BBQ4All Magazine numero 39 - Marzo 2022

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N°39/ANNO 4 - MARZO 2022

L'EDITORIALE DI GIANFRANCO LO CASCIO

Perché ho rivalutato la carne di

RAZZA CHIANINA

RICETTE NUDE E CRUDE

tartare di manzo alla “carbonara”, con radicchio grigliato e porro fritto, con pesto di basilico, pinoli e cialda di Parmigiano, di cervo con fragole arrosto e crème fraîche affumicata, di pagro, di scampi e drogarossa, ceviche di scampi e mango

BBQ FUSION

burger teriyaki, bombette con Roquefort e bacon, omelette con prosciutto di Wagyū, crocchette di patate giappo-sicule

FROM ZERO TO HERO

Salamoie e marinature, queste sconosciute

LA RICETTA SCIENTIFICA

Guancia di manzo affumicata


Direttore Editoriale Rossella Neiadin

Redattore Capo Michela Bongiorni

Redazione

Enio Berton Virgilio Brunetti Tommaso Buccafurri Nunzia Clemente Roberto Dal Bosco Salvatore Di Mento Luca Gallozza Marco Gerometta Mariangela Ibba Gianfranco Lo Cascio Riccardo Meniconi Giovanni Minelli Emiliano Nencioni Elena Ninotti Andrea Spaggiari Alessandro Trezzi Carlo Trono Paolo Tucci Alex Vasile Caterina Vianello Alberto Zonghetti

Realizzazione Grafica

Impaginazione Carlo Trono Illustrazioni di Eleonora Castagna e Ozzy Bellesi Fotografie di Rossella Neiadin, Luca Gallozza, Tommaso Buccafurri, Elisa Giuli, Emiliano Nencioni

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IN DI Rubriche

Editoriale - Perchè ho rivalutato la carne di razza Chianina

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Portfolio gastronomico - Nudi & Crudi, ritorno alla natura?

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Nice to meat you - Tartare, i tagli ideali e il taglio al coltello

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Speciale crudo - ricette

Salmerino alpino affumicato al faggio

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Sandwich di cervo con fragole arrosto e crème fraîche affumicata

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Tartare con crema di Parmigiano Reggiano, bacon e tuorlo fritto

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Tartare di manzo con radicchio tardivo grigliato, porri fritti e aceto balsamico

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Pesto di basilico con tartare

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Tartare di pagro con agrumi e menta

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Tartare di scampi e gremolada di basilico

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Spaghettoni con pesto e tartare di gamberi

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Ceviche con scampi, mango, fragole e ribes

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BBQ fusion - ricette

Burger di Chianina teriyaki con coleslaw

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Bombette di capocollo con Roquefort, bacon e peperoni in ember

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Omelette con prosciutto di Wagyū

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Crocchette di patate con prosciutto di Wagyū

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Approfondimenti

Arte Bianca - La pizza napoletana

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Across the pond - Il crudo che si mangia in America

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From Zero to Hero #01 - Standing Steak

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From Zero to Hero #02 - La salamoia e la marinatura

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La Ricetta Scientifica - Guancia di manzo affumicata

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Seguo - Non è colpa mia, è colpa tua. Anzi no...

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Editoriale di Gianfranco Lo Cascio

Chianina Perché ho rivalutato la carne di razza

«Gianfranco, venderesti mai carne italiana?» Sapete quante volte mi hanno posto questa domanda?Tantissime. Sapete qual è sempre stata la mia risposta: “Dipende." Forse molti pensano che le selezioni che preferisco provengano tutte e solo dall'estero perché per qualche astruso motivo voglio boicottare la carne allevata in Italia. Beh, ho uno scoop per tutti i complottisti delle proteine autoctone: non è così. La verità è che non ho mai incontrato nessuno che garantisse quegli standard qualitativi che mi sono imposto dal primo giorno della mia avventura carnivora. Questo non vuol dire però che non esista, significa piuttosto che non mi ci sono ancora imbattuto. Non mi ci ERO imbattuto, per la precisione. Un mese fa sono stato invitato a visitare un allevamento di bovini di razza Chianina. Sì, avete sentito bene. L'invito era così cordiale e l’approccio così convincente che ho deciso di dare una chance al bovino italico più chiacchierato. Ho visitato l'allevamento e alla fine ho partecipato a una degustazione. Risultato? Onestamente, devastante. Ero certo che prima o poi sarebbe saltato fuori qualche allevatore virtuoso ed infatti è arrivato.

La stessa identica cosa si applica ai suddetti “allevamenti italiani”. Moltissimi di voi sono convinti che basti la razza a stabilire le caratteristiche di qualità della materia prima. Mi spiace deludervi ma no, non è affatto così, non può essere così, non deve essere così. Trasliamo per un secondo le razze bovine ai gruppi etnici degli esseri umani. Ha qualche tipo di senso dire che la razza caucasica sia migliore o peggiore di quella africana? Certo, ovvio che no. È evidente che ci siano dei tratti distintivi negli uni e negli altri quali colore della pelle, degli occhi e dei capelli. Ma quelli sono semplici tratti genetici che caratterizzano il gruppo etnico. Prendiamo ad esempio due indigeni della tribù dei Nahua originari del Perù, il primo vive in un villaggio dell’Amazzonia peruviana, il secondo nella

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Non fraintendetemi, non ho nulla contro ma nemmeno nulla a favore degli “allevamenti italiani”. Allevamento italiano non vuol dire assolutamente nulla; al netto che sia un allevamento, nel nostro

caso specifico di bovini, che insiste nel territorio italiano. Non sto delirando eh, pensateci un attimo. Immaginate di far assaggiare un piatto preparato da voi a qualcuno e questo qualcuno risponde “buono”. Che vuol dire buono? Buono non vuol dire assolutamente nulla. Ci sono migliaia di aggettivi e centinaia di costruzioni per poter intavolare una discussione sul gusto di un piatto. Dire che è buono non gli rende giustizia. Così come dire che non lo è.

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capitale Lima. Il soggetto A che vive nella foresta ha una corporatura asciutta, è magro, muscoloso, vitale, atletico. Il soggetto B si scofana di biscotti al caramello peruviani e li butta giù con fiumi di bevande gassate. Quali sono le differenze di aspetto tra i due? Chi è visibilmente più “in forma”dell’altro? Eppure hanno gli stessi tratti genetici, giusto? Lo stesso identico principio è applicabile nel mondo animale, con tutte le differenze del caso ovviamente. È evidente che il Black Angus ha una “firma genetica” diversa dalla Chianina. La prima evidente differenza è che il primo è di colore nero pesto e l’altro è completamente bianco. Ma come questo ci sono moltissimi altri tratti genetici che possono - ribadisco il “possono” - condizionarne lo sviluppo e la crescita. Ne deriva che l’unica vera differenza, a questo punto della storia, risiede nel metodo di allevamento. Ma che cosa si intende esattamente con “metodo di allevamento”? Non è solo un protocollo che riguarda l’alimentazione ma un processo che coinvolge interamente la vita dell’animale. È la somministrazione di alimenti diversi

nelle distinte fasi della crescita. È la diversa modalità di stabulazione. Un animale è felice in stalla se la stalla è confortevole, pulita, priva di stress. Ma è anche felice se può stare all’aria aperta a brucare un po’ d’erba fresca e godersi un po’ di sole. Potrà sembrare banale ma mantenere una stalla pulita può diventare un lavoro enorme e che richiede davvero moltissime risorse in termini di persone e di tempo. Queste risorse si traducono sempre in costi elevati che bisogna moltiplicare per il tempo che questi capi bovini rimangono nei box prima della macellazione. Immaginate adesso la differenza tra un bovino che vive in una catapecchia puzzolente e buia, che calpesta i propri escrementi per settimane prima di poter vedere di nuovo il suolo, che viene macellato mediamente dopo 18/20 mesi dalla nascita. Questo determina un costo della permanenza in stalla. Immaginate adesso un altro stabilimento, dove il capo vive in un paddock pulito, dove non c’è alcun odore sulfureo di escrementi, su letti di trucioli di legno profumato che viene costantemente sostituito. Dove c’è sempre acqua corrente a disposizione, dove c’è silenzio, dove la presenza dell’uomo è ridotta al minimo e dove questi bovini vivono 30, ma anche 32, fino a 36 mesi compiuti.

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Immaginate i costi per mantenere tutto pulito. Immaginate le spese che derivano dall’alimentazione di un bovino adulto per un anno e mezzo dopo il momento in cui diventa adulto. È evidente che questi costi si riflettono sul prezzo della carne. Così come è evidente che al di là della “razza” quel bovino è indiscutibilmente di qualità superiore a quello del primo esempio.

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I tratti genetici sono importanti. Ma ancora più importante è il protocollo di allevamento di quella precisa farm (allevamento). La scelta dei cereali e del foraggio, dei veterinari, delle modalità di accrescimento. Ciò che ho visto in questo preciso di allevamento di bovini di razza Chianina non ha lasciato alcuno


spazio all’immaginazione. Ho trovato un luogo pulito, dove gli animali non soffrono lo stress, dove c’è pensiero e riflessione dietro il metodo di allevamento. Dove registri la passione nelle parole dell’Allevatore (si ho volutamente usato una maiuscola).

Per raggiungere un livello soddisfacente in termini di qualità bisognerebbe costruire un sistema di frollatura, monitorarlo e controllarlo. Non è proprio cosa da poco. Probabilmente diventerà un progetto in cantiere.

Per questo ho voluto dare alla Chianina una chance. Alla degustazione ho potuto apprezzare una marezzatura buona ma non eccessiva, una tenacità marcata ma un sapore straordinario. C’è da migliorare? Certo, tutto è perfettibile. Eppure quello che ho scelto è un allevamento che merita tutto il nostro supporto, che è più che in grado di soddisfare i nostri fabbisogni. Parliamo comunque di svariate centinaia di capi, non proprio una piccola fattoria.

Per facilitare la commercializzazione e dare un mano a questo allevamento ho deciso di consumare i posteriori creandovi la migliore linea di Burger Chianina sul mercato -e su questo non temo alcun tipo di confronto- e lasciare all’allevatore la possibilità di sfruttare lombate e tagli nobili dell’anteriore. Per questi ultimi, come detto, esiste un mercato con dei prezzi sufficientemente solidi. È bene lasciare a lui la possibilità di migliori profitti con i tagli principali e aiutarlo a trasformare quei tagli che per lui rappresenterebbero un freno alla velocità di macellazione.

Qui dovreste aver compreso il punto, cari lettori di questa atipica rivista. Non è un problema di “carne italiana” e non è un problema di “razza”. Qui il merito va attribuito a come questi bovini che ci regalano la loro stessa vita vengono trattati da vivi.

Buona lettura!

Gianfranco Lo Cascio

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Esiste anche un mercato delle lombate Chianine, ovviamente, ma queste non sono all’altezza di ciò a cui siete abituati parlando in termini di tenacità. È per questo che non mi sono ancora avventurato nella selezioni di tagli da “bistecca”.

Da qui i burger e le tartare che imparerete a cuocere, condire e impiattare, anche grazie e soprattutto a questo numero del BBQ4All Magazine.

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Nudi & CRUDI

Ritorno alla natura?

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tate tranquilli, ci apprestiamo a parlare di carne e pesce, non del discutibile reality nel quale ogni tanto il malcapitato zapper televisivo incappava durante le seconde serate di qualche anno addietro. Un format di bassissimo livello, tra l’altro reso ancora più anacronistico dalla censura che, generando un cortocircuito intellettivo, negava l’essenza stessa della trasmissione. Carne e pesce crudi, dicevamo: negli ultimi anni abbiamo visto la crescita esponenziale del loro consumo, il moltiplicarsi di ristoranti, franchising e locali esotici che propongono alimenti non cotti con diverse variazioni e lavorazioni. Per non parlare della loro frequente presenza all’interno delle trasmissioni televisive gastronomiche che allietano (o funestano?) i telespettatori. Una moda? Forse, ma non solo. Senza le pretese di coglierne appieno le ragioni, ci muoveremo tra letteratura, arte, gastronomia, tradizione, memorie. Non avremo una risposta definitiva, ma lo sguardo più ampio per visionare un fenomeno effettivamente complesso e sfaccettato.

Oggi viviamo in un’epoca nella quale riteniamo importante il ritorno alla natura, ma nel Medioevo questa concezione non esisteva: si pensava che l’artificio migliorasse la natura, la perfezionasse. È’ l’intervento dell’uomo, delle risorse, della tecnologia a essere buono, perché è segno che l’uomo ha saputo dominare il processo naturale e ferino. La cottura rendeva sano un prodotto, il crudo era visto come qualcosa di selvaggio, pre-culturale, animalesco. Anche gli antichi Greci ritenevano il “mangiare cotto” come parametro del vivere civile. Pensiamo ai centauri, mitologici esseri mezzi uomini e mezzi cavalli, exemplum di ferinità, caos, bestialità: il fatto che si nutrissero non di alimenti vegetali ma di carne cruda per scelta (erano infatti capaci di cuocerla), ne mette in risalto l’aspetto selvatico contrapposto all’uomo civilizzato. IL PESCE CRUDO NEL MONDO… Questa usanza alimentare è antica, diffusa soprattutto presso i popoli delle zone costiere più fredde e pescose del mondo. All’interno di questo percorso ricordiamo che è corretto includere salamoia, salatura, marinatura, affumicatura: tali procedure difatti non “cuociono” il pesce ma, come ben sappiamo, ne modificano la consistenza. Partiamo dagli inuit e dagli yupik, i due principali gruppi di eschimesi (termine che significa appunto“mangiatori di carne cruda”), che mangiano il pesce appena pescato senza tante complicazioni. Il

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DAME, CAVALIERI, CENTAURI Chrétien de Troyes è stato uno scrittore e poeta francese del dodicesimo secolo, autore di molte opere, tra cui Ivain ou le chevalier au lion. La trama di tale composizione esula dalle pagine della nostra rivista, ma un episodio è rilevante. Il cavaliere Ivano, dopo aver perso l’amore della propria sposa, perde la ragione e si allontana dalla civiltà, condizione questa rappresentata dall’inoltrarsi nella foresta di Brocéliande, ove i confini tra umanità e animalità si fanno labili. Si straccia le vesti rimanendo nudo e fugge per i campi, prima di inabissarsi nella selva, dove si imbatte in un ragazzo a cui ruba arco e frecce che gli serviranno per cacciare. Egli uccide le bestie e si ciba della cacciagione “tutta cruda”, palesando così la sua bestialità, una “selvatichezza” che si oppone alla civiltà. Ivano, ad un certo punto, si imbatte nella capanna di un eremita: costui fungerà

Portfolio gastronomico a cura di Alberto Zonghetti illustrazioni di Eleonora Castagna da “facilitatore” per il reinserimento del cavaliere nella società civile. In questa ottica, il progressivo rinsavimento di Ivano, che si riappropria dell’equilibrio perduto, va di pari passo con le modificazioni delle proprie abitudini alimentari. Dal crudo egli torna pian piano al cibo cotto sul fuoco, quindi elaborato, fino a desiderare un coltello, una tovaglia e i modi di una società cortese. La guarigione psicologica di Ivano passa quindi anche attraverso la cucina.

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ratfisk (trota o salmone artico fermentato 3 mesi e consumato crudo), è caratteristico della Norvegia, il gravlax in Svezia (salmone marinato con la grappa); in generale nella Scandinavia il salmone viene consumato crudo affumicato oppure in versione lax, cioè messo sotto sale e spezie per qualche giorno e tagliato a fettine sottilissime. Nell’Europa del Nord si mangia anche l’anguilla cruda affumicata, l’aringa cruda sotto marinata acida (sidro incluso) o generalmente aromatizzata con semi o rametti di aneto, semi di coriandolo o di senape, aglio, pepe, zucchero, spezie e a volte anche panna acida. In Russia è tradizionale lo storione, dal quale si ricava il pregiato caviale, nonché la siberiana e storica stroganina (pesce ghiacciato servito con olio e spezie).

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In Catalogna troviamo la esqueixada, insalata di baccalà crudo con pomodori e olive, o lo xato di acciughe con la salsa romesco a base di pomodori, peperoni, mandorle, pane bagnato, olio e aceto. In Francia i molluschi crudi e le deliziose ostriche della Bretagna, fino al Plateu Royal. In Turchia, in Grecia e nei Balcani abbiamo la lakerda ovvero fette di tonno giovane o sgombro crudi messe sotto sale e poi marinate nell’olio.

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In America latina, oltre al tiradito, piatto molto antico, il più comune esempio è il famoso ceviche (o cebiche) peruviano, ormai popolare in molti altri paesi dell’America latina che si affacciano sull’Oceano Pacifico (e direi anche nei menu di molti nostri ristoranti): piccoli pezzi di pesce, gamberetti o frutti di mare crudi vengono infatti lasciati marinare nel succo di lime o di limone insieme e ad alcune spezie come il peperoncino fresco e il coriandolo. Se parliamo dell’Oriente troviamo ricette di pesce crudo praticamente in tutti paesi dell’Asia del Sud-Est: doveroso ricordare l’antico narezushi (pesce conservato un anno crudo sotto il riso) che diede poi origine al sushi e al sashimi nel XIX secolo. In Polinesia, e in particolare a Tahiti, il pesce crudo si fa in insalata. Si usa tonno rosso o bianco, merluzzo, orata o altro, che si taglia a dadini e si condisce con peperoni, paprika, carote e cetrioli a rondelle, latte di cocco e succo di lime, mentre alle Hawai si mangia il poke, una insalata di tonno tradizionalmente condita con alghe, sale marino e lime. … E IN ITALIA Fino a due-tre decenni addietro, si consumava pesce crudo solo in alcune zone della nostra Penisola, in


quelle regioni nelle quali questa pratica fa parte della tradizione: in Puglia acciughe, triglie, seppioline, ricci e molluschi vengono posti vivi in un secchio di acqua di mare dal quale si attinge per gustarli dopo averli, eventualmente, spruzzati di limone. Anche in Campania il consumo di molluschi crudi, in particolare le cozze, fa parte della cultura gastronomica, così come in Liguria. Le alici marinate, chiamate “argento di mare”, sono da tempo diffuse in molte zone d’Italia. Recentemente, la contaminazione con altre culture, in particolare con quella giapponese, ha favorito il consumo e l’apprezzamento per il pesce crudo: semplicemente sfilettato sottile (carpaccio) o battuto al coltello e ricomposto in forme varie (tartare), o quello di molluschi crudi (ostriche, tartufi di mare, fasolari, arselle) e di crostacei (scampi, mazzancolle, gamberi rossi, rosa e viola, gamberetti di laguna).

Il mondo del sushi giapponese è stato però solo un’ispirazione iniziale per uno chef sperimentatore come Cedroni, che ben presto sul tema del pesce crudo ha imboccato una strada e uno studio del tutto personali. Un percorso che ad ogni stagione diventa un tema portante, dalla preistoria al Rinascimento,

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Così come avviene per le tendenze più attuali nel consumo del pesce d’acqua salata, anche il pesce di lago è molto apprezzato in diverse preparazioni a crudo, che valorizzano appieno la qualità del prodotto e le sfumature del suo gusto.

Non posso, da buon marchigiano, non menzionare il celeberrimo chef stellato Moreno Cedroni e il suo Susci con la C. Non è solo un gioco linguistico, una trovata arguta, ma una rivisitazione italiana e personale dello schema classico della cucina nipponica, un nuovo concetto di preparazione del pesce crudo in chiave mediterranea. La ricerca del gusto umami giapponese, ad esempio, nel sushi tradizionale viene raggiunto con elementi come l’alga kombu, mentre nel Susci anche nell’abbinamento con ingredienti nostrani dalla grande presenza di glutammato, come il parmigiano e il prosciutto crudo. Il riso tradizionale è sostituito con un Carnaroli, e poi l’acidità, data da aceto, limone, pomodoro verde, la sapidità della colatura di alici e l’olio extravergine d’oliva. Bacchette o forchette? Cedroni ha disegnato una posata apposita, una lunga forchetta-bacchetta con cui mangiare, dal lato che si vuole.

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dalle divinità vichinghe alla musica anni ’50 del Jamboree, nel quale declinare il suo Susci che parte dal Mediterraneo per esplorare ogni anno nuovi mari del gusto. LA MODA DEL SUSHI

“Milano SUSHI e coca La noche esta loca Strisce, righe e moda Vodka, keta e soda Borgo, Vogue e Plastic La noche is fantastic Dammi il tuo NIGIRI Mi piace come tiri” Dalla canzone “Milano sushi e coca” di Myss Keta E’ necessario un chiarimento: la citazione non rispecchia affatto i miei gusti musicali ed il mio stile (eufemismo). Mi è stata presentata, complici numerosi boccali di birra, da un mio amico durante un delirante pranzo in campagna a base di barbecue e peperoncino letale.

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Ma questa canzone è un affresco sonoro molto efficace nel tratteggiare i caratteri di una certa “movida” meneghina costellata di eccessi e abbinata ad un cibo – esotico, costoso, piacevole – che diventa quasi uno status symbol. Il sushi è stato introdotto a Milano oltre quarant’anni fa, nei meravigliosi anni ’80, ed era all’epoca un’abitudine esclusiva, che permetteva di distinguersi dalla massa perché una cena giapponese costava molto di più rispetto ad una pizza.

