Francesco Turrettini
ISTITUZIONE DELLA TEOLOGIA PERSUASIVA Fascicolo 3:
Su Dio uno e trino A cura di Pietro Bolognesi
L’Istituzione della teologia persuasiva è un classico della scolastica riformata. – Norman L. Geisler, Veritas Evangelical Seminary, Murrieta, California.
...Una delle più complete formulazioni della teologia calvinista mai pubblicate. – Wayne Grudem, professore di teologia biblica al Phoenix Seminary, Phoenix, Arizona.
Se c’è un’ottima opera teologica che è stata ingiustamente trascurata, si tratta proprio dei magistrali volumi di Francesco Turrettini sull’intera dottrina cristiana... Ovunque li raccomando caldamente ai predicatori, agli studenti di teologia e ai laici. – James M. Boice, Tenth Presbyterian Church, Philadelphia.
...Un evento notevole per le chiese riformate e per tutti quelli che s’interessano di storia e di sviluppo della teologia riformata... – Sinclair Ferguson, professore di teologia sistematica, Redeemer Seminary, Dallas.
...Teologi di qualsiasi scuola saranno felici che questo classico sia disponibile. – Leon Morris, Ridley College, Melbourne, Australia.
Sono ancora stupito dalla grandezza del risultato [raggiunto da Turrettini]... Si può trovare una profonda tensione devota e pastorale in Turrettini... un insegnamento meravigliosamente edificante. – John Frame, professore di filosofia e teologia sistematica, Reformed Theological Seminary, Orlando, Florida.
...Un contributo eccezionale alla letteratura teologica... Non si sbaglia mai a leggere i giganti e Francesco Turrettini è un gigante. – Paul Feinberg, Trinity Evangelical Divinity School, Deerfield, Illinois.
...Dovrebbe dimostrarsi un enorme passo per rimediare alla diffusa trascuratezza e incomprensione, persino rappresentazione fuorviante, dell’ortodossia riformata del XVII secolo. – Richard B. Gaffin Jr., professore di teologia biblica e sistematica, Westminster Theological Seminary.
Una delle maggiori opere dogmatiche riformate del XVII secolo, ha conservato la sua influenza a causa del suo uso a Princeton. Questi volumi ci danno un eccellente rappresentante dell’ortodossia riformata importante e della teologia polemica. – R. Scott Clark, professore di storia della Chiesa e di teologia storica, Westminster Seminary, California.
...Insieme a Pietro Martire Vermigli (1499-1562), il teologo protestante italiano più importante della storia della chiesa... Proprio per il suo pensiero biblicamente limpido e teologicamente netto, Turrettini è stato oggetto di una presa di distanza da parte del liberalismo teologico, che voleva persuadere il mondo moderno non più con gli argomenti della Rivelazione biblica, ma con i melliflui richiami del sentimento religioso. Non è un caso, quindi, che Turrettini sia stato dimenticato, perché troppo ingombrante dal punto di vista confessionale. Il fatto che, per la prima volta, l’opus magnum di Turrettini sia proposto in edizione italiana è motivo di compiacimento, perché, finalmente, il meglio della teologia protestante italiana è messo a disposizione di coloro che parlano la lingua che fu anche di Turrettini. – Leonardo De Chirico, professore di teologia storica all’Istituto di Formazione Evangelica e Documentazione, Padova.
Francesco Turrettini
ISTITUZIONE DELLA TEOLOGIA PERSUASIVA
A cura di Pietro Bolognesi
Francesco Turrettini
ISTITUZIONE DELLA TEOLOGIA PERSUASIVA Fascicolo 3:
Su Dio uno e trino A cura di Pietro Bolognesi
Istituzione della teologia persuasiva Fascicolo 3: Su Dio uno e trino Francesco Turrettini A cura di Pietro Bolognesi Proprietà letteraria riservata: BE Edizioni di Monica Pires P.I. 06242080486 Via del Pignone 28 50142 Firenze Italia Coordinamento editoriale: Filippo Pini Impaginazione: Samuele Ciardelli Revisione: Irene Bitassi Copertina: Alan David Orozco Prima edizione: Maggio 2017 Stampato in Italia Tutte le citazioni bibliche, salvo diversamente indicato, sono tratte dalla versione Diodati. ISBN 978-88-97963-53-0 Per ordini: www.beedizioni.it È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata compresa la fotocopia, anche ad uso interno didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto verso l’autore e gli editori e mette a rischio la sopravvivenza di questo modo di trasmettere le idee.
