina bianca, di forza medio-alta e dall’assorbimento farinografico minimo sufficiente per sostenere un’idratazione più elevata della classica baguette. Per aumentare la friabilità e garantire uno sviluppo omogeneo della mollica, ci rifaremo alla tecnica del poolish, un pre-fermento di origine polacca e adottata dalla Francia sin dal XIX secolo. In sostanza si tratta di un impasto liquido ottenuto mescolando farina e acqua in pari quantità, più una percentuale di lievito che dipende dalle ore di maturazione scelte; la temperatura ideale per la lievitazione è di circa 20-22 °C, e il poolish è maturo quando il volume è raddoppiato e tende a cedere al centro, con una crepa ben visibile. Tale tecnica vi assicura alveoli piccoli e ben distribuiti, un effetto crunch superiore, la maglia glutinica molto estensibile grazie all’acqua in eccesso che accelera l’attività enzimatica. Il sapore è più pungente, a causa della presenza di acido acetico e alcol. Per realizzare l’impasto ci atterremo ad un’idratazione del 70%, ma è fondamentale che la farina utilizzata abbia un assorbimento minimo (verificabile nella scheda tecnica) di almeno il 60-62%; in caso contrario, l’impasto non avrà la consistenza necessaria per lievitare correttamente in forma, allargandosi in cottura e crescendo in larghezza anziché

in altezza. Poco sale, in quanto utilizzando il poolish abbiamo già gran parte dell’impalcatura necessaria garantita, e una punta di malto diastasico per una carica enzimatica e zuccherina che servirà sia durante la lievitazione che per la reazione di Maillard in cottura. Con maturazioni più lunghe causa pre-fermento infatti e la presenza di una farina bianca (tipicamente ad attività amilasica più bassa) tale aggiunta può rendersi necessaria per mantenere alta l’efficienza del vostro prodotto ed evitare di arrivare alla cottura scarichi di zuccheri, ottenendo un prodotto basso, pallido e sgonfio. LA RICETTA Ingredienti per circa 6 panini Per il poolish: • 400 gr di farina di grano tenero di tipo 0 (270-280 W); • 400 gr di acqua; • 1 gr di lievito di birra fresco. Per l’impasto: • 600 gr di farina di grano tenero di tipo 0 (270-280 W); • 300 gr di acqua; • 15 gr di sale fino; • 5 gr di malto diastasico in polvere (o 20 gr di malto diastasico in sciroppo); • 0.5 gr di lievito di birra fresco. PREPARAZIONE DEL POOLISH Mescolate gli ingredienti in una ciotola, fermandovi non appena la farina risulterà completamente idratata. Non dovete impastare e formare glutine, ma solo uniformare il composto. Coprite con pellicola e lasciate maturare a una temperatura di 20-22 °C per 12 ore. Il poolish sarà pronto quando prossimo al collasso, ovvero quando inizierete a notare delle crepe sulla superficie. IMPASTAMENTO In una ciotola o nella vasca della vostra impastatrice o planetaria versate tutta la farina, il malto, il lievito (che servirà come starter per far partire la lievitazione) e i 3/4 dell’acqua della ricetta e iniziate a impastare, fino a ottenere una massa uniforme e asciutta. A questo punto aggiungete il sale, e proseguite mettendo l’acqua a poco a poco, solo quando la precedente risulterà perfettamente assorbita. Chiudete l’impasto quando risulterà liscio, uniforme e ben incordato. Ripie-


gatelo sul banco per dargli una struttura, oliate un recipiente (possibilmente con i bordi alti e stretti per consentirgli di crescere in altezza), chiudete ermeticamente e mettete a lievitare a una temperatura di 26-28 °C per un’ora. STAGLIO E FORMATURA Recuperate l’impasto, ribaltatelo sul piano da lavoro e dividetelo in sei parti uguali, formate delle palline e appiattitele delicatamente per formare un ovale, poi ripiegate l’impasto verso il centro fino a ottenere un panetto regolare allungato. Lasciate quindi riposare (con il lato della chiusura in basso) 15-20 minuti per far rilassare il glutine e recuperare estensibilità. Dopodiché, appiattite ogni panetto, ripiegate ancora i lembi verso il centro per dare forza all’impasto, servirà a dargli ulteriore struttura e permettergli di crescere in altezza durante l’appretto. A questo punto arrotolate tra le mani per avere una forma allungata e uniforme, tenendo come riferimento la dimensione della vostra teglia, tipicamente da 40 cm. Infarinate un canovaccio (abbastanza lungo) e stendetelo sulla teglia, appoggiate un filone (con il lato della chiusura verso l’alto) e poi il successivo, tirando un po’ il tessuto tra uno e l’altro per tenerli separati. In ogni teglia da 30x40 cm riuscirete a mettere 3 filoni. APPRETTO Coprite con un altro canovaccio e lasciate lievitare per un’altra ora a 26-28 °C, o comunque fino al raddoppio del volume. COTTURA Preriscaldate il forno statico a 230 °C e preparate un pentolino di acqua bollente. Appena i filoni saranno pronti, capovolgeteli su una teglia foderata con carta forno. Spolverate leggermente con della farina la parte superiore e fate un taglio longitudinale con una lametta o un coltello ben affilato. Infornate per circa 10 minuti con il pentolino nella parte bassa e la teglia in posizione centrale. Trascorso il tempo, togliete il pentolino e cuocete per altri 5-10 minuti con la porta leggermente aperta per far uscire il vapore e asciugare la crosta, che dovrà risultare croccante, friabile e ben colorata. Sfornate, lasciate raffreddare su una griglia rialzata e preparatevi per farcirle a dovere. MAGGIO 2020