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Dagli anni Duemila la moda del sushi, sashimi, nigiri e maki – fondata peraltro su uno stereotipo che non tiene affatto conto della complessità della gastronomia nipponica - ormai ci ha conquistati: basti pensare che fuori dal Giappone sono quasi trentamila i ristoranti nipponici. Il costo impegnativo oggi è stato parzialmente superato grazie ai tanti ristoranti che rendono la cucina giapponese molto più accessibile rispetto al passato (per non parlare degli “all you can eat” spesso gestiti da ristoratori cinesi). Ma permangono in ogni caso i locali più raffinati per palati e portafogli esigenti, persino nella media città di

provincia in cui abito: gli amanti autentici di questo cibo si mescolano a quelli affamati di foto e post da condividere sui social network. Eh si, perché le preparazioni giapponesi hanno un impatto estetico decisamente suggestivo, direi molto fotogenico, perfetto equilibrio tra estetica e gusto. LA CARNE “ALLA TARTARA” Secondo la tradizione, questa preparazione avrebbe preso il nome dai Tatari, ribattezzati poi nell’occidente cristiano “Tartari”, termine che identificava in modo abbastanza generico tutte le popolazioni nomadi di stirpe turca o mongolica dell’Asia centrale. Guerrieri spietati e temibili, di piccola statura e molto agili, questi minuti soldati avevano nel cavallo la loro arma segreta, che consentiva loro rapidi spostamenti. Erano addestrati sin da bambini a stare a dorso di cavallo e persino a dormire nella scomodissima posizione a cavalcioni. Pertanto, dovendo percorrere lunghissime distanze, escogitarono un modo molto originale per conservare la carne che, diversamente, sarebbe andata a male. Prima di partire, tagliavano lunghe strisce di carne, in particolar modo di cavallo, e le sistemavano tra il suo dorso e la sella. L’incessante sobbalzare, il caldo e il sudore salato dell’animale, il tutto per ore di fila, facevano marinare e ammorbidire la carne, evitando la sua putrefazione. Da cruda poteva essere mangiata secondo necessità con l’aggiunta di bacche selvatiche e spezie, che servivano tanto per insaporire la carne quanto per mascherare il “fortissimo” odore. Era un cibarsi per cui non c’era necessità di accendere fuochi che avrebbero richiesto legna in zone brulle e, soprattutto, comportato il rischio di rendersi localizzabili dal nemico. In pratica la bistecca tartara è stato il mangiare più adeguato per armate in movimento, avendo ogni possibile vantaggio. A dare fondamento a questo metodo fu lo storico Ammiano Marcellino nel suo testo “Storie”, del IV secolo d.C, che attribuiva agli Unni questa pratica: “Si cibano di carne fatta frollare al calore delle loro gambe o sul dorso dei cavalli perché non conoscono nemmeno il fuoco”. Questo modo di consumare la carne cruda, battuta e macinata, sebbene di metodologia poco ortodossa, era totalmente inusuale ed innovativo. La specialità si fece successivamente molto popolare nella Russia


zarista, ove la sua preparazione era assai frequente. Il piatto arrivò in Francia all’inizio del XIX secolo, grazie ai cuochi russi mandati in esilio a Parigi: il piatto entrò così, storicamente nella tradizione gastronomica francese che lo battezzò Tartare. Qualcuno afferma che la prima descrizione culinaria della preparazione della carne alla tartara, è documentata nel testo “Gastrosophie oder die Lehre von den Freuden der Tafel” di Friedrich Christian Eugen von Vaersts, del 1851, per indicare una preparazione di filetto di manzo, sale, pepe, tuorlo, filetto di acciuga e capperi. Un’altra storia racconta che la bistecca alla tartara, come la conosciamo oggi, proviene dalla città di Amburgo, in Germania, dove veniva servito un piatto di carne macinata stagionata e solitamente cruda, accompagnato da cipolle e briciole di pane. In ogni caso, la nostra pietanza, divenuta ormai famosa, diede origine in tutto il mondo - dai paesi scandinavi fino alla cucina sudamericana - a diverse varianti: quelle di pesce prediligono salmone, pesce spada, tonno, pregiati gamberi rossi.

Nella ristorazione contemporanea, attenta più che mai all’estetica e alla presentazione del piatto, la tartare è stata riscoperta dagli chef internazionali e proposta in numerosi locali: un piatto particolare e versatile che trova indubbiamente grande apprezzamento. L’ARTE E LA CUCINA: IL CARPACCIO Giuseppe Cipriani era personaggio eclettico, geniale, dotato di grande intuizione e perspicacia. Fondò nel 1931 l’Harry’s Bar a Venezia, locale iconico frequentato dai più famosi vip e intellettuali del tempo, come ad esempio Ernest Hemingway, Sinclair Lewis e Orson Welles. Da profondo estimatore dell’arte, legò le sue più celebri invenzioni ai nomi di grandi artisti: ricordiamo il Bellini, famoso cocktail a base di prosecco e pesche bianche, dal colore rosato che ricordò a Cipriani il colore della toga di un santo in un dipinto di Giovanni Bellini, famoso pittore veneto che visse tra fine del’400 e gli inizi del ‘500. Ma l’illuminazione più geniale del Cipriani è datata 1950, per accontentare le richieste di una fedele

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cliente del ristorante, la contessa Amalia Nani Mocenigo, a cui il medico aveva prescritto di non mangiare carne cotta. Dopo diverse prove, propose un filetto di manzo tagliato a fettine leggere “come se fosse un prosciutto”, accompagnato da una salsa da lui stesso definita “universale” in quanto adatta sia alla carne sia al pesce. Si tratta di una maionese leggera combinata con qualche cucchiaio di Worcestershire, condimento agrodolce e un po’ piccante. Nel suo libro l’Angolo dell’Harry’s Bar scrive: “la carne da sola era un po’insipida; ma c’era una salsa molto semplice che chiamo universale per la

sua adattabilità alla carne e al pesce. Ne misi una spruzzatina sul filetto.” Ma tutto si giocava sulla qualità della materia prima, come lo stesso Cipriani ribadisce: “Con il carpaccio gli imbrogli sono proibiti. Il suo segreto è nell’essere interamente svelato, nudo come mamma l’ha fatto. Per questo, non riconoscendone tante qualità, non amo la cucina francese, che predilige invece i cibi in maschera.” Le tonalità del piatto, di un rosso intenso con tinte


uno più importanti esponenti della pittura astratta. Dopo un periodo iniziale, in cui questa pietanza a base di carne cruda ebbe un’accoglienza tiepida da parte dei clienti del suo ristorante, il successo fu tale che ben presto la ricetta fu copiata dai locali di tutto il mondo. Negli anni ’80 eanche ’90, il carpaccio era una moda invasiva, piatto simbolo degli “yuppies": era servito come antipasto o secondo piatto, con le fette di carne adagiate su un letto di radicchi misti o di onnipresente rucola, e guarnito in superficie con funghi freschi affettati, oppure carciofi o sedano. Condito con scaglie di parmigiano, olio, sale e pepe, e qualche goccia di limone che, se eccessiva, conferiva al piatto un orrendo aspetto grigio-rosato. Oggi diversi locali lo propongono in versioni minimali come la ricetta originale o decisamente creative prevedendo abbinamenti con frutta, sapori esotici od orientali. USANZE FAMILIARI E TRADIZIONI Collegate in maniera diretta o più lontana a tartare e carpaccio troviamo diverse preparazioni quasi in ogni regione d’Italia, ne citiamo solo alcune: la battuta di fassona e la carne all’albese in Piemonte; la carne salada in Trentino; la celebre salsiccia di Bra; la carna macinata dell’Emilia Romagna, servita con olio e limone.

giallastre, ricordarono al patron del locale i colori caratteristici di un famoso pittore veneziano del ‘500, Vittore Carpaccio, di cui era in corso una mostra proprio in quei giorni a Palazzo Ducale. Secondo alcuni il quadro che avrebbe ispirato Cipriani sarebbe la Predica di Santo Stefano (conservato presso il Museo del Louvre, Parigi). In ogni caso, da qui deriva il nome del piatto.

Vi ricordate poi la soluzione finale di mamme e nonne di fronte a situazioni di anemia o astenia? Ovviamente carne cruda, anche di equino, con olio e limone, a fettine o macinata: un vero toccasana!

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Ma le connessioni gastro-artistiche non sono finite: il modo di versare la salsa sulla carne, fu definita dallo stesso Cipriani alla “Kandinsky”, ricordando

Al di là delle preparazioni rese celebri dalla storia gastronomica, il mangiare carne cruda lo possiamo ritrovare grazie alla memoria, ai nostri ricordi. Nelle campagne, parlo di qualche decennio addietro, durante la macellazione dei maiali si usava spalmare la salsiccia fresca di suino sul pane, come merenda per i ragazzi e spuntino per gli adulti: pratica che oggi potrebbe costare un infarto fulminante ad un ispettore sanitario e fruttare qualche denuncia per tentato avvelenamento. In Toscana mi dicono essere una usanza piuttosto comune, anche io ho ricordi d’infanzia legati a qualcosa di simile. In diverse zone del Meridione, richiedere l’assaggio della salsiccia cruda al macellaio è quasi un rito, il riconoscerne la qualità delle materie prime e della lavorazione, una sorta di certificato di fiducia.

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IL CRUDO FA BENE? Se trattato secondo le norme igienico sanitarie vigenti (che invitiamo sempre a rispettare), non fa male, anzi! Le proprietà e i benefici che ne derivano dipendono dalla tipologia di proteina. Tra i benefici del consumo di carne cruda c’è l’assimilazione di una maggiore quantità di ferro, ma anche la conservazione delle proprietà nutritive e degli elettroliti contenuti nel prodotto, e se ne guadagna anche in digeribilità. Per questo è meglio prediligere la carne cruda o al sangue. Tra le altre caratteristiche della carne cruda c’è la conservazione di una maggiore idratazione e l’integrità di vitamine come la B1, B2 e B5, che possono essere assorbite completamente dal nostro organismo.

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Per quanto riguarda il pesce invece, oltre al migliore assorbimento di vitamine tra cui la B1, B2, B5 e la E, si parla soprattutto di Omega 3, che non perde le sue proprietà in cottura ed è in grado quindi di dare tantissimi benefici al nostro corpo, tra cui anche diminuire gli stati d’ansia e avere un impatto positivo sull’umore.

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RITORNO AL PASSATO… O SGUARDO AL FUTURO? Possiamo considerare il crudo contemporaneo

un ritorno alle origini? No, almeno non nel senso letterale. Oggi il crudo è diventato una vera e propria categoria del gusto. Ha smesso di essere il primo stadio dell’evoluzione gastronomica, quella che inizia con la scoperta del fuoco. Nella nostra società il crudo non è quello che viene prima del cotto, ma è diventato il diversamente cotto, un’elaborazione gastronomica autonoma, minimale, quasi futuristica, senza ferro e fuoco. Esistono tartare e carpacci con gli ingredienti più svariati: gambero, bufalo, polpo, frutti di mare, di tutto di più. Se a prima vista potrebbe sembrare un ritorno alle origini, siamo lontanissimi dal gusto preistorico: le varie lavorazioni - salse, marinature, salature, emulsioni, riduzioni, macerazioni – sostituiscono la cottura e ingentiliscono, accarezzandola, la superficie immacolata delle crudità. Ma c’è anche chi di discosta da questa dimensione. Conosco persone che mangiano cibo crudo sin da piccoli, seguendo un istinto naturale, una ricerca del gusto che li allontana dal cotto. Trovano irresistibile il richiamo, il sapore, le sensazioni del boccone crudo, che diventa un’appagante carezza di arcaica e inconsapevole ferinità, un habitus che trascende la razionalità e si intreccia con la primigenia primordialità.


NICE TO MEAT YOU

Come si fa una tartare

I TAGLI IDEALI E IL TAGLIO AL COLTELLO

Partiamo proprio dall’inizio: cosa è, di fatto, una tartare di carne? Frammenti di tessuto muscolare, tagliati finemente per facilitarne la masticazione (non è una prelibatezza l’idea di ruminare per decine di minuti con una fettona coriacea di carne in bocca) sapientemente insaporiti e accompagnati con un elemento grasso per completarne il profilo gustativo. La natura stessa della pietanza è anche il suo più grosso problema. Quando non cuoci il cibo, la qualità della materia prima è di fondamentale importanza, di pari passo con le precauzioni di stampo sanitario. La proliferazione batterica è il nemico principale, ed è per questo che è importante chiarire una semplice questione proprio all’inizio dell’articolo: non fatevi una tartare partendo da un acquisto di generico “macinato”. Questo è importante per molti motivi: prima di tutto con molta probabilità vi ritrovereste nel piatto

un arruffìo di carne proveniente da chissà quanti capi diversi e da chissà quali pezzi della mezzena; inoltre, correreste il rischio di ritrovarvi carne con contaminazioni incrociate da precedenti lavorazioni. Se avete un po’ di tempo a disposizione, preferite il taglio al coltello della carne, evitando anche una macinazione casalinga: non solo da un punto di vista tattile la tartare risulterà più gradevole rispetto alla sensazione di innumerevoli brandelli strappicchiati in bocca, ma da un punto di vista sanitario stare molto più tranquilli. Quando la carne non è cotta la qualità del manzo comprato gioca un ruolo fondamentale, più del solito: le selezioni del Megastore sono sicuramente un’ottima risorsa . Una flank steak è sicuramente ottima per una bella bistecca, ma per una tartare è più consigliato buttarsi sul filetto: avrete molte meno possibilità di imbattervi in pezzi ostici alla masticazione o in parti “nervate”. Dopo tutto, il filetto in inglese si chiama tenderloin per un motivo. Un problema del filetto è che è uno dei tagli più poveri di grasso e di tessuto connettivo, ma anche di sapore. Quel gusto ferroso e grasso che si associa al manzo tende ad essere scarso: è per questo che possiamo consigliarvi l’uso di altri tagli, adattissimi per preparavi in casa la vostra tartare perfetta.

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TOP ROUND

È la parte interna superiore del “round”, la parte finale del capo di bestiame (il posteriore): è un muscolo ben esercitato, e quindi ragionevolmente privo di grasso. Essendo un muscolo usato per la locomozione ha una carne piuttosto tenace, ma per un utilizzo in tartare questo non sarà un problema; il sapore è ben presente, e il prezzo è generalmente meno impattante di un filetto di pari peso. Si ricava dalla carne attorno al femore del manzo, ed è adiacente al bottom round, all’inside round e all’eye of round.

SIRLOIN FLAP

E’ chiamata anche inside skirt, e si contrappone ovviamente con la outside skirt: entrambe sono un taglio del diaframma, muscolo attaccato dalla sesta alla dodicesima costola. Si ricava dalla mezzena tramite un taglio dritto e ben definito proprio all’estremità delle costole. La outside skirt è sia più lunga che più larga della inside skirt, ed è anche più tenera e con più marezzatura: proprio per questi fattori è meglio lasciarla per altri impieghi più “medium rare”, come ad esempio una bella grigliata. Per la tartare sarà eccezionale la inside skirt, a patto di tagliarla finemente. E’ presente una tenacissima membrana, da rimuovere tutta in un colpo prima di iniziare a tagliuzzare la carne

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TERES MAJOR

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Aka il filettino di spalla, cioè uno dei tagli del manzo più teneri che esistano. La forma è simile a quella del filetto, affusolata, ma le dimensioni sono sensibilmente minori. È avviluppato da moltissimi muscoli strapieni di tessuto connettivo. Si tratta di un flessore della spalla e un adduttore della zampa, per questo motivo è un muscolo molto tenero (i bovini non hanno grandi movimenti di adduzione dell’arto anteriore) ed è affiancato alla copertina di spalla (topblade/flatiron). Quasi privo di connettivo il Teres Major, se frollato a dovere, al morso risulta molto più tenero di tanti filetti ricavati da bovini non frollati.


COME SI FA UNA TARTARE

Usa carne freddissima. No, non congelata. Tuttavia, una mezz'oretta scarsa di congelatore renderà tutto il processo di taglio al coltello meno impegnativo: sarà più rigida, più ferma e meno cedevole sotto la lama. Utilizza questa accortezza anche per i piatti di servizio o per le scodelle in cui miscelare gli ingredienti, perché la tartare tiepidina non piace a nessuno. Poi fai così: 1. Seleziona il pezzo di carne: scegli uno dei tagli di cui abbiamo parlato poco più sopra. 2. Asciuga la carne. Sala a volontà sulle superfici, copri e riponi in frigo per un paio d’ore: non più di un paio d’ore, non è un dry brining quello che vogliamo fare ma più un’azione antibatterica. 3. Sciacqua via il sale ed asciuga di nuovo: adesso la superficie della carne è pronta per il taglio, con un minore rischio di portarsi in giro dei patogeni indesiderati. 4. Taglia via eventuali pezzi di connettivo, qualora ce ne fossero. 5. Con un coltello ben affilato inizia a tagliare fette spesse mezzo centimetro, che poi ridurrai in strisce di mezzo centimetro, che a loro volta dovrai ridurre a cubetti di mezzo centimetro di lato. Inteso? Fetta striscia - cubetto: in pratica ogni volta ti accanirai su una “dimensione” diversa del solido. 6. Metti la carne tagliata in una scodella fredda e aggiungi olio, aceto, sale e pepe. Aggiusta a tuo gusto. 7. La mistura va mantenuta fredda fino ad un attimo prima del servizio. Per produrre qualcosa di visivamente definito e geometricamente classificabile usa un coppa pasta per ridurre la polpetta a un cilindro. Ecco la tua tartare al coltello, pronta per essere condita nel modo in cui preferisci. Per qualche idea, ti consigliamo di leggere tutte le ricette proposte in questo numero e ti promettiamo che rimarrai soddisfatto.

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Tu chiamalo, se vuoi, sashimi

SALMERINO ALPINO

AFFUMICATO AL FAGGIO, KIWI MARINATI, OLIVE ED EMULSIONE AL DRAGONCELLO Se avete voglia di un antipastino fresco, leggero ed elegante questo è sicuramente il piatto giusto per voi. La delicatezza e la bontà del salmerino alpino si abbinano divinamente ad un’affumicatura al faggio che ne esalta le grassezze e il gusto. Il salmerino alpino appartiene alla famiglia dei salmonidi come il salmone e la trota. È l’unica specie di questo pesce autoctona in Europa ed è tipico dei laghetti alpini di montagna (in Trentino se ne trovano esemplari nel lago di Molveno e nel lago di Tovel). In commercio ne esistono altre specie, in particolare il salmerino di fonte (salvelinus fontinalis), che però non sono autoctone del Trentino e a differenza del salmerino alpino vivono anche in acque più calde. Se non riuscite a trovare il salmerino, potete utilizzare il pesce che più preferite basta che mantenga una consistenza soda e un po’ grassa. Branzino, ricciola, salmone o trota sono perfetti. Per questa preparazione utilizzeremo la tecnica dell’affumicatura a freddo tramite l’uso della chiocciola. La chiocciola per affumicatura a freddo è ideale per affumicare pesce, carne, formaggio o, perché n,o anche zucchero, sale... cocktail! Non ci sono limiti, dipende tutto da cosa vi suggerisce la fantasia. L’affumicatura a freddo viene effettuata a temperature comprese tra i 15°C e i 25°C. Per dare ai filetti una consistenza più soda procederemo prima con una marinatura a secco che, grazie all’azione del sale e dello zucchero, estrarrà parte dell’umidità presente all’interno del filetto dandogli più consistenza e soprattutto intensificandone il sapore.

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I kiwi saranno il tocco acidulo e fresco che andrà a ravvivare il palato in questo gioco di sapori e di consistente. Le olive verdi in salamoia infine daranno una bella sferzata sapida e robusta, che ben si accosta agli altri ingredienti. E poi il dragoncello. Profumatissimo, balsamico e a tratti piccante. Ne ricaveremo un olio profumatissimo e verde con il quale andremo a montare la nostra emulsione vegana: un’idea fantastica e comoda anche per preparare gustose “maionesi” d’accompagnamento.

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Ingredienti per 4 persone: 2 filetti di salmerino

alpino biologico / un cucchiaino di sale / un cucchiaino di zucchero di canna / pepe a piacere / un lime / 2 kiwi / 100 g di olive verdi / 20 g di yogurt greco / menta fresca a piacere / dragoncello a piacere / rucola a piacere Per l’emulsione al dragoncello : 100 g olio verde al dragoncello / 50 g latte di soia al naturale / un cucchiaino di aceto di mele / sale q.b.

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PREPARAZIONE

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1.

Per prima cosa occupatevi dell’emulsione al dragoncello. Preparate un olio unendo olio di semi e dragoncello nel rapporto di 3 a 1. Mettete tutto nel boccale del termomixer e frullate a 60°C per 10 minuti alla massima velocità. Poi filtrate con un colino a maglie fini e con l’olio ottenuto montate l’emulsione con il minipimer. Le proteine del latte di soia faranno da emulsionante rendendovi semplice il lavoro. Trasferite in una sacca da pasticceria o in un biberon.

2.

Ripulite i filetti di salmerino da eventuali lische e pelle. Preparate un composto di sale e zucchero di canna in parti uguali e cospargetelo su tutti i lati del salmerino. Lasciate marinare per circa 10/15 minuti a seconda dello spessore. Risciacquate i filetti e asciugateli accuratamente. Settate il dispositivo con la classica chiocciola per affumicatura a freddo a circa 30°C. Lasciate affumicare i filetti di salmerino per circa due ore.

3.

Tagliate le olive a metà i dai kiwi ricavate dei cubetti da 1 cm di lato. Lasciate marinare per circa 10/15 minuti con sale, pepe e scorza di lime.

4.

Lavorate lo yogurt con una frusta, aggiungete sale e pepe e mettete in una sacca da pasticceria.

5.

Con un coltello molto affilato ricavate delle fettine sottili di salmerino. Alla base del piatto, disponete alcuni spuntoni di emulsione al dragoncello e di yogurt. Adagiate il salmerino dandogli volume e poi divertitevi a disporvi sopra gli elementi freschi come i kiwi e le olive. Rucola, dragoncello, menta fresca e un goccio di olio buono completeranno questo fantastico antipasto.


Cervo a primavera! Nel

SANDWICH CON FRAGOLE ARROSTO E

CRÈME FRAÎCHE AFFUMICATA Regina tra tutti gli antipasti, che sia di pesce o di carne, a volte persino vegetale, la tartare è sicuramente uno dei piatti più amati e consumati al mondo. Ogni paese ha la sua versione di questo piatto freddo a base di carne o pesce crudi, con tagli e accompagnamenti diversi. Di solito è generalmente di carne o di pesce tritati finemente, meglio se al coltello, a cui si possono aggiungere condimenti o salse: capperi, cipolla, aceto balsamico, ma anche tuorlo d'uovo, frutta, frutta secca e in generale tutto ciò che vi passa per la testa. Basta poi servirla con dei buoni crostini di pane e già avete un antipastino niente male. Come abbiamo potuto leggere nell'articolo storico a cura di Alberto Zonghetti il popolo nomade dei tartari, originario dell’Asia Centrale, non avendo tempo per cucinare, poneva la carne essiccata sotto le selle dei propri cavalli in modo da poterla consumare ammorbidita (ma condita con numerose spezie che sovrastassero il forte odore). L’etimologia, però, indica come il termine fosse utilizzato molti secoli prima: già nel tardo XIV in Francia il termine tatre indicava il deposito lasciato dopo la fermentazione che si formava sulle pareti delle botti da vino. Nella cucina piemontese tradizionale troviamo anche un piatto fatto con la carne battuta al coltello e aglio a tocchetti, la carn crua (carne cruda) o salada 'd carn crua (insalata di carne cruda), condita con olio d'oliva, sale, pepe e succo di limone spesso servita insieme ad altri antipastini.

Il filet américain può costituire la guarnitura di un sandwich e, se accompagnato da crudità, prende il nome di sandwich américain. Il nome, che letteralmente significa filetto americano, gli è stato dato dallo chef Joseph Niels, che ne elaborò nel 1926 la ricetta originale. A causa della mancata cottura questi piatti hanno probabilità maggiori di essere contaminati da batteri e parassiti, perciò abbiate sempre cura di rispettare il più possibile la catena del freddo e di lavorare in ambienti, su superfici e con utensili adeguatamente puliti e sanificati. In questa versione decisamente più moderna e intrigante della seppur buona tartare classica, viene utilizzato il cervo come proteina; come pezzo, abbiamo individuato la noce. Battuta finemente al coltello e condita con ingredienti di ottima qualità risulta un connubio perfetto per stupire con un antipasto in stile barbecue. Infatti, più elementi che caratterizzano la nostra tartare saranno preparati grazie all’utilizzo di un barbecue a carbone e questo farà una grossa differenza in termini di gusto e sfumature. Per affumicare la panna vi basteranno 10 minuti. La quantità di grassi contenuti, come per tutti i latticini, è perfetta per assorbire al meglio il fumo prodotto dal nostro dispositivo.

