N°19/ANNO 2 - LUGLIO 2020
l ' editoriale di gianfranco lo cascio
MAGAZINE
REVIT E SOUS VIDE
A CONFRONTO
FR E NC H D I P : COME S I FA
LA BAGUETTE PERFETTA LA RICETTA SCIENTIFICA
B R AC I O L A DI MAIALE
E PATATE ARROSTO
AMERICAN DREAM ITALIAN BBQ Gumbo, la pizza Chicago Style, Memphis Style Ribs, Tacchino ripieno, Chimichanga, Juicy Lucy, Sloppy Joe, Pomodori verdi fritti, Burgoo, Cobb Salad
D I R E T TO R E E D I TO R I A LE
Rossella Neiadin
R E D AT T O R E C A P O
Michela Bongiorni REDAZIONE
Enio Berton, Virgilio Brunetti, Tommaso Buccafurri, Roberto Dal Bosco, Tommaso Di Gregorio, Salvatore Di Mento, Luca Gallozza, Mariangela Ibba, Gianfranco Lo Cascio, Riccardo Meniconi, Giovanni Minelli Emiliano Nencioni, Stefania Pompele, Andrea Spaggiari, Alessandro Trezzi, Carlo Trono, Alberto Zonghetti. REALIZZAZIONE GRAFICA
Impaginazione a cura di Carlo Trono Le illustrazioni degli articoli “La globalizzazione ai tempi di Colombo” e "Diventare assaggiatore" sono di Eleonora Castagna Le illustrazioni nelle ricette del "Tacchino Ripieno”, del "Chimichanga" e della “Baguette” sono di Ozzy Bellesi Fotografie di Rossella Neiadin, Luca Gallozza, Tommaso Buccafurri, Elisa Giuli S TA M P A
Graphic Master s.r.l. - Perugia magazine@bbq4all.it instagram.com/bbq4allmagazine/ ©2019 BBQ4All è un marchio BBQ4All Consulting s.r.l. BBQ4All Magazine è un prodotto in concessione a ©2019 NetAddiction s.r.l. Tutti i loghi e marchi riportati, gli elementi grafici, le immagini e i materiali presenti nella presente pubblicazione sono soggetti alle norme vigenti sul diritto d’autore; è quindi severamente vietato riprodurre anche parzialmente ogni elemento delle pagine in questione. Nomi, marchi registrati e loghi eventualmente presenti su questa pubblicazione non possono essere utilizzati per alcuna forma di pubblicità o diversamente per indicare sponsorizzazione, patrocinio o affiliazione a prodotti o servizi senza previa autorizzazione scritta da parte della società che ne detiene i diritti. Tutto il restante materiale fotografico pubblicato è stato realizzato da BBQ4All e/o acquistato e/o licenziato allo stesso, con trasferimento dei diritti di utilizzazione economica salvo le immagini utilizzabili con licenza Creative Commons o GNU Free Documents Attribution. BBQ4All ha osservato le più ampie tutele affinchè non venisse violato il diritto d’autore altrui.
EDITORIALE di GIANFRANCO LO CASCIO
La bistecca scientifica:
REVIT e SOUS VIDE a confronto
Facciamo un gioco di ruolo. Voi siete un cameriere, io un commensale. Sono seduto, consulto il menù con prontezza, voi vi avvicinate al tavolo ed io esclamo: “Un calice di vino per favore”. Voi cosa fate, a quel punto? Oltre a cadere dal pero intendo. Quante domande pensate siano necessarie per capire quale tra le decine di bottiglie disponibili in cantina sia proprio quella che fa al caso mio? Lo voglio bianco o rosso? Secco o fruttato? Del Nord o del Sud? Estero? Fermo o mosso? Ora invertiamo le parti, immaginate di essere voi il cliente e io il macellaio. Alla domanda “Posso avere una bistecca frollata” quanti quesiti dovrei sottoporvi per capire che tipo di carne frollata state cercando? Vitello, vitellone, manzo, scottona, vacca? Quanto marezzata? Allevata da chi e dove? Italiana o Estera? Chianina, Angus o Wagyu?
glierla e cucinarla in maniera adeguata, oppure continuare a vivere nell'incertezza e nella confusione, la stessa che avreste, o per meglio dire avremmo, nello scegliere tra una seta Bourette e una Crêpe (bóne le crêpe!) Alcuni preferiscono nascondere la testa sotto il rub. Comprano carnaccia a caso, da chiunque, senza avere la benché minima idea di cosa vogliano dire certe sigle e certi nomi stampati sulle confezioni. E poi ci sono quelli come voi, miei affamati lettori, i testardi del gruppo. I maniaci del controllo. Quelli che devono andare in fondo alle cose perché è vitale riuscire a trovare il bandolo della matassa. Facciamo un ripassino su ciò che ripeto spesso riguardo al Revit (Reverse searing a 52°C più dry brining) che male non fa:
Dovreste ormai avere ben chiaro che la frase “Una bistecca frollata” non vuol dire assolutamente nulla, e nella maniera più categorica.
Ho detto che è sconsigliato farlo con le carni fresche, non marezzate e non frollate? Sì, vero. 2. Ho detto che ha senso farlo con le carni frollate? Sì, vero. 3. Ho detto che non ha senso farlo con la GLC Top Selection? Sì, vero.
• •
Non esiste “il vino”. Esistono “i vini”. Non esiste “la carne frollata”. Esistono “le carni frollate”.
Eppure c’è qualcuno tra voi che è ancora un pochino confuso, ma lo Zio è qui apposta per spiegare.
Ora, se volete bere bene avete due strade: o imparate a conoscere i vini oppure vi affidate ad un esperto.
Pensate che tra il punto numero due e il punto numero tre non ci sia niente in mezzo? Beh, ho una buona e una cattiva notizia per voi. La cattiva è che tra il secondo e il terzo aspetto c'è un abisso profondo. Vi ricordate quando sopra ho fatto l'esempio del vino? Bene, è il momento di capire perché. E questa è la buona notizia.
Vi sarà capitato almeno una volta nella vita di leggere nomi di vitigni o di cantine che non vi dicevano assolutamente nulla. Perché non eravate o non siete esperti di vino. Non è mica un crimine eh, avrete senz’altro competenze in altri settori e passioni per altri piaceri materiali. Per esempio, so per certo che avete una sana ossessione per la carne. Quindi, appurato ciò, non vi resta che imparare a sce-
1.
Parto dal presupposto che abbiate studiato la Mail Class e che abbiate letto i miei vecchio editoriali, perché non posso riscrivere un fiume di roba sulla frollatura, marezzatura e dry brining. LUGLIO 2020
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Secondo voi, due banane, una molto acerba e una matura, hanno la stessa struttura e consistenza? No. Hanno lo stesso sapore? No. Alla masticazione sono due prodotti completamente diversi. La prima è turgida, acre, che lascia una nota erbacea sulla lingua e la sensazione di bocca asciutta. Quella matura è soffice, vanigliata, con sentori vagamente alcolici e lascia una sensazione di unto e fauci impastate. Eppure sempre banana è, giusto? Il punto, nelle intenzioni, è identico che con la carne. Tanto sempre carne è, giusto? Una carne non frollata e non marezzata custodisce una struttura proteica praticamente integra. I complessi di miosina, actina e connettivo non sono ancora stati attaccati dai processi enzimatici. Conservano perfettamente la loro elasticità. Somministrare calore ad un pezzo di carne non frollata significa strizzarla
completamente, provocare l'espulsione dei liquidi grazie alla pronta risposta delle strutture proteiche. L'assenza di grasso infiltrato nelle fibre è indice di mancanza di sapore. Perché, come sappiamo, le informazioni aromatiche del bovino sono principalmente registrate nel grasso. Fare Revit su carni di questo tipo, quindi, è assolutamente sconsigliato perché controproducente. Si asciuga la carne esteriormente, si strizza all'interno, le proteine si contraggono e il risultato è un gustosissimo trancio di cartone ondulato. E allora cosa vi consiglio in questo caso? Se proprio non riuscite a fare a meno di comprare la carne sotto casa, mettetela in dry brining per almeno un giorno e mezzo. Il sale produrrà una degradazione non enzimatica dei complessi proteici rendendola quantomeno decente alla masticazione. Metterla in Reverse non è consigliato perché non è detto che dentro il vostro pezzo di ciccia ci siano
calpaine e catepsine. Non è nemmeno certo che alla temperatura corretta questi enzimi si attivino. È molto probabile invece che la bistecca si trasformi nel tappetino del mouse. Nel dubbio, dry brining sì, Reverse no. Passiamo alle carni frollate e marezzate “che trovate in giro” e che devono essere: 1.
Ricavate da bovini allevati con standard qualitativi elevatissimi 2. Perfettamente frollate e ben marezzate 3. Succose e tenere 4. Economiche Una carne economica non può essere anche allevata con elevatissimi standard qualitativi, perfettamente frollata e marezzata, buonissima, succosa e tenera. Produrre una carne di questa risma significa sostenere costi di produzione sensibilmente elevati. E dovete mettervi nella zucca che questi costi qualcuno li deve pagare. E che nessuno vi fa risparmiare perché si preoccupa di voi. Un prezzo stracciato attira un bacino di persone con basse capacità di spesa. E queste persone vivono nell'illusione di agguantare la migliore qualità possibile per pochi spiccioli. E vantandosene pure. Ma se vi fermate un attimo a riflettere, come potrebbe una persona ammettere di aver comprato un prodotto di scarsa qualità, ad un prezzo basso, senza sentirsi un po' fessacchiotto? Esatto, non può. Deve necessariamente uscirne, in qualche modo, vincitore: “Ho comprato un’ottima carne ad un prezzo bassissimo, sono un grande, ho fatto un affare!” Questa è, nella media, l'illusione del consumatore che fa la corsa al risparmio. Molti ne sono addirittura ossessionati. Pensate ai saldi. Poi c'è la realtà, quella brutta, che ti dice che un'Alfa Romeo non sarà mai una Bentley. E chi compra Bentley lo sa. E chi produce Bentley lo sa. Perché nel processo di produzione, la corsa al risparmio non è minimamente tenuta in considerazione. La Bentley costa quello che costa semplicemente perché non è prodotta sulla base di compromessi al ribasso. Ma veniamo al punto:
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Certo che esistono carni che stanno nel mezzo tra “Frollata e Marezzata” e “GLC Top Selection”. Ed è per raggiungere risultati accettabili su queste carni che vi ho insegnato le tecniche di cui abbiamo parlato. Non voglio mettermi a fare nomi di brand, marche, farms eccetera. Non è questo il punto. Il punto è che se non è nel Megastore non è Top Selection. Esistono carni allevate con metodi “non al top”. Che hanno un sapore “non al top” e che hanno una consistenza “non al top” pur essendo ben marezzate e ben frollate. Queste sono le carni con cui potete, anzi dovete usare le tecniche che vi ho insegnato. Perché la struttura è comunque almeno in parte degradata. Perché il grasso garantisce un sapore dignitoso e una buona morbidezza e perché si può ancora intenerire agendo a livello enzimatico. Ecco perché vi dico di applicare il Revit con le carni che trovate in giro. Se non avete capacità di spesa per il Megastore (e non c'è assolutamente nulla di male in questo) e volete comunque divertirvi, le tecniche che vi ho insegnato vi permetteranno di migliorare sensibilmente il risultato finale. Vi consentiranno di intenerire la carne, di asciugarla all'esterno per una buona Maillard che amplifica il sapore e tutto il palinsesto. Parliamo invece della carni che ho selezionato per voi • • • • •
Standard qualitativi? I migliori del globo. Frollatura? Mai meno di 45/50 giorni. Marezzatura? Da molto marezzata a spaventosamente marezzata. Sapore? Indimenticabile, dà assuefazione Tenerezza? Imbarazzante
Perché io la scelgo per voi già così. Ovvio che poi ci si può giocare. La mia selezione regge un Reverse di 8 ore? Certo che sì! Ma non è fondamentale farlo. Vi aiuterà semplicemente ad asciugare la ciccia e ottenere una Maillard migliore. La mia selezione regge un dry brining di 36 ore? Certo che sì! Ma non è fondamentale farlo. Vi aiuterà semplicemente a conferire una sapidità uniforme. La mia selezione regge una cottura Sous Vide di 4 ore a 52 gradi? Certo
che sì! Ma non è fondamentale farlo. Perché è già tenera, è già burro. Farlo vi permetterà di scaldare la bistecca uniformemente prima di passarla sul ferro. Ma è davvero utile tenerla 4 ore a bagno? No. Ora, davvero, a me sembra tutto molto chiaro e lineare. E spero che la confusione si sia dissipata leggendo questo mio scritto. Il Revit, Reverse searing a 52 gradi più dry brining – una procedura che ho messo a punto personalmente – è una tecnica che ho studiato per permettervi di ottenere risultati migliori con carni che non sono le migliori in circolazione e che incontrano la capacità di spesa di molti. Ma ribadisco, a gran voce, per la mia selezione, le tecniche che avete imparato potete modularle in modo funzionale al risultato.
Volete una Maillard più marcata? Sapete come fare. Volete scaldarla uniformemente? Sapete come fare. Volete mangiarla dallo skin buttandola in padella? Sapete come fare. Volete farla in sous vide? Sapete come fare. La mia carne vi perdona tutto, pure gli errori. Le altre non vi perdonano niente.
Quindi ci hai insegnato il Revit per dimostrare che le carni da battaglia non potranno mai arrivare ai livelli della GLC Top Selection, nemmeno con questa tecnica? Sì, è esattamente così. Ma vi ho dato uno strumento per cucinare e mangiare la carne molto meglio di chiunque altro. E mi sembra che su questo, dubbi, non ce ne siano più.
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ESPERIMENTO N.2
Bistecca preparata con il metodo REVIT: Maillard
RIBEYE in REVIT VS RIBEYE SOUS VIDE + ASCIUGATURA A 52°C Ma adesso vediamo cosa succede quando metto a confronto due delle mie “fettine”, una trattata con metodo Revit e una scaldata brevemente sottovuoto e poi asciugata in forno a 52°C. Ho preso due ribeye australiane AACO Wagyu F1 Crossbreed, con un livello di marezzatura medio-alto (3+) e dello stesso peso (400 gr.). Che cos’è il Wagyu F1? È il risultato di una selezione genetica di incroci fra bestiame Wagyu giapponese con raz-
ze continentali: potete ammirare dalle fotografie la trama straordinaria del grasso intramuscolare dipinta sulle due bistecche. Per questa tipologia di carne, già frollata e marezzata, basterebbe una leggero tamponamento con carta assorbente e una bella botta di calore su ghisa fino al raggiungimento della temperatura ottimale al cuore. Ma noi vogliamo tutte le sfumature del godimento, non ci possiamo accontentare della cottura alla brutazza.
Prendo la prima ribeye, cospargo con il sale da una parte e dall’altra e lascio in frigorifero fino al giorno dopo. Trascorse le dodici ore, piazzo la bistecca su una teglia forata e la schiaffo in forno ventilato a 52°C (viene benissimo anche nell’essiccatore). Apro lo skin pack della seconda ribeye, asciugo con carta assorbente e la trasferisco in un sacchetto adatto alla cottura sottovuoto. Preriscaldo il bagno termostatico a 52°C e quando l’acqua ha rag-
Bistecca preparata con il metodo REVIT: cottura interna
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Bistecca scaldata sottovuoto e poi asciugata a 52°C: Maillard
giunto la temperatura target immergo il prezioso pacchetto con la carne. Dopo 30 minuti, il tempo di scaldarla, tiro fuori la bistecca dal sacchetto e la asciugo con cura con la carta. Adagio su una teglia forata e piazzo in forno a 52°C per un’ora.
52°C al cuore, lascio riposare per qualche minuto prima di sbranarla. Potete analizzare il risultato in foto: crosta accentuata e color mogano, cottura uniforme e priva di mouse ring (l’alone grigio che sa di lesso), interno umido e succoso.
Trascorsi i 60 minuti asciugo la seconda ribeye con carta assorbente, più volte, ungo con poco olio e sbatto su piastra rovente in ghisa, misurando la temperatura con un termometro ad infrarossi (300°C). Tengo la carne a stretto contatto con la superficie incandescente per pochi secondi per lato, il tempo necessario per ottenere una buona reazione di Maillard ed una temperatura di
Passiamo all'altra bistecca: tampono leggermente, tanto è già asciutta all’esterno, ungo con olio e piazzo sulla piastra in ghisa, che ha raggiunto nuovamente i 300°C. Cuocio 30 secondi per lato, non di più, e il risultato è avvolto in una crosta soffiata color caramello, cottura al cuore omogenea e impeccabile, interno umido ma meno grondante rispetto alla sorella scaldata sottovuoto.
E il gusto? Eccezionale in entrambi i casi. La bistecca fatta in Revit ha un sapore più concentrato e una crosticina superficiale scrocchiarella, mentre la bistecca scaldata in sous vide e poi asciugata in forno risulta più succosa e umida. Qual è la migliore? Tutte e due. E sono entrambe migliori di tutte le bistecche che trovate in giro. Gianfranco Lo Cascio
Bistecca scaldata sottovuoto e poi asciugata a 52°C: cottura interna
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INDICE LUGLIO 2020 - NUMERO 19 ANNO 2
RUBRICHE
3 . L ' E D I TO R I A L E D I G I A N F RA N CO LO CASC I O
Revit e sous vide a confronto 1 1 . PO RT FO L I O G AST RO N OM I CO / 1
LA GLOBALIZZAZIONE AI TEMPI DI COLOMBo 1 7 . PO RT FO L I O G AST RO N OM I CO / 2 TACCHINO RIPIENO NEL BARBECUE 2 0 . A PP RO FO N D I M E N T I DIVENTARE ASSAGGIATORE
RICET TE DI LUGLIO AMERICAN DREAM, ITALIAN BBQ
24. COBB SALAD 26. DEEP DISH 29. GUMBO 35. MEMPHIS STYLE PORK RIBS 38. POMODORI VERDI FRITTI 41. CHIMICHANGA 44. SLOPPY JOE 49. JUICY LUCY 52. FRENCH DIP 54. LA BAGUETTE PERFETTA 60. PANcake 64. VINI E BIRRE CONSIGLIATi
APPROFONDIMENTI 69. ARTE CASEARIA
IL MONTEREY JACK
7 4 . # C H I E D I A LCOAC H / I N T E RV I ST E
INTERVISTA A SAL DI MENTO GLI IDROCOLLOIDI - PARTE 1 8 0 . L A R I C E T TA S C I E N T I F I C A D I G I A N F R A N C O BRACIOLA DI MAIALE E PATATE ARROSTO 92. SEGUO NON FARE quella faccia 77. THE CHEMICAL GRILLER
LO CASC I O
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PORTFOLIO GASTRONOMICO a cura di ALBERTO ZONGHETTI
la
GLOBALIZZAZIONE ai tempi di colombo
I cibi che abbiamo importato dalle Americhe e che sono diventati i simboli della nostra cucina. È da poco finito giugno, il mese degli esami di maturità: può capitare a noi docenti, verso la quarta ora di colloqui, che il nostro pensiero ogni tanto possa divagare, soprattutto quando il candidato inizia a parlare di morfologia greca e magari non conosciamo nulla di tale lingua. Accade allora che la mente possa concentrarsi sugli argomenti trattati precedentemente che ci ricordano il nostro, di esame, diversi anni, decenni addietro. Qualche giorno fa è capitato al celebre “Dialogo tra la Natura e un Islandese” di Giacomo Leopardi, che qualcuno di noi ricorderà, alcuni con orrore, altri con entusiasmo (io appartengo, lo ammetto, alla seconda categoria); altri, forse, non lo ricorderanno affatto. Così, tra le riflessioni, la stanchezza e l’anidride carbonica inalata dopo ore di respirazione con la mascherina, si sono confuse in un viaggio onirico ad occhi aperti le parole del sommo poeta di Recanati e quelle di Michela Bongiorni, caporedattore del Magazine (“dovrai scrivere un testo riguardante i prodotti che nei secoli scorsi abbiamo importato dall’America”). Ne è nato questo breve dialogo immaginario che, me ne sono accorto mentre concludevo la stesura, è fortemente influenzato dalle surreali situazioni dipinte con maestria all’interno della rubrica “Seguo” (della quale ammetto di essere un fan) . DIALOGO TRA UN DISCEPOLO DI LO CASCIO (O DEL BUON SENSO) E UN BUCASALSICCE (O DELL’ITALICO MEDIO) […parlando di cucina] DISCEPOLO:… poi mi piace viaggiare, sono andato spesso in molti paesi esteri. BUCASALSICCE: Hai trovato molti ristoranti italiani? D: Veramente non li ho proprio cercati… B: Che hai fatto, hai mangiate quelle schifezze che ti danno fuori dall’Italia? D: Schifezze…non direi, anzi ho trovato diversi spunti interessanti. B: Si, per il cibo dei cani! D: Ma no, questo è un pregiudizio, in realtà se prendi in esame la cultura del luogo puoi comprendere che la cucina del posto… B: Non giriamoci intorno, la cucina italiana è la migliore del mondo! D: Sicuramente tra le migliori, intendo per la varietà da cui è costituita e dall’attenzione per il cibo anche nella quotidianità. B: Pensa a quanto cibo italiano abbiamo esportato! E poi alla dieta mediterranea! I nostri simboli: il pomodoro, caspita, un monumento dobbiamo fargli! I peperoni, i peperoncini, le melanzane. Penso a mia nonna e ai suoi gnocchi di patate… D: Veramente tutti questi prodotti vengono dal Sudamerica, sai, Cristoforo Colombo, poi i Conquistadores… B: Non mi toccare i fagioli con le cotiche della trattoria “Da Maria”! D: Anche quelli sono importati, in Europa esisteva solo una varietà oggi abbastanza rara, i fagioli con l’occhio, piccoli e diversi da quelli conosciuti oggi. B: [espressione attonita] D: In realtà, tranne le melanzane che provengono dall’Asia, sono tutti importati dall’America, assieme al tacchino, al mais, al cacao, alla zucca, all’ananas e a diversi altri prodotti, magari meno utilizzati: le arachidi, la vaniglia, l’avocado, il mango, la papaya. B: Eh si, ma allora che mangiavamo prima? Mi sa che sei un complottista anti-italiano, avrai letto delle fake- news! D: Guarda che lo puoi trovare in molti testi che parlano di cucina. B: E chi ha il tempo [e voglia, aggiungo io] di leggere! D: Si, in effetti hai ragione, leggere al tempo d’oggi proprio non è di moda. LUGLIO 2020
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Il termine che ho usato per il titolo di questo articolo – globalizzazione – è fondamentalmente utilizzato in modo improprio: tale fenomeno è infatti stato introdotto negli anni ’90 del secolo scorso per indicare un insieme piuttosto ampio di accadimenti, connessi con la crescita dell’integrazione economica, sociale e culturale tra le diverse aree del mondo. Ma Cristoforo Colombo è considerato da alcuni il padre, inconsapevole, della globalizzazione: dopo di lui infatti tutto si rinnova: frontiere, spazi, mercati, una nuova economia mondiale, con regole e protagonisti diversi, sconosciute antichissime e floride culture, ma anche nuovi problemi e tragedie. Noi parliamo però di cibi, cucina, tradizioni: molti sono a conoscenza del fatto che, anche se potrà sembrare strano, fino al 1492 non esistevano in Europa molti prodotti che oggi ci sembrano l’emblema della nostra cucina e della dieta mediterranea. La nostra domanda è la seguente: quali prodotti sono stati importati dalle Americhe? L’elenco lo potete trovare ovunque all’interno della Rete: noi cercheremo di capire, invece, le ragioni profonde del perché un prodotto importato sia stato capace di inserirsi o meno all’interno della tradizione gastronomica italiana. Sembrerebbe semplice: arrivo in una terra nuova, trovo prodotti alimentari mai visti, li assaggio, accolgo quelli che mi piacciono, ringrazio, e li inserisco nella mia cucina. Sbagliato, non è proprio così. L’adozione e l’incorporazione di nuovi alimenti, sia nella cucina italiana sia nelle varie tradizioni gastronomiche del mondo, non sono avvenute immediatamente, né in maniera consequenziale. Dopo un viaggio fisico attraverso l’Oceano Atlantico, i nuovi cibi dovevano spesso completare un percorso teorico, psico12 - BBQ4All MAGAZINE
logico, culturale nelle menti del pubblico a cui si rivolgevano per essere riconosciuti come alimenti. Ci sono almeno tre fattori che hanno determinato la diffusione dei nuovi ingredienti. Il primo riguarda la presenza o meno di omologhi, ovvero di prodotti simili già riconosciuti come cibi sani e salutari nel sistema gastronomico italiano; per esempio, l’associazione del tacchino al pavone, o il mais ad altri grani, facilitava il loro trasferimento dai giardini di meraviglie agli orti di cucina. In altri casi, invece, l’omologo trovato ostacolava la sua incorporazione, come ad esempio nel caso del pomodoro, guardato all’inizio come una pianta pericolosa al pari della mandragola. Il problema per le patate, invece, era che gli alimenti europei a cui erano paragonate non chiarivano il loro possibile uso culinario; l’aspetto esteriore assomigliava ai tartufi, ma non si poteva usarle nello stesso modo. Il secondo fattore si collega alla possibilità di far parte o meno della cucina rinascimentale, caratterizzata da sapori forti, da spezie aromatiche, da salse di accompagnamento e artificio: il tacchino, ad esempio, è entrato nella cucina delle classi alte in ricette elaborate e speziate. Il terzo e ultimo aspetto riguarda le classi sociali, in quanto i cibi venivano percepiti in modi diversi dai vari ceti: per i poveri il tacchino era soltanto un simulacro del paese dei sogni, mentre era alimento centrale per i ricchi; il granturco invece era mangime per animali, che soltanto i poveri con i loro stomaci forti potevano abbassarsi a mangiare. Le divisioni sociali così rigide si allentarono con il passare dei secoli, per arrivare al tempo dell’unificazione italiana e dell’industrializzazione
delle città: a questo punto la cucina borghese esemplificata nel libro di Pellegrino Artusi, La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene pubblicato nel 1891, è diventata lo stile nazionale. Ma poniamoci un’altra domanda per comprendere ancora meglio il nostro viaggio: che cosa trovarono gli spagnoli al loro arrivo nel Nuovo Mondo? LA CUCINA AZTECA Arrivando nelle Americhe, gli spagnoli si confrontarono con una vera e propria tradizione culinaria, poiché gli Aztechi avevano elaborato una cucina fra la più raffinate della meso – america e, addirittura, pare che godessero di un regime alimentare più vario ed equilibrato di quello degli europei contemporanei. L’elemento base della cucina azteca era il mais, un tipo di coltivazione molto importante nella loro società, come lo era il frumento in Europa o il riso in buona parte dell’Asia orientale. Esistevano numerose varianti per colore, aspetto, dimensione e qualità, e veniva consumato sotto forma di tortilla, tamal e atole. La combinazione di questo ed altri alimenti base – sale, peperoncino, fagioli, semi di amaranto - forniva all’azteco medio una dieta completa senza carenza di vitamine o minerali. La sua alimentazione comprendeva un’incredibile varietà di animali: tacchini ed altro pollame, geomidis (una sorta di roditore), iguana, axolotl (un genere di salamandra d’acqua), gamberi, pesci e molti insetti e larve. Le cucurbitacee erano popolari e venivano cucinate in molti modi: fresche, essiccate o arrostite, se ne mangiavano anche i semi. I pomodori, molto differenti dalle varietà coltivate oggi, erano consumati sotto forma di salse mischiati con peperoncini o come ripieno del tamal (per una magnifica reinterpretazione moderna dei ta-
males si veda il numero di settembre 2019 del nostro Magazine). La cucina azteca oltre ad essere varia era anche raffinata: ogni piatto era accompagnato da salse di differente colore (pomodori verdi e peperoncini verdi; pomodori rossi e peperoncino rosso) e da erbe aromatiche tagliate finemente. LA CUCINA RINASCIMENTALE Ma, di contro, quali erano le caratteristiche della cucina Rinascimentale? In attesa di un futuro approfondimento sulle pagine del nostro Magazine, ci basta sapere che tra le principali troviamo le spezie, anche se con Maestro Martino ci si avvia verso un loro uso più cauto e discreto rispetto agli eccessi medievali. Iniziamo intanto a sfatare un mito: l’idea molto diffusa dell’uso degli aromi per mascherare il gusto di carne imputridita è sbagliata. Le spezie, ricordiamolo brevemente, erano utilizzate come segno del benessere di chi ne faceva uso, oltre a bilanciare l’equilibrio dei cibi. Inoltre erano importate dall’Oriente e costavano molto di più della carne, quindi chi poteva comprarle non le sprecava mettendole sui cibi putrefatti. In ogni caso, sappiamo con certezza che una della ragioni commerciali che spinsero l’esplorazione delle Indie e delle nuove terre consisteva nella possibilità di acquisire importanti quantità di spezie. A livello culinario, altri elementi caratteristici dello stile rinascimentale erano la preponderanza della carne, l’importanza delle salsa di accompagnamento e la mescolanza del dolce e del salato, dato che lo zucchero era considerato una spezia. Un apprezzamento per l’artificio era un altro tratto distintivo di questo stile, elemento che si vede nelle sculture elaborate di
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zucchero chiamate trionfi, nelle preparazioni complicate con tanti ingredienti, e nelle presentazioni vistose, volte ad impressionare i commensali. IL PURGATORIO ORTIVO Il termine “Purgatorio” indica, nella teologia cristiana, uno dei regni dell’oltretomba, che rappresenta lo stato intermedio e transitorio di espiazione in attesa del Paradiso. Nel linguaggio parlato, lo utilizziamo come luogo di attesa, una “sosta a lungo termine” nell’aspettare un evento piacevolmente risolutivo. Per questo diciamo che tutte le piante precolombiane sbarcate in Occidente – di cui tra poco parleremo con maggiore dettaglio - conoscono il purgatorio dei giardini botanici, principeschi ed ecclesiastici. Arrivati come delle curiosità, molti dei vegetali americani saranno, per un certo periodo, coltivati unicamente come piante ornamentali, come ad esempio le varie specie di pomodoro nel corso dei secoli XVI e XVII, oppure il peperoncino, denominato in Francia corallo del giardino. Nell’attesa, il purgatorio ortivo può rivelarsi particolarmente lungo, a volte anche diversi secoli. Alcune diventeranno piante ortive (peperoncino, pomodori), altre, più robuste, lasceranno il giardino per essere coltivate nei campi (mais, patate). Alcuni vegetali non supereranno mai lo stadio della curiosità, sia per evidenti ragioni climatiche sia per delle questioni di gusto e di mode culinarie. È il caso del peperoncino, che in Francia non interessa ad una nuova cucina sempre più lontana dalle spezie, mentre si impone in Spagna ed in Italia meridionale sin dalla prima metà del XVI secolo. IL POMODORO Parliamo dell’emblema dell’italianità, del frutto (sembra strano, ma botanicamente è considerato tale) che trascende le distinzioni regionali e sociali, uno degli alimenti più diffusi in tutto il mondo: basti pensare alla pizza, alla pasta, ai sughi, alla caprese e così via. Ed è proprio al pomodoro che dedicheremo più spazio all’interno di questo percorso. Il suo ingresso nella cucina italiana è stato tardivo e faticoso: giunse in Spagna dalle Americhe ad inizio del ‘500, ma non ebbe un gran successo, forse proprio perché era una pianta radicalmente nuova, che colpiva ma anche sconcertava per la forma e per il colore rosso acceso. Veniva considerata velenosa 14 - BBQ4All MAGAZINE
in quanto presentava affinità con specie tossiche come l’erba morella e la mandragola. I primi pomodori erano presumibilmente piuttosto piccoli, tanto è vero che venivano scambiati per grosse ciliegie; alcune specie erano gialle e per questo, sembra, gli italiani li battezzarono pomi d’oro (mela d’oro, pomodoro). “Al mio gusto è più presto bello che buono”, dichiarò un medico modenese dell’epoca. L’Italia fu il primo paese europeo, dopo la Spagna, a conoscere questo frutto, grazie agli stretti rapporti esistenti tra i Borbone e le famiglie regnanti dell’epoca, e ai domini spagnoli su territorio italiano. Ma la sua diffusione nel nostro Paese fu tuttavia assai lenta: la diffidenza iniziale verso il nuovo frutto, non associabile a nessun cibo già conosciuto, ne mortificò a lungo le potenzialità gastronomiche. Furono le classi popolari che cominciarono a degustarlo per prime, friggendolo nell’olio con sale e pepe, allo stesso modo delle melanzane e dei funghi. Sulle tavole dei ricchi, ancora alla meta del ‘600, il pomodoro compariva soltanto come elemento di decoro. Solo alla fine del Seicento riemerge nella cucina alta grazie al ricettario napoletano Lo scalco alla moderna di Antonio Latini (1692/4), nel quale troviamo la «salsa di pomadoro”. Questa diffusione è facilitata dal fatto che il suo utilizzo come salsa di accompagnamento rientra nella modalità d’uso che in un certo senso favoriva l’accettazione del nuovo prodotto, riconducendolo nell’ambito di una tradizione gastronomica consolidata, quella antica, medievale, rinascimentale. Anche per questo il pomodoro trova piena accoglienza nella cucina italiana del Sette-Ottocento: il toscano Panunto, il romano Leonardi e il napoletano Vincenzo Corrado lo includono ormai senza remore nei loro ricettari. Troviamo le prime testimonianze di associazione con la pastasciutta e con la pizza nel Cuoco maceratese del 1779 di Antonio Nebbia e poi in Cucina casereccia pubblicato nel 1839 da Ippolito Cavalcanti. Il matrimonio con la pasta segna dunque nell’Ottocento, dopo tre secoli dal suo arrivo in Europa, il trionfo del pomodoro: la versione moderna della salsa e dei suoi usi ci è data da Pellegrino Artusi nel 1891. IL MAIS Portato da Colombo nel 1493, viene inizialmente coltivato, nel corso del XVI secolo, in Andalusia, nella Castiglia ed in Catalogna. Lo ritroviamo anche in Italia, allora sotto influenza spagnola. In Francia si impianta durevolmente nel sudovest a partire dalla prima metà del XVII secolo. Per comprendere le vicende riguardanti la sua diffusione in Europa dobbiamo recuperare la concezione, oggi a noi lontana (per certi versi) della stretta correlazione tra cibo e classi sociali: i ricchi mangiavano frumento, i contadini i cereali meno pregiati. Il percorso del mais nel Vecchio Mondo vede pertanto due strade: gli abbienti e gli studiosi lo piantavano nei giardini
come un pianta ornamentale da collezione o come una meraviglia venuta dal Nuovo Mondo, i contadini lo coltivavano come mangime per gli animali. Con l’arrivo delle carestie, che colpiscono spesso l’Europa nel’500, il mais diventa, da cibo per bestiame, un alimento importante nella dieta dei poveri, dato il suo alto rendimento rispetto agli altri cereali e alla ottimale integrazione nel ciclo di rotazione delle colture. La sua immagine, però, soffrirà molto del fatto di essere adoperato per nutrire gli animali e di venire utilizzato come cereale di sostituzione in caso di carestia. Per questi motivi non godette di un grande successo e la sua diffusione in Europa fu lenta e discontinua durante il XVI e XVII secolo, fatte pochissime eccezioni come il territorio del Veneto: lì verrà accolto con maggiore entusiasmo dando origine alla polenta, uno dei piatti più rappresentativi di questo territorio. Solo successivamente otterrà un ruolo primario nell’alimentazione e diventerà parte integrante della cultura alimentare del Vecchio Mondo, superando le resistenze sociali che inizialmente ne avevano condizionato l’affermazione. LA PATATA Come il mais, non fu immediatamente apprezzata dagli italiani, ma accettata soltanto durante periodi di fame e di carestia. Il tubero americano doveva fare i conti con diversi fattori principali che ostacolavano la sua incorporazione nella cucina del Belpaese. Primo, la pianta fa parte del genere solanaceae; altri membri di questo genere già conosciuti in Italia erano la mandragola e la belladonna, tutte e due piante velenose (infatti il frutto e le foglie della patata sono tossici). Un secondo problema era che i medici del tempo associassero le radici della pianta ai noduli dei malati di cancro e di lebbra. Altro fattore che minava alla popolarità dell’uso delle patate, almeno da parte degli aristocratici, era la sua identità di radice. Le parti commestibili crescono sottoterra e questo voleva dire che la patata era appropriata soltanto ai poveri, che avevano stomaci adatti a digerire gli alimenti “forti” provenienti dalla terra. Il problema più grande era però rappresentato dal non avere omologhi europei, mancavano le “istruzioni per l’uso” necessarie all’utilizzo del tubero bitorzoluto: assomigliava al tartufo ma non ne condivideva alcuna caratteristica. Pertanto anche questo alimento inizialmente stenterà ad affermarsi in Europa se non come cibo di carestia, fatta eccezione per l’Irlanda, dove si diffuse tra i ceti popolari già nella seconda metà del Seicento. Nel Settecento si assimilò il suo impiego a quello, tradizionale, delle rape: “Allessate e tagliate in fette condite con agli, pepe, petrosellino, e oglio in un tegame – spiega l’agronomo riminese Giovanni Battarra– fanno un manicheretto gustoso”. Nello stesso secolo, in Francia, l’agronomo Parmentier ne apprezzò le qualità e promosse la diffusione su larga scala, che fu sollecitata anche dai pubblici poteri di altri stati europei. Più tardi, agli inizi dell’Ottocento, si affermò anche nella cultura “alta” e, a differenza del mais, andò ad occupare uno spazio fino ad allora sconosciuto.