Locus terzo: Su Dio uno e trino Quaestio I Se l’esistenza di Dio possa essere dimostrata in maniera incontrovertibile contro gli atei. Lo affermiamo I. Sebbene τὸ θεῖον (il divino) sia ἄπειρον καὶ ἀκατάληπτον (infinito e incomprensibile), come bene osserva Damasceno (Esposizione della fede 1.4 [PG 94.797]), e sebbene dire cose vere intorno a Dio sia, per la sua somma ὑπεροχὴν (eccellenza) persino pericoloso, come afferma Cipriano, tuttavia, poiché Dio si è degnato di rivelarsi a noi sia nella natura che nella Scrittura e poiché è necessario che chi si avvicina a Dio creda che egli è ed è rimuneratore di quelli che lo ricercano (Eb 11,6), lo studio intorno a Dio ha, in teologia, il primo posto e abbraccia nel suo ambito la somma di tutta la sapienza salvifica, sulla quale dobbiamo istruirci, in maniera tale che, mentre scrutiamo nel timore e nel tremore le cose rivelate del Signore, non indaghiamo però temerariamente i misteri che volle riservare solo a sé, “affinché non siamo trovati illecitamente curiosi in questi, né riprovevolmente ingrati in quelli”, come dice Prospero d’Aquitania (De vocatione omnium gentium 1,21* [PL 51.674]). II. La ricerca teologica può essere compiuta sotto tre diversi aspetti. Anzitutto, ai fini di sapere quod sit (che egli è), contro gli atei, in relazione alla sua esistenza. In secondo luogo, per conoscere quid sit (che cosa egli sia), contro i pagani, in relazione alla sua natura e ai suoi attributi. In terzo luogo, per apprendere quis sit 7
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(chi egli sia) contro i giudei e gli eretici, in relazione alle persone. I primi due aspetti riguardano Dio considerato οὐσιωδῶς (dal punto di vista dell’esistenza e della sostanza), l’ultimo Dio contemplato ὑποστατικῶς (dal punto di vista ipostatico) e in rapporto alle persone. III. Sebbene Deum esse (il fatto che Dio è) sia principio indubitato della religione, che dev’essere presupposto più che dimostrato, tanto chi osa negare questo dev’essere piuttosto frenato con punizioni che confutato con prove, come dice il filosofo, tuttavia la presente quaestio è resa ai nostri giorni necessaria dall’esecrabile pazzia degli atei, di cui questo secolo corrottissimo è troppo fecondo e che non si vergognano di opporsi empiamente a questa chiarissima verità. IV. La quaestio non è se la vera conoscenza salvifica di Dio abbia luogo ovunque fra gli uomini – nessuno, infatti, nega che il vero Dio è stato ed è tuttora ignoto alla maggior parte delle genti, che appunto per questo vengono chiamate dall’apostolo (Ef 2,12) ἄθεοι (atee) – ma, piuttosto, se la conoscenza della divinità sia a tal punto innata per natura negli uomini che nessuno possa ignorarla completamente; ovvero se l’esistenza di Dio possa essere dimostrata con ragioni incontrovertibili non solo sulla base della stessa Scrittura, ma anche della natura stessa: i profani e gli atei non temono di negarlo, noi lo asseriamo. L’esistenza di Dio può essere dimostrata. V. La dimostrazione della divinità si basa essenzialmente su quattro fondamenti: 1) la voce universale della natura; 2) la contemplazione dell’uomo stesso; 3) la testimonianza della coscienza; 4) il consenso dei popoli. Dio, meraviglioso artefice del mondo, impresse, infatti, nelle singole parti di esso così profonde tracce della sua maestà che quanto comunemente si racconta dello scudo di Minerva – nel quale Fidia aveva inserito la sua immagine tanto abilmente che non poteva essere tolta senza rompere l’intera opera – di gran lunga a maggior Fascicolo 3
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diritto debba dirsi qui, che cioè Dio non può essere strappato dalla natura senza che essa risulti tutta rovinata e sconvolta. 1) Dalla subordinazione delle cause. VI. 1) La natura dimostra Dio, poiché proclama non tanto di essere, quanto di essere da un Altro e di non poter essere senza un Altro. Infatti, se dev’essere certo e indubitato che nihil a seipso fieri, et nihil esse sui ipsius causam (niente è creato da sé stesso e niente è causa di sé stesso) – perché se così fosse, sarebbe prima e dopo di sé stesso – è anche certo che si deve postulare un Ente primo e improdotto, dal quale siano tutte le cose, ma che non sia esso stesso da nessuno. Infatti, se ogni ente fosse stato prodotto, avrebbe dovuto esserlo o da sé o da un altro: non da sé, perché, com’è già stato detto, nulla può essere causa di sé; non da un altro, perché in tal caso conseguirebbe che o è possibile un processo all’infinito nelle cause producenti, oppure che si compia un circolo, tesi entrambe insostenibili. Infatti, quanto al circolo risulta chiaro che non può darsi, poiché nelle cose che sono state fatte si postula un estremo che non fu fatto da un altro; si aggiunga che un circolo siffatto è impossibile, poiché, dato questo, risulterebbe che la medesima cosa è creata da sé stessa ed è causa, almeno indirettamente, di sé stessa e nulla è più assurdo di ciò. Neppure un processo all’infinito nelle cause può aver luogo, poiché nelle cause necessariamente deve aversi un ordine con un prima e un dopo, mentre un processo all’infinito rifiuta ogni ordine; infatti, in tal caso, nessuna causa sarebbe prima, ma tutte sarebbero medie e avrebbero una causa prima di sé, anzi, non ci sarebbe nessuna causa che non dovesse avere infinite cause precedenti, il che è ἀσύvστατον (assurdo). Senza dubbio, se prima di ogni singola causa ci fossero cause infinite, prima di tutto l’immenso numero e l’insieme delle cause ci sarebbero già cause infinite e così tale insieme non sarebbe totale. Ancora: se, risalendo dagli effetti alla causa, non si potesse mai pervenire alla causa prima, allo stesso modo scendendo dalle cause agli effetti, non si potrebbe mai giungere Su Dio uno e trino
