PAGA ANTALONE
Palazzi pubblici venduti ai privati rezzi convenienti. Per anni gli enti hanno pagato affitti salati. Ora bisogna ricomprare. Uno scandalo costato miliardi ai contribuenti
L’INTERVISTA
Un Bad Guy nel Paese accomodante. La latitanza trentennale di Messina Denaro
LA CATTURA DEL BOSS
Il lusso è lentezza, dice Giorgio Armani. Il bello dura nel tempo
Carlo Cottarelli: Perché è giusto spendere per avere case più green
L’OPINIONE
SETTIMANALE DI POLITICA CULTURA ECONOMIA 4 euro
Alessandro Mauro Rossi
La penso come Pietro Grasso, l’ex magistrato antimafia. A caldo, commentando l’arresto del superlatitante Matteo Messina Denaro, ha detto di essersi appena congratulato con gli investigatori e i magistrati, ma ha aggiunto che poi avrebbe esteso i suoi complimenti ai rappresentanti delle istituzioni. Perché il merito di questo successo non appartiene a questo o a quel partito, a questo o a quel leader politico, ma allo Stato, alle sue istituzioni.
Gli investigatori, i carabinieri, i Ros, i poliziotti, i magistrati, tutti coloro che sono impegnati nella lotta al crimine non hanno, o almeno non dovrebbero avere, una tessera
Nemmeno lo Stato ha sempre avuto la coscienza pulita
di partito in tasca. Solo così si possono conseguire successi investigativi, solo non guardando in faccia nessuno, solo non chiudendo un occhio, solo camminando dritti con la propria coscienza come unico giudice. Una coscienza pulita, immersa nel senso dello Stato. Eppure, lo Stato a volte non ha la coscienza pulita. È vero che Matteo Messina Denaro era un superlatitante, è vero che disponeva di tanti soldi, connivenze sul territorio, complicità in Italia e all’estero. Ma è anche vero che 30 anni sono lunghi, i metodi investigativi sono cambiati e gli investigatori si sono avvicendati; ma è anche vero che per anni se l’è probabilmente spassata a un palmo dal naso di chi gli dava la caccia o avrebbe dovuto dargliela. Allora il sospetto sorge spontaneo: si è trattato di inefficienze? O di complicità? Viene in soccorso la memoria: come si spiegano i pasticci del dopo-arresto di Totò Riina, giusto 30 anni pri-
Contro la mafia le istituzioni devono dimostrarsi efficienti, democratiche, forti. Così la lotta sarà ad armi pari
ma di Messina Denaro? Come si giustifica la sparizione della famosa agenda rossa di Borsellino? Come si spiega una lunga stagione della storia d’Italia, dal primo Novecento ai giorni nostri, nella quale Cosa Nostra è stata occulta e spietata protagonista?
Mi raccontava Enrico Bellavia, caporedattore de L’Espresso e profondo conoscitore dei fenomeni mafiosi, che la mafia degli anni ’50 del secolo scorso, prima dell’avvento del megabusiness della droga, sapeva infiltrarsi senza problemi negli affari di tutti i giorni. E che Giovanni Falcone riuscì a sgominare alcune cosche proprio seguendo la pista degli assegni per prestanome negli affari immobiliari di Palermo. La mafia non è più quella per certi versi ma torna sempre all’origine: i proventi principali oggi arrivano dal traffico della droga, mai affare fu probabilmente più redditizio, ma poi questi proventi, fiumi di denaro, vanno reinvestiti, riciclati. E allora si torna concettualmente all’antico: agli affari, all’industria, all’immobiliare; si fa un passo nel futuro con il tech e le criptovalute, la mafia non difende più i pascoli siciliani con la coppola e la lupara, ma ha il colletto bianco, dispone di tecnologie, di tanto denaro. Agisce come un soggetto dell’economia legale, inquinandola.
Tutti dicono che il 16 gennaio, con l’arresto di Messina Denaro, è stata una bella giornata. Come lo fu il 15 gennaio 1993 per Riina e come lo fu l’11 aprile 2006 per Bernardo Provenzano. Vero. Bellissime giornate per lo Stato e l’Italia onesta. Nessuno però si è mai azzardato a dire che la mafia è stata sconfitta. Infatti, dopo Riina ci sono stati Provenzano e altri come lui, dopo Provenzano Messina Denaro e altri come lui. Dopo Messina Denaro ce ne saranno altri come lui. Purtroppo. L’importante è che ci sia sempre anche lo Stato, forte, democratico, efficiente, pulito. Allora sarà una lotta ad armi pari, senza quinte colonne, con in più l’Italia perbene alleata delle Istituzioni. E allora quella lotta potremo anche vincerla davvero.
22 gennaio 2023 3 EDITORIALE
Carlo Cottarelli
La direttiva europea sull’efficientamento degli edifici ha provocate pesanti reazioni da parte di vari esponenti della maggioranza, tra cui Salvini («la casa degli italiani è sacra, non si tocca e non si tassa»), Foti (Fdi; «patrimoniale camuffata») e Gasparri (Fi; «cervellotica visione dell’Ue»). Chiariamo la questione. La direttiva per ora è stata approvata solo dal Consiglio Europeo, convocato a livello di ministri dell’Energia, il 25 ottobre, col voto favorevole del ministro Pichetto Fratin. Quindi, il governo ha votato a favore del provvedimento, anche se forse il ministro, alla sua prima riunione, non
Case più efficienti sono necessarie al nostro futuro
aveva, come dire, beneficiato di un’ampia consultazione con i suoi colleghi. Il Parlamento Europeo deve ora approvare la direttiva (1500 emendamenti presentati). Il primo voto è previsto il 9 febbraio alla Commissione Industria per una discussione in aula forse a marzo. Poi ci sarà il cosiddetto “trilogo” tra Commissione, Consiglio e Parlamento per concordare un testo comune. Quindi un nuovo voto da Consiglio e Parlamento. Questa fase potrebbe essere completata entro sei mesi. Infine, la direttiva deve essere trasposta nella legislazione dei vari paesi. Insomma, il percorso è lungo.
Veniamo alla sostanza. Nella versione della direttiva approvata dal Consiglio Europeo (con il voto, ripeto, del governo italiano) vi sono diverse disposizioni per edifici pubblici, privati non residenzia-
La maggioranza strilla contro la direttiva Ue. Che però il suo ministro ha approvato a Bruxelles
li e residenziali, nuovi e vecchi. Per semplicità, mi concentro sui vecchi edifici residenziali, quelli che più ci preoccupano. Entro il 2033 tutti questi edifici dovranno aver raggiunto almeno la classe energetica D (con la classe E come traguardo intermedio al 2030), anche se eccezioni sono permesse. I dati Enea-Cti indicano che il 78% delle nostre case (circa 9 milioni) richiederebbe una ristrutturazione. È una sovrastima perché basata sulla classe dichiarata alla compravendita (non necessariamente affidabile) e non comprende gli interventi del superbonus (quasi 400.000). Ma si tratterebbe comunque di ristrutturare parecchi milioni di case, un intervento costoso e complicato da gestire. La direttiva prevede la possibilità di sussidi pubblici, ma, anche ipotizzando interventi contenuti, lo sforzo richiesto potrebbe essere dell’ordine dei 100-200 miliardi (quest’ultima cifra è l’intero importo dei finanziamenti ricevuti per il Recovery Plan).
Che fare? Una cosa è certa: abbiamo edifici che consumano troppo, che gonfiano le nostre bollette e che inquinano troppo. Non sono solo le emissioni di C02: per esempio, in Lombardia il riscaldamento delle case è tra le principali cause di emissione di polveri sottili, che certo non fanno bene ai nostri polmoni. Quindi, la ristrutturazione dei nostri edifici è necessaria. Invece di demonizzare la direttiva europea dovremmo allora cercare di negoziare un percorso di aggiustamento che tenga conto delle nostre peculiarità e di ottenere dall’Ue finanziamenti che aiutino lo sforzo italiano nell’ investire nelle nostre case, il cui valore aumenterà. Ripeto, è un investimento non una patrimoniale. Questo investimento comunque deve esserci se ci teniamo al nostro pianeta, alla nostra salute e magari ad avere una bolletta più bassa.
PER PARTITO PRESO
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Ogni anno più prezioso.
Francesca Barra
laudia è in tribunale e davanti a lei c’è Matteo, il ragazzo di diciannove anni che, la notte del 25 aprile del 2011, ha aggredito al posto di blocco due carabinieri riducendo in coma suo marito Antonio. È arrabbiata, si sente come una candela che si sta esaurendo e in quell’aula urla al giovane di guardarla negli occhi, di rendere conto del dolore procurato. Come tutti vorrebbe solo che fosse punito, che ricevesse una pena esemplare.
Matteo si gira e i loro sguardi si incrociano: sta piangendo.
Anche Irene, sua mamma, è disperata. Fino a quel giorno aveva vissuto la sua mater-
Claudia e Irene, diventate amiche grazie al perdono
nità fra alti e bassi, affrontando i cambiamenti fisiologici di suo figlio più evidenti e altri non percepiti. Viene catapultata in una realtà a cui nessuno, nemmeno l’istinto materno prepara: suo figlio ha quasi ucciso un uomo. Nella pratica diventa una sorta di assistente legale, un ponte fra tribunali, comunità e carcere. Un luogo, quest’ultimo, che aveva visto soltanto in televisione. È anche la madre di un’altra figlia adolescente, a cui deve preservare il diritto alla felicità in un contesto sociale che difficilmente si mostra indulgente. Capisce di dover fare di più e così, malgrado i dolori siano imparagonabili, scrive a Claudia. Non cerca il suo perdono, ma chiederglielo, anche senza risposta, è un dovere che sente nel profondo.
Claudia sta gestendo l’inferno, la depressione, la sofferenza di suo figlio e l’elaborazione di un lutto, mentre suo marito fi-
La moglie della vittima e la madre dell’omicida. Nel dolore, si uniscono per dare una chance a chi sbaglia
sicamente è ancora presente, attaccato ai macchinari, ma in realtà non può più sentirla. Quella lettera riaccende una luce, ammorbidisce la rabbia e le due donne si avvicinano perché si riconoscono attraverso il dolore. Il perdono si ottiene con la verità, la conoscenza e la responsabilità.
Antonio muore dopo tredici mesi di coma e Matteo riceve una condanna per omicidio, prima all’ergastolo e poi ridotta a vent’anni di reclusione. C’è chi esulta: giustizia è fatta. Tutti pensano, infatti, che è in quel momento che si ottiene la giustizia. Quando il mostro è in cella ed è possibile dimenticarsi di lui, buttando la chiave. Tutti lo pensano, tranne le due donne ormai avvitate l’una all’altra.
Claudia prova un male fisico e uno nell’anima, dettato dalla certezza che nessuno le avrebbe riportato indietro suo marito. «È davvero così che si spegneranno le nostre vite da oggi, senza rimettere in circolo l’amore e con una condanna che di fatto ti dimostra che uno vale uno?»
Una seconda possibilità è una speranza che non andrebbe mai tolta a nessuno, nemmeno in carcere, luogo che non deve ammazzare, ma riabilitare. Ed è quello che fa Claudia quando perdona Matteo iniziando con lui un percorso di riconciliazione. Le due madri, ormai amiche, hanno creato un’associazione dal nome Amicainoabele per connettere le famiglie delle vittime e quelle dei detenuti.
Matteo sta scontando la sua pena, si è laureato e ha compiuto un lungo percorso che l’ha reso diverso. Lavora per aiutare i minori detenuti a recuperare le loro esistenze, con don Claudio, fondatore dell’associazione Kayrós. Un’opportunità attraverso le arti in modo che un ragazzo migliori la versione di sé stesso. Ha anche costituito una casa discografica a sostegno di giovani artisti: Attitude Recordz. Il passato non si cancella, ma ogni vita ha un valore.
C 7 BELLE STORIE
22 gennaio 2023
Maurizio Costanzo
è sempre una buona notizia. Infatti leggo che gli scimpanzé sanno curarsi da soli e per medicare le ferite si fanno loro medesimi impacchi di insetti che hanno, pare, effetti antidolorifici, antinfiammatori. Gli scimpanzé non hanno farmacie quindi, cercano l’insetto, lo catturano, ne fanno poltiglia e l’applicano come medicamento. È anche apprezzabile che si curino l’un l’altro e tutti accettino questi medicamenti. Possiamo dire, perciò, con tranquillità che tra gli scimpanzé non esistono “No-vax”.
Rimaniamo nel campo della pseudomedicina in quanto leggo che l’Unione Europea
scimpanzé
ha autorizzato l’immissione sul mercatodel grillo domestico in polvere, parzialmente sgrassato, come nuovo alimento. Però, vengo informato che la maggioranza degli italiani ha bocciato i grilli a tavola. Pensate quanto questi animali siano costantemente di attualità. I grilli si mangiano e poi si dice: «Quello ha tanti grilli per la testa». Non ho mai sentito dire: «Quello ha tante cavallette per la testa».
C’è un mistero in Germania e lo segnalo alla vostra attenzione. Un fortunato giocatore del Lotto non si è presentato a riscuotere il proprio ricchissimo premio vinto al Lotto medesimo. Si tratta di un milione di euro. Noi siamo sempre pronti a parlare di vincite che possono cambiare la vita. Ma cosa può spingere uno che vince un milione al Lotto a non presentarsi a riscuotere? Pensate che alla Lotteria Italia del 6 gennaio tre premi di diverse entità
Le scimmie si medicano a vicenda con impacchi di insetti. Non capita mai che qualcuno rifiuti le cure
sono stati vinti a Roma. Ebbene, nel Quartiere Prati della medesima, ne sarebbero stati venduti due ed è una caccia a scoprire quale biglietteria li abbia venduti. Chi non è più giovanissimo, ricorderà le file dai tabaccai quando esisteva la schedina del totocalcio per sapere se si era vinto, molto o poco non era importante, bastava vincere.
Non so perché la schedina del totocalcio non s’è più fatta, ma ci saranno dei motivi. Non credo per mettere un freno al gioco perché, comunque, il pubblico, in un modo o nell’altro, continua a giocare. Una volta, molti anni fa, mi trovai a Las Vegas e persi la testa per la quantità di slot machine in perenne servizio effettivo, notte e giorno.
Mi accade talvolta d’imbattermi in notizie singolari. Leggo che in Ghana vive un uomo alto 2 metri e 89 cm. Ha 29 anni e pare che sia la persona più alta del mondo. Si chiama Sulemana Abdul Samed. Io credo che non viva al meglio, anche perché chi è così alto, con chi dialoga?
E c’è anche da dire che, ovviamente, stante i 2 metri e 89 cm ha problemi alla schiena. Se ci pensate, Biancaneve aveva 7 nani, non 7 giganti. Il gigante è innaturale. Avevo un compagno di scuola più alto della media e tutti, anche con un po’ di monotonia, gli chiedevano: «Che tempo fa lassù?». Già, i compagni di scuola. Più passa il tempo e più la fotografia scolastica, che era un classico, si sbiadisce nella memoria.
A voi che mi leggete, capita ogni tanto di ripensare a un compagno o a una compagna di scuola? La mia generazione ha vissuto i primi flirt, che già è una parola forte, nelle festicciole organizzate nelle case di uno o di un altro.
Recentemente mi è venuta voglia di sapere che fine avevano fatto le mie compagne del ginnasio e del liceo. Ma ho desistito. Il passato rimanga nel passato.
C’ 22 gennaio 2023 9
Non esistono i “No-vax” tra gli
PER BUONA MEMORIA
PROTAGONISTI SU OGNI STRADA
Il successo è qualcosa di molto personale e dipende dalla sicurezza con cui si affronta la propria strada, qualunque essa sia, chiunque noi siamo.
Mettiamocelo bene in testa.