Inoltre si cominciò a usare nell’impasto degli gnocchi, una vivanda cara al gusto popolare fin dal Medioevo, preparata sino a quel momento con farina o con pane grattugiato. Del resto, l’esperienza non tardò a mostrare quante raffinate elaborazioni fossero possibili con il nuovo prodotto d’oltreoceano: già i libri di ricette del primo Ottocento rivelano l’attenzione dei palati raffinati per l’uso in cucina della patata. Vincenzo Corrado, partenopeo, include un Trattato sulle patate o pomi di terra nel suo Cuoco galante. Da questo momento il tubero entra di diritto nella nostra recente tradizione gastronomica. PEPERONE E PEPERONCINO Più difficile appare la “promozione sociale” di un altro cibo americano, il peperone, che stenta parecchio, probabilmente per mancanza di cibi somiglianti, ad affermarsi nella cucina italiana. Ne troviamo alcuni cenni nella letteratura gastronomica del XVII secolo: Carlo Nascia lo propone per la cottura del tacchino, Antonio Latini per insaporire alcune salse. Stessa tiepida accoglienza, un secolo dopo, nel Cuoco galante di Corrado, che qualifica il peperone come “cibo rustico e volgare” pur ammettendo che piace ormai “a molte persone”: in tal modo ci lascia immaginare vicende in parte simili a quelle del pomodoro. Nel XIX secolo, i peperoni sott’aceto di un oste veronese finiranno sulla tavola di Napoleone, dell’imperatore d’Austria e del re di Napoli: vicende che ci fanno capire come questo alimento abbia iniziato ad essere introdotto nella cucina aristocratica e borghese. Oggi è un simbolo della cucina mediterranea e tutte le popolazioni che si affacciano su questo mare ne conoscono innumerevoli ricette: dalla Spagna al sud della Francia, dall’Italia alla Grecia. Il peperoncino, al contrario, appena introdotto ebbe un immediato successo tra le classi meno abbienti, grazie alla sua facile acclimatazione, diventando aroma “popolare” e “spezia infuocata” con la quale sostituire condimenti costosi come pepe, cannella, noce moscata. Gli aristocratici continuarono, invece, a confinarlo nei giardini, poiché una prodotto popolare e a buon mercato perde la caratteristica principale: l’esclusività. (Per un approfondimento sul peperoncino rimando al numero di gennaio 2020 del nostro magazine).
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IL FAGIOLO Questo alimento costituiva una delle basi dell’alimentazione delle popolazioni mesoamericane. Già al momento dello sbarco degli spagnoli, i fagioli erano costituiti da diverse varietà adatte quasi ad ogni clima e pertanto si dimostrarono superiori a molti legumi conosciuti nel Vecchio Mondo. Del resto fu proprio la familiarità di queste piante con quelle europee a permettere una sorta di riconoscimento prima e a facilitare, secondariamente, l’inserimento nell’alimentazione europea, facendo affermare il fagiolo già dal XVI secolo e favorendo ben presto la sua diffusione in Europa, Africa ed Asia. Ad ulteriore testimonianza di quanto fossero preziosi e ricercati i fagioli, ricordiamo la loro presenza nei ricettari del Messisbugo (assieme ai fagiolini), dello Scappi, e nel menù di un banchetto papale offerto nel 1570. In ogni caso, le nuove varietà importate dal Nuovo Mondo risultavano decisamente più produttive, versatili, dal sapore decisamente migliore.
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Non mi sono soffermato su altri prodotti e alimenti introdotti dalle scoperte del Nuovo Mondo perché ho scelto semplicemente di dare spazio ai cibi più diffusi e conosciuti nella nostra tradizione. Ricordiamo quindi cacao e vaniglia, da subito diffusi come spezie del Nuovo Mondo; la zucca, che però non era nuova in Europa; ananas, arachidi, vaniglia, avocado, mango, papaya, topinambur. E il tacchino? Il celebre volatile ormai divenuto simbolo della cucina Americana, il famoso Gallo d’India menzionato nei ricettari a partire dal’500, avrà uno spazio tutto suo nelle prossime pagine con una scheda dedicata e una ricetta preparata al barbecue. Per concludere, proviamo a ripensare alla lunga strada che hanno compiuto i nostri prodotti: dopo il viaggio transatlantico, e i percorsi culturali e mentali che li hanno fatti perveni-
RICETTA a cura di ALBERTO ZONGHETTI re sulla tavola italiana, questi ingredienti in realtà non hanno concluso il loro tragitto. Partiti dall’Italia con l’emigrazione iniziata il secolo scorso, le ricette tradizionali a base di questi ingredienti adesso fanno parte della cucina di altri posti, inclusi gli stessi luoghi d’origine da cui sono arrivati. L’emigrazione italiana rimandava tanti degli alimenti originari del Nuovo Mondo. Queste specie sono adesso così tipiche della cucina italica, che anche nei loro luoghi di nascita sono consumati in preparazioni d’origini italiane, come negli Stati Uniti dove il sugo di pomodoro, diventato ormai un cibo quotidiano, è spesso chiamato marinara.
come si fa: cuocere il leggendario
tacchino ripieno nel barbecue Le dimensioni contano. A volte. No, non pensate subito male (sorrisino). A tavola, nel Rinascimento, le dimensioni contavano. Contano anche quando oggi vogliamo stupire qualcuno con le nostre abilità sul sacro fuoco: a cosa serve una Tomahawk? Non impressiona forse i commensali quando con gesto d’imperio la afferriamo dall’osso e, girandola sopra la griglia rovente, la brandiamo come un ricco trofeo di caccia? E le Dinosaur Beef Ribs, che serviamo con l’aria trionfante di chi ha avuto veramente la meglio su un animale del Pleistocene? E il maialino intero, le mezzene degli asadores... insomma, quando si vuole impressionare i nostri commensali dal punto di vista culinario, le dimensioni contano, eccome. Come dette, erano importanti anche quattro-cinque secoli addietro, nel Rinascimento, quando il banchetto non era solo un lussuoso modo per nutrirsi, ma anche per ostentare ricchezza, potere, opulenza; non era un semplice pranzo, ma un vero evento sociale, uno spettacolo che prevedeva un’attenta regia e delle esibizioni artistico-culinarie. Inoltre, secondo il pensiero dell’epoca, la teoria della Grande Catena dell’Essere, i volatili ed il pollame (essendo carne che viene dall’aria e dall’alto) erano un cibo degno degli aristocratici. Gli uccelli grandi come il pavone, il fagiano, erano doppiamente stimati perché facevano una grande impressione. BREVE STORIA DEL TACCHINO E qui torniamo alle esplorazioni di Colombo: tra gli animali che portò in Europa dai nuovo territori scoperti – che pensava erroneamente essere le Indie – figura il tacchino, che fu tra i pochi cibi del Nuovo Mondo a raggiungere un immediato successo. Le ragioni sono semplici e molteplici: la prima è la presenza di omologhi di largo consumo in Europa, ovvero polli, fagiani e pavoni. Il Gallo d’India – così fu chiamato – riflette pienamente l’idea del “conosciuto” e dell’esotico (ma non troppo). Inoltre era già mangiabile, dal sapore molto gradito agli uomini del tempo. LUGLIO 2020
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Il fatto che i volatili in generale fossero più pregiati di altre carni è il terzo fattore che favorì l’arrivo del tacchino sulle tavole dei ricchi poiché, come abbiamo giù visto, già solo il fatto di essere un uccello rendeva nobili e degne le sue carni. Un gallo d’India arrostito e portato in processione alla tavola principale di un banchetto, dove un addetto trinciante lo tagliava davanti a tutti, era più che un piatto, era veramente uno spettacolo. Non a caso troviamo molto spesso i tacchini sul menu dei banchetti dei nobili, soprattutto in occasione di nozze fastose. La fortuna del nostro volatile continua fino al ‘700, come testimoniato da diversi ricettari e anche da interessanti opere d’arte. Ma questa pietanza oggi in Italia affascina come una volta? Nonostante il fatto che fosse uno dei primi alimenti del Nuovo Mondo a diventare parte della cucina italiana, il tacchino ai nostri giorni non è un alimento di particolare importanza. Anche se non è sconosciuto o ignorato, non è caricato di significati culturali come una volta. Infatti, anche in Italia, è più spesso associato con la tradizione alimentare americana che con quella italiana. Già all’epoca di Artusi, non aveva più l’importanza di un tempo dato che nel celebre volume “La Scienza in cucina e l’arte di mangiare bene”, il numero di ricette che richiedono il tacchino, delle 766 totali, è solo 8, di cui 7 lo suggeriscono soltanto come sostituto di un’altra carne quando non è disponibile. Forse questo è dovuto in parte al fatto che questi pennuti erano iconicamente associati all’alta cucina del Rinascimento, che a seguito dell’arrivo dello stile delicato venuto dalla Francia a cominciare dal XVII secolo, inizia a decadere. Come i fagiani, pavoni, oche, e faraone, i tacchini oggi non sono apprezzati come una volta, anche se sono probabilmente mangiati più spesso degli altri uccelli appena citati. Nessuno meglio dell’Artusi può spiegare bene questo fenomeno: “Le pietanze pur anche vanno soggette alla moda e come il gusto de sensi varia seguendo il progresso e la civiltà, ora si apprezza una cucina leggiera, delicata e di bell’apparenze e verrà forse giorno che parecchi di questi piatti da me indicati per buoni, saranno sostituiti da altri assai migliori”. 18 - BBQ4All MAGAZINE
LA RICETTA “Volendo cucinare il pollo indiano, leva lo sterno, stacca la carne e battila assieme a un poco di grasso, polpe di vitello, rosso d”uovo e carne di piccione, mescola ben bene, aggiungi le spezie e riempi il pollo con essa composizione, aggiungendo anche sale, pepe, chiodi di garofano pestati e capperi. Infila il pollo sullo spiedo, giralo adagio, e prima che il volatile sia cotto del tutto, ponilo in una pentola con del brodo buono, erbette aromatiche e funghi, fai soflriggere del lardo in una padella, poi levalo e nel suo grasso, soffriggi della farina, aggiungi poi un poco di brodo e di agresto, e versa essa salsa con un poco di sugo di limone sul pollo, e da ultimo servi in tavola. Quando che sia la loro stagione, aggiungi anche una mano di lamponi.” Questa è la ricetta originale di La Varenne, grande cuoco francese del Seicento, autore del fondamentale testo “Le cuisinier François”, del 1621, universalmente riconosciuta come la prima opera fondamentale della cucina classica d’Oltralpe. Il libro, che nel 1720 contava già oltre trenta riedizioni, univa la gastronomia italiana alle cucine regionali francesi, ponendo probabilmente le basi di una cucina “moderna”. Varenne era un sostenitore dei cibi leggeri e nelle sue ricette si proponeva di conservare il sapore originario degli alimenti, condannando l’esubero di spezie esotiche e proponendone piuttosto un uso moderato. Vi presentiamo la sua ricetta (riadattata al barbecue ovviamente) perché, a differenza di molte preparazioni che riguardano il tacchino e che troviamo a partire dal XVI secolo, questa è più adatta ai nostri palati. È un procedimento abbastanza lungo e laborioso, ma il risultato vale sicuramente il lavoro svolto. PROCEDIMENTO 1. Procuratevi un tacchino, o meglio una tacchinella, di massimo 5 kg. In mancanza un paio di polli da almeno 2/3 kg possono andare bene. Togliete eventuali residui di piumaggio dalla pelle, preparate una salamoia classica e fate le injection al volatile, poi ponetelo in frigorifero per 12/24 ore (per il pollo immergetelo nella salamoia per lo stesso arco temporale). 2. Preparate il ripieno: macinate il petto di pollo, e unitelo al lardo e al macinato di manzo. Fate rassodare
le uova, sbriciolatene il tuorlo e aggiungetelo al resto. Mescolate il sale, il pepe, i chiodi di garofano in polvere e i capperi. Riempite col composto il tacchino pulito. 3. Preparare il kettle per una cottura indiretta, stabilizzandolo a circa 160 C°. Utilizzare il girarrosto sarebbe perfetto. 4. Spennellate il tacchino con olio e applicate lo Spog avendo cura di metterlo anche sotto la pelle. 5. Posizionate il tacchino su una ampia vaschetta di alluminio (meglio se doppia) con il petto verso il basso, aggiungendo del brodo di pollo sul fondo e delle verdure tagliate grossolanamente (sedano, carota cipolla). Se invece avete lo spiedo, abbiate cura di posizionare una leccarda con poca acqua sotto al volatile per raccogliere i grassi di cottura. Aggiungete, se volete dei petali di legno aromatico per affumicare, il melo andrà benissimo. 6. Dopo circa un’ora girate il tacchino. Dopo circa un’ora e mezza, alzate la temperatura del vostro dispositivo a circa 180°C e proteggete con alluminio le parti più esterne che rischiano di bruciarsi. Se avete il girarrosto verificate che la cottura prosegua uniformemente, se serve spennellatelo con i suoi succhi contenuti nella leccarda. 7. Mentre il tacchino cuoce, fate bollire il brodo di pollo con rosmarino, timo, salvia e i funghi, per almeno dieci minuti. 8. Munitevi di termometro a sonda e abbiate cura di togliere il tacchino quando raggiunge i 75 C° al centro delle cosce. 9. Preparate la salsa: mentre il tacchino riposa, filtrate i liquidi di cottura (se volete potete sgrassarli) e aggiungeteli al brodo aromatizzato. In una cocotte fate sciogliete il lardo (io ho usato della pancetta), rosolate la farina. Aggiungete il brodo filtrato, l’aceto e il succo di limone, insaporite con sale e pepe, e fate addensare. 10. Tagliate il tacchino: utilizzate la tecnica che preferite, ma per una presentazione ottimale staccate i filetti tagliando la carne da entrambi i lati dello sterno, per il lungo. Poi scostateli progressivamente dalle ossa facendo scorrere un coltello ben affilato lungo le costole; infine affettate finemente i filetti. Disossate il coscio e ricavate delle fette, affettate
il ripieno ( se volete esagerare ripassate il ripieno in cottura diretta per formare una bella crosticina appetitosa) 11. Impiattate alternando le fettine di filetto con quelle del coscio e del ripieno, poi aggiungete la salsa, sopra la carne o a parte, come preferite. Infine aggiungete i lamponi, o direttamente sul piatto, oppure frullandoli semplicemente. 12. Apprestatevi a divorare il Gallo d’India bilanciando le quantità tra boccone di carne, salsa, lamponi (che va aggiunta ogni boccone, ne basta una lacrima affinché non sovrasti il gusto della preparazione) Capriole? Se siete stati bravi sicuramente sì; ma più che capriole, è meglio dire un tuffo... nel passato!
I N G RED I EN TI
PER 8 PER SONE • Un tacchino (o 2 polli) • un litro di salamoia al 4% di sale • Ultimate SPOG Sal’s Seasoning q.b. • olio extravergine di oliva q.b. • un gambo di sedano • una carota • una cipolla PER IL RIPIENO • 200 g di petto di tacchino o di pollo • 100 g di macinato di manzo • 100 g di lardo • 4 uova • 1 cucchiaino di sale • 2 pizzichi di pepe • 2 pizzichi di chiodi di garofano in polvere • 1 cucchiaio di capperi PER LA SALSA • 2 l di brodo di pollo • 1 rametto di rosmarino • 1 rametto di timo • 4 foglie di salvia • 4 cucchiai di funghi secchi • 200 g di lardo/pancetta a dadini • 4 cucchiai di farina • 1 cucchiaio di aceto aromatico • 1 cucchiaino di succo di limone • sale e pepe q.b. PER GUARNIRE • 200 g di lamponi
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APPROFONDIMENTO a cura di STEFANIA POMPELE
Diventare
assaggiatore guida completa alla degustazione
Cosa ci faccio in questo covo di nerd del barbecue, io che mi destreggio tra griglie e cotture con la stessa scaltrezza con cui un ippopotamo danzerebbe sui tacchi? Fortunatamente non sono qui per parlarvi di griglie e cotture (e nemmeno di tacchi). Tenterò invece la mirabolante impresa di accompagnarvi alla scoperta di sensi, percezioni e assaggio. In altre parole, quella matassa ingarbugliata di processi fisiologici, psicologici, filosofici e culturali che noi gastro-strippati chiamiamo degustazione. Ho la presunzione di credere che dopo questa rubrica non assaggerete più un pezzo di ciccia con lo stesso piglio, perché nel mentre avrete capito qualcosina in più su come approcciarvi all’assaggio, ma soprattutto avrete imparato qualcosa di più su voi stessi. Insomma questa rubrica parla di voi, delle vostre diversità e di come queste si palesino ogni volta che addentate un pezzo di succulenta proteina animale. Non c’è nulla di più soggettivo dell’assaggio e nulla che riesca a coinvolgere simultaneamente così tanti sistemi sensoriali, ed è proprio questa multi-modalità che cercheremo di scomporre qui, sbrogliare la matassa del sistema percettivo per capire chi fa cosa ed essere maggiormente consapevoli di ciò che accade, e al contempo acquisire magari un vocabolario più corretto per descrivere le proprietà sensoriali del cibo. Un po’ come avviene nelle fasi iniziali del training previsto per i futuri panelisti -gli assaggiatori addestrati secondo metodologie normate e utilizzati nei cosiddetti panel test- vi parlerò insomma di organi di senso e percezioni, scomponendo le diverse sensazioni in base al canale percettivo coinvolto. Ma basta tergiversare, iniziamo.
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Vista (o l’occhio o sistema visivo) Cenni di fisiologia e meccanismo percettivo
Preziosissima per noi mammiferi ottici, grazie alla vista possiamo cogliere lo spazio in un “colpo d’occhio”, orientarci, tracciare schemi e, non da ultimo, pregustare i cibi. Sarà forse per questo che è riuscita ad aggiudicarsi il podio nella classifica dei sistemi sensoriali? L’evoluzione ci suggerisce proprio questo, da quando abbiamo smesso di camminare carponi nella foresta e abbiamo assunto una posizione eretta, la vista ha assunto un ruolo primario per la comprensione del mondo. Di certo è il senso più stimolato per informarci, affamarci con nuovi bisogni e suggerirci nuove esperienze. Siamo mammiferi visivi e spesso l’assaggio evidenzia questa occhio-dipendenza. 22 - BBQ4All MAGAZINE
Il processo della visione è piuttosto complesso ma potremmo paragonarlo, semplificando parecchio, al funzionamento di una macchina fotografica. Le immagini attraversano cornea e cristallino -la prima e la seconda lente- colpiscono le cellule fotosensibili che compongono la retina – la nostra pellicola- e su questa vengono impresse rimpicciolite, bidimensionali e capovolte. Un po’ come avviene ogni volta che facciamo “clic” insomma. La similitudine si interrompe qui perché questo segnale viene poi trasdotto (trasformato) in impulso elettrico e inviato dal nervo ottico alle aree del cervello preposte a elaborare gli
rosso, è determinato dal fatto che il nostro occhio assorbe tutte le lunghezze d’onda, ad eccezione di quelle che il nostro cervello codifica come rosso. Forma, tonalità, intensità e omogeneità del colore, lucentezza e opacità della superficie, consistenza sono tutte informazioni che acquisiamo osservando il cibo. In un taglio di carne possono quindi fornici informazioni importanti sullo stato di salubrità e conservazione, sull’alimentazione dell’animale e sulla modalità di allevamento, e ancora su alcune fasi del processo produttivo, sulla cottura. Sarebbe davvero impossibile farvi un elenco dei molteplici attributi sensoriali rilevabili attraverso la vista, le variabili sono pressoché infinite e dipendono da enne fattori dovuti al tipo di carne e alle molteplici correlazioni di filiera/cottura.
stimoli visivi. Qui l’immagine viene raddrizzata, diventa tridimensionale e collocata nello spazio. Solo qui avviane ciò che in gergo definiamo percezione, pianificazione del comportamento e risposta. Solo grazie a questa scatola, il cervello appunto, possiamo valutare le caratteristiche visive di un taglio di carne ad esempio. Le onde elettromagnetiche comprese nello spazio del visibile (tra 400 e 760 milionesimi di millimetro) sono responsabili della percezione dei colori. Quindi ciascun colore possiede una lunghezza d’onda specifica ed è proprio questa forma di energia riflessa ad essere catturata dal senso delle vista. Insomma, quello che vi fa dire che quel pezzo di carne cruda è
Se è vero che aspetto ed estetica sono ingredienti imprescindibili per l’appetibilità del cibo e un occhio esperto è in grado di cogliere dettagli importanti su tutta una serie di fattori legati alla qualità di ciò che mangia, è altresì vero che questa capacità di pregustare (mangiare con gli occhi si dice) e generare aspettative può portarci a fare valutazioni che poi sono smentite da olfatto e gusto durante l’assaggio. Ciò che vediamo è valutato sulla base di esperienze pregresse e anche la vista è ovviamente legata a questa memoria. Sono meccanismi d’apprendimento e orientamento in parte imposti dal contesto culturale in cui viviamo, lo stesso che sembra aver relegato a sensi minori altri canali percettivi fondamentali per la comprensione del mondo. Tendiamo a credere di più a ciò che vediamo che a ciò che annusiamo ad esempio, ma questa è un’altra storia. Ne parleremo presto.
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SPECIALE U.S.A - RICETTE a cura della REDAZIONE
CALIFORNIA
COBB SALAD mi prendo "giusto" un'insalatina...