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LA RICETTA SCIENTIFICA - a cura di GIANFRANCO LO CASCIO

02.la CARNE E adesso passiamo all’ingrediente portante del sandwich cubano: la carne di maiale. Generalmente le scuole di pensiero su quale sia il destino più dignitoso per il porco sacrificato sull’altare si dividono tra la cottura di un’intera spalla, previa salamoia, da tagliare a fettone generose, oppure il pullaggio del pezzo, condito con il famosissimo Mojo, la salsa cubana che non c’azzecca niente con i colpi di anca. Io che con le rivoluzioni, cubane e non, ci vado a nozze, ho deciso di dare il mio personalissimo tocco alla ricetta, mettendo la carne in salamoia e iniettandola con lo stesso liquido, cuocendola come il più classico dei pulled pork (il maiale sfilacciato cotto a lungo e a bassa temperatura) e irrorandola con un Mojo al lime profumatissimo. Ma partiamo dalla scelta del pezzo.

I TAGLI

Ciò che determina la conversione del collagene in gelatina e la conseguente destrutturazione del reticolo proteico che tiene insieme le fibre del nostro ma-

iale è un fenomeno che prende il nome di “idrolisi del collagene”. In pratica, grazie alla denaturazione (cambiamento della struttura) di questa proteina per via termica, ciò che prima era duro e tenace si trasforma in un liquido gelatinoso. In linea teorica, il maiale sfilacciato si può preparare con qualunque taglio, ma dobbiamo trovare la quadra tra percentuale di grasso e collagene rispetto alla massa muscolare. Come ho spiegato più volte, il grasso migliora l'umidità e conferisce sapore, mentre il collagene, una volta convertito in gelatina, diventa un incameratore di umidità molto efficace. E non fate l’errore di scegliere tra i tagli nobili dell’animale, una volta di tanti anni fa ho preparato un pulled con la coscia del maiale, convinto che un pezzo così nobile mi avrebbe restituito un risultato eccezionale. Ebbene, sembrava di sfilacciare l'imballo di un pacco di Amazon. La coscia di maiale è un taglio decisamente meno grasso della spalla e con un contenuto di collagene inferiore, ecco perché è poco adatto.

Vi consiglio di scegliere tra: Boston Butt (taglio americano) È IL taglio: la porzione di spalla assicura il corretto apporto di collagene, mentre la coppa apporta la giusta quantità di grasso, gusto e succosità. Il Boston Butt è squadrato e compatto e comprende al suo interno la scapola (“paletta”). Pic Nic (taglio americano) Si tratta di un taglio più economico e dalla resa inferiore, ma in grado di dare un Pulled Pork con caratteristiche abbastanza simili a quelle del Boston Butt, poiché contiene molto più collagene. Coppa di maiale (taglio italiano) Buona quantità di grasso e quindi grande gusto, sovrabbondante rispetto al collagene. Il risultato sarà un Pulled Pork saporito, il grasso assicurerà morbidezza e una grande carica aromatica. Io ho utilizzato una coppa di 3,5 kg. Spalla di maiale (taglio italiano) Al contrario della coppa, qui abbiamo una gran quantità di collagene su un taglio abbastanza magro. Cuocendo la spalla otterrete un maiale sfilacciato poco saporito. Fondamentale oltre al taglio è anche prendere in considerazione l’età dell’animale, che determina il tipo di struttura del connettivo. La degradazione enzimatica delle proteine post mortem (collagenasi, catepsine & co) determina la “solidità” della struttura del connettivo di quel preciso animale che richiederà tempi sicuramente diversi rispetto a qualunque altro. La quantità di grasso intramuscolare, invece, può dipendere da mille fattori. Un giusto livello di marezzatura e frollatura del maiale faranno senza dubbio una differenza abissale rispetto ad un capo magro e appena macellato. Soprattutto la quantità di liquidi ritenuti nei tessuti e il pH della carne possono dare risultati completamente diversi.