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Diletta Bellotti
Con l’espansione di quella che si prospetta essere la miniera più grossa d’Europa, Garzweiler II, nel paesino di Lützerath, la Germania firma per l’apocalisse climatica e s’impegna a violare gli accordi di Parigi che limitano l’aumento della temperatura globale a 1,5°C rispetto ai livelli preindustriali. La CO2 emessa nel bruciare la lignite estratta dalla miniera a cielo aperto, nella Renania Settentrionale-Vestfalia, è equivalente a quella che emette l’intera Grecia in un anno. Fino a domenica scorsa, nel paese resisteva un solo contadino, Eckardt Heukamp, il resto del villaggio, ormai
non oltre” Chi difenderà il limite climatico
sfollato, era stato occupato da più di un centinaio di attivisti che si opponevano al suo fianco all’espansione della miniera da parte del gigante tedesco dell’energia Rwe.
Nelle seconda settimana di gennaio, il villaggio, occupato da più di due anni, è stato sgomberato da oltre ottomila poliziotti, mentre più di trentamila persone, confluite da tutto il mondo, resistevano tra barricate, tunnel e case sugli alberi. La multinazionale più inquinante d’Europa ha dichiarato che estrarrà 280 milioni di tonnellate di lignite entro il 2030. Sempre entro il 2030, invece, la Germania si era prefissata di ridurre le emissioni di CO2 del 65 per cento e di diventare carbon neutral entro il 2045; obiettivi climatici che ora sembrano essere completamente fuori portata e che invece invigoriscono l’unico, supremo e inar-
restabile potere che plasma la contemporaneità: quello distruttivo, annichilente e totalizzante della catastrofe climatica.
Carlo Levi, nella prefazione del 1963 a “Cristo si è fermato a Eboli”, parla di «potenza contro il potere» e ne parla a proposito di un linea che non viene attraversata da chi è umano. A ogni passo falso, a ogni conferma di ipocrisia, i governi, forse inconsapevolmente, si scollano da una realtà urgente e fortificano, così, la potenza delle comunità resistenti contro il loro potere. Dal 2015, Ende Gelände ha organizzato in Germania azioni di disobbedienza civile di massa occupando varie miniere di carbone in Renania, in Lusazia e a Lipsia. Il nome del movimento riprende un’espressione tedesca che si può tradurre con «qui e non oltre», ma anche, più letteralmente forse, con «finis terrae», il limite della terra e, per estensione, un confine non valicabile.
I movimenti climatici chiedono la sopravvivenza sul pianeta Terra di tutte le specie viventi, chiedono di non toccare mai il punto di non ritorno, per farlo si affidano alla scienza e tracciano insieme ciò che non può essere oltrepassato, oltre al quale si sprofonda nel caos. Chiedono di ideare e realizzare un mondo più giusto, più equo.
Lützerath, in questo senso, era stato designato come «limite climatico»; nel distruggerlo, il governo tedesco non ha solo sfollato una comunità resistente, ma ha confermato, ancora una volta se si è prestata attenzione, che nessun cambiamento verrà dall’alto, ha reiterato la sua complicità e la sua assenza. Chi resiste deve, quindi, continuare a mobilitarsi oltre i confini dello scibile e dell’immaginabile. Così, chi detiene il potere, ironicamente, ha preteso dagli attivisti, europei e non, di rafforzare la loro organizzazione e la loro resistenza, fuori da ogni forma di governabilità.
RESISTENTI
“Qui e
In Germania il governo sgombera gli occupanti contro la miniera. Il cambiamento verrà dal basso
22 gennaio 2023 11
C’era una volta l’umano, che temeva la follia più di ogni cosa e i suoi rari momenti di felicità non erano che momenti di follia. C’era una volta l’umano, che pretendeva tranquillità e niente lo angosciava quanto la tranquillità. L’umano, che voleva vivere millenni e si annoiava ogni minuto. Che voleva diventare un robot perché si fidava più del progetto di un ingegnere che di quello di un dio. Che a occhi aperti sognava di volare e a occhi chiusi sognava di cadere. C’era una volta l’umano, che incontrava per caso un altro umano e ci faceva un bambino insieme perché altrimenti non sapeva come passare le domeniche di pioggia. L’umano, che odiava i genitori e quando i genitori morivano odiava se stesso per avere odiato loro. Che voleva girare il mondo e che tutti gli altri stessero a casa propria. Che voleva a ogni costo esprimere se stesso e solo se stesso e quando finalmente gliene veniva data l’occasione si trovava a ripetere quello che esprimevano gli altri. Che aveva bisogno di credere in qualcosa, qualsiasi -ismo andava bene, e che si era ridotto a credere in chi era pieno di gas, nel meteorismo. Che più urlava il suo ateismo più l’ateismo si rivelava una scaramanzia metafisica. Che aveva illuminato il mondo intero perché in fondo aveva soltanto paura del buio. Che si inginocchiava per i neri, si rasava per le iraniane, si tappava la bocca per i gay e si teneva le mani in tasca per i mendicanti. Che per paura delle dittature instaurava dittature. Che non era riuscito a cambiare se stesso e allora aveva cambiato il pianeta. Che costruiva la Grande Muraglia Cinese e distruggeva la grande barriera corallina. Che dava ai cani nomi da figli e ai figli nomi da cyborg e ai cyborg nomi da cani. Che a simpatia mangiava certe specie di animali e certe altre no. Che immaginava pure la sofferenza delle piante anche se le piante non urlavano. Che su umani, animali e piante sganciava bombe atomiche. Che da morto donava il cuore e da vivo stuprava i morti. Che desiderava superare tutto ciò che era umano e non c’era niente di più umano di quel desiderio.
Foto: Shutterstock, Rouhana / Reuters / Contrasto. Foto pagine 14-15: Afp / Getty. Foto pagine 16-17: E. Ruth Mbabazi. Foto pagine 18-19: S. Ziyadat/WireImageGetty Images. Foto pagine: M. Gonzalez/Getty Images. Foto pagine 20-21: A. Iovino. Pagine 22-23: I. Alvarado –Reuters / Contrasto
L’ESPRESSO ICONOGRAFICO DI OLIVIERO TOSCANI 12 22 gennaio 2023
EDITORIALE
A volte ho la sensazione di essere solo al mondo. Altre volte ne sono sicuro.
Attenti a que che cercano continuamen da soli non s
EDITORIALE
lli te la folla, ono nessuno.
EDITORIALE
Ero dotato, sono dotato. A volte mi guardo le mani e mi rendo conto che sarei potuto diventare un grande pianista o qualcosa del genere.
Ma che cos’hanno fatto, le mie mani?
Mi hanno grattato le palle, hanno scritto assegni, hanno allacciato le scarpe, hanno tirato la catena del water ecc.
Ho sprecato le mani. E la testa.
EDITORIALE
L’amore è una forma di pregiudizio. Si ama quello di cui si ha bisogno, quello che ci fa star bene, quello che ci fa comodo.
Come fai a dire che ami una persona, quando al mondo ci sono migliaia di persone che potresti amare di più, se solo le incontrassi? Il fatto è che non le incontri.
Lagrandezzadell’uomo
EDITORIALE
ènelladecisione diesserepiùforte
della sua condizione.
PRIMA PAGINA
Danni tra quattro e 20 milioni di euro. I registi dell'assalto ai palazzi dei Tre Poteri, in Brasile. E la rete che li protegge
Trafigura, colosso delle materie prime, fornirà il petrolio all’impianto di Priolo ex Lukoil. Non è l’unico legame con le imprese degli oligarchi di Putin
ECONOMIA
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La faccia identica al padre, le cure, gli amici, il consenso. I rapporti con la borghesia e la politica. Matteo Messina Denaro incarna la mafia
Il brutto affare dei palazzi pubblici Sergio Rizzo 26 POLITICA Un Bad Guy nella città accomodante Enrico Bellavia 34 Veleni e misteri sui verbali spariti Marco Bova 38 Partiti in rosso ma chi decide è Fratelli d’Italia Carlo Tecce 40 La politica aggiunge un posto a tavola Giorgio Chigi 43 Linea Cuperlo, sinistra è chi sinistra fa colloquio con Gianni Cuperlo di Susanna Turco 46 Salari bassi, silenzi a sinistra Diego Roveta 50 Se i giovani scappano, è subito sera Luciano Canova 52 La strana coppia Gualtieri-Santanché Marco Ulpio Traiano 54 Democrazia europea sotto attacco colloquio con Roberta Metsola di Massimiliano Coccia 56 Melina a Milano, ripartenza a Roma Gianfrancesco Turano 58 Impianti, bar e maglie. Ecco le squadre green Antonia Matarrese 60 Un Paese a mano armata. Per sport Pietro Mecarozzi 64
Trafigura dalla Russia con petrolio Vittorio Malagutti 68 86
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L’Espresso fa parte in esclusiva per l’Italia del Consorzio internazionale dei giornalisti investigativi
numero 3 - anno 69 - 22 gennaio 2023
Il grande stilista Giorgio Armani parla di sé e della moda del futuro. “Definirsi è un esercizio che dopo gli 80 anni non si può rimandare”
Per approfondire o commentare gli articoli o inviare segnalazioni scrivete a dilloallespresso@lespresso.it I nostri giornalisti vi risponderanno e pubblicheremo sul sito gli interventi più interessanti
Vivendi cerca soldi nella rete Giorgio Chigi 74 Venerdì chiuso. Lavorare meno, lavorare meglio Matteo Novarini 78 Rivoluzione verde, il treno che il Paese sta rincorrendo Gloria Riva 82 Il conto salato del golpe fallito Daniele Mastrogiacomo 86 CULTURA Il lusso è lentezza colloquio con Giorgio Armani di Giuseppe Fantasia 88 Nel Regno del Piccolo Principe Sabina Minardi 94 Una proposta irrifiutabile colloquio con Corrado Guzzanti di Claudia Catalli 98 L’incoscienza della Memoria Massimo Castoldi 102 Ricordare senza i testimoni Wlodek Goldkorn 103 Che ansia la prima volta colloquio con Margherita Buy e Paolo Genovese di Emanuele Coen 104 Nel suo intervento, Diletta Bellotti parla della miniera Garzweiler II, in Germania, la più grande d’Europa, occupata dagli ambientalisti e sgomberata dal governo tedesco In copertina: illustrazione di Ivan Canu NEMMENO LO STATO HA SEMPRE AVUTO LA COSCIENZA PULITA AlessandroMauroRossi 3 Opinioni PER PARTITO PRESO CarloCottarelli 5 BELLE STORIE FrancescaBarra 7 PER BUONA MEMORIA MaurizioCostanzo 9 RESISTENTI DilettaBellotti 11 PAROLE DI LIBERTÀ NicolaGraziano 33 PALAZZOMETRO VirmanCusenza 45 L’INTERVENTO DarioNardella 49 BANCOMAT AlbertoBruschini 77 L’INTERVENTO FabrizioBarca 85 BENGALA RayBanhoff 122 Rubriche IO C’ERO - OlivieroToscani 12 LIBRI - SabinaMinardi 109 TEATRO - FrancescaDeSanctis 110 ARTE - NicolasBallario 111 MUSICA - GinoCastaldo 113 TELEVISIONE - BeatriceDondi 114 CINEMA - FabioFerzetti 115 ANIMALI - ViolaCarignani 117 CUCINA - AndreaGrignaffini 118 VINO - LucaGardini 119 POSTA - StefaniaRossini 120 98 Corrado Guzzanti 88
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PRIMA PAGINA LA STANGATA 26 22 gennaio 2023
Immobili venduti
ai privati a prezzi convenienti. Gli enti costretti a rimanerci in affitto. Ora, diciotto anni dopo, devono ricomprare. Ecco chi ha guadagnato miliardi a spese dello Stato
IL BRUTTO AFFARE DEI PALAZZI PUBBLICI
22 gennaio 2023 27
IImmaginate di essere costretti a vendere la vostra bella casa perché vi servono soldi. Dalla vendita incassate un milione. Ma siccome non vi potete trasferire, immaginate di dover rimanere lì, pagando un affitto al nuovo proprietario dell’ex vostro appartamento. Con un contratto che siete stati obbligati a firmare controvoglia: un canone dell’8 per cento annuo e tutte le spese a carico vostro. Immaginate poi che quel contratto debba durare 18 anni. E alla fine non sappiate dove andare. Così dovete indebitarvi per ricomprare l’ex vostro appartamento, a un prezzo maggiorato. Bilancio finale: un milione incassato, tre milioni spesi.
Ognuno con le sue proprietà è libero di fare ciò che vuole, direte. Anche perderci un sacco di soldi, magari per imprudenza o stupidità. Ma se un giochetto del genere si fa con proprietà dello Stato, cioè di tutti noi, allora la questione diventa molto più seria.
Prendete il caso della sede provinciale dell’Inps, a Bari. Lungomare Nazario Sauro 41, posizione invidiabile. Per 18 anni, dopo che il palazzo è stato ceduto per una decina di milioni insieme ad altri 395 immobili degli istituti previdenziali a un fondo privato, il Fondo immobili pubblici (Fip) gestito dalla Sgr InvestiRe, che fa capo al banchiere Giampietro Nattino, lo Stato ha pagato un affitto salito nel tempo a quasi un milione l’anno. Nel 2020, esattamente 951.253 euro e 27 centesimi. Sempre lo Stato, intanto, sostiene come da contratto tutte le spese di manutenzione straordinaria, dagli infissi al condizionamento. E adesso che sono scaduti i 18 anni contrattuali, al 31 dicembre 2022, lo Stato se lo deve ricomprare pagando 12 milioni 940 mila euro, più 530 mila di spese notarili e imposte, dal privato cui il Fondo immobili pubblici l’ha venduto. Perché non può fare diversamente. Il privato è la società Luigi Dimola & figli, che l’ha acquistata con un mutuo di 9 milioni del Monte dei paschi di Siena. Bilancio finale: una decina di milioni incassati dalla vendita, e una trentina spesi fra affitti, manutenzioni e riacquisto del bene. Un capolavoro, a proposito del quale il collegio sindacale dell’Inps a dicembre 2022 non
BARI
La sede dell’Inps di Bari. Una decina di milioni incassati dalla vendita, e una trentina spesi fra affitti, manutenzioni e riacquisto del bene
ha mancato di raccomandare «per il futuro, nella fase delle trattative, una maggiore ponderazione dei margini individuati al fine di conseguire la massima economicità». Anche perché il prezzo pagato è superiore del 10 per cento al valore di mercato pari a 11 milioni 772 mila euro.
Vicenda incredibile ma niente affatto isolata. Sempre l’Inps, per esempio, ha già concluso altre operazioni simili su immobili ceduti 18 anni fa al Fip, che l’ha poi a sua volta venduti ad altri privati. Come il riacquisto della sede di Ferrara dalla Finalca srl per 10 milioni 590 mila. O della sede di Pesaro, per altri 8 milioni 300 mila, sempre dalla stessa società dell’imprenditore bolognese Alfredo Cazzola, ex presidente del Bologna Calcio e della Virtus pallacanestro che nel 2009 ha tentato pure lo sbarco in politica, candidandosi a sindaco della città emiliana per il centrodestra. Ma senza fortuna.
Difficile dire quanti dei 396 immobili dello Stato finiti nel 2004 ai privati torne-
PRIMA PAGINA LA STANGATA
Canone stabilito all’8 per cento del valore di vendita. Durata, diciotto
anni, spese a carico degli affittuari. Una cuccagna denunciata in una relazione della Corte dei Conti presto dimenticata
28 22 gennaio 2023
SERGIO RIZZO illustrazione di Ivan Canu
ranno ora in mano pubblica, e a quale prezzo. «C’è solo un aspetto positivo», dice mestamente un alto dirigente di uno degli enti previdenziali spogliati 18 anni fa di tutto quel ben di Dio. «È che ora almeno possiamo scegliere». Scegliere, cioè, se comprare o no. E forse è già qualcosa, considerando che in 18 anni la tecnologia ha fatto passi da gigante e tutti quegli spazi magari non servono più. Però è una ben magra consolazione, al confronto di una delle più colossali stangate che lo Stato italiano abbia subito. Una stangata da 5 miliardi almeno.