Quante volte vi sarà capitato in piena notte di essere presi dai morsi della fame, alla ricerca di qualcosa da mettere sotto i denti, e di formulare improbabili accostamenti pur di saziarvi? Più o meno è quello che è successo a Bob Cobb, proprietario del ristorante Brown Derby ad Hollywood. Si trovava nel suo locale, era notte fonda e le cucine erano chiuse, per cui nessuno poteva preparargli qualcosa da mangiare; decise perciò di creare qualcosa con quello che aveva a disposizione e si inventò nel 1937, un’insalata. Non una qualsiasi, ma quella che divenne uno dei piatti più amati d’America, perché ricca di ingredienti e completa: la Cobb Salad. Il piatto fu un successo grazie alla frequentazione dei divi di Hollywood nel locale di Bob e ancor oggi, dopo oltre ottanta anni e all’interno dei Parco degli Studi Disney in California,
I N G REDIEN T I
P ER 6 P ERSO NE PER L’INSALATA • 2 petti di pollo senza pelle, disossati • circa 500 g di lattuga romana • 150 g di crescione • 300 g pomodori a grappolo • 3 uova • un avocado • 8 fette di bacon • 100 g di Formaggio Blu (Stilton, Roquefort, Gorgonzola) • 3 cucchiai di erba cipollina tritata fresca • un cucchiaio di Sal’s Seasoning Rub Tenneesee
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viene servita ai tavoli come allora. La versione classica comprende pollo, avocado, pomodori, gorgonzola, pancetta, uova e lattuga. Le varianti comunque abbondano, e capita abitualmente che questa insalata venga servita in una ciotola con ingredienti vari lanciati sbrigativamente e alla rinfusa sulle verdure. In ogni caso, basta che contenga almeno tre cose, ovvero pollo, pancetta e formaggio blu, per poter essere chiamata Cobb Salad, indipendentemente da cos’altro ci sia dentro. È una preparazione che può rendere la cena completa e appagante, la soluzione ideale per un buffet estivo, che richiede però un po’ di tempo e molta cura nella preparazione. Deve essere realizzata stratificando su un piatto ogni componente e trattandolo in maniera accurata. La stessa vinaigrette con la quale viene condita è insolita e vivace, poiché contiene
con la quale viene condita è insolita e vivace, poiché contiene senape di Dijon, succo di limone e salsa Worcestershire. PER LA VINAIGRETTE • 200 ml di olio extra vergine di oliva • 2 cucchiai di aceto di vino rosso • 2 cucchiaini di succo di limone • un cucchiaino di salsa Worcestershire • un cucchiaino di senape di Dijon • uno spicchio d’aglio tritato • 7 g di sale • 4 g di zucchero • 2 g di pepe nero
Ovviamente non è possibile assemblare in largo anticipo questa insalata ma ci sono elementi come il pollo e le uova che possono essere preparati in precedenza e poi refrigerati. ERRORI DA EVITARE Ecco cosa solitamente si sbaglia quando ci si appresta a preparare la Cobb Salad. 1. Non preparare “la linea “, cioè l’insieme degli ingredienti che compongono l’insalata in un ordine appropriato, prima di condirli. La vinaigrette, i pomodorini e il formaggio sbriciolato sono tra i primi da disporre in singole ciotole. Si può inoltre cuocere le uova, friggere la pancetta e cuocere il pollo alla griglia, così da avere tutto pronto da assemblare alla fine con le parti più fresche, cioè la lattuga. 2. Non condire gli ingredienti separatamente. Il segreto di questa ricetta dipende da questo: usare la giusta quantità di vinaigrette per ogni singolo ingrediente assicura un giusto bilanciamento dei sapori, garantendovi un risultato finale strepitoso. Al contrario, se provaste a disporre gli elementi su un piatto e a condirli alla fine, sareste costretti a mescolare il tutto, finendo per non avere una Cobb Salad a regola d’arte. 3. Usando un piatto troppo piccolo non sarà possibile inserire la giusta quantità di ingredienti e sarà difficile disporli in maniera accurata dando all’intera preparazione un aspetto disordinato. Lo scopo di questa ricetta è di mettere in luce ogni alimento che la compone, disponendolo abilmente per la lunghezza del piatto, sopra le lattughe. 4. Usare un’insalata qualunque non darà l’effetto “crunch” e la preparazione sarà molto deludente. La lattuga romana e il crescione sono la scelta ideale perché rimarranno freschi e croccanti a lungo. È un fattore da non sottovalutare, specialmente se state servendo questa delizia in giardino per una festa, quando potrebbe rimanere sul tavolo al caldo per un po’ di tempo. 5. Assemblare il tutto troppo in anticipo darà un aspetto bagnato e un morso inzuppato ben poco appetibile: fatelo sempre poco prima del servizio e non sbaglierete.
PROCEDIMENTO 1. Bollite 3 uova in una casseruola media. Fatele cuocere per 10 minuti dalla ripresa del bollore. Trascorso il tempo, trasferitele in una ciotola con acqua fredda e ghiaccio e lasciatele riposare per 5 minuti. Sbucciate le uova, tagliatele a metà e dividete in quarti. Tenetele da parte. 2. Tagliate i pomodorini in 4 parti e metteteli da parte. 3. Sbriciolate il formaggio blu e mettetelo da parte. 4. Predisponete il dispositivo per una cottura indiretta e dopo aver insaporito il pollo con un velo d’olio e il Sal’s Seasoning Tennessee, cuocetelo sino ai 72° C , affumicando leggermente con chips al melo. Una volta cotto, tagliatelo a cubetti regolari. 5. Cuocete il bacon su una piastra in ghisa nel vostro dispositivo fino a quando non diventa croccante. Quindi fate assorbire il grasso in eccesso su carta assorbente. Spezzettate e tenete da parte. 6. Realizzate la vinaigrette, sbattendo insieme l’olio extra vergine di oliva, l’aceto, la Worcestershire, il succo di limone, la senape di Dijon, lo zucchero, il pepe, lo spicchio d’aglio tritato e il sale. 7. Lavate, mondate e tagliate grossolanamente la lattuga e mescolatela alle
foglie di crescione. Condite con 5 cucchiai di vinaigrette in una grossa ciotola. 8. Mettete i pomodori tagliati a quarti in una ciotola e conditeli, mescolando delicatamente, con un cucchiaio di vinaigrette. 9. Condite il pollo a cubetti, in una ciotola, con altri 3 cucchiai di vinaigrette. 10. Dividete in due parti, per la lunghezza, un avocado. Denocciolatelo e riducetelo a dadini. 11. Tritate finemente l’erba cipollina poco prima di impiattare. Ne serviranno ben 3 cucchiai. 12. Prendete un bel piatto capiente, che sia rettangolare o tondo poco importa. È essenziale che riesca a contenere tutti gli ingredienti, disposti in maniera metodica. Create un bel letto di insalata verde ( lattuga e crescione ), sopra di essa stendete, da sinistra a destra, la dadolata di avocado, il formaggio blu sbriciolato grossolanamente, i pomodorini in quarti, il pollo grigliato, le uova ed infine il bacon. Versate a filo un leggero velo di vinaigrette superficialmente e spargete l’erba cipollina. Avete terminato la vostra prima Cobb Salad. Ora non vi resta che affondarci le forchette e assaggiare ogni boccone di questa ricca pietanza. LUGLIO 2020
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SPECIALE U.S.A - RICETTE a cura della REDAZIONE
ILLINOIS
DEEP DISH Chicago Pizza
Sappiamo bene la faccia che avete fatto. Che ricetta è mai questa? Perché proporre una simile oscenità, a noi che siamo nella Patria della Pizza? E se siete napoletani peggio ancora, la vostra indignazione avrà toccato livelli mai visti. Starete pensando di inserire questo numero tra l’elenco dei libri eretici e di bruciarlo alla prima accensione del vostro kettle. Ma calmiamoci un attimo, stappiamoci una birra e parliamone. Siamo qui per spiegarvi tutto. Sappiamo bene che non è semplice uscire dai canoni e soverchiare le abitudini più radicate, ma a volte la nostra è solo paura di ciò che è ignoto. La Deep Dish Chicago Pizza non ha il cornicione, non ha la chiazzatura bianca di mozzarella (in America ci mettono il Parmesan), è crostosa invece che soffice e bruciacchiata, e la passata di pomodoro con cui viene condita è cotta prima, ma questo non vuol dire che non sia comunque piacevole poterla mangiare e apprezzarla come un prodotto da forno diverso dalla pizza a cui siamo abituati. Abbiamo sempre una strana reazione quando sentiamo utilizzare il nome di una preparazione associato a un’altra, più o meno diversa. Lo vediamo tutti i giorni, anche sulla community Facebook: fai la carbonara e ci metti la cipolla? Non è più carbonara. Prepari la parmigiana ma non friggi la melanzana? Non è più parmigiana. A volte siamo troppo chiusi in schemi mentali che non ci dovrebbero appartenere e che ci limitano. Pertanto sappiamo che molti di voi staranno pensando: questa non va chiamata pizza! In realtà lo è. È la versione che vendono a Chicago. Non vogliamo paragonarla alla napoletana “ca pummarola ‘ngopp “, né alla romana di Bonci, né a nessun’altra tipologia che voi abbiate mai assaggiato in Italia. Ma ha comunque una sua storia 26 - BBQ4All MAGAZINE
ed è consumata da milioni di persone in tutto il mondo, pertanto ha il diritto di essere valutata senza pregiudizi.
Deep Dish with Ember Roasted Pepper and BBQ4All Steak Burger. Andiamo al concreto.
Questa pizza nasce a Chicago nei primi anni ‘40 del Novecento. La contesa è tra Ike Sewel, proprietario della catena Pizzeria Uno e i fratelli Boglio, immigrati piemontesi e fondatori della Giordano’s. Una vera paternità non c’è: entrambi la reclamano come propria opera. Venne chiamata così perché ha al suo interno i tre elementi chiave che caratterizzano una qualsiasi pizza: impasto da forno, mozzarella e pomodoro. All'atto pratico è quasi più una quiche. D’altronde il suo nome Deep Dish significa “piatto profondo”, perché la sua cottura avviene in uno stampo alto cinque cm che crea dei bordi notevoli. Anche l’ordine degli ingredienti è invertito. Si parte con la farcitura di mozzarella sul fondo dell’impasto, la quale viene ricoperta di uno strato abbondante di salsa di pomodoro, spolverato con formaggio grattugiato. Nelle versioni più farcite, si aggiungono poi gli ingredienti più disparati, dai peperoni verdi alla salsiccia, dal prosciutto all’ananas (prendete fiato, ce la potete fare!) Noi faremo la nostra ricetta, ovviamente, adattando alcuni ingredienti alla cottura al BBQ. Abbiamo scelto una delle versioni più classiche, che vuole i peperoni e le salamelle all’interno della pizza (niente ananas, potete ricominciare a respirare), che però noi sostituiremo con i burger BBQ4All per una Chicago
L’impasto per la Deep Dish si caratterizza per la presenza abbondante di grassi e per la miscela di due farine, una delle quali è di mais in proporzioni ridotte, per dare maggiore croccantezza. Noi la faremo con semplice farina adatta a tutti gli utilizzi, con una forza intorno a W 270. La sua consistenza dovrà essere molto elastica e burrosa. La cottura avviene in forno sui 230° C per un tempo piuttosto lungo, circa 30/40 minuti, a seconda dello spessore della base. Può essere impastata in planetaria o a mano. Sarà un impasto diretto, senza pre fermenti, con una quantità superiore di lievito rispetto alla norma e tempi di riposo nettamente inferiori rispetto alla pizza “de casa nostra”. Come abbiamo già detto, è un prodotto differente e non paragonabile. La mozzarella dovrà essere vaccina, meglio se fior di latte o provola. È consigliabile evitare i formaggi che contengono un eccesso di siero. Questo perché, dovendolo posizionare sulla base dell’impasto, un formaggio molto umido non permetterebbe una cottura ottimale. L’eccesso di liquidi comprometterebbe la cottura e ci ritroveremmo con una base cruda e fradicia. Quindi opteremo per un fior di latte o per una mozzarella tritata e lasciata scolare bene. Ne servirà una quantità abbondante che ricopra ef-
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PER UNA TEG LIA DA 30C M PER L'IMPASTO • 375 g di Farina W 270 • 220 g di acqua • 60 g di olio extravergine d’oliva • 4 g di lievito di birra fresco • 2 g di sale PER LA FARCITURA • 2 Steak Burger BBQ4ALL • 450 g di mozzarella • un peperone verde • 50 g di Parmigiano Reggiano PER LA SALSA • 250 g pomodoro pelato • 250 g polpa di pomodoro finissima a dadini • 30g concentrato di pomodoro • 50 ml olio extravergine d’oliva • 15 g sale • 1,5 g origano • 2 spicchi di aglio tritato • ½ cipolla piccola tritata • ½ cucchiaino di zucchero
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ficacemente il fondo e che dovrà filare al taglio. Al posto della salsiccia utilizzeremo gli Steak Burger di BBQ4All che cuoceremo prima su una piastra e poi scomporremo per disporli all’interno della pizza. I peperoni verdi potranno essere utilizzati in due modi differenti, in consistenze diverse. Potremo cuocerli in Ember roasting e inserirli insieme ai burger, oppure potremo tagliarli a striscioline e metterli circa dieci minuti prima di finire la cottura, sopra alla salsa di pomodoro. Nel nostro caso abbiamo scelta la prima opzione. Volendo si possono poi inserire anche altri ingredienti a piacere, ma vi consigliamo di cuocerli prima di aggiungerli alla pizza. Anche la salsa della Deep Dish merita un approfondimento. Deve essere leggermente dolce, saporita e ristretta, quindi deve essere cotta prima e fatta addensare. A cottura ultimata, si lascia riposare prima di usarla come strato finale per riempire la pizza ammmerigana. È possibile aggiungere infine una dadolata di pomodoro. Il tutto andrà saggiamente ricoperto con una spolverata generosa di Parmigiano grattugiato che donerà una fantastica colorazione dorata alla superficie. Vediamo quindi come procedere alla preparazione della nostra Chicago Style Deep Dish Pizza. PROCEDIMENTO 1. Iniziate ungendo leggermente la ciotola che conterrà l’impasto e tenetela da parte. 2. In un altro recipiente, versate tutta la farina con il 65% di acqua. Mescolate e lasciate riposare per 20 minuti. 3. Trascorso questo tempo, sciogliete il lievito in acqua a 32° C e aggiungetelo a filo, lavorando l’impasto sino a completo assorbimento dell’acqua. Quando la maglia glutinica sarà quasi formata, aggiungete il sale e infine l’olio, lavorando sino ad ottenere una massa liscia, elastica e omogenea. 4. Riponete il tutto nella ciotola precedentemente unta, assicurandovi di ungere anche l’intero panetto. Coprite con della pellicola da cucina e lasciate lievitare a temperatura ambiente sino al raddoppio. Ci vorranno circa 2 ore. 28 - BBQ4All MAGAZINE
5. Cuocete i vostri Steak Burger BBQ4All su una piastra in ghisa, come indicato nella confezione, tenenedoli un po’ indietro di cottura (ma con una buona maillard formata) poiché la termineranno all’interno della pizza. 6. Predisponete i peperoni verdi per una cottura in ember roasting, quindi a contatto diretto con le braci. Quando saranno pronti, puliteli bene dalla buccia esterna bruciacchiata e riduceteli a filetti larghi qualche centimetro. 7. Preparate la salsa. Fate soffriggere la cipolla tritata finemente nell’olio extra vergine di oliva, quindi unite al soffritto il concentrato di pomodoro e il pomodoro pelato. Condite con due spicchi di aglio tritato, l’origano, lo zucchero e il sale. 8. Fate cuocere per 20 minuti. Quando si sarà ridotto di un terzo, aggiungete i pomodori a dadini e proseguite la cottura per altri 15 minuti. 9. Quando l’impasto sarà lievitato sarà pronto per essere steso e farcito. 10. Prendete il panetto e stendetelo sul banco con l’aiuto di un mattarello dandogli uno spessore di qualche millimetro. 11. Ungete bene una teglia o uno stampo a cerniera da 30 centimetri, e foderatela con l’impasto appena steso, ricordandovi di formare dei bordi di almeno 5 centimetri che possono contenere i condimenti. 12. Adagiate sul fondo abbondante moz-
zarella. Sopra di essa continuate a farcire l’impasto con lo Steak burger scomposto a piccoli pezzi. 13. Ora è la volta dei peperoni. Disponeteli sopra lo strato di Steak burger. 14. Coprite il tutto con uno strato cospicuo di salsa di pomodoro, sino a raggiungere i bordi della pizza. Spolverate tutto con il Parmigiano a ricoprire la salsa. 15. Infornate a 230° C sul livello basso del forno, per un tempo prossimo ai 30/40 minuti e comunque sino a doratura dei bordi. 16. A cottura ultimata, levate la pizza dal forno, toglietela dalla teglia e appoggiatela su una gratella per circa 5/7 minuti affinché si perda l’umidità residua. Dopodiché tagliate e servite. La prima cosa che vi salterà all’occhio sarà la strabordante mozzarella che seguirà la corsa della fetta, mentre la sollevate dal piatto. Otterrete l’effetto cinema, proprio come vedete nei film, di quelle pizze che colano formaggio da tutti i lati. Il profumo sarà invitante e l’aspetto sarà wow. Ovviamente dovrete essere predisposti a voler assaggiare qualcosa che si discosta molto dalla vostra idea di pizza, ma sarà comunque un’esperienza culinaria da provare almeno una volta. Solo dopo questo passo, potrete decidere se rimanere ancorati alle vostre tradizioni o propendere per una vita fatta di nuove esperienze in cucina. Lasciatevi convertire, non ve ne pentirete.
SPECIALE USA - RICETTA a cura di MICHELA BONGIORNI
LOUISIANA
il nostro
GUMBO
la zuppa della Louisiana con l’anima siciliana Fra le diverse cucine locali degli Stati Uniti, sicuramente merita una menzione particolare quella della Louisiana: non a caso diverse ricette di questa zona degli States sono già finite sul nostro Magazine. Sono state moltissime le popolazioni che, passate da quelle parti, hanno lasciato le loro usanze culinarie; il caleidoscopio dei sapori francesi, portoghesi,
spagnoli, italiani, dei nativi americani, degli schiavi africani e dei pescatori caraibici è riscontrabile in molti dei piatti che ormai, grazie alla globalizzazione e al turismo, sono diventati conosciuti e apprezzati anche da noi. La cucina della Louisiana ha due anime: quella creola e quella cajun. La prima, più raffinata, deriva dall'adattamento
e dalla fusione delle pratiche culinarie europee venute a contatto, sia tra di loro che con gli usi degli autoctoni, nelle diverse isole dell' Arcipelago delle Antille - e dalle quali poi ha raggiunto il sud degli Stati Uniti - la cui impronta indigena più rilevante è senza ombra di dubbio il sapore piccante. Se gli europei hanno introdotto la canna da zucchero, il frumento, la melanzana, la cipolla, il cavoLUGLIO 2020
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lo, il cetriolo, l’arancia, il mandarino, il limone – sapori tipici di questa cucina- dobbiamo agli abitanti delle Antille l’uso del peperoncino, della manioca e della patata dolce. Gli indiani, arrivati in massa negli ultimi decenni del XIX secolo, hanno successivamente introdotto il curry, il tamarindo, il latte di cocco e l’uso del riso. La cucina cajun è invece molto più rustica: è figlia degli immigrati francesi dell’Acadia in Nova Scotia, Canada, scacciati nel 1755 dai coloni inglesi e trasferitesi in Louisiana e nel Sud del Texas. I cajun o acadians sono quindi i discendenti di quei francesi sfuggiti dal Canada, che ancora oggi hanno un’identità forte, riscontrabile in modo inequivocabile nella musica, nella lingua e ovviamente nella cucina. I gamberi d’acqua dolce, che popolano i corsi d’acqua e gli acquitrini del delta del Mississippi, sono l’ingrediente principale dei piatti cajun, oltre a quelli definiti la Santa Trinità: peperoncini verdi, cipolle e sedano. Uno dei piatti cajun più famosi – i nostri fan più attivi si ricorderanno che siamo stati tra i primi in Italia a presentare questa preparazione adattandola al nostro palato e alla griglia- è la Jambalaya: una ricetta che ricorda la Paella spagnola ma senza lo zafferano e con sapori molto più marcati. In realtà ne esiste anche una versione creola, più raffinata, che prevede l’uso del pomodoro; se siete curiosi di assaggiarle entrambe e di confrontarle, il posto migliore per farlo è sempre in Louisiana, a Gonzales, la capitale della Jambalaya, che ogni anno dal 1968 organizza un festival dove viene proclamato il campione del mondo di questo piatto spettacolare. Senza ombra di dubbio la seconda ricetta più famosa di queste zone è il Gumbo. Si tratta di una zuppa di pesce molto densa, alla quale possono essere aggiunti ingredienti diversi: dalle chele di granchio al pollo, dalla salsiccia piccante e speziata ai gamberi, dal maiale alle ostriche. Come succede con molti altri piatti, dare una ricetta originale e universale di questa zuppa, per ovvie ragioni, è praticamente impossibile. Immagino che ogni famiglia, inoltre, abbia una sua versione. Già il fatto che ci sia molta confusione sul definirla creola o cajun – se fate qualche ricerca ve ne accorgerete- è un chiaro indizio che scovare la vera ricetta sia facile quanto cercare il Sacro Graal. 30 - BBQ4All MAGAZINE
In realtà, come per la Jambalaya, esistono entrambe le versioni, ma in generale quando in un piatto è previsto l’uso del pomodoro è da considerarsi creolo. Sicuramente però sono almeno tre gli ingredienti non devono mai mancare in questa saporitissima preparazione nella quale confluiscono i sapori di mezzo mondo: un roux scuro, denso e tostato, i gamberi e l’okra, una pianta di origine africana portata in Louisiana dagli schiavi e diventata un ingrediente principale della cucina di queste zone. Ovviamente, non siamo qui per darvi una ricetta originale di questo piatto, ma un’interpretazione tutta nostra che vedrà i Gamberi di Mazara spodestare prepotentemente i gamberetti d’acqua dolce della Louisiana, in una versione molto più delicata e raffinata che però mantiene un’anima piccante ed esotica. PREPARAZIONE 1. Pulite i Gamberi e tenete da parte le teste e i carapaci; a questo punto potete cominciare a preparare il vostro Assoluto di Gamberi (il procedimento dettagliato è riportato nel numero di Dicembre 2019 del BBQ4All Magazine); 2. In una padella, fate soffriggere il trito di verdure e poi spadellate tutte le rimanenze dei gamberi a fiamma alta. Sfumate col cognac. 3. Evaporato l’alcol, aggiungete il concentrato di pomodoro, la spremuta di mezzo lime e il ghiaccio, in modo che i carapaci e le teste non si brucino in cottura; 4. Fate ridurre il tutto, frullatelo con un mixer a immersione e filtratelo con un colino cinese, ottenendo un concentrato molto denso. 5. Preparate il roux facendo sciogliere il burro in una pentola e poi versando la farina a pioggia; fate attenzione a rimescolare bene la farina in modo che non si formino grumi, poi abbassate il fuoco e aspettate che il roux diventi di un bel colore nocciola, facendo sempre attenzione a non bruciarlo. 6. In un’altra padella fate un soffritto con sedano, carota, cipolla e aglio, poi tagliate la salsiccia piccante a pezzetti piccoli o a fettine sottili e buttatela in padella. 7. Unite a questo punto le verdure con la salsiccia al roux, mescolate bene e cuocete per qualche minuto. 8. È arrivato il momento di aggiungere
la passata di pomodoro, il brodo caldo e l’assoluto di gamberi che avete preparato in precedenza; aggiustate di sale e di pepe e lasciate cuocere per almeno un’ora. 9. Trascorso il tempo dovuto, aggiungete alla zuppa prima l’okra tagliata a fettine e poi i gamberi. Fate cuocere per pochi minuti e poi spegnete il fuoco. 10. Fate cuocere infine il riso basmati in acqua salata e servitelo tiepido insieme alla zuppa calda e a una spruzzata di succo di limone. ...MA COS’È L’OKRA? Si chiama anche Gombo, oppure Ocra con la c, ed è una pianta appartenente alla famiglia delle Malvacee. Originaria dell’Africa, è coltivata in zone tropicali e sud tropicali. I suoi frutti ricordano nella forma e nel colore i nostri friggitelli, all’interno dei quali sono presenti i semi e una sostanza gelatinosa. Poco conosciuta in Italia (anche se ne esiste una piccola produzione in Sicilia), si è invece molto diffusa nella cucina indiana, in quella giapponese, in quella turca e appunto nel sud degli Stati Uniti dove in Louisiana ha dato anche il nome alla famosa zuppa che oggi vi presentiamo: Gumbo deriverebbe dalle lingue parlate da molti schiavi dall'Africa occidentale, dove l'okra era conosciuta come Ngombo ki o quingombo. Contiene poche calorie, aiuta a regolare i livelli di zucchero nel sangue grazie a una sostanza che si chiama mucillaggine, è ricca di fibre e di acido folico. Anche se, come ho già detto, assomiglia a un peperoncino nella forma, il suo sapore dolce è più simile a quello degli asparagi. Per consumarla, prima di tutto bisogna spuntarne la cima. Se è giovane non presenta peluria, mentre se è più matura, dopo averla sciacquata, va strofinarla con attenzione. Tuttavia, se è troppo grande rischia di diventare legnosa, quindi è molto meglio consumarla quando è ancora piccola. La sostanza gelatinosa che contiene ne fa un ingrediente perfetto per rendere più cremose le zuppe, tuttavia per evitare che diventi troppo viscida in altre preparazioni, è opportuno lasciarla in ammollo in acqua e aceto. Necessita di brevi tempi di cottura (non più di 10 minuti) e grazie alla nota dolce si sposa benissimo con cibi dal sapore speziato e piccante.
I N G REDI EN TI
PER 4 PER SONE PER LA ZUPPA • 400 g di Gamberi Rossi di Mazara; • 200 g di salsiccia piccante; • una cipolla bianca; • una costa di sedano; • mezza carota di dimensioni medie; • tre spicchi d’aglio; • olio extravergine di oliva q.b. • 200 g di okra; • due cucchiai di succo di limone; • 200 g di passata di pomodoro; • un litro di brodo vegetale; • sale e pepe q.b.; • 400 g di riso Basmati. PER IL ROUX • 100 g di burro; • 100 g di farina. PER L'ASSOLUTO DI GAMBERI (BISQUE) • due cucchiai di trito di sedano, carote e cipolle; • due cucchiai di olio extravergine di oliva; • le teste e i carapaci dei Gamberi Rossi di Mazara; • mezzo bicchiere di cognac; • mezzo cucchiaio di concentrato di pomodoro; • mezzo lime; • abbondante ghiaccio.
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SPECIALE U.S.A. - RICETTE a cura della REDAZIONE
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INGREDIENTI
P ER 8 P ERSO N E • Mezzo kg di spalla di maiale; • 6 cosce di pollo; • 400 g di Stew AUS Black Market 5+ Rangers Valley Black; • 2 cipolle; • una carota; • 2 coste di sedano; • 6 patate medie; • 300 g di fagioli rossi già lessati o cotti al vapore; • 5 spicchi d’aglio; • 800 g di pomodori pelati; • due foglie di alloro; • timo q.b. • sale e pepe q.b. • tabasco a piacere: • un litro di brodo di manzo; • olio extra vergine di oliva q.b. ; • 2 cucchiai di Worcestershire sauce.
Kentucky
BURGOO lo stufato dei campioni
I monti Appalachi, i grandi corsi d’acqua come il Mississippi e le immense praterie occidentali. Questo fu lo splendido paesaggio che videro i primi esploratori francesi quando si addentrarono nelle foreste del Kentucky nel 1682. Una terra ricca di risorse naturali e affascinante, allora ancora abitata dai pellerossa che ne avevano colto l’immenso potenziale naturalistico. Il Kentucky infatti faceva parte dell’area delle foreste vergini che fino a metà dell’800 erano presenti negli Stati Uniti. Distese sconfinate di pioppi gialli, castagni e querce che sopravvissero fino all’arrivo dell’epoca moderna. Purtroppo, già con la guerra civile americana che vide molti scontri in quest’area, molte delle foreste vennero abbattute. A oggi, grazie a delle politiche mirate di riforestazione, più del 40% del territorio è nuovamente verde. Il ministero delle politiche agricole e forestali dello stato ha inoltre emanato delle leggi a protezione delle ultime due foreste vergini rimaste nell’area: la Blanton Forest e la Lilley Cornett Woods. Grazie alle grandi distese verdi, il Kentucky è uno stato ricco di fauna, tappa intermedia di una delle più grandi rotte migratorie al mondo. È stato possibile contare nel suo territorio più di 300 specie di volatili e quasi 200 diverse specie ittiche fluviali. Piccoli e grandi mammiferi popolano freneticamente le foreste di quest’area.
I grandi carnivori che la dominano sono gli orsi, i lupi e le pantere, anche se sono sempre meno gli avvistamenti. Tra gli ungulati è invece possibile trovare i bisonti, le alci e i cervi – questi ultimi sono presenti in grande quantità –e ovviamente non mancano i piccoli animali come i conigli, gli scoiattoli, le volpi, i procioni, le marmotte e gli opossum. La grande varietà di fauna e la viscerale passione per le armi che contraddistingue una parte della popolazione degli USA ha fatto in modo che il Kentucky diventasse area di grande interesse per survivalisti e appassionati di caccia. L’abbondanza di cibo derivante dall’attività venatoria ha influenzato e caratterizzato la cucina dell’area. Montone al bbq, pesce gatto fritto, zuppa di tartaruga, scoiattolo allo spiedo sono solo alcuni dei piatti caratteristici dell’area. Tra tutti questi però è solo uno quello più menzionato e descritto: il Burgoo. Si tratta di uno stufato, tipico dell’area nord dello Stato, la cui storia è incerta e si divide tra varie ipotesi. Una delle più accreditate sembra sia legata alla guerra civile. Pare infatti che durante le attese tra le varie battaglie qui avvenute, un soldato, di nome Gus Jaubert, si fosse improvvisato cuoco. A causa degli scontri non era possibile cacciare la grande selvaggina e Gus si arrangiò con ciò che riuscì a catturare, prevalentemente scoiattoli, conigli e selvaggina da penna. LUGLIO 2020
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Altra teoria invece propende a dare la paternità di questo stufato agli schiavi liberati. Sembra che fosse il pasto che offrivano agli avventori durante le fiere di vendita del bestiame, dentro cui veniva utilizzata la selvaggina invece del bestiame che doveva essere venduto. Quest’ultima teoria sembra la più valida, soprattutto perché legherebbe questo piatto alla più famosa corsa dello stato: il Kentucky derby, una competizione ippica che si corre sulla distanza di un miglio e un quarto (circa 2 km) riservata ai purosangue inglesi di tre anni. Il Burgoo è infatti il piatto tipico di questa manifestazione. Sembra che la famosa gara si sia diffusa sin dai primi anni dell’800; quando ancora la corsa non aveva un nome e non era famosa già veniva servito questo stufato come pasto per tutti gli avventori. Nel 1875 con l’istituzione ufficiale della competizione il piatto divenne lo “sponsor” di molti ippodromi in cui essa viene organizzata. Il più famoso ippodromo in cui è possibile gustare questo piatto è quello di Keeneland che, ancora oggi, continua a servire la sua personalissima ricetta. La tradizionalità del piatto e il fatto che venga servito in un’occasione come il Kentucky derby ha fatto sì che il Burgoo diventasse un piatto “da condivisione”. È infatti mal visto prepararlo piccole quantità e quando arriva il momento di cucinarlo l’unica cosa che si può fare è 34 - BBQ4All MAGAZINE
sfoderare il pentolone delle grandi occasioni, armarsi di tavoli e sedie, e condividere questa pietanza con quante più persone possibile. Nella nostra interpretazione non ci siamo sottratti a questa tradizione e quindi le dosi che troverete saranno sufficienti per sfamare un bel po’ di amici. Abbiamo deciso di presentarvi la versione urban, ma ne esiste una wild. Il procedimento è lo stesso, cambia solo la natura degli ingredienti che nel tipo urban sono di facile reperibilità, mentre in quella wild sono reperibili più facilmente se siete dei cacciatori: cinghiale, cervo, fagiano. Noi, in modo molto più comodo, abbiamo usato in parte la carne del Megastore che garantisce, come sempre, un risultato più che perfetto, e soprattutto abbiamo adattato la ricetta al palato molto italiano, in modo che possiate convincere ad assaggiare questo spezzatino anche le suocere poco avvezze alle americanate. PROCEDIMENTO 1. Accendete una ciminiera scarsa di carbone e versatelo nel vostro dispositivo in corrispondenza di dove appoggerete la cocotte in ghisa. 2. Tritate grossolanamente le cipolle, le carote, il sedano, l’aglio e fateli rosolare nella cocotte con un po’ d’olio. Quando le verdure saranno dorate aggiungete un po’ d’olio e fate roso-
lare anche l’aglio 3. Aggiungete adesso le carni: le cosce del pollo disossate, la spalla tagliata a pezzi di circa 5 cm per lato e lo spezzatino di Black Angus. 4. Lasciate insaporire, salate e pepate a piacere, mettete il timo e l’alloro, poi aggiungete i pelati e bagnate con un po’ di brodo. 5. Portate a ebollizione il composto e a questo punto cominciate a affumicarlo con chips di legno di Hickory e melo. Lasciatelo affumicare chiudendo il coperchio del kettle (ma non quello della cocotte) per una mezz’ora, facendo attenzione che lo spezzatino non si asciughi troppo. 6. Trascorso il tempo necessario, riaprite il kettle, mettete il coperchio sulla cocotte e lasciate il tutto a cuocere a fuoco lento per almeno 2 ore 7. Aggiungete adesso le patate precedentemente lavate, pelate e tagliate. 8. Lasciate cuocere fino a quando le patate saranno abbastanza morbide (non devono disfarsi). 9. Aggiungete la salsa Worcestershire e il tabasco, regolando di sale in base al vostro gusto; infine è il momento dei fagioli: dopo averli versati nella cocotte, lasciate che il tutto si insaporisca ancora per una decina di minuti e servite lo spezzatino dei campioni ai vostri commensali.