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LA SALAMOIA ACIDIFICATA

La denaturazione delle proteine, oltre che per via termica, può avvenire anche per via chimica. Due elementi in grado di favorire questo processo sono il sale e l’acidità. Il cloruro di sodio, il sale in sostanza, è capace di migliorare profondamente le caratteristiche della carne in termini di umidità, sapidità e consistenza, mentre la parte acida ha il compito di magnificare la sensazione di succosità. L’esposizione diretta di piccoli tagli di carne a componenti particolarmente acide genera una trasformazione profonda dei tessuti muscolari e del connettivo; un acido non fa altro che apportare ioni H + (derivati dall’acido acetico, citrico o lattico contenuti nelle basi acide). L’azione di questi ioni cambia radicalmente la conformazione delle proteine della carne, generando una denaturazione e successivamente una coagulazione molto simile a quella che avviene con il calore. Preparando i vostri carpacci avrete senz’altro osservato che immergendo un pezzo di carne nel succo di limone si assisterà ad un rapido e progressivo cambio di colore che coinvolgerà tutte le proteine, compresi i pigmenti musco-

lari come la mioglobina, che coagulano diventando di colore grigio. Le componenti acide modificano profondamente la struttura delle proteine rendendole capaci di trattenere una maggiore quantità d’acqua durante le fasi di cottura; parallelamente abbiamo anche un'importante esplosione a livello gustativo: la percezione di acido implementa in molti casi la gradevolezza della carne. Ecco perché è molto importante mettere a mollo la ciccia e “pompare”, tramite una siringa apposita, la stessa salamoia acidificata all’interno del pezzo di carne qualche ora prima. Gliene infilate quanta più possibile, tanto rimarrà all’interno solo una parte, che è impossibile da quantificare a priori. Salamoia al 5% di sale • 800 ml succo d’arancia • 800 ml acqua • 200 ml aceto di riso • 200 ml rum • 100 gr sale • 50 gr zucchero di canna • 8 spicchi di aglio pestato • 1 gr timo • 2 gr rosmarino • 2 g origano • 2 g salvia • 3 g pepe nero in grani

Per la “rubbatura”: • Senape di Digione q.b. • BBQ4All Tennessee Rub Preparate la salamoia e mettete a bagno il pezzo di carne, quindi copritelo con della pellicola. Lasciatelo in ammollo in frigorifero per almeno 12 ore, girandolo di tanto in tanto (diventerà grigiastro una volta trascorso il tempo necessario). Trasferite la ciccia su un tagliere e filtrate la salamoia con un colino a maglie molto strette. Riempite la vostra siringa da allegro chirurgo con la salamoia e inoculate il liquido lungo tutta la superficie, pungendo ogni 2 cm circa. Importante: questa roba schizza. Mettete un grembiule e state alla larga da muri appena imbiancati. E non vi affaccendate a nascondere le magagne con un colpo di straccio, la vostra compagna avrà già chiamato i RIS di Parma. Una volta seviziato il porco, battezzatelo con un velo di senape di Digione e cospargetelo di un sottile strato di BBQ4All Rub Tennessee su tutti i lati. Ho detto sottile, non state inzuccherando il pandoro.

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03.COTTURA Quando si parla di Pulled Pork si rispolvera sempre la tenzone tra “low&slow” e “hot&fast”, le due tecniche che si contendono il titolo di cottura più adatta. In parole povere c’è chi dice che cuocere a bassa temperatura per più tempo è meglio che ad alta temperatura per poco tempo. E viceversa. Il consiglio che vi do è: diffidate da chi si schiera per l’una o per l’altra. Lo scioglimento del connettivo non avviene solo ad una data temperatura. Avviene sempre, anche quando l’animale grugnisce ancora. Il nocciolo della faccenda è che a determinate temperature questo processo si accelera in modo significativo. Questo range è compreso fra 70°C e 82°C/85°C. A 85°C si ha il picco massimo di velocità di scioglimento del connettivo. Questi 85°C però non sono il punto di arrivo, anche se il pezzo di carne raggiunge la temperatura target al cuore non significa che il connettivo che contiene si è sciolto del tutto. Il punto è che mantenendo la carne a questa temperatura sto velocizzando il processo di scioglimento. Che comunque ci impiegherà, realisticamente, qualche ora. Ed è proprio per questo motivo che entra in gioco la fase di “rest” cioè di riposo. Maggiore è il tempo in cui lasciamo la carne all’interno di questo range di temperature, più veloce sarà il processo di scioglimento. Ora comprenderete che la tecnica grazie alla quale arrivo a questa temperatura è assolutamente ininfluente (low&slow/ hot&fast) se mi sono preoccupato di favorire la denaturazione per via chimica, iniettando una salamoia acidificata. Che cosa cambia quindi se ci arrivo lentamente o velocemente? Cambia l’effetto superficiale e quindi il sapore. Una cottura in low&slow, magari in foil, rende più critica la formazione e il mantenimento del bark (la crosta superificiale). Una cottura in hot&fast, probabilmente, faciliterà il sapore di “arrostito” grazie alla velocizzazione dei processi di cauterizzazione (reazione di Maillard). Ma di certo l’hot&fast non facilità né complica il processo di scioglimento del connettivo in gelatina; quello accadrà comunque ed è solo una questione di tempo. Quali sono i pregi e difetti del low&slow?