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all’ultimo effetto, poiché ciò che è infinito non può maggiormente essere percorso nel risalire che nel discendere. Bisogna dunque necessariamente fermarsi su di una causa, che sia prima, in maniera tale da non riconoscerne alcuna precedente e così il processo delle cause non dev’essere in infinitum (all’infinito), bensì ad infinitum (verso l’infinito) nel quale terminerà. 2) Dal fatto che il mondo ha avuto un inizio. VII. 2) La novitas mundi (il fatto che il mondo abbia avuto un inizio) insieme al principio del moto e del tempo implica necessariamente che Dio è. Infatti, se il mondo ha avuto un inizio e se è vero che non ha potuto essere da sé, è necessario che abbia avuto origine da qualcuno: dunque non poté essere da altri che da Dio. Ora molte cose provano che il mondo ha avuto un inizio e non è eterno. Infatti, il tempo non può essere ab aeterno, perché, se fosse stato eterno, dall’eternità sarebbe esistito l’avvicendarsi del giorno e della notte, ma ciò è ἀσύvστατον (assurda), infatti, non è ammissibile che il giorno e la notte siano stati dall’eternità: poiché certo o sarebbero stati insieme, il che crea contraddizione, o successivamente uno all’altro, il che elimina l’eternità. Inoltre, se il tempo fosse eterno, non si sarebbe potuto dare un primo giorno; infatti, se si dà un primo giorno, evidentemente il tempo ha avuto un inizio; se non si dà nessun primo giorno, un giorno ha preceduto ogni giorno, cioè il giorno è stato prima che il giorno fosse. In terzo luogo, se il tempo fu eterno, evidentemente gli anni furono infiniti, infiniti i mesi, i giorni e le ore; ma il numero dei mesi, degli anni e dei giorni o sarà eguale oppure no: se eguale, conseguirà che una parte è eguale al tutto e che il tutto non è maggiore della sua parte,; se ineguale, evidentemente si darà un più e un meno nell’infinito. In quarto luogo, o nessun giorno fu ab aeterno oppure lo furono tutti oppure qualcuno soltanto. Se è vera la prima cosa, il tempo non è ab aeterno, l’esperienza insegna che la seconda è falsa, la terza non si può affermare, perché se qualche giorno è stato ab aeterno, la sua durata Fascicolo 3
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avrebbe dovuto essere infinita e senza principio, cosa che crea contraddizione, poiché essa è delimitata da ventiquattr’ore. In quinto luogo, ogni moto è con successione e questa implica un prima e un dopo, cosa che è in aperta contraddizione con l’eternità. In sesto luogo, se il sole si è mosso ab aeterno e ha illuminato il mondo, ciò è avvenuto o rispetto al nostro emisfero o, all’opposto, agli antipodi, oppure rispetto ad ambedue insieme. Le prime due cose non si possono affermare, perché ciò che accade in successione di tempo non è eterno, né si può affermare la terza, perché è impossibile che il sole illumini nello stesso tempo l’uno e l’altro emisfero; infatti, avrebbe dovuto trovarsi in più luoghi nello stesso tempo e ovunque sarebbe stato giorno e non ci sarebbe stata nessuna notte. VIII. Se gli uomini fossero stati ab aeterno, si darebbero infinite generazioni di uomini succedentisi tra loro e il numero degli uomini che fin qui vissero sarebbe infinito, ma non può ammettersi un processo all’infinito nelle generazioni, come già abbiamo detto, né il numero degli uomini che sin qui vissero può essere infinito, poiché aumenta di continuo, laddove nulla può essere aggiunto all’infinito. Inoltre o ab aeterno ci fu un uomo o non ce ne fu nessuno: se nessuno, gli uomini non sono ab aeterno e non sono stati prodotti da Dio; se uno, non avrebbe potuto essere generato da un altro, poiché ciò che è prodotto da un altro è posteriore a esso, mentre ciò che è eterno non riconosce nulla prima di sé. IX. Invano viene addotta dagli atei, per confermare la possibilità di un processo all’infinito, la considerazione dell’eternità a parte post, perché, come nel discendere nell’eternità a parte post è dato un primo, sebbene non sia dato un ultimo, e mai si giunge all’ultimo, così risalendo nell’eternità a parte ante si può dare un ultimo, sebbene non sia dato un primo. Senza dubbio si paragonano qui cose di gran lunga diverse, ciò che è stato ed è di fatto passato e ciò che mai sarà o passerà: infatti, la durata del tempo passato e la successione degli uomini che sin qui vissero, è stata e non è più, mentre Su Dio uno e trino