Tutto comincia con il secondo governo di Silvio Berlusconi. È l’epoca delle famose cartolarizzazioni degli appartamenti degli enti previdenziali, venduti con supersconto a chi ci abita. Sarà un mezzo disastro.
Ma quelle sono case, sulle quali peraltro gli enti ci rimettono un bel po’ di soldi. Qualcuno ci specula, di sicuro. Nel complesso però è solo un grande favore agli inquilini, anche se assai discutibile.
Ben diversa invece la faccenda degli immobili strumentali, quelli dove Inps, Inail e gli altri enti pubblici hanno i loro uffici. Qui il disegno della privatizzazione segue un altro percorso. E ben più che discutibile. Il 9 giugno 2004 al ministero dell’Economia c’è ancora Giulio Tremonti; direttore generale è Domenico Siniscalco. Quel giorno il Tesoro sforna il decreto che costituisce il Fip, nel quale lo Stato trasferisce 396 immobili pubblici strumentali degli enti di previdenza. Delle quattro banche consulenti che seguono l’operazione una sola è italiana: Banca Imi. Le altre sono Lehman Brothers, Barclays e Royal Bank of Scotland. Il primo problema sono le valutazioni. Ci pensa forse un’agenzia fiscale o un altro soggetto pubblico? Nossignore. Se ne occupa un privato. È la Reag, consociata italiana dell’americana American Appraisal, che a sua volta si avvale di un’altra società privata. Ossia la Ipi dell’immobiliarista Luigi Zunino, che l’ha appena acquistata dalla Fiat e presto la
Foto: Donato Fasano
22 gennaio 2023 29
PESARO
Una vesuta di Pesaro.
A destra: Giulio Tremonti (sopra) e Domenico Siniscalco
rivenderà a Danilo Coppola, dopo averne invano trattato la cessione a Stefano Ricucci. E il bello è che a indicare questa società come consulente per stabilire i valori degli immobili è la stessa Sgr del banchiere Nattino nel frattempo incaricata di gestire il fondo. Segnale preciso della piega che prenderà questa storia.
La stima per i 396 immobili si arresta a circa 3,7 miliardi. Ma quando si tratta di confermare la valutazione dei privati per dare il via libera all’affare, l’Agenzia del Territorio cui il Tesoro ha chiesto il giudizio di congruità dice che quello non è il valore reale. Quello giusto sarebbe di 509 milioni più alto. La differenza però misteriosamente evapora, fa notare nel 2006 una relazione della Corte dei Conti.
L’autore è Luigi Mazzillo, magistrato che nel 1990 Rino Formica ha messo a capo dei superispettori del Fisco. Il suo rapporto è esplosivo. Denuncia che non è stata svolta alcuna due diligence sui fabbricati. E che,
pur sapendo che «nella maggior parte dei casi» le dimensioni degli immobili in possesso dell’Agenzia del demanio «divergevano in maniera significativa rispetto a quelle rilevate dalla Ipi spa non sono stati programmati specifici sopralluoghi». Il motivo? «La mancata verifica veniva spiegata con i tempi brevi di risposta, oltre che con la considerazione che di tale verifica non fosse pervenuta nessuna richiesta da parte del Tesoro».
Se l’erano forse dimenticato? Macché. Il Tesoro ha fretta, tanta fretta. L’affare va chiuso entro il 31 dicembre 2004, e non c’è tempo da perdere. Pazienza se lo Stato è costretto a cedere ai privati quasi 400 immobili per un prezzo di «ben 823 milioni», calcola Mazzillo, «al di sotto del valore di mercato». Il meglio però deve ancora venire. Contestualmente al passaggio degli immobili al fondo, l’Agenzia del demanio stipula un contratto d’affitto di nove più nove anni dei medesimi immobili impegnandosi a pagare 270 mi-
PRIMA PAGINA LA STANGATA
30 22 gennaio 2023
lioni e 424.402 euro l’anno. E siccome alla fine l’incasso complessivo per il Tesoro sarà di 3 miliardi e 579 milioni, ecco che il canone medio oltrepassa il 7,5 per cento. Quasi il doppio del costo medio del debito pubblico nel 2005. Nonché una volta e mezzo il tasso di rendimento medio delle locazioni commerciali a Milano: pari quell’anno secondo Nomisma, al 5,3 per cento.
Una follia. Tutta esclusivamente a beneficio delle banche e dei privati cui il Fondo venderà molti immobili trasferiti al fondo, dice senza mezzi termini la relazione di Mazzillo. Dove ce n’è anche per i quattro istituti consulenti che insieme alla Cassa Depositi e Prestiti anticipano al Tesoro un finanziamento di 993 milioni e portano a casa quando rientrano di quei soldi, appena otto mesi dopo, 99 milioni commissioni e altre voci senza che nessuno al governo alzi un dito. Una vergogna, fa capire il magistrato. Ce ne sarebbe abbastanza per rovesciare il tavolo.
MILIARDI DI EURO incassati per la vendita degli immobili 3,579
Invece la relazione di Mazzillo finisce sepolta in un cassetto. La tirerà fuori di tanto in tanto qualche giornalista, ma senza provocare rivolte di piazza.
Al banchetto degli immobili pubblici, intanto, i compratori partecipano in massa. Dai gruppi Benetton e Del Vecchio ai fondi Olimpia del Kennedy Wilson Europe Real Estate, Pacific one di Blackstone e Cromwell Europa, a imprese di facility management (Miorelli), per arrivare a industriali della plastica (Faraotti) o a singoli imprenditori come Ferruccio Zambaiti e Carlo Marini.
Si fa a gomitate e non è difficile capire il perché. Le condizioni di favore sono inimmaginabili. Si stabilisce, per dirne una, che le manutenzioni straordinarie sono a carico del conduttore. Che gli immobili sono esenti dal pagamento dell’Ici. E che alla scadenza dei 18 anni, se l’ente pubblico affittuario non ricomprerà il palazzo ma vorrà andarsene, dovrà lasciare i locali in perfetto stato o pagare un indennizzo corrispondente. Esattamente ciò che in qualche situazione si sta verificando. La prova? Per lasciare un ufficio a L’Aquila l’Inps deve pagare al proprietario un indennizzo di 34.280 euro più Iva.
Non bastasse, il canone prende anche magicamente il volo. I 270 milioni concordati con l’Agenzia del demanio a fine 2004 diventano 283 nel 2010, 289 nel 2012, 298 nel 2013… Per gli stessi 39 immobili Inps lo Stato paga nel 2014 un canone di 44 milioni 452.765 euro, che sale nel 2020 a 50 milioni 953.753 euro. L’aumento è del 12 per cento, che si giustifica solo in parte con un altro gradito omaggio. Concesso stavolta, quel che è ancor più grave, in un momento drammatico per le finanze statali.
Luglio 2012, a palazzo Chigi c’è Mario Monti. La situazione è difficile, lo spread fra i titoli di stato italiani e i bund tedeschi viaggia ancora intorno ai 470 punti base
GLI IMMOBILI venduti e poi riaffittati
MILIONI DI EURO i canoni di affitto annuali
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Foto:Scattolon/ Foto A3, Casasoli / Foto A3, C. GhislaEyeEm / Getty Images
Tra i beneficiari, banchieri come Nattino, fondi americani come Blackrock, immobiliaristi come Zunino, grandi gruppi familiari come Benetton e Del Vecchio. E parecchi altri
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PRIMA PAGINA LA STANGATA
FERRARA
Il centro storico di Ferrara. A destra, dall’alto: Luigi Zunino e Alfredo Cazzola
e si deve fare un decreto per tenere sotto controllo la spesa pubblica. Dove spunta un articolo intitolato: «Riduzione dei costi per locazioni passive». Il primo comma blocca gli adeguamenti Istat per i canoni degli immobili che lo Stato prende in affitto dai privati. Ma al comma 8 la sorpresa: il blocco non si applica al Fondo immobili pubblici né ai suoi “aventi causa”. E gli adeguamenti all’inflazione, bloccati per tutti gli altri, per loro continuano sfacciatamente a correre.
Ma si leccano i baffi anche gli azionisti della Sgr Investire immobiliare. Fra cui c’è anche la società Regia della famiglia Benetton. Famiglia che tra l’altro ha acquisito nel 2018 per 150 milioni dal fondo gestito dalla Sgr, di cui è azionista, il palazzo di piazza Augusto imperatore, a Roma, poi affittato alla catena di hotel di Bulgari.
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Dal 2004 al 2021 la Sgr di Nattino e soci ha realizzato utili netti per 117,7 milioni di euro. Mentre i contribuenti, scaduti ora i fatidici 18 anni, ne escono con le ossa rotte. A fronte di 3 miliardi e 579 milioni incassati per la vendita dei 396 immobili, lo Stato ha sborsato attraverso l’Agenzia del demanio (anch’essa inquilina del Fip) canoni annuali da 270 a 300 milioni l’anno. Cioè oltre 5 miliardi, cui si devono aggiungere i costi per le manutenzioni straordinarie, quantificabili in un centinaio di milioni nel solo periodo 2009-2020 documentabile attraverso le relazioni della Corte dei Conti. Senza che sia rimasto nelle mani dello Stato un solo mattone. E ora, costretti a raschiare il fondo del barile per far quadrare i conti, dobbiamo tirare fuori altri soldi se vogliamo ricomprare ciò che abbiamo venduto favorendo la speculazione. Per dovere di cronaca, la maggioranza che reggeva il governo di quella stangata è la stessa di oggi.
Foto:
D. Marti / Getty Images, F. Cavassi / Agf (2).
32 22 gennaio 2023
Nicola Graziano
La Costituzione Italiana è entrata in vigore 75 anni fa. Ho preso tra le mie mani il testo e ho letto un po’ di articoli alla rinfusa, saltando tra le pagine come se fosse in un gioco dell’oca dei diritti. Alla mia mente è venuta subito prepotentemente la viva forza delle norme, la pregnanza dei precetti e, soprattutto, la loro costante attualità.
È un polmone che respira la nostra Carta fondamentale, come se fosse una foresta di alberi che rilascia ossigeno per dar forza ai diritti fondamentali e per dar vita a nuovi diritti.
Nonostante il notevole tempo che è passa-
L’ossigeno puro della foresta costituzionale
to dalla sua entrata in vigore, ancora oggi si può dire che la Costituzione è la nostra bussola e si può riaffermare con ogni nostro gesto quotidiano che il rispetto della Costituzione stessa è un dovere primario.
Ed è lampante che la nostra Carta è caratterizzata da una modernità disarmante quasi a testimoniare che chi volle scriverla ebbe una premonizione del Futuro così evidente, tale da ricomprenderlo forse per il resto del Tempo.
Ma in ogni dove è sempre emergente l’esigenza di riaffermare i suo doveri fondamentali come un monito, che risuona come un bisogno, come una necessità.
Leggo gli articoli della Costituzione e mi piace sottolineare il profondo senso educativo di alcune fondamentali parole e mi vengono in mente le tantissime volte che ne ho discusso con centinaia di studenti.
Responsabilità e senso civico riferito a uno
spettro di doveri, tra i quali il dovere di pagare le imposte collegato al bene comune, potendosi sottolineare anche che è necessario insistere sulla strada alla lotta all’evasione fiscale e alla corruzione che sono strettamente collegate.
Speranza, Futuro e Bellezza: sono queste parole che con assoluta certezza costituiscono l’architrave della nostra Costituzione.
Modernità, Ambiente, Energia e Giovani, poi, esemplificano il senso della recentissima riforma costituzionale che ha introdotto un nuovo valore fondamentale, cioè la tutela dell’interesse delle future generazioni. Ne devono essere consapevoli tutti i cittadini italiani ma anche i politici, questi ultimi chiamati a trarre da ogni parola quella necessità di una serie di azioni da segnare nell’agenda politica italiana e internazionale e non più rinviabili.
La pace, l’utilizzo delle risorse non per gli armamenti ma per la ricerca scientifica, la medicina, la cultura, la scuola e l’università, per una sfida globale rivolta anche al Mediterraneo come una culla di integrazione tra popoli, oltre ogni steccato ideologico.
Leggendo la Costituzione ognuno di noi è chiamato ad attraversare la foresta dei diritti e in essa a respirare forte, a pieni polmoni cioè, senza aver paura di affrontare la sfida del richiamo alla responsabilità che ogni cittadino è chiamato a cogliere.
La Politica, anche attraverso le azioni del nuovo governo, deve pensare a contribuire alla modernizzazione del nostro Paese, concretizzando in fatti le sopra dette parole.
È una sfida difficile, come lo sono quelle dei giovani dell’Iran e del loro coraggio, delle donne afgane che lottano per la loro libertà e dei ragazzi russi, che sfidano la repressione per dire il loro no alla guerra.
È a tutto tondo la nostra Carta, tutto contiene. E ci chiama a condividere il ricordo del Passato, per vivere il Presente e per disegnare, respirando l’ossigeno puro della foresta costituzionale, il nostro Futuro.
PAROLE DI LIBERTÀ
A 75 anni dall’entrata in vigore, la nostra Carta fondamentale è un polmone che dà respiro ai diritti
33 22 gennaio 2023
Un Bad Guy nella città accomodante
La faccia identica al padre, le cure, gli amici, il consenso. Tra la gente, in rapporti stabili con la borghesia e la politica: Matteo Messina Denaro incarna la mafia. In una società che ancora la cerca
POLITICA LA CATTURA DEL BOSS
34 22 gennaio 2023
22 gennaio 2023 35
ENRICO BELLAVIA
La mafia com’è. Tra la gente. Insinuante, subdola, sfrontata nella sicumera che consolida il mito di un’impunità leggendaria. Forte di un’organizzazione, logoratasi negli anni del delirio stragista dei Novanta, fiaccata ma non al crepuscolo. Indebolita, e molto, ma non vinta. In una società che ancora le si struscia, la cerca, la blandisce, la invoca e che si lascia abbacinare dallo sfavillio del denaro e del potere, troverà sempre un imprenditore disponibile, un professionista accomodante, un politico servile in una ditta di mutua convenienza. Una talpa a gettone e un paesano in debito.
Piegato nel fisico ma fiero nella vanità di un blasone nero di lutto e rosso di sangue innocente, Matteo Messina Denaro incarna perfettamente il modello di una Cosa nostra che si fa largo nella modernità con qualche concessione alla spocchia del lusso senza sudore. Concede al tempo nuovo solo ciò che nutre l’indole. E per il resto obbedisce ai codici, duttile e pragmatica, intenta solo a perpetuare sé stessa, oltre i destini dei singoli. Deposto un capo, sa trovarne un altro. Attinge anche ai vecchi tornati liberi dopo i rigori del 41 bis, punta sui rampolli o si rimette alle ombre, figure sparite dai radar come Giovanni Motisi, da Pagliarelli, quartiere sede dell’omonimo carcere, alle porte di Palermo. Sessantaquattro anni appena compiuti, figlio d’arte, ora in cima alla lista dei ricercati, latitante dal 1998, condannato all’ergastolo, imparentato con una genia di mafio-costruttori che hanno cementificato mezza città.
Governativa sempre e comunque. Cosa nostra muta ma non cambia mai veramente.
Dicono si sia definitivamente chiusa l’era stragista. Era un ciclo già concluso. Quella stagione era già finita proprio quando la latitanza di Matteo Messina Denaro cominciava. La Cosa nostra della dittatura corleonese, dopo le stragi di Capaci e via d’Amelio a Palermo, dopo Firenze, Roma e Milano, aveva corretto la rotta sulla soglia del 1994, ripiegando sull’orlo della carneficina sfiorata allo stadio Olimpico della capitale. Coltivava, certo, propositi di vendetta e nuovi negoziati al tritolo che accompagnassero il Paese al cambiamento già in corso.