Gestione più semplice del processo di cottura a fronte di tempi più lunghi. Quali sono i pregi e difetti dell’hot&fast? Gestione mediamente più complessa a fronte di tempi sensibilmente più brevi e note “arrostite” più marcate. Resta inteso che senza il controllo della fase di scioglimento del connettivo, i due metodi non apportano ulteriori benefici. Io il “puerco” l’ho preparato in low&slow, nel forno di casa. Cotto al barbecue è senz’altro migliore, la nota affumicata ci sta da Dio e trovate un breve recap sull’argomento, ma ho voluto semplificare la ricetta anche per chi non si è ancora munito degli strumenti adatti.

AL BARBECUE

Le tre fasi La prima fase è quella dell'affumicatura, che è più efficace in ambiente umido. Lo scopo è identificare il giusto grado di umidità, senza trasformare però il rub in una pappetta molle. La seconda fase è quella della disidratazione del rub, è qui che l’umidità va ridotta drasticamente. La terza fase è quella che mira a raggiungere la completa gelatinizzazione del collagene e la destrutturazione della rete proteica, che consente lo sfilacciamento del nostro maiale alla cubana. Procedete in questo modo: 1. Predisponete il carbone formando il classico Snake, il sistema usato più spesso nei kettle che consiste nel creare un “serpentello” costituito da una o due file di bricchetti spenti, disposti in doppio strato e aderenti al braciere. Una volta sistemati, si versano dei bricchetti accesi su una delle due estremità del semicerchio: i bricchetti accesi intaccano quelli spenti partendo da quella estremità e si prosegue lungo tutto il cerchio. Stabilizzate la temperatura a 110-120°C. 2. Disponete la carne nel dispositivo di cottura, quindi affumicate in modalità thin blue, cioè con pochi trucioli di melo che producono un fumo leggero e costante, fino a quando la carne non avrà raggiunto i 55°C. 3. Sospendete l’affumicatura quando avrete ottenuto il bark della consistenza desiderata e di un bel color mogano.

4. Procedete alla messa in foil con la tecnica del Texas Crutch: una sorta di cartoccio costituito da un foglio di stagnola posto sotto il pezzo di carne e richiuso in maniera gentile, accartocciando i lembi sopra di esso senza pressare eccessivamente sul bark. Oppure semplicemente mettendo la ciccia in un vaschetta di alluminio e sigillando la sommità con un foglio di stagnola stretto intorno alla cornice. Sistemate una testa d’aglio sbucciata in una teglietta o su un guscio di alluminio accanto al pezzo di carne (vicino, non insieme), vi servirà per preparare una cremina da spalmare sul pane. 5. Continuate la cottura fino a quando la carne non avrà raggiunto i 98°C al cuore. 6. Lasciate la carne in rest e sfilacciatela con i suoi succhi. 7. Recuperate l’aglio che sarà diventato morbidissimo, frullatelo insieme a poco olio, sale e un goccio di succo di limone. Potrete spalmare un velo di questa salsetta sulla base del panino.

IN FORNO

1. Accendete il forno in modalità statica e impostate la temperatura sui 120°C. 2. Poggiate la carne su una gratella (per tenerla sollevata) e piazzate una vaschetta di alluminio sotto, per non sporcare tutto. 3. Quando il bark si sarà formato e sarà perfettamente asciutto, trasferite la ciccia in una vaschetta di alluminio e mettete in foil, come vi ho spiegato prima. A parte piazzate una testa d’aglio in una piccola teglia o in un cartoccio di alluminio. 4.Continuate la cottura fino a quando la carne non avrà raggiunto i 98°C al cuore. 5.Lasciate la carne in rest e sfilacciatela con i suoi succhi. 6.Lavorate l’aglio come descritto prima.

LA RIGENERAZIONE

So già che state per chiedermelo: posso cuocere il pork il giorno prima per farcire il panino il giorno dopo? Certo che sì, il segreto sta nel riscaldarlo nella maniera corretta, per evitare che si secchi o si rovini. È fondamentale quindi mettere da parte i suoi preziosissimi succhi. Fate così: scaldate i succhi di cottura e versateli sul maiale sfilacciato che avrete conservato in una vaschetta o in una teglia di alluminio. Poi coprite e mettete a scaldare in forno ad una temperatura di circa 80°C. MAGGIO 2020

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04. il PROSCIUTTO

affumicato

Nel Cuban Sandwich ci va il prosciutto cotto, quello classico e senza particolari aggiunte. Ma a me pareva un ingrediente un po’ moscetto e piatto, per cui ho deciso di arricchire il panino con la nota affumicata del Prosciutto di Praga. Che potete comprare nella vostra salumeria di fiducia oppure fare in casa. Come? Ve lo spiego subito. Procuratevi una coscia disossata a femore chiuso. Così il femore e l’osso del ginocchio verranno asportati senza aprire a metà la coscia. Chiedete al vostro macellaio se può procurarvi una coscia già destinata e pre-rifilata per i prosciutti cotti HU (con molto grasso sottocutaneo) o HE (più magro). Preparate una salamoia tradizionale con acqua, sale e aromi. Indicativamente per 1 litro di liquido aggiungete 140 grammi di sale e aromi a piacere. Prima di mettere a bagno la coscia, iniettate la sala-