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la durata del secolo futuro e degli uomini che in esso vivranno è tale che mai si può dire che sia passata. Inoltre, si può ammettere certo l’inizio di una cosa senza fine, come nella durata degli angeli e delle anime, ma non si può ammettere una fine senza inizio, poiché la fine di necessità presuppone un principio da cui la cosa abbia avuto origine. Per questa ragione non é valida la conseguenza che, se nell’eternità a parte post può darsi una durata che abbia avuto un inizio e non avrà una fine, si può dunque dare, nell’eternità a parte ante, una durata che abbia una fine e non abbia, tuttavia, mai avuto un inizio. 3) Dalla bellezza del cosmo. X. 3) L’ammirabile bellezza e ordine del cosmo implicano la medesima cosa. Infatti, se l’ordine in generale richiede sapienza e intelligenza, un ordine perfettissimo presuppone di necessità una perfettissima e infinita sapienza, che chiamiamo Dio. Dunque, è cieco chi non vede e assai malvagio chi non ammette che ovunque è ben manifesto un ordine meraviglioso, in una così conveniente disposizione delle parti, in così inalterabile concordia di cose tanto discordi, così bel concento e consenso di creature diversissime, così rapido e insieme regolare moto dei corpi celesti e così immutabile stabilità e costanza dell’ordine posto un volta per sempre. In tal modo, non soltanto i cieli narrano la gloria di Dio, ma qualsiasi filo d’erba e tenero fiore nel prato, pietruzza sul lido, piccola conchiglia nel mare predica non solo la sua potenza e bontà, ma anche la sua πολυποίκιλος (multiforme) sapienza, tanto che Dio, facendosi incontro a ciascuno, può essere trovato, almeno come a tastoni. Di qui Agostino: “Poiché, oltre la testimonianza dei profeti, il mondo stesso, con i suoi cambiamenti e i suoi movimenti così ben ordinati, e con lo splendore di tuttte le cose visibili, proclama tacitamente, per così dire, di essere stato fatto, e fatto da un Dio ineffabilmente e invisibilmente grande, ineffabilmente e invisibilmente bello” (La città di Dio 11.4 [PL 41.319]). XI. Potresti dire che queste cose sono state così disposte dal caso Fascicolo 3
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e da un fortuito incontro di atomi. Ma io non so se una menzogna tanto empia e assurda sia degna di confutazione, perché codeste cose indicano non τύχην (caso), bensì grandissima τέχνην (arte). Infatti, le cose che sono fatte dal caso sono confuse e disordinate e non hanno nulla di costante e uniforme, mentre nulla è maggiormente ben regolato e ordinato di questa compagine dell’universo: dunque, affermare che questo mondo così adorno e bello si è formato per un incontro fortuito di atomi equivale a ritenere che “se innumerevoli forme delle ventuno lettere dell’alfabeto fossero lanciate in qualche luogo, queste, cadute a terra, potrebbero comporre gli Annali di Ennio, in maniera tale che potessero poi essere letti”, come dice Cicerone (Sulla natura degli dèi 2.93); lo stesso molto efficacemente nel medesimo luogo, citando da Aristotele, dice: “Immaginiamo che degli esseri siano sempre vissuti sotto la superficie terrestre in dimore accoglienti e lussuose, ornate di statue e di dipinti e fornite di tutti gli agi che si pensa rendano l’uomo felice, e supponiamo che non essendo mai saliti alla superficie abbiano appreso, per sentito dire, che esisterebbe una volontà e una potenza divina, se a un certo momento, spalancatesi le fauci della terra, fosse loro concesso di abbandonare la loro recondita dimora e di risalire verso le regioni che noi abitiamo, uscendo alla luce, certamente essi, all’improvvisa vista della terra, dei mari e del cielo, all’improvvisa estensione delle nubi e della potenza dei venti, di fronte allo spettacolo del sole, della sua grandezza e della sua bellezza, non disgiunte da una fattiva potenza, in forza della quale esso produce il giorno inondando il giorno con la sua luce; di fronte alla visione del cielo, al cadere delle tenebre sulla nostra terra, certamente essi, dicevamo, concluderebbero che gli dèi esistono realmente e che a essi è dovuta la realizzazione di opere sì grandi” (Sulla natura degli dèi 2.95). 4) Dal fatto che tutte le cose tendono a un fine. XII. 4) Il fatto che tutte le cose tendono a un fine conferma questa stessa cosa. Su Dio uno e trino
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Infatti, tutti gli elementi naturali, siccome agiscono in vista di un fine, che sempre conseguono certamente e infallibilmente, devono di necessità essere governati dall’intendimento di una guida. Senza dubbio la natura, poiché non fa nulla invano, se agisce per un fine, deve o essa stessa conoscere e ricercare codesto fine oppure, se non lo conosce e non lo ricerca, essere diretta a esso da un altro. Tuttavia, poiché molte delle cose naturali sono incapaci d’intendere, in quanto sono inanimate e ἄλογοι (prive di ragione), necessitano dell’altrui intendimento, da cui possano essere dirette; codesto intendimento, però, non può essere attribuito ad altri che all’Autore e al Rettore della natura. Né si deve dire che nelle singole cose è l’intendimento della natura stessa a dirigerle ai loro fini. Infatti, tale natura o sarà la naturale proprietà di ciascuna cosa e ciascuna natura singolare (ma in che modo essa può essere capace di intendimento, se le cose stesse sono brute?) o sarà una natura comune, raccolta dalle nature delle cose singole (ma la natura comune non è al di fuori delle nature singolari) o sarà una qualche sostanza intelligente e sussistente, dal cui intendimento tutte le cose sono dirette, è trasformare la natura in Dio e, nello stesso momento in cui lo si nega, riconoscere Dio sotto il nome di natura, conclusione a cui porta il famoso parere del filosofo, il quale dice che “l’opera della natura è l’opera di un’intelligenza che non erra”. 