L’eccidio di via dei Georgofili a Firenze, l’attacco di Cosa nostra nella stagione delle bombe del 1993
Accantonava esplosivo e seminava ancora morte, ma con Totò Riina in carcere, battuto nell’azzardo di un despota allucinato di poter vincere la guerra allo Stato, si era consegnata alla linea della quieta coesistenza interpretata da Bernardo Provenzano. Lesto, Matteo, da devoto sicario in piena operatività si era prontamente adeguato. Aveva accantonato le fantasie separatiste che pure lo avevano tentato quando Cosa nostra sognava una Lega propria, desistendo quando all’orizzonte era apparsa Forza Italia. I galloni di capo se li era conquistati e per discendenza dinastica, con il padre Francesco, morto in latitanza nel 1998, gli era stato riconosciuto anche il grado formale di vertice della provincia di Trapani. Nelle lettere a Provenzano, esprimeva disagio per l’inadeguatezza della nuova classe dirigente, «mancano i rincalzi dei rincalzi», si lamentava per le retate, «arrestano anche le sedie», poi discettava di affari e con devozione si fir-
POLITICA LA CATTURA DEL BOSS
Porte girevoli di una latitanza trentennale che ricalca la storia dell’Isola. Con al centro protagonisti che ricorrono.
Emblema di un Paese che cambia. Ma non abbastanza
LE STRAGI
36 22 gennaio 2023
In alto, Matteo Messina Denaro. A destra, il padre Francesco. Sotto, Bernardo Provenzano. A sinistra, alcuni dei pizzini tra i boss
Foto pagine 34-35: Ansa. Foto pagine 36-37: Fotogramma, Ansa (2), La Presse
mava «nipote Alessio». Controllava in casa ogni attività spingendo sulla grande distribuzione, l’alimentare su tutto con Giuseppe Grigoli, i centri commerciali, le strutture turistiche come la Valtur di Carmelo Patti e poi le rinnovabili di Vito Nicastri. «I pali», li chiamava con un certo disgusto Riina, deluso dalla metamorfosi del suo ex pupillo, invidioso delle sue capacità nell’economia, per così dire, legale. Matteo era avanti. I legami con gli States li aveva coltivati facendo leva sulla tradizione dei castellammaresi, le alleanze con i narcos le aveva sviluppate legandosi, come già il padre, ai cartelli della ’ndrangheta. La propensione ai viaggi, una certa intraprendenza nella diversificazione degli interessi, reperti archeologici compresi, lo avevano portato in giro per il mondo. Ma poi, tornava sempre a Castelvetrano, lì dove lo Stato del Dopoguerra, intorno al cadavere del bandito Giuliano, aveva ripreso a danzare il valzer del compromesso. A casa,
o non troppo lontano, a Campobello di Mazara, comune satellite, dove girava indisturbato con la propria faccia. Che gli anni e i malanni avevano reso identica a quella del padre o al suo identikit. Nessuno però sembrava volersene accorgere. Nessuno, neanche tra i medici del suo territorio che si prodigavano per assicurargli assistenza, aveva voluto insospettirsi. Non lo aveva fatto neppure l’aspirante sindaco di Campobello, Alfonso Tumbarello, che aveva curato anche il vero Andrea Bonafede, l’alias di Matteo, amico di infanzia e malato come lui. Re nel proprio territorio, con le mani sulla cassa del welfare parallelo che garantisce consenso, Messina Denaro si era allungato sull’Agrigentino, più prossimo ai limiti della sua satrapia. Gli era preclusa un’egemonia sui palermitani, restii a concedere scettri fuori dai confini della provincia. Gli veniva però in soccorso la famiglia: il matrimonio della sorella Rosalia con Filippo
LA DINASTIA
22 gennaio 2023 37
POLITICA LA CATTURA DEL BOSS
Guttadauro lo aveva portato a spingersi a Bagheria. Dove, vent’anni fa, si era anche stabilito, trovandosi una fidanzata, Maria Mesi, che lavorava nella ditta di prodotti ittici di Carlo Guttadauro, il fratello del cognato. Anche Maria aveva una sorella, Paola, che era la segretaria personale di Michele Aiello, il re Mida della sanità siciliana. Uno spuntato quasi dal nulla. I soldi fatti con i microappalti senza gara delle strade interpoderali concessigli in sinecura dall’assessorato all’Agricoltura li aveva decuplicati investendo su un centro di eccellenza per la radiodiagnostica. Contendeva così il primato delle cure d’avanguardia proprio al centro di Guido Filosto, ovvero La Maddalena, la clinica dov’è stato arrestato Matteo. E qui la storia continua a riavvolgere il nastro di quattro lustri.
L’attuale procuratore di Palermo, Maurizio de Lucia, che con il collega Paolo Guido ha firmato la cattura di Messina Denaro, era ancora un pm. Inquadrò Aiello e coltivò il sospetto che fosse un fantoccio nelle mani
L’indagine
Veleni e misteri sui verbali spariti
GLI INVESTIGATORI
Il comandante del Ros Pasquale Angelosanto con i magistrati Maurizio de Lucia, procuratore capo di Palermo, al centro, e Paolo Guido
di Provenzano e del suo entourage. E non finì lì, l’indagine svelò l’esistenza di un circuito di talpe che correva a informare l’imprenditore sui movimenti dei Ros a Bagheria per la cattura di Provenzano e le ricerche di Messina Denaro. Si saldò a un’altra indagine che riguardava invece Giuseppe Guttadauro, fratello di Filippo e Carlo. Medico, aveva preso il comando del mandamento di Brancaccio dopo l’arresto dei terribili fratelli Graviano, Giuseppe e Filippo, amici e compari di Matteo. Da Aiello e Guttadauro si arrivò a un altro medico, al presidente della Regione Salvatore Cuffaro che per questi rapporti è stato condannato. Torna-
Marco Bova
La scomparsa dei file su Matteo Messina Denaro dà una nuova scossa ai veleni dell’antimafia siciliana. Si tratta dei testi sacri sulla caccia all’ultimo latitante, custoditi in un minipc da 10 pollici e due pendrive, ed evaporati nel 2015 dall’ufficio della Procura di Palermo, utilizzato dal magistrato Teresa Principato che in quegli anni coordinava la caccia e dal finanziere Carlo Pulici, suo stretto collaboratore. Tra questi, due documenti excel, con una sfilza di numeri telefonici incasellati con nomi, date e tipologia di intercettazioni: quelle cessate e quelle all’epoca ancora in corso. Ma anche un dossier con tutti i pizzini sequestrati. Come quelli che vedete in queste pagine trovati il 26 ottobre 1996 a due picciotti di Campobello di
Mazara. Lettere simili a rapporti di intelligence su una soffiata, un passaporto falso per il Venezuela, nuove falle nella cosca apprese dalla moglie di un poliziotto «da noi c’è un altro pentito». La scomparsa dei dispositivi ha interrogato anche la commissione Antimafia, che allo scadere dell’ultima legislatura, ha ascoltato Pulici in seduta segreta. Ma l’episodio è tuttora insoluto, nonostante due inchieste della magistratura. Una prima indagine a modello 45 «priva di notizia di reato», è stata archiviata dalla Procura di Palermo. Adesso anche il secondo fascicolo, avviato a Caltanissetta, su esposto dell’avvocato Antonio Ingroia (ex pm della Dda di Palermo) è stato archiviato. Anzi, secondo il gip nisseno, da una lettura complessiva «emerge l’infondatezza della notizia criminis». Inoltre, «non si è in grado di stabilire se il materiale informatico non più trovato, fosse all’interno degli uffici della Procura di Palermo o altrove». Considerazioni che finiscono per rovesciare il mistero, sollevando ombre proprio sull’uomo
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to in politica, è tra i plaudenti per il successo dell’Arma dopo la cattura di Messina Denaro. Tutto torna nella Sicilia accomodante. Come i medici nella biografia di qualunque capomafia. E anche in questo Matteo non fa eccezione. Per assistere il padre ne mise uno a stipendio costringendolo a una vita da latitante con un unico paziente. Da dializzato puntò un centro di cura per impadronirsene. Da ammalato di tumore ha scelto il meglio delle cure che la sanità, privata, può offrire. E di camici ciechi, muti e sordi deve averne incontrati parecchi. Soprattutto dalle sue parti. Del resto la sanità è un comparto che da solo muove più della metà del bilancio isolano, che alimenta appetiti ed è uno snodo di interessi in cui politica, affari e mafia si incontrano. Spesso sotto l’egida della massoneria che a Trapani è onnipresente e costituisce un cemento formidabile. Come la politica. I contatti con i Messina Denaro hanno inseguito il senatore forzista Antonio D’Alì, già sottosegretario all’Interno con delega ai collaboratori, fami-
glia di possidenti molto in vista, con partecipazioni in attività disparate e una banca di famiglia, la Sicula, poi ceduta alla Commerciale. Condannato per concorso esterno si è consegnato a Opera proprio il 14 dicembre scorso. Nelle sue proprietà aveva lavorato Francesco Messina Denaro e il figlio era subentrato. Nella sua ex banca ha lavorato da preposto anche il fratello di Matteo, Salvatore, che vive non troppo distante dall’ultimo rifugio di Matteo, alias Andrea Bonafede, factotum e gestore di un parco acquatico finito nelle maglie giudiziarie. E ora visitato anche dai Ros alla ricerca di uno dei nascondigli dell’ex imprendibile. Un finale degno di Bad Guy. Per il resto, come scriveva l’Alessio delle lettere a Svetonio, nome in codice di un ex sindaco che lo aveva agganciato per conto dei Servizi: «Ci sono ancora pagine della mia storia che si devono scrivere».
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che ha denunciato la scomparsa dei dispositivi. E che si è già trovato, suo malgrado, al centro del ciclone giudiziario e mediatico nato dalle intercettazioni all’hotel Champagne attraverso il trojan installato nel telefonino di Luca Palamara che hanno colpito un ignaro Marcello Viola, bloccato nella corsa a capo della Procura di Roma e di rimbalzo la pm Teresa Principato, con il risultato di azzerare il lavoro investigativo svolto sul superlatitante.
Pulici ha potuto lavorare nell’ufficio di Principato fino all’estate 2015, quando fu allontanato con un provvedimento del procuratore Francesco Lo Voi, per il «venir meno del rapporto fiduciario». Era stato denunciato dalla moglie di un collega e indagato per «molestie telefoniche»: l’indagine venne archiviata, ma soltanto nel 2018. Ciò nonostante, l’appuntato continuò a lavorare con la pm, fuori dalla Procura. A tre mesi dall’allontanamento dall’ufficio, il 10 dicembre 2015, chiese ai vertici locali della Finanza di poter recuperare i suoi
oggetti dall’ufficio del pm Antimafia. Ottenendo risposta positiva in pochi giorni. Ma del minipc, utilizzato anche per la verbalizzazione dei colloqui con testimoni e collaboratori di giustizia, nessuna traccia: soltanto una scatola vuota nella libreria. Durante l’accesso con due funzionari della Procura, inoltre, emerse che «dal portapenne era stato asportato un mazzo di chiavi legate con un anello metallico al quale erano ancorate anche le pendrive nelle quali erano riversati i file dal computer della dottoressa». Una parte dei medesimi backup, conservata in altri hardisk, è stata ritrovata dai militari della Finanza, nel corso delle perquisizioni al collega del maggio 2016. Nei verbali c’è un massiccio elenco di dispositivi, ma tra questi, nessun minipc da 10 pollici. «La mia fiducia nei suoi confronti era totale. Non vi erano documenti che consideravo troppo riservati per condividerli con Pulici», ha chiarito Teresa Principato, tagliando corto sulla integrità del finanziere. Sulla sparizione dei file resta però il mistero.
Foto: Ansa
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Partiti in rosso ma chi decide è Fratelli d’Italia
POLITICA IL COSTO DELLA DEMOCRAZIA
40 22 gennaio 2023
Qui si fa una cosa impopolare o non popolare. Si parla di partiti. Già il vocabolo è di per sé respingente in ogni sua declinazione. Figurarsi se il tema poi è il sostegno pubblico ai partiti. E per sostegno pubblico ci si riferisce al denaro pubblico ai partiti. I nostri soldi, come si dice per ghermire consensi emotivi. Però i partiti sono un ingranaggio essenziale per lo svolgimento della democrazia. I parlamentari di questa legislatura in formato ridotto (600 eletti anziché 945), con proposte di legge, emendamenti notturni, riunioni diurne, si agitano parecchio per ritagliare, affermano, un futuro ai partiti, pochi sani, molti acciaccati, vari indebitati, alcuni in dissoluzione.
La premessa è che se i partiti sono preda di capi dominanti e di voti soufflé, la colpa è dei partiti che per decenni hanno sprecato (o ancora peggio) ingenti risorse pubbliche e soprattutto la fiducia dei cittadini. Adesso è troppo facile allungare la mano per farsi acchiappare prima di scivolare giù. Comunque. La riforma che ha prostrato i partiti è di un governo di centrosinistra guidato da Enrico Letta e sta per compiere dieci anni. La classica risposta sbagliata a una domanda giustissima. Come accogliere (ammansire) i politici scaturiti da populismo, democrazia diretta, pulsioni anticasta? La scelta fu quella di rinunciare a un modello di partito strutturato e non sempre democratico che, in diverse maniere e in diversi scandali, ha contraddistinto la Repubblica. Così furono eliminati i rimborsi ai partiti dopo che con la prima Repubblica cadde il finanziamento diretto e fu introdotto il 2x1000 in dichiarazione dei redditi, una quota di tasse statali - circa 20 milioni di euro - che i cittadini/contribuenti possono (non devono) devolvere ai partiti e inoltre per le donazioni private fu imposto il limite di 100.000 euro con una maggiore trasparenza sui versamenti. La riforma Letta, che per l’appunto era proveniente da una domanda giustissima, ha previsto anche una commissione di controllo composta da insigni magistrati amministrativi e ordinari senza però assegnarle le dotazioni necessarie. La traiettoria discendente dei partiti non si è interrotta, al contrario è stata accentuata.
I partiti sono sempre più alieni nella società, scalabili dai portatori di interessi, sensibili ai suggerimenti esterni, circondati da lobbisti, anfitrioni, comunicatori. La buona notizia per i partiti è che la preoccupazione, che si può anche chiamare angoscia o disperazione, è un sentimento comune tra i gruppi parlamentari e ormai ha risucchiato pure i Cinque Stelle che hanno rinunciato alle pretese di francescana morigeratezza accedendo peraltro al meccanismo del 2x1000. La cattiva notizia è che il partito più florido, che recluta personale e collaboratori, è il principale partito della coalizione e del governo di centrodestra: Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni. Il destino degli altri dipende da Fdi. Ciascuno ha le sue esigenze.
Forza Italia ha meno eletti che pagano e dunque meno ricavi che già sono magri in confronto a un debito di 100,9 milioni di euro di cui 92,2 verso il fondatore Silvio Berlusconi. Il Partito Democratico ha trovato un suo equilibrio contabile, ma a settembre è in scadenza e non sarà più prorogabile l’ultima cassa integrazione per 121 dipendenti. La vecchia Lega e la nuova Lega, la Lega per l’indipendenza della Padania e la più recente intitolata a Salvini premier, hanno due sicurezze: i 100.000 euro bimestrali da versare al fondo unico di giustizia a garanzia dei famosi 49 milioni di euro da restituire allo Stato e la massiccia e costante partecipazione degli eletti con le quote mensili di stipendio. I Cinque Stelle sono nel pieno dell’evoluzione finale che li renderà un partito tradizionale - ormai
Foto: F.Fotia / Agf
Il Pd ha presentato una proposta per aumentare i finanziamenti con il due per mille dell’Irpef. Tutti hanno bisogno di soldi. Per una nuova legge, però, la strada è in salita
TAGLIO La Camera dei Deputati in seduta. In questa legislatura i parlamentari sono scesi da 945 a 600 CARLO
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TECCE
hanno una sede in centro a Roma e un organigramma completo - e il passaggio formale, ovviamente, sarà l’incasso in agosto dell’anticipo del 2x1000. Non ci sono soltanto chiacchiere. Il primo atto l’ha firmato il Pd con una proposta di legge depositata in Senato da 18 senatori - a dispetto delle imminenti primarie per la segreteria - tra cui il tesoriere Walter Verini e la capogruppo Simona Malpezzi.