SPECIALE U.S.A. - RICETTE a cura della REDAZIONE
Tennessee
MEMPHIS STYLE PORK RIBS so far, so good
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nel 1493. In circa tre anni il loro numero crebbe fino a 700 esemplari, diventando parte integrante del regime alimentare degli abitanti.
Le barbecue pork ribs sono senza alcun dubbio l’icona rappresentativa del barbecue americano tradizionale. Negli Stati Uniti del sud sono un vero e proprio culto e, a seconda delle zone, assumono caratteristiche ben precise che ne definiscono lo stile. La base di partenza è comune a tutte le varianti: un costato di maiale intero che viene affumicato lentamente a temperatura bassa e costante. Cotte con tutti i crismi, diventano un boccone di piacere godereccio che stimola le ghiandole salivari solo alla vista. In molte zone della fascia sud statunitense, il maiale viene definito come l’unico e il solo vero ingrediente degno di essere preparato al bbq. Per i puristi la scelta di utilizzare il manzo è segno di non autenticità, ma il motivo è probabilmente puramente pratico: questa zona è storicamente stata sempre meno ricca del nord e l’allevamento dei maiali richiedeva meno risorse oltre ad essere molto redditizio. Il Kansas è la patria delle costine in versione “Wet”: vengono spennellate in finitura con una spessa, potente e agrodolce salsa a base di ketchup o pomodoro, ovvero ciò che nel resto del mondo ha preso l’identificativo di Salsa Barbecue, per via della sua diffusione. La tradizione americana di cucinare la carne lentamente in presenza di fumo di legna infatti è diventata così popolare grazie alle ribs in versione wet, che oggi è possibile gustarla (più o meno fedelmente) oltre i confini a stelle e strisce, non senza errori e sbavature purtroppo. Decisamente, grazie al lavoro incessante di BBQ4All, che da anni ormai insegna a cucinare e 36 - BBQ4All MAGAZINE
a mangiare le costine di maiale all’americana, per i seguaci della Community e per i lettori del Magazine non è più così difficile preparare delle ribs degne di questo nome. Fin qui, tutto bene insomma. Il nostro lavoro dà i suoi frutti. In ogni caso, se il Kansas vede la versione bagnata con salsa bbq, Memphis è invece la patria delle costine in versione “Dry”. La finitura infatti viene effettuata aggiungendo un layer di spezie secche prima di tagliarle, mentre in cottura vengono spennellate con una salsa acida e dolce, la cosiddetta “mop sauce”. Il barbecue americano ha una storia secolare, e le ribs ne sono un punto cardine che necessita di un approfondimento. Il tutto ha inizio con l’arrivo dei maiali dall’Europa nel nuovo continente. Cristoforo Colombo portò con se questi animali durante il suo viaggio a Cuba
Come abbiamo ripetuto spesso, le costine di maiale a seconda del taglio assumono caratteristiche diverse. Le più famose e gettonate sono probabilmente le baby back ribs, il taglio più tenero e carnoso proveniente dalla zona collegata direttamente alla spina dorsale. Si riconoscono subito per via della loro incurvatura e della gradevole cicciosità. Vengono definite baby non perché ci sia qualche attinenza con l’età dell’animale, ma per la loro dimensione sostanzialmente più piccola degli altri tagli. Le spare ribs si trovano invece nella parte piatta della gabbia toracica. Anche se la presenza di carne nella parte superiore è minore, quella presente tra un osso e l’altro è senza ombra di dubbio più ricca e saporita rispetto alle baby back, anche se necessita di maggiore accortezza e di un tempo più prolungato in fase di cottura. Infine abbiamo il St Louis Cut, un taglio squadrato ricavato dalle spare ribs, dal quale si eliminano le Rib Tips, ossia le nostre spuntature. Il risultato è un pezzo di costato di dimensioni uniformi, con le ossa dritte e compatte che garantiscono una cottura omogenea ed un risultato perfetto anche esteticamente. La parola chiave è equilibrio. Il sapore della carne deve sempre prevalere: i rub e le salse devono solo sostenere e accompagnare il gusto della ciccia
PROCEDIMENTO 1. Prima di tutto preparate la salsa mop. Unite tutti gli elementi in un pentolino, intiepidite fino a far sciogliere lo zucchero e una volta fredda lasciate maturare la salsa in frigo almeno 24 ore. 2. Per il rub miscelate tutte le polveri per bene fino a ottenere un condimento perfettamente omogeneo. 3. Prima di tutto trimmate la slab, ripulitela da brandelli e parti che potrebbero bruciare in cottura ed eliminate la membrana bianca che copre le ossa aiutandovi con un cucchiaino: inseritelo al di sotto e poi infilate un dito fino a staccarla. Aiutandovi con un po’ di carta da cucina verrà via senza problemi. Lasciandola invece otterrete dopo la cottura una consistenza fastidiosa simile alla carta. 4. Cospargete la slab con un sottile strato di olio di semi e applicate con un setaccio a maglie fini un cucchiaio di rub per lato. 5. Stabilizzate il vostro affumicatore a 110 gradi circa (10 in più o in meno non faranno la differenza) e mettete in cottura indiretta la slab con il lato
INGREDIENTI
P ER 2 P ERSO N E • Una slab di ribs Duroc del Megastore • Olio di semi q.b PER IL RUB: • 15g di paprika affumicata o dolce • due cucchiaini di Ultimate SPOG Sal’s Seasoning • 12 g zucchero di canna • un pizzico di cumino • 5 g di senape in polvere PER LA SALSA MOP: • 100 g aceto di mele • 20 g Worcestershire • 5 g di zucchero di canna • 25 g senape gialla americana
delle ossa rivolto verso il basso affumicando con l’essenza che più gradite. Gli alberi da frutto, come melo o ciliegio, si sposano a meraviglia con il maiale. 6. Chiudete in coperchio e dimenticatevela li per almeno un’ora. Dopo un’ora date una generosa spennellata di salsa mop e richiudete per un'altra ora. 7. Quando il bark sarà asciutto e di un bellissimo color mogano avrete due strade. Potrete continuare la cottura a coperchio chiuso fino a cottura ultimata oppure avvolgere le ribs in un doppio strato di foil per accorciare i tempi di cottura. 8. Le ribs si possono cuocere secondo due gusti personali; c’è chi le preferisce perfect bite, ossia tenere ma ancora sostenute, che al morso cedano ma che il segno del morso sia ben visibile. La temperatura target da misurare tra le ossa in questo caso è di 88°C. Poi c’è chi le preferisce fall of the bone dove la carne si stacca completamente dall’osso lasciandolo pulito. In questo caso prolungate la cottura fino ai 92/93°C.
Spesso però, con le ribs, la misurazione può essere falsata, ad esempio toccando l’osso con la punta del termometro. A tal proposito esistono dei test molto validi per assicurarvi la cottura perfetta della vostra slab. Il primo è detto toothpick test, durante il quale si infila uno stuzzicadenti nella carne presente tra le ossa. Questo deve entrare senza sforzo attraverso tutti gli strati,come fossero burro a temperatura ambiente. L’alternativa è il bend test che si effettua invece con le pinze. Si pinza la slab fino alle prime 3/4 ossa,si capovolge e si alza. Se la carne mostra segni di cedimento e inizia a separarsi dalle ossa vuol dire che siamo nei pressi del punto di cottura perfetto. Tra alcuni pitmaster è in uso la tecnica di prendere la slab con una mano per il centro e stabilire la cottura a seconda di quanto si piegano le estremità, ma in quel caso occhio ed esperienza fanno la differenza. 9. A cottura ultimata spolverizzate un altro strato leggero di spezie sulle vostre costine, tagliate tra un osso e l’altro e gustatevele.
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ALABAMA
POMODORI VERDI FRITTI ...alla fermata di BBQ4All
Maccio – Capatonda! Cuccurucucù – Paloma! Star wars – Darth vader Il vecchio – e il mare! È possibile immaginare la memoria come un enorme magazzino in cui per tutta la vita immettiamo informazioni di ogni genere. Queste ultime, una volta registrate, si possono smarrire ma difficilmente dimenticare del tutto. Il sistema delle associazioni è il meccanismo attraverso cui il nostro cervello riesce a “ripescare” le informazioni smarrite all’interno del nostro “magazzino”. Una volta che l’informazione entra, i cinque sensi la scompongono e si dirigono in arie corticali differenti. Quando una cosa viene ripescata, le varie micro-informazioni si ricompongono fino a rievocare il ricordo. Questo processo è velocissimo e genera continue associazioni tra i vari sensi e ciò spiega la “creatività” umana. Può succedere di ricordare senza apparenti motivi qualcosa di insolito, magari un avvenimento dei tempi della scuola o fatti accaduti molti anni prima. Le parole citate all’inizio dell’articolo sono solo alcune delle associazioni mentali possibili. Per cui parlando di pomodori verdi fritti non si può fare a meno di pensare al celebre libro di Fannie Flagg, Pomodori verdi fritti al caffè Whistle Stop diventato poi un film dove la parte finale del titolo è stata sostituita con “alla fermata del treno”. Ed è esattamente questo che vi sentirete risponde38 - BBQ4All MAGAZINE
re ogni santa volta che vorrete preparare questo gustoso antipasto/contorno. Il romanzo è un best seller internazionale pubblicato per la prima volta in Inghilterra nella seconda metà degli anni ’80. La storia si sviluppa su due binari paralleli dove da un lato viene raccontata dalla signora Weems attraverso i “bollettini del Whistle stop” e dall’altro si articola tramite gli aneddoti raccontati dall’anziana signora Theadgoode. Da sfondo a questi racconti c’è l’Alabama rurale ai tempi della Grande Depressione, i viaggi in treno, le storie dei passeggeri, la società non ancora influenzata dalla globalizzazione. Un mondo diverso, agli antipodi rispetto a quello in cui viviamo adesso. Tra le righe del libro viene descritta una società in cambiamento, ancorata alle vecchie tradizioni, che però è allo stesso tempo provata dalla grave crisi economica ed è travolta da quello che sarà ricordato come il “new Deal” di Roosevelt. Le persone presentate nel libro vivono in una fase di passaggio e, come in tutti i grandi cambiamenti, sono dominate dal dubbio e dall’incertezza. Il paese è cambiato e la società egemone si trova a confrontarsi con coloro che fino a poco tempo prima erano gli schiavi dei campi di cotone. Fra struggenti descrizioni e momenti di leggerezza l’autrice ci trasporta indietro nel tempo, riuscendo a sviluppare tutta la vicenda attorno alla ricetta in questione, che fa da perno a tutto il romanzo e della quale si trova il
procedimento esatto nelle pagine finali. Questa preparazione è in realtà un cibo molto conosciuto negli States, specie quelli dei sud, e per realizzarla si devono utilizzare i pomodori verdi dalla consistenza molto soda e quasi privi di semi. Anche stavolta trovare la ricetta originale di questo piatto povero ma sfiziosissimo è un’impresa ardua: c’è chi li prepara con doppia panatura, chi li fa in pastella, chi li passa solo nella farina e nel pangrattato. Noi abbiamo optato per una versione tutta nostra, in tempura, come ci ha insegnato Alessandro Trezzi nel numero di Febbraio 2020 del BBQ4All Magazine. Con questa ricetta il vostro aperitivo avrà di sicuro una marcia in più e citando la stessa autrice vi possiamo assicurare una cosa: dopo averli mangiati penserete di essere morti e andati in paradiso! PROCEDIMENTO 1. Affettate i pomodori per ottenere delle fette di mezzo centimetro di spessore tutti uguali. 2. Preparate la pastella utilizzando la farina di riso e l’acqua frizzante e tenendo la ciotola all’interno di un’altra contenente ghiaccio. Non preoccupatevi che si formino grumi. 3. Scaldate nel wok l’olio a una temperatura di 170/180° C. 4. Tuffate i pomodori nella pastella ghiacciata e poi nell’olio bollente. 5. Friggeteli fino a ottenere una perfetta doratura, scolateli e serviteli caldi e croccanti con sale e pepe.
INGREDIENTI
P ER 4 P ERSO N E • 4/6 pomodori verdi • 150 g di farina di riso • 225 g di acqua frizzante ghiacciata • abbondante ghiaccio • sale e pepe q.b. • Olio di semi di Arachidi q.b.a
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ARIZONA
Born to b e
CHIMICHANGA Get your motor runnin; Head out on the highway Lookin’ for adventure And whatever comes our way
Se non avete letto le parole sopracitate senza cantare molto probabilmente siete nati l’altro ieri o avete vissuto reclusi gli ultimi 50 anni. Per quei pochi che non le conoscessero è doveroso spiegare che sono le prime parole del testo della canzone degli Steppenwolf, “Born to be wild”. Canzone che nel 1969 divenne celebre perché fu scelta come colonna sonora per il film “Easy rider”. Nel film Dennis Hopper (Billy), Peter Fonda (Wyatt) e un giovanissimo e semisconosciuto Jack Nicholson (George) attraversano gli States a bordo di due chopper. Il film racconterà della loro avventura mentre attraversano il sud del paese. Molto bella e controversa per l’epoca, la pellicola catturò l’attenzione della maggior parte degli spettatori non tanto per la trama, quanto soprattutto per la bellezza delle due motociclette: la Captain America guidata da Wyatt e la Billy Bike che invece era nella mani di Dennis Hopper. Il film segnò un punto di cambiamento radicale nel mondo delle due ruote. La passione per lo stile “easy rider” si diffuse a macchia d’olio e tutti cominciarono a sognare di avere moto come quelle viste al cinema e di guidarle lungo le panoramiche highway degli USA.
Il mondo dei biker e il loro stile di vita si fecero conoscere sempre di più e molte persone ne rimasero stregate. Telai hardtail, motori panhead, cerchi da 21’’, marmitte turn out e serbatoi personalizzati. Per gli amanti delle due ruote queste parole sono l’equivalente del Brisket di Wagyu per i clienti del megastore. Un sogno. Anche se magari non vi capiterà mai di farlo, provate comunque a immaginare di essere a bordo della vostra moto preferita lungo la route 66: gilet di cuoio, Ray-Ban di ordinanza, il deserto intorno, il sole che vi scalda la pelle, l’aria che vi accarezza il volto e come unico rumore il sordo rombo del vostro panhead (o twin cam se avete un modello più recente). Durante il tragitto del vostro viaggio state attraversando l’Arizona, e all’altezza di Tucson oltre al rombo del motore iniziate a sentire un altro tipo di rombo proveniente dal vostro stomaco: è fame! Per fortuna, lungo le interstatali i bikerbar sono molto frequenti e offrono agli spossati motociclisti la possibilità di rifocillarsi e dissetarsi. Proprio a Tucson, a cavallo tra le due grandi guerre, sembra sia nato uno dei piatti più iconici per i bikers: i Chimichanga.
Una pietanza ricca, saporita e pratica. Infatti è facile da trasportare ed entra comodamente nei piccoli vani a disposizione nelle motociclette. L’origine del nome sembra derivare dalla fusione delle parole “Chimi” e “Changa”. Chimi si riferisce a Chamuscado che significa bruciato, e probabilmente è riferito a un tipico piatto messicano chiamato Chamuco, una banana bruciata nell’olio. Changa invece si riferisce al verbo chingar, parola che riassume una serie infinita di volgarità su cui si può tranquillamente soprassedere. Sembra che questo piatto sia frutto di un errore della proprietaria del ristorante “El charro” a Tucson, appunto, nel 1922. La storia che ci è pervenuta racconta che, durante la preparazione di un burrito, la cuoca del ristorante si sia distratta e lo abbia fatto cadere nell’olio bollente. Accortasi dell’errore lo avrebbe estratto velocemente dall’olio il burrito ormai bruciato, con diversi improperi e maledizioni più o meno colorite. In cucina, tuttavia, è noto che bisogna minimizzare gli sprechi, quindi la proprietaria del ristorante decise di assaggiare quel burrito fritto e si rese conto che in realtà era veramente gustoso. La diffusione di questa pietanza ad opera dei ristoranti avvenne però in seguiLUGLIO 2020
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I N G RED I EN TI
PER 8 PER SONE • 8 tortillas • 250 gr di carne trita di manzo • 1 spicchio d’aglio • un gambo di sedano • mezza carota • mezza cipolla • 200 gr di fagioli rossi cotti al vapore • 500 gr di pomodorini droga rossa • 2 peperoncini pasilla secchi • Olio extravergine di oliva q.b. • Sale q.b. • Panna acida a piacere • Olio di semi per la frittura
to, quando a metà degli anni ‘50 Woody Johnson, fondatore del “Macayo Mexican Kitchen” si autoproclamò come l’inventore del Chimichanga. A quel tempo Johnson possedeva un ristorante che si chiamava “Woody El Nido” che nel 1952 subì un restyling. Il nome cambio in “Macayo’s” e i Chimichanga vennero introdotti nel menù come piatto principale. Una versione differente della storia è quella raccontata da Jim Griffith, antropologo e folklorista, che in uno dei sui scritti affermò di avere visto i Chimichanga al ristorante “Yaqui Old Pascua Village” a Tucson nei primi anni del 1950. Le origini di questo piatto sono dunque incerte e fumose, come succede in moltissimi casi. Certo è che, a partire dagli anni ’60, questi burrito fritti si diffusero per tutti gli States e oggi sono parte integrante in tantissimi menù tex- mex. Come sempre la redazione di BBQ4All si 42 - BBQ4All MAGAZINE
impegna a personalizzare e a rendere caratteristici i piatti per i suoi amati lettori. In questo caso abbiamo scelto di dare un tocco di originalità al piatto usando una delle preparazioni più chiaccherate in community: i pomodorini #drogarossa. PROCEDIMENTO 1. Tagliate i peperoncini, privateli dei semi e metteteli in una ciotola con acqua calda per reidratarli. 2. Accendete il kettle e mettete il wok al centro della griglia nell’apposito spazio. 3. Scolate i peperoncini e strizzateli dall’acqua in eccesso. 4. Aiutandovi con un frullatore a immersione create una salsa utilizzando i pomodorini droga rossa, l’aglio e il peperoncino. 5. Fate rosolare la carne nel wok insieme a un trito di sedano, carota e cipolla e a due cucchiai d’olio. 6. Quando la carne sarà perfettamente rosolata aggiungete la salsa appena
creata. Salate e pepate a piacere. 7. Se il composto dovesse risultare “secco” potete aggiungere un po’ d’acqua fino a raggiungere la consistenza desiderata. Fatelo cuocere per almeno un’oretta. 8. Nel frattempo in una ciotola schiacciate i fagioli aiutandovi con una forchetta fino a creare una crema da poter spalmare. 9. Scaldate adesso le tortillas fino a farle ammorbidire. 10. Componete il vostro Chimichanga spalmando la crema di fagioli su ogni tortilla e poi aggiungendo il sugo. Ripiegatele e sigillatele aiutandovi con degli stuzzicadenti. 11. Scaldate l’olio per la frittura, quando sarà a temperatura immergete i Chimichanga per pochi secondi in modo da farli dorare. 12. Scolateli e adagiateli su della carta assorbente in modo da eliminare l’olio in eccesso. 13. Serviteli accompagnandoli con della panna acida.
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fLORIDA
S LO P PY JOE ...e penso di sentirmi sbrodolante e felice
Ci sono alcune preparazioni che ci suscitano una tremenda salivazione solo pronunciando il nome. Una di queste è sicuramente lo Sloppy Joe, un panino laido e grondante di carne macinata unta e sugosa. Le origini di questa pietanza sono ancora oggetto di studio tra gli appassionati e numerose sono le varianti presenti nel panorama gastronomico, a seconda della zona di sviluppo. Si stima che sia comunque una ricetta risalente alla fine del XIX secolo. Molti attribuiscono l'origine e il perfezionamento del piatto ad un cuoco chiamato Joe, da qui il nome Sloppy Joe. Un bar a Key West e un paninoteca a Sioux City, Iowa si contendono la paternità di questa ricetta da sempre. Altri, invece, pensano che questo panino sia nato durante la Seconda Guerra Mondiale, quando le casalinghe, per cercare di sfamare le proprie famiglie, allungavano lo stufato di manzo con salsa di pomodoro, verdure e spezie rendendo in questo modo i panini più sostanziosi. La carne condita con salsa di pomodoro e zucchero potrebbe invece avere influenze cubane, correlata al picadillo, una salsa di carne macinata dolce e piccante consumata con il riso. Toasted Deviled Hamburgers, Chopped Meat Sandwiches, Spanish Hamburgers, Hamburg a la Creole, Beef Mironton e Minced Beef Spanish Style sono solo alcuni dei nomi coi quali è stato definito quella meraviglia di sandwich che conosciamo come Sloppy Joe. In Canada è frequente l'uso di servirlo in un panino da hot dog, mentre un sandwich simile, il "dinamite", nel Rhode Island si distingue per l'uso di cipolle, peperoni e talvolta sedano. Spesso si può incontrare la variante con i peperoncini jalapeño che lo rendono piccante. Non importa quali siano le sue radici, certo è che si tratta di un classico americano goloso e nutriente. Non si può transigere da alcune caratteristiche che fanno di un banale panino con carne macinata uno Sloppy Joe: il pane deve essere morbido e cedevole al morso, la carne macinata deve essere attrice pro44 - BBQ4All MAGAZINE
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tagonista gentilmente accompagnata da salsa di pomodoro, spezie e verdure, e la salsa Worcestershire non può mancare, poiché ne caratterizza gusto e potenza. Gli ingredienti e la materia prima sono di fondamentale importanza per la buona riuscita di preparazioni semplici come questa. La cottura dovrà avvenire in un tempo relativamente breve (30/35 minuti) quindi preferite tagli ricchi di grasso ma non troppo ricchi di collagene per avere un boccone ben lubrificato ma ancora consistente. Abbiamo scelto il Chuck Roll di manzo macinato una volta sola (oppure provate con i nostri nuovi burger Blue Ox). Potete optare per l'utilizzo della senape in polvere, in quel caso un cucchiaino, oppure per una buona senape gialla americana. Il bun è importante che sia morbido, ben tostato nella parte interna e caldo: non c'è cosa peggiore di addentare uno Sloppy Joe servito in un bun freddo. In questo caso abbiamo usato un bun fatto in casa da 160g. Provate anche voi a farlo in casa e non tornerete più indietro. Nella nostra variante abbiamo aggiunto della cipolla di Tropea pickled, per dare una nota acida che si sposa divinamente con l’untuositá della carne, ma voi potete sbizzarirvi e aggiungere ciò che preferite: ad esempio del buon cheddar o dei cetriolini in agrodolce. La chiave per ottenere un boccone perfettamente equilibrato è l'acidità. Inserite un elemento acido per bilanciare la grassezza della carne e le vostre papille gustative prenderanno il volo, garantito. 46 - BBQ4All MAGAZINE
Preparatevi a sporcarvi fino ai gomiti: lo Sloppy Joe si mangia con le mani, uscendone sbrodolanti e felici. PROCEDIMENTO 1. Almeno due ore prima della preparazione (meglio se il giorno prima) occupatevi del cipollotto di Tropea pickled. In un pentolino preparate la soluzione agrodolce unendo tutti gli ingredienti del pickle e portandoli a bollore tranne il ghiaccio, che inserirete a questo punto per diluire e raffreddare la soluzione. 2. Pulite per bene il cipollotto e tagliatelo in falde, sbollentatele 1 minuto e raffreddatele in acqua e ghiaccio. 3. Inserite il cipollotto in un barattolo di vetro o in una busta sottovuoto e aggiungete la soluzione agrodolce. Se utilizzate la busta sottovuoto basteranno anche 20 minuti per ottenere un ottimo risultato, altrimenti
lasciate passare almeno 2 ore. 4. In una padella di ghisa fate scaldare un filo d’olio e aggiungete la carne avendo cura di sgranarla per bene con un cucchiaio. Fatela rosolare fino alla completa brunitura, non abbiate fretta in questa fase, anche se si tratta di carne macinata la reazione di Maillard arriva, eccome se arriva, favorendo un overboost di sapore alla vostra preparazione. 5. Rimuovete la carne dalla padella, aggiungete il peperone e la cipolla tritati finemente e fate dorare per bene a fiamma viva. A circa 3/4 della doratura aggiungete anche l’aglio e quando il tutto ha assunto un bel color ramato entrate con lo zucchero di canna e la salsa Worcestershire. Sfumata vigorosa e continuate con la passata di pomodoro e la senape. 6. Coprite con un dito d’acqua e lasciate cuocere a fiamma bassa per 30/35 minuti o comunque fino a consistenza desiderata aggiungendo dell’acqua calda all’occorrenza. 7. In dirittura d’arrivo, quando la consistenza vi soddisfa aggiustate la preparazione con sale, pepe nero e peperoncino in fiocchi, se lo gradite. 8. Tostate leggermente il bun in forno e farcite con una generosa cucchiaiata di carne e qualche falda cipolla pickled. Facile, godurioso, alla portata di tutti.
IN GREDIENTI
P ER 4 P ERS O N E • 4 morbidi bun • 600g di Chuck Roll di manzo macinato una volta sola • 150g di peperone verde • 150g di cipolla dorata • 10g aglio • 60 ml di salsa Worcestershire • 40g zucchero di canna • Olio q.b • Pepe q.b • Sale q.b • 120g di passata di pomodoro • Acqua q.b • 40g senape gialla • fiocchi di peperoncino q.b PER IL CIPOLLOTTO DI TROPEA PICKLED: • 1 cipollotto di Tropea • 200g ghiaccio • 100g aceto di vino bianco • 100g vino bianco • 200g zucchero • 5g sale
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SPECIALE U.S.A. - RICETTA a cura di EMILIANO NENCIONI
MINNESOTA Andiamo al cuore fondente della questione
JUICY LUCY con la "i"
C’è una preparazione, nel cuore rurale degli States, che ha diviso e scatenato guerre di denominazione e spelling al pari delle nostre futili ma cruentissime dispute su arancino o arancina, su cecina o torta (o farinata, al massimo, ma “calda calda” no, mi rifiuto). Un cheeseburger ripieno di ...ulteriore formaggio. Juicy Lucy? O Jucy Lucy? La parola Juicy, succoso, succulento, si scrive correttamente così, con la i nel mezzo; tuttavia la pronuncia “joo - see” non mette in risalto la vocale incriminata, che si va a perdere e a generare eventuali errori di spelling. E’ all’incirca qui che inizia la storia, e anche la disputa, del panino: Minneapolis, nel Minnesota, due bar (o per meglio dire Diner) a cinquanta chilometri di distanza, entrambi rivendicano dagli anni ‘50 del secolo scorso la paternità di questo hamburger. Uno è il 5-8 Club, ex locale clandestino durante il proibizionismo, che serve i Juicy Lucy (attenzione: con la i nel mezzo) in una cornice kitsch e retrò addobbata di oggetti di tipico modernariato americano, gli stessi che probabilmente incontrereste in qualsiasi localino ispirato alle atmosfere di Grease o Happy Days nel mondo: cofani di Chevrolet, pompe di benzina meccaniche, statuine di Marilyn, busti di Elvis. Avventurarsi però in questa sottolineatura pleonastica dell’ovvio in Minnesota è come aprire una pizzeria in Italia e riempirla di foto di Totò, statuine di pulcinella e gigantografie del Golfo di Na-
poli (ma pensandoci bene credo di aver descritto un paio di locali che conosco). Il locale rivale, Matt’s Bar, serve lo stesso piatto, meno una vocale: da loro si mangia il Jucy Lucy (notare la differenza), e ne vanno ben fieri. Sì, perché secondo i gestori Matt Bristol serviva agli avventori i Jucy Lucy ben prima di diventare proprietario del diner, e quando nel 1954, al momento dell’acquisto dell’attività e delle nuove insegne, il materiale relativo al piatto best seller arrivò con un errore di ortografia (perché di errore si tratta, non c’è una lectio facilior e una lectio difficilior), qualcuno decise di lasciare tutto esattamente così. Oppure nessuno si accorse di nulla; o ancora, a chi fece notare lo sbaglio venne risposto “eeeh, che sarà mai, è arrivato il professorone, fattela una risata”, o analoga versione più redneck e più 1950-ish di questa ormai abusata espressione molto molto italiana. Non lo sapremo mai. A complicare le cose, portando al parossismo una diatriba legale e commerciale su un medesimo, normalissimo panino riproposto in chissà quanti altri locali, ci si è messo anche Obama. Il POTUS in persona, notoriamente ghiotto di junk food e paninazzi in genere, nel 2014 si è fermato a pranzo – per quanto un presidente degli Stati Uniti possa semplicemente “fermarsi”, con codazzo di bodyguard, cecchini appostati sui tetti dei palazzi, disturbatori di radiofrequenze e limousine gemelle blindate - proprio da Matt’s, quello del Jucy senza la i. Possiamo solo tentare di immaginare il rosicamento atroce e inconsolabile dei gestori del 5-8 Club, con un testimonial
del genere e con l’eco mediatica di copertura social che ne è scaturita, così, gratis tra l’altro. Ironia della sorte, il giorno stesso della visita di Mr. Obama, solo poche ore prima, lo storico proprietario Matt Bristol, l’autoproclamatosi “vero scopritore del Jucy Lucy”, è venuto a mancare a 89 anni. Spelling e folklore a parte, cos’è alla fine il Juicy (o Jucy? Userò la forma più corretta con buona pace del compianto Matt) Lucy? Niente di più che un panino con dentro un hamburger con un cuore di formaggio fuso; eventuali condimenti, salse e contorni saranno ovviamente presenti, ma affinché il panino possa fregiarsi del nome in questione è solo uno il punto cruciale: il formaggio dentro la polpetta di carne. La particolare configurazione del patty comporta alcune conseguenze cardine: • il tempo per la confezione è decisamente maggiore rispetto al dover solo pressare il macinato • la presenza del cuore di formaggio introduce un grado di complessità nelle strategie di cottura • una saldatura non perfetta dei bordi provocherà una fuoriuscita del ripieno in fase di searing, rovinando la preparazione • i grassi provenienti dalla liquefazione del formaggio irroreranno il macinato circostante, aumentandone molto la succosità. Tenendo presente quanto sopra, vediamo quindi come procedere per preparare un juicy Lucy adeguato agli impietosi standard qualitativi del Magazine BBQ4All. LUGLIO 2020
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Gli obiettivi da raggiungere sono molto chiari, e non troppo diversi da ogni altro hamburger ben imbastito: • crosticina croccante fuori, segno evidente di una buona maillardizzazione della superficie; • cuore formaggioso completamente sciolto, caldo e non fuoriuscito dai bordi; • accostamento sensato e coerente degli ingredienti, tenendo conto stavolta anche del sapore del formaggio scelto per il ripieno. Data la natura della preparazione, la scelta della componente casearia è di grande importanza: tradizionalmente viene usato il cheddar, ma abbiamo numerose alternative; soprattutto vorrei consigliarvi di non usare il cheddar fasullo, quel polimero reso arancione dal colorante che ha un gusto non dissimile dal teflon. Esistono diversi cheddar molto dignitosi, con un sapore profondo e assertivo che può caratterizzare in maniera decisa un panino che fa del suo punto di forza la cremosità e il gusto del formaggio. E in ogni caso, se avete letto il numero di Giugno 2020, avete imparato a farvelo da soli in casa. Non ne ho ancora parlato perché penso, dopo 18 numeri di Magazine, di poterlo dare per scontato, ma penso sia chiaro che per un buon hamburger serva della buona carne: inutile impegnarsi per un risultato perfetto e scegliere gli abbinamenti ideali se poi la ciccia ha un sapore polveroso e truciolare. Potete sicuramente tritare del manzo molto saporito per conto vostro, ma sicuramente la via più pratica è l’acquisto dei burger Blue Ox, GLC Top Selection. Non prendetela come una marchetta o una spinta promozionale: non ce ne sarebbe bisogno. La verità è che sono degli hamburger perfetti e non si trova di meglio neanche facendoli artigianalmente. PROCEDIMENTO 1. Come già accennato, la parte “sfidante” di questo piatto è riuscire a servire il panino col ripieno completamente fuso senza aver stracotto la carne: ho pensato quindi di ridurre il cheddar in frammenti il più possibile piccoli e sottili, per aumentarne la superficie a parità di volume e scioglierlo con facilità. La carne macinata deve fungere da alcova per il formaggio, e per fare questo avete due opzioni: la prima, tipica delle perso50 - BBQ4All MAGAZINE
ne per bene, più assennate, consiste nel prendere un coltello da sfiletto e aprire il patty come se fosse una focaccina, in due dischi di pari spessore; con il pollice basterà ricavare nel centro una depressione circolare pari a circa due terzi dell’area del cerchio (quindi non ai due terzi del diametro, non ragionate linearmente per piacere), nella quale depositare le scaglie di cheddar precedentemente preparate, mentre il secondo disco di macinato avrà il ruolo di coperchio. Una seconda opzione si adatta maggiormente a chi ha fretta, a chi ha una estensione mandibolare fenomenale o a chi ha in programma una successiva ostentazione di opulenza sui social network: imprimete col pollice o col fondo di un bicchiere il giaciglio circolare per il formaggio nell’hamburger da 200 g intero, spezzate il secondo hamburger, plasmatene una metà fino ad ottenere un disco di pari diametro e con questo fornite un coperchio alla polpetta. Avrete già intuito che il mezzo hamburger rimasto vi offre un pretesto inattaccabile per preparare un secondo Juicy Lucy e pareggiare i conti (per un totale di quattro hamburger da 200g).