5) Dall’uomo stesso. XIII. 5) Tuttavia, l’uomo non ha bisogno di sollecitare altri testimoni, né di uscire da sé stesso, perché ha nel suo seno un maestro domestico di questa verità e se allontana da tutti il suo sguardo e lo rivolge su sé stesso, riconoscerà nel microcosmo una sapienza non minore che nel macrocosmo e contemplerà ammirato la divinità, visibile nel suo corpo, scintillante nella sua mente. Infatti, da dove il corpo è costruito con arte così meravigliosa e assolutamente splendida? Da dove tante diverse membra concreate con mutua connessione e disposte tanto opportunamente per le funzioni proprie a ciascuna, se non da uno Spirito immenFascicolo 3
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so? Da dove la mente, particella dell’aura divina, fornita di tante facoltà, ornata di tante doti, se non da un’intelligenza suprema? Certamente questa immagine ripete il suo prototipo e non c’è nessuno, se appena voglia essere attento, che non solo non oda e veda Dio presente in sé, ma anche – per così dire – lo tocchi e lo tasti. 6) Dalla coscienza. XIV. 6) L’esistenza di Dio è dimostrata soprattutto dal potere della coscienza e dal tormento della stessa, compagno inseparabile di ogni misfatto iniziato o consumato. La sensibilità della coscienza non può essere affievolita, né la sua accusa evitata, né la testimonianza corrotta, né la citazione in giudizio trascurata, né il tribunale ricusato. Infatti, com’è possibile che, compiuto un misfatto (anche di nascosto e senza testimoni), la coscienza sia tormentata, quando non incombe alcun pericolo da parte degli uomini, persino in coloro che sono costituiti nel grado più alto del potere, se non perché essa è presa da un sentimento profondissimo della divinità? Ciò è stato constatato in Nerone, Caligola e non pochi altri: di qui Giovenale (Satire 13): Cur tamen hos tu Evasisse putes, quos diri conscia facti Mens habet attonitos, et surdo verbere caedit Occultum quatiente animo tortore flagellum,
(“Ma perché pensi che restino impuniti quelli che la coscienza del male compiuto rende costernati e che, con il tormento in cuore del carnefice, un occulto staffile logora di sordide ferite?”) e Ovidio (Fasti I.485): Conscia mens, ut cuique sua est, ita concipit intra pectora, pro facto spemque metumque suo.
(“La coscienza, come ciascuno n’è fornito, così fa nascere nei cuori sia la speranza che il timore per quanto si è compiuto”). Da dove provengono quei terrori della coscienza che si aggirano contiSu Dio uno e trino
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nuamente intorno ai delitti troppo atroci, se non dal sentimento di un Vendicatore e di un Giudice, che, essa percepisce chiaramente dovunque, anche se non lo vede? Infatti, quei terrori non possono provenire da un qualche timore delle leggi civili, ossia di una punizione o infamia temporale, sia perché queste non si temono, se non per misfatti manifesti (i soli che le leggi civili e, in conformità a esse, i giudici possono punire) sia perché attanagliano anche coloro che non riconoscono alcun superiore sulla terra e perciò non possono essere giudicati da nessuno. Come accade, altrimenti, che, quando sovrasta un improvviso pericolo o sorge un repentino terrore, coloro che sembravano aver cancellato ogni divinità dall’animo, tremino per il timore di un nume irato e ne implorino l’aiuto con preghiere giaculatorie e gemiti? Cosa invero fa trepidare coloro che sono profani nell’intimo più segreto o negano soltanto in cuor loro che Dio è? Dirai forse che si tratta di un timore vano: ma, se è vano, da dove proviene? Perché è così tenace e invincibile, anche quando non c’è nessun motivo di temere? Chi o che cosa è temuto da colui che solo con sé stesso è conscio dei suoi pensieri, che è sicuro di non aver nessun ascoltatore o testimone o giudice di essi? Sé stesso? Ma è il miglior amico di sé. Gli altri? Ma essi ignorano che cosa egli pensi o macchini nell’animo. Quindi, se costoro volessero essere tranquilli, proverebbero con la bocca, ciò che negano con il cuore. Perché allora non sarebbero tranquilli? Dunque, vogliano o non vogliano, devono credere che esiste un dio, che la stessa retta ragione insegna a temere e comanda di riconoscere ovunque come Signore e Giudice di tutti. XV. Né può opporsi il fatto che Paolo (Ef 4,19) dice che gli uomini talvolta giungono a tal punto di malizia da essere resi ἀπηλγηκότες (insensibili) cioè incapaci di quel dolore che la coscienza suole per tutti gli altri riguardi incutere, anzi a un punto così estremo da avere la coscienza κεκαυτηριασμένην (cauterizzata), bruciata con il cauterio e quindi privata di ogni sensibilità e rimorFascicolo 3