I dem propongono un ritocco non inedito alla riforma Letta, cioè l’aumento del fon-
do per il 2x1000 da 20 a 45 milioni di euro e la distribuzione del capitale inoptato, quello non utilizzato dai cittadini/contribuenti, come avviene per l’8x1000. In cambio di questa modifica, e probabilmente per reagire all’inchiesta Qatargate/Maroccogate che l’ha travolto al Parlamento europeo, il Pd promette verifiche più efficaci e il limite alle donazioni private a 50.000 euro. Il secondo aspetto non convince il resto dei partiti. Già durante il complesso e frettoloso transito alla Camera della legge di Bilancio s’era cercato di far approvare un emendamento per allargare il 2x1000, pare che il governo fosse favorevole, ma poi la Ragioneria per questioni tecniche ha fermato la norma. I dubbi di Fdi, che egoisticamente potrebbe ignorare i guai degli altri, riguardano la reazione dei cittadini: più soldi ai partiti con bollette, carburante e inflazione? Perciò ha senso citare il preambolo, un po’ sociologico e un po’ filosofico, che si richiama all’articolo 49 della Costituzione e che il Pd ha inserito nella proposta di legge: «Accanto a disposizioni che rafforzano i requisiti di trasparenza e democrazia interna dei partiti e a disposizioni contenenti la delega al governo per la razionalizzazione e il riordino della normativa vigente in un testo unico, il presente disegno di legge contiene disposizioni volte ad assicurare ai partiti politici le condizioni materiali per poter organizzare nel modo miglio-
DEBITI
Il Tesoriere del Pd Walter Verini. A destra: Silvio Berlusconi con Antonio Tajani. Forza Italia ha debiti verso il proprio fondatore per oltre 90 milioni
re la partecipazione politica e rendere così effettivo il diritto riconosciuto a ogni individuo di associarsi e di concorrere (con metodo democratico) a determinare l’indirizzo politico delle comunità in cui vive. Assicurare ai partiti politici un finanziamento pubblico ragionevole, condizionato al rispetto dei princìpi di democrazia interna e di gestione trasparente delle risorse, rafforzando al tempo stesso i limiti al finanziamento privato, contribuisce altresì ad assicurare la separazione e l’autonomia della sfera politica dalla sfera economica. (…) Del resto, com’è altrettanto noto, la limitazione, la separazione e la distribuzione del potere, in un ordinamento democratico pluralista, si realizzano innanzitutto prescrivendo che ciascun bene (il cui possesso conferisce potere) sia distribuito - per usare le parole di Michael Walzer - secondo il proprio “criterio intrinseco”: per cui il ricoprire una posizione dominante o di rilievo in una delle tre sfere (politica, economica, culturale o dei mezzi di comunicazione) non dovrebbe dare titolo per assumere una posizione dominante o di rilievo in alcuna delle altre due». Com’è evidente c’è finanche uno sdegno tardivo per il
POLITICA IL COSTO DELLA DEMOCRAZIA
Le opzioni a favore del partito di Meloni sono cresciute da 2,7 milioni di euro a 3,1. Chi incassa più di tutti è il Pd, con 7,3. I Cinque Stelle avevano rinunciato, ma sono pronti a cambiare linea
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conflitto di interessi col quale, grossomodo, la sinistra ha convissuto pacificamente per oltre un quarto di secolo.
Gli introiti del 2x1000 sono vitali per i dem che per il 2022 devono incassare 7,3 milioni di euro, quasi mezzo milione in più sull’anno precedente. Anche in queste tabelle del Tesoro, fresche di stampa, è solida la crescita di Fdi che passa da 2,7 milioni di euro a 3,1. Invece le due Leghe scendono da 2,3 milioni totali a 1,65. In costante aumento Italia Viva a 973.000 euro e Azione a 1,25 milioni, stabile Forza Italia con 580.000 euro. Il 16 per cento degli italiani che ha ceduto il 2x1000 ai partiti ha scelto Fratelli d’Italia, una porzione inferiore rispetto agli esiti elettorali. Il Pd conferma i suoi dati, è indicato come beneficiario da un terzo dei contribuenti. Il 2x1000 non segue l’andamento elettorale, di sicuro è più congeniale ai dem, che hanno una rete ancora robusta, e ai partiti con i redditi più alti. Raddoppiare il fondo vuol dire raddoppiare i 7,3 milioni a disposizione del tesoriere Verini. Più o meno anche per gli altri partiti. A Meloni l’onere della decisione. Pollice su. O pollice verso.
Giorgio Chigi Palazzi girevoli
La politica aggiunge un posto a tavola
Francia o Spagna basta che se magna», diceva Francesco Guicciardini, raffinato politico del sedicesimo secolo. Ci sono infatti dei momenti della giornata politica dove a decidere se stare a destra o a sinistra è solo il cameriere o il capotavola. Abbiamo provato a disegnare la mappa dei bar e ristoranti frequentati dal potere. La walking distance dei Palazzi trova il suo culmine martedì e mercoledì anche grazie ai parlamentari fuori sede che si fermano a mangiare assieme a colleghi per trovare consenso a tavola magari per una proposta di legge o un emendamento.
Iniziamo dalla colazione: i bar iconici sono due. Il primo, Giolitti, si trova di fronte agli uffici dei Gruppi parlamentari in via degli Uffici del Vicario. Lì puoi gustare una deliziosa veneziana oppure un ottimo gelato, rigorosamente nocciola e pistacchio di Bronte. È un vero e proprio crocevia, dal parlamentare che sale in ufficio al membro di governo o sottogoverno che va in audizione. Poi c’è Ciampini, dove il direttore Vincenzo fa accomodare il ministro Antonio Tajani o Matteo Salvini nel weekend con la compagna Francesca. Fino a quest’estate compariva anche, con una scorta privata molto vistosa, Giampaolo Angelucci, nuovo editore de Il Giornale con l’amico candidato alla Regione Lazio Francesco Rocca.
Oggi è sempre più in auge il Ristorante la Campana dell’on. Tracassini, fedele del Premier a pochi passi dalla sede di FdI.
Impossibile poi non citare Maxela, in piazza della Maddalena, dove si può degustare una ottima tartare di fassona e in cui si sono visti spesso anche Giorgia Meloni, Maurizio Lupi e Giuseppe Mangialavori, presidente della commissione Bilancio della Camera. Dicono che il mercoledì a pranzo sia il quartier generale di molte agenzie di lobbying con i loro giovani team.
La premier però per gli incontri più riservati preferisce il giardino dell’hotel De Russie con l’amico di sempre Marco Mezzaroma o la terrazza dell’hotel The Pantheon, a pochi passi dal Senato, dove è stata vista spesso prima delle elezioni mentre conversava con un inglese impeccabile.
L’aperitivo più esclusivo però resta quello nella terrazza dell’hotel Eden, che Mario Draghi utilizzava spesso per cene con le delegazioni estere. Oggi raccoglie ancora molti banchieri, top manager e membri del governo.
Foto: F. Cimaglia / Ag. Fotogramma, P. Tre / FotoA3
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Virman Cusenza
Da gennaio 2020 con l’esplosione del Covid a oggi c’è stata una iperproduzione di documenti e norme ad hoc che hanno creato lo sgradevole effetto di aggravare l’elefantiasi di cui soffriamo da decenni. Lo stato di emergenza - durato ben 26 mesi - è finito a marzo 2022, ma l’inondazione di ordinanze, circolari, decreti e di non rimpianti Dpcm tracima ben oltre quella data. Sono stati emanati 1022 atti per contrastare l’avanzata del virus, con una media di 29 al mese, uno al giorno (fonte: Openpolis). Il picco tra febbraio e aprile del 2020. Il record è del governo Conte II con 507 atti, ma Draghi non
Un vaccino contro la pandemia burocratica
è stato da meno con 409. Meloni è a quota 25, a quasi tre mesi dall’esordio. La valanga oggi è fatta di aggiustamenti: dal discusso reintegro del personale sanitario non vaccinato, alla riduzione a 5 giorni di isolamento per i contagiati, fino ai controlli per i passeggeri dalla Cina. Speriamo che la riforma amministrativa con i miliardi del Pnrr porti a un “vaccino” contro il virus burocratico.
Il Giubileo dei miracoli: 135 opere in 23 mesi
Dai flagelli alle missioni bibliche. Tra gli obiettivi del “Giubileo della speranza”, come lo ha chiamato Papa Francesco, c’è anche quello di far risorgere la disastrata Capitale realizzando 135 opere da adesso al dicembre 2024, quando il Pontefice aprirà la porta Santa. Un fiume di denaro che sulla carta potrebbe trasformare il vol-
Dall’esplosione del Covid sono stati emanati 1022 atti per combattere il virus. Con una media di 29 al mese
to pieno di rughe di Roma. Il primo pacchetto previsto dal Dpcm riguarda 87 opere «essenziali ed indifferibili» per un valore di 1,8 miliardi. A ciò si aggiungono 335 interventi per un totale di mezzo miliardo dai fondi Pnrr “Caput Mundi. Next Generation Eu per grandi eventi turistici”. Sarà l’eterna corsa contro il tempo: in soli 23 mesi dovrà impedire che la città venga travolta dalla fiumana di 30 milioni di pellegrini, con contraccolpi per la vivibilità quotidiana ben oltre la tragica routine. Un assaggio: il rifacimento della “via crucis” stradale, delle stazioni, di aree vaticane, delle basiliche patriarcali, fino ai Fori. E dell’enorme rete dei trasporti. Una certezza, visto il brevissimo tempo a disposizione: non tutte le opere saranno realizzate in tempo. Un secondo Dpcm dettaglierà altri 48 interventi per 300 milioni di euro. Calcola un gongolante sindaco Gualtieri: il piano «sforerà i 4 miliardi». Aspettando il miracolo.
Figli e figliastri: 19 mila euro ai lombardi, 14 mila ai campani
A motti evangelici certo non si ispira la controversa bozza Calderoli sull’Autonomia Differenziata. Vorrebbe dare a ciascuna regione la possibilità di correre, ma con il rischio che gli ultimi resteranno ultimi. Due report illuminano sulle risorse trasferite dallo Stato al Nord e al Sud. L’Agenzia per la coesione territoriale ci aggiorna che la spesa pubblica pro capite è poco meno di 19 mila euro all’anno in Lombardia, poco meno di 18 mila euro in Piemonte, 16 mila euro in Veneto, la Sicilia si ferma a 14 mila e la Campania a 13.700. Il divario è colpa dell’aver calcolato anche le pensioni? Resta anche se si guarda al setaccio più stretto di Bankitalia: al Nord spesa pubblica pro capite di 12.979, al Sud di 11.836. Morale: se con la partorienda Autonomia le regioni del Nord dovessero trattenere il residuo fiscale, il divario tra le due Italie aumenterebbe.
PALAZZOMETRO
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Linea Cuperlo Sinistra è chi sinistra fa
colloquio con GIANNI CUPERLO di SUSANNA TURCO
Chiedetelo
Sui social impazza, in quanto icona, come oggetto di satira. «Dovete votarmi al congresso perché, come terzo incomodo, metto a sistema i difetti dei candidati Bonaccini e Schlein e li porto a un livello superiore», sintetizza il suo profilo fake su Twitter, Gianni Kuperlo. In Rete, dopo la sorpresa per la sua ricandidatura alle primarie, ha ricominciato a circolare il tormentone del "Terzo segreto di satira" in cui si ironizza sull'abisso tra aspettative e realtà: «Abbiamo trovato il nome perfetto: è Gianni Cu-per-lo!»; «Ma come Gianni Cuperlo!». Nella realtà Gianni Cuperlo, 61 anni, ultimo segretario della Fgci, primo della Sinistra giovanile, nativo berlingueriano, prototipo del dirigente-intellettuale di partito, tra i pochi dell'album del Pci-Pd che ritrovi sempre là dove immaginavi, è seduto su un divano della Galleria dei Presidenti della Camera, detta «la Corea» perché una volta vi venivano relegati i giornalisti: «La Corea mi ricorda un viaggio a Pyonyang che feci, come Fgci, con i giovani socialisti e repubblicani e la Fuci per il Festival mondiale della gioventù democratica, dopo Tien An Men. Un viaggio traumatico per certi versi: non avevo mai visto un sistema totalitario. Un dirigente del Pci, durante la visita guidata in un ospedale, fece una domanda improvvida sui portatori di handicap: “In Corea del Nord non ci sono portatori di handicap”, fu la risposta». Non solo Pyongyang: il ricordo della Corea tira con sé quello di Praga nel giorno del ritorno di Dubček; di Berlino, una settimana prima della caduta del Muro; ma anche di quando con Achille Occhetto, all'hotel Majestic di via Veneto, ci fu l'incontro con Nelson Mandela. «Ripercorro questi frammenti di memoria perché c'entrano con la
mia scelta: credo che la politica sia l'analisi, il pensiero, ma se la vivi con passione la politica è anche sentimento, sentirsi dalla parte giusta del mondo, e l'incontro con queste figure dava la misura di cosa c'è alle spalle e davanti. Uno spazio più vasto del nostro congresso. Questo tempo sa tutto del presente ignora il passato e il futuro: ma un partito di centrosinistra non può permettersi un tale vizio. Perché, altrimenti, meglio i tecnici».
Il video del “Terzo segreto di Satira” risale a dieci anni fa, quando Cuperlo corse alle primarie come capofila degli eredi legittimi contro «Renzi l'usurpatore». Questa volta il senso della candidatura è risultato a molti meno chiaro, anche se lui nega vi siano questioni di nomi o ambizione: «Ci sono scelte che compi perché senti di doverle fare. Quello che mi colpisce girando l'Italia è che le sale sono piene, le persone dicono: non ci sarei stato, non mi convinceva il metodo, mi hai dato una ragione per esserci. E questo è di per sé già un motivo. Non ho il carattere di chi ambisce a fare più di ciò che ha fatto. Mi
POLITICA PD AL BIVIO
“Mi candido alla segreteria per allargare il campo, non per spaccare. È in gioco l’esistenza del Pd. Ma in futuro primarie chiuse. Il ritorno di Bersani e D’Alema?
a loro”
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riterrà più prossima alla propria».
è capitato di dimettermi, da presidente del partito. Ho già declinato due volte, governi Gentiloni e Conte due, l'offerta di fare il ministro. Il mio non è un modo per sgomitare ma per dare una mano. Perché questa volta in discussione non è solo la scelta di una leadership, ma la possibilità che il Pd possa non reggere l'urto delle sconfitte subite, le due scissioni, di Bersani e di Renzi, le dimissioni di Zingaretti, l’ultimo eletto con le primarie. È in questione l'esistenza stessa del partito».