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moia fin dentro la carne, rigorosamente a freddo per evitare la proliferazione batterica. Il prosciutto iniettato va fatto riposare in un contenitore per circa 6 giorni in ambiente refrigerato, tra i 2 ed i 4°C. È sconsigliato andare oltre il 20% del peso della coscia con le iniezioni, quindi per una coscia di 10 kg iniettate 2 litri circa di salamoia. Quella che vi sto suggerendo è una ricetta semplificata, esistono metodi e lavorazioni più elaborati che prevedono l’utilizzo di additivi come nitrati e polifosfati. Passati i 6 giorni, rimuovete il prosciutto dal frigo e legatelo, fate prima un cappio stretto e saldo centralmente e poi continuate a realizzare degli anelli, tirando più che potete lo spago, fino ad ottenere una “margherita”. Mettete in griglia la vostra coscia con la cotenna rivolta verso l’alto e, se vi piace, incidete a rombo con un coltello affilato.

Preparate il dispositivo per una cottura a bassa temperatura, tra i 115 ed i 130°C, un paio di chunk di melo e iniziate ad affumicare. Fondamentale per la buona riuscita del prosciutto è saturare l’ambiente di umidità, quindi posizionate il water pan bello carico di acqua bollente, poiché il vostro obiettivo non sarà un bark croccante, ma morbidezza della carne e sentore di fumo. Proseguite dritti fino alla meta fissata a 82°C al cuore. Una volta pronto, avvolgete il prosciutto nel foil e mettetelo in rest per qualche ora. Quindi fate scendere la temperatura sotto i 35°C. Vi consiglio di prepararlo il giorno prima e di metterlo in frigo. Scendere sotto i 35°C permetterà al collagene di riacquistare consistenza e quindi potrete ricavare fette più omogenee e compatte.


05. i CETRIOLI

sotto aceto

La conservazione sott'aceto può avvenire sostanzialmente in due modi: per fermentazione lattica o con un'aggiunta di un ingrediente acido (aceto) ad un alimento precotto. I sottaceti fermentati più famosi sono appunto i cetriolini, ingrediente chiave del nostro paninozzo cubano. I cetrioli vengono sottoposti ad una proliferazione microbica: lo starter è costituito dai microorganismi naturalmente già presenti su ortaggi e verdure, mentre l'acido lattico funge da conservante. Si sfrutta l'azione di batteri lattici quali L. mesenteroides, E. faecalis, P. cerevisiae, L. brevis e L. plantarum. Per prima cosa i cetriolini vengono lavati, puliti e tagliati. Poi si aggiunge il sale da cucina, che serve a selezionare la colonia microbica giusta, attivando solo i batteri necessari alla liberazione di acido lattico. Ma esistono anche i sottaceti preparati con ingredienti lavati, tagliati, precotti e poi immersi in un liquido acido bollente, con un pH di circa 4,6. Questo perché i batteri si sviluppano prevalentemente a pH di 6,5-7,5, le muffe a circa 6, ed i lieviti in un range di pH oscillante tra 3 e 4. Con la precottura e la successiva immersione del sott'aceto nel liquido di governo ustionante è possibile abbattere quasi del tutto la carica microbica. MAGGIO 2020

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IL METODO 1-2-3 di Magnus Nilsson Esiste però una tecnica per ottenere dei sottaceti espressi, freschi e che conservano una grandissima croccantezza, poiché l’ingrediente da conservare non viene mai scaldato. È il metodo 1-2-3 che lo Chef stellato svedese Magnus Nilsson (ex patron del leggendario Ristorante Fäviken) descrive nella Bibbia della cucina nordica “The Nordic Cookbook”. È un metodo molto semplice da mettere in pratica. Per farlo vi servono: • 1lt aceto di vino bianco • 2 kg di zucchero • 3 lt di acqua • 1 kg di cetrioli • 40 gr sale fino Per prima cosa bisogna preparare la marinata. 1. Portate l’acqua a bollore e dissolvete lo zucchero, fino ad ottenere uno sciroppo. Aggiungete l’aceto e fate raffreddare. 2. Tagliate i cetrioli a fettine o a rondelle, ad uno spessore di 3mm; disponete in uno scolapiatti e cospargete con il sale. Lasciate agire per 30 minuti e poi strizzate. 3. Sistemate i cetrioli in un barattolo e ricoprite con la marinata. Fate riposare in frigo per almeno 2 ore. 4. Aggiungete aromi a piacere (semi di senape, aneto, cipolla tritata), i sottaceti così preparati si conservano in frigorifero per 1 settimana. Questa procedura è più che collaudata, ma per i cetrioli del nostro panino ho pensato di fare una piccola modifica, riducendo il quantitativo di zucchero e aumentando quello dell’aceto. Sciogliete 800 grammi di zucchero in 1,5 litri d’acqua, poi aggiungete 600 ml di aceto. Affettate 500 grammi di cetrioli (non togliete la buccia!) e seguite le istruzioni come sopra. Riempite un barattolo in vetro con i vostri cetrioli affettati e coprite con il liquido, aggiungete qualche fettina di lime per aromatizzare e qualche rametto di timo, che viene utilizzato anche per la cottura del maiale. Lasciate riposare per qualche ora e fateli sparire entro pochi giorni. Mi raccomando, questa non è una tecnica per conservare i sottaceti a lungo.