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so, come si esprime l’apostolo (1Tm 4,2). Infatti, ciò indica certo il tentativo e il desiderio di siffatti uomini profani, nonché l’effetto di questo tentativo, che appare all’esterno, quando mostrano esteriormente sfrontatezza per codesto peccato e un animo indurito ai delitti, quasi non fossero oppressi dalla consapevolezza dei delitti e dal morso della coscienza; non mostra però quali siano dentro all’animo. Questo effettivamente non appare, possono nasconderlo in pubblico e se vengono osservati dall’esterno, sono senza sensibilità, senza dolore, anzi anche affermeranno apertamente di esserne immuni, se però si potesse vederli nel loro intimo, il loro animo apparirebbe inquieto, agitato da durissime spine. Tuttavia, non vorrei negare come possa accadere che, dalla consuetudine con il peccato, riescono a contrarre come una callosità della coscienza, tanto da sembrare talvolta e per parecchio tempo aver perduto ogni senso del peccato da non sentire o non curare il morso della coscienza, soprattutto quando tutte le cose scorrono per loro secondo i desideri, quando ci sono le forze e la salute è buona e non manca il pubblico favore. Ma non si può dire che abbiano perduto del tutto ogni sensibilità; la coscienza dorme, non è morta, è resa ebbra dalla carne, non è spenta, altrimenti, come potrebbe Paolo dire che gli uomini “che non hanno la legge […] son legge a sé stessi [e] mostrano, che l’opera della legge è scritta ne’ lor cuori per la testimonianza che rende loro la lor coscienza; e perciocché i lor pensieri infra sé stessi” di quando in quando e a distanza di tempo “si scusano, od anche si accusano” (Rm 2,14-15) delle azioni cattive e buone? 7) Dal consenso dei popoli. XVI. 7) Si aggiunge il costante e continuo sentimento e consentimento di tutte le genti. Infatti, sebbene i popoli abbiano avuto opinioni diverse sulla natura della divinità, sul numero, sul modo e la forma di onorarla, e sebbene abbiano errato moltissimo in maniera assai sconveniente, tuttavia, in tanta varietà di pensieri, tutti concordemente ritengono che vi è un dio, il quale dev’essere onorato. “Nessun popolo è tanto feroce e Su Dio uno e trino
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selvaggio”, afferma Cicerone “ che, pur ignorando quale dio sia giusto avere, non sappia che bisogna avere un dio” (Le leggi 1,8). Anzi, questa nozione si è radicata così profondamente negli animi degli uomini da renderli convinti che una cosa qualsiasi è dio, piuttosto che di non riconoscere alcun dio e da far loro preferire di avere un dio falso, piuttosto che nessun dio. Di qui è accaduto che si siano prostrati davanti a pietre, legni e a quanto vi è di più spregevole, piuttosto che restar privi di ogni divinità, cosa che non si sarebbe mai verificata nell’uomo, superbo per natura, se la persuasione dell’esistenza della Divinità non fosse stata fortissima. Infatti, sebbene talvolta fra gli uomini se ne trovino alcuni al di fuori d’ogni norma, che (con la temerarietà dei giganti) hanno dichiarato guerra per negare Dio (come testimonia il salmista: “Lo stolto ha detto nel suo cuore: Non vi è Dio”, Sl 14,1), ciò deve intendersi più degli atei pratici che teorici (come sarà provato in seguito) e inoltre questi non devono essere opposti al consenso comune e generale di tutti; né il furibondo tentativo di coloro che si sforzano di soffocare tale conoscenza – e muoiono persino in tale ostinata negazione – deve pregiudicare il giudizio universale di tutti gli altri, il quale è diffuso ovunque in tutte le parti della terra e perdura da tanti secoli costantissimamente. Allo stesso modo, i mostri e i prodigi che talvolta si vedono contro natura non possono distruggere le leggi ordinarie poste da Dio, né la pazzia di pochi mentecatti cancella la definizione per cui diciamo che l’uomo è un animale razionale. XVII. Dunque, poiché un consenso così costante e universale di tutti i popoli circa questa verità primigenia non può aver origine da un semplice desiderio (esso in molti, anzi, tenderebbe alla rimozione della divinità, che temono fortemente per i loro misfatti, piuttosto che alla sua presenza), né può dipendere soltanto dall’autorità dei potenti o dalla tradizione degli antenati (essa non avrebbe mai potuto essere tanto efficace da produrre questo consenso universale negli animi di tutti), è necessario che tragga origine dall’eviFascicolo 3
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denza stessa della cosa, la quale è così grande da non poter sfuggire a nessuno, purché in possesso delle sue facoltà intellettuali, nonché da un intimo sentimento della divinità, che Dio ha impresso nei singoli perché nessuno potesse ricorrere al pretesto dell’ignoranza, anzi affinché gli uomini (comprendendo tutti quanti che Dio è ed è il loro Creatore) fossero condannati per loro stessa testimonianza di non averlo riconosciuto. A questo si riferiscono le seguenti parole di Giamblico (I misteri degli egiziani 1): “La conoscenza degli dèi (anzi, più che la conoscenza, un toccar con mano la divinità) è naturalmente insita in noi, prima di ogni uso della ragione”. Ciò corrisponde a quel τὸ γνωστὸν τοῦ Θεοῦ (quel che si può conoscere di Dio), che Dio volle fosse manifesto tra le genti (Rm 1,19), spiegando il quale Damasceno (Esposizione della fede 1.1 [PG 94.789]) dice: “Πᾶσι ἡ γνῶσις τοῦ εἰναι Θεὸν ὑπ’αυτου φυσικῶς ἐγκατσεπαρται” (in tutti la conoscenza dell’esistenza di Dio è stata naturalmente congenerata da Dio stesso). XVIII. Del resto poco importa spiegare tale sentimento sia come conoscenza naturale immessa nell’uomo da Dio, sia come nozione comune, sia come concetto della mente, sia, con i più moderni, come idea di Dio, quale Essere perfettissimo