2. Attenzione alla saldatura: non tirate via proprio su questo passaggio, non sottovalutate l’importanza dell’adesione dei bordi dei due dischi di macinato, o rischierete di rovinare un bel po’ il risultato. schiacciate i bordi con le mani, poi ricompattateli, poi schiacciateli di nuovo finché non sarete sicuri che le due parti non abbiano nessun pretesto per staccarsi quando si ritireranno in cottura. Aprite a metà il panino e tostatelo un po’ nella parte interna, affettate i pomodori e preparate la lattuga, disponendo tutto in maniera comoda ed efficiente per un successivo montaggio rapidissimo (chi non odia i panini che si freddano quando chi li confeziona è lento, serafico e bradipiforme?). Scaldate una padella in ghisa e appoggiateci il super-patty leggermente unto d’olio, girandolo con estrema cautela tramite una spatola. Quando entrambi i lati saranno adornati da una bella brunitura a causa della ormai nota reazione di Maillard, togliete la carne dal fuoco
e iniziate a rendere croccante e caratteristicamente arricciolato il bacon, ponendolo sulla padella ormai diventata molto calda: pochissimi secondi saranno sufficienti. In alternativa potete cuocere l’hamburger sul kettle o in un dispositivo outdoor a gas, in cottura diretta, molto semplicemente, usando le accortezze esposte per la padella: maggiore attenzione però richiederà il procedimento di cottura del bacon, che potrebbe scivolare tra le griglie e cadere nel carbone o tra le fiamme, generando indicibili profanità.
3. Prendete il restante cheddar e scaldatelo velocemente sulla padella per qualche istante, per farlo sciogliere senza farlo bruciare. A questo punto è il momento dell’assemblaggio del panino: prendete la parte inferiore del bun, spalmateci sopra mezzo cucchiaio di maionese o senape o entrambe; sopra il pane va subito l’insalata, che aiuta anche a non far infradiciare di liquidi lo strato spugnoso sottostante. Appoggiate qualche fettina sottile di pomodoro (meglio se leggerissimamente salato o inumidito con salsa di soia), Ora è il turno della carne, impreziosita da un “topping” di cheddar sciolto. E infine il bacon (i manieristi del burger vi direbbero che la stratificazione ideale è: pane, salsa, carne, formaggio, pomodoro, insalata, bacon, pane. Ma a noi è piaciuto anche così. n.d.r.). 4. La parte superiore del panino chiude il tutto, ed è pronto da servire. Fate presente ad eventuali ospiti ignari o a persone particolarmente fameliche che l’interno fuso può raggiungere temperature micidiali. in modo da evitare scenette fantozziane e intempestive corse al pronto soccorso. Usando questo procedimento come base di partenza potrete ricavare numerose varianti, anche solo giocando con i formaggi e sostituendo il cheddar con cose più nostrane, tipo caciocavallo o scamorza affumicata, e cercando sapori più pungenti con gorgonzola, pecorino o ricotta forte.
INGREDIENTI
P ER U N J U I C Y LU C Y
• due hamburger Blue Ox, GLC Top Selection • 100 g di Cheddar di ottima qualità • 3 fette di bacon • un pomodoro rosso • qualche foglia di lattuga • maionese e/o senape q.b. • un bun per hamburger
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SPECIALE U.S.A. - RICETTE a cura della REDAZIONE
CALIFORNIA
FRENCH DIP essenziale, indimenticabile, lussurioso
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Diventato nel tempo una voce molto comune nei menù di vari ristoranti, paninoteche e fast food d’Oltreoceano, Il French Dip è un panino molto saporito e godurioso eppure molto essenziale: solo carne, pane e salsa au jus. Il nome, che farebbe pensare a un’origine francese di tutta la preparazione, si riferisce invece al fatto che la carne viene servita in una baguette inzuppata nella salsa au jus, servita di solito anche in accompagnamento. Sono due i ristoranti americani che si contendono la paternità di questo sandwich, entrambi di Los Angeles: Cole's Pacific Electric Buffet e Philippe the Original. Quest’ultimo, che riporta nel logo la definizione “Home of the Original French Dip Sandwich” è decisamente più accanito nel cercare di dimostrare la paternità del panino alla francese, presentato come specialità della casa. Entrambi i ristoranti furono fondati nel 1908, e ambedue affermano di aver inventato questa preparazione: ma mentre Cole afferma di averlo messo in menù da subito, Philippe dice di averlo ideato lui dieci anni dopo, nel 1918. Diverse sono anche le leggende che i due ristornati raccontano sull’origine del French Dip: secondo alcuni sarebbe nato da un errore di un cuoco che avrebbe fatto cadere per sbaglio il pane nei succhi della carne mentre stava preparando un sandwich per un poliziotto (è singolare come molto spesso compaiano figure delle forze dell’ordine in storie simili, forse perché si vuole dare alla storia una sorta di ufficialità e di autorevolezza), altri dicono che invece sarebbe stata una trovata per far consumare ai clienti il pane stantio (e questo è molto meno romantico), e c’è perfino chi dice che il panino sarebbe nato per accontentare un cliente col mal di denti (decisamente l’ipotesi meno affascinante). In ogni caso, accertata l’impossibilità di risolvere la diatriba sulle vicende legate alla nascita del French Dip, in entrambi i ristoranti il panino viene servito più o meno nello stesso modo: immerso nei succhi della carne prima di essere farcito; è possibile richiederlo double dipped, ovvero con entrambe le metà del sandwich inzuppate prima di essere servite con la carne all’interno. La salsa au jus, con la quale viene accompagnato, serve anche a bagnare il sandwich durante la consumazione ed è
molto più densa di un brodo di base. Si realizza recuperando i succhi di cottura della carne, che poi si fanno ulteriormente stufare insieme a sedano, carota e cipolle; dopodiché si aggiunge un brodo e si fa ulteriormente addensare il tutto. A quel punto si può decidere di lasciarla così o di trasformarla in una salsa vera a propria aggiungendo un roux. Per realizzare questa ricetta, noi abbiamo utilizzato il fondo di cottura di un brisket di Wagyu, e abbiamo cotto il nostro Eye Round tenendolo prima in forno per farlo scaldare internamente e poi grigliandolo velocemente sul kettle. Ci siamo potuti permettere di velocizzare i tempi grazie alla qualità indiscutibile della carne del nostro Megastore: un Eye Of Round Usa Star Ranch Prime Angus. L'Eye Round è il corrispondente dell'italiano Megatello, una sezione pregiata della coscia bovina, usato molto spesso per la preparazione del Pit Beef, come ben sapete. Con carni di qualità inferiore, il consiglio è quello di fare un Revit (dry brining + forno a 52) in modo da concentrare il più possibile il sapore della ciccia e ottenere un risultato perfettamente rosato, senza mouse ring, caldo internamente, morbido e succoso. La ricetta della baguette, è gentilmente fornita dal nostro Alessandro Trezzi, poco più avanti. PROCEDIMENTO 1. Trimmate eventuali piccoli scarti dall’Eye Round, spennellatelo con un velo di olio di semi, e cospargetelo col Montreal senza esagerare. 2. Accendete il forno a 52°C e mettete la ciccia all’interno, appoggiandola su una griglia. Dovete aspettare il tempo necessario affinché all’interno raggiunga i 50/52 gradi. 3. Quando avrà raggiunto la temperatura desiderata, accendete una ciminiera di carbone e versatela nel kettle per una cottura diretta ad alta temperatura. 4. Grigliate il vostro Eye Round formando una gustosa crosticina omogenea (potete farlo anche aiutandovi con una padella o una piastra di ghisa appoggiata sulla griglia in corrispondenza della braci): non buttate mai la carne in griglia prima che quest’ultima (o la padella in ghisa, se l’avete usata) non sia rovente.
5. Una volta formata la crosticina, togliete il megatello dal fuoco e tenetelo in rest fino al momento del taglio. 6. Nel frattempo avrete preparato la salsa au jus: versate in una padella il fondo di cottura del brisket, aggiungete sedano, carota, cipolla tagliati grossolanamente e lasciateli stufare, in modo che rilasciano i loro succhi nel fondo di cottura. 7. A questo punto aggiungete il brodo di manzo e due cucchiaini di salsa Worcestershire . Fate ridurre il tutto, sgrassatelo e passatelo al setaccio. 8. Fate sciogliere il burro a fuoco medio poi spostate il tegame dal fuoco e aggiungete la farina setacciata tutta in una volta mescolando energicamente. Rimettete il pentolino sul fuoco basso e lasciatelo finché la farina sarà tostata (senza farla bruciare!). A quel punto potete aggiungere al roux il brodo concentrato ottenuto in precedenza, facendolo addensare. Le proporzioni di solito sono 1:1:10, quindi 30 g di burro, 30 g di farina e 300 ml di brodo per una salsa abbastanza densa. Comunque, potete variare le dosi, a seconda che la vogliate più o meno liquida. 9. Aprite la baguette e bagnate adesso una o entrambe le metà con la salsa au jus. Tagliate a fette l’Eye Round e farcite il panino. Servitelo con la salsa in accompagnamento.
I N G REDI EN TI
PER SEI PER SONE
• un Eye Of Round Usa Star Ranch Prime Angus da circa un kg • Sal’s Seasoning Montreal Steak rub q.b. • Olio di semi q.b. • sale e pepe q.b. • un gambo di sedano • una carota • mezza cipolla bianca • circa 100 ml di fondo di cottura del Brisket • 500 ml di brodo di manzo • 2 cucchiaini di salsa Worcestershire • 30 g di farina • 30 g di burro chiarificato
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L'ARTE BIANCA a cura di ALESSANDRO TREZZI
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baguette
une
pour tout le monde
Ci sono forme di pane ormai ben radicate nell’immaginario collettivo, il cui eco risuona nei secoli. Tra queste, riveste un ruolo di indiscutibile importanza la baguette, il celeberrimo pane francese riconoscibile tra mille: forma allungata e appuntita alle estremità, crosta croccante, mollica morbida e alveolata. La traduzione letterale è “bacchetta”, proprio per la sua particolare conformazione: un bastone di 55-65 cm di lunghezza per 5-6 di diametro, con un peso di circa 250-300 grammi. Esistono poi in Francia altre versioni meno conosciute, che differiscono dalla classica per le dimensioni: - Il flûte (flauto) è tipicamente parigino, più largo, dal peso di 400 grammi; - La ficelle (stringa) è più piccola, di circa 120125 grammi; - La demi-baguette è più corta, utilizzata solitamente per i panini. Ed è proprio quest’ultima la caratteristica più bella di questo pane eterno: la grandissima adattabilità alle farciture, che la rendono perfetta per i classici burro e marmellata o burro e prosciutto crudo, ma anche per una serie interminabile di abbinamenti. Uno di essi è sicuramente il French Dip che vi abbiamo proposto in questo menù americano. Si tratta, di fatto, di un pane da passeggio, che come tale ben si presta alla più nobile delle arti culinarie: il panino. Sebbene i francesi ne siano, per ovvi motivi, i più strenui consumatori (con oltre 30 milioni di forme al giorno), la baguette è diffusa in tutto il mondo, compresa l’Italia e i paesi ex-coloniali francesi (come l’Algeria).
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LA STORIA Nel 1830 arriva in Francia il paneviennoise: una forma allungata e ovale a base di lievito di birra, cotta a vapore (metodo ai tempi innovativo) e consumato solo in ambiente aristocratico a causa delle tasse sul pane bianco. La particolare cottura permetteva di formare una crosta croccante mantenendo l’interno morbido e scioglievole. Con il tempo, le tasse vennero abolite e il pane viennoise divenne alla portata di tutti, trasformandosi piano piano nel
cibo dei lavoratori; comodo, pratico e acquistato ogni giorno specialmente dai parigini, in quanto la conservazione non era ottimale e non era possibile comprarlo in quantità maggiori per consu-
oggi tutti conosciamo e che, dagli anni ’30, cominciò la sua scalata verso il successo. Nel 1967 arrivano in Francia i ticket restaurant; i parigini cominciarono a riempire le boulangerie durante la pausa pranzo, e ciò che fino ad allora era considerato un accompagnamento divenne un vero e proprio pasto. Nasce proprio in questo periodo il celebre jambon beurre (prosciutto e burro), detto anche sandwich parisien.
LA BAGUETTE TRADIZIONALE Un decreto del Governo Francese del 1993 definì i soli ed unici 4 ingredienti ammessi nella produzione della baguette de tradition française, detta anche
lata durante le sue fasi di preparazione, e la lievitazione deve durare dalle 15 alle 20 ore, contro le 3-4 ore normalmente impiegate per le altre baguette. LA BAGUETTE PERFETTA Detto questo, come ben sapete il nostro rispetto per la tradizione è sacrosanto, ma la perfezione è un’altra cosa e non sempre va di pari passo. Dobbiamo fare i conti con le materie prime di cui disponiamo, degli strumenti del contesto quotidiano, ma soprattut-
to di scienza e consapevolezza; i francesi quindi ci perdoneranno se le dosi e i tempi del nostro metodo non saranno identici ai loro.
marlo durante la settimana. Dopo un breve ritorno al pane nero di segale durante la prima guerra mondiale (più economico rispetto al bianco), la baguette torna alla carica e raggiunge il suo apice intorno agli anni ’20, quando una legge vietava ai fornai di lavorare prima delle quattro, impedendogli di cucinare le classiche pagnotte tonde per la colazione. La baguette risolse il problema in quanto poteva essere preparata e cotta in tempi decisamente inferiori. Poco a poco la forma si allungò sempre di più, trasformandosi nel bastone che 56 - BBQ4All MAGAZINE
baguette tradition: farina di frumento, acqua, lievito madre (non di birra) e sale (18 grammi di sale ogni chilo di farina). Sono ammessi tre adiuvanti: farina di semi per una percentuale massima del 2%, farina di soia per un massimo di 0,5% o farina di frumento malto consentita per uno 0,3%. L’uso di amilasi fungina come adiuvante tecnologico è accettato, ma non sono ammesse altre sostanze. La baguette tradition non deve essere stata conge-
Su un aspetto tuttavia non dobbiamo transigere: come riconoscere la baguette perfetta. Anzitutto il peso, che è possibile valutare con le proprie mani: la baguette deve dare una sensazione di leggerezza, testimonianza di una corretta lievitazione. Tagliando poi una fetta di baguette ci dobbiamo trovare di fronte a un’alveolatura irregolare con buchi non troppo
fini, ma nemmeno voragini eterogenee. La mollica deve, inoltre, aderire bene alla crosta. Infine, facendo una leggera pressione con le dita su quest’ultima, il pane deve tornare nella sua forma iniziale, testimonianza di una mollica asciutta, che respira, e il cui interno non si appallottola senza ritegno alla minima sollecitazione. L’IMPASTO La baguette nasce tradizionalmente con la farina bianca, di forza medio-alta e dall’assorbimento farinografico minimo sufficiente per sostenere un’idratazione media; nel nostro metodo giocheremo con i profumi, alternando una parte di farina 00 o 0 (che garantisce una struttura intatta ed equilibrio nel gusto) a una parte di farina di tipo 1 macinata a pietra, in grado di conferire profumi più marcati e piacevoli alla mollica. Per aumentare la friabilità e garantire uno sviluppo omogeneo, giocheremo in casa (d’altri) utilizzando la tecnica del poolish, un pre-fermento di origine polacca e adottata dalla Francia sin dal XIX secolo. In sostanza si tratta di un impasto liquido ottenuto mescolando farina e acqua in pari quantità, più una percentuale di lievito che dipende dalle ore di maturazione scelte; la temperatura ideale per la lievitazione è di circa 20-22 °C, e la maturazione perfetta viene raggiunta quando il volume è raddoppiato e tende a cedere al centro, con una crepa ben visibile. Tale tecnica è in grado di assicurarci gli alveoli ben distribuiti tipici della baguette, un effetto crunch superiore e una maglia glutinica molto estensibile grazie all’acqua in eccesso che accelera l’attività enzimatica. Il sapore è più pungente, a causa della presenza di acido acetico e alcol. Per realizzare l’impasto ci atterremo ad un’idratazione del 65%, la via di mezzo perfetta per ottenere un impasto modellabile senza fatica ma al contempo leggero e scioglievole. PREPARAZIONE DEL POOLISH Mescolate gli ingredienti in una ciotola, fermandovi non appena la farina risulterà completamente idratata. Non è necessario che formiate il glutine, dovete solo uniformare il composto. Coprite con pellicola e lasciate maturare a una temperatura di 20-22 °C per 12 ore. Come già anticipato, il poolish risulterà
maturo quando prossimo al collasso, ovvero quando inizierete a notare delle crepe sulla superficie. IMPASTAMENTO In una ciotola o nella vasca della vostra impastatrice o planetaria versate tutta la farina, il lievito (che servirà come starter per far partire la lievitazione) e i 3/4 dell’acqua della ricetta e iniziate a impastare, fino a ottenere una massa uniforme e asciutta. A questo punto aggiungete il sale, e proseguite mettendo l’acqua a filo, solo quando la precedente risulterà perfettamente assorbita. Chiudete l’impasto quando risulterà liscio, uniforme e ben incordato. Ripiegatelo sul banco per dargli una struttura, oliate un recipiente (possibilmente con i bordi alti e stretti per consentirgli di crescere in altezza), chiudete ermeticamente e mettete a lievitare a una temperatura di 26-28 °C per un’ora. STAGLIO E FORMATURA Recuperate l’impasto, ribaltatelo sul piano da lavoro e dividetelo in otto parti uguali, che peseranno circa 120-125 grammi l’uno. Logicamente dobbiamo adattarci agli spazi del forno di casa, e la nostra baguette risulterà quindi più piccola dell’originale; la cosa importante, come sempre, è rispettare le caratteristiche tecniche. Formate delle palline e dategli la cosiddetta “pre-forma”: appiattitele delicatamente per formare un ovale, poi ripiegate l’impasto verso il centro fino a ottenere un panetto regolare allungato. Lasciate quindi riposare (con il lato della chiusura in basso) per 30 minuti a 2628 °C per far rilassare il glutine e recuperare estensibilità. Dopodiché, appiattite ogni panetto e ripiegate ancora i lembi verso il centro per dare forza all’impasto, in modo da conferire ulteriore struttura e permettergli di crescere in altezza durante l’appretto. A questo punto arrotolate il panetto tra le mani per avere una forma allungata e uniforme in tutta la sezione, tenendo come riferimento la dimensione della vostra teglia, tipicamente da 40 cm. Non dimenticate di conferire alle estremità la classica forma appuntita, premendo e ruotando con i palmi delle mani in modo da ottenere un piacevole effetto croccante dopo la cottura. Infarinate un canovaccio (abbastanza lungo) e stendetelo sulla teglia, appogLUGLIO 2020
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giate un filone (con il lato della chiusura verso l’alto) e poi il successivo, tirando un po’ il tessuto tra uno e l’altro per tenerli separati. In ogni teglia da 30x40 cm riuscirete a mettere 3 filoni. APPRETTO Coprite con un altro canovaccio e lasciate lievitare per 1-2 ore a 26-28 °C, o comunque fino al raddoppio del volume. COTTURA Preriscaldate il forno statico a 240 °C e preparate un pentolino di acqua bollente. Appena i filoni saranno pronti, capovolgeteli su una teglia foderata con carta forno, spolverate leggermente con della farina la parte superiore e praticate i classici taglietti trasversali con una lametta o un coltello ben affilato. Infornate per circa 15 minuti con il pentolino nella parte bassa e la teglia in posizione centrale. Dopodiché, togliete il pentolino e cuocete per altri 5 minuti con la porta leggermente aperta per far uscire il vapore e asciugare la crosta, che dovrà risultare croccante, friabile e ben dorata. Sfornate, lasciate raffreddare su una griglia rialzata e preparatevi per azzannare questo pezzo di storia. Farcite le baguette con la carne per il French Dip. Ma viste che ne avete in abbondanza, dateci di burro e marmellata oppure provate anche il sandwich parisien, fidatevi.
INGRE DI EN TI
PE R C IRC A 8 B AG UET TE PER IL POOLISH • 100 g di farina di grano tenero di tipo 00 o 0 (270 – 280 W); • 100 g di acqua; • 0.5 gr di lievito di birra fresco. PER L’IMPASTO • 200 g di poolish maturo; • 500 g di farina di grano tenero di tipo 1 (270 – 280 W); • 300 gr di acqua; • 10 gr di sale fino; • 1 gr di lievito di birra fresco.
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SPECIALE U.S.A. - RICETTE a cura della REDAZIONE
per finire dalla brace alla padella
Pancake
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INGREDIEN TI
P ER 4 P ERSO N E • • • • • •
200g di farina 250g di latte 2 uova 30 g di zucchero bianco 30 g di burro chiarificato mezza bustina di lievito per dolci • burro per la cottura in padella q.b. • sciroppo d’acero a piacere
Calde e soffici frittelle rotonde servite impilate una sopra l’altra, a mo’ di torretta, ricoperte con lo sciroppo d’acero (nella versione classica), col cioccolato fuso, col caramello o con la marmellata, guarnite con frutta secca o fresca: sono i pancake, una delle tante preparazioni tipiche della ricca e varia colazione anglo-americana. Il cinema e le serie tv statunitensi ci hanno insegnato che sono talmente buoni da essere preparati per iniziare al meglio la giornata, un po’ come da noi che per lavorare felici e contenti dobbiamo inzuppare un cornetto nel cappuccino, pena il malumore fino a sera. Chi di voi non ha sognato almeno una volta di infilare la forchetta in quei dischi appetitosi? Se poi leggevate Topolino, non può non esservi venuta l’acquolina quando vedevate Paperino preparare centinaia di pancake ai suoi saputelli nipotini. Ebbene questa preparazione non affonda le proprie origini nel Nuovo Continente, ma nella culla della civiltà occidentale, la Grecia. Infatti, le prime testimonianze di una ricetta similare risalgono al 500 a.C., nei pochi versi sopravvissuti allo scorrere del tempo dei commediografi ellenici Cratino e Magnete. Negli stralci delle loro opere perdute, entrambi parlano di un dolce tipico del mattino, le Teganites o Tagenites (il nome deriva dalla pentola usata per realizzarlo), ovvero frittelle tonde fatte con farina, acqua e olio, ricoperte di miele. Questi testi fanno parte della collezione dei Papiri di Ossirinco, sito archeologico egiziano dove, fra il 1896 e il 1907, due studiosi dell’Università di Oxford, Bernard Grenfell e Arthur Hunt, scoprirono una serie di documenti pubblici e privati (editti, compravendite, ecc.) e parti di poemi latini e greci. A diffondere la preparazione, inizialmente nell’aria mediterranea e poi via via in ogni zona del proprio dominio, furono i Romani. Quando Roma annetteva al proprio territorio una nuova provincia, non distruggeva la cultura dei vinti, anzi permetteva loro di mantenerla a patto che riconoscessero senza nessuna riserva la supremazia del vincitore. Perciò ogni conquista portava all’incontro e alla fusione di tradizioni e stili diversi. I conquistatori erano soliti acquisire e portare a Roma sotto forma di bottino (schiavi, ricchezze, opere d’arte ecc.), tutto ciò che di bello, interessante ed utile offriva il nuovo territorio. Il contributo della cultura greca sicuramente fu molto importante, sia nel campo delle arti che in quello delle scienze, ma ebbe un peso significativo anche in cucina e le Teganites ne sono una prova. Durante il periodo imperiale l’impasto fu arricchito con latte, uova e spezie, e fu trasformato di fatto da dolce semplice e accessibile a tutti, a prelibatezza riservata solo ai patrizi e ai ceti abbienti. La sua bontà era tale che fu ribattezzato Alica Dolcia (lett. incantesimo dolce). Con la caduta dell’Impero Romano d’Occidente nel 476 d.C., e con l’avvento del Medioevo questa ricetta fu quasi del tutto dimenticata nella penisola italica, mentre incontrò grande fortuna nel resto d’Europa, in particolare in Inghilterra. Basti pensare che il termine pancake (pan, padella e cake, dolce), comparve per la prima volta in un documento inglese del 1430. A tutt’oggi nel Regno Unito sono il dolce per eccellenza dello Shovre Tuesday o Pancake Day corrispondente al nostro martedì grasso. Gli inglesi non festeggiano il Carnevale, ma il giorno prima del Mercoledì delle Ceneri, per liberarsi dai cibi proibiti come uova, burro, miele e zucchero, secondo la tradizione sono soliti cucinare le frittelle con le quali abbuffarsi durante il corso della giornata in vista del lungo periodo di penitenza e di LUGLIO 2020
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privazioni che li aspetta: la Quaresima. Secondo una leggenda, nel 1445 a Olney. paese della Contea di Buckinghamshire, una donna era talmente intenta a spadellare frittelle da non rendersi conto del tempo che passava. Così quando sentì il suono delle campane che annunciava l’inizio delle confessioni si precipitò fuori di casa correndo verso la chiesa, con ancora indosso il grembiule e il padellino in mano con dentro una focaccina. Per ricordare questo simpatico episodio ogni anno nella cittadina viene organizzata la “Olney Pancake Racey”. È una corsa aperta solo alle donne maggiorenni residenti a Onley almeno da tre mesi, che indossando un grembiule e con in mano una padella devono percorrere 415 yard (circa 379 metri). Alla partenza devono prima far saltare in aria il pancake e solo dopo possono iniziare a correre. L’importanza degli inglesi nella storia dei pancake non finisce qui; essi infatti giocarono un ruolo fondamentale nell’esportazione di questa prelibatezza nel Nord America, la quale arrivò in New England insieme ai Puritani o Padri Pellegrini (i primi a bordo della Mayflowers approdarono a Cape Cod nel 1620), che per sfuggire alle persecuzioni religiose nella madre patria, in cerca di fortuna e ricchezza, si rifugiarono nelle colonie britanniche del nuovo mondo. Ma a determinare il grande successo di questo dolcetto tra gli yankee sarà l’arrivo negli Stati Uniti, più di 200 anni dopo, del lievito chimico in cucina, che li trasformerà nelle morbide focaccine rotonde note in tutto il mondo. Il lievito moderno fece la sua comparsa nell’800 in Germania dove il farmacista August Oetker diede vita ad una produzione di massa destinata all’ambito casalingo. Negli Stati Uniti questo nuovo elemento si impose dopo la fine della guerra di Secessione (1861-1865) ad opera di due fratelli, Joseph e Cornelius Hoagland. A introdurre l’elemento lievitante nella pastella delle frittelle furono alcune massaie, le quali curiose di provare il nuovo ingrediente in cucina, inconsapevolmente contribuirono alla nascita di uno dei simboli culinari della tradizione americana. Il successo delle focaccine lievitate fu tale da attirare anche l’interesse dell’industria alimentare che, nel corso del tempo, ha imposto sul mercato diversi preparati in polvere a cui si può 62 - BBQ4All MAGAZINE
aggiungere solo un po’ d’acqua o di latte per assaporare i veri pancake. Nonostante i pancake possano essere insaporiti con qualsiasi tipo di crema spalmabile o di marmellata, il condimento preferito per eccellenza dagli americani è lo sciroppo d’acero. Un dolcificante naturale, già presente nella dieta dei nativi americani prima dell’arrivo dei coloni, ottenuto bollendo insieme le linfe di due varianti d’acero: quello zuccherino e quello nero. Il leggero gusto di melassa e miele si sposa alla perfezione con il sapore delicato e burroso dei pancake senza sovrastarlo. Dopo tanta teoria è finalmente arrivato il momento di passare ai fatti. PROCEDIMENTO 1. Con le fruste elettriche montate le uova e lo zucchero, poi aggiungete il latte e il burro sciolto. Ogni volta che inserite un elemento, amalgamatelo bene al composto prima di aggiungere il successivo. 2. Dopodiché unite poco alla volta la farina setacciata ed infine il lievito, sempre mescolando dal basso verso l’alto fino ad ottenere una pastella liscia, ma al contempo corposa 3. Mettete su un fuoco medio basso una padellina, fate sciogliere una piccola noce di burro e versate al centro un mestolo di pastella senza schiacciarlo. 4. Quando si formano le bollicine sul lato superiore, girate la frittella con una spatola o se siete bravi fatela saltare. 5. Ripetete il procedimento fino a quando la pastella non sarà terminata. 6. A questo punto è arrivato il momento di mettere una sopra l’altra le vostre frittelle. Bagnate la parte superiore con una generosa dose di sciroppo d’acero e servitele ancora calde.