C’è chi dice che la sua, tardiva, sia una candidatura di disturbo all'altra di sinistra, quella di Elly Schlein, ma Cuperlo rifiuta l'ipotesi: «Lo statuto del Pd, che per le sue regole sembra la sceneggiatura di Willy Coyote – un’architettura diabolica che si rivela una trappola micidiale -, prevede un congresso in due fasi: la prima è il voto degli iscritti. Questa è stata la molla: sto qua per allargare il campo. Non spezzo nulla, porto ad esprimersi gente che non ci sarebbe stata. Poi, nella seconda fase, ciascuno riverserà le sue posizioni sulla candidatura che
IN CORSA
Gianni Cuperlo, 61 anni, ultimo segretario della Fgci, primo della Sinistra giovanile, candidato alle primarie del Pd
Dove sono finiti i voti del Pd? Alle primarie 2013 Cuperlo prese 510 mila voti: oggi sarebbe segretario, allora valevano il 18 per cento del totale (Renzi prese il 67, 1,9 milioni di voti). Adesso le stime non ufficiali sugli iscritti di fine 2022 parlano di 50/80 mila tessere. «Il tesseramento del Pd è davvero il quarto segreto di Fatima», sospira Cuperlo: «Di certo, nelle urne, abbiamo perso per strada sei milioni di voti, e dobbiamo combattere un nuovo astensionismo intermittente. In questi anni abbiamo smarrito la capacità di ascoltare quello che si muoveva fuori. Provò Zingaretti, con quella tre giorni a Bologna nel 2019, ma poi che è successo? La reazione di un gruppo dirigente che si è chiuso a riccio, dentro le istituzioni, vivendo chiunque si affacciasse come un pericolo, perché l'obiettivo era diventato, appunto, rimanere dentro le istituzioni. Abbiamo tolto il finanziamento ai partiti, tagliato un terzo della rappresentanza, siamo arrivati quasi al ritorno a un accesso patrimoniale alle cariche elettive. Vorrei un partito che ricostituisse la sua autonomia. Vorrei una leadership - non un leader, perché deve esser una esperienza collettiva - che si dedichi solo alla costruzione del partito, superando la prassi dei doppi e tripli incarichi». A Cuperlo importa assai meno l'affluenza alle primarie: «Penso, per dire, non siano pochi 80 mila. E credo che bisognerà poi restituire agli iscritti il diritto di decidere la leadership. Sono cresciuto in un partito in cui il segretario era eletto da 250 persone, il comitato centrale. E quando dissi a Paietta: “Perché non lo facciamo scegliere dal congresso?”, lui rispose: "E se poi il segretario impazzisce, riconvochiamo tutti?"». Nel mentre tratteggia un partito di sinistra che «contrasti la precarizzazione, garantisca il diritto di cura, aumenti l’occupazione femminile», e recuperi non solo consenso tra gli operai, ma «il senso di quel legame», Cuperlo è meno alato rispetto a ritorno di Bersani e D'Alema: «Molti si pronunciano per un reingresso, ma bisognerebbe chiedere a loro», dice il deputato dem, che non condivise quella scelta: «La sinistra, un pezzo della sinistra, dobbiamo tornare a essere noi». Noi chi? «Noi Pd. Passando da Willi Coyote a Forrest Gump, "sinistra è chi sinistra fa". Non so se sia scritto nella carta di un cioccolatino, ma sarebbe saggio recuperassimo quella vocazione».
Foto: M. D’Ottavio
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Dario Nardella
Chi cerca nel congresso del Pd una liturgia del potere che celebra se stesso nello scontro tra fazioni, almeno stavolta rimarrà deluso. Agli assetati di scontri feroci il congresso dei Democratici non sta dando spettacolo. Questa circostanza può essere letta nella prospettiva dell’irrilevanza o invece può essere un segno di novità.
Siamo un partito plurale, grande, nazionale, erede di tradizioni che hanno fatto la storia del centrosinistra in Europa: quella democratico-cattolica, quella della sinistra comunista e socialista e non solo. Del resto, non è un caso se oggi le principali mo-
Dai territori può nascere il nuovo Pd
zioni congressuali affondano le loro radici in quelle regioni che per prime e più a lungo hanno conosciuto la ricchezza ideale e il pragmatismo del modello socialdemocratico dei municipi e del partito. In questi anni, però, il Pd è apparso come partito dell’establishment, autoreferenziale e centralista, imprigionato dalla logica dello scontro tra correnti di potere e dallo spettro delle scissioni. Una piramide rovesciata che ha costantemente indebolito i segretari eletti, producendo a ogni elezione candidature calate dall’alto e non legittimate dai territori. Questo modello non ha più nulla da dire a una stagione che chiede verità, contro tutti i populismi, competenza e pragmatismo per rispondere alle complessità dei contesti sociali ed economici, idealità radicale e radicata per ispirare i più giovani, protagonismo dei territori. A questo devono dedicarsi tutte le nostre energie.
La politica che oggi meglio interpreta queste qualità è quella praticata dagli amministratori locali, alle prese ogni giorno con bisogni e meriti dei territori e dei loro abitanti. Essi non sono solo erogatori di politiche amministrative, ma custodi delle attese dei cittadini, depositari delle loro speranze. Nelle città si sperimenta cosa sia davvero la sfida della sostenibilità ambientale, nei comuni periferici quella della connessione infrastrutturale; nelle comunità piccole e grandi si generano le frizioni dovute alla pressione migratoria, ma anche le soluzioni di accoglienza e integrazione che quelle tensioni risolvono; nei contesti territoriali diventa possibilità concreta il lavoro generato dall’impresa e dal settore dei servizi. A questi temi si aggiungono i due pilastri delle politiche formative e sanitarie. La concretezza degli amministratori ci aiuta ad affrontare il cuore della sfida: non solo cosa vuol essere, ma cosa vuol fare il Pd.
La forza costituita da queste migliaia di amministratori si sta aggregando attorno a Stefano Bonaccini, che con il richiamo all’energia popolare indica la fonte cui attingere per il duro lavoro da fare nei prossimi anni: opposizione a un governo sprovveduto prima ancora che cattivo; ricerca di obiettivi che garantiscano sviluppo sostenibile alle nostre comunità; lavoro formazione e cultura, nell’orizzonte europeo, ai nostri cittadini.
In questo da fare c’è spazio per la competizione congressuale? Sì, ma solo a condizione che sia un confronto tra le idee e non uno scontro sterile tra persone; con l’obiettivo di individuare una leadership, autorevole e plurale, che offra al paese la politica migliore e lo sviluppo più sostenibile possibile, capace di opposizione efficace al governo Meloni, con un’aspirazione nel cuore: governare l’Italia al più presto, ma la prossima volta passando da una vera vittoria nelle urne.
L’INTERVENTO
Il partito centralista, sempre al governo, spaccato in correnti, non ha più nulla da dire al Paese
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Salari bassi Silenzi a sinistra
Èin corso uno dei più estenuanti congressi di un partito del riformismo italiano ed europeo, teoricamente ancorato al pensiero di centro-sinistra eppure, al di fuori di consumati gruppi dirigenti, non si percepisce alcun coinvolgimento della corrispondente e delusa platea elettorale. Di fatto viene sancita la distanza con i vari pezzi della società e le proprie forme di rappresentanza, ma soprattutto permane la subcultura dell’autoreferenzialità. Eppure, siamo immersi in una crisi sociale, economica ed istituzionale e schiacciati culturalmente da contraddizioni apparentemente insanabili, senza che a nessun dirigente candidato venga voglia di spendersi indicando quale filo della matassa tirare per andare oltre la palude della superficialità.
Per esemplificare assumiamo due tracce frequenti nella propaganda e proviamo a dissodare il terreno: la redistribuzione della ricchezza e la lotta alle diseguaglianze. È lecito domandarsi se può esistere una sinistra che inusitatamente si pone solo il termine della redistribuzione della ricchezza, ancorché in favore delle fasce sociali più deboli e fragili della società, prima di essersi posto quello della sua produzione? Il tema è sistematicamente agitato da un gruppo dirigente del Pd frastornato dalle disconnessioni con la società e forse compromesso nel suo divenire (addirittura nella sua esistenza) dalle sconfitte elettorali.
Ogni possibile inversione di rotta rispetto alladistribuzione attuale (una sortadi Robin Hood al contrario) non può più passare per la via del tradizionale incremento del debito pubblico, peraltro molto cresciuto in questi ultimi anni e non solo per la pandemia, ciò nonostante, senza che si sia generata alcuna correzione in quel senso. Prima ancora si dovrebbe fornire una chiara indicazione di un nuovo sviluppo economico,
capace di produrre adeguata ricchezza, tale da sostenere una reale politica salariale, la cui sottovalutazione è una causa certa dell’attuale disastro sociale e della sconfitta politica. Ciò ovviamente non può essere risolto dal “reddito minimo” tantomeno dal “cuneo fiscale”, cioè dalla rinuncia a parte di entrate pubbliche.
Analizzando banalmente le voci di un bilancio aziendale, notiamo che tutte le componenti dei ricavi e della spesa sono aumentate, salvo il costo del lavoro. È facile immaginare che il sistema si vada predisponendo ad una possibile stagione di conflitti mossi, da un lato, dall’esigenza primaria di riallineare alla modernità salari e stipendi, dall’altro, da imprese largamente non più in grado di garantire adeguati profitti, legittimamente attesi dal capitale investito. Servirebbe alla sinistra la piena consapevolezza che se la ricchezza non viene prodotta in quantità adeguata, non è possibile alcuna distribuzione e serve alla sinistra, contemporaneamente, l’altra consapevolezza che la redistribuzione non può avvenire solo dallo Stato, perché il suo sistema fiscale è iniquo e pure esso stesso fonte del disastro sociale, delle sue ingiustizie e dell’impoverimento di alcune fasce sociali.
Siamo arrivati aldunqueche la remunerazionedel lavoro dipendente, gran parte della spina dorsale dell’economia e del gettito fiscale, andrebbe ripensata in favore dei lavoratori: d’altronde se un dipendente produce oggi la stessa borsa da donna in pelle che sul mercato va a 10/15mila euro e riscuote esattamente lo stesso sala-
Foto: S. MontesiCorbis/Corbis via Getty Images POLITICA LA CRISI DEM
Il congresso del Pd appare autoreferenziale. Eppure sarebbe necessario discutere come combattere le disuguaglianze senza ricorrere soltanto alla spesa pubblica
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DIEGO ROVETA
rio o stipendio di quando valeva 3.500 euro - quindi pure esso con la sua manualità e il suo ingegno ha contribuito all’incremento di valore - sarà pure giusto che ne veda riconosciuta una parte.
CAMPAGNA
Manifesti del Pd per l’ultima campagna elettorale
Insomma, non basta più dire che serve un nuovo sviluppo compatibile, energeticamente, ecologicamente etc. etc. Deve essere anche socialmente compatibile ed economicamente capace di generare ricchezza e stabilità. E tutto questo viene prima della redistribuzione. Va da sé che fare ciò è arduo, perché costringe a mettere le mani dentro i gangli del sistema capitalistico, con tutte le sue interconnessioni globalistiche e parimenti a ridefinire qual è il ruolo di uno Stato, di un singolo Stato che non può solo sperare di rifugiarsi nel “più Europa”. Magari potrebbe accadere che la destra paranazionalista percepisca il da farsi, prima della sinistra. Parallelamente potremmo porci un secondo interrogativo. Combattere le diseguaglianze, mantra quotidiano, cosa significa? Quelle di partenza? Quelle di arrivo? E in che rapporto di coerenza sta con il “valore delle diversità”?
Per un partito di sinistra che ogni minuto si pronuncia per «affermare il valore delle diversità» non solo a proposito del tema immigrazione, ma più in generale come fatto culturale e, il minuto dopo «bisogna combattere le diseguaglianze» che stanno mettendo in crisi la tenuta sociale del Paese (Nazione, come dice il Presidente del Consiglio) bisogna riconoscere che si può cor-
rere il rischio di un certo grado di confusione, anche concettuale. Il tema potrebbe essere: quale grado di diseguaglianze è tollerabile in una società ordinata?
È ovvio che oltre certi limiti esse irrompono negli equilibri sociali diventando detonatori pericolosi e tuttavia abbiamo impiegato venti anni, alla fine del secolo scorso, per metterci alle spalle quella “concezione egualitaria” che aveva segnato tutta la stagione delle grandi lotte.
In quella storia, per molti versi largamente condivisa da intere masse sociali, si nutrivano altrettante ingiustizie e mortificazioni giacché bravi o leggeri, impegnati o lassisti, sembrava giusto che tutti avessero lo stesso trattamento. Insomma, teorizzavamo che al posto del merito doveva essere valorizzata l’anzianità, in quanto esaltazione di esperienze e la fedeltà all’impegno comune, accresceva il rango sociale. Il modello non funzionava, esattamente come il suo opposto, non sembra funzionare oggi. Ma almeno all’epoca i Partiti se ne occupavano e la sinistra riusciva ad assumersi delle responsabilità e magari correggere delle storture. Che fosse questa la vera cultura di governo di cui andar fieri?
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Se i giovani scappano, è subito sera
Non è un Paese per giovani. E non è nemmeno un Paese per laureati. Ce lo dicono i dati di Eurostat, dipingendo il quadro desolante che riguarda la percentuale di persone in possesso di una laurea.
L’Italia ha il secondo dato più basso di tutta Europa, con il 28,3 per cento dei giovani tra 25 e 34 anni in possesso di una laurea (e molte differenze regionali che aggravano il problema). Il dato sul tasso di laureati non è un indicatore irrilevante perché porta con sé molte informazioni preziose. Il raggiungimento di un titolo universitario, infatti, è un elemento chiave di mobilità sociale. Se il livello di istruzione è basso, si riscontrano incidenze di abbandoni precoci molto elevate nelle scuole. L’abbandono degli studi prima del diploma riguarda più di un quarto dei giovani con genitori aventi al massimo la licenza media, scende al 6,2 per cento se i genitori hanno un diploma di scuola superiore e al 2,7 se almeno un genitore è laureato. Riuscite a cogliere le implicazioni di lungo periodo?
L’Istat monitora anche il numero di giovani non più inseriti in un percorso scolastico/formativo e non impegnati in un’attività lavorativa — i cosiddetti Neet (Neither in Employment nor in Education or Training) — che, pur presentando caratteristiche e motivazioni di base diverse, hanno in comune una condizione che, se protratta a lungo, può comportare il rischio di concrete difficoltà di inclusione
nel mondo del lavoro. Nel 2021, in Italia, la quota di Neet sul totale dei 15-29enni è pari al 23,1 per cento, di 10 punti percentuali superiore a quella europea. L’Italia, perciò, continua a registrare la più alta quota di Neet nell’Unione Europea a 27 Paesi, decisamente più elevata di quella osservata in Spagna (14,1%), Francia (12,8%) e Germania (9,2%).
Non è una carrellata di mestizia sociale, ma una riflessione che parte dai dati, dai quali ci facciamo guidare in un’altra riflessione spesso sottovalutata.
Se si analizzano le statistiche dei ricercatori che ricevono un finanziamento Erc (European Research Council, una delle istituzioni più importanti), emergono altri spunti preziosi. Alcuni Paesi, come Francia, Germania o Spagna, presentano un equilibrio perfetto tra emigrazione e immigrazione: vuol dire che per un 30 per cento di ricercatori che abbandonano il Paese d’origine un altro 30 per
Foto: M. D’Ottavio POLITICA IL FUTURO DEL PAESE
L’Italia registra il secondo dato più basso d’Europa per laureati tra i 25 e i 34 anni. Mentre ha la più alta quota di Neet nell’Ue. Eppure la Manovra destina briciole a chi rappresenta il domani
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LUCIANO CANOVA
cento di ricercatori stranieri arriva nel Paese che ha prodotto il flusso in uscita, controbilanciando la perdita di capitale umano.
Ci sono Paesi virtuosi, poi, come Svizzera e Danimarca, che ospitano più ricercatori stranieri di quanti, da quella nazione, emigrano all’estero. Infine, resta l’ipotesi sventurata di chi perde ricercatori e non riesce a sostituirli con un numero sufficiente di colleghi stranieri che arrivano al loro posto. L’Italia, anche in questo caso, rappresenta l’eccezione in negativo e, dunque, il cosiddetto fenomeno del brain drain (o fuga di cervelli) viene aggravato dal fatto che non c’è sufficiente brain gain, cioè una leva di validi ricercatori stranieri pronti ad arricchire di vivacità intellettuale le nostre università e i nostri centri di ricerca.
Un tempo si sarebbero levate grida di dolore, mentre qui si alza solo uno spaventoso e polveroso silenzio. La terra si fa
arida sotto i piedi delle giovani generazioni italiane e questi dati sono illuminanti: non è per fare il gufo, ma la ricerca di soluzioni deve partire sempre dal riconoscimento di un problema. Che non sta a Houston, ma a Milano, Roma e Napoli.