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Varie versioni di tartare esistono poi nella maggior parte delle regioni dell'Italia settentrionale. Nella cucina romagnola, ad esempio, per carne cruda si intende un macinato di girello lasciato a marinare in tanto succo di limone, olio d'oliva, sale e pepe.

In Belgio si serve il filet américain, un trito di carne bovina cruda condito con maionese mista a cipolla finemente tritata, salsa Worchester e capperi, di solito accompagnato da patate fritte. Al ristorante il filet américain viene servito con accanto un boccettino di salsa Worcestershire, per eventuale aggiustamento secondo il gusto personale.

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Ingredienti per 4 persone: 400 g di noce di cervo

/ smoky Red della linea Sal’s Seasoning a piacere / pepe nero a piacere / erba cipollina a piacere / olio extravergine d’oliva q.b. / 8 fettine di pane in cassetta spesse 5 mm / una noce di burro / un peperone / 3 fragole / 100 g di panna fresca / 100 g di yogurt greco / 2 limoni / erbette fresche a piacere PREPARAZIONE Settate il dispositivo a carbone per una cottura indiretta. Posizionate sulle braci il vostro peperone e lasciatelo arrostire bene su tutti i lati, poi inseritelo in un sacchetto di plastica e spellatelo dopo circa cinque minuti. Il vapore farà sì che quest’operazione risulti facile e veloce. Frullatelo con un filo di olio extravergine d’oliva e aggiustate di sale, poi passate questo composto al setaccio e otterrete una crema liscia e vellutata.

2.

Arrostite le fragole su una griglia in ghisa ben calda e riducetele in brunoise della stessa dimensione della quale taglierete la tartare.

3.

Chiudete adesso le aperture di ingresso del vostro dispositivo e quando la temperatura sarà scesa sui 100° inserite delle chips del legno fruttato che preferite insieme a una ciotola larga e ampia con dentro la panna. Basteranno dieci minuti per un affumicatura più che sufficiente

4.

In una padella arrostite le fette di pane in cassetta che avrete coppato con un tagliapasta rotondo in un filo di burro fino a che non risultino ben dorate e croccanti.

5.

Preparate la crème frâiche aggiungendo alla panna affumicata lo yogurt e il succo di limone e fate riposare almeno 30 minuti fino a notare il cambio di consistenza.

6.

Battete la noce di cervo al coltello fino ad ottenere la grana che preferite. Conditela con Smoky Red, pepe di mulinello, la brunoise di fragole arrosto, un cucchiaio di salsa al peperone, erba cipollina tritata finemente, scorza di limone e qualche goccia del suo succo.

7.

Racchiudete la tartare ben condita tra le due fettine di pane in cassetta croccante e montatela in piedi sistemando bene i bordi. A parte servite una quenelle di panna acida affumicata e guarnite con qualche foglia di erbetta fresca.

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1.

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La Carbonara che si sposa con la Chianina!

TARTARE CON CREMA DI PARMIGIANO, BACON E TUORLO FRITTO

Una della cose che ci è stata spesso rimproverata è quella di essere chiusi in modo prevenuto alla carne italiana: “ah, tutte queste americanate!” “ah, la carne giapponese? Ma se l’Italia ha la cucina migliore del mondo!” e così via. Negli anni abbiamo risposto colpo su colpo ad ogni obiezione, spesso anche molto maleducata, che è stata sollevata dai nostri detrattori. Lo Zio, sulla nostra Community Facebook, ha lottato come un leone per difendere le sue idee, dimostrando a tutti che, nella maggior parte dei casi, le opinioni di alcuni irriducibili erano solo preconcetti da combattere; che aprire la mente è sempre la migliore cosa da fare, che non bisogna essere chiusi alle novità, che bisogna combattere il sentito dire e il luogo comune. Tuttavia, espandere i propri orizzonti non significa chiudere le porte a tutto ciò che abbiamo conosciuto fino ad ora e che fa parte del nostro bagaglio gastronomico e culturale: è per questo motivo che l’accusa, di cui spesso siamo stati vittime, di non voler prendere in considerazione la carne italiana, solo per partito preso, è sempre stata infondata. Siamo qui oggi per dimostrarvelo. Qualche mese fa, Gianfranco Lo Cascio è stato invitato a visitare un allevamento di bovini di razza Chianina. L'invito era così cordiale e il modo così convincente che ha deciso di dare una chance. Ha visitato l'allevamento e alla fine ha partecipato a una degustazione. E finalmente si è imbattuto in un allevamento che garantisce quegli standard qualitativi che da tempo BBQ4All e Lo Cascio si sono imposti. Carne buona, buonissima; oppure, per usare un aggettivo dello Zio “devastante”. Da lì sono nati i burger di Chianina, che molti di voi hanno già avuto modo di provare. Così come le tartare.

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In questo speciale dedicato al crudo abbiamo dato ampio risalto alle nostre nuovissime e buonissime tartare di Chianina, abbinandole a vari sapori. In questa ricetta, abbiamo scelto di presentarla insieme a una specie di carbonara scomposta, giusto per far indignare sempre un po’ i puristi, che siamo sicuri vi lascerà senza fiato. Il parmigiano e il pecorino diventano una crema, il bacon è cotto sulla griglia e l’uovo, solo il tuorlo, è impanato e fritto ma mantiene il cuore fondente come nella famosa ricetta di Carlo Cracco.

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Vi abbiamo sollecitato abbastanza le papille gustative? Avvertite che certo languorino? E allora fiondatevi subito a comprare l’occorrente, perché vi presentiamo a ricetta.


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Ingredienti per 4 persone

Per il tuorlo fritto: 4 uova grandi freschissime / pangrattato q.b. / un pizzico di sale / olio di semi di arachidi per friggere Per la crema di parmigiano e pecorino: 70 g di farina / 50 g di burro / 150 g di Parmigiano Reggiano GLC Top Selection grattugiato / 50 g di pecorino romano grattugiato Per la crema di parmigiano e pecorino: 4 tartare di Chianina del nostro Megastore / 4 fette di bacon tagliate spesse / pepe q.b.

PREPARAZIONE 1.

Stendete il pangrattato con un pizzico di sale su un vassoio e ricavate quattro buche in cui far ricadere delicatamente il tuorlo d’uovo separato dall’albume. Ricoprite poi i quattro tuorli delicatamente con altro pangrattato e ponete il vassioi nel freezer per un paio d’ore o nell’abbattitore per mezz’ora circa.

2.

Nel frattempo settate il vostro dispositivo per una cottura diretta (oppure utilizzate una padella di ghisa sul fornello) e grigliate le fette di bacon avendo cura di non farle bruciare e di farle diventare croccanti; in realtà potete tostare il bacon anche in cottura indiretta, stabilizzando il vostro dispositivo sui 180°C e lasciando andare le fette in modo che si disidratino e diventino croccanti: scegliete voi il metodo che preferite. Una volta pronte, toglietele dalla griglia e lasciatele raffreddare.

3.

Preparate la crema di parmigiano come una besciamella: sciogliete il burro e aggiungete la farina setacciata, mescolando bene affinché non si formino grumi; aggiungete a questo punto poco alla volta il latte sempre mescolando bene per evitare la formazione dei grumi e portate tutto a bollore. A questo punto aggiungete il parmigiano, mescolate velocemente e fate addensare bene il tutto. Se volete una crema più liquida, basterà diminuire la dose di farina.

4.

Una volta che i tuorli saranno pronti, scaldate l’olio a 180°C e friggeteli immergendoli per non più di un minuto: il pangrattato deve dorarsi ma il cuore deve rimanere fondente.

5.

Impiattate a questo punto la tartare, appoggiandola su un letto di crema al Parmigiano Reggiano, posizionando sopra la carne il tuorlo d’uovo fritto e sbriciolando il bacon. Una bella macinata di pepe completerà il tutto. BBQ4All Magazine 029


Gourmet non vuol dire difficile!

TARTARE DI MANZO CON RADICCHIO TARDIVO GRIGLIATO, PORRI FRITTI E ACETO BALSAMICO

Forse non tutti lo sanno ma, quando si parla di radicchio, quello tardivo di Treviso è probabilmente il più pregiato e costoso presente sul mercato. Molto meno amaro rispetto a quello precoce, ha una croccantezza spiccata e una versatilità in cucina che lo rendono un ingrediente perfetto per molte preparazioni. Questo prezioso ortaggio per crescere ha bisogno di molta acqua e di altrettanto freddo. Per quanto riguarda l’acqua, il radicchio cresce sulla linea delle risorgive, ovvero nel punto di incontro tra terreno permeabile e impermeabile che divide l'alta dalla bassa pianura, dove, sotto un manto di ghiaia, risalgono dal terreno acque di falda provenienti dalle Dolomiti. Per quello che riguarda il freddo, si può parlare di Radicchio Tardivo di Treviso IGP solo dopo che è avvenuta la seconda gelata. Il periodo di raccolta va generalmente da Novembre e Febbraio, ma si trova ormai fino a tutto Marzo; solo quello che proviene dai ventiquattro comuni dall’area situata fra le province di Treviso, Padova e Venezia si può chiamare l’autentico radicchio rosso tardivo di Treviso. E’ usato principalmente per le insalate e soprattutto per il famoso e delizioso risotto insieme al formaggio Asiago, ma dà il meglio di sé anche grigliato – è proprio questa caratteristica che interessa di più a noi grigliatori seriali- e si sposa bene con ingredienti dai sapori più dolci e delicati, come la zucca, le patate, le cipolle e i porri. Guarda un po’ il caso, a questo giro lo abbiamo grigliato per accompagnare una tartare di manzo e lo abbiamo servito proprio insieme ai porri; poi abbiamo condito il tutto con il miglior Aceto Balsamico tradizionale, con 20 anni di invecchiamento, preso direttamente dalla dispensa di casa Lo Cascio.

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La tartare, anche in questo caso, è di Chianina: è la nostra nuova droga, se non l’avete ancora provata fatelo al più presto perché non ve ne pentirete. Tuttavia, se avete a casa un bel pezzo di ciccia del nostro Megastore, Tenderloin o Teres Major ad esempio, potete farvi la tartare da soli al coltello e anche in quel caso il risultato sarà commovente.

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E’ l’ora di preparare i dispositivi, perché dobbiamo servire ai nostri ospiti questa squisitezza.

Ingredienti per 4 persone 4 tartare di Chianina del Megastore BBQ4All / un cesto di Radicchio Tardivo di Treviso / un porro / olio extravergine di oliva q.b. / Ultimate SPOG della linea Sal’s Seasoning / Aceto balsamico tradizionale q.b. / olio di semi per friggere / farina q.b. PREPARAZIONE 1.

Tagliate a metà il radicchio e poi conditelo con olio extravergine di oliva e con lo SPOG a piacere; predisponete il vostro dispositivo per una cottura diretta e grigliate il radicchio finché le foglie non saranno leggermente appassite. Togliete il radicchio dalla griglia e tenetelo da parte.

2.

Pulite e tagliate i porri molto sottilmente, infarinateli e poi friggeteli in olio bollente finché non saranno diventati dorati e croccanti; scolateli su un foglio di carta assorbente e teneteli da parte.

3.

Tenete la tartare fuori dal frigo in modo da stemperare un po’ la temperatura e poi impiattatela così: su un letto di foglie di radicchio grigliato appoggiate la tartare, poi adagiate su di essa i porri croccanti, condite con un po’ di SPOG, un po’d’olio extravergine d’oliva e terminate con qualche goccia di aceto balsamico. Se volete, potete grigliare delle fette di pane e servirle insieme a questa prelibatezza. Il vostro antipastino gourmet è pronto.


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Al genovese non far saper... QUANTO È BUONO IL

PESTO DI BASILICO CON TARTARE Parliamo di pesto di basilico: no, non di quello genovese. Ché fra tutti i gastrotalebani presenti in Italia, qualcuno ci salvi dai più accaniti: i liguri. Per cui, prima che si levino voci indignate e si cominci ad urlare “non chiamatelo pesto genovese!”, noi lo dichiariamo: questa è la versione scientifica del pesto di basilico di Gianfranco Lo Cascio. Che poi sia più buono di quello genovese tradizionale è tutta un’altra questione. Ma oggi non solleveremo questa polemica. Coloro che hanno acquistato e letto il Codice Lo Cascio lo conoscono già. Per tutti gli altri, facciamo un breve riassunto. Come molti già sapranno, una delle ricette scientifiche che sono uscite qui sul BBQ4All Magazine e successivamente sul libro Codice Lo Cascio riguarda proprio il pesto di basilico. Come ha avuto modo di scrivere Gianfranco “...quando vi riferite al pesto di basilico scientifico vi state riferendo alla mia versione, al mio protocollo, a ciò che io ho pensato; è nato per diversi motivi: rendere il pesto di un perfetto colore verde brillante e fare in modo che sia accessibile anche a coloro che hanno problemi con l’aglio crudo”.

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Il pesto scientifico ha buttato giù qualche convinzione da gastrotalebani incalliti. 1. Non è vero che viene bene solo se fatto col mortaio e che è un’eresia frullarlo: l’ossidazione è causata da un complesso di enzimi che si chiamano polifenolossidasi che vengono attivati sempre, anche col mortaio. Con il frullatore la cosa è più evidente perché l'attrito della rotazione scalda le lame e gli enzimi si attivano più velocemente. Le soluzioni possono essere due: immergere il basilico per pochi secondi nell’acqua bollente oppure aggiungere un pizzico di acido ascorbico o in alternativa due gocce di succo di limone e il problema è risolto. L’acidità, a quelle dosi, non sarà minimamente percettibile ma sarà sufficiente a evitare l'ossidazione e a mantenere il pesto di un bel verde brillante; 2. Non è vero che solo il basilico di Pra' è buono: stiamo parlando di un quartiere di Genova. Possibile che il basilico buono si trovi solo lì? Basterebbe probabilmente per un mese di consumo dei soli abitanti di quel quartiere. Un buon basilico è un buono ovunque si coltivi. Può variare la forza aromatica ma non è possibile standardizzare un prodotto che viene fuori dal terreno. Inoltre non esiste “il basilico”. Ne esistono diversi tipi. Ne basta uno buono per fare un pesto buono. 3. Non è vero che l’aglio va messo solo a crudo: ci sono persone che hanno grossi problemi con l’aglio ed è a queste persone che si rivolge il pesto scientifico; invece di quello senza aglio proverete una versione dove di aglio ce ne sarà tantissimo ma non avrete nessun problema.

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Una volta preparato, il pesto di basilico non serve solo a condire la pasta; in questo numero, ad esempio, lo abbiamo abbinato ad una tartare di Chianina, insieme ai pinoli tostati e a una cialda di parmigiano per dare una nota croccante e molto umami. Siamo sicuri che non vedete l’ora di rifarla a casa vostra, copiandoci l’idea. Ma, d’altronde, siamo qui per questo.


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Ingredienti per 4 persone

per il pesto scientifico: 160 g di basilico classico / 140 g di Parmigiano Reggiano GLC Top Selection / 60 g di Pecorino sardo / 60 g di pinoli tostati in padella / 4 spicchi di aglio / 10 g di sale grosso / 30 ml di succo di limone / 200 ml di olio extravergine di oliva per la cialda: 8 cucchiai di Parmigiano Reggiano (per cialdine medie) per la tartare: 4 tartare di Chianina del nostro Megastore / 60 g di pinoli tostati

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PREPARAZIONE

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1.

Mettete l’aglio in una bustina per il sottovuoto e versate nel sacchetto nell’olio extravergine di oliva fino a ricoprire tutti gli spicchi. Chiudete la bustina con una molletta e fissatela alla vasca. Lasciate scaldare fino a 65°C fino a quando gli spicchi non risultino cedevoli al tatto.

2.

Sistemate lame e bicchiere nel mixer in congelatore, per raffreddarle bene. Raccogliete le foglioline di basilico e mettetele in una pentola con acqua bollente e sale; immergetele per dieci secondi e poi trasferitele velocemente in una boule con acqua e ghiaccio. Asciugate a questo punto il basilico e tenetelo da parte.

3.

Buttate adesso tutti gli ingredienti nel mixer freddo (basilico, pinoli, sale, formaggio e succo di limone) aggiungendo a filo l’olio extravergine di oliva. Basteranno cinque pulsazioni per ottenere una salsa densa e di un verde brillantissimo.

4.

Tenete il pesto da parte e fate la cialda di parmigiano: prendete una padella antiaderente e cospargete il parmigiano sulla base. Fatelo sciogliere e imbiondire a fuoco dolce, poi togliete la padella dal fornello lasciando riposare il tutto qualche secondo altrimenti la cialdina si rompe. Staccatela pian piano e appoggiatela su un piattino; procedete con le altre.

5.

Impiattate le vostre tartare adagiandole su un letto di pesto di basilico, mettendo un altro cucchiaino di pesto sopra la tartare, un filo di olio extravergine di oliva, i pinoli tostati e la cialda sbriciolata.


La rivincita del pagro: buonissima questa

TARTARE CON AGRUMI E MENTA

Per un occhio non allenato, le differenze tra il pagro e il dentice possono non essere così immediate, tant’è vero che moltissime persone li confondono e spesso pensano che siano due nomi per identificare lo stesso pesce. Entrambi sono presenti in tutto il Mediterraneo e nell’Oceano Atlantico e vivono tendenzialmente in profondità, ma il dentice predilige fondali rocciosi o sabbiosi dai cinque ai cento metri, mentre il pagro vive, da giovane, sottocosta a una profondità di trenta-cinquanta metri e da adulto si sposta verso fosse e secche coralline a profondità che possono superare i centocinquanta metri. Entrambi i pesci si nutrono di molluschi e di crostacei, ma hanno colori differenti. Il dentice ha una colorazione grigio-azzurra con punti blu intenso e neri, mentre il pagro è di colore rossiccio con fasce verticali di colore giallo che si alternano a fasce brune. Il sapore dei due pesci è molto simile, ma di solito il dentice, più costoso, è considerato più pregiato e delicato. Ebbene, con questa ricetta vogliamo dimostrarvi che invece il pagro non ha niente da invidiare al suo collega VIP, anzi. Durante una sessione di shooting in quel di Mazara del Vallo, abbiamo ordinato sul nostro Megastore un bel pagro intero. Le sapienti manine (manone, per la verità) di Gianfranco Lo Cascio lo hanno sfilettato e poi ridotto in piccoli pezzetti. A noi è rimasto solo il compito di marinarlo, di metterlo nel coppapasta e di condirlo. E alla fine di mangiarlo. Sacrificio che dobbiamo fare ogni volta, ahimè. Le carni bianche e sode, consumate crude, ci hanno fatto scendere qualche lacrima di commozione. Buonissimo. Spettacolare. Piuttosto magro e non troppo calorico, il pagro si presta alla maggior parte dei regimi alimentari, anche a quelli iper dietetici: ma magro non significa insapore. E’ ricco di proteine, vitamine e minerali ed è un’ottima fonte di acido eicosapentaenoico (EPA) e docosaesaenoico (DHA), acidi grassi polinsaturi semi essenziali del gruppo Omega3. Ovviamente noi lo abbiamo presentato sotto forma di tartare perché in questo numero del Magazine parliamo in particolare del crudo, ma il pagro si presta benissimo anche ad essere cucinato alla griglia o in umido (o di diventare sashimi e finire nel poke... ops! Spoiler!). BBQ4All Magazine

Tornando alla nostra sensazionale tartare, non vi resta che seguire passo passo la ricetta, partendo proprio dalla sfilettatura, che vi spieghiamo per filo e per segno. Pronti?

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Ingredienti per 4 persone: Un pagro intero / 2 arance / un lime / menta q.b. / aceto balsamico a piacere / sale e pepe q.b. / olio extraverfine di oliva q.b.

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PREPARAZIONE

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1.

Pulite il pesce ed eliminate le interiora, sciacquandolo poi sotto acqua corrente. Adesso sfilettatelo in questo modo: adagiatelo sul tagliere e con un coltello ben affilato eliminate la testa praticando un taglio leggermente trasversale al di sotto delle branchie. Con un coltellino a lama flessibile praticate un’incisione lungo tutto il dorso del pesce poi tagliate la carne inserendo la lama nell’incisione. Lavorando il più aderente possibile alla lisca, arrivate fino alla coda e staccate così il primo filetto. Girate il pesce dall’altra parte e procedete allo stesso modo per staccare il secondo filetto.

2.

Per spellarli, praticate una piccola incisione vicino alla coda che vi consenta di trattenere il pesce e, con la lama leggermente inclinata verso il basso, procedete in avanti in modo da separare il filetto dalla pelle. A questo punto rifilate i due filetti, puliteli dalle eventuali spine residue e siete pronti.

3.

Tagliate i filetti di pagro a cubetti piccoli piccoli, poi metteteli in una ciotola insieme a sale, pepe, la scorza delle due arance insieme al loro succo, la scorza del lime e alla menta tritata finemente. Lasciate i filetti di pagro a cubetti così conditi in frigo per un paio d’ore, poi formate le tartare aiutandovi con un coppapasta. Servite le tartare decorandole con delle foglioline di menta e con alcune gocce di aceto balsamico a piacere.


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Drogarossa is the new black! Provatela con

TARTARE DI SCAMPI E GREMOLADA DI BASILICO

Ora che sta per arrivare la bella stagione, già sentiamo il richiamo di quelle preziose palline rosse gustose, succose, speziate e saporite: stiamo parlando della Drogarossa, ovvero gli ormai famigerati pomodorini arrostiti che Lo Zio, diversi anni fa, ha lanciato sul nostro sito e sulla Community Facebook e che sono diventati un vero tormentone. Come accade sempre, anche in quel caso partirono le solite polemiche dei rosiconi, che passavano il loro tempo a cercare di dimostrare quanto questa ricetta fosse banale e “già vista”; qualcuno arrivò perfino a scrivere che i pomodorini fatti in quel modo “esistevano fin dal Medioevo!”. Con buona pace di Cristoforo Colombo e di tutti i professori di storia. Ci divertimmo molto in quel momento. Dopo qualche anno siamo ancora qui, con questa ricetta che ha lasciato il segno, a proporveli più o meno in tutte le versioni: ci abbiamo condito la pasta, li abbiamo infilati nei panini più svariati, sono finiti sui crostini, hanno accompagnato preparazioni bbq di tutti i tipi, dal manzo al maiale: non ci hanno mai deluso. Si sono sempre sposati bene con tutto. Acidi e dolci, sapidi e speziati, succosi e molto umami, facili da fare, divertenti da cucinare e pure belli da vedere, ché anche l’occhio vuole la sua parte: in pratica sono il condimento ideale, il “salvacontorno”, la rifinitura perfetta, anche a livello cromatico, di moltissimi piatti. Potevano mancare in questo speciale crudi e tartare? Certo che no. Ed infatti eccoli di nuovo che fanno capolino in questa ricetta, abbinati a una tartare di scampi e a una gremolada di basilico.