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PER 4 PER SONE • • • • • •
200g di farina 250g di latte 2 uova 30 g di zucchero bianco 30 g di burro chiarificato mezza bustina di lievito per dolci • burro per la cottura in padella q.b. • sciroppo d’acero a piacere
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VINI VINIABBINATI ABBINATIa acura curadidiENIO ENIOBERTON BERTON
G EW Ü RZT RAM I N E R
Questa zuppa di gamberi e salsiccia piccante richiede un vino che accompagni il gusto dolciastro dei crostacei e che sappia alleviare il piccante della salsiccia; altra nota da tener a mente è la presenza dell’okra, dal gusto simile all’asparago, che dona alla preparazione un’ulteriore nota di dolcezza. Cerchiamo un vino profumato, fresco, leggermente dolce, e visto che parliamo di un piatto tipico della cultura creola giochiamo con un nome difficile da scrivere e da pronunciare il Gewürztraminer. Conosciuto come uno dei pochi vitigni aromatici, il Gewürztraminer produce un grappolo dal colore rosa che dona vini bianchi profumati e di corpo. Le origini risalgono, secondo alcuni, attorno al 1000 d.C. con la varietà originale del Traminer nei dintorni della città di Termeno in Trentino. Rimase popolare fino al XVI secolo per poi essere soppiantato dalla più remunerativa uva Schiava. Nel corso del 1800 la varietà di Traminer Musquè assunse il nome di Gewürztraminer dove l’aggettivo Gewürz significava profumato (e non speziato come secondo la traduzione letterale del termine). Altre ricerche riconducono alla zona tedesca del Palatinato le origini del vitiglio che, sempre attorno al 1000 d.C., si sarebbe poi diffuso in Alsazia e nel resto dell’Europa continentale. Nel 1973 anche l’Alsazia adotta il termine Gewürztraminer per la produzione dei suoi pregiati vini provenienti da questo vitigno. Coltivato in molte zone del mondo è la Francia a primeggiare come quantitativo prodotto totalmente concentrato nella regione dell’Alsazia, che produce quanto gli altri stati messi assieme. Vanno citate le produzioni negli Stati Uniti collocate in California e Oregon, nella Germania (zona Reno), in Australia, in Austria ed in Italia. La mia proposta cade sul Südtirol - Alto Adige Valle Isarco DOC Gewürztraminer 2019. L’Abbazia di Novacella, situata nella valle d’Isarco, produce vini fin dal 1142 su terreni originariamente donati da Reginbert di Sabiona ma che continuarono ad aumentare fino al 1800, quando con la secolarizzazione dovette cedere parte dei terreni ai contadini del luogo. Nonostante questo, la produzione di vino non accennò a diminuire visti i grossi conferimenti di uva che gli stessi contadini facevano all’Abbazia. I vigneti sono dislocati dai 600 ai 900 metri slm. con esposizione sud e sudovest per catturare tutti i raggi di sole possibili in questa zona vinicola che è la più settentrionale dell’Italia. La raccolta delle uve, da cui nasce questo Gewürztraminer, avviene verso la metà di ottobre, dopo la raspatura continua la fermentazione in vasche di acciaio inox a temperatura controllata. Ulteriore affinamento di sei mesi viene fatto sempre in vasche di acciaio inox. Dal colore giallo paglierino con riflessi oro, al naso si apre con un bouquet di fiori bianchi con note di chiodi di garofano e vaniglia. Al palato le note di rosa a petali bianchi sono un prosieguo a quanto l’olfatto ci ha regalato, il gusto pieno ed aromatico ne esalta le qualità. Fin di bocca persistente e ampio.
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Vino: Südtirol - Alto Adige Valle Isarco DOC Gewürztraminer 2019
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Cantina: Abbazia di Novacella
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Abbinamento: Gumbo
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Uve: 100% Gewürztraminer
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Zone produzione: Varna (BZ)
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Grado alcolico: 14,50%
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Da servire: 10/12 gradi in calici a tulipano
DOGLIANI SUPERIORE •
Vino: Dogliani Superiore DOCG Vigna Tecc 2017
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Cantina: Poderi Luigi Einaudi
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Abbinamento: Burgoo
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Uve: 100% Dolcetto
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Zone produzione: Dogliani (CN)
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Grado alcolico: 14,50%
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Da servire: 16/18 gradi in calici a tulipano
Un bel piatto succulento e piccante, il Burgoo: la combinazione delle carni usate ma, soprattutto, il grado di piccantezza che gli diamo condiziona l’abbinamento ad un vino. La tecnica da usare, in questo caso, è quella di contrapporre al piatto un vino che sappia armonizzare, contrastandolo, il piccante. Dobbiamo quindi usare un vino con alto grado alcolico (l’alcool è un solvente per la capsaicina) o con una bassa temperatura di servizio (il freddo allevia la sensazione di bruciore dato dalle sostanze che producono la sensazione di piccante), oppure, ancora con un vino la cui dolcezza che contribuisca ad ammorbidire il boccone. Le possibili scelte sono tante: un Dolcetto d’Alba, un Rosso Conero oppure se volete osare un bel Riesling o uno Chardonnay, ma che siano con qualche anno alle spalle ed abbiano una struttura potente. La mia scelta invece è caduta sul Dogliani Superiore DOCG Vigna Tecc 2017. La storia della cantina è anche un po’ quella della Repubblica Italiana, infatti, il fondatore della cantina è stato il primo Presidente della Repubblica. Torniamo al 1897, quando un giovane convinto che l’agricoltura avrebbe portato il Piemonte fuori dalla crisi economica del tempo acquistò il suo primo podere nel comune di Dogliani. Da allora introdusse tecniche di coltivazioni moderne contribuendo alla divulgazione dell’uso delle barbatelle con il piede americano per combattere la filossera. Nel 1915 decise di produrre direttamente il vino raccolto da vigneti che godevano una particolare posizione, oltra a una felice esposizione e all’ottima qualità del terreno. Nel corso degli anni il numero dei terreni è aumentato fino a raggiungere gli attuali 60 ettari di vigneto. La storia riporta che Luigi non perse una vendemmia neanche durante la lunga permanenza a Roma per poi lasciare le redini dell’azienda al secondogenito Roberto, nato proprio a Dogliani, che affiancò la carriera da imprenditore nel settore meccanico alla conduzione dell’azienda agricola di famiglia. La nipote Paola subentrò alla fine degli anni 80 dando nuovo slancio commerciale all’azienda, rafforzò il marchio e diede un grosso impulso al miglioramento dei vini. Al comando, ora, troviamo la quarta generazione degli Einaudi con il nipote Matteo che continua la tradizione di famiglia valorizzando il territorio e i suoi prodotti. Il Dogliani Superiore DOCG vigna Tecc nasce da uve selezionate da oltre settant’anni dal vigneto, esposto nel versante sud della tenuta in località Madonna delle Grazie nel comune di Dogliani a 350-400 metri slm. Dopo la spremitura inizia la fermentazione in vasche di acciaio e cemento a temperatura controllata per 8-10 giorni, per poi continuare l’affinamento con passaggi in legno e acciaio che ne esaltano il corpo e la sua complessità; viene imbottigliato entro la fine dell’anno di vendemmia. Dal colore rosso rubino intenso e brillante si presenta al naso con note di frutta di sottobosco e fragola matura. Al palato le note di frutta danno, assieme ai tannini freschi, una gradevole sensazione, avvolgente e piacevole. Fin di bocca persistente.
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VINI VINIABBINATI ABBINATIa acura curadidiENIO ENIOBERTON BERTON
U MO R E N E RO • Vino: Oltrepò pavese Pinot Nero Una bella baguette pucciata nel sugo e riempita di sottili fettine di ciccia succulenta DOC “Umore Nero” 2017 che sprigionano le note date da una leggera affumicatura e dal profumo del fuoco in cui è stato cotta. La voglia di mordere quel filoncino di pane è tanta ma devi prima • Cantina: Castello di Luzzano scegliere cosa abbinare. Giochiamo sui nomi e soprattutto sui francesismi e trovia• Abbinamento: French Dip mo un vino rosso profumato, nobile e conosciuto come la baguette nel mondo. La • Uve: 100% Pinot Nero scelta cade, inesorabilmente, sul Pinot Nero o meglio Pinot Noir, vitigno coltivato in tutte le zone vitate del mondo. • Zone produzione: Rovescala (PV) Il nome deriva dal caratteristico aspetto a pigna dovuto alla forma e dimensione de• Grado alcolico: 12,00% gli acini che creano una maglia fitta e ad imbuto del grappolo. Il Pinot Nero è uno dei • Da servire: 16/18 gradi in calici a vitigni più vecchi al mondo e la sua origine viene posta in Francia nella regione della tulipano Borgogna ancora prima della conquista della regione da parte dell’impero romano. Il vitigno viene citato nelle opere di Plinio il Vecchio e Columella nel I° secolo d.c. e, dopo la caduta dell’impero, con il governo di Carlo Magno si assiste al ripristino dei vecchi vitigni da parte degli ordini ecclesiastici nei terreni assegnati attorno ai loro monasteri. L’opera dei monaci è fondamentale per il recupero e la selezione dei vitigni migliori che furono piantati in zone particolari dove il tipo di terreno e la sua esposizione al sole permettevano di ottenere un vino perfetto. I vigneti venivano recintati con muretti in pietra creando i “clos”, gli appezzamenti dei terreni che ancora oggi sono alla base delle classificazioni vinicole della zona della Borgogna e non solo. Il più famoso e quello di Vougeot che è una denominazione Grand Cru della Côte de Nuits. In Italia le prime notizie sulla coltivazione del vitigno arrivano attorno all’anno 1750 quando il conte Lodovico Bertoli pubblicò, a Venezia, il libro “Le vigne ed il vino della Borgogna in Friuli”, anche se le coltivazioni di Pinot Nero erano presenti nel nostro paese a partire dal 1500, portati dai monaci cistercensi francesi. Nel corso del 1800 iniziarono a diffondersi le coltivazioni, in Italia, soprattutto in Trentino Alto Adige, in Friuli e nell’Oltrepò Pavese anche se, fino alla metà degli anni ottanta, le produzioni erano di bassissima qualità causa il tipo di coltivazione utilizzata e delle zone non adatte, che rendevano il vino poco avvezzo all’invecchiamento.
Le coltivazioni sono arrivate anche negli Stati Uniti nelle zone esclusive di Napa e Sonoma ma, contrariamente a quello che si può pensare, particolare attenzione merita la produzione in Oregon, regione fredda e piovosa, che produce un Pinot di qualità nella zona di Willamette Valley. La Nuova Zelanda non è da meno, con le zone di Central Otago e Marlborough che producono vini piacevoli e longevi. Per la mia proposta facciamo una tappa nell’Oltrepò Pavese, terra votata alla produzione del metodo classico ma che riserva delle chicche nella produzione di vini fermi. La storia enologica del territorio viene fatta iniziare fin dalla preistoria con il ritrovamento di un ceppo di vite fossilizzato nei dintorni di Casteggio. La tradizione attribuisce all’Oltrepò Pavese l’invenzione della botte nel I sec. a.C. La famiglia Fugazza (grandi proprietari terrieri ed industriali conservieri) acquistò la tenuta agli inizi del 900, investendo in tecniche di impianto e cantine di trasformazione che hanno dato, nel corso degli anni, un impulso notevole a tutto il settore vitivinicolo della zona. Attualmente alla conduzione dell’azienda ci sono due sorelle, Maria Giulia e Giovanella subentrate nel 1980 al padre Emilio. La vinificazione avviene separata per vigneto in un’ala del castello, dedicata all’uopo fin dal 1936, mentre le antiche cantine del castello sono dedicate all’affinamento in barrique dei vini riserva. Le origini del Pinot Nero nella zona risalgono attorno al 1500 con l’impianto di cloni provenienti dalla Borgogna. La produzione dell’Umore Nero avviene solo con uve di proprietà. Non effettua nessun passaggio in botte per mantenere le note floreali e di frutta tipiche del vitigno. Dal colore rosso rubino acceso al naso si avverte un bouquet di piccoli frutti rossi e note di petali di rosa, al palato risulta delicato, fresco di buona beva con una ulteriore esaltazione dei profumi fruttati. Fin di bocca persistente.
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BIRRE CONSIGLIATE a cura di RICCARDO MENICONI
S E B EV E MO FO R A L A BA R AC C A A Chicago, nello stato dell'Illinois, nasce uno stile di pizza tutto nuovo, il Deep-Dish Pizza. A metà tra una pizza e una torta salata, è caratterizzata dalla grande quantità di ripieno e dal bordo alto. Solitamente è farcita con abbondanti quantità di formaggio e salsa di pomodoro, ma è possibile aggiungere a piacimento altri ingredienti come la salsiccia o le verdure. In italia non è molto conosciuta, o meglio, non è molto apprezzata, ma in America è considerata una specialità del Midwest. A questo piatto, metà torta salata, metà pizza, abbineremo una birra un po' Lager un po' Pale Ale, nata dalla collaborazione di due grandi menti del movimento brassicolo italiano. Gino Perissutti (Foglie D'erba), forte della sua esperienza sulle birre luppolate, e Simone dal Cortivo (del birrificio Birrone) maestro delle basse fermentazioni. Il risultato è una Hoppy Lager, dal nome evocativo di Se bevemo fòra la baracca che tradotto suona più o meno come "ci beviamo l'intera baracca". Nel bicchiere si presenta con uno splendido colore giallo paglierino con riflessi dorati, limpida come le migliori birre tedesche e dalla schiuma bianca e persistente. Al naso le due filosofie si uniscono con aromi di crosta di pane, miele e erba appena tagliata; non mancano note più agrumate e di luppolo verde. In bocca è schietta, molto coerente, con un attacco morbido, appena abboccato che si snellisce subito dopo lasciando spazio alla luppolatura, il finale è secco e amaricato. La beva è sorprendente e i 4,8° abv non sono d'intralcio a quello che il nome ci aveva fatto presagire. Da bere ad una temperatura tra i 6 e gli 8°C in un boccale tedesco.
TASTY JUICE
Il Juicy Lucy, come suggerisce il nome, è un -succoso- cheesburger con il formaggio intrappolato tra due "patty" sigillati insieme, che cuocendo trasformano il ripieno in un cuore fondente e irresistibile. Per una simpatica assonanza e un’azzeccatissima congiunzione gastronomica, la birra di oggi sarà una New England Ipa, AKA Juicy Ipa. Per me la regina di questo stile è la Tasty Juice di Lervig Aktiebryggeri, per gli amici solo Lervig, birrificio Norvegese che sa far parlare di sé. La lattina è un turbinìo di colori, che ben anticipa quello che sarà poi la birra. Anche se l'impatto visivo potrebbe destabilizzarvi un po', non vi preoccupate, quel colore arancione torbido, impenetrabile dalla luce, è tipico dello stile. La schiuma è bianca, grossolana e poco persistente. Ma è al naso (e successivamente in bocca) che dà il meglio di sé.Nell'etichetta dovrebbero inserire un clausola con su scritto “utilizzare in ambienti ben ventilati”. L'aroma è esplosivo: pompelmo, lime, mango e ananas si propagano per tutta la stanza appena stappata la lattina. In bocca è setosa, morbida, succosa; dominano la frutta fresca ed esotica, il mango va per la maggiore con leggere virate sul citrico degli agrumi. Questo stile non brilla di certo per equilibrio, ma l'amaro è discreto, tendente all'erbaceo con note resinose, e i sentori di malto nel finale la rendono un po' meno sgraziata. La bevuta è abbastanza scorrevole e molto piacevole, da record invece la persistenza, vi ricorderete di questa birra per qualche ora dopo l'ultimo sorso. Ma non resisterete così a lungo prima di stapparne un'altra. Prestate comunque attenzione, il grado alcolico non è elevato (6°abv) ma il formato da 50cl è ingannevole. Vi consiglio di servirla ad una temperatura di 6/8° in una pinta americana, magari nel dehor di un pub lungo mare e un Juicy lucy nel piatto! LUGLIO 2020
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XXX BITTER Il Memphis Style è uno dei quattro stili pricipali che possiamo distinguere nella tradizione americana del BBQ, insieme al Kansas City, al Texas e al Carolina style. Si differenzia per l'impiego principale di carne di maiale, in particolare Ribs e Pork Shoulders, e per l'assenza di salse in accompagnamento. La carne è insaporita con una miscela di spezie secche macinate, detta dry rub, o semplicemente rub ed è bagnata durante la cottura con una mistura di aceto di mele (o sidro), senape e sale, chiamata mop sauce. Al contrario delle Kansas city Ribs, quindi, risulteranno più speziate e sapide, meno dolci e "appiccicose": queste caratteristiche richiamano una birra prepotente, in grado di sopportare e supportare il profilo gustativo importante della pietanza. Quando sento dire “carne di maiale, grassa e speziata" la mia mente vola in Belgio senza passare dal via. E oggi ci stappiamo una di quelle birre che vanno conosciute come le proprie tasche. Non so quantificare quante ne ho bevute in questi anni di scorribande alcoliche, ma vi posso assicurare che non c'è stata una sola volta in cui mi abbia deluso. Nasce nel 2013 nel villaggio di Dottigies, dal birrificio De Ranke. Sorella maggiore della SimpleX e della XX Bitter, parliamo della XXX Bitter, che completa la serie. Stile particolare e relativamente moderno: possiamo tranquillamente definirla una Belgian Ipa, anche se a qualcuno si drizzerà il pelo. Nel bicchiere si presenta di un bellissimo colore giallo dorato, con riflessi arancio e con un cappello di schiuma bianca, fine, abbondante e molto persistente. Al naso spiccano aromi freschi, floreali ed erbacei dati dal grande utilizzo dei luppoli Gold e Hallertau, con note di agrumi e di pepe nel finale. In bocca apre dolcemente con sentori di frutta gialla e pane, per virare violentemente sull'amaro erbaceo e secco, che la distingue dalle sorelle minori; la carbonazione bassa e il finale secco rendono la bevuta molto piacevole. Vi consiglio di servirla ad una temperatura di 8°-10° C in un calice a chiudere.
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L'ARTE CASEARIA - RUBRICA a cura di GIOVANNI MINELLI
il MONTEREY JACK il sogno americano sotto forma di formaggio In un menù tutto statunitense, verace e ben pensato, c’è spazio per un formaggio che sarebbe capace di far scendere anche la lacrimuccia ad un eventuale ospite d’oltreoceano. In Italia è quasi del tutto sconosciuto, ma basta fare un viaggetto nel nuovo mondo per scoprire di quanta popolarità goda e altrettanto orgoglio susciti il poter affermare che si sta consumando un originale Jack. Sto parlando del Monterey Jack, un formaggio la cui storia iconica incarna perfettamente il concetto di “sogno americano”. Conosciamolo un po’ meglio prima di imbarcarci in questa nuova avventura casearia che ci porterà alla sua realizzazione. Si tratta di un formaggio ottenuto da latte intero, quindi grasso, a pasta cruda e semidura. Normalmente viene consumato come formaggio da tavola ma trova spazio in numerose ricette tipiche, soprattutto in California, dove è nato. Classico protagonista degli spuntini spezzafame, lo troviamo spesso anche all’interno di preparazioni dove la cultura statunitense si mescola a quella messicana. Com’è facilmente intuibile nasce a Monterey, la mitica città in cui sono ambientate le rocambolesche avventure di Danny e tutta l’allegra combriccola di Pian della Tortilla (se non sapete di cosa sto parlando dovete porre rimedio al volo, lo dico per voi).
Alla fine del 1700 i frati francescani della Missione San Carlos Borromeo del Rio Carmelo lo producevano per lo più per consumo interno. Intorno alla metà del 1800 David Jack, uno scozzese emigrato in California, acquistò centinaia di ettari di terreno intorno alla città, diventando il più grande proprietario terriero della zona. Tanta terra, tanto bestiame, tanto latte. Cominciò a produrre formaggio seguendo la ricetta dei frati e lo commercializzò col nome di Queso Blanco. Da subito riscosse un gran successo, tanto che le realtà produttive di tutta la regione volevano produrre questo formaggio. David Jack, la cui storia è abbastanza controversa e spesso non stimola simpatia, di sicuro sapeva cavalcare l’onda favorevole del mercato e, da vero businessman, colse la palla al balzo, e si affiliò a un gran numero di caseifici, così da cominciare la commercializzazione su vasta scala e dominare il mercato, con quello che fu ribattezzato Monterey Jack. Normalmente è consumato dopo un periodo di maturazione che va dai 30 giorni fino ai 6 mesi ma ne esiste una versione stagionata, il Dry Jack, che viene consumato anche oltre l’anno e si presta bene per gli affinamenti più fantasiosi. Di norma il Dry lo troviamo sul mercato ricoperto da uno strato di cera che lo preserva da un’eccessiva perdita di umidità nel corso LUGLIO 2020
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del lungo periodo di stagionatura. Abbastanza celebre anche il Pepper Jack, una variante aromatizzata con peperoncino. Ma senza Monterey Jack non ci sarebbe neanche l’iconico Colby-Jack, o Cojack, uno dei formaggi americani dall’aspetto più caratteristico, ottenuto dalla pressatura di cagliate diverse, in parte Monterey Jack e in parte Colby, un formaggio la cui pasta ha un’accesa colorazione arancione data dall’annatto. Cosa bisogna aspettarci dall’assaggio? Si tratta di un formaggio dolce, delicato, con note acide nel finale. Aromi e profumi ricordano latte e burro fresco, poi in base alla materia prima di partenza possiamo ritrovare sentori di erba e frutta a guscio. Ha una persistenza abbastanza limitata e le sue peculiari caratteristiche tecnologiche lo rendono davvero duttile in cucina, pensiamo ad un gusto neutro ed una buona capacità di fondere al calore, quindi alla possibilità di conferire rotondità, grassezza e morbidezza se lo inseriamo in una ricetta.
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Anche questa volta vi descrivo il processo per trasformare 10 litri di latte, non vado su quantità inferiori così da ottenere un formaggio con una pezzatura adatta ad una maturazione che possiamo protrarre per qualche mese. Vi anticipo subito che questa volta procederemo con la salatura del formaggio utilizzando la salamoia: se per il Cheddar abbiamo effettuata una salatura a secco direttamente nella pasta prima di pressarla, questa volta immergeremo il prodotto in una soluzione di acqua e sale. Se vi state domandando se sia assolutamente necessario la risposta è no. Nella maggior parte dei casi, i formaggi presamici (che ricordiamo essere quelli che produciamo utilizzando il caglio come coagulante) possono essere salati indistintamente sia a secco sia in salamoia. Volendo generalizzare, quella a secco rappresenta la tecnica tradizionale, e a differenza di quanto abbiamo fatto nel Cheddar, si effettua cospargendo le due facce del formaggio con del sale grosso; quella in salamoia, un po’ più tecnica, rappresenta la normale evoluzione dei processi produttivi. Il vantaggio è sostanzialmente quello di avere più uniformità nella penetrazione del sale nella forma, e nelle altre forme, così da ottenere un certo livello di riproducibilità e costanza nei nostri prodotti. Potrà sembrare più macchinoso, ma i risultati non potranno che lasciarvi soddisfatti. Il mio invito è sempre quello di provare, poi vi farete due conticini e deciderete quale delle due tecniche adottare in futuro. Ma se ci tenete a limitare gli errori e la variabilità nei vostri prodotti, il mio consiglio è quello di affinare questa tecnica. Andiamo al sodo, cosa ci serve per ottenere un Monterey Jack degno di questo nome? Può sembrare strano ma ingredienti e attrezzature sono più o meno gli stessi che abbiamo già incontrato per il Cheddar. Ma allora i formaggi sono tutti uguali?
liamo la temperatura ed eventualmente la riportiamo a 32° gradi, aggiungiamo il caglio preventivamente diluito in 50 ml di acqua a 36°, mescoliamo e attendiamo che la magia si compia: ci vorranno 40 minuti indicativamente per ottenere una cagliata della giusta consistenza. Solita storia, procediamo col taglio: prima a croce, poi creiamo un reticolo e proseguiamo con la frusta fino ad ottenere dei pezzetti omogenei di un centimetro cubo. Non attendiamo oltre, rimettiamo subito la pentola sul fuoco a fiamma bassissima, l’obiettivo è portare la massa a 37°C in 40 minuti e pH 6,3/6,4. Ricordiamo che questo passaggio è fondamentale, sia per far fuoriuscire la frazione liquida da quella solida (sineresi), sia per aumentare la consistenza dei granuli di cagliata: uno è causa dell’altro. Anche in questo caso occorre mescolare di tanto in tanto, per evitare che la cagliata si attacchi al fondo. Raggiunto l’obiettivo prefissato, spegniamo la fiamma, mettiamo il coperchio e aspettiamo una mezz’ora, periodo nel quale la cagliata si sedimenterà sul fondo riaggregandosi mentre i batteri mesofili che avevamo inserito nel latte continuano a fermentare il lattosio. Non direi, hanno in comune tecniche e ingredienti: a fare la differenza sono tutte le altre variabili sulle quali giochiamo, quindi temperature, tempi di maturazione/fermentazione e pH, ovvero tutti quegli elementi responsabili di modificazioni di natura fisica o chimica alle componenti del latte. Le variazioni su questi elementi possono sembrare talmente piccole da non avere effetti rilevanti ma fanno una gran differenza, per questo i processi vanno seguiti alla lettera. Sicuramente ci sarà qualche nuovo lettore, quindi vediamo nel dettaglio gli ingredienti: • 10 litri di latte intero, fresco pastorizzato o crudo da distributore automatico • caglio liquido di vitello 4 ml, 1:10000 • fermenti mesofili • sale e acqua per la salamoia Per quanto riguarda le attrezzature anche questa volta abbiamo bisogno di: • una pentola abbastanza grande per i 10 litri • un termometro per alimenti • un coltello • una frusta • una forma per formaggi rigida, si chiama fuscella • una pressa casalinga o dei pesi • un pHmetro o delle cartine tornasole • una siringa per dosare il caglio • tela di lino
A questo punto è arrivato il momento di estrarre la cagliata e metterla in forma; vi dico come procedo io, ma è chiaro che se trovate un modo più comodo potete dare spazio alla fantasia. Con un mestolo comincio a prelevare il siero dalla superficie, che vado a mettere in un’altra pentola, in modo da poterlo utilizzare per produrre della ricotta, ma questa è un’altra storia. Stando attendo a non prendere dei fiocchi di cagliata liberi, continuo a prelevare il siero fin quando è possibile. Alla fine nella pentola sarà rimasta la massa cagliata e poco liquido: prendo la tela di lino, la faccio passare sotto al formaggio e faccio un bel fagotto, in modo da far sgrondare ancora del liquido e comincio ad ammassare la pasta in una forma più o meno sferica. Cercando di mantenere la tela abbastanza distesa sul fondo, la inserisco nella fuscella. Ne ho scelta una più larga che alta. Apro questo fagotto e con le mani presso leggermente la pasta così da creare una sorta di panettone. In sostanza gran parte della cagliata sarà perfettamente all’interno della forma ma circa un terzo di essa rimarrà fuori. Con cura piego i lembi
Mettiamo il latte in pentola e innalziamo la temperatura fino ai 32° Celsius , mescolando il latte per far si che sia omogenea. Aggiungiamo i fermenti mesofili (li trovate in farmacia come il caglio), mettiamo un coperchio sulla pentola e lasciamo in incubazione per 45 minuti. Passato questo lasso di tempo controlLUGLIO 2020
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tori di rame o di ferro, orientiamoci sull’acciaio inox. Come avrete intuito quello che avviene è un processo osmotico, la frazione liquida contenuta nel nostro Jack tenderà ad uscire da esso “addolcendo” la salamoia. Per il nostro formaggio, che vi ricordo essere a pasta semidura (quindi il contenuto in acqua è tra il 35 e il 45%), ci orientiamo su una concentrazione di sale del 20% su 4 litri di acqua che andranno a salare un chilo di formaggio. Si tratta di un rapporto da tenere a mente, 4:1. Per quanto riguarda la gestione dell’acidità, phmetro alla mano, aggiungiamo siero fin quando non raggiungiamo il nostro obiettivo.
della tela in eccesso sopra alla pasta e comincio a pressare, aiutandomi con un tappo in legno. Do 10 kg di pressione per 30 minuti, poi riapro la tela, estraggo il formaggio e ne rifilo il contorno al coltello. Ci siete? Se anche voi come me avete fatto tutto bene, una piccola parte della massa avrà invaso il bordo della fuscella: quello lo eliminiamo, dopo averlo rifilato, e con un pizzico di sale ce lo mangiamo. Distendiamo la tela di nuovo nella fuscella, ci mettiamo il formaggio rovesciato rispetto a prima, di nuovo pieghiamo gli eccessi di tela e via con la pressione, 15 kg per un’ora. Ripetiamo il rivoltamento, applichiamo 20 kg di pressione e ce lo lasciamo per 6 ore. Siamo pronti per la salatura; capiamo bene quali sono le caratteristiche per una salamoia che sia efficace e sicura, ma anche quelle che sono le criticità alle quali fare attenzione. Dei benefici dell’utilizzo di questa tecnica qualcosa vi ho già accennato, ma una salamoia non fatta bene vi darà più rogne che soddisfazioni. Di norma essa deve essere impiegata ad una temperatura non superiore ai 15° Celsius, sia per aspetti legati alla sfera igienico-sanitaria sia per la penetrazione del sale. Chiaro, stiamo approcciando ad una preparazione casalinga, tuttavia per dovere di cronaca lo puntualizzo: l’acqua è il substrato più noto per le proliferazioni batteriche e, nonostante il sale contrasti questo fenomeno, ci sono sempre dei ceppi resistenti ad esso, gli alofili. L’acidità della salamoia dovrà essere quanto più possibile simile a quella del formaggio da salare e contribuirà alla formazione della crosta, in questo caso siamo nella media e parliamo di un 5,1 di pH. Altro aspetto fondamentale sarà la concentrazione del sale: questa varierà in funzione della presenza di acqua all’interno dei formaggi; maggiore sarà l’umidità contenuta nella pasta maggiore sarà anche la penetrazione del sale. Vorrei raccontarvi di più ma rischiamo che metà Magazine parli solo di questo, quindi rimaniamo sul generale e magari nel tempo approfondiremo la questione. Evitiamo conteni72 - BBQ4All MAGAZINE
Va bene, dovremmo esserci, immergiamo il Monterey Jack nella salamoia e se abbiamo fatto tutto correttamente il formaggio rimarrà a galla, ma completamente sommerso, al massimo la faccia superiore potrebbe tendere a stare fuori dal pelo dell’acqua, ma dopo un’ora di immersione comunque lo gireremo. Due ore di salamoia in tutto saranno sufficienti. Lo estraiamo e lo mettiamo a sgocciolare, tamponandolo un po’ con carta a perdere. Solito concetto: l’asciugatura dovrà essere graduale in ambiente umido (80% UR) e la temperatura costante intorno ai 12°C. Mi rendo conto che con l’addentrarci nella stagione estiva non sarà facile, ma non dobbiamo vanificare tutti gli sforzi proprio alla fine, mi raccomando. Una volta ben asciugato potremo piazzarlo in cantina avendo cura di tenerlo libero dalle muffe. Ricapitoliamo il tutto, sempre considerando l’ora 0 come inizio del processo: 00:00 aggiungo al latte a 32°C i fermenti mesofili 00:45 latte a 32°C e aggiungo il caglio 01:25 taglio della cagliata a croce e proseguiamo con la spinatura con la frusta fino ad ottenere pezzetti di circa un centimetro 01:30 comincio ad innalzare la temperatura, mescolando, fino al raggiungimento dei 37°C in 40 minuti 02:10 la cagliata è arrivata a 37°C e pH 6,3/6,4 ora la lascio sedimentare sul fondo 02:40 prelevo la cagliata tramite la tela di lino dopo aver eliminato il siero in eccesso 02:45 inserisco tela e formaggio nella fuscella e comincio a pressare, 10 kg 03:15 rivolto il formaggio e applico 15 kg di pressione 04:20 rivolto il formaggio e applico 20 kg di pressione 10:20 estraggo il formaggio dalla forma e lo immergo nella salamoia 12:20 - estraggo il formaggio e lo metto ad asciugare
I gusti sono insindacabili, se di norma preferisco formaggi più stagionati, il Monterey Jack mi fa impazzire già a due mesi, ma scegliete bene quanto resistere prima di passare all’assaggio. Vi butto là qualche spunto. Ai tempi dell’università avevo un coinquilino del Kentucky e vi dico come lo abbiamo utilizzato con lui: quando era ancora fresco, appunto ad un paio di mesi, lo abbiamo piazzato dentro delle Quesadillas, mentre intorno
ai 6 mesi lo abbiamo messo nella preparazione della Farmer’s Casserole e in una sorta di millefoglie nella quale si alternano sottili fette di patata a strati di formaggio. Ve l’ho detto, si tratta di un formaggio estremamente versatile e con un po’ di fantasia vi potete proprio divertire, sfruttando la sua capacità di fondere e di avvolgere il palato.