Sembra banale parlare dei giovani, ma il fatto è che i rendimenti degli investimenti in capitale umano sono quelli più fruttuosi e che producono conseguenze di lungo periodo, il che vale anche in negativo, ahimè. Quando tali investimenti mancano, gli impatti sono devastanti e il gap tende a crescere con il tempo.
La prima manovra del governo Meloni, appena licenziata e che vale circa 35 miliardi di euro, dedica giustamente molte risorse al pacchetto energia, ma ne destina soltanto due ai più giovani. Nemmeno il 6 per cento. Perché non usare, tra gli altri, questo come un indicatore di innovazione o di sua mancanza nel coraggio dell’azione di governo?
L’ATENEO L’Università di Torino 22 gennaio 2023 53
POLO D’ECCELLENZA Il
Politecnico di Milano
Il 6 per cento per i più giovani è il budget di speranza di questo Paese, trafitto non da un raggio di sole ma dalla spietata aritmetica dell’indifferenza demografica: ci sono più pensionati che lavoratori e l’età media della popolazione è destinata ad aumentare con tutte le conseguenze socio-economiche di declino che stiamo già sperimentando. E sarà davvero subito sera a meno che non osserviamo, per lo meno, un assordante minuto di fracasso.
Lo dobbiamo alla nostra idea di futuro: una politica coraggiosa non può rappresentare gli interessi di una maggioranza inerte di over 60, senza vista sul domani, ma deve intraprendere un percorso di rilancio e di progresso. Per un po’ di vernice lavabile buttata da un gruppetto di attivisti sui palazzi delle istituzioni, lo sdegno è stato massimo: nessuno, tuttavia, ha fatto un plissé sulla promessa di futuro che questo e altri governi hanno scritto, evidentemente, con l’inchiostro simpatico.
La strana coppia
Gualtieri-Santanché
Apparirà come “la strana coppia”. Di chi si parla? Del sindaco di Roma Roberto Gualtieri e della ministra del Turismo Daniela Santanché che parteciperanno, insieme, all’Albergatore Day. Una giornata in programma negli spazi del Parco dei Principi Grand Hotel & Spa, il 25 gennaio, per parlare di “Quale turismo post-pandemia? La sinergia tra istituzioni nazionali e territoriali quale condizione essenziale per il definitivo rilancio del settore e per l’individuazione di una nuova governance”. Non mancheranno, con il presidente di Federalberghi Roma Giuseppe Roscioli, l’assessore a Turismo, Grandi Eventi e Sport di Roma Capitale Alessandro Onorato e la sua “omologa” della Regione Lazio Valentina Corrado. Nel corso della giornata verrà presentato l’accordo di collaborazione tra Federalberghi e Intesa Sanpaolo.
Agenda del Quirinale: il presidente della Repubblica Sergio Mattarella il 26 gennaio interverrà, al “Palazzaccio” di piazza Cavour, alla cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario della Corte Suprema di Cassazione. Ma non finisce qui: il 30 gennaio sarà al Consiglio di Stato, a Palazzo Spada, alla presentazione della relazione dell’attività sulla giustizia amministrativa (dove verrà ricordato lo scomparso presidente Franco Frattini). E Mattarella il 9 febbraio si recherà a viale Mazzini: non per la Rai, ma per l’inaugurazione dell’anno giudiziario della Corte dei Conti.
Roma, piazza Vittorio, serata di un umidissimo martedì: un’Alfa blindata è ferma, in doppia fila, con il motore acceso, accanto alla fermata della linea A della metropolitana, dove ci sono anche le strisce pedonali. La cosiddetta “auto blu”, che però ha un altro colore, sta lì per oltre un’ora. «Di chi sarà?», si chiedono i passanti. In un vicinissimo edificio umbertino, in un appartamento della Filt Cgil, viene presentata la fatica letteraria di Goffredo Bettini, storico esponente della sinistra romana. L’incontro termina e dal portone esce l’ex ministro del Lavoro Andrea Orlando, Pd: per salire a bordo dell’Alfa.
Un hotel firmato Philippe Starck, a Roma. Avrà sede in via Luisa di Savoia, a pochi passi da piazza del Popolo, in un edificio che ha ospitato lo storico istituto tecnico commerciale Maffeo Pantaleoni, dove si sono formate decine di ragionieri capitolini. Della vecchia struttura non è rimasto nulla: il Brach Hotel, che nel progetto è tutto ferro, vetro e cipressi sul tetto, avrà anche gli interni firmati da Starck. I tempi di realizzazione? Non saranno brevissimi.
Scrivete a laboccadellaverità@lespresso.it
Foto: R. Venturi / Contrasto POLITICA
FUTURO DEL PAESE
IL
54 22 gennaio 2023
La bocca della verità Marco Ulpio Traiano
www.bonacina1889.it
Democrazia europea sotto attacco
da un anno Presidente del Parlamento Europeo e in 365 giorni Roberta Metsola, classe 1979, maltese, ha dovuto rivedere molti dei suoi piani. La guerra in Ucraina, il Qatargate con l’arresto, tra gli altri, dell’ex vicepresidente greca Eva Kaili, il cambio di scenario politico internazionale, hanno modificato il profilo della sua presidenza e della leadership dei Popolari europei, in cui la destra identitaria convive con la vocazione moderata.
Presidente, alla luce di quanto accaduto, cosa dobbiamo attenderci per questa ultima finestra della legislatura?
«È stato un anno impegnativo, ma anche un periodo in cui l’Europa ha mantenuto la sua posizione. Sul Qatargate, il Parlamento europeo ha reagito rapidamente, con forza e continuerà a farlo. Sto lavorando a un pacchetto di riforme che mira a rafforzare strumenti della nostra assemblea in materia di trasparenza, etica e rapporti con i Paesi terzi. Primi passi di una più ampia riforma del Parlamento europeo. Non ci sarà impunità. Niente polvere sotto il tappeto. La fiducia che abbiamo costruito per anni, si è smarrita in un attimo. È nostro dovere riconquistare credibilità».
Lei è subentrata a David Sassoli, quanta continuità ideale c’è tra voi, pur nella diversità di estrazioni politiche?
«Un anno fa l’Europa ha perso un leader e io un amico. David Sassoli era un uomo di grande visione. Ha esercitato la sua funzione di eurodeputato e di Presidente con dignità, equilibrio e onestà. Ho voluto onorare il suo operato avendo sem-
pre a cuore la dignità, i diritti e le libertà». Nel Qatargate si saldano antichi vizi della politica con ingerenze dei Paesi terzi. Non sarebbe il caso di attuare un protocollo politico diverso tra istituzioni europee e regimi oligarchici illiberali?
«Questi eventi hanno dimostrato che il Parlamento europeo, la democrazia europea sono sotto attacco. Questi attori spregevoli, legati a Paesi terzi autocratici, si sono presumibilmente serviti di Ong, sindacati, individui, assistenti ed eurodeputati nel tentativo di sottomettere i nostri processi decisionali. Il mio messaggio è chiaro: non permetteremo che ciò accada. Non accetteremo interferenze».
Lei viene da Malta, terra complessa, dove corruzione sistemica, riciclaggio e so-
POLITICA LA TENUTA DELL’UNIONE
Sull’onda del Qatargate, la presidente del Parlamento Ue annuncia regole più stringenti su trasparenza, eticae rapporti con i Paesi terzi: “Nessuna impunità”
È
56 22 gennaio 2023
colloquio con ROBERTA METSOLA di MASSIMILIANO COCCIA
cietà offshore sono pratiche radicate. Non crede che la lotta ai sistemi criminali sia stata sottovalutata dalla politica?
«Credo che né Malta né altri Paesi possano essere stigmatizzati in questo modo. Ciò che dobbiamo combattere in modo permanente sono i comportamenti individuali criminali. È una delle mie priorità come Presidente. Ho scelto di fare politica proprio per combattere la corruzione e difendere i principi dell’Europa». Come cambierà l’Europa a causa della guerra in Ucraina? Saranno superate le storiche ritrosie sulla difesa comune?
«La nostra priorità è porre fine alla guerra e far sì che l’Ucraina vinca. L’Ue ha reagito con un’unità e una solidarietà senza precedenti dal punto di vista politico,
IL BILANCIO
Roberta Metsola da un anno alla presidenza del Parlamento Europeo
umanitario, finanziario e militare. Possiamo fare di più. Il nostro sostegno all’Ucraina rimarrà forte e deciso. Abbiamo imparato che le grandi crisi non possono essere affrontate dai soli Paesi membri. In settori come la difesa, ma anche in altri come l’energia o la sanità, dobbiamo muoverci rapidamente verso una maggiore integrazione».
Lei è stata eletta da una larghissima maggioranza, speculare al modello Ursula, ma nel Ppe convergono forze che in molte nazioni sono partner di formazioni di destra, euroscettiche. Non crede che questo incida sulla tenuta dell’Unione?
«La mia elezione è un’ulteriore prova che si possono costruire solide maggioranze solo con un forte ideale europeista. Questa è la strada che dobbiamo seguire». Con quali prospettive di crescita?
«L’Ue è il progetto delle possibilità. Abbiamo dimostrato che è possibile creare un’area di pace, libertà, prosperità e sicurezza per milioni di persone, superando i conflitti del passato. Siamo stati in grado di prendere decisioni rapide e senza precedenti sulla pandemia e l’invasione russa. Dobbiamo continuare a rafforzare e migliorare questo progetto, in modo che ne benefici il maggior numero possibile di persone ».
Da tempo si parla della creazione di liste transnazionali per le Europee. Sarà così nel 2024, la vedremo candidata in Italia?
«Penso che le liste transnazionali siano un’ottima idea per l’Europa, tuttavia non
c’è ancora un accordo. Provo un grande amore per l’Italia ma il mio seggio sarà ancora Malta. Non sto pensando molto alla prossima legislatura, le sfide presenti sono davvero tante: il sostegno all’Ucraina e il miglioramento delle nostre politiche in settori come la salute, il cambiamento climatico, la sicurezza, la difesa, la migrazione e il rafforzamento della competitività dell’economia europea».
Cosa le hanno insegnato questi dodici mesi?
«Una cosa che le riassume tutte: l’importanza del rimanere uniti. Guardando indietro, possiamo concludere che l’Ue è più forte di un anno fa. Questo deve essere l’imperativo anche per il 2023: un’Europa più forte e libera».
Foto: J. Thys –Afp / Getty Images
22 gennaio 2023 57
Melina a Milano Ripartenza Roma
Questi milanesi così efficienti. Mica come i romani che parlano di nuovo stadio da quasi quindici anni e non hanno ancora combinato nulla. Nella città del fare, si decide e si fa. Invece anche in questa Milano così poco romana è partito lo scaricabarile a fronte di una demolizione di San Siro sempre più impopolare e sempre più costosa sia in termini di impatto ambientale sia per i costi impazziti delle materie prime. Il preventivo è schizzato da 700 milioni di euro per l’impianto più 500 milioni per la riqualificazione dell’area a tre miliardi complessivi, due dei quali a carico di Inter e Milan. È un’enormità per due club esterovestiti in Cina e Usa rispettivamente che non nuotano affatto nell’oro.
Giovedì 19 gennaio la giunta di Giuseppe Sala, che era chiamata a decidere, ha deciso di prendere atto del dibattito pubblico durato sessanta giorni. Ha deciso di non decidere. Anzi, di decidere salvo decisioni di autorità superiori. E qui l’elenco degli ultimi giorni è lungo. Si sono iscritti alla discussione Vittorio Sgarbi, sottosegretario alla Cultura, il suo ministro Gennaro Sangiuliano, in contrasto con lui, e il presidente del Senato Ignazio La Russa, fedelissimo dell’Inter. Per bilanciare il peso del tifo, è entrato in campo il milanista Matteo Salvini, amico di ultras di fama preclara presso le forze di polizia. Ognuno vuole una cosa diversa. Il ministro delle Infrastrutture punta a sbaraccare la Scala del calcio e pretende dal sindaco il semaforo verde a un progetto che interessa molto anche i veri padroni di Milano, i signori dell’immobiliare.
La Russa, seconda autorità dello Stato e siculo-meneghino a tutto tondo, chiede
addirittura due stadi, uno ristrutturato e uno nuovo, a pochi metri l’uno dall’altro. Sgarbi cavalca un possibile vincolo, oggi relazionale e dal 2024 monumentale, che mantenga lo status quo ante, come vogliono alcuni vip del derby come l’ex presidente nerazzurro Massimo Moratti, la guida carismatica dell’azionariato popolare interista Carlo Cottarelli, editorialista dell’Espresso, e infine il proprietario del Monza, già trionfatore in rossonero, Silvio Berlusconi.
L’affare San Siro ha provocato spaccature trasversali nell’amministrazione cittadina. La maggioranza di centrosinistra è stata contestata da nove consiglieri. L’opposizione si è balcanizzata tra i forzisti, favorevoli alla demolizione contro il loro ondivago leader, e il blocco conservazionista tra Fdi e Lega, anch’essa in contrasto con le direttive del segretario nazionale.
Infine, a fare il vaso di coccio fra i vasi di ferro, c’è la Soprintendenza che ha appena visto l’avvicendamento fra Antonella Ranaldi, approdata Firenze, ed Emanuela Carpani, architetta laureata al Politecnico
POLITICA LA QUERELLE DEGLI STADI
GIANFRANCESCO TURANO
58 22 gennaio 2023
Tutti contro tutti per il nuovo San Siro. Comune e ministero contrapposti, pareri discordi, partiti divisi. E a sorpresa per una volta la Capitale potrebbe essere più veloce
di Milano in arrivo da Venezia, dove ha trascorso gli ultimi sette anni.
In una contesa che si gioca sempre più sui tecnicismi, in teoria l’unico decisore è il Comune. Ma i beni culturali, nella persona di Sgarbi, possono avere un ruolo molto gradito a chi vuole bloccare il piano di fattibilità della nuova Cattedrale, firmato dallo studio Populous. Il Mibact, ammesso che ministro e sottosegretario si mettano d’accordo, può suggerire alla Soprintendenza di porre il vincolo.
Qualcuno nei corridoi di palazzo Marino ricorda il precedente. Nel febbraio del 2019 il ministro del governo gialloverde Alberto Bonisoli vincolò il Giardino dei Giusti a Monte Stella, nel quartiere QT8, contro la delibera di giunta che autorizzava alcune opere edili con l’ok di Ranaldi. La Soprintendente aveva dovuto eseguire le direttive del ministero.
Quattro anni fa le polemiche, e le accuse del Pd alle ingerenze del ministro grillino, non avevano superato le pagine delle cronache locali. Ma San Siro è lo stadio italiano per eccellenza nella contabili-
DERBY
Il milanista Alexis Saelemaekers e l’interista Federico Di Marco durante un Derby a San Siro
tà dei trofei italiani e internazionali. San Siro, e la parola non è sprecata, è un’icona. Paradossalmente, i meno sensibili all’aspetto iconico sembrano proprio Inter e Milan. I due club, reduci dalla visita alla nuova Mecca del football Riad per la Supercoppa italiana, minacciano di trasferirsi nel paradiso artificiale di Sesto San Giovanni. L’ex area Falck passata dai comunisti trinariciuti ai leghisti di rito salviniano, non sarà lontana come l’Arabia Saudita, ma non esistono grandi club in Europa che giocano in un altro comune, peraltro in una zona che si trova a breve
distanza dal Brianteo, l’impianto del Monza berlusconiano. Da quando la partita di San Siro stagna a centrocampo, le regine del calcio milanese hanno fatto la faccia dura. È ancora in ballo il pagamento di una cartella esattoriale da 10 milioni di euro per l’affitto annuale dello stadio nel periodo pandemico. Anche l’aspetto canone è stato valutato dagli oppositori del nuovo stadio. Inter e Milan detraggono dai 10 milioni le spese di manutenzione, non troppo controllate dal locatore. Gli investimenti sono stati limitati all’area spogliatoi e soprattutto alla zona del pubblico vip, dove sono spuntati box per le imprese e un ristorante che corre lungo il lato lungo del terreno al livello del campo di gioco. Curve, terzo anello e la stessa tribuna arancione, l’ex zona distinti pre-mon-
Foto: R. BreganiAnsa
22 gennaio 2023 59
diale Italia 1990, sono molto trascurati. In ogni caso, i 6 milioni circa che il Comune incassa ogni anno e destina all’attività sportiva di base, con il nuovo impianto scenderebbero a 2 milioni di euro per i primi vent’anni della concessione.