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LA RICETTA SCIENTIFICA - a cura di GIANFRANCO LO CASCIO

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LA RICETTA SCIENTIFICA - a cura di GIANFRANCO LO CASCIO

06. le SALSE Così come siamo soliti condire il Pulled Pork con una salsa, è fondamentale irrorare i nostri straccetti di maiale con un sughetto acidulo, che andrà a bilanciare la nota grassa e opulenta della carne e del formaggio svizzero, che va stratificato senza ritegno con il resto degli ingredienti. Ingredienti per il Mojo: • 180 ml di olio extravergine di oliva • 10 gr cilantro fresco • 130 ml succo arancia • 130 ml succo lime • 7 spicchi aglio tritati • 10 gr di buccia d’arancia grattugiata • 5 gr di buccia di lime grattugiata • 3 gr origano • 2 gr pepe nero • 1 gr cumino • Sale q.b. Preparate il Mojo il giorno prima, lasciando in infusione tutti gli ingredienti per 24 h. Quindi filtrate il tutto con cura ed emulsionate con il minipimer o con le fruste. E la senape? Va spalmata sotto il cappello del panino, bella spessa. Vi consiglio però di darle un po’ di friccicore aggiungendo 10 grammi di succo di lime (o limone) per ogni 100 grammi di senape. Questo per armonizzare i sapori di un sandwich non proprio facile da affrontare.

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LA RICETTA SCIENTIFICA - a cura di GIANFRANCO LO CASCIO

assemblaggio del SANDWICH E adesso veniamo alla mia parte preferita, la costruzione finale dell’opera. Tagliate il pane a metà e spalmate del burro sia sulla parte della mollica che della crosta. Tostate la parte interna del panino, spalmate sulla base un velo sottilissimo di crema di aglio, se vi piace, e una buona dose di senape sulla parte interna dell’altra metà. Disponete le fette di prosciutto di Praga, formando dei fiocchetti grandi quanto un morso. Potrà sembrarvi superfluo, ma vi assicuro che renderà molto più semplice azzannare il panino senza far sgusciare nulla sul pavimento. Ora aggiungete il maiale sfilacciato e bello intriso di salsa e coprite con delle fette di formaggio svizzero (tante). Chiudete il panino, piastratelo o scaldatelo in forno per far fondere il formaggio, poi riapritelo e aggiungete i cetrioli a fette sulla sommità. Serrate e ammirate la spavalderia del vostro sandwich, magari sorseggiando un Mojito alla Fidel e urlando “Ueh Nixon! Giù le mani dal mio cubano!” Gianfranco Lo Cascio

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SEGUO - RUBRICA a cura di EMILIANO NENCIONI

SEG U O

AMIGDALA: la materia grigia che rende il tuo nome grigio.

“Preparati a vestire il grigio” è la tipica punchline di ogni moderatore a cui piaccia fare un intervento tranchant e cinematografico prima di sanzionare con ban e pubblica derisione il riottoso del momento. Dopo il provvedimento disciplinare il nome dell’utente diventa grigio e le reazioni degli astanti si dividono fra pavido dileggio e solidarietà indignata; il consesso online si libera dei fastidiosi interventi del reietto e, generalmente, un amministratore si accolla dodici ore di polemica in chat privata. Dietro questi provvedimenti c’è, generalmente, una reazione sconsiderata dell’utente: con modalità che sembrano sfuggire ad ogni comprensione può infatti capitare che una persona normalmente mite, tranquilla e a volte - è capitato! - anche estremamente servile, ossequiosa e zerbinata, si tramuti in un caustico dispensatore di cattiverie, vendette e aberrazioni linguistiche. Cosa genera questo infausto scatto? Forse il social network promuove una certa schizofrenia rimasta latente? No, è più qualcosa che ha a che fare con la rapidità che i nostri progenitori avevano a riconoscere un serpente.