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#CHIEDIALCOACH - L'INTERVISTA a cura di MICHELA BONGIORNI
"Il seasoning è ciò che fa la differenza"
#CHIEDIALCOACH - L'intervista
SAL DI MENTO 74 - BBQ4All MAGAZINE
Abbastanza schivo su Facebook ma anima pulsante di BBQ4All, Salvatore “Sal” Di Mento è, oltre a uno dei Coach Senior della BBQ4All University, il nostro veterinario ufficiale e la mente diabolica che si cela dietro alla nuova linea di rub la quale, appunto, porta il suo nome: Sal’s Seasoning. Il suo carattere decisamente tosto unito alla passione per le carni e per la griglia hanno fatto in modo che questo signore, che ha un’anima metà siciliana e metà veneta, dal lontano 2008 arrivasse per rivoluzionare, insieme a Gianfranco Lo Cascio, tutto il mondo italiano della macelleria e delle cotture su fuoco, per prendere a mazzate quella convinzione quasi indistruttibile che solo in Italia si sappia cucinare bene e che il Bel Paese non abbia nulla da imparare dal resto del mondo. Abbiamo deciso di inaugurare una serie di interviste ai nostri Coach partendo proprio da lui, affinché ci raccontasse qual è stato il percorso che lo ha portato, in 12 anni, a diventare un Coach dopo essere stato il classico bucasalsicce, per poi divenire l’ideatore di una linea di rub che non ha niente da invidiare a quelle più blasonate d’Oltreoceano.
care delle info per capire a che punto fossimo in Italia sull’argomento e mi sono imbattuto in un Forum molto interessante gestito da un signore che si chiamava Gianfranco Lo Cascio. Il Forum si chiamava BBQ4All. Io mi sono iscritto come semplice utente, ma le cose che scriveva questo signore mi aprivano mondi fantastici. Da lì ho capito che avrei dovuto conoscerlo di persona, perché le sue idee avevano un potenziale enorme. M. Lo hai conosciuto subito? S. No, io dall’Irlanda ho cominciato a vedere che BBQ4All stava organizzando i primi corsi in Piemonte e mi sono ripromesso di frequentarli, una volta tornato in Italia. Cosa che ho fatto: appena rientrato in Veneto, ho contattato colui che sul Forum conoscevo come Dani Weber, il quale organizzava corsi nella mia regione per conto di BBQ4All. Dani Weber altri non era che Daniele Faresin, l’attuale Direttore della BBQ4All University: andai al corso e insieme a me, come compagni di studi, c’erano altre due persone che poi sono diventate volti noti della BBQ4All University: Piè Spazio e Enio Berton.
M. Come hai iniziato? S. Nel 2008 ero in Irlanda per lavoro (ci sono rimasto per cinque anni); lavoravo già nel mondo delle carni e avevo una grande passione per la cottura sul fuoco, anche se partivo, come ogni buon italiano, dalla classica grigliata “tutto bruciato”. In Irlanda però ho cominciato ad approcciarmi a un modo nuovo di grigliare. Là cominciavano già a circolare i primi Weber, erano più avanti di noi, e io ho scoperto tutto un mondo davvero nuovo che mi ha conquistato: quello del vero bbq. M. Come hai conosciuto questo nuovo mondo affascinante? S. In Irlanda c’erano già i locali dove poter mangiare ribs e pulled pork e anche diversi amici che frequentavo possedevano i kettle e mi invitavano a cena servendomi queste preparazioni incredibilmente buone. Per questo motivo nel 2010 ho acquistato anche io il primo kettle. M. E da lì è iniziato tutto.
M. Quindi Gianfranco si è fatto desiderare! S. Ho un simpatico aneddoto che riguarda al primo contatto che ho avuto con lui: se vuoi te lo racconto. M. Certamente, siamo curiosi! S. Era il 9 Maggio 2013, io era ancora in Irlanda e mia moglie spesso faceva acquisti di oggettistica per la casa su un noto sito online. C’erano delle griglie in offerta, ma io mi accorsi che qualcosa non andava: sia le foto che le descrizioni le avevo già viste da qualche parte. A un certo punto capii che il noto sito (davvero molto famoso) aveva rubato foto e didascalie a BBQ4All e a Lo Cascio (questo per darti un’idea di quanto fosse già influente la voce di Gianfranco in Italia) e lo contattai su Messenger per segnalarglielo. Ho ancora qui davanti il messaggio che gli scrissi. Lui mi rispose ringraziandomi tantissimo e mi disse che, una volta tornato in Italia, sarei stato ospite a uno dei suoi corsi.
S. Certo. Sono andato su internet a cerLUGLIO 2020
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M. E poi cos’è successo? S. Una volta rientrato e dopo aver fatto i corsi, ho inziato il mio percorso per diventare Coach (che poi ho completato) e sono entrato anche nel Team BBQ4All International per partecipare alle gare di bbq. Ma mi sono reso conto che c’era un vuoto da colmare: qui da noi mancava completamente la cultura dei tagli di carne “diversi”, e quelli che BBQ4All riusciva a reperire erano destinati solo ai corsi. Per questo motivo, lavorando io nel settore delle carni, ho pensato di proporre a Gianfranco e ai suoi collaboratori del tempo un’idea di bussiness nuovo. Volevamo rendere accessibili al grande pubblico dei tagli che gli italiani non conoscevano affatto, insegnando loro come trattarli e come cucinarli tramite i corsi, rivoluzionando di fatto non solo il mondo delle cotture alla griglia ma anche quello della macelleria. E così nel 2014 abbiamo lanciato on line le prime ribs di suino, che hanno avuto un successo enorme. Il resto è storia recente e tutti i nostri lettori ormai conoscono la realtà del Megastore e cosa siamo riusciti a combinare. M. E poi l’idea dei rub come ti è venuta? S. Sono sempre stato un appassionato di cucina, e so che il seasoning è ciò che fa la differenza, specie quando si vanno a cucinare le preparazioni barbecue di una cultura tanto diversa dalla nostra, che invece è legata ancora ai sapori tipici italiani tipo rosmarino e origano. Quelli sono condimenti, il seasoning è un’altra cosa.
S. Sono state principalmente due: trovare gli equilibri giusti affinché il sapore dei rub non coprisse quello della carne, che deve essere sempre la protagonista indiscussa; e poi trovare dei gusti che potessero piacere anche al palato meno avvezzo a sapori tanto diversi dell’italiano medio: con la linea Sal’s Seasoning direi di esserci riuscito. M. Da cosa sei partito? S. La prima cosa che ho fatto è sistemare il vecchio rub #19 che era super polveroso. Sembrava quasi di poterci fare il Tiramisù (ridacchia n.d.r.). Ma il primo vero rub tutto nuovo è stato il Montreal. Anni fa ho fatto un viaggio in Canada e sono rimasto estasiato da quella roba saporita che mettevano sulla carne: da lì ho cominciato a interessarmi a questo mondo fantastico, mi sono portato a casa due barattoli di quella preziosa miscela, e dopo un lungo lavoro abbiamo lanciato la nostra versione del Montreal, calibrandolo sulle nostre esigenze. M. E immagino che questo sia solo l’inizio. S. Esatto, ci sono in cantiere tanti altri prodotti. M. Puoi dirmi quali oppure se me lo dicessi dopo dovresti uccidermi? S. No, ci mancherebbe, possiamo svelarlo a tutti. Abbiamo in dirittura di arrivo due salse bbq, le marinature e dei
nuovi rub: uno sviluppato in collaborazione con Virgilio Brunetti, Coach storico di BBQ4All. Poi lanceremo anche le cipolle caramellate. La linea diventerà sempre più completa. Non ci fermiamo. Avremo anche tutta la linea piccante: Tex-Mex, peperoncino Thai e Chipotle. M. Un’ultima domanda: torniamo indietro nel tempo, a quando hai cominciato. Qual è l’errore più “grave” che il Coach Sal Di Mento ha commesso quando stava imparando? Così rassicuriamo i lettori che magari si trovano nelle stesse condizioni e si sentono un po’ scoraggiati. S. Te ne dirò due: ho avuto grossi problemi a trattare il pesce. Era un incubo, mi si attaccava sempre tutto alla griglia. Ma la cosa veramente traumatica, nel momento in cui mi sono trovato a tu per tu con un kettle, era riuscire a settarlo alla temperatura corretta e soprattutto mantenerla. Ci ho messo un po’ a capire come fare. È tardi, la telefonata deve concludersi. Sono riuscita a strappargli questi minuti, fra una call in Giappone e una riunione, ma adesso deve tornare a occuparsi di quella ciccia fantastica che potete trovare ogni settimana sul Megastore.M. Vuoi dire un’ultima cosa sui rub? S. Sì, che non è da sottovalutare la loro versatilità. Non pensateli esclusivamente come seasoning per la carne: provate. sperimentate e scoprirete quanti utilizzi possano avere in cucina. Dalle uova ai formaggi, dalla pizza ai dolci. Scappo! Grazie per la telefonata.
M. Qual è stata la sfida, dunque? Grazie a te, buon lavoro!
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THE CHEMICAL GRILLER a cura di VIRGILIO BRUNETTI
GLI
IDROCOLLOIDI parte I :la
gelatina di origine animale
Nei capitoli precedenti abbiamo visto come gli amidi siano una categoria di prodotti estremamente diversificata, il loro utilizzo nella preparazione delle salse è assolutamente basilare anche se non indispensabile; abbiamo anche visto come l’industria alimentare abbia raffinato la struttura molecolare di questi polisaccaridi al fine di azzerare l’impatto sul sapore del prodotto finito e di caratterizzare a livello millimetrico gli effetti sull'aspetto e la texture. Un amido modificato avvantaggia il cuoco perché non altera in nessun modo il sapore degli ingredienti base e permette di prevedere con estrema precisione il livello di densità e l’estetica del preparato finale. Basta semplicemente seguire i dosaggi raccomandati sulle schede tecniche. Inoltre è estremamente versatile perché utilizzabile in condizioni estreme di temperatura e pH. Cottura, abbattimento, stoccaggio e ritorno in temperatura sono metodiche basilari in qualsiasi laboratorio di cucina e di pasticceria moderna, di conseguenza l’uso di addensati tecnologicamente avanzati garantisce di mantenere la struttura del prodotto dalla preparazione fino al servizio. Le proprietà stabilizzanti di alcuni amidi modificati si evidenzia in modo particolare in preparazioni caratterizzate da una spiccata acidità. In questo capitolo andremo ad estendere la conoscenza delle tecniche di tickening (addensamento n.d.r.) definendo una ampia categoria di ingredienti con caratteristiche tecniche estremamente interessanti definite idrocolloidi. Non spaventatevi perché, al di là del nome, molti di essi sono ingredienti di uso comune, come la vecchia colla di pesce e la miracolosa gomma di xantano.
GELATINA Gli idrocolloidi sono composti polimerici sia polisaccaridi sia proteine solubili in acqua con una spiccata propensione a formare gel. Fanno parte della nostra vita quotidiana e hanno uno spettro applicativo impressionante. Molti di questi polimeri non si comportano solo come addensanti ma anche come agenti emulsionati, stabilizzanti, gelificanti, chiarificanti, schiumogeni e filmogeni, tuttavia la loro caratteristica più interessante è proprio quella di assorbire grandi quantità d’acqua formando degli idrogel, che possono essere trasformati in aerogel con opportune tecniche di disidratazione. Il capostipite di queste sostanze è una molecola che i griller conoscono fin troppo bene ovvero il collagene in forma idrolizzata, comunemente noto come colla di pesce o gelatina alimentare. Essa riassume quasi tutte le caratteristiche sopra elencate ed è in grado di soddisfare una vasta gamma di funzionalità, ma in particolare è apprezzata a livello culinario perché nella forma idratata diventa un gel termo-reversibile basso fondente e trasparente. È una sostanza assolutamente naturale di origine esclusivamente animale estratta dai tessuti connettivi dei bovini. Il suo pregio è proprio la caratteristica di essere un gel a temperatura ambiente, ma di fondere esattamente a temperatura corporea (35°-37°C - temperatura di melting): questo rende i prodotti che la contengono particolarmente piacevoli al palato perché si sciolgono facilmente donando un sollievo gustativo e tattile. Questo precisa sensazione, definita mouthfeel, non è riproducibile con il blasonato analogo di origine algale, l’agar agar che invece ha una temperatura di melting di oltre 80°C. Ma perché la chiamiamo “colla di pesce”? Ci sono varie ragioni LUGLIO 2020
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punto isoelettrico intorno a pH tra 7,5 ed il 9,4. 2. Quella di tipo B si ricava per idrolisi basica di collagene bovino e con punto isoelettrico intorno a pH 4.85.2. Ma che cos’è il punto isoelettrico? È una caratteristica fondamentale di tutte le proteine, più precisamente il range del pH in cui la proteina ha carica netta zero, ovvero non è né catione (+) né anione (-) ma zwitterione (dal tedesco ione ibrido) con carica neutra. Per quanto riguarda il collagene idrolizzato, il punto isoelettrico è un valore utile per definirne il range applicativo o un uso specifico, giacché il pH della soluzione potrebbe destabilizzare e annullare il potere addensante e gelificante della nostra preziosa alleata. storiche, alcune facenti parte della storia recente. Anticamente era un prodotto secondario derivato dalla lavorazione dello storione russo e del caviale, ma anche del merluzzo per la produzione di baccalà e stoccafisso; in particolare dalle vesciche natatorie e dalle carcasse essiccate degli storioni (che sono pesci cartilaginei) si estraeva questa sostanza, che non era altro che collagene di pesce utilizzato come colla, infatti il suo nome dotto è proprio ittiocolla utilizzata in ebanisteria e nella produzione artigianale della carta. La prima gelatina alimentare si ricavava artigianalmente lasciando la pelle del pesce in acqua. Il problema di questa estrazione grezza era l’impatto olfattivo. La vera colla di pesce è un ingrediente molto costoso, esiste in commercio ed è tornata in uso in tempi recenti proprio in seguito alla BSE ((L'Encefalopatia Spongiforme Bovina meglio conosciuta come Morbo della mucca pazza) che colpisce i bovini. PRODUZIONE E CARATTERISTICHE CHIMICO FISICHE La gelatina è un idrocolloide molto versatile. Essa, infatti, è in grado di gelatinizzare, addensare, condensare, stabilizzare, emulsionare, legare l’acqua; ha azione schiumogena e filmogena. Non tutti gli idrocolloidi raggruppano in sé queste proprietà. La gelatina è una proteina derivante da materie prime animali (soprattutto bovini e suini) contenenti collagene (pelle, ossa, tendini, cartilagini.). Contiene l’84-90% di proteine e l’1-2% di sali minerali, il resto è acqua. Generalmente è un prodotto altamente purificato per ragioni sanitarie ed è sempre privo di conservanti e additivi, colesterolo e di purine (cataboliti degli acidi nucleici). Il processo produttivo industriale è complesso: dopo l’estrazione da materie prime contenenti collagene si passa alla filtrazione e alla successiva sterilizzazione a 140°C. La combinazione dei singoli step di produzione rende questo prodotto alimentare assolutamente sicuro. Da diversi animali è possibile estrarre collagene idrolizzato con diverse caratteristiche chimico fisiche: 1. La gelatina di tipo A si ottiene da collagene idrolizzato dalla lavorazione di pelle suina in condizioni acide e ha un 78 - BBQ4All MAGAZINE
Se volessi gelificare il succo di frutta acido, come un estratto di frutti di bosco, per avere un risultato ottimale dovrei scegliere una gelatina di tipo B, mentre per una comune panna cotta ed un brodo utilizzerei preferibilmente una gelatina di tipo A. Si, ma quanta ne devo usare? La risposta è più complessa di quanto potete pensare. La gelatina animale è reperibile in fogli, in granuli o in polvere. Ovviamente la forma in cui è commercializzata non ha nessuna relazione con il potere gelificante, mentre piuttosto è importante da quale risorsa animale viene estratta e raffinata. È sempre corretto dosare il prodotto in grammi, infatti deve essere pesato e idratato in una pari quantità d’acqua. Una volta ammorbidita in acqua fredda (assorbe un massimo di cinque volte il suo peso) viene sciolta nel liquido caldo della ricetta. Quella in polvere deve essere messa in acqua a temperatura ambiente per circa 30 minuti, in questo modo il granulo di gelatina assorbe acqua e avviene un rigonfiamento. A questo punto viene sciolta a bagnomaria e successivamente aggiunta al liquido caldo.
La sua proprietà fisica più importante è il valore Bloom, che viene espresso in gradi. Esso varia tra i 50 e i 300 e indica la solidità e la forza gelificante. Quanto più elevato è il valore di Bloom, tanto maggiore sarà la forza gelificante del prodotto. Quelle con valore di Bloom alto sono le migliori gelatine anche da un punto di vista della trasparenza e della purezza. In pasticceria si usano generalmente gelatine che hanno un Bloom che va dai 180 ai 250 gradi. Per misurare i gradi Bloom esiste uno strumento apposito, chiamato gelometro Bloom. Per definizione, la quantità di gradi Bloom da assegnare a una gelatina corrisponde esattamente al peso in grammi che questa riesce a sopportare prima di arrivare a un abbassamento pari a 4 millimetri. Il peso in questione viene applicato attraverso un pistone che misura esattamente 12,7 millimetri di diametro, il quale viene usato su un gel al 6,67% che è stato a riposo per 16-18 ore alla temperatura di 10 gradi centigradi. Ecco la classificazione che generalmente si utilizza per distinguere le gelatine in relazione ai gradi Bloom: • Gelatina Bronzo: 130° Bloom • Gelatina Argento: 160° Bloom • Gelatina Oro: 200 ° Bloom Ecco un esempio di dosaggi con lo stesso potere gelificante: 15,4 g gelatina bronzo 130 Bloom equivalgono a 12,5 g di gelatina argento 160 Bloom che a sua volta equivalgono a 10 g gelatina oro 200 Bloom. Fissando come standard una gelatina argento 160° Bloom abbiamo un gel elastico: - molto morbido utilizzando lo 0,75 % su volume - morbido utilizzando lo 0,85 % su volume - solido utilizzando 1% - molto solido 1,5% Se volessi gelificare un litro di brodo di pollo chiarificato, per ottenere una struttura solida “al coltello” dovrei sciogliere 15 grammi di tipo argento preferendo una tipologia A che ha migliore performance con liquidi tendenzialmente neutri e alcalini. Maggiore è il potere gelificante di una colla di pesce (e quindi più alto è il suo numero di gradi Bloom) minore è la quantità di gelatina richiesta per la preparazione, di conseguenza maggiore sarà la velocità di gelificazione. Capite ora che, se avete dimestichezza solo con la classica colla di pesce della G.D.O. non avete cognizione di quanto possa essere versatile e raffinato questo prodotto in ambito professionale. Come si usa in modo corretto? La comune gelatina in fogli è un prodotto essiccato, e in quanto tale va reidratato in acqua fredda, per poi essere mescolato con la quantità di liquido prevista nella ricetta, quindi fatto sciogliere in un pentolino senza superare i 37 °C per evitare grumi. Gelatine con un grado Bloom maggiore richiedono temperature di fusione superiori, fino ad arrivare ad un massimo di 70° C, oltre i quali si rischierebbe
di compromettere la resa finale. La fase di solidificazione avviene intorno ai 10°C. Maggiore sarà il tempo impiegato per la solidificazione, migliore sarà il reticolo formato nel prodotto finale, che sarà più stabile. Ci sono anche delle limitazioni di utilizzo, poiché si destabilizza con il congelamento in quanto il reticolo della struttura proteica si rompe e il gel perde struttura; inoltre il collagene può essere degradato enzimaticamente dalle proteasi naturalmente presenti in alcuni prodotti vegetali, nello specifico, ananas, kiwi, papaya, fichi e litchi. Questo naturalmente non significa che non si possano utilizzare gelatine con questi alimenti: per poterlo fare è però necessario rendere inattiva la proteina scaldando la polpa dei frutti fino al bollore. L’uso della gelatina come addensante abbraccia un’ampia serie di preparazioni, in cui la presenza di collagene idrolizzato è già presente, come ad esempio brodi e fondi di cottura ottenuti dalla lenta bollitura e dalla restrizione di prodotti carnei dove il collagene è particolarmente rappresentato, soprattutto se utilizziamo tagli di maiale, di bovino e frattaglie come ossa, tendini e cartilagini. Il dripping generato dalla lunga cottura barbecue di boston butt e del brisket sono una risorsa eccezionale per la preparazione di concentrati naturalmente ricchi di gelatina animale, che possono essere utilizzati come base per la preparazione di salse barbecue casalinghe, con un profilo aromatico impensabile rispetto alle comuni tipologie commerciali. La presenza di una elevata quota di questo composto garantisce anche un notevole effetto emulsionante e quindi la possibilità di incorporare sotto forma di emulsione una buona quantità di grassi, così come accade nella preparazione di alcune salse gravy. Per questo mese termino qui, onde evitare di darvi troppe informazioni tutte insieme. Ci vediamo ad Agosto, quando parleremo degli idrocolloidi delle alghe e vi darò la ricetta della Besciamella senza burro. Ah, mi raccomando, studiate seriamente e non fate i lavativi al mare: a Settembre interrogo! LUGLIO 2020
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LA RICETTA SCIENTIFICA - a cura di GIANFRANCO LO CASCIO
raciola B LA RICETTA SCIENTIFICA
di MAIALE con PATATE ARROSTO
La maggior parte degli esseri umani ha una capacità infinita di dare per scontate le cose. Un tetto sopra la testa. L’affetto dei propri cari.
La braciola di maiale dura, talmente dura che vostra mamma la lanciava in modalità wireless al posto della tradizionale ciabatta. Siamo talmente abituati a quell’aspetto bollito, a quella consistenza tipica di camera d’aria, che ormai ci siamo arresi al brutto. Mangiamo la braciola ma non la mastichiamo, la buttiamo giù come una medicina. Per fortuna che ci sono le patate di contorno. Eppure vi confesso, cari i miei piccoli estimatori del porco, che esiste un modo per ottenere una braciola morbida, succosa e con una bella crosticina ambrata e fragrante. Ma prima che vi sveli tutti i segreti, partiamo dalla base.
IL TAGLIO Si ricava dalla lombata del maiale, solitamente porzionata con il tipico osso a forma di “T”, un po’ come per la T-bone. Una volta disossata si ottengono il lombo (o lonza) ed il filetto, entrambi tagli estremamente magri e poveri di collagene e tessuto connettivo. Per fortuna, però, esistono razze e protocolli di allevamento che assicurano una ottima infiltrazione di grasso intramuscolare, come nel nostro caso, che rende la carne scioglievole e succulenta. Una volta cotta, dalla vostra ciccia si sprigioneranno sentori di castagna, ghianda e nocciola. Ma solo se la lavorate e la cucinate nella maniera corretta.
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convinzioni errate sulla carne di maiale
Temperature al cuore e Sicurezza alimentare Le battaglie su come e a che temperatura vada cotta la carne di maiale si consumano da che ho memoria. Autorità ed esperti ci hanno sempre raccomandato di stracuocerla perché potenzialmente contaminata dall’infingardo verme cilindrico altresì noto come Trichinella spiralis. Ma certe posizioni, piuttosto antiquate consentitemelo, non prendono in considerazione tre fattori molto importanti: 1.
I miglioramenti nelle pratiche di allevamento e lavorazione della carne suina hanno praticamente eliminato la contaminazione da Trichinella nella carne prodotta commercialmente nei paesi sviluppati. Uno studio ha dimostrato che solo otto casi di trichinellosi potevano essere attribuiti alla carne lavorata negli Stati Uniti tra il 1997 e il 2001. Durante lo stesso periodo, la popolazione americana ha consumato circa 32 miliardi di kg di maiale. Si tratta di una quantità enorme di carne, no? E si sono ammalati solo in 8. 2. La maggior parte della carne di maiale in commercio viene abbattuta per uccidere il parassita. 3. La Trichinella si elimina facilmente cuocendo la carne a bassa temperatura. L’istituto Superiore di Sanità raccomanda una temperatura di cottura di 73°C al cuore, sia per scongiurare la contaminazione da nematodi che quella perpetuata da batteri come la Salmonella. A discapito però della resa gastronomica. Sappiamo benissimo cosa succede alla carne quando si supera la soglia dei 60°C. Ma perché questa disinformazione continua a persistere? Semplice, per preservare autorevolezza e status quo. Una volta inculcato alla gente che la carne di maiale ha bisogno di essere cotta ad alte temperature, ci vuole un po' di coraggio per cambiare rotta, soprattutto se significa ammettere di aver commesso un errore.
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TRICHINELLA
Cos'è e come contamina la carne Un'infezione invasiva da vermi, caratterizzata dal ciclo vitale della Trichinella, inizia quando un animale consuma tessuto muscolare che contiene un verme incistato.
Non sapete a che temperatura potete spingere il vostro elettrodomestico? Vi basterà contare gli asterischi raffigurati accanto al nome:
Liberate dal tessuto dal processo digestivo del nuovo ospite, le larve maturano rapidamente in adulti maschi e femmine, accoppiandosi e rilasciando nuove larve. Ogni larva scava in una cellula muscolare, convertendola in una cosiddetta cellula infermiera, secernendo proteine che favoriscono la formazione dei vasi sanguigni. I vasi sanguigni crescono poi intorno alla larva e la alimentano. Le larve possono vivere in cisti calcificate protettive per anni fino a quando l'ospite muore e viene mangiato. E via che ricomincia il ciclo in un altro ospite.
* ** *** * * * *
= = = =
-6°C -12°C -18°C -24°C / -30°C
Ebbene, la Trichinella si elimina tenendo la carne a - 15°C per 20 giorni o a -18°C per 106 h, poco meno di 5 giorni. Va da sé che la permanenza al fresco si riduce esponendo la carne a temperatura ancora più basse (-21°C per 82h, -23°C per 63h, -26°C per 48h, -29°C per 35h).
Lo so che ‘sta roba fa accapponare la pelle ma ve lo dovevo dire. La buona notizia è che i vermini bastardi si possono disintegrare in due modi: col freddo e col calore.
Oppure potete cuocere la vostra braciola sottovuoto a bassa temperatura, eliminando simultaneamente sia i vermi che i batteri. Vi basterà attenervi alla tabella riportata qui sotto:
Tenete presente che un congelatore domestico può arrivare a -18°C / -30°C.