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Gli scampi sono quelli che ormai ben conoscete: quelli extra, riserva speciale prima e seconda taglia, pescati in Zona FAO 37, ovvero solo nel Mediterraneo. Vengono congelati a bordo dei pescherecci insieme all’acqua. Questo fa sì che le chele, molto delicate, non si spezzino durante il trasporto e gli scampi rimangano integri e perfettamente conservati. In molti li preferiscono ai Gamberi Rossi di Mazara, perché hanno una morbidezza così burrosa e un sapore talmente delicato da essere facilmente consumati anche da chi proprio rifiuta l’idea del crudo, a differenza del Gambero Rosso che, seppur strepitoso, ha comunque un sapore più deciso e può risultare più ostico.

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La tartare di scampi sarà accompagnata, oltre che dalla drogarossa, anche da una gremolada di basilico: molti di voi conosceranno la più famosa gremolada che accompagna l’ossobuco milanese, fatta con il prezzemolo. Ebbene, questa è una versione più fresca ed estiva, che va a bilanciare la delicatezza dello scampo e il gusto più deciso dei pomodorini. Una delizia di cui non potrete più fare a meno! Noi abbiamo creato la nostra tartare partendo dal prodotto integro, ma come ben sapete sul nostro Megastore potete acquistare anche le tartare di scampi già pronte, per un’esperienza “zerosbatti”, come direbbe Coach Salbego.


Ingredienti per 4 persone una confezione

di scampi Sicilia GLC Top Selection / tre limoni / un lime / sale e pepe q.b. per la gremolada: un ciuffo bello grosso di basilico / mezzo limone / due spicchi d’aglio / sale q.b. / olio extravergine di oliva a piacere

per la drogarossa: 1 kg di pomodorini Pachino / un po’ di zucchero di canna grezzo / olio extravergine di oliva / tabasco q.b. / alcune gocce di salsa Worcestershire / una stilla di aceto di mele / basilico a piacere / 2 spicchi d’aglio / sale e pepe nero q.b. PREPARAZIONE Pulite gli scampi, riduceteli a cubetti e conditeli in una ciotola con sale e pepe, il succo dei tre limoni e la scorza del lime. Mettete il tutto in frigo a riposare.

2.

Prendete una leccardina monouso e sistemate i pomodori: non asportate rami e peduncoli.

3.

Irrorate generosamente con l’olio extravergine di oliva, condite con sale, pepe e zucchero di canna, per poi spruzzare alcune gocce di Worcestershire, aceto e tabasco.

4.

Predisponete il vostro dispositivo per una cottura indiretta a circa 160°C, ponete le leccarda coi pomodorini in griglia e lasciateli appassire; quando saranno appassiti, alzate la temperatura della camera di cottura facendoli arrostire bene senza però farli bruciare.

5.

Preparate la gremolada: tagliate il limone a fettine sottilissime senza togliere le buccia, mettetele poi nel bicchiere del mixer insieme al basilico, all’aglio, al sale a all’olio: frullate il tutto, lasciando il composto grossolano.

6.

Formate le vostre tartare di scampi aiutandovi con un coppapasta, conditele con la gremolada e guarnitele coi pomodorini (che potrete poi mangiare anche come contorno).

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1.

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Se famo du’ spaghi?

SPAGHETTONI PESTO E TARTARE DI GAMBERI armonia di colori e sapori

Ci sono spaghettate che non potremo mai dimenticare: quelle di mezzanotte, di ritorno dalla serata con gli amici, quando sei giovane e ti prende quel certo languorino che ti mangeresti due cioccolatini, una bomba alla crema, sei piatti di pasta, case, libri, auto, viaggi, fogli di giornale. Lo stomaco te lo perdona, non hai paura di avere spiacevoli conseguenze nei giorni a venire, e allora ripieghi su due kg di spaghetti al pomodoro mangiati direttamente dalla padella. Poi però gli anni passano, smetti di uscire ogni sera, perché i figli, perché fa freddo, perché poi domani chi si alza? Hai ancora quella voglia di mangiarti un bisonte, ma lo stomaco non è più il giaguaro di una volta e soccombi al brodino con le stelline. Si deve rinunciare per sempre alla spaghettata dunque? No, ma si impara a renderla un’occasione meno buttata via, un po’ più ricercata e più strutturata. Questi spaghettoni con pesto di pistacchi e tartare di Gamberi Rossi di Mazara non sono certo adatti per la spaghettata di mezzanotte da ventenni, ma sono perfetti per la nostra vita da adulti e maturi mangiatori di cose buone e ricercate, quando vogliamo prenderci il tempo per cucinare qualcosa di non troppo difficile ma altrettanto raffinato e gourmet. Gli ingredienti sono senza dubbio di ottima qualità: potremmo star qui ad elogiare l’incredibile sapore del Gambero Rosso ancora una volta ma sappiamo bene che voi lettori del Magazine avete imparato a adorare il suo sapore “di mare”, burroso e appagante, oltre che ad utilizzarlo per moltissime ricette, in special modo crudo (la morte sua) ma anche cotto. In realtà, questi spaghetti vi danno la possibilità di servirlo sia crudo, marinato agli agrumi, ma volendo pure cotto, aggiunto al condimento (d’altronde sappiamo bene che c’è sempre qualche commensale seduto alla nostra tavola che si rifiuta di assaggiare cibo crudo).

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Vediamo quindi insieme la ricetta di questo spettacolare primo piatto che vi lascerà ricordi altrettanto felici come quelli degli spaghetti a mezzanotte dei vent’anni.

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I ngredienti per 4 persone una confezione di Gamberi Rossi GLC Top Selection / un’arancia / un limone / olio extravergine di oliva q.b. / sale e pepe q.b. / mezzo kg di spaghettoni / menta fresca q.b. per il pesto di pistacchi: 150 g di pistacchi sgusciati non salati / due cucchiai di Parmigiano Reggiano GLC Top Selection grattugiato / un cucchiaio di pecorino romano grattugiato / 50 g di basilico fresco / olio Extravergine di oliva q.b. PREPARAZIONE 1.

Sgusciate e pulite i gamberi privandoli dell’intestino, poi tagliateli a tocchetti e metteteli in una ciotola conendoli con sale e pepe, olio, succo d’arancia e scorza di limone grattugiata. Ponete poi il tutto in frigo e lasciate riposare.

2.

In un mixer mettete gli ingredienti del pesto e frullateli insieme. Se volete, aggiustate un po’ di sale, senza esagerare.

3.

Cuocete gli spaghettoni e scolateli tenendo da parte un po’ d’acqua di cottura.

4.

Stemperate il pesto in una padella con olio extravergine di oliva e poi versateci gli spaghetti, aggiungendo l’acqua di cottura: saltate bene gli spaghetti e aggiustate se necessario di sale e di pepe.

5.

Servite gli spaghettoni con sopra una cucchiaiata di tartare di gamberi marinati e terminate con un po’ di menta tritata.

6.

Se volete servire gli spaghettoni con i gamberi cotti, fate così: una volta sgusciati e puliti tenete i gamberi interi e conditeli come la tartare. Una volta che gli spaghetti saranno quasi pronti, cuocete velocemente i gamberi in una padella con olio e poi aggiungeteli agli spaghetti insieme al loro sughetto. Spettacolari!


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CEVICHE Lo facciamo a modo nostro

CON SCAMPI, MANGO, FRAGOLE E RIBES

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Lo chiamano “il sushi precolombiano” ed è indubbiamente uno dei piatti dell’America Latina che negli ultimi anni sta acquistando sempre più popolarità. Stiamo parlando del ceviche (pronuncia “sevice”), re della cucina peruviana che, come ci racconta la nostra inviata dalla Florida su questo stesso numero nella rubrica “Across the pond”, pare sia una nuova e felice scoperta gastronomica.

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Come spesso accade, di questo piatto sono incerte le origini. Sappiamo con certezza che, più di duemila anni fa, nell’epoca della cultura Mochica, gli indigeni che abitavano le coste del Nord peruviano preparavano un piatto a base di pesce marinato crudo nei succhi acidi di un frutto chiamato Tumbo e della Maracuyá, o frutto della passione. Fu solo molto più tardi che gli spagnoli, felicemente sorpresi da questo piatto, aggiunsero alla ricetta gli agrumi e la cipolla, rendendolo più o meno quello che conosciamo oggi. Inoltre la coltivazione di limone in Perù ha dato una svolta fondamentale al piatto: il pesce così si macera molto più velocemente e questo aspetto ha aiutato la sua diffusione negli altri paesi. Anche sul nome non si ha nessuna certezza: secondo alcuno deriverebbe dalla parola quechua siwichi, che vuol dire pesce fresco. Ma non v’è alcuna sicurezza che questa sia la teoria giusta. Del resto non si è nemmeno sicuri di come si scriva davvero il nome di questo piatto: ceviche, seviche, seviche, sebiche? In rete troverete tutte queste versioni. La ricetta prevede l’utilizzo di pesce fresco crudo, cipolla, peperoncino, lime: ovviamente, negli ultimi anni, molti chef più o meno blasonati si sono divertiti a proporre varianti di questo piatto, alcune anche molto fantasiose e distanti da quella “originale”. D’altronde, anche in Perù, ogni famiglia ha la sua ricetta personale

che custodisce molto gelosamente, più o meno speziata, più o meno acida, più o meno dolce. Certamente, al di là dei sapori che possono comporre questo piatto, c’è una cosa da cui non si può prescindere: la freschezza del pesce. Siamo fortunati noi del BBQ4All Magazine, dato che abbiamo la possibilità di fare i nostri shooting a Mazara del Vallo, laddove è situata la Magione Lo Cascio; come ben sapete, il pesce fresco non manca da quelle parti. Secondo Gàston Arcurio, chef peruviano di fama internazionale, la scelta del pesce dovrebbe ricadere non su quello più costoso, ma su quello più fresco, appunto. Sarebbero da privilegiare le qualità a polpa bianca e dal sapore delicato, quindi non il tonno e il pesce azzurro. Ma poi, in fin dei conti, ognuno può scegliere quello che vuole nella propria declinazione personale di questo piatto semplice e altrettanto gustoso. E’ importante che la polpa del pesce (o, nel nostro caso, del crostaceo) non perda la sua consistenza e che la marinata, detta in gergo leche de tigre (latte di tigre) non risulti troppo invasiva, ma al contrario sia quel delizioso condimento speziato e acido che rimane alla fine. Nelle Cevicherías peruviane tradizionali, servono spesso il leche de tigre in un bicchiere a parte, da bere, anche per le sue ventilate virtù afrodisiache. Come dicevamo, in Perù esistono tantissime declinazioni del Ceviche: con pesce misto, di soli crostacei, con frutta e perfino con funghi. Noi abbiamo scelto una versione con scampi e frutta. Siamo sicuri che vi piacerà. Anche perché abbiamo usato i burrosi e inconfondibili scampi di Mazara GLC Top Selection. Provate subito anche voi!


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Ingredienti per 4 persone una

confezione di Scampi Sicilia GLC Top Selection / un mango / 4 fragole grosse / 100 g di ribes / un cipollotto / 10 lime / menta a piacere / un peperoncino / Ultimate SPOG Sal’s Seasoning q.b. / due limoni

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PREPARAZIONE

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1.

Pulite gli scampi, poi metteteli in una ciotola, aggiungete lo SPOG, il succo dei lime, il peperoncino tritato finemente. Mettete il tutto a macerare per un’oretta in frigo.

2.

Pulite e riducete il mango a cubetti, poi conditelo con succo di limone.

3.

Tagliate le fragole a ventaglio e affettate finemente i cipollotti.

4.

Componete ora le vostre coppe: mettete sul fondo il mango, poi adagiate l’altra frutta, compresi i ribes, infine aggiungete i cipollotti e gli scampi marinati. Condite il tutto con la marinata degli scampi. Guarnite con foglioline di menta e spicchi di limone, aggiustando eventualmente con un po’ di SPOG, e servite.


CHIANINA TERIYAKI CON COLESLAW

extreme fusion!

Con teriyaki in Giappone si non si intende la famosa salsa, ma la tecnica secondo la quale carne o pesce vengono cucinati dopo essere stati spalmati con una salsa tare. Quest’ultimo è un termine generico usato per indicare salse da condimento realizzate tramite un mix di vari ingredienti, fra i quali i più usati sono, solitamente, salsa di soia, sakè, mirin e zucchero. Teriyaki significa letteralmente “grigliato e splendente”: spalmare la salsa a base di zucchero sull’alimento prima di cuocerlo (perlopiù sulla griglia o nel wok) fa in modo che si formi una glassa grazie alla quale il cibo luccica, splende. La salsa utilizzata per questa tecnica è diventata successivamente famosa nel mondo e adesso è conosciuta, appunto, come “salsa Teriyaki” grazie alla cucina fusion e alle contaminazioni. Attualmente non viene usata solo per cucinare, ma anche per marinare e per condire, servita magari nelle ciotoline di ceramica insieme alla salsa di soia per accompagnare lo pseudo-sushi dei vari All you can eat.

La Chianina è famosa in Italia soprattutto

Per anni vi abbiamo dimostrato come altri tipi di carne rendessero la Fiorentina, che vi ricordiamo è il nome del taglio e non il metodo di cottura, molto più buona. Allo stesso tempo, però, non abbiamo chiuso le nostri menti alla carne italiana; da poco tempo infatti abbiamo lanciato i nostri nuovi burger fatti proprio con la Chianina. In questo stesso numero vi abbiamo presentato le tartare e i diversi modi in cui poterle condire: in questa ricetta invece vi proponiamo il nostro brick: la versione a forma di mattonella del burger, dal peso di 290 g, alla Teriyaki. Attenzione: non è Chianina IGP. Non stiamo parlando di bovini allevati in Val di Chiana e non fanno parte del consorzio di tutela del Vitellone bianco dell'Appennino centrale. Sono “soltanto” bovini di razza Chianina full blood, buoni da far commuovere. Ovviamente dovevamo accompagnare la nostra ciccia con un contorno fresco, gradevole, veloce da cucinare e buono. Abbiamo quindi pensato al nostro amico Pulled Pork e gli abbiamo rubato il suo accompagnamento ideale: l’insalata di cavolo, per gli amici coleslaw. Abbiamo poi guarnito con qualche pomorino drogarossa, la cui ricetta è presente in questo stesso numero insieme alla tartare di scampi. Noi lo abbiamo servito al piatto, anche per far risaltare il gusto della carne, ma nessuno vi vieta di infilarlo in un panino e di aggiungere ingredienti a vostro piacimento. È ora di buttarci a capofitto nella preparazione.

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Non dobbiamo mai demonizzare le contaminazioni: anzi! Noi di BBQ4All combattiamo da sempre la rigidità di certe menti troppo legate alla tradizione e ci piace sperimentare, mischiando tecniche, sapori e ingredienti provenienti da culture gastronomiche anche molto differenti tra loro. Da questa tendenza a ispirarci a cucine differenti, a prendere il meglio, a rielaborarlo alla nostra maniera (vi ricordate il claim storico di BBQ4All? American skills, italian style: abbiamo allargato gli orizzonti ma la tendenza a fondere insieme diverse culture è sempre la stessa), nasce questo Burger Teriyaki di Chianina.

perché i puristi gastrotalebani la vedono l’unica carne adatta per cucinare la Fiorentina anche se, come abbiamo spesso scritto, questo pensiero si basa solo su un preconcetto falso, ma talmente radicato da essere quasi impossibile da buttare giù.

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Ingredienti per 4 persone: 2 Brick di Chianina del nostro Megastore

/ semi di sesamo q.b. / qualche pomodorino drogarossa per guarnire

per la salsa tare (ingredienti in rapporto di 1-1-1-1): salsa di soia / sake / mirin / zucchero Per la crema di Parmigiano e pecorino: 200 g di cavolo cappuccio / un porro / 2 cucchiai di maionese / 2 cucchiai di yogurt greco / un cucchiano di senape / due cucchiaini di aceto di mele / un cucchiaino di zucchero di canna (facoltativo) / Ultimate SPOG della linea Sal’s Seasoning q.b.

PREPARAZIONE 1.

Togliete il brick di Chianina dalla confezione e avvolgetelo nella carta assorbente, tenendolo per un po’ a temperatura ambiente (se non fa troppo caldo, altrimenti in frigo).

2.

Nel frattempo, preparate la coleslaw tagliando a striscioline il cavolo e i porri, condendoli poi con la crema ottenuta mescolando insieme maionese, yogurt, senape, aceto di mele, zucchero e un po’ di SPOG. Riponete il tutto in frigo a riposare in modo che gli ingredienti si amalgamino bene tra loro. Potete anche preparare l’insalata il giorno prima.

3.

Preparate la salsa tare mettendo tutti gli ingredienti in un pentolino col rapporto di 1-1-1-1 e facendoli ridurre.

4.

Predisponete il vostro dispositivo per una cottura diretta ad alta temperatura e ponete la piastra in ghisa direttamente sopra la fonte di calore, per farla scaldare bene.

5.

Spennellate il vostro brick di Chianina con la salsa tare e fatelo cuocere in modo che si caramellizzi bene su ogni lato: con l’aiuto del termometro controllate la temperatura interna fermandovi al grado di cottura desiderato.

6.

Togliete il burger dalla piastra e lasciatelo riposare per qualche istante poi, con un coltello ben affilato, affettatelo come fareste con una tagliata. Conditelo con un po’ di salsa di soia o con altra salsa tare e coi semi di sesamo.

7.

Servite il Burger Teriyaki di Chianina con qualche pomodorino drogarossa e con l’insalata di cavolo.

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Non chiamateli involtini: sono molto di più!

BOMBETTE DI CAPOCOLLO CON ROQUEFORT E BACON ACCOMPAGNATE DA FILETTI DI PEPERONI IN EMBER

I lettori che ci seguono da un po', nonché i frequentatori della nostra Community, avranno sentito parlare almeno una volta di cottura ibrida.

Di cosa parliamo? Di preparazioni che necessitano di una prima fase in cottura indiretta a temperature medie e, successivamente, di una seconda fase in cottura diretta, per favorire la reazione di Maillard e per velocizzarla. In realtà, le due fasi possono anche invertirsi; per esempio nella cottura della rosticciana si fa spesso una prima passata veloce in cottura diretta e successivamente si lascia intenerire la carne in indiretta. Tuttavia, si può cambiare l’ordine dei due tipi di cottura ma il risultato non cambia: crosticina perfetta grazie alla cauterizzazione, carne tenera e succosa grazie al lento riscaldamento.

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Noi amiamo alla follia le cotture ibride. Le usiamo per moltissime preparazioni: per la bistecca, per gli arrosti perfetti, per le sovracosce di pollo, per la rosticciana… e potremmo continuare per ore. Il setup dei dispositivi per le cotture ibride è identico a quello delle cotture dirette e prevede, appunto, due momenti distinti e separati: uno in cui la ciccia viene posizionata sopra l’irraggiamento diretto della fonte di calore e uno in cui è posta lontana dalla fonte di calore per essere avvolta dai moti convettivi di aria calda.

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Queste deliziose bombette (chiamarle involtini sarebbe riduttivo, dato che letteralmente esplodono in bocca) sono state preparate proprio con una cottura ibrida. Ma dato che vogliamo farvi divertire,

adesso che sta arrivando la bella stagione e si ha voglia di tornare ad accendere le braci, le abbiamo accompagnate a dei bei filettini di peperoni cotti in ember roasting. Anche in questo caso, sicuramente sapete di cosa stiamo parlando, ma un ripassino non fa male: la cottura in ember roasting è quella che avviene a contatto diretto con le braci. E’ adattissima per cuocere molti tipi di ortaggi, dalle melanzane alle patate e, oltre ad essere veloce e divertente da realizzare (anche scenografica!), dona ai vegetali un interessante e delizioso gusto affumicato. I peperoni si prestano benissimo a questo tipo di cottura: una volta posizionati sulle braci, basterà attendere pochi minuti per vedere la buccia carbonizzata, mentre la polpa si sarà ammorbidita. Il tempo di lasciarli raffreddare e di spellarli, et voilà, saranno pronti per essere trasformati in tutto quello che volete: in questo caso li ridurremo a filetti e li condiremo, in modo che diventino il contorno delle nostre bombette ripiene. Per realizzare questo piatto abbiamo utilizzato il capocollo (o coppa, o scamerita, dipende dalla regione in cui vivete) di maiale: chiedete al macellaio di tagliarvi delle fettine molto sottili in modo da poter ripiegare bene le bombette; utilizzando un maiale di ottima qualità come il Duroc, che abbiamo definito spesso il Black Angus dei maiali, il risultato sarà migliore e vi farà fare il triplo, ma anche quadruplo, salto mortale sulla sedia. Ok, dai: vediamo insieme la ricetta.


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Ingredienti per 4 persone:

Per le bombette: 8 fette sottili di capocollo / 16 fette di bacon tagliate spesse / 200 g di Roquefort / 100 g di spinaci cotti / due spicchi d’aglio / olio extravergine di oliva q.b. / Ultimate SPOG della linea Sal’s Seasoning q.b. Per i peperoni: 4 peperoni di media grandezza / 100 g di basilico / 40 g di pinoli / 150 g di Parmigiano Reggiano GLC Top Selection / 200 g di olio extravergine di oliva riserva GLC Top Selection / sale q.b. PREPARAZIONE 1.

Stendete le fettine di capocollo e conditele all’interno con un pizzico di SPOG; farcitele con gli spinaci, ripassati in padella con olio, aglio e sale, e con una noce di Roquefort.

2.

Formate le bombette avvolgendole con due fette di bacon e chiudetele aiutandovi con degli stuzzicadenti. Conditele con un altro po’ di SPOG e tenetele in frigo fino al momento di andare in cottura.

3.

Predisponete il vostro dispositivo a carbone per una cottura ibrida, con due zone distinte: una per la cottura diretta e una per quella indiretta. Prima di posizionare la griglia, appoggiate sulle braci i peperoni e chiudete il coperchio, ricordandovi di girarli dopo qualche minuto, finché non saranno pronti. A questo punto togliete i peperoni, posizionate la griglia, stabilizzate il dispositivo a circa 160°C e cuocete le bombette in cottura indiretta, chiudendo il coperchio e affumicando con l’essenza di legno che preferite.

4.

Nel frattempo preparate una gremolada frullando il basilico insieme al parmigiano, ai pinoli, all’olio e al sale. Una volta raffreddati i peperoni, spellateli bene togliendo i semi, poi sciacquateli sotto l’acqua corrente. Tagliateli in filetti e conditeli con la gremolada, aggiungendo un po’ d’olio e di sale se necessario.

5.