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Detta così sembra un po’ tirata per il collo, ma una pratica comune qui nella Seguo è spararle grosse e poi cercare di giustificare tutto con sofismi e sillogismi traballanti, come del resto i miei lettori (recentemente cresciuti fino al notevole numero di otto, mi han detto) ormai ben sanno. È tutto lì, nel meccanismo fight or flight (attacco o fuga), che risiede l’inghippo delle reazioni sconsiderate. C’è questa struttura nel cervello, simile a un paio di mandorle (da qui il nome), che si fa carico di un compito essenziale: produrre reazioni alla svelta, alla sveltissima. L’amigdala riesce a filtrare uno stimolo proveniente dal mondo esterno con la memoria emozionale dell’individuo e a produrre reazioni “di emergenza” in tempi brevissimi senza dover far passare tutto dal complesso e ben più lento meccanismo del pensiero cosciente. Se intravedo il muso di un serpente me ne accorgo subito e mi predispongo alla fuga, non richiamo prima alla mente la sensazione di pelle squamosa, i ricordi di Sir Biss de La Spada nella Roccia, un paio di aneddoti biblici e una cintura di alta moda. Probabilmente salto via prima di aver addirittura pensato di dover saltare via. Siamo capaci di riconoscere certi tratti di figure “pericolose” (le caratteristiche facciali di un serpente sono solo un esempio) perfino da cose completamente astratte come le macchie di Rorschach. Per ogni evento riconosciuto come pericoloso l’amigdala è capace di prendere il controllo del sistema cardiovascolare, dei muscoli (per la fuga o la lotta), dell’intestino (pare che si fugga meglio con l’intestino sgombro, e questo mi fa ripensare a tante coliche nervose durante le interrogazioni al liceo), e ogni ricordo utile viene rapidamente preso in esame per elaborare una reazione efficace o una contromisura salvifica. Questa specie di canale prioritario verso la reazione motoria, con un eccellente algoritmo di ricerca nella memoria emozionale, è come si può intuire fondamentale per la sopravvivenza e ben radicato negli esseri viventi. Gli informatici più vecchia scuola (che sono il 40 per cento dei miei lettori, quindi me la gioco facile questa) potrebbero facilmente paragonare questo funzionamento con la generazione di un interrupt.


pagamento: persone che si prendono dieci minuti del proprio tempo per scrivere a una multinazionale senza volto che la loro automobile è meglio di quella da loro reclamizzata, per far notare al brand di abbigliamento sportivo che il modello usato per indossare la maglietta (di solito un campione, o una specie di statua) è fuori forma, brutto o antipatico, o altre sconclusionate e inutili manifestazioni di rabbia e frustrazione.

Se negli animali l’amigdala presiede alla funzione fondamentale di salvaguardia dai predatori, nei primati e poi nell’uomo la cosa si è evoluta, e ti pareva, fino a livelli complicatissimi e cervellotici. Non solo la paura, ma anche la timidezza, l’aggressività, ma anche concetti molto più complessi come la sacralità dello spazio personale sono mediati da queste due mandorle ficcate nel cervello, ed è qui che entra in gioco la problematica Social. È di grande esempio il caso piuttosto famoso di una donna americana, conosciuta con le iniziali SM, la “donna senza paura”: sin dall’infanzia una pesante anomalia bilaterale all’amigdala l’aveva resa completamente priva di paure e di ogni forma di timidezza. La donna viene descritta come incapace di rispettare certe forme di “distanza col prossimo”: tende a stare troppo vicino, cercare il contatto con tutti, fidarsi di tutti, e ad essere “quantomeno civettuola” e molto disinibita. Questo l’ha portata a mettersi pesantemente nei guai, fino al punto di essere minacciata di morte, aggredita con coltelli e armi da fuoco, aver subito borseggiamenti e furti, quasi uccisa in un paio di episodi di violenza domestica, ma nonostante questo la signora continua a non fare una piega: semplicemente, non è in grado di ricavare paura (e quindi deterrente ad agire) dai propri ricordi di rischio e trauma; non è in grado di impaurirsi neanche con un film horror, non è in grado di percepire una musica come triste o cupa, non riesce a decifrare gli indizi sociali quali fastidio, noia o paura nei propri interlocutori. Nei social network odierni l’amigdala è sicuramente in superlavoro continuo: dovendo badare all’intersezione del proprio spazio personale con quello degli altri, la continua intrusione imposta dal concetto stesso di “condivisione al giudizio altrui” porta un sovraccarico inevitabile. Chiaro indicatore di questa esasperazione è la reazione ai post relativi alle inserzioni a pagamento dei brand commerciali: pagando (non poco, a dire il vero) un obolo ai gestori dei social è possibile intrufolarsi dentro i flussi di notizie degli utenti, ed apparire, non richiesti, tra i vari post di gattini, di pagine di meme volgari (sì, dico a te, là in fondo) o di complottisti antivaccinisti (dico a quell’altro) che l’utente sceglie di seguire. Questo viene interpretato spesso come intollerabile intrusione nello spazio personale, al pari di uno sconosciuto che venga a urlarti in faccia talmente vicino da toccare il suo naso col tuo. Negli individui più sensibili la reazione è maiuscola, e nei momenti di noia è possibile passare giornate intere leggendo i commenti sproporzionati e animaleschi sotto le pubblicità a