impressa nelle nostre menti: la cosa sembra giungere alla stessa conclusione, che cioè nei singoli dalla nascita è insito il sentimento della Divinità, il quale non tollera di essere nascosto e spontaneamente si manifesta in tutti gli adulti dotati di mente sana. Solo osserviamo che meno propriamente si può affermare che in noi viene impressa l’idea di Dio, se per idea si designa un aspetto e un’immagine intellegibile di Dio nelle nostre menti, che ci rappresenti chiaramente e distintamente la quidditas e l’essenza di Dio, cosa che l’infinita maestà di Dio rifiuta e la nostra intelligenza finita e fragile non contiene. In che modo, infatti, potrebbe darsi in una mente finita l’immagine di un Essere infinito, sia in ogni modo adeguata, sia chiara e distinta? Né, se per certo dalla comune conoscenza e dal suggerimento della Su Dio uno e trino
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coscienza la mente può ricevere quod Deus sit, immediatamente consegue che possiamo subito comprendere quis et qualis sit, con un concetto chiaro e distinto, quale si suppone essere quest’idea di cui parliamo. Senza contare che sicuramente un’idea chiara e distinta di Dio, se è possibile in noi in qualche misura, può aversi non dalla natura, che a causa del peccato è ottenebrata e accecata, bensì soltanto dalla rivelazione soprannaturale della Parola di Dio, nella quale Dio si è manifestato a noi apertamente, sebbene questa stessa conoscenza, rispetto alla gloria, sia soltanto come riflessa in uno specchio (2Co 3,18) ed enigmatica, cioè ancora imperfetta e molto oscura. XIX. A conferma della medesima verità si possono aggiungere non poche altre prove, desumendole dalle profezie delle cose future e meramente contingenti, che non avrebbero potuto essere predette con tanta sicurezza di gran lunga prima dell’evento, se non da una mente onnisciente, dalle eroiche azioni dei grandi uomini, che non avrebbero potuto darsi senza afflato divino, dai mutamenti e dalle cadute degli imperi, che la cosa stessa proclama essere in relazione al dito di Dio, dai giudizi pubblici e dalle punizioni dei delitti, che vengono inflitti da una vendetta punitiva, dai miracoli, che superano la forza della natura, anche presa nel suo insieme. Infatti, poiché essa non può far nulla al di là delle sue forze e d’altra parte non solo la Scrittura attesta, ma anche gli ebrei e i pagani ammettono che più volte nel mondo si sono verificati miracoli, deve darsi un Essere perfettissimo, maggiore e più importante della natura tutta, alla cui virtù vengano ascritti: questo ente non può essere altri che Dio. XX. Queste prove dunque e altre simili, ricavate dalla contemplazione delle opere divine e dai profondi penetrali della natura, con le quali codesti blasfemi θεόμαχοι (nemici di Dio) possono essere trafitti, vengono ancor più luminosamente confermate dall’irrefragabile testimonianza della Parola, la quale, mettendo in evidenza chiari segni della sua divinità (come precedentemente è stato Fascicolo 3
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visto) e dichiarando in vari passi Dio come suo autore, scolpisce a caratteri indelebili questa persuasione negli animi dei credenti. XXI. Possono aggiungersi anche queste prove ad hominem, che sono in grado d’indurre lo stesso ateo a credere nella Divinità, se non appunto per Dio e per difendere la religione, almeno per lui stesso e la sua utilità. Infatti, se non c’è Dio, nessuno stato e nessuna società nel mondo saranno sicuri, poiché senza virtù e senza religione non può essere sicuro nulla; ma se non c’è Dio, non ci sono neppure la virtù e la religione. Cosa sarà il mondo, se non un mero covo di briganti, nel quale a ciascuno sarà lecito ciò che gli piacerà, nel quale non vi sarà nessun ordine o divieto sacro, nessun diritto a comandare, nessuna necessità di ubbidire, nel quale i migliori saranno i più furbi e i padroni i più forti? La licenza di coloro che comandano e la ribellione dei sudditi non saranno represse da nessun freno e ciascuno impunemente agirà compiacendo al suo animo. Ancora, se Dio non è, nessuno dei mortali potrà essere neppure per un momento riparato o sicuro dalla violenza, dalla frode, dallo spergiuro, dall’uccisione, dal sangue. A ogni singola ora tutto dovrà temersi: infatti, rimosso l’argine della Divinità, che luogo sarà dato alla fede e all’innocenza? Che cosa non resterà aperto alla licenza e alla violenza? Infatti, per quanto riguarda gli editti umani, oltre al fatto che non possono mutare in meglio l’animo, ma al contrario lo rendono astuto e intento a tutte le arti dell’inganno, qual posto sarà loro dato, se, tolto il sentimento della divinità, la consapevolezza di ciò che è giusto e ciò che non lo è resta priva di ogni motivazione? Fontes solutionum della quaestio. XXII. 1) Sebbene Dio non si apra ai sensi comprehensive, quale è in sé stesso, tuttavia può esser percepito apprehensive, per come splende nelle sue opere, si vede nei segni, si ode nella Parola, si manifesta nella costruzione dell’intero universo. 2) Erroneamente si suppone come non si trovi nulla nell’intelletto che non sia stato prima nei sensi. Infatti, gli universali sono nell’intelletto e non sono mai stati nei sensi: l’anima, Su Dio uno e trino