Controllate le bombette dopo circa 40 minuti dall’inizio della cottura: dovrebbero essere dorate. A quel punto, aiutandovi con una pinza, ponetele in cottura diretta per far diventare croccante il bacon che le avvolge. Una volta pronte, servitele calde su un letto di filetti di peperoni in ember. BBQ4All Magazine 051


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Vedi come ti faccio l'omelette... CON IL

PROSCIUTTO DI WAGYŪ

Comunemente, per descrivere un piatto facile, si fa ricorso all’esempio dell’omelette: veloce da preparare e ritenuta pure abbastanza “semplice”. E qui casca l’asino, o per meglio dire, l’uovo: persino Auguste Escoffier, grande chef francese, si prese la briga di descrivere cos’è una omelette e quali dovrebbero essere le caratteristiche per averne una ideale: l’omelette doveva essere una pellicola di uovo cotta, una sorta di “involucro” che passa dallo stato liquido a quello solido, adatta a contenere tutto il resto. L’omelette – dal francese del Medioevo alemette, homelaicte, fino al francese standard omelette – ha i suoi trucchi tutti nelle uova. Devono essere spumose e cedevoli. Passiamo rapidamente in rassegna i trucchetti, prima di svolgere la nostra versione del mese di omelette con un ingrediente unico e speciale. (Ah, volete sapere davvero tutto-tutto sulle omelette? Cercate di procurarvi una copia del Codice Lo Cascio. Noi non vi abbiamo detto nulla.) TRUCCO #01. Cuocere le uova con un grasso. In questo modo andremo a formare una struttura più resistente. TRUCCO #02. Salare le uova prima. Il sale influisce sulla carica elettrica delle uova, quindi non saranno dure, ma più tenere e spumose. TRUCCO #03. Preriscaldare la padella. Questa operazione vi permetterà di avere bordi dorati e croccanti e un centro morbido. Vi occorrerà mettere su fuoco la padella almeno 10 minuti prima di svolgere il resto delle operazioni. La padella dovrà essere a 150°C, che è la temperatura adatta affinché le uova si rassodino. In questo numero del Magazine, andremo a preparare una omelette perfetta, che abbia struttura, che sia bella da vedere e un deciso sapore. L’ingrediente che andrà ad impreziosirla sarà il prosciutto cotto di Praga di Wagyū del nostro Megastore.

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Il prosciutto di Wagyu si distingue per un sapore intenso: è bovino, non maiale. La marezzatura è intensa e fitta, si tratta di charcuterie d’alto rango, non banale. L’ideale per rendere stilosa e appetibile anche una banalissima omelette. Scommettiamo?

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Ingredienti per 4 persone: 6 uova grandi a temperatura frigo (+4°C) / 30 g

di burro non salato, tagliato in 2 pezzi / 1/2 cucchiaino di olio extravergine di oliva (2.5 ml) / 2 cucchiai di formaggio Gruyère grattugiato (15 g circa) / 4 g di erba cipollina fresca tritata / 50 g di prosciutto di Praga di Wagyū del nostro Megastore / sale q.b. / pepe q.b.

PREPARAZIONE 1.

Tagliate il pezzo di burro a metà e fondetene una parte. Nel frattempo, scaldate l'olio in una padella antiaderente da 20 cm di diametro a fuoco basso per 10 minuti.

2.

Rompete 4 uova in una ciotola media e aggiungete due tuorli; conservate gli albumi per altro, onde evitare di appesantire l’omelette e quindi aggiungere ancora più burro. Aggiungete 2 grammi di sale e due pizzichi di pepe.

3.

Dedicatevi al prosciutto di Praga di Wagyū: a temperatura ambiente, tagliatelo a listarelle non troppo spesse.

4.

Rompete i tuorli con una forchetta, poi sbattete le uova a ritmo moderato, con circa 80 colpi, fino a quando i tuorli e gli albumi sono ben miscelati. Con una forchetta o una frusta, l’importante è non montarle troppo. Unite il burro fuso.

5.

Quando la padella è completamente riscaldata, usate della carta assorbente per pulire l'olio, lasciando un sottile strato sul fondo e sui lati. Aggiungete circa 10 grammi di burro nella padella e scaldate fino a quando non si scioglie.

6.

Spargete il burro con cura, aggiungete il composto di uova e cuocete a calore a medio-alto. Per strapazzare le uova, usate il retro di un cucchiaio di legno, facendo un rapido movimento circolare intorno alla padella, raschiando l'uovo cotto dai lati, fino a quando le uova sono quasi cotte ma ancora un po' liquide (ci vorranno dai 45 ai 90 secondi).

7.

Spegnete il fuoco, allontanate la padella dal fornello e appiattite le uova in uno strato uniforme usando una spatola di gomma resistente al calore. Cospargete l'omelette con il formaggio, una parte del prosciutto di Wagyū a listarelle e l’erba cipollina. Coprite la padella con un coperchio ermetico e lascia riposare per 1 minuto.

8.

Scaldate la padella a fuoco basso per 20 secondi, togliete il coperchio e usando una spatola di gomma, allentate i bordi della “frittata” dalla padella.

9.

Mettete un foglio di carta forno su un piatto riscaldato e fate scivolare l'omelette fuori dalla padella sulla carta in modo che l'omelette sia piatta e penda circa 2/3 cm dalla carta.

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10. Arrotolate l'omelette ed impiattate con cura: aggiungete erba cipollina a piacere, una macinata di pepe extra, le listarelle di prosciutto cotto di Praga di Wagyu accanto (se siete riusciti a non finirle tutte!). Servite ben calda!

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Consiglio extra: durante l’impiattamento, siate lesti a tenere a giusta temperatura la padella per essere pronti a preparare l’altra omelette.


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I “cazzilli” siciliani, però col prosciutto dello Zio!

CROCCHETTE DI PATATE CON PROSCIUTTO DI WAGYŪ Volete conquistare una platea di bambini e renderli servizievoli e gentili? Presto fatto: date loro quintali di frittissime, croccanti crocchette di patate (magari ripiene!) e li renderete felici. A dire il vero, renderete felici anche platee di adulti, noi compresi, ma non ditelo troppo in giro. In Sicilia, le crocchette di patate vengono chiamate “cazzilli” e prendono questo nome per via della loro forma allungata (non fate battute da terza media, che siete ben cresciuti!). Frittissimi, in abbondante olio, si preparano con ingredienti molto semplici: patate, sale, pepe, prezzemolo e l’immancabile mentuccia, dalle foglioline tanto piccine quanto intense. Questa è la versione siciliana delle crocchette, come dicevamo. A seconda della regione o della parte del mondo in cui ci troviamo, il nome di questo gustoso finger food cambia notevolmente. Ad esempio, a Napoli (e gran parte della Campania) le crocchette vengono chiamate panzarotti, probabilmente il nome qui è dettato dal fatto che la loro forma ricorda una pancia morbida.

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Il mondo e la storia sono pienissimi di ricette e storie delle crocchette di patate. Le prime tracce scritte risalgono al XVIII secolo grazie a Parmentier, agronomo francese. Questi, catturato dai tedeschi durante la Guerra dei Sette Anni, riuscì a sopravvivere grazie alle sole patate. Tornato a Parigi, cercò di convincere Luigi XVI a rivalutare questo tubero, visto il suo alto valore nutrizionale (ma anche visto il fatto che non lo fecero crepare di fame e un po’ di riconoscenza l’aveva, aggiungiamo noi).

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Al tempo di Parmentier, la patata non godeva di buona fama, soprattutto tra nobili e reali: infatti, era considerato un cibo estremamente povero e privo di qualsiasi qualità, lo si riteneva adatto a momenti di estrema carestia o da far mangiare agli animali. La piena accettazione delle patate nell’alimentazione dei francesi avviene solo dopo la metà del secolo successivo a Parmentier: quindi,

in soldoni, ci mise un bel po’ per entrare a far parte del regime alimentare quotidiano. Ritornando alle nostre crocchette, più scaviamo a fondo e più troviamo Paesi pronti ad appropriarsi dei natali di questo street food così godereccio; per gli spagnoli, l’invenzione è tutta loro e ritengono che le crocchette di patate, a cui tutti siamo abituati, siano la versione “povera” delle loro croquetas de jamon. Perché piacciono così tanto? Il motivo è da ricercare nella nostra storia evolutiva: i nostri antenati avevano a disposizione cibo in quantità molto ridotte e conducevano una vita molto attiva, riuscivano a sopravvivere al grande dispendio energetico solo grazie ai cibi calorici, come quelli ricchi di grassi e zuccheri. Questa tendenza non l’abbiamo persa: ecco spiegato, molto facilmente, perché il connubio fritto+tubero ha così tanta presa su di noi. Durante il mese di Febbraio, siamo stati a casa dello Zio per il periodico shooting dedicato al Magazine: come al solito, non si è risparmiato e ci ha preparato proprio i cazzilli siciliani che vi abbiamo menzionato nell’introduzione di questo articolo. Attenzione, però: non la versione classica, con la sola mentuccia caratterizzante, ci ha deliziato con la versione deluxe, ripieni con il prosciutto cotto di Wagyū del Megastore. Noi, in gran segreto, vi forniamo la ricetta con qualche trucco. Vediamo se riuscite a fare cazzilli più buoni di questi. Per la preparazione vi occorrono patate vecchie. Perché le vecchie e non le patate novelle? Perché le patate vecchie contengono più amido e questo consentirà al nostro impasto di legarsi nel miglior modo possibile. Eravamo tentati di non darvi il numero delle dosi: vi accorgerete, durante la ricetta, che una crocchetta (ops: cazzillo) tira l’altra e difficilmente riuscirete a resistere.


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Ingredienti per 6 persone:

versione "dello Zio": 1 kg di patate vecchie / 250 g di amido di mais / 200 g di prosciutto cotto di Wagyu / 3-4 foglie di salvia / 2 rametti di rosmarino / il succo di 1/2 limone / sale q.b. / pepe q.b. versione classica: 1 kg di patate vecchie / 250 g di amido di mais / 4 cucchiai di prezzemolo fresco / 1 cucchiaio di mentuccia tritata / il succo di 1/2 limone / sale q.b. / pepe q.b. PREPARAZIONE 1.

Bollite le patate fin quando non raggiungono i 75°C (temperatura della gelificazione della fecola) interni o cuocerle direttamente con la buccia, al massimo della potenza per 10-15 minuti, rigorosamente coperte. In alternativa, potete cuocerle in ember roasting, avvolte nella carta stagnola.

2.

Nel frattempo, tritate finemente la salvia, il rosmarino ed eventualmente anche la mentuccia. Prendete il prosciutto di Wagyū e tritatelo finemente.

3.

Schiacciate le patate e aggiungete l’amido di mais, il sale e il pepe. Mescolate con le mani, energicamente. Aggiungete anche le erbette tritate e il prosciutto. Continuate a mescolare fino ad ottenere un composto omogeneo.

4.

Fate asciugare il composto lasciando evaporare l’acqua di vegetazione.

5.

Ungete le dita con olio, formate le palline e poi rendetele ovali arrotolandole palmo su palmo.

6.

Una volta formati, appoggiate a debita distanza su carta forno e lasciate rassodare.

7.

Preparate una pentola con abbondante olio da frittura o una padella capiente. Friggete i cazzilli quando la temperatura sarà di 180°C. Vi accorgerete che saranno cotti quando il colore sarà di un dorato spinto.

8.

Servire ben caldi, magari con una maionese al lime e pepe.

Attenzione: se non riuscite a reperire il nostro prosciutto di Wagyū, potete ripiegare su guanciale o classico prosciutto cotto di buona qualità. BBQ4All Magazine 059


L'Arte Bianca a cura di Alessandro Trezzi

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La

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a z z pnapioletana


I

nutile girarci intorno, alla parola “pizza”, il vostro cervello focalizza immediatamente un’immagine ben precisa: un disco tondo, sottile al centro, con un bordo più o meno pronunciato, ricoperto di pomodoro e mozzarella filante. Che vi piaccia o meno è irrilevante, è indubbio che la pizza napoletana sia a tutti gli effetti una delle tipologie più celebri nel pianeta. Si tratta, al tempo stesso, di una delle aree più confusionarie del settore, nella quale aleggiano leggende metropolitane, luoghi comuni, negligenza e deduzioni scientifiche provvisorie, fatte da chi non ha nemmeno la competenza per proferir parola. Il problema principale nasce dal fatto che, nonostante sia una varietà ben precise e con delle caratteristiche ben distinte, spesso la si accomuna ad una generica pizza tonda. Peggio ancora, si inganna l’appassionato facendogli credere che si possa realizzare con un normalissimo forno a incasso domestico, probabilmente con l’intento di aumentarne la popolarità. Che dite, facciamo un po’ di ordine una volta per tutte?

Storia e definizione Partiamo dalle basi, raccontando come è nata e quali caratteristiche ha oggi; parliamo di una tipologia che rappresenta il vero orgoglio dei pizzaioli partenopei, la cui arte è stata inserita ufficialmente il 7 Dicembre 2017 nella lista dei patrimoni culturali intangibili dell’umanità.

Di pane basso però il mondo è pieno: dalla pita al naan, dalla tortilla all’alkhbuz marocchino. Senza pochi dubbi, la genesi dell’indipendenza della “pizza” dagli altri panificati ebbe luogo grazie all’associazione con il pomodoro, che tanto spopolava nella cultura popolare. Nel Settecento iniziarono a comparire i primi concetti di “pizzeria”; erano luoghi spartani, fuori dall’uscio di casa, dove i fornai servivano le pizze cotte nei forni a legna e tenute al caldo da delle stufe di rame. Venivano condite con della salsa di pomodoro, ripiegata a libretto e servita in un cartoccio per essere consumata per strada. Nei secoli, tale tipologia si è evoluta fino ad arrivare al concetto moderno del termine, perfettamente descritto dal paragrafo reperibile nel disciplinare dell’Associazione Verace Pizza Napoletana: la pizza napoletana è un prodotto da forno lievitato, steso a disco sottile e cotto a temperature che vanno, tra quelle della platea e della volta per quanto riguarda il forno a legna, dai 380°C ai 485°C, per un tempo che oscilla tra i 60 e i 90 secondi. Il risultato è una pasta molto elastica nella stesura, morbida una volta cotta, al punto da essere ripiegata su sé stessa a portafoglio o libretto. L’effetto croccante è assente o appena percettibile, il bordo rialzato (il famoso cornicione), la parte centrale sottile e coperta dai condimenti, con la maculatura tipica di una cottura rapida e aggressiva.

Ma da quando possiamo iniziare a parlare di “pizza”? Vi sono notizie di fine Cinquecento ed inizio Seicento di un disco di pasta soffice, condito con basilico, strutto, formaggio e pepe nero (la “mastunicola”, l’antenata di tutte le pizze), mentre più avanti si diffuse la “cecinielli”, preparata con rimasugli di pesce.

Senza i presupposti appena citati (una stesura corretta ed una cottura violenta, soprattutto) non sarà mai possibile ottenere la morbidezza e la particolare cottura degli ingredienti posizionati sul disco, che in 90 secondi hanno appena il tempo di scaldarsi, conservando la maggior parte delle

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Le sue origini si perdono nella notte dei tempi; la prima comparsa può esser fatta risalire a un periodo storico che si colloca tra il 1715 ed il 1725: Vincenzo Corrado, cuoco del principe Emanuele di Francavilla, in un trattato sui cibi più comunemente presenti a Napoli dichiarò che il pomodoro veniva impiegato per condire la pizza e i maccheroni. Del resto, se in Oriente sono grandi mangiatori di riso, noi italiani siamo pastaioli nati; questa bacca proveniente dalle Americhe ed esportata nel 1540 da Hernan Cortés, iniziò ad essere probabilmente utilizzata nella classica pasta aglio&olio popolare.

Se ne deduce un’importantissima questione: la vera pizza napoletana deve avere delle caratteristiche ben precise, dalle quali non si transige: • morbidezza; • sezione sottile; • cornicione più o meno pronunciato, comunque visibile; • cottura blanda degli ingredienti di farcitura. Precisare questi quattro concetti è importantissimo per un grosso fraintendimento che circonda questo prodotto: una pizza napoletana è una pizza tonda, ma una pizza tonda non è necessariamente una pizza napoletana.

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proprietà organolettiche originarie senza mutare gusto e profumo. E attenzione, non si tratta di nazismo ma di semplice constatazione: se stendete un panetto a sezione sottile, ricavando un cornicione, ma lo cuocete nel vostro forno di casa a 250°C, sarete “costretti” a tenere il prodotto nella camera per 5-7 minuti, ricavando una struttura croccante e ingredienti ben più cotti. Sarà ugualmente buona, ma non potrà essere definita “pizza napoletana”, bensì “pizza tonda”. Appare quindi evidente quello che per anni è stato il primo grosso limite nel replicare in casa questa tipologia di pizza: la temperatura di esercizio. Fissiamo quindi questo paletto una volta per tutte: la pizza napoletana nel forno di casa non si può fare. Quali sono quindi gli strumenti che consentono di sfornare questo prodotto tanto amato?

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Il forno più adatto

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La tradizione vorrebbe l’utilizzo del forno a legna, l’unico che fino a qualche decennio fa era in grado di raggiungere le proibitive temperature e la trasmissione di calore necessaria per realizzare una perfetta verace pizza napoletana, grazie alla spinta esercitata

dal piano refrattario e ad una volta in grado di generare un irraggiamento sufficiente alla cottura rapida richiesta. È ancora così? Assolutamente no: oggi le stesse condizioni sono replicabili perfettamente in uno dei tanti modelli di forni a gas o elettrici presenti sul mercato, il cui irraggiamento, conduzione e convezione di calore siano progettati a dovere, risultando per altro decisamente più comodi e immediati da utilizzare. Per carità, dimenticatevi la bufala del magico sapore che caratterizzerebbe la pizza; se siete qui è perché siete appassionati di barbecue, quindi saprete bene che 90 secondi non sono neanche lontanamente sufficienti a permettere al semilavorato di catturare gli odori del fumo. E anzi, se così fosse meglio allarmarsi, in quanto potrebbe essere sintomo di legna umida, sporca e non stagionata, responsabile quindi della generazione di fumo nocivo e non certo a norma HACCP. Inoltre, per quanto romantico possa essere il caro, vecchio forno a legna, la sua gestione merita qualche attenzione in più per mantenere la fiamma sempre alta e la temperatura costante, e senza una mano esperta il vostro prodotto potrebbe non essere così facile da replicare.


Detto questo, ammetto che una volta preso il ritmo lavorare con dei forni simili è maledettamente divertente, ma ciò non significa che sia impossibile realizzare pizze superbe con modelli elettrici o a gas. Anzi, la costanza che otterrete, soprattutto alle prime armi, sarà incredibilmente superiore, in quanto non dovrete continuamente prestare attenzione alla fonte di calore per evitare perdite di rendimento. Facciamo quindi un piccolo riassunto delle tipologie principali presenti sul mercato, riferite ovviamente ad un pubblico di appassionati: • I modelli elettrici hanno dimensioni abbastanza contenute e sono utilizzabili all’interno; a seconda del prodotto, raggiungono dai 450°C ai 550°C in meno di un’ora, consumano poco più di un classico forno a incasso e grazie alle resistenze ben disegnate spesso è necessario girare la pizza una sola volta; • I modelli a cupola a gas (metano o GPL) sono utilizzabili solo all’esterno, ne esistono delle dimensioni più disparate (in genere per una fino a quattro o cinque pizze) e raggiungono i 450°C-500°C in circa un’ora. Sono molto comodi e divertentissimi da usare, in quanto il feeling è quello di un vero pizzaiolo; di contro, la sorgente di calore è localizzata a lato del forno, quindi dovrete necessariamente girare ogni tanto la pizza per cuocerla uniformemente;

I modelli a cupola a legna sono anch’essi utilizzabili all’esterno, di dimensioni simili a quelli a gas, e raggiungono la temperatura nello stesso tempo. Richiedono ovviamente un po’ di dimestichezza nell’accensione, ed in genere consiglio di munirsi di tronchetti di faggio pressato, che permettono di avere un’uniformità maggiore di calore e un risparmio di spazio nella camera di cottura. Per avere rendimenti sempre costanti inoltre, ad ogni infornata è bene aggiungere un pezzetto di legna per mantenere sempre alta la fiamma, evitando il rischio di far crollare la temperatura biscottando la pizza.

La farina La napoletana nasce come un prodotto realizzato con basse idratazioni, farine medio-deboli (220-240 W), pochissimo lievito e un quantitativo importante di sale utile per stabilizzare lievitazioni corte condotte prettamente a temperatura ambiente; un tempo infatti non esistevano le odierne celle frigorifere, tantomeno le camere a temperatura controllata, e le uniche farine disponibili erano i grani italiani tipicamente tenaci e poveri di glutine. Oggi le cose sono decisamente cambiate; abbiamo a disposizione farine di qualsiasi tipologia, adatte ad ogni scopo. Ma soprattutto i laboratori delle

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pizzerie e le nostre case sono dotate di frigoriferi e, nella maggior parte dei casi, di macchine per impastare; perché non sfruttare il progresso tecnologico quando ci torna utile per stabilizzare le variabili? Perché dovremmo per forza lasciarci convincere dai professionisti che parlano di “punto di pasta” o “l’impasto a occhio”, quando pesando tutto e lavorando per consapevolezza azzeriamo il rischio di commettere errori inutili? Il metodo e la ricetta proposti oggi si riferiscono quindi all’uso del frigorifero, alzando sia il W che l’idratazione, mantenendo costante il lievito e riducendo il sale; il tutto per elaborare un prodotto “moderno”, una pizza leggera, tecnica ma semplice, calibrata, standardizzabile e digeribile; mangiare, nel XXI secolo, non può e non deve significare semplicemente riempirsi la pancia, ma vivere un’esperienza sensoriale e gratificante. La tipologia principalmente utilizzata per la produzione di napoletana è una 00 o 0 di grano tenero, in quanto l’impasto deve risultare fortemente estensibile, deve poter essere tirato a mano fino ad ottenere una sezione di pochi millimetri senza rompersi, e deve svilupparsi in concomitanza del cornicione; al contempo deve anche risultare scioglievole al morso e mai tenace in bocca, quindi l’utilizzo di farine troppo forti o di idratazioni molto elevate è altamente sconsigliato, perché potrebbero rivelarsi difficoltose sia nella stesura sia nella cottura.

Crusca e fibre presenti nelle farine integrali e semi-integrali, nonostante il profilo nutrizionale e i sapori più marcati, trattengono l’umidità e ostacolano in parte la formazione del glutine. Realizzare una napoletana con farine “alternative” non è impossibile né tantomeno vietato, ma potrebbe risultare più complesso specie in presenza di una materia prima non particolarmente performante. Il mio consiglio è quello di iniziare con delle materie prime più semplici, come quelle indicate, per poi volendo sperimentare una volta che avrete preso la mano.

I tempi di riposo Complice la minore idratazione (che consente di ottenere un ottimo risultato anche a mano), la realizzazione dell’impasto della napoletana è decisamente semplificata. Ciò che fa davvero la differenza nel risultato finale è l’equilibrio delle diverse fasi di maturazione e lievitazione, che devono essere bilanciate in relazione alle caratteristiche del prodotto finito; un panetto perfetto e pronto alla stesura dovrà essere facilmente estensibile senza arrivare a rottura, ma soprattutto dovrà avere una distribuzione di gas equilibrata, per poterli spingere verso il bordo con estrema semplicità, senza i classici bolloni bruciati che rovinano la vista ed il gusto. Per questo motivo solitamente l’appretto sarà lungo ed effettuato a temperature che non superino i 20°C-22°C, in modo da far lavorare i lieviti lentamente e in maniera meno violenta.