La violazione dello spazio personale, inevitabile negli esami medici, nella vita sui social e - sacrilegio - nella moderazione, è un evento così grave che l’amigdala lo gestisce a modo suo, che come ho detto poco sopra significa agire in fretta e con impulsi e reazioni non mediate dalla ragione. Puro istinto. Dirottamento dell’Amigdala. Si chiama così. Nel senso di dirottamento compiuto da parte dell’amigdala ai danni dell’individuo. Succede quando la reazione emotiva è completamente sproporzionata e fuori luogo rispetto all’evento scatenante, e non è colpa di nessuno. È chimica, è biologia. Spesso infatti suggerisco ai moderatori di “ammortizzare il colpo” di questi malcapitati, agendo in caso di manifesta iper reazione in maniera benevola, magari eliminando il post prima che qualcuno si innervosisca davvero e silenziando il feroce utente per qualche tempo, dandogli modo di recuperare il senno, sbollire l’ira funesta e smettere di riconoscere le fattezze del serpente nell’avatar del moderatore. Ma, spesso, è tutto vano. Si sfocia nella reazione di prestance, e ne parleremo presto, voi intanto fate una ricerchina veloce. Cancellare un commento o silenziare è un ulteriore affronto, un oltraggio alla sfera emotiva, come se all’indifeso primate inibissero la possibilità di mostrare aggressivamente la dentatura per scoraggiare il predatore, o il rivale nell’accoppiamento. “Ti sei permesso di cancellare un mio commento” “Beh sì, fa parte della moderazione” “Non deve succedere mai più” “Lo spero, basta che tu non contravvenga alle regole e sicuramente non accadrà” “Non ti devi permettere di cancellare, al massimo avvertimi!” “Siete sessanta mila, non è fattibile: se una cosa non va bene la togliamo, niente di personale” “Con me non ti devi permettere di farlo” “Non vedo perché e non sono neanche troppo curioso di apprenderlo” “Si può sapere chi ti credi di essere? Solo perché hai un ruolo pensi di poterne abusare?” “Guarda, il mio ruolo è di moderare. Significa dover togliere i commenti. Ma sicuramente sei una persona splendida, affabile, solare e giusta fra i giusti: solo che non andava bene quel commento, ed è stato tolto” “Una simile mancanza di rispetto è intollerabile” “Ah, vedo che non hai mai letto la Seguo” “...?” “Se hai una mezz’oretta di tempo proverò a parlarti un po’ del vero nome di quello che tu chiami rispetto, tu mettiti comodo.” Emiliano Nencioni MAGGIO 2020

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NEW YORK

SLIDERS 200g (4x50g)

Un piccolo hamburger che andrà letteralmente a ruba nelle occasioni di festa. Particolarmente adatto ai bambini per le dimensioni ridotte, è perfetto per aperitivi, cene informali, serate in famiglia. Un vero e proprio boccone di puro sapore, che si presta ad essere declinato in mille versioni e abbinato a un’infinità di sapori, ma sorprendentemente gustoso e succulento anche da solo.

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ORIGINAL

BURGER 200g

Diventa il re della griglia durante le giornate in compagnia di amici e familiari grazie a questo hamburger da 200 grammi. Il perfetto bilanciamento del gusto, dato dall’equilibrio ideale di parte grassa e parte magra nella composizione del patty, lo rende un prodotto di cui non potrai più fare a meno. Dimentica gli hamburger sottili e insapori e preparati a un’esplosione di gusto, senza rinunciare alla praticità di un prodotto confezionato in skin.


BURGER

STEAK 300g

Trecento grammi di carne macinata, condita e ricompattata in una polpetta dallo spessore consistente. Questo Burger Steak unisce le due cose fondamentali che tutti cercano in cucina: qualità ottima e velocità di preparazione. In pochi minuti potrai servire un piatto ricco, bello da vedere, con un sapore esplosivo e una qualità indiscussa. Un hamburger alto, saporito, soddisfacente, che si presta a essere servito in mille modi diversi, mai asciutto e stoppaccioso. Scalda bene la griglia prima di mettere il Burger Steak in cottura, rigiralo spesso per creare la crosticina esterna senza rischiare di bruciarlo, cuocilo per pochi minuti e servilo come una tagliata, aggiungendo il tuo condimento preferito. Un sicuro successo. Un vero salva-cena di altissima qualità.

DOVE TROVARCI puoi trovare la mappa interattiva di tutti i punti vendita costantemente aggiornata all’indirizzo http://products.bbq4all.it/dove-trovarci/


CLUB

Dire tta m e n t e da lla com m uni ty d i maes tri d i barb ecu e p iù gran d e d ’Ita lia, na s c e i l pre st i gi oso c lub ch e ti offre la p o s s ibilità d i avere: accesso p riorita rio a l meg a store, dove pot ra i fa re ra zz i e men tre tu tti gli altri “s o no in coda”; u na p rogram mazi o ne intellig ente dei tuoi a cquisti gra z i e a l c re di to m e ns ile p rep agato (s cegli tu quan to ); u n coach priva to che ti g uiderà ne l fa r t i vi ve re l’ e sperien za p iù eccitan te d i s emp re con la pre parazio n e d ei tu oi p iatti; e molto a ltro a ncora... Av ra i tu tto que sto solo se t i i sc rivi s u bito al MEGASTO RE CLU B, l’u n ico luogo r i s e rvato a una c e rc hi a r i st re tta d i as p iran ti grill mas ter ch e d es id era no a ppre n de re pi ù ve loc e m e n te e n el modo p iù accu rato p o s s ibile, la sublime arte d el grill. Puoi di si s criverti quan do vu oi e i l tu o cred i to sa rà sempre disponibile.

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H T T PS : / / C LU B M E G ASTO R E . B BQ 4 A L L. I T e c hi e di i nfo rmazio n i p iù d ettagliate, pr i ma c he i coac h fin is cano e le is crizio n i ch iu dano .


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