A quel punto potrete scegliere se abbattere (ora sì!) la carne e congelarla, oppure cuocerla e consumarla subito.
Spessore 55°C
56°C
(mm)
132.8°F 134.6°F 136,4°F 138,2°F 140°F
131°F
57°C
58°C
59°C
60°C
61°C
62°C
63°C
141.8°F
143.6°F 145,4°F
64°C
65°C
66°C
147,2°F
149°F
150,8°F
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molla l'osso! Vediamo cosa succede quando poggiamo la nostra braciola sulla griglia o sulla piastra. Con osso: la carne si ritira perché si contrae longitudinalmente o trasversalmente, l’osso tocca la piastra o la griglia e dove non c’è contatto tra superficie riscaldata e carne avremo meno Maillard, meno crosticina brunita insomma. Senza osso: siamo liberi di disossare la braciola e cuocerla senza. È solo questione di preferenza, senza l’osso che fa da impaccio avremo senz’altro una Maillard più uniforme, ma filetto e lonza separati.
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la COTTURA ideale 60°C al cuore
Facciamo un ripassino sulla mutazione nella consistenza e nel colore della carne di maiale a determinate temperature. Sotto i 45°C La carne è da considerarsi cruda, sia le miofibrille (i filamenti del muscolo) che i “fasci crociati” di collagene (il tessuto connettivo) sono ancora integri. A 45°C La miosina, la parte rossa per intenderci, inizia a coagulare strizzando fuori i liquidi che vengono in parte raccolti nelle guaine di collagene (le guaine che avvolgono le fibre muscolari). A 60°C Tutte le proteine che restano coagulano spingendo ancora liquidi all’esterno, rendendo la carne opaca e turgida. A 66°C Anche le proteine della guaina (in gran parte collagene) si coagulano repentinamente e si contraggono. L’effetto è quello che si ottiene strizzando una spugna intrisa d’acqua, a questo punto la braciola è diventata una mensola di betulla. Come detto in precedenza, l’Istituto Superiore di Sanità raccomanda una temperatura di cottura di 72°C ( l’FDA di 71°C) per il maiale. Un consiglio per salvaguardare la sicurezza alimentare (a quelle temperature si elimina la maggior parte dei batteri) più che il risultato in termini di gusto. Ma noi sappiamo che esistono tanti modi per mangiare la carne in sicurezza, e quindi possiamo stabilire il primo criterio per la nostra braciola perfetta senza troppe paturnie: la temperatura ideale per cuocerla è tassativamente 60°C - 62°C. Prima di iniziare a giocare con termometro e griglia, dobbiamo tener presente che gli zuccheri riducenti nella carne di maiale sono pochi, e che la Maillard (la crosticina) su questo taglio conserva sempre quell’aspetto a “macchia di leopardo”. Ormai l’avete imparato: per avere un pezzo di carne perfettamente cauterizzato vi servono 3 cose: temperatura superiore ai 140°C, concentrazione dei reagenti (zuccheri riducenti e proteine) e assenza di umidità. Ma cosa possiamo fare per potenziare la Maillard e intenerire la carne, senza però ricorrere ad una salamoia o alle injection? La risposta si chiama Maillard Booster. È un composto di sale e destrosio che serve a far assorbire alla carne gli zuccheri riducenti che si trovano in superficie. Sarà il sale a mantenere la carne succosa e a far penetrare gli zuccheri al suo interno. Il mix si prepara unendo una parte di sale, una parte di destrosio in polvere e, se volete, 1 parte di aromi in polvere (cipolla, aglio, semi di senape tritati). Una volta miscelato il tutto dovete seguire gli stessi step di un normale dry brining: cospargete la carne da una parte e dall’altra con le polveri e lasciate in frigo per 12 h; trascorso questo intervallo di tempo rifate la procedura e attendete altre 12 h. A questo punto entra in gioco il forno ventilato, ma prima spendiamo due paroline per il contorno: le patate arrosto.
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PATATE ARROSTO
Scegliere quelle adatte FASE 1 Sbollentare le patate La cultivar (la specie botanica) gioca un ruolo fondamentale nella scelta, ma è preferibile basarsi sulla valutazione dello stato d’idratazione del singolo tubero, misurandone la densità mediante il principio di Archimede. Ve la ricordate la legge dei solidi immersi in un liquido? Quella lì.
La patata giusta per la nostra ricetta deve avere un contenuto equilibrato di amidi e umidità: questo implica una densità intermedia tra una patata giovane, fresca, ricca d’acqua di vegetazione e una patata vecchia, conservata a lungo, ricca di amidi e fortemente disidratata. Per selezionare patate con questa caratteristiche dovrete ricorrere a questo semplice metodo. Preparate due soluzioni saline a differente densità: • •
La prima a bassa densità: 9% di sale (90 grammi di sale disciolti in 1 kg d’acqua) La seconda ad alta densità: 12% di sale (120 grammi di sale in 1kg d’acqua)
Le soluzioni, messe in due grossi contenitori, devono avere volume sufficiente al fine di valutare la spinta idrodinamica sulle singole patate. Le patate che galleggeranno nella soluzione a bassa densità andranno scartate: sono troppo ricche d’acqua per il nostro scopo. Le patate che affondano nella soluzione a bassa densità vincono la prima selezione, si qualificano come idonee e passano allo step successivo. A questo punto bisogna testare le candidate superstiti immergendole nella soluzione salina più forte: le patate che affondano anche in questa soluzione vanno messe da parte perché troppo disidratate e ricche di amido, mentre quelle che galleggiano sono le candidate perfette per noi.
Adesso è il momento di sbollentare i nostri tuberi. Tagliate le patate in quarti (non le pelate!), lavatele sotto l’acqua corrente fin quando non diventerà limpida e immergetele in acqua a 90°C per circa mezz’ora. Le patate devono conservare una consistenza sufficientemente soda da poter essere maneggiate. Scolate le patate e mettetele da parte. Oppure cuocetele in sous vide. Dopo aver tagliato le patate come spiegato precedentemente preparate una soluzione miscelando: Dose per 1 kg di patate • 1kg di Acqua • 15g di Sale • 2.5g di zucchero semolato • 2.5g di bicarbonato di sodio Questo intruglio donerà una crosta superficiale incredibile alzando il pH e fornendo una dose di zuccheri riducenti che accelereranno la reazione di Maillard nelle successive fasi di cottura. Il bicarbonato di sodio, che è alcalino, innesca una reazione a catena che scompone letteralmente la spina dorsale delle molecole di pectina contenuta nelle patate e le disintegra. Dunque, imbustate le patate e aggiungete la stessa quantità in peso di salamoia (300 grammi di patate più 300 grammi di soluzione). Sigillate le busta eliminando tutta l’aria e cuocete per 15 minuti a 90°C. Successivamente abbattete o raffreddate il più rapidamente possibile, scartate la salamoia e asciugate le patate; anche in questo caso cercate di non esagerare con la cottura, le patate devono essere cotte ma non devono disfarsi.
PERCHÉ QUESTI METODI FUNZIONANO? Devono accadere due cose affinché una patata diventi croccante, ed entrambe dipendono dall'umidità. In primo luogo, i granuli di amido contenuti nel tubero devono assorbire acqua e gonfiarsi, liberando un po' del loro amilosio. In secondo luogo una parte dell'amilosio deve scomporsi in glucosio, un tipo di zucchero. Una volta che l'umidità evapora sulla superficie della patata, l'amilosio si indurisce in un involucro simile a un guscio di plastica, che donerà croccantezza, mentre il glucosio si scurisce, producendo una crosticina ambrata deliziosa.
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FASE 2 Asciugare le patate Tutta la procedura collima nell’ultimo passaggio in forno, a quel punto dovrete controllare tutte le variabili che governano la reazione di Maillard: alta temperatura, pH basico, presenza di zuccheri riducenti e soprattutto totale assenza di umidità superficiale. Ma è a questo punto che aggiungo al metodo ormai sdoganato dall’immenso Heston Blumenthal (Fat Duck, Bray, Berkshire, Inghilterra) il mio personalissimo tocco. Seguitemi con attenzione.
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La ricetta scientifica
Braciole di Maiale con patate arrosto
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INGRE DIE NTI
PE R 4 PE R S O N E • 4 braciole di maiale alte 3,5 cm PER IL MAILLARD BOOSTER • 10 gr di sale • 10 gr di destrosio in polvere • 2,5 / 5 gr di cipolla in polvere • 2,5 / 5 gr di aglio in polvere PER LE PATATE ARROSTO • 2 kg di patate a pasta gialla precotte (come descritto nella Fase 1) • Olio extravergine di oliva q.b. • Sale q.b. • Pepe q.b. • Rosmarino fresco / erbe aromatiche a piacere
Partiamo dalla braciola. Per prima cosa dovete preparare il Maillard booster: vi basterà pesare gli ingredienti e miscelarli in una ciotolina. A questo punto prendete le vostre fettone di carne e cospargetele con le polveri da una parte e dell’altra, poi lasciate in frigo la carne per 12 ore. Trascorsa la mezza giornata rifate la procedura. Sistemate la carne su una griglia o su una teglia forata, quindi mettetela in forno a 60°C e piazzate la vostra sonda all’interno della braciola. Per poter eliminare qualunque rischio per la salute, dovete assicurarvi di lasciarla in forno per almeno 2 h. Preferite scaldare la braciola sottovuoto? Sigillatela in un sacchetto adeguato alla cottura sottovuoto e lasciatela in un bagno termostatico a 60°C per almeno 50 minuti (meglio se per un paio d’ore). Successivamente estraete le braciole dai sacchetti, asciugatele con della carta assorbente e trasferitele in forno ventilato a 60°C per 30-60 minuti. E le patate? In forno insieme alle braciole! L’asciugatura prima della cottura definitiva servirà a formare un film attorno alle patate, che con il calore formerà una crosta talmente croccante che pure i vicini vi sentiranno masticare. L’umidità residua interna spingerà contro la pellicola esterna formando uno strato soffiato e crunchy che vi ripagherà di tutto il tempo speso nella preparazione. Lasciate quindi asciugare le patate sbollentate per almeno un’ora, devono risultare asciutte al tatto. A questo punto prendete una teglia abbastanza profonda e fatela preriscaldare in forno a 180°C. Una volta raggiunta la temperatura, versate mezzo centimetro di olio extravergine di oliva e sistemate le patate sulla teglia, ungendole con cura. Fate cuocere fin quando non risulteranno dorate e croccanti, girandole di tanto in tanto e ruotando la teglia. Nel frattempo mettete a scaldare la vostra padella in ghisa oppure predisponete una cottura diretta nel vostro dispositivo. Ungete le braciole con un velo d’olio extravergine e cauterizzate per pochi minuti, quel tanto che basta per ottenere una Maillard soddisfacente. Fate attenzione a non superare i 60°C al cuore, mi raccomando, la carne deve essere rosata e morbida. Servite calda assieme alle super patate e preparatevi ad assaggiare la migliore bistecca di maiale della vostra vita. I vostri familiari vi butteranno le braciole al collo. Gianfranco Lo Cascio LUGLIO 2020
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SEGUO - RUBRICA a cura di EMILIANO NENCIONI
SEG U O OSSES S IONI IN GRIG LIA Episodio 0.2
Antefatto: Nella Seguo di Gennaio scorso vi avevo raccontato di quella volta che durante un corso di barbecue, nel 2015, ritrovai fortuitamente un manoscritto gettato - o dimenticato - in mezzo a un pallet di bricchette. Era l’opera di un appassionato di cottura su fiamma, emotivamente molto disturbato a giudicare dai contenuti e dalla grafia: si trattava della sceneggiatura di una sit-com dal gusto smaccatamente retrò, di ambientazione casalinga - familiare, ma con tematiche decisamente aderenti al mondo barbecue. Evidentemente rifiutata, o mai presentata a nessun network, la sceneggiatura è stata riproposta sulle pagine del Magazine e, contrariamente alle mie aspettative, è stata accolta da molte testimonianze clandestine, quella maniera criptata e carbonara che i (nove) lettori della Seguo hanno di fornirmi un feedback di apprezzamento pubblico in Community. Perché, come i lettori più fedeli ormai sanno, non si fanno complimenti. L’episodio pilota pubblicato sul numero di Gennaio continua con altri sconnessi tentativi di puntate successive, come se l’autore originale avesse avuto la baldanza di supporre che gli scout delle case di produzione potessero essere interessati. Il titolo dell’episodio che questo mese vi riporto è:
Non fare quella faccia
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Riassunto della puntata precedente sotto forma di brevissime clip: Gianni, in visita alla famiglia della fidanzata Tosca, è solitario ospite di uno sgangherato agriturismo quando viene raggiunto da una serie di messaggi della ragazza che lo invita ad un altro “barbecue riparatorio” alla villetta del padre, dopo il catastrofico esordio dell’episodio pilota. Nonostante gli sforzi però il conflitto con il suocero Sergio e l’ingombrante e litigioso vicino di casa Mauro esplode nuovamente in occasione della cottura di alcune costine: Gianni prova a proporre i metodi letti in Community, scardinando con accurata scientificità le convinzioni dei due griller “old school”. Mauro prende la cosa come una gravissima mancanza di rispetto e trascina tutti gli astanti in una lite, probabilmente frutto di ruggini preesistenti. Sergio, esasperato, conclude la puntata urlando disperato che il barbecue è sempre stato, prima di queste innovazioni di Gianni, in massima parte convivialità. “Ossessioni in Griglia è registrato in presa diretta di fronte a un pubblico, le cui risate scandiranno il ritmo delle varie gag” Interno, Bed&Breakfast “Il Sottocosto”: Gianni, al quale tuttora non è stato concesso di pernottare in casa della fidanzata Tosca, sta cercando di capire il funzionamento del perfido dispenser automatico di latte - caffè - tè - ginseng, riuscendo solo a ricavarne una tazza di acqua bollente con uno spruzzo di latte in polvere e quattro dosi di zucchero. Arriva il consueto messaggio mattutino di Tosca <3 TOSCA <3 - Quattro giorni di pausa spero siano stati sufficienti a far sbollire le tensioni fra di voi. Stasera mangiamo di nuovo a casa mia. Niente barbecue, non voglio saperne, serve solo a rovinarmi le serate. GianPierGianni GrillMaster84 -Meglio, dai… spaghettata? <3 TOSCA <3 - No, credo sia in programma un arrosto, a mio padre hanno regalato un pezzo di manzo appena è entrato in macelleria. GianPierGianni GrillMaster84 - Un pezzo di manzo a caso? Regalato? Sei consapevole che probabilmente sarà uno scarto, duro, ingrato e inutilizzabile? <3 TOSCA <3 - Non ne ho idea, so solo che è stato tutta la serata di ieri a seguire videotutorial di un tizio che pareva un narcotrafficante, parlava di un busker, un fisker… GianPierGianni GrillMaster84 - Aspetta, starà mica cercando di fare in forno un brisket con un pezzo di carne a caso? <3 TOSCA <3 - Ecco sì bravo GianPierGianni GrillMaster84 - NOOOOOO :’’’((( Stacco, cortile di casa di Tosca: Massimo, con gli anfibi neri slacciati, la maglietta nera di uno sconosciuto gruppo gothic metal scandinavo e il suo consueto incedere silenzioso e furtivo si accinge ad aprire il cancello sferragliante del cortile, per fare entrare Gianni, giunto all’appuntamento con le migliori intenzioni e con una bottiglia di 94 - BBQ4All MAGAZINE
spumante “Auguroni” comprato al minimarket. Mauro, il vicino invadente e personaggio prediletto degli spettatori, si fa spazio sbracciando come un venditore di auto usate e compare in tutta la sua fisicità dalla destra dell’inquadratura; Gianni, che stava per salutare, rimane interdetto e ammutolito. MR Ooooh, come al solito, se non facessi del mio meglio controllandovi dalla mia finestra per… per la sicurezza del quartiere [Mauro esita], voi, proprio, invitare mai! [Mauro scandisce il suo tormentone, gli spettatori mai sazi di questa punchline geniale ridono per interminabili secondi] M Francamente no, invitare mai, non c’è mai stato bisogno, ci hai sempre preceduto, diciamo così. Ma… entra, entra pure, non fare complimenti, come no, è sempre un piacere. [Massimo si rivolge a Mauro a mezza bocca, sarcastico, fingendo di ignorare che il vicino non lo stia ascoltando e si sia autonomamente incamminato all’interno della proprietà] G La simpatia, [lo apostrofa Gianni sorridendo a Massimo] M Il mai inopportuno, G Il niente affatto intempestivo, M L’ovviamente auspicabile [Gianni e Massimo scambiano ironici commenti all’indirizzo di Mauro] MR OU, Circo Massimoooo [Mauro attira l’attenzione con voce altissima dall’altra parte del cortile, il pubblico ride di gusto] ma un po’ di musica? Attacco la mia USB con le mie playlist, vi svolto la serata! M Ogni giorno, ogni singolo giorno si inventa qualche espressione da associare al mio nome. In anni e anni che lo conosco, non si è mai ripetuto: a quella mente semplice va certo riconosciuto il merito di una certa fertilità! [Un brano di musica house del ‘92 sovrasta le riflessioni di Massimo] G Immagino che anche come gusti musicali non ti stia facendo un grosso favore, tu sei più un tipo da… Septic Flesh? Peritoneal Disorder? [Gianni prova ad indovinare i gusti musicali di Massimo citando alcuni tra i più tenebrosi gruppi metal nordeuropei] M Ma no, quello è il mio personaggio. A me piace il funk anni ‘70, e quando voglio davvero stare bene ascolto i Ricchi e Poveri. G Scherzi? [il pubblico scandisce un Oooh di delusa meraviglia] M No no, sul serio. Immagina di essere uno studente disinteressato a stringere legami con coetanei insulsi, ignaro delle ultime novità del calciomercato, della moda o dei teen idol, con una spiccata fascinazione verso la letteratura russa, gli scacchi e la psicanalisi. Immagina anche di dover sopravvivere all’ampiezza di vedute di un liceo di provincia dove il più popolare è chi umilia i meno allineati. Diventa molto molto più facile giocarsi la carta del freak asociale dark, costruirsi un personaggio a tavolino e mantenerlo per i cinque anni necessari a conseguire il diploma. G Non fa una piega [Gianni annuisce], e i Ricchi e Poveri come si collocano in… M Li ascoltava mia madre. Ho pochissimi ricordi di lei, ero piccolo e forse li ho sovrascritti per potermi ricordare le password di World Of Worldwords e i PIN di tutti i telefonini che ho cambiato, non so. Ma Tosca qualche anno fa mi disse questa cosa strana della musicoterapia, che aiuta
anche i malati di Alzheimer a ricordare le cose, perché il nostro cervello richiama meglio i ricordi se associati a delle emozioni. Gianni annuisce lentamente, cercando nel frattempo una via di fuga educata da quel discorso. M ...la musica stimola ovviamente l’udito e il sistema limbico che, mi diceva Tosca, è alla base dell’elaborazione delle emozioni: in questo modo mi bastano poche misure del ritornello di Voulez Vous Danser e in un attimo rievoco… G Oh! Scusa scusa eh torno subito! Scusa! [Gianni interrompe il ragazzo e si alza di scatto] Tosca! Tosca..! M No no, figurati, mi stavo solo aprendo un attimo, niente di importante, ci sono abituato, colpa mia! Calciomercato! Di calciomercato bisogna parlare, si sa! [Massimo torna nell’ombra] T Gianni, sei arrivato allora! Qui è tutto pronto! Mio padre si è occupato personalmente della cottura… vada come vada, non avrà nessuno da incolpare, ergo sarà presumibilmente tutto buonissimo, e guai a chi dice il contrario. [Tosca sbuffa] MR Secco! A tavola! Aspè, vieni qua, dammi la bottiglia di spumante del Discount, che dopo vogliamo fare la foto da mettere nel nostro gruppo WhatsApp privato “I meglio maschi della gastronomia” e ci fai fare una figura come se fossimo te…[indica Gianni] ho stampato il PDF dell’etichetta della bottiglia del Sor Expendiòn che costa quanto mantenere un figlio fuori corso all’università, dammi sto intruglio che ce la faccio a-de-ri-re. [Mauro scandisce con inutile arroganza la parola aderire, il pubblico ride di pan-
cia] T A questo siamo arrivati… e sempre con queste foto, questa necessità di documentare e condividere qualsiasi cosa mangiate! Sembrate tutti scrittori a-proprie-spese, che appena finiscono un nuovo capolavoro sentono il bisogno di somministrarlo forzatamente a più lettori possibile, per avere rassicurazioni e conferme. [Tosca sbotta, con espressione volutamente snob] MR Uuuh, e che pesantona sei diventata da quando mi stai con sto secco qua! E fattela una risata! M Ed ecco che si gioca una perla del suo repertorio già ad inizio serata! [Massimo appare dal nulla e prende posto nell’angolo destro della tavola, dove sa che potrà avere al massimo solo un’altra persona adiacente a lui] “Chiedo per un amico” l’ha detta forse mentre indossavo le mie cuffie antirumore? Sergio entra finalmente in scena, con gli occhiali a specchio oversize e la cicca di sigaretta incollata [si consiglia una goccia di cianoacrilato] all’angolo della bocca, portando in tavola orgoglioso un vassoio con una pietanza vagamente simile a un piccolo meteorite, nera e granellosa. S Aaah, ora sì che prima no! Un arrosto coi fiocchi, senza sciroppi, senza aceto di mele [Sergio dà una veloce occhiataccia a Gianni], con un bel sapore i - ta - lia - no! [La sillabazione ha un che di storicamente già sentito] T Uuuh, che bellezza, cosa sarebbe? [Squittisce Tosca] M La versione stealth, tutta nera e invisibile ai radar, di un arrosto? [Massimo borbotta a mezza bocca] MR Io lo so! [Mauro prende fiato] ...È un cappello del prete LUGLIO 2020
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briskettato! L’ho visto fare online da certi youtuber umili che rispettano i loro subscriber! S Bravo, finalmente! [ringhia Sergio] MR Grande! S Bravo!! MR Sei troppo il migliore! [i due si scambiano rassicuranti complimenti e si battono il pugno] G Fatto sta… [Gianni sospira e si rivolge ai due alzando l’indice della mano destra] T No, di nuovo! [Tosca singhiozza, Massimo si toglie le cuffie incuriosito] G ...Fatto sta che quello è un codone di manzo. Avresti potuto farci una picanha decente, ma volerci fare un brisket - che per inciso si fa con la punta di petto del manzo - significa rovinarlo. Eh già. S Giovane! Non cominciamo! Qualsiasi parte del manzo, se la cuoci lentamente dopo averla cosparsa di badilate di miscela aglio - sale - pepe in parti uguali, dopo almeno sette ore di cottura diventa un brisket! E se tagli una fetta puoi metterla in equilibrio sul dito e farci una foto! [Sergio dà una manata sul tavolo] M E mi sa di no! c’è tutta la storia del connettivo, che sciogliendosi… S Fermo fermo! Ogni volta mi tiri fuori una roba dei tuoi amici scientifici del coso to perfection! E i gradi, e il forno, e asciuga la carne, e non usare il diesel agricolo per accendere il carbone… Questa è una ricetta seria e la carne è di 96 - BBQ4All MAGAZINE
prima qualità, me l’ha regalata il mio macellaio, uno che ha la carne più fresca della provincia! M Infatti, regalato, nemmeno ha provato a venderla. Comunque è codone. [Gianni si stringe nelle spalle e ritira il suo dito indice alzato] MR Secco… e basta un po’ però! Guarda, guarda qua che morbidezza! [Mauro taglia una fetta dell’arrosto e se la adagia sul dito per fare la prova di flessibilità che ha visto online. La fetta rimane orizzontale e tesa come Juri Chechi ad Atlanta nell’86] Mmm, vabbè, a parte queste finzioni su internet, sentite com’è buona! Un burro! Un burro! Lo dicono tutti, quando fai la carne buona devi dire che è un burro! S DI burro? [chiede Sergio interdetto] MR No no, dicono proprio UN burro… S Ma il manzo non sa di burro, mi fa schifo un etto di burro in bocca! MR No ma perché è morbida… S Ma il burro è duro! Oppure si scioglie, ma la carne liquida nemmeno in ospizio la danno! MR Mah, senti, dicono UN burro, io non me la sento di usare un’espressione diversa e rischiare di non essere capito o accettato. [nel frattempo, Mauro ha servito a tutti una fetta di carne] Cala un improvviso silenzio, gli occhi sono sgranati e la bocca di tutti è contratta in una strana smorfia.
Massimo con estrema rapidità estrae il cellulare, fa una ricerca e mette in riproduzione, col volume al massimo, un abusato campionamento da un film con Alberto Sordi:
“...Ammazza che zozzeria!” Silenzio. Poi Tosca sbotta a ridere, e anche un po’ a piangere. T Basta vi prego… È colpa mia, questa cosa deve avere una fine! [Tosca se ne va piena di sconforto] Mauro tace e non riesce a ingoiare. Sergio stoicamente trangugia e fa il chiaro gesto di chi apprezza la vivanda. MR Mmm, che bel saporino maschio, deciso, robusto! G Più che altro salatissimo, probabilmente per l’enorme quantità di miscela sale pepe aglio - qui ne vedo almeno un centimetro di spessore - che ci è stata versata sopra! Sai perchè è così dura? Ti spiego. Se tu prendi la punta del petto, e il fiocco, da cui si ricava tradizionalmente il brisket, il tessuto connettivo… [Gianni viene interrotto dall’ennesima manata sul tavolo, Sergio perde di nuovo le staffe] S Non mi interessa! Il mio macellaio mi dà solo cose buone! Il manzo è buono tutto! La cottura lenta ammorbidisce gli arrosti! Io non voglio spiegazioni, voglio solo che alle cene quando c’è la mia bimba [indica Tosca ormai estraniatasi dal gruppo] le cose che cucino vengano bene e siano gradite! E non voglio professoroni, voglio facce contente! Come sempre! Si è sempre mangiato bene qui da me, senza il perfection, senza obiezioni! E tu! [indica con rabbia Massimo] Non fare quella faccia! Ti vedo sai, che fai lo scontento, il deluso, l’annoiato! Ho passato anni a dirti di non fare quella faccia! Sempre scontento, qualsiasi cosa io provi a fare! Ho badato a te come a un figlio, ma tu no, sempre quella faccia! Sempre scontento! Ora insoddisfatto anche delle grigliate e degli arrosti, perché è arrivato il sapientone del tessuto connettivo e la miosina e la cauterizzazione! M È il sintomo. [Massimo interrompe con inaspettata durezza Sergio] S Ma che stai a… ma cosa c’entrano ora i sintomi! M Tu vuoi che una persona si dipinga la gamba dei jeans sopra il gesso di una caviglia rotta e che venga a correre con te. S Massimo guarda che se inizi con le tue pappardelle esistenziali… M È il sintomo! Tu vuoi che le cose vadano come vuoi. Che le persone reagiscano come vuoi. Tu non vuoi vedere la reazione, quando non ti piace. Tu non vuoi sapere i perché. S Ma stai zitto un po’... M Lo vedi? Non ti interessa il motivo, non ti interessa approfondire. Tu vuoi che una situazione che non ti piace semplicemente non esista più, da un momento all’altro; vuoi cancellare i sintomi, invece di eliminare le cause, perché a te risultano scomodi solo i sintomi, le manifestazioni. Hai la gamba rotta? Puoi non avere la gamba rotta e correre? È questo che fai in ogni aspetto. La famiglia, il lavoro, ora an-
che la carne! Sto male, sono scontento, sono afflitto? Puoi non fare quella faccia? Puoi non manifestarmi e rendermi palese il tuo disagio? Puoi fingere che tutto vada bene e che io abbia fatto un egregio lavoro di genitore, di lavoratore, di grigliatore? Non hai nessun interesse a rimuovere, o quantomeno a conoscere le cause, non è un peso che vuoi portare. Perché fai quella faccia? Perché la carne è venuta dura, salata, appestata d’aglio, nervosa e impresentabile? Sono domande che non hai mai fatto, le cui risposte ti rifiuti di sentire. [Il pubblico mormora indistintamente] MR Oh l’allegrone qua si è scatenato stasera, sembra proprio… sembra proprio un… [Mauro si accorge di non essere minimamente ascoltato e rinuncia alla battuta facendo la faccia vaga] M Avresti la possibilità di capire cosa sbagli nelle cotture, ma non ascolti questo tizio qua che, mamma mia quanto è saccente e puntiglioso, ma due cose le sa. Avresti la possibilità di migliorare la nostra permanenza a tavola, con tua figlia che ti idolatra e vorrebbe solo un minimo di armonia e la tua approvazione, ma no, devi portare avanti il tuo personaggio da Sergente Hartman low cost. G Come tu porti avanti il tuo personaggio dark a scuola, avete un bel punto in comune! [Gianni si azzarda a fare un tentativo di conciliazione] M Beh perché per me è più facile e inevitabile, ormai. [Massimo risponde ormai del tutto stizzito] S Evidentemente è più facile ed inevitabile anche per me. [Il pubblico fa un lungo e partecipato Oooh] Scusatemi, vado a mettere in ordine il disastro in cucina. [Sergio, abbandonato il piglio da istruttore dei Navy Seals, si allontana scuro in volto] M Troppo? [Massimo, un po’ rinsavito, chiede parere a Gianni] G Un pochin… anzi, beh, più che dirti “troppo” dovrei chiederti, seguendo il tuo discorso, “come mai” stasera è stato troppo, no? M Probabilmente. Magari un’altra volta, così roviniamo un’altra cena. Stacco, interno, cucina. G Posso... una parola? [Gianni alza l’indice in maniera titubante verso Sergio che ha un’espressione amara] S Fai un po’ come ti pare. G Mi sono preso la libertà di iscriverti a questa cosa che seguo pure io: è gratis, ti arrivano delle mail molto istruttive, chiare, semplici, si imparano un sacco di cose. Alla fine sarebbe solo un tentativo. S Tanto c’è sempre la casella spam. [Sergio è sprezzante e guarda altrove] G Già… S È gratis dicevi? G Sì certo, completamente! S Allora stai pur certo che cercheranno di vendermi qualcosa! G Oh beh… Potrebbero! [Gianni si stringe nelle spalle e prontamente nasconde la sua tessera Membership Diamond] Musica agrodolce, sigla. Emiliano Nencioni (Da un manoscritto anonimo)
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MAIL CLASS LA SERIE DI EMAIL DIDATTICHE DI GIANFRANCO LO CASCIO
Cercare informazioni, metterle in fila, filtrarle e poi farne un compendio presume una grande voglia di mettersi in gioco, ma soprattutto una grande disponibilità di tempo.
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CLUB
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