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In sintesi, l’importante è che le fasi di riposo vengano svolte con tempi e temperature corrette, e dovrete necessariamente condurre qualche sessione di test nei vostri ambienti di lavoro prima di trovare la quadra.

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La panificazione richiede pazienza, costanza, passione e dedizione; non cercate di raggiungere la perfezione al primo colpo, ma divertitevi a trovare il miglior compromesso possibile.


Lievito e sale Lo scopo del sale non è solo quello di conferire sapidità, ma di migliorare sensibilmente le caratteristiche della maglia glutinica, oltre a stabilizzare la lievitazione durante i tempi lunghi di appretto richiesti; per questo motivo il quantitativo è leggermente superiore a quello di una teglia romana. La funzione dei lieviti è invece quella di nutrirsi degli zuccheri dell’impasto, producendo l’anidride carbonica che fa gonfiare il semilavorato. Tradizionalmente, la pizza napoletana viene realizzata mediante l’uso di lievito di birra (Saccharomyces Cerevisiae) fresco, acquistabile solitamente in cubetti da 25gr. Per facilitare il riposo duraturo ed agevolare quindi le corrette caratteristiche tecniche richieste, il suo quantitativo è molto basso, circa 2 grammi ogni chilo di farina. Vi sconsiglio pertanto di utilizzare il secco, in quanto non solo è più pigro nel cominciare a lavorare, ma dovendolo dividere per tre vi ritrovereste ad impazzire con i quantitativi corretti.

Gli ingredienti della farcitura

Esistono metodi ben precisi per utilizzare al meglio i due ingredienti principali della farcitura. Anzitutto il pomodoro migliore è quello pelato, succoso, privo di bucce ma al tempo stesso abbastanza liquido da poter essere spalmato agilmente con l’aiuto di un cucchiaio. Impiegherete pochi secondi a schiacciarlo con le mani, e vi sconsiglio l’utilizzo del mixer per evitare di ossigenarlo, cambiarne il colore e renderlo eccessivamente liquido. Inoltre, evitate di utilizzarlo freddo da frigo, perché potrebbe lasciare cruda la parte di pasta a contatto. Per quanto riguarda i latticini, un forno adatto vi eviterà la maggior parte dei problemi di acqua; con la pizza napoletana potete scegliere la mozzarella che più vi aggrada, senza troppe fisime. La cosa importante è tuttavia la temperatura di servizio: essendo un formaggio a pasta filata, sotto gli 8°C trattiene il siero, rilasciandolo una volta scaldato. Per questo motivo, lasciate il fiordilatte (tagliato a listarelle di circa 1 cm) ad almeno 14°C-16°C e la bufala (tagliata a fette) tra i 18°C e i 22°C; così facendo, perderanno i liquidi nella bacinella ma non sulla pizza.

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La leggenda narra che nel giugno 1889 il cuoco Raffaele Esposito la preparò in onore della regina Margherita di Savoia in visita a Napoli. Esistono tuttavia testimonianze storiche già nel secolo precedente, sempre nella città partenopea.

In ogni caso, la dolcezza dei pomodori pelati schiacciati a mano, la cremosità della mozzarella fiordilatte, la freschezza balsamica del basilico e il gusto intenso e avvolgente dell’olio extravergine di oliva hanno contribuito a rendere la pizza margherita celebre nel mondo.

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IMPASTAMENTO La fase di impastamento può essere eseguita sia a mano che per mezzo di una planetaria o di un’impastatrice a spirale; in ogni caso l’ordine di inserimento degli ingredienti non cambia. Sciogliete il lievito nell’acqua e versatene il 2/3 nella farina man mano, attendendo che la precedente venga assorbita prima di aggiungerne altra. Verso la fine mettete il sale, per poi continuare fino ad aver esaurito l’acqua prevista. Terminato l’impastamento, trasferite sul piano e chiudete in pagnotta, ripiegandolo su sé stesso fino ad ottenere una forma liscia, uniforme, asciutta e ad una temperatura di almeno 24°C-25°C.

INGREDIENTI per 6 pizze da 32cm Per l’impasto: 1 kg di farina di grano tenero di tipo 00 o 0 (300 W); 650 g di acqua; 28 g di sale fino; 2 g di lievito di birra fresco. Per la farcitura: 600 g di pomodoro pelato; 600 g di fiordilatte di Agerola o di un ottimo latticino; qualche foglia di basilico fresco; olio extravergine di oliva.

Riponete quindi il tutto in un recipiente unto di olio a temperatura ambiente (22°C-24°C) per circa 4 ore, in modo che parta la lievitazione; tale prerequisito è di fondamentale importanza soprattutto per gli impasti diretti casalinghi in quanto, considerando le moli decisamente inferiori al contesto professionale, posizionare il tutto in frigorifero troppo presto potrebbe bloccare l’impasto, impedendo ai pochi lieviti utilizzati di svolgere la loro preziosa funzione. PUNTATA Trascorse le 4 ore, riponete il contenitore in frigorifero a 6 °C per 18-24 ore, indicativamente 6 ore prima del momento in cui volete stenderle. In questa fase l’impasto matura, cresce verso l’alto e la maglia glutinica si stabilizza. STAGLIO Trascorsa la puntata, riprendete l’impasto e porzionatelo nei pesi desiderati, in questo caso 6 panetti da 275 grammi. Il contenitore migliore per l’appretto è la classica cassetta in plastica con coperchio, ormai reperibile facilmente ovunque; posizionateli all’interno a distanza ravvicinata in modo che si sorreggano da soli dandosi forza.

STESURA Rendere un soffice e morbido panetto sottile come un foglio

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APPRETTO Durante lo staglio l’impasto viene manipolato, i lieviti ridistribuiti e la maglia glutinica rafforzata. Lo scopo dell’appretto è quello di rendere possibile l’ultima lievitazione e maturazione, oltre a permettere l’estensibilità necessaria alla stesura; come già detto inoltre, è fondamentale che avvenga in maniera lenta in modo da consentire ai gas di distribuirsi uniformemente, evitando la creazione di fastidiosi bolloni. Lasciateli a dormire per 6-8 ore a una temperatura di 20°C-22°C (o in frigorifero per altre 24 ore) e attendete la magia.

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di carta non è semplicissimo e richiede parecchia pratica. La prerogativa però è che l’impasto arrivi al punto giusto, ben lievitato ma soprattutto estensibile e asciutto, in modo che non si attacchi mentre lo allargate. Immergetelo in un cumulo di semola rimacinata di grano duro ben setacciata (che riduce l’attrito con il piano da lavoro, oltre a tostare in cottura donando sapore) e schiacciate con le dita dal centro verso il bordo per spostare l’aria, lasciando circa 1-1.5 cm in modo da formare il cosiddetto “cornicione”. Proseguite in questo modo, capovolgendo il panetto e continuando a portare l’aria verso il bordo fino ad aver quasi ottenuto la dimensione finale, diciamo per circa i 3/4 del totale; questo perché con l’umidità degli ingredienti aggiunti in fase di farcitura si allargherà ulteriormente, facilitandovi il lavoro. Spolverate leggermente il piano con giusto un velo di semola (quel tanto che basta per non farla attaccare), sbattete un po’ il disco tra le mani per togliere l’eccesso e preparatevi al condimento. FARCITURA Una buona mise en place è un’ottima pratica per quanto riguarda la realizzazione della napoletana; tenete presente infatti che più il disco di pasta rimane sul banco più aumenta il rischio che si attacchi o si rompa, rovinandovi tutto il lavoro svolto. Avere tutti gli ingredienti pronti davanti a voi potrebbe salvarvi la vita. Schiacciate a mano i pelati; io li tengo al naturale, ma a vostro gusto potete aggiungere un pizzico di sale, dell’olio e del basilico per insaporirli. Tagliate il fiordilatte a listarelle o la mozzarella a fette; in via opzionale, potete anche prepararvi una manciata di parmigiano e/o pecorino da aggiungere prima della cottura, che donerà un tocco di umami al vostro capolavoro.

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Con un mestolo largo posate circa 100 g di pomodoro al centro, per poi distribuirlo a spirale verso l’esterno del disco lasciando in pace il cornicione, che dovrà gonfiarsi e fungere anche da corona per gli ingredienti. Mettete il basilico (che sotto la mozzarella eviterà di bruciarsi), 80-100 g di fiordilatte, il formaggio grattugiato se previsto e infine un giro d’olio.

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COTTURA Trasportate con le dita la pizza sulla pala leggermente

infarinata, ridategli una forma tonda avendo cura di coprire tutta la superficie, e infornatela nel vostro potente mezzo. Nel caso abbiate un forno elettrico performante, impostate la temperatura a 480°C con il 100% di potenza dal cielo e il 5-10% di potenza dalla platea; con un forno a legna o a gas, attendete che il termometro arrivi a 450°C-480°C. In entrambi i contesti verificate con un termometro laser che la platea sia almeno intorno ai 420-430 °C. In caso contrario la pizza sarà cotta sopra ma non sotto; ricordatevi che la difficoltà maggiore nella gestione di una napoletana sta nel mantenere un equilibrio tra le due componenti di cottura, conduzione (tramite il piano refrattario) e irraggiamento (tramite la camera, la fiamma o le resistenze). Con un movimento deciso infornate la pizza e controllatela a vista. In un forno a legna o a gas, considerando che la sorgente di calore diretto è puntuale e localizzata sul fianco, dovrete girarla spesso per ottenere una cottura uniforme, ma attendete circa 30 secondi altrimenti rischiate di bucare la base con il palino. Nel forno elettrico al contrario, se le resistenze sono ben disegnate limitate la rotazione ad una sola di 180 gradi; con temperature così alte e tempi di cottura così brevi infatti, il risparmio di quei pochi secondi di perdita di calore possono fare la differenza. Controllate costantemente la base della pizza, e se risulta troppo avanti rispetto alla parte superiore mantenete alzata la pizza con il palino fino a cottura ultimata. Quando il prodotto ha raggiunto una colorazione uniforme, dopo circa 90 secondi, sfornatelo, e terminate la farcitura con un ultimo giro di olio extravergine di oliva sul bordo, ancora una spolverata di formaggio e del basilico. Grazie alla rapidissima cottura, la freschezza degli ingredienti rimane pressoché invariata, permettendovi di gustare una margherita aromatica, profumata ed invitante, dove nemmeno l’olio ha raggiunto il suo punto di fumo e sprigiona quindi tutto il suo potenziale organolettico. Sfornate, impiattate e godetevi questo capolavoro di artigianalità.


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Il crudo che si mangia in America Across the Pond a cura di Elena Ninotti

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uando sono venuta a conoscenza del tema del nuovo Magazine, confesso che sono rimasta interdetta perché, per la prima volta, mi sono resa conto di quanto il crudo non sia così presente nei menù dei ristoranti americani. Per me, cresciuta in Italia negli anni ’80, il crudo, specialmente di mare, era onnipresente in ogni celebrazione: ostriche, tartufi, scampi, gamberi, facevano sempre la parte principale nelle cene tra amici dei miei genitori, da Capodanno a un semplice sabato sera. Carpacci e tartare di carne, invece, erano considerate “una cena veloce” in famiglia. In seguito, probabilmente per un aumento della percezione del rischio alimentare, questa usanza si è spenta, per poi tornare in auge adesso, con le migliori pratiche di conservazione e di sanificazione degli alimentari.

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Da queste parti, negli USA, invece, hanno un rapporto ambivalente col cibo crudo. A un certo punto, avevo anche il sospetto che servire carne cruda non fosse ammesso dalla regolamentazione FDA (Food and Drug Administration). Ho scritto a un critico gastronomico locale, Michael Mayo, chiedendo a lui come mai il crudo non facesse parte dell’offerta più comune nei ristoranti. Molto gentilmente, mi ha spiegato che la dicitura in fondo al menù che recita, più o meno, “servire alimenti crudi può portare a intossicazioni alimentari” rende spesso il consumatore diffidente e restio a ordinare, ma che in realtà non ci sono limitazioni nella somministrazione di carne e di pesce crudi.

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Tuttavia, le ostriche sembrano essere assolutamente approvate durante l’Happy Hour. I ristoranti sono aperti con orario 12pm - 10pm e, per invogliare i clienti a sfruttare anche le ore centrali del pomeriggio,

offrono aperitivi e plateu royal di ostriche a prezzi scontati nella fascia 15-18. Esiste però una tipologia di ristoranti che basa la propria fortuna sul pesce crudo e in alcuni di essi, è necessario prenotare in largo anticipo. I ristoranti peruviani, con il loro ceviche, sono davvero interessanti e mi sento di predirre che presto spopoleranno anche in Europa, al pari del sushi giapponese, che qui ha già esaurito la propria fama. La cucina peruviana è un mix meraviglioso cresciuto in 500 anni tra la fusione della cultura Inca e pre-Inca con quella delle migrazioni cinesi, europee (soprattutto spagnole e italiane), africane, Indiane e Giapponesi. Prendete il meglio di quattro continenti: il mais, la quinoa, le patate (in Perù se ne contano più di 1000 varietà) dalle Americhe; con l’arrivo degli spagnoli, sono stati importati olio, riso, latticini pollo e manzo dall’Europa e infine, con gli schiavi africani, sono arrivati spezie, anticuchos (cuore di manzo) e tacu tacu (una specie di tortino di fagioli e di riso usato come base per gli stufati). Con l’indipendenza del 1821, altri europei sono arrivati in Perù: francesi e italiani hanno portato formaggi, pasta fresca, paste ripiene. Ma a portare una ventata di innovazione sono stati i cinesi, arrivati per lavorare nelle piantagioni


di cotone, riunitisi in vere e proprie Chinatown in cui mantenevano forte la propria identità. Stir fry di carne o riso, salsa di soia, zenzero, sono tra le tecniche e i prodotti che sono entrati di prepotenza nella cultura alimentare locale. L’ultima ondata migratoria, a metà del ‘900, ha completato il quadro. I giapponesi hanno stravolto le abitudini, soprattutto quelle dei cittadini, che non amavano il pesce.

Il ceviche non è pesce crudo semplice, ma marinato con lime e peperoncini di svariati colori e accom-

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Insomma, grazie a tutte queste importazioni anche in USA si trova pesce crudo, non solo nel sushi e nel sashimi, ma anche nel ceviche (pesce crudo

marinato) e nei tiraditos (sottili strisce di pesce crudo). Ma ci sono altri casi in cui alimenti che proprio non venivano consumati dagli americani adesso si riescono a trovare grazie ai ristoranti peruviani: il polpo grigliato e, soprattutto, il pesce cotto intero, compreso di testa, coda e lische (uno dei pochi casi in cui in USA viene servito il pesce intero). La cosa affascinante è che non si è mai trattato di una appropriazione culturale ma, piuttosto, di una integrazione a tutti gli effetti.

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pagnato dal choclo, un mais a chicchi giganti, e patata dolce. Il polpo è servito con le onnipresenti patate in purea, aromatizzate con lime, cipolla e altri aromi locali. La chufa, cioè il riso saltato cinese, viene arricchito con prodotti peruviani, mentre i taglioni di pasta fresca sono spesso in accompagnamento ai frutti di mare, in modo molto simile alla tradizione italiana. E’ così che quindi nasce la cucina peruviana in tutte le sue declinazioni: la cucina Nikkei, legata al Giappone, la Chifa con la Cina, la Creola con Africa e Europa, e la italo-peruviana, che sembra italiana ma ha il sapore del Perù. Anche i dolci sono legati alle varie culture che gravitano attorno a questo Stato. I frutti esotici, in salse e riduzioni, si accompagnano a budini, cheesecake e pan di spagna. Insomma, si può dire che il pregio della cucina peruviana è quello di abbracciare tante culture e di essere appetibile per tutti i palati, visto che davvero spazia tra le più diverse culture. In South Florida è davvero così amata da far passare in secondo piano la diffidenza locale per i prodotti crudi, tanto che ormai quasi tutti i ristoranti offrono il Ceviche tra gli antipasti.

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Quella che vi lascio è la ricetta del ceviche base secondo Gastón Acurio, chef del Ristorante La Mar nel Mandarin Hotel di Miami.

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CEVICHE

PERUVIANO Ingredienti per 4 persone: 4 filetti da

180 g l'uno di pesce bianco, a polpa soda, non grassi / 1 spicchio di aglio finemente tritato / 2 cucchiaini di peperoncini piccanti freschi tritati / il succo di 20 piccoli limoni / un cucchiaino di cilantro tritato / 2- 3 cubetti di ghiaccio / un cipolla rossa tagliata a mezzelune sottili / sale e pepe q.b. Per servire: una pannocchia lessata / 1⁄2 patata dolce rossa, lessata e tagliata a rondelle PREPARAZIONE: 1. Tagliate la polpa di pesce a cubi di circa 2 cm per lato, metteteli in una ciotola e aggiungete sale e pepe. Dopo un minuto, aggiungete aglio e pasta di peperoncino 2.

Versate sopra il succo di limone, il coriandolo tritato e i cubetti di ghiaccio. Mescolate e lasciate riposare 30 secondi.

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Rimuovete il ghiaccio e aggiungere la cipolla. Mescolate bene e servite in una ciotola poco profonda, con, a lato, i chicchi di mais rimossi dalla pannocchia e la patata dolce a fette. Guarnite con qualche fettina di cipolla e una foglia di cilantro


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STANDING

STEAK

quando vuoi servire tutte le bistecche insieme

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a cura di Michela Bongiorni

lzi la mano a chi non è capitato: è Pasquetta, o il 25 Aprile, inviti a pranzo parenti ed amici per una grigliata in allegria e loro accettano con entusiasmo. D’altronde, tu sei quello bravo, quello che ha fatto i corsi di bbq, quello che parla difficile con termini tecnici e che guarda con disapprovazione e disprezzo chiunque osi aprire a libro una salsiccia. E tu alla fine sei felice di essere considerato l’esperto; un po’ come Michele, che era l’esperto di Glenn Grant, tu sei quello “che ne sa” di bbq e vuoi che questa bravura venga riconosciuta in modo universale: vuoi che lo zio a cui hai tolto lo scettro del re della griglia, che fino a pochi anni fa cuoceva la sua rosticciana dura e stoppacciosa, vantandosene pure, ammetta sul campo la sua sconfitta; vuoi che i bambini corrano felici intorno a te mentre, con la polo bianca e il colletto tirato su, gestisci tutta la tua carne in griglia sorridendo con malcelata immodestia.

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Poi arriva il fatidico giorno e accade questo: tu da una parte che ti affanni a gestire le cotture, sudato e maleodorante, e tutti gli altri che mangiano alla faccia tua, trovando anche da ridire perché “ma quando è pronto? La roba arriva in tavola a rate! Io ho fame!”

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Ebbene, abbiamo già affrontato l’argomento in diversi numeri passati del BBQ4All Magazine; anche lo Zio sulla nostra Community Facebook ha elargito negli anni numerosi consigli su come affrontare grigliate in famiglia con tanti commensali affamati e prepotenti. Per esempio, ti abbiamo ripetuto più volte che buttare troppa carne al fuoco, non in senso figurato ma letteralmente, non è mai la scelta vincente: decidere di cuocere salsicce, rosticciana, spiedini di pollo, verdurine, un galletto – perché mica può mancare il galletto!- un arrosto e, perché no, due involtini e una bella paella è sicuramente un grosso errore, a meno che tu non abbia mille dispositivi e del personale


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che riesca a gestire un catering. E’ molto meglio optare per una singola preparazione, al massimo due (una delle quali può magari essere cotta con largo anticipo e poi fatta rinvenire al momento) che buttarsi su troppa roba insieme, perché la tendenza a esagerare ti porterebbe a un sicuro insuccesso. Se ci segui da tanto tempo hai imparato a servire la rosticciana perfetta, le salsicce non bucate e cotte nella birra, il pulled pork migliore del mondo, il brisket che fa resuscitare i morti, gli spiedini perfetti, le verdure da applausi a scena aperta. Oggi ti vogliamo dare un consiglio in più, illustrandoti una tecnica che forse non conosci e che si riferisce alla sole bistecche: stiamo parlando dello Standing Steak, ovvero la soluzione ideale per servire tutte le tue T-Bone nello stesso momento, senza stress e senza far aspettare troppo i tuoi impazienti amici. Come abbiamo spesso ripetuto, la cottura indiretta è la tecnica che sicuramente usi di più durante le tue esperienze in griglia, con le dovute variazioni di temperatura che si vanno di volta in volta ad adattare al tipo di preparazione che hai scelto. È , di fatto, l’unica tecnica che controlla accuratamente l’incremento del grado di cottura. Tornando quindi al tuo pranzo di Pasquetta: hai deciso di servire delle bistecche- anche per far ricredere gli irriducibili della “Fiorentina 5-5-15, solo legna di leccio e poi vai a occhio” e vuoi dimostrare a tutti che tu sai farla meglio- e hai bisogno che siano tutte pronte nello stesso momento? Parliamo di tre o quattro T-bone. Vuoi cuocerle con una birra in mano in totale relax, e il colletto della polo tirato su, e vuoi sederti insieme ai tuoi ospiti per goderti il momento in cui assaggeranno la ciccia buona e partiranno i mugolii di piacere? Allora fai così: imposta il grill alla stessa temperatura finale alla quale vuoi portare le bistecche. Vuoi una temperatura finale di 50°C al cuore? Stabilizza il grill a 50°C con setup indiretto. Vuoi una bistecca a cottura media? Stabilizza il grill a 60°C sempre con setup indiretto.

Il passaggio in cottura diretta finale sarà solo rapidissimo. Se la bistecca è ben asciutta otterrai comunque una buona cauterizzazione esterna. La crosticina uniforme si ottiene grazie alla Reazione di Maillard, che può avvenire anche a temperature basse ma per tempi più lunghi, come in questo caso. L’unica accortezza – è bene ribadirlo- è che le bistecche siano ben asciutte. Se comunque il risultato non ti soddisfa puoi sempre fare un passaggio in diretta per 30 secondi: saranno più che sufficienti. Una volta stabilizzato il dispositivo alla temperatura voluta sarà impossibile per te superare il grado di cottura desiderato; se il grill è stabilizzato a 50°C, non correrai mai il rischio di avere una bistecca a cottura media. In più non dovrai controllare costantemente la bistecca, perché la temperatura sarà uniforme sia dentro che fuori. Questa tecnica viene chiamata, appunto, Standing Steak ed è la soluzione ideale per le situazioni come quelle descritte a inizio articolo. Ora lo sappiamo cosa stai pensando: “e se volessi servire bistecche con grado di cottura diverso? La zia non la sopporta al sangue, il cugino invece vuole che ancora muggisca”. Nessun problema, con questa tecnica salvavita puoi tranquillamente servire bistecche con gradi di cottura differenti tra loro andando a sfruttare la tecnica del flipping nella fase finale. Puoi infatti proseguire la cottura interna dando colpi secchi di calore sulla superficie, insistendo per pochi secondi su un lato e poi sull’altro, in cottura diretta. Partirai da una temperatura molto più vicina al target e, soprattutto, già uniforme. Preriscaldi tutte le bistecche a 50°C? Puoi servirne alcune a 50°C e proseguire in flipping con le altre fino a 55°C, a 60°C o anche a 65°C – anche se con disapprovazione da parte nostra, sappilo godendoti al massimo la giornata e la compagnia dei tuoi ospiti. Ora sì che i tuoi sogni si avverano: vai a prenderti la vittoria sul campo e brinda anche per noi, quando tutti i presenti dovranno ammettere chi è il vero re della griglia!