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come anche l’angelo, sono conosciuti e tuttavia non si sentono né si vedono, se non dagli effetti. Perché mai dunque Dio non dovrebbe essere conosciuto con piena certezza dalle sue opere e a posteriori, anche se non possiamo percepirlo con gli occhi o con gli altri sensi del corpo? XXIII. Una cosa è che rispetto a noi nel mondo possano darsi confusione e ἀταξίαν (disordine) apparenti (ammettiamo ciò) un’altra cosa che vi sia vera e reale confusione da parte di Dio e ciò lo neghiamo: infatti, le cose che ci sembrano completamente perturbate, presso Dio sono ordinatissime. XXIV. Sebbene nel mondo varie cose sembrino inutili, anzi molto nocive e pericolose e siano preparate per la rovina del mondo stesso e per l’estrema miseria del genere umano, come i vulcani orrendi e vomitatori di fuoco, i quali con la perpetua eruzione di fiamme e di ceneri sommergono in una acerbissima rovina campi, villaggi, città e intere regioni, insieme agli uomini e agli altri esseri viventi, come gli abissi marini, gli scogli che causano naufragi, le erbe velenose e gli animali nocivi e altre cose di tal genere, non consegue che il mondo non sia stato fondato da un Essere sommamente buono e sapiente e che non sia governato dallo stesso. Infatti, oltre al fatto che la gloria del Creatore rifulge chiarissimamente da tutte queste cose, nulla è tanto inutile e sembra a noi tanto nocivo, che in vari modi non risulti utile sia all’uomo che alle altre creature. Neanche consegue immediatamente che, siccome non possiamo comprendere i vari vantaggi di queste cose, non ci sia in esse alcun vantaggio. XXV. La prosperità degli empi e la sventura dei pii mettono in evidenza il governo sapientissimo di Dio, il quale volge tutte queste cose alla sua gloria e alla salvezza dei pii. Non devono al contrario far vacillare la fede nella Divinità. Confermano anzi la verità della celebrazione di un giudizio finale dopo la morte, quando ciascuno riceverà cose conformi alla fede e alle azioni. Fascicolo 3
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XXVI. Il bene infinito non elimina subito ogni male, qualora sia un agente liberissimo, non legato da necessità. Infatti, giudica più conveniente alla sua sapienza e alla sua onnipotenza permettere il male, per trarre da esso il bene, che il non concedere l’esistenza del male. XXVII. L’affermazione che Dio è a seipso (da sé stesso) deve intendersi piuttosto in senso negativo, in quanto egli non è da nessuno, è certamente αὐτοζωὴ (la vita stessa in sé) e αὐτοὼν (l’essere stesso in sé), che non in senso positivo, quasi fosse causa di sé stesso e ciò crea contraddizione, perché Dio verrebbe a essere prima e dopo di sé stesso. XXVIII. Una cosa è servirsi della religione e del sentimento della divinità per costringere i popoli all’ubbidienza e tenerli fermi al dovere, un’altra, invece, imporre ai popoli tale persuasione della divinità, sia pure falsa. Ammetto certo che i legislatori hanno fatto la prima cosa e che uomini astuti hanno inventato nella religione moltissime favole, con cui ispirare reverenza e incutere terrore nel popolino, per averne più ossequenti gli animi. Tuttavia, non avrebbero mai ottenuto questo, se già in precedenza le menti umane non fossero state impregnate di quella costante persuasione intorno a Dio, dalla quale come da un seme emerge la propensione alla religione. Inoltre, chi potrebbe credere che quell’opinione, che agita così profondamente le coscienze, anche nei delitti nascosti, sia stata diffusa in tutte le parti della terra e sia rimasta costante per tutti i secoli solo per la forza o l’astuzia di pochi? Chi non vede che, se la persuasione della Divinità fosse dovuta all’autorità delle leggi e al timore del supplizio, non avrebbe potuto durare più a lungo di quanto non fosse perdurato il giogo della schiavitù? Al contrario, è invece certo che essa è diffusa fra tutti gli uomini, anche i più liberi e sciolti dai vincoli delle leggi.
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Finalmente in italiano un classico della teologia che ha arricchito per secoli il pensiero evangelico. In questo terzo fascicolo, Turrettini tratta di Dio e della Trinità, elevandosi sulle vette più alte della riflessione teologica. In via preliminare, affronta la questione dell’ateismo e sebbene si tratti di un’opera didattica, trapela anche il suo intento apologetico. L’inizio del mondo, la bellezza della creazione e il fine di ogni cosa suggeriscono l’esistenza di un Dio a cui non si può rimanere indifferenti. Quindi, viene analizzato il nome di Jehovah, l’unicità di Dio e i suoi attributi. La semplicità, l’immensità, l’eternità, l’immutabilità rimandano a un Dio meraviglioso, di cui vengono esaminati dettagliatamente la scienza (naturale e libera), la volontà (antecedente e conseguente, efficace e inefficace, condizionale e assoluta), la giustizia, la bontà, l’amore, la grazia, la misericordia, la potenza e la sovranità. Infine, ci si occupa della dottrina della Trinità, la quale permette di superare le contraddizioni di un mondo appiattito su un solo elemento oppure travolto da una diversità inarrestabile, ponendo il cristianesimo in uno spazio del tutto originale tra il rigido monoteismo e il politeismo diffuso.
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