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Con il carbone, per stabilizzarlo a 50°C, bastano cinque bricchette accese. Cinque di numero. Una volta impostato il dispositivo, metti dentro le bistecche in piedi (sulla griglia o su un supporto di cottura) e lasciale andare come se fosse una

normale cottura indiretta, ma a temperature più basse.

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SALAMOIA E LA MARINATURA, queste sconosciute

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olto spesso, anche in questo numero, abbiamo parlato della marinatura. E’ senza ombra di dubbio una delle tecniche di seasoning fondamentali per chi ama il grilling e il bbq, ma anche per chi ama cucinare in generale. Tuttavia, ancora molte persone tendono a confondere la marinatura con la salamoia e non hanno affatto ben presenti le differenze tra questi due seasoning, né riguardo alla loro funzione né per quello che concerne il loro utilizzo. Cosa sono? Quando usare l’una e quando l’altra?

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Bene, cerchiamo di fare un po’ di chiarezza una volta per tutte, in modo che poi non vi restino più dubbi.

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a cura di Mariangela Ibba

CHE COS’È LA SALAMOIA? Nata come metodo di conservazione dei cibi in tempi molto antichi (pare fosse usata già dai babilonesi nel 200 a.C), la salamoia non è altro che una soluzione salina aromatizzata con erbe e spezie, nelle quale viene immerso totalmente un alimento per almeno un giorno prima di procedere alla cottura. Lo scopo principale della salamoia è aumentare la percentuale di liquidi all’interno della ciccia e di migliorare la sua ritenzione idrica, oltre che la sapidità, in modo che una volta cotto risulti succulenta e morbida.


Questa procedura, dunque, è adatta a tutti quei tagli di carne magri che durante la cottura corrono il rischio di diventare stoppacciose e dure, come pollo, tacchino, maiale. Affinché il processo entri in funzione, la carne deve essere totalmente ricoperta dalla soluzione. Il risultato è un prodotto più succoso e gustoso, sia a causa dell’aumento di liquidi, sia a causa del trattenimento di quelli già presenti naturalmente all’interno della carne. Grazie a questa fondamentale tecnica di seasoning, si ha dunque un incremento della moisture (ovvero della morbidezza), dovuto al processo di denaturalizzazione creato dal sale. La carne, inoltre, si arricchisce di sapore, attraverso la penetrazione del sale e degli aromi utilizzati nella mistura.

Esiste però un altro tipo di salamoia, quella a secco: quella che viene chiamata dagli addetti al settore Dry brining. Consiste nel ricoprire la superficie della ciccia con una miscela di spezie (chiamata in gergo rub) qualche ora prima della cottura. La salamoia a secco viene di solito usata su tagli di carne che richiedono cotture brevi. Il suo scopo è quello di mantenere la succulenza del taglio trattenendo i liquidi già presenti al suo interno. Ovviamente l'acqua che verrà trattenuta in cottura è quella naturalmente presente, non essen-

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SALAMOIA A SECCO Abbiamo fin qui parlato di salamoia liquida, nella quale l’alimento viene immerso totalmente

all’interno della soluzione salina. In realtà è possibile anche iniettare la salamoia all’interno dei pezzo di ciccia, specie quando è molto grosso e vogliamo velocizzare la procedura (avete presente le injection che fate al brisket, al pork, ai pezzi di carne di grandi dimensioni, prima di buttarli in cottura indiretta?).

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doci aggiunta di liquidi. CHE COS’È LA MARINATURA? E’ sicuramente la tecnica più conosciuta nell’ambito del seasoning e risulta familiare anche ai griller meno esperti, e comprende preparazioni anche molto diverse tra loro. Infatti l’uso di miscele su base acida è assolutamente comune nella preparazione di molti prodotti (carne, pesce, verdure) tipici della cucina regionale italiana ed estera. Marinare i cibi, in passato, aveva lo scopo di mantenere e al tempo stesso rendere anche più gradevoli gli alimenti deperibili. Questa tecnica ha ovviamente perso un po’ della sua utilità con l’avvento del frigo e dei sistemi di refrigerazione in generale.

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L’effetto della miscela acida e aromatica ha lo scopo di migliorare le caratteristiche organolettiche di base degli alimenti, aromatizzando il prodotto e contestualmente modificandone la consistenza superficiale. Una marinatura modifica strutturalmente gli alimenti mediante una vera e propria aggressione chimica, che deve essere accuratamente calibrata e controllata attraverso il pH.

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COME È FATTA LA MARINATURA? È un’emulsione composta da una sostanza acida (limone, aceto vino ecc), una sostanza grassa (burro, olio ecc), spezie e aromi e da una piccola percentuale di sostanza legante o stabilizzante (maionese, senape, lecitina di soia ecc). Il rapporto tra la sostanza grassa e acida deve essere di 1:2 o 1:3. Per legare insieme le due sostanze è necessario fare un’emulsione, sbattendo il tutto


con una frusta. Per evitare la successiva separazione dei due elementi, nel composto è presente una piccola percentuale di stabilizzante che ha il compito di mantenere la parte acida e grassa in equilibrio. MARINATURA E SALAMOIA: LE DIFFERENZE Anche la marinatura così come la salamoia viene utilizzata per arricchire di sapore e rendere più succosi e morbidi i tagli di carne magri e spesso poco saporiti, che durante la cottura tendono a diventare stoppacciosi.

Questa grande differenza tra le due tecniche è determinata dal sale, elemento capace di cam-

Anche nella marinatura avviene una modifica profonda delle proteine, causato dallo stress chimico basato sul pH della componente acquosa della marinata, che però rimane sulla parte esteriore dell’alimento. Gli altri elementi della marinata, aromi e grassi, hanno solo la funzione di insaporire, sempre sulla superficie. Andando a lavorare su piccoli pezzi di carne, dunque, il tutto deve essere calibrato al meglio, affinché sia gradevole il contrasto di sapore tra la parte superficiale, più saporita, e il gusto più profondo della carne. Infatti, se andassimo a marinare la carne con le stesse tempistiche della salamoia ci troveremmo a cucinare una carne già cotta chimicamente a freddo. A quel punto i sapori forti della marinata prevarrebbero su tutto il resto e si perderebbe l’equilibrio tra l’aromatizzazione e il sapore della ciccia.

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Tuttavia, il potere d’azione della marinatura è inferiore rispetto a quello della salamoia, perché la seconda agisce più in profondità nell’alimento, mentre l’azione della prima rimane più superficiale. Per questo motivo, la salamoia puà essere usata su tagli di carne anche molto grandi, mentre è consigliabile usare la marinatura per i pezzetti più piccoli.

biare in profondità la struttura delle proteine della carne, incrementandone la sapidità e aumentandone la ritenzione idrica.

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La ricetta scientifica a cura di Gianfranco Lo Cascio

LA RICETTA SCIENTIFICA

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e siete di quelli che porgono l’altra guancia solo al sole, allora a sentir chiacchierare di gote vi tornerà senz’altro alla mente il sapore di una buona guancetta di manzo affumicata. Altro che riferimenti biblici, io parlo di quella ciccia bella morbida, succosa, profumata, scioglievole come certi cioccolatini allappanti e goduriosissimi. La fortuna vuole che, coi primi tepori quasi primaverili, io abbia messo un po’ di pellet nel mio smoker. E che abbia stilato tutte le istruzioni per preparare una guancia di manzo affumicata da servire in una veste insolita. Vi va di provarla?

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IL TAGLIO Partiamo dalle proteine protagoniste della ricetta. Le guance, conosciute anche come muscolo massetere, ce le hanno proprio tutti gli animali e sono le dirette responsabili della masticazione. Si tratta di muscoletti che lavorano davvero sodo, macinando costantemente l’erba e, come tali, sono eccezionali se cotti lentamente, per consentire al tessuto connettivo, ai tendini e al grasso di sciogliersi e rilasciare il loro sapore. Le guance di manzo hanno l'ulteriore vantaggio di essere di dimensioni contenute, pesano generalmente 300-400 g ciascuna, e possono essere facilmente cotte intere fino a quando non diventano morbide e succose. Spesso è necessario rimuovere lo strato di silver skin (membrana esterna ed argentea) dalla parte superiore della guancia prima della cottura. Come si fa? Semplice: fate scivolare il coltello tra la “pellicina” e la carne e, inclinando la lama verso l'alto, fatela scorrere lungo la membrana per rimuoverla.

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L’AFFUMICATURA Vogliamo preparare la guancia affumicata, ma prima di farlo facciamo qualche passo indietro e affrontiamo brevemente l’argomento “affumicatura”. Il fumo è un ingrediente vero e proprio, è la spezia che sta tra il pepe e la noce moscata. Esistono tre sorgenti di fumo nella cottura outdoor: i grassi, il combustibile e la legna aromatica. I residui di succhi e grassi, spesso carichi di sapori, si vaporizzano quando colpiscono le superfici calde, salgono in alto e si adagiano sul cibo, conferendogli aroma e sapore.

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Il combustibile è il materiale che brucia per produrre il calore. Un grill elettrico non produce fumo o gas. Un dispositivo a gas, se regolato corretta-

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mente, produce acqua e anidride carbonica ma non fumo. La carbonella è legno che è stato precedentemente bruciato e convertito in carbone. Quando è appena accesa può produrre molto fumo, ma quando è completamente innescata e ardente ne produce un alito, a meno che il legno non sia stato completamente carbonizzato nel processo di produzione. I dispositivi a pellet bruciano segatura di legno puro compressa in pellet e producono fumo di legno, e più la temperatura di combustione è bassa, più ne rilasciano. Infine, ci sono i ciocchi, i cosiddetti “logs”, o i chunks, che producono gli aromi e i sapori più complessi e interessanti (oltre alle chips, i petali di legno). Il fumo di legno è incontrovertibilmente l’essenza del vero barbecue.


FACT-CHECKING #01:

COME IL FUMO FINISCE DENTRO LA CARNE La combustione del legno avviene tra i 260°C e i 320°C e richiede una quantità significativa di ossigeno. La temperatura effettiva dipende dal tipo di legno, da quanto è secco e da altre variabili. Consideriamo i 300°C il punto di combustione medio. Il calore dell’accensione spinge l'acqua e i gas infiammabili fuori dal legno e molti di essi bruciano se c'è abbastanza ossigeno. La combustione di questi gas è ciò che produce la fiamma. Se tutti i gas si combinano con l'ossigeno, la fiamma presenta un colore bluastro, come in un grill a gas ben regolato, e non c’è traccia di fumo. Se i gas non bruciano completamente, la fiamma si presenta gialla o arancione. Se i gas incombusti vengono fuori, si raffreddano e diventano parte del fumo. Il fumo è una materia complessa e ce ne sono di diverse tipologie. Il fumo della legna che brucia contiene fino a cento composti sotto forma di solidi microscopici, tra cui carbone, creosoto, cenere, polimeri, vapore acqueo e fenoli, oltre a gas di combustione invisibili come il monossido di carbonio, il biossido di carbonio e gli ossidi di azoto. Quando questi composti entrano in contatto con il cibo, possono aderire alla superficie e conferirgli sapore. La maggior parte delle componenti aromatiche proviene dai gas di combustione, non dalle particelle, e la composizione dei gas dipende dalla tipologia di legno, dalla temperatura di combustione e dalla quantità di ossigeno disponibile. Quando le particelle di fumo e i gas di combustione toccano la superficie degli alimenti umidi come la carne, si dissolvono e alcuni vengono trasferiti appena sotto la superficie, per diffusione e assorbimento.

DICONO SPESSO: IL CREOSOTO NEL FUMO DEVE ESSERE EVITATO A TUTTI I COSTI I pitmaster, ovvero gli esperti della cottura low&slow, pensano che sia il male perché lo confondono con il creosoto del catrame di carbone (la roba nera usata per proteggere i pali del telefono e le rotaie). Nonostante il nome simile, il creosoto del catrame di carbone è chimicamente diverso dal creosoto del legno. Il creosoto del catrame di legno è sempre presente nel carbone di legna o nel fumo di legno e alcuni dei suoi componenti - in particolare il guaiacolo, siringolo e alcuni fenoli - contribuiscono in maniera determinante all’aroma, sapore e colore del fumo nei cibi. Senza creosoto, la carne saprebbe di bollito. Il creosoto è il Dr Jekyll della cottura del fumo. Da un lato contribuisce positivamente al sapore e al colore dei cibi affumicati e agisce come conservante (l'affumicatura della carne è stata una delle prime tecniche di conservazione insieme alla salagione). Dall’altro, se l'equilibrio delle sostanze chimiche nel creosoto si sposta, può conferire un sapore amaro piuttosto che affumicato: il trucco è ottenere il giusto equilibrio. Pensate al fumo come ad un condimento, come al sale. Usatene troppo e rovinerete tutto. Nei dispositivi a carbone o a pellet, dopo la combustione, il fumo sale e fluisce dalla zona di combustione nella zona di cottura. Una frazione di esso entra in contatto con il cibo, ma la maggior parte risale e sfiora appena l’alimento. Intorno ad ogni oggetto c'è un alone stagnante di aria chiamato “boundary layer” o “strato limite della quantità di moto”. A seconda del flusso d'aria e della ruvidità della superficie, lo strato limite intorno ad un pezzo di carne potrebbe avere uno spessore di un millimetro o due. Quando le particelle di fumo si avvicinano alla superficie della carne, le particelle piccole seguono lo strato limite. Solo alcune di quelle più grandi toccano il fondo.

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L’accumulo del sapore di “affumicato” sullo strato esterno del cibo avviene dopo un’esposizione prolungata al fumo. Una bistecca sottile cuoce in pochi minuti, quindi acquisirà meno sapore di fumo di una ribeye alta 4 cm. Un ribeye avrà un sapore meno affumicato di un petto di tacchino spesso 6 cm e una punta di petto di manzo spessa 20 cm

cotta a bassa temperatura per 12 ore assorbirà una tonnellata di fumo.

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CON ACQUA GHIACCIATA

VUOTA

CONTROLLO immagine tratta dal sito amazingribs.com

Vi faccio un esempio per chiarire il concetto. Quando siamo in auto i moscerini seguono la corrente d'aria sopra il parabrezza, mentre gli insetti più grandi si spiaccicano sul vetro disseminando macchie verdastre in corrispondenza del punto di impatto. Il fumo segue lo stesso moto. Volete visualizzare come il fumo si attacca al cibo? Fate questo esperimento. Dipingete di bianco 3 lattine di birra vuote. Riempite una lattina con acqua ghiacciata e lasciatene una vuota, mettete le due lattine nell’affumicatore. La terza vi serve per effettuare il raffronto finale.

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Dopo 30 minuti, entrambe le lattine avranno del fumo attaccato sulla superficie, ma la lattina più fredda ne avrà molto di più e sarà di un marroncino più scuro. Questo perché le superfici fredde attraggono il fumo per via di un fenomeno chiamato termoforesi.

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Poi c’è un altro fattore “umido” che entra in gioco.

Il barattolo freddo attirerà anche l’acqua presente nell'atmosfera e nei gas di combustione, che si condenserà e scorrerà lungo il barattolo. Le particelle di fumo si attaccano meglio alle superfici bagnate. Allo stesso modo, se la carne è fredda e bagnata, trattiene più fumo. Quando la carne si scalda e si asciuga, il fumo praticamente rimbalza. È la stessa ragione per cui il vapore della doccia calda finisce tutto sullo specchio freddo. Tuttavia, le particelle di fumo che si incollano alla superficie degli alimenti possono sì penetrare sotto la superficie,ma raramente per più di 3-4 mm (nelle crepe e nei solchi microscopici della carne), perché le loro molecole sono troppo grandi. DICONO SPESSO: PIÙ FUMO SI FA, MEGLIO È In realtà è vero il contrario. La fumata bianca piace solo in Vaticano, noi aneliamo il “thin blue smoke”, il fumo sottile e azzurrino.


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FACT-CHECKING #02:

LO SMOKE RING

È l’alone magenta-rosato che si forma subito sotto il bark, ovvero la crosticina compatta e speziata che si ottiene nelle prime fasi della cottura nel nostro dispositivo, prima dello stallo e prima dell’accartocciamento nel foil. Può essere spesso dai 3 ai 12 millimetri e quello esteticamente più soddisfacente ha proprio la forma di un “anello” che cinge tutta la superficie del pezzo di carne. Deve sembrare una fettuccia ripassata con un evidenziatore fucsia. DICONO SPESSO: DOPO UN'ORA O DUE LA CARNE SMETTE DI “PRENDERE” FUMO Non esiste alcuna finestra temporale in cui la carne non assorbe più fumo, tutto dipende dalla temperatura della carne e dall’umidità. Se la superficie della carne è fredda o bagnata, questa assorbirà più fumo. Solitamente a fine cottura la ciccia diventa piuttosto asciutta esternamente e quando i carboni e il legno aromatico non producono molto fumo, ci convinciamo che la carne sia in qualche modo satura. Buttate su un ceppo e bagnate o spruzzate la carne, vedrete che inizierà a prendere di nuovo fumo. Basta non inumidirla troppo o spruzzare aggressivamente, perché in pochi secondi rischiate di lavare via l’affumicato che ha impiegato ore a stratificarsi. Come ottenere un perfetto smoke ring È giusto ribadire un concetto fondamentale: lo smoke ring non influisce assolutamente sul sapore finale della preparazione, è soltanto un vezzo, uno sciocco virtuosismo. Qui troverete una lista di suggerimenti che contribuiscono alla formazione di uno smoke ring bello evidenziato, ma alcuni di questi pregiudicano altri aspetti (ad esempio la formazione di un bark solido)e vanno in qualche modo bilanciati nella pratica.

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01. Rimuovete accuratamente il grasso di copertura, la silver-skin e le altre membrane di connettivo dalla superficie della vostra carne.

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02. Scegliete carburanti ad alto tenore di azoto, come le bricchette di carbone compresso; potete

eventualmente addizionare dei gusci di arachidi (contengono il 2-3% di azoto), delle foglie (4% di azoto), oppure dei pezzetti di legno ricavato dai rami, dotati di tutta la corteccia e non eccessivamente stagionati. 03. Non usate marinate acide o sostanze acide come “aggrappanti” per il rub (la senape ha un pH di 4.5, quindi mediamente acida). 04. Iniziate la cottura con la carne ancora fredda da frigo: questo farà condensare più fumo sulla superficie e darà più tempo al monossido di azoto di penetrare prima della denaturazione della mioglobina. Il vapore acqueo si condenserà sulla superficie fredda come fa su una lattina di birra in un'afosa giornata di luglio. 05. Usate il waterpan (una leccarda) carico di acqua bollente. 06. Moppate (inumidite) o spruzzate la superficie della carne, mantenendo l’umidità superficiale, senza far gocciolare; questo favorirà la penetrazione del monossido di azoto (NO) e ridurrà l’evaporazione dei succhi, rendendo lo smoke ring più profondo e sfumato. L’umidità, inoltre, raffredderà gli strati superficiali della carne allungando il tempo necessario alla denaturazione della mioglobina. 07. Iniziate la cottura con una temperatura più elevata e pochi bricchetti ben accesi e ossigenati, in modo da saturare la camera di fumi ricchi di monossido di azoto, dopodiché abbassate la temperatura e prolungate il più possibile la cottura; bastano 15-30 minuti iniziali a temperatura più alta per formare una sufficiente quantità di NO. Disclaimer: aumentare la densità del fumo riempiendo di chunk il vostro smoker NON migliorerà lo smoke ring, ma sicuramente comprometterà irrimediabilmente il sapore della vostra preparazione, che risulterà sovraffumicata e immangiabile. L’obiettivo finale è sempre ottenere un piatto equilibrato, con il fumo dosato alla pari degli altri ingredienti.


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DAL COLLAGENE ALLA GELATINA: IL MELTING DOWN Dopo l’affumicatura, è fondamentale portare a cottura la guancia, un taglio ricco di tessuto connettivo e collagene che va necessariamente cotto alla giusta temperatura e per tempi prolungati. Come fa un taglio marmitico e gommoso a diventare tremolante e succoso budino? Ve lo spiego subito. La carne è composta principalmente da quattro elementi: fibra muscolare, tessuto connettivo, grasso e molta acqua. Le fibre, che sono lunghe, sottili e raggruppate in fasci allungati, creano la "grana" della carne. Anche se piccole negli animali giovani, le fibre muscolari crescono sia con l'età che con l'esercizio. Sono generalmente tenere a causa del loro alto contenuto d'acqua, che si aggira intorno al 75%.

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In cottura, i filamenti delle fibre muscolari cominciano a ridursi, prima in diametro tra i 40°C e i 63°C e poi in lunghezza sopra i 63°C. Durante questo processo, si espelle l'umidità mentre si contraggono, come quando si strizza un asciugamano bagnato. Il tasso di perdita di umidità diventa significativo intorno ai 60°C; tuttavia, quando il tessuto connettivo che circonda le fibre muscolari inizia a contrarsi, comprime i fasci ancora più saldamente. Questo è il motivo per cui i tagli teneri sono molto più buoni quando cucinati “al sangue” o a media cottura, prima che questo processo abbia inizio.

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Il tessuto connettivo che circonda i fasci di fibre è una membrana traslucida che consiste di cellule e filamenti proteici e fornisce struttura e supporto ai muscoli. Il collagene è la proteina predominante nel tessuto connettivo e si trova in tutto l’animale, dai tendini dei muscoli agli zoccoli. In contrasto con le fibre muscolari, il collagene è composto da tre catene proteiche strettamente avvolte in un'eli-

ca a triplo filamento e, quindi, risulta immangiabile quando è crudo. In cottura, questa robusta proteina rimane in gran parte inalterata quando viene riscaldata a temperature inferiori ai 60°C. È solo quando la carne supera questa temperatura che il collagene comincia a rilassarsi, srotolandosi in singoli sfilacci. Se tenuto tra i 71°C e gli 82°C per un lungo periodo di tempo, la tripla elica del collagene si srotola per formare gelatina, una proteina a singolo filamento in grado di trattenere fino a 10 volte il suo peso in umidità, intenerire la carne e conferire densità e ricchezza al fondo di cottura. La conversione del collagene in gelatina dipende sia dalla temperatura che dal tempo; più a lungo il cibo viene tenuto nel range di temperatura ideale, più il collagene si scompone. La cottura prolungata distrugge i tagli magri con poco collagene (come il filetto di maiale) perché, man mano che le fibre muscolari si contraggono, cedono costantemente i loro succhi e diventano più secche e dure. Pertanto, i tagli con poco collagene dovrebbero essere cucinati tenendo conto del mantenimento dell'umidità, con una temperatura finale al cuore non più alta di 54°C per il manzo o 66°C per il maiale. I tagli ricchi di collagene, invece, sono troppo duri da mangiare se cotti al sangue o medi. La cottura prolungata migliora effettivamente la consistenza dei tagli duri con molto collagene (come la punta di petto di manzo), perché permette a questa componente, presente in maniera invadente, di trasformarsi in gelatina, trattenendo significativamente più umidità, e alle fibre muscolari tese di rilassarsi un po', richiamando l'umidità all'interno della ciccia. Psst! Date un’occhiata alla tabella che segue per capire cosa succede alla carne quando esposta a determinati range di temperatura.


Attività degli enzimi proteolitici

Livello di cottura

Aspetto della carne

40°C

Raw

Soffice al tocco, liscia, umida, traslucida, colore rosso brillante.

Attivi.

Iniziano a sbrogliarsi.

45°C

Bleu

50°C

Rare

Inizia a rassodarsi e diviene opaca.

Molto attivi.

La miosina inizia a denaturare e coagulare.

Medium rare

Elastica al tocco, meno liscia, più fibrosa. Rilascia succhi quando tagliata. Colore rosso chiaro, opaca.

Denaturati, diventano inattivi e coagulano.

Miosina coagulata.

La guaina di collagene inizia a contrarsi.

Medium

Inizia a restringersi e perdere elasticità. Trasudano i succhi. ll colore rosso sfuma a rosa.

Le altre proteine delle fibre denaturano e coagulano.

Il collagene si contrae, strizzando le cellule.

I succhi fuoriescono dalle cellule per la pressione del collagene.

Inizia a denaturare.

Medium well

Continua a restringersi, poca elasticità. Pochi succhi liberi. Il rosa vira al grigliomarrone.

70°C

Well

Continua a restringere. Solido. Pochi succhi. Colore grigiomarrone.

Inizia a dissolversi.

Il flusso cessa.

Denaturata e coagulata.

75°C

Well

Temp.

55°C

60°C

65°C

Well

85°C

Well

90°C

Well

Connettivo e collagene

Acqua legata alle proteine

Mioglobina

Intatto.

Inizia a separarsi dalle proteine e accumularsi nelle cellule.

Normale.

Separazione e l'accumulo accellerano.

L'actina denatura e coagula. Il contenuto delle cellule diventa compatto.

Le fibre si separano facilmente una dall'altra.

Si dissolve rapidamente.

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80°C

Fibre muscolari

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LE CIPOLLE SOTTACETO ESPRESSE Mi piaceva l’idea di servire la guancia affumicata fredda, o al massimo tiepida, accompagnata da un’insalata di fagioli e cipolle sottaceto. Ma non delle banali cipolle comprate al supermercato eh. Queste dovete prepararvele da soli, con una tecnica semplicissima, molto conosciuta nei paesi nordici, che serve per ottenere dei sottaceti espressi, freschi e che conservano una grandissima croccantezza (l’ingrediente principale non viene mai scaldato). Sto parlando del metodo 1-2-3 che lo Chef stellato svedese Magnus Nilsson (ex patron del leggendario Ristorante Fäviken) descrive nella Bibbia della cucina nordica “The Nordic Cookbook”. Io l’ho leggermente modificato per venire incontro al palato italico.

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Per metterlo in pratica vi servono: • 600 ml di aceto di mele • 800 g di zucchero • 1,5 L di acqua • 500 g di cipolle di Tropea • 20 g di sale fino

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Per prima cosa bisogna preparare la marinata. 1.

2.

3.

4.

Portate l’acqua a bollore e dissolvete lo zucchero, fino ad ottenere uno sciroppo. Aggiungete l’aceto e fate raffreddare. Tagliate le cipolle a fettine o a rondelle, ad uno spessore di 3 mm; disponete in uno scolapiatti e cospargete con il sale. Lasciate agire per 30 minuti e poi strizzate. Sistemate le cipolle in un barattolo e ricoprite con la marinata. Fate riposare in frigo per almeno 2 ore. Aggiungete aromi a piacere (semi di senape, aneto, cipolla tritata), i sottaceti così preparati si conservano in frigorifero per 1 settimana.

Riempite un barattolo in vetro sterilizzato con le vostre cipolle affettate e coprite con il liquido, aggiungete qualche rametto di timo, di aneto o un ciuffetto di erba cipollina, che viene utilizzata anche per condire il piatto finito. Lasciate riposare per qualche ora e fate sparire le cipolle entro pochi giorni. Mi raccomando, questa non è una tecnica per conservare i sottaceti a lungo.


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LA RICETTA SCIENTIFICA INGREDIENTI

(Dose per 6 persone) Per la carne • 2 guance Crimson Crest 5+ Wagyu F1 Crossbreed (da circa 360 g l’una) • Olio extravergine di oliva q.b. • Bacche di ginepro • Ultimate SPOG Sal’s Seasonings • Legno di hickory per affumicare Per il fondo • 2 rametti di timo • 2 bacche di ginepro • 1 chiodo di garofano • 1 L di vino rosso (Amarone, Primitivo, Barolo) • 160 g di carote • 180 g di cipolle rosse • 100 g di sedano Per la finitura • 500 g di fagioli bianchi di Spagna • Cipolle rosse sottaceto • Erba cipollina q.b.

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Per la citronette • 5 parti di olio extravergine di oliva • 1 parte di succo di limone • 10 g di senape di Digione (2 cucchiaini circa) • Zeste di 1 limone grattugiato non trattato • Sale • Pepe

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PROCEDIMENTO Per prima cosa bisogna trimmare le guance e cioè ripulirle del grasso e della membrana argentea esterna (silver skin). Terminata la pulizia potete ungerle con un velo leggero di olio extravergine di oliva e rubbarle (cospargerle) leggermente con lo SPOG. Settate il dispositivo per una cottura indiretta a circa 90°C-110°C, poggiate le guance rubbate sulle griglie e ponete al di sotto il water pan (la vostra teglietta di alluminio monouso riempita di acqua bollente). Inserite il legno aromatico che preferite nel formato che avete a disposizione (chips, chunks o logs), un pugnetto di chips o un ciocco di hickory sarà più che sufficiente. Lasciate affumicare fin quando le guance non risultano perfettamente asciutte al tatto (io le ho affumicate in un dispositivo a pellet di hickory). A questo punto potete percorrere 4 strade, vi elenco PRO e CONTRO di ognuna: #01 COTTURA SOUS VIDE Prendete le guance affumicate e mettetele in un sacchetto per il sottovuoto insieme a 4 cubetti di ghiaccio e delle bacche di ginepro. Sigillate e lasciate che il bagno termostatico arrivi a 82°C, immergete le guance e cuocete per 8 ore (o a 70°C per 24 ore). PRO: il fumo penetra in profondità all’interno della carne e si conservano il 100% dei succhi e tutto il collagene disciolto in essi CONTRO: tempi di cottura davvero lunghi

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#02 COTTURA IN TEGAME Preparate una mirepoix (dadolata da 5-6mm) di sedano, carota, cipolla, mettetela in un tegame e bagnate con il vino. Aggiungete le guance affumicate, il timo, bacche di ginepro e chiodi di garofano. Cuocete a fiamma dolce con la tecnica del brasato, fin quando i pezzi di carne non avranno raggiunto i 96°C al cuore. PRO: tempi di cottura ridotti CONTRO: l’aroma di fumo si scarica inevitabilmente nel fondo di cottura

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#03 COTTURA IN FORNO Preparate una mirepoix di sedano, carota, cipolla, inserite il tutto in una teglia a bordi alti con il timo, bacche di ginepro e chiodi di garofano e versate il vino. Aggiungete le guance e assicuratevi che con la cottura arrivino a 96°C al cuore,

pungendole con un termometro a sonda. Separate il fondo e lasciate arrostire le guance “a secco” a 200°C-220°C, fin quando non appaiono dorate in superficie. PRO: si innesca una massiccia Reazione di Maillard e la carne risulta più saporita CONTRO: come per la cottura in tegame, l’aroma di fumo si diluisce nel liquido #04 COTTURA AL BARBECUE Settate il dispositivo a 140°C, mettete le guance in foil avvolgendole in un doppio strato di carta stagnola e due cucchiai di acqua o aceto di mele. Lasciate cuocere fin quando non avranno raggiunto i 96°C. PRO: la carne avrà uno spiccato e inconfondibile aroma di fumo CONTRO: non avrete nessun fondo di cottura a disposizione Qualunque sia la strada che avete scelto di calpestare, a cottura ultimata, separate la guancia dal fondo e fate raffreddare bene la carne in frigorifero. Tagliate quindi le guance a cubetti, scaldate e nappate con una parte di fondo ristretto (se ce l’avete) e preparate un’insalata di fagioli bianchi di Spagna. Montate una citronette emulsionando l’olio, il succo di limone, la senape, il sale, il pepe e le bucce di limone grattugiate. Condite i fagioli con la salsa appena preparata e impiattate in questo modo: 1. 2. 3. 4.

base di fagioli conditi con la citronette guancia nappata a cubetti tiepida cipolla sottaceto erba cipollina tritata

Oppure servite le guancette calde, riducete i fagioli in crema emulsionando con la stessa citronette e servite con un crostino di pane tostato all’aglio. La ricetta dovete assaggiarla voi, ed è giusto quindi che la adattiate al vostro palato e a quello dei vostri affetti. Perché in fondo Il bello della cucina scientifica è proprio questo: comprendere i perché delle cose per costruire un piatto che ci assomigli.

Gianfranco Lo Cascio


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Non è colpa mia, è colpa tua. Anzi no, è colpa sua, così non ci sentiamo in colpa noi.

Seguo.

a cura di Emiliano Nencioni

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La colpa è un concetto talmente vasto e radicato nella natura umana che fior di filosofi e sociologi, nella storia, hanno speso fin troppe parole e sciorinato concetti fin troppo criptici per tentare di dare una spiegazione, un volto, un insieme di norme e codici per questa “cosa”. Perché alla fine cos’è? Un sentimento, una condizione, un ente giuridico, un’unità di misura un po’ come il Tempo? Riflessione impenetrabile per un profano dei sofismi.

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Non sono un esperto del settore, ma pare che un gran numero di testi a fondamento di vari religioni mondiali si basi sulla certezza dell’efficacia della colpa come leva sulle coscienze. Vi dirò di più, sono quasi sicuro di aver visto qualche volta anche dei dispettosissimi cani domestici sentirsi addosso la colpa di una salsiccia rubata o di un divano sfondato, e loro non hanno neanche tutte le nostre sovrastrutture. Cosa è questa cosa intra-specie, a cosa dobbiamo il suo successo evoluzionistico? Perché non è diventata obsoleta e dimenticabile come la coda nell’uomo?

Iniziamo la parte complicata, servendoci di Karl Jaspers.

E soprattutto, tanto per cambiare: cosa c’entra la colpa e tutta l’esistente impalcatura di psicologia, filosofia e letteratura a tale riguardo con le dinamiche di una community di esperti grigliatori di bracioline su fiamma? Ve lo spiego io: ma ve lo spiego più avanti in queste paginette, visto che ho la necessità di prenderla molto alla larga e di fare tutto un avventuroso volo semantico (ma anche un po’ pindàrico, toh). Seguitemi con attenzione, prendete appunti, e se non capite non alzate la mano, che tanto ve la rispiegherei con le stesse identiche parole.

Jaspers aveva trascorso gli anni del conflitto nel costante terrore della deportazione, avendo rifiutato di divorziare e ripudiare la moglie; sommariamente nascostosi nella città universitaria di Heidelberg, una pasticca di cianuro era l’espediente che lo avrebbe salvato da ulteriori orrori in caso che qualcuno lo avesse tradito o denunciato al regime.

Nel 1945, con la seconda guerra mondiale ormai finita, il professor Jaspers si trovava in una situazione che è sacrilego definire solo ansiogena: iniziare l’anno accademico davanti a una classe di studenti universitari. Studenti cresciuti e formatisi sotto il nazismo, in attesa di una lezione di un docente al quale il nazismo aveva tolto la cattedra in quanto sposato con una donna di origine ebraica.

La sua lezione parlerà di colpa, in particolare della responsabilità politica della Germania: un modo notevole di rompere il ghiaccio con la classe.


L’intuizione chiave di Jaspers è di spaccare la parola colpa in quattro diverse ramificazioni, quattro significati-contenitore per meglio racchiudere un’idea troppo vasta per un termine solo. Colpa criminale: è sempre individuale, ed è un fatto giuridico: si è colpevoli solo se un tribunale sancisce e verifica l’esistenza di una colpa in base a un giudizio fondato su prove e fatti. In questo contesto, e per questa ramificazione della colpa, un criminale di guerra è colpevole solo se si trovano prove sufficienti a confermare i suoi crimini; viceversa l’imputato sarà innocente, proprio perché si è innocenti fino a prova contraria, mentre è la colpevolezza a dover essere verificata. Colpa morale: a giudicarci è la nostra coscienza individuale, o delle persone più care e intime. Rimane completamente separata dalla colpa giuridica (o almeno si spera lo sia), proprio perché la giustizia "pubblica" non deve entrare nell’intimità della nostra coscienza. Qualora questo avvenisse, sarebbe inquisizione: è successo, e abbiamo visto che non è gradevolissimo. Si può essere colpevoli davanti alla propria coscienza anche se scagionati dall’assenza di prove, tuttavia.

Chi decide della colpa politica? Tragicamente, l’idea politica vigente. Quindi, sì, i vincitori giudi-

cano i vinti: inutile nascondersi dietro un’aura di illuminati, è proprio così. Colpa metafisica: è collettiva, ed è la più vicina all’idea di senso di colpa. É la colpa di non aver fatto, o non aver fatto abbastanza, ed è legata al senso di solidarietà innato di una comunità. Una espressione ontologica della condizione umana, quindi. Riporto pari pari una considerazione dello stesso Jaspers: «Nella mia situazione sono responsabile di ciò che accade per non essere intervenuto, e se non faccio ciò che posso fare, mi rendo colpevole delle conseguenze che derivano dalla mia astensione. Pertanto, sia l’azione sia la non-azione implicano delle conseguenze, per cui in ogni caso io sono inevitabilmente colpevole. In questa situazione-limite divento consapevolmente responsabile di ciò che accade, senza che io l’abbia propriamente voluto. Se chi agisce è consapevole di queste conseguenze, diventa insicuro perché nel compiere l’azione, egli pensava ad altre conseguenze. Nella situazione-limite egli si sente responsabile della sua azione. Responsabilità significa esser disposti ad assumere le colpe. In questo modo l’esistenza, manifestandosi, si trova immediatamente sotto una pressione ineliminabile» Credo non ci sia molto da aggiungere. La colpa è fondamentale, l’attribuzione di colpa è potere. Sulle colpe altrui si creano alleanze, e di riflesso antipatie, vendette, delatori professionisti.

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Colpa politica: la responsabilità condivisa tra chi detiene il potere (politico, certamente, ma che può essere scalato anche nel piccolo di un consiglio d’amministrazione, nel direttivo dei soci di un’associazione culturale, nell’elezione del rappresentante di classe) e chi lo ha legittimato conferendogli l’incarico. Parliamo di chi si lamenta del governo che ha votato l’anno prima, o di quelle megaditte che assumono l’Amministratore Delegato più squalo del mondo per poi accorgersi, ma guarda un po’, che essere amministrati da uno squalo è una piaga, e lo squalo ha l’unico scopo di incassare un sostanzioso buono uscita e di venire ricordato come l’Amministratore Delegato più squalo mai esistito, autoalimentando la sua stessa fama di Nastro di Moebius vivente.

Karl Jaspers

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Succede ad ogni livello, e vi ricorderete del capoclasse fetente chiamato alla lavagna per segnare i cattivi, abbindolabile con un gesto d’intesa e uno scambio di favori. Più si sale di livello più diventa necessaria una gestione organica e ragionata di questo tipo di dinamiche. So che non ci crederete mai e che la prenderete come l’ennesima boutade di quel simpaticone impenitente e incorreggibile che scrive le cose strane in fondo alla rivista della ciccia buona, ma esiste tutto un mercato di mobile app per permettere ad organizzazioni e grandi aziende di poter distribuire in maniera quantificabile e matematicamente comparabile la colpa. Dietro pagamento di un congruo abbonamento ogni processo è suddiviso in maniera iper granulare a varie persone, a vari giorni, a varie decisioni chiave; tutto è sotto gli occhi di tutti, e il tag è il nuovo indice accusatore, o la gomitata nel fianco all’esaminatore temporaneamente distratto.

«Una trasgressione involontaria ma imputabile si chiama colpa, una trasgressione volontaria si chiama delitto» (Immanuel Kant)

Siamo circondati dalla colpa, quindi: in famiglia, sul lavoro, e in ogni mezzo commento storto messo sui social network. Poi nella presunta intimità di un gruppo sconosciuto la spariamo grossa, qualcuno nella risposta ci tagga, e l’incauto commento finisce in cima al feed di parenti, familiari, colleghi, et voilà, bella figura.

«Questo esser-colpevole costituisce la condizione ontologica della possibilità dell’Esserci di poter, esistendo, divenire colpevole. Questo esser-colpevole essenziale è coorigi-

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C’è una maniera di difendersi? Forse sì, con un po’ di filosofia spicciola e un po’ di dialettica da copiaincollatore selvaggio. Vi lascio qua una preziosa traccia per costruirvi una risposta tranchant nel tentativo di scrollarvi la colpa di dosso.

Chiamiamo in causa Heidegger, che è sempre utile quando c’è urgenza di abbindolare qualcuno: la colpa è condizione ineliminabile dell’esistenza umana, visto che se l’uomo può avere una colpa allora la possibilità di esser colpevole appartiene alla sua essenza. É colpa mia? Certo, e anche tua: chi non ha colpa? Meglio però se invece che mia o tua è sua, cioè di un altro tizio.

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nariamente la condizione esistenziale della possibilità del bene e del male “morale”, cioè della moralità in generale e della possibilità delle sue modificazioni particolari. L’esser-colpevole originario non può esser determinato in base alla moralità, perché questa lo presuppone come tale» (per Heidegger “esser-ci” è “essere al mondo”)

Imparate a memoria questa breve e cristallina citazione del pomposo tedesco, riversatela su chi vi incolpa, dopodichè taggate un altro. Taggate senza pietà. Vi pervaderà la colpa morale (vedi poco sopra) di aver incasinato un terzo ignaro attore, ma pazienza, la colpa morale è quella che più si può far stare zitta, basta essere un po’ fetenti. Che ci vuole? •

Eh ma questa cosa andava fatta diversamente, ora è un macello, è tutta colpa tua. • Si sbaglia, caro lei: la colpa si radica nell’infondatezza dell’esistenza. Per esser-colpevole l’Esserci non ha bisogno di accollarsi una “colpa” mediante azioni o omissioni, esso non deve che essere autenticamente quel “colpevole” che, essendo, esso è. Ma soprattutto è colpa di quel tizio lì (e qui si tagga un tizio a caso e anche sua cognata, così, per malvagità gratuita). Così è colpa sua. Abbiate solo l’accortezza di non riversare tutto contro qualcuno di particolarmente nefasto e solito ad orchestrare delle vendette complicatissime e cervellotiche, che poi è una seccatura. Va bene, ma adesso facci il doveroso parallelismo e dicci cosa c’entra tutto questo con i grigliatori di ciccia, come ci avevi promesso all’inizio, che son due pagine che leggiamo inutilmente di professori tedeschi con i baffoni e lo sguardo arcigno, e ancora non… No, niente parallelismo. Era tutto un inganno per portarvi alla lettura di nove-diecimila caratteri di flusso di coscienza. Che vi devo dire, succede, sono espedienti narrativi, non ve la prendete troppo.

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Vi ho deluso? Sono i rischi che si corrono fidandosi del narratore. É colpa mia? Secondo me non è colpa mia, è colpa tua. Anzi no, indovina. È colpa sua.

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Emiliano Nencioni


CLUB

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LA PAROLA AI NOSTRI STUDENTI

Adriano Bergamini

L’unico dubbio che ho avuto è stato sul costo del corso: si è dissipato in meno di un secondo quando ho letto dell'imperdibile offerta lancio! Dopo le prime cinque lezioni, ho già potuto godermi gli approfondimenti scientifici su argomenti fino ad ora letti in modo sbrigativo. Ho apprezzato veramente tutto ciò che ho visto e imparato. Nella Masterclass i concetti vengono spiegati in maniera meticolosa e capillare. Sono certo mi servirà in futuro il confronto coi coach attraverso i commenti sotto ai video. Consiglierei la Masterclass a tutti, perché noi italiani di cotture barbecue NON sappiamo proprio nulla!

Francesco D’Effremo

Visita: masterclass.bbq4all.it

L’unico dubbio che mi frenava dall’acquistare la Masterlcass è stato di tipo economico ma, grazie al consiglio dei coach, ho messo da parte tutte le remore che avevo e ho pensato che questa fosse un’occasione da cogliere al volo, coronando e completando tutto il percorso che ho fatto insieme a BBQ4All, cominciato nel 2019. Le prime lezioni mi stanno già aiutando a riordinare tutte le informazioni che avevo in testa e che, tuttavia, erano un po’ confuse.cI coach spiegano tutto in maniera molto meticolosa e rendono i concetti chiari e concisi. Il clima generale è molto rilassato ma molto coinolgente.

Sergio Stefanizzi

Avevo due dubbi: economico, ma ero sicuro che il percorso valesse tutti i soldi spesi e da ciò che ho visto fino ad ora è proprio così! Poi i contenuti ma, nonostante avessi già studiato molto, ho trovato molte nuove informazioni. Le prime lezioni sono teoriche e dettagliate, quindi, non vedo l’ora di passare alla parte più pratica. Non ho ancora interagito con i coach sotto i video ma ho visto altri utenti che lo hanno fatto, un plus che aiuta a togliere il più piccolo dubbio. Perchè raccomanderei questa Masterclass? Ddubito che ci sia qualcosa in giro che possa essere paragonato a questo percorso!

Emanuele Turchi

Non ho avuto nessun dubbio nell’acquistare la Masterclass perché da tempo volevo frequentare uno dei corsi BBQ4All, ma l’incompatibilità con gli impegni di lavoro me lo aveva sempre impedito, fino ad ora. Il beneficio principale che ho già riscontrato dopo la visione delle prime lezioni è quello di poterne usufruire su più piattaforme, differenziando in base alle esigenze. Tutte le parti si sono rivelate ben strutturate, di qualità ed essenziali per un approccio fondamentale anche per chi è alle prime armi. Ritengo la Masterclass un prodotto professionale di gran livello, pensato per tutti.

Giuseppe Ricci

Registrazione presso il Tribunale di Terni n°774

Ero in dubbio se acquistare la Masterclass perché temevo una ripetizione: grazie al Magazine ho già imparato tantissime cose; poi però ho voluto acquistarla ugualmente perché tutti i prodotti dello Zio e di BBQ4All sono sempre molto curati. Mi piace molto la chiarezza nell’esposizione dei coach: l’approccio a tutti i dispositivi di cottura è chiaro ed esaustivo. Non ho ancora interagito coi coach attraverso i commenti sotto ai video, però la ritengo una cosa utile, che può far la differenza rispetto ad altri corsi simili. Se vuoi avere la risposta a tutte le tue domande sul bbq la Masterclass è ciò di cui hai bisogno!


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