FRONTI OPPOSTI
Il sindaco di Milano Giuseppe Sala e il sottosegretario alla Cutura Vittorio Sgarbi. Sopra: un rendering del nuovo satdio
Meglio poco che niente, sostengono i club che prospettano un San Siro abbandonato dal calcio e in pura perdita per le casse di un Comune che, incredibilmente data la ricchezza della città, sono in sofferenza.
La ciliegina sulla torta è la minaccia di causa per danni. La “perdita di tempo” addotta dai club suona risibile ma la situazione ricorda quella di Roma. Dopo che Tor di Valle ha perso la qualifica di area a interesse pubblico a favore di Pietralata, il magnate ceco Radovan Vitek, che ha rilevato l’ex ippodromo dalla crisi del gruppo Parnasi, ha chiesto 291 milioni di risarcimento. Su Pietralata, per una volta, le pratiche sembrano andare spedite.
Nel derby Roma-Milano si prepara un clamoroso sorpasso.
Ambiente
Antonia Matarrese
Impianti, bar e maglie
Ecco le squadre green
Il progetto più importante lo ha messo a segno un club inglese, il Forest Green Rovers, nella contea del Gloucestershire, che ha realizzato uno stadio ecosostenibile in legno, battezzato Eco park e progettato dallo studio internazionale Zaha Hadid Architects: 10 mila posti a pieno regime, un’area verde con 500 nuovi alberi, impianti fotovoltaici, riuso dell’acqua piovana, ricarica per i mezzi elettrici, pista ciclabile. Il patron del club, Dale Vince, titolare di un’azienda di energie rinnovabili, ha previsto che le magliette dei calciatori siano ricavate dalla fibra di bambù, da bottiglie in Pet e fondi di caffè.
Stessa filosofia per una squadra del campionato norvegese, Bodø Glimt: i lavori del nuovo stadio, anche questo in legno, dovrebbero concludersi entro il 2024, anno in cui Bodø sarà Capitale europea della Cultura. Il blasonato Manchester City di Pep Guardiola usa pullman elettrici, propone menù vegani e tazze edibili per servire thè, caffè e cioccolata. Con buona pace dei Mondiali in Qatar da poco terminati. Secondo uno studio di Carbon Market Watch, la quantità di Co2 emessa equivale ad otto volte il consumo annuo di un Paese come l’Islanda. Ovvero, 3,6 milioni di tonnellate di Co2, calcola la Fifa. Cui vanno aggiunti i costi ambientali della desalinizzazione dell’acqua marina. È stato calcolato che, per ogni partita giocata, si sono persi oltre diecimila litri di acqua.
«Se osserviamo l’impatto di una singola partita -dice Tiberio Daddi che coordina la ricerca su sport e sostenibilità del laboratorio Sum (Sustainability management) alla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa - il contributo al cambiamento climatico (carbon footprint) risulta essere di 71 mila kg di Co2 equivalente, pari alle emissioni di una macchina media alimentata a benzina che percorre 500 mila chilometri ovvero 41 volte la distanza stradale fra Roma e Hong Kong. Mobilità dei tifosi, aree ospitalità e bar negli stadi sono i comparti a maggiore impatto. Da metà 2022 le federazioni nazionali sono state invitate da Uefa a nominare un sustainability manager e Figc ha previsto l’adozione di una carta sulla sostenibilità ambientale del calcio».
In Italia, dove la gran parte degli impianti sportivi è poco green, la Adidas, sponsor tecnico della Juventus e da gennaio anche della Nazionale, realizza le divise con materiali riciclati. Così la Nike per l’Inter.
Tottenham e Paris St. Germain si sono dati alla produzione di miele all’interno degli stadi. Venduto negli shop dedicati, finanzia progetti sociali.
Foto: A. DadiAgf, D. dal ZennaroAnsa POLITICA LA QUERELLE DEGLI STADI
60 22 gennaio 2023
Un Paese a mano armata Per sport
Elisabetta Silenzi, 55 anni, Sabina Sperandio, di 71, e Nicoletta Golisano, 50 anni, sono state freddate dalla Glock 45 che Claudio Campiti, 57 anni, aveva portato via l’11 dicembre dal poligono di Tor di Quinto a Roma. «Non si può morire così», era stato il commento della presidente del Consiglio, Giorgia Meloni. Non si può, certo. Anche se non era la prima volta che in Italia l’autore di una strage avesse in mano un’arma “legale”. Il 13 gennaio è accaduto di nuovo, sempre a Roma: il femminicidio dell’avvocata Martina Scialdone, 34 anni. Uccisa da Costantino Bonaiuti, 60 anni, funzionario Enav con la passione del tiro sportivo davanti a un ristorante.
Casi che mettono in luce una serie di vuoti normativi e zone d’ombra sulla detenzione delle armi comuni nel nostro Paese. A cominciare dal fatto che per poter sparare ad un poligono di tiro non è necessario un porto d’armi. È sufficiente iscriversi, presentando il proprio certificato generale del Casellario giudiziale e dei carichi pendenti della Procura di residenza. «Ma come si legge proprio sul sito del tiro a segno nazionale di Roma: in sostituzione dei suddetti certificati l’interessato può sottoscrivere presso i nostri uffici l’autocertificazione prevista per legge», annota Giorgio Beretta, analista dell’Osservatorio permanente sulle armi leggere (Opal).
Non solo. Campiti ha potuto accedere al poligono di Tor di Quinto e impratichirsi con le armi nonostante gli fosse stato negato il porto d’armi già dal 2018. Bonaiuti, invece, di
IL CIRCUITO
L’escamotage dell’uso sportivo consente l’acquisto di armi da tenere in casa
pistole ne aveva quattro a casa, tutte denunciate, sempre per uso sportivo.
Nonostante la legislazione sia tra le più restrittive d’Europa, comprare e tenere in casa un’arma non è poi così complicato. Basta ottenere un “nulla osta all’acquisto”, che può essere rilasciato solo a persone maggiorenni e ha validità di un mese. Lo si ottiene facendo domanda alla polizia o ai carabinieri, allegando una certificazione di idoneità psicofisica rilasciata generalmente dalle Asl e un attestato d’idoneità al maneggio delle armi, ottenuto dopo aver frequentato un corso teorico-pratico che può durare anche solo mezza giornata. Il nulla osta permette solo di acquistare l’arma per portarla alla propria abitazione e tenerla lì.
Il porto d’armi invece può essere concesso per uso “tiro a volo” (chiamato anche “tiro sportivo”), caccia o difesa personale e autorizza a trasportare l’arma al di fuori della propria abitazione per raggiungere il poligono di tiro o l’area di caccia. Ovunque, nel
POLITICA ARSENALI DOMESTICI
La strage all’assemblea di condominio, il femminicidio davanti al ristorante.
Troppe pistole in casa. Su 548 mila titolari di licenza solo un quinto va al poligono
64 22 gennaio 2023
PIETRO MECAROZZI
caso della difesa personale, più difficile da ottenere perché va rinnovata ogni anno e viene rilasciata dal prefetto. Il porto d’armi per uso sportivo, invece, oltre al nulla osta richiede l’iscrizione a un’associazione di tiro. Con le regole attualmente vigenti si possono tenere tre armi comuni da sparo, dodici per uso sportivo, mentre per i fucili da caccia non sono previsti limiti. Il risultato? «La gran parte di coloro che detengono la licenza per tiro sportivo, di fatto non lo pratica: a fronte, infatti, di 548.470 detentori di licenza di tiro sportivo registrati nel 2019 dalla polizia di Stato, gli iscritti alle associazioni sportive erano meno della metà (206.454) e gli effettivi “tiratori puri” meno di un quinto (101.733)», sottolinea Beretta.
La velocità con cui si ottiene, il costo contenuto (circa 300 euro tra abilitazione al maneggio in un poligono di tiro, certificato medico e marche da bollo) e la durata di cinque anni senza alcun tipo di controllo spiegano la grande popolarità delle licenze
sportive. «Solo dopo tragici eventi si scopre che il titolare era affetto da depressione o patologie simili», spiega Beretta. Tra il 2007 e il 2017, infatti, solo nel 15 per cento dei casi l’autore dell’omicidio mostrava sintomi di problemi psicologici gravi. Luca Traini, autore del tentato eccidio razzista di Macerata del 3 febbraio 2018, aveva dovuto aspettare solo 18 giorni per ottenere la licenza per armi da tiro sportivo.
Storia diversa per il versante illegale. «Gliel’ho data io… la 357 gliela ho venduta io». Confessa Salvatore Bellante, originario di Caltanissetta ma da anni residente a Cologno Monzese, inconsapevole di essere intercettato. Era uno dei perni dell’indagine del maggio 2022 dei carabinieri di Sesto San Giovanni sul commercio incessante di pistole, kalashnikov, fucili e bombe a mano che coinvolgeva anche clan foggiani e ’Ndrangheta. Per anni hanno rifornito il mercato clandestino del Nord Italia.
«In passato ho seguito per motivi di
Foto: S. Tramonte
22 gennaio 2023 65
indagine, subito dopo la guerra nell’ex Jugoslavia, la mafia pugliese e albanese che andavano a comprare armi in Bosnia e Montenegro per poi rivenderle alla ’Ndrangheta barattandole con la cocaina, molte di queste armi le abbiamo ritrovate in Calabria», spiega a L’Espresso Nicola Gratteri, procuratore capo di Catanzaro. Uno scenario che oggi potrebbe riproporsi con la guerra in Ucraina. «Mi chiedo perché quando sono state inviate le armi in Ucraina non è stato installato anche un gps per tracciarle?».
Secondo l’ultimo report disponibile di Small Arms Survey, un centro di ricerca di Ginevra che si batte per ridurre il numero di armi in circolazione, nel 2018 in Italia erano presenti 2 milioni di armi legali, a queste si aggiungono ben 6,6 milioni di armi illegali – considerando sia quelle, per esempio, ricevute in eredità ma non registrate o per le quali la licenza è scaduta, che il traffico clandestino portato avanti dalle organizzazioni criminali. Stime, perché un reale censimento statale delle armi in circolazione in Italia non esiste.
«Le ultime indagini hanno posto l’accento sul negozi del dark web e sulle fiere di collezionisti, dove insieme a cimeli si possono reperire ordigni tuttora funzionanti», spiega Marco Garofalo, direttore della prima divisione del Servizio centrale operativo della polizia. Ma non solo: «Un altro versante in continua crescita è quello delle armi faida-te». Si tratta di armi fabbricate clandestinamente con stampanti in 3D. «Una pistola interamente in plastica che non suona al controllo di un metal detector in un aeroporto o edificio pubblico è un fantasma in grado di preoccupare tutti gli attuali sistemi
IL CRIMINE
A rifornire il mercato clandestino sono gli arsenali dell’ex Jugoslavia e dei fronti di guerra
di sicurezza», si legge in un rapporto dell’Europol. E i prezzi per le stampanti tridimensionali sono scesi fino a 200 euro, mentre Internet offre gratuitamente manuali per creare veri arsenali.
E nel dark web, con pochi clic è possibile comprare un kalashnikov AK-47. Tor è il software più diffuso per rimanere nell’anonimato: abbiamo navigato su uno dei portali che vende armi, i cosiddetti black market. Sono una sorta di Amazon dell’illegalità. Un Ak47 costa 700 euro, 230 euro una bomba a mano, in media sui 50 euro le pistole. Fucili e mitragliatrici invece si aggirano intorno ai 200 euro. Il sito promette che nel giro di pochi giorni l’arma, pezzo dopo pezzo, verrà spedita all’indirizzo prestabilito. Il venditore consiglia di prendere domicilio fittizio in una casa abbandonata e montare una cassetta della posta da svuotare la notte. Rischi? «Quasi del tutto assenti», assicura. A oggi, infatti, solo tre gestori di black market mondiali sono stati arrestati.
E c’è anche un modo più tradizionale di procurarsi un “ferro”. «A Napoli chi rifornisce il mercato di droga e armi sono gli ex Di Lauro: il clan Pagato-Amato, gli Abete e gli Abbinante», racconta Gennaro Panzuto, detto “Terremoto”, ex reggente del clan Piccirillo e killer di fiducia del potente clan Licciardi dell’alleanza di Secondigliano. «Non è così difficile comprarne una: i clan acquistano armi in grandi stock, ai loro killer vanno i “ferri” migliori, il resto finisce al mercato nero».
Alcuni resoconti investigativi, che L’Espresso ha potuto visionare, ripercorrono il tragitto dei carichi: «Arrivano dalle regioni della ex Jugoslavia ma anche dall’Iran, passando per i porti adriatici». L’economia criminale dell’area vesuviana da questo commercio guadagna per una pistola da cinquecento a millecinquecento euro, a seconda del modello, mentre un Ak47 può arrivare a costare fino a 5mila euro.
Foto: S. Tramonte POLITICA ARSENALI DOMESTICI
Accanto ai sistemi legali per procurarsi un’arma circolano online manuali per il fai-da-te. Nel dark web si può acquistare un Ak47 per meno di 1.000 euro. Dai clan costa cinque volte di più
66 22 gennaio 2023
Il miglior acceleratore e incubatore di startup innovative digitali in Italia.
Digital Magics è il player dell’ecosistema innovazione che seleziona e segue le startup ad alto potenziale e le aiuta a crescere. Innovare, accelerare, raggiungere traguardi grazie a una visione di mercato e a una strategia basata su tecnologia, digitale, trasformazione e il coraggio di fare impresa.
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Il colosso mondiale delle materie prime fornirà il greggio all’impianto di Priolo ex Lukoil. Non è l’unico legame tra la multinazionale e le imprese degli oligarchi di Putin
TRAFIGURA DALLA RUSSIA CON PETROLIO
ECONOMIA AFFARI E SANZIONI
68 22 gennaio 2023
POLO
Il polo industriale di Siracusa va da Augusta a Priolo, dove si trova la raffineria
Lukoil
22 gennaio 2023 69
ECONOMIA AFFARI E SANZIONI
VITTORIO MALAGUTTI
Tutte le strade portano a Trafigura. C’è il colosso mondiale delle materie prime dietro il groviglio di affari che parte dalla Russia di Vladimir Putin e lega in un’unica trama, una trama nera come il petrolio, due grandi raffinerie distanti seimila chilometri l’una dall’altra.
Si parte da Priolo, non lontano da Siracusa, e si arriva a Varinar, sulla costa occidentale dell’India. L’impianto siciliano lavora il 20 per cento di tutto il greggio che approda in Italia ed eviterà la chiusura grazie alle forniture garantite da Trafigura, dopo che i russi di Lukoil sono stati costretti a farsi da parte, causa sanzioni internazionali. Sulle rive dell’Oceano Indiano la scena si è ribaltata. Qui Trafigura ha venduto una quota del 25 per cento circa del capitale e si è allontanata dai suoi tradizionali alleati con base a Mosca. È così entrato in scena un nuovo azionista, l’italiano Filippo Ghirelli, che si è messo in società con il gruppo Rosneft guidato da Igor Sechin, vecchio sodale di Putin.
Le due operazioni sono state annunciate tra il 9 e l’11 gennaio, a poche ore di distanza l’una dall’altra. «Una pura coincidenza», taglia corto Ghirelli, 42 anni, residenza a Montecarlo, uffici in Svizzera e a Roma, noto alle cronache più che altro per svariate iniziative nel campo dell’energia sostenibile. In India però il nuovo azionista di Nayara Energy, questo il nome della società indiana, punta sui carburanti tradizionali, investendo in uno stabilimento, tra i più grandi di tutta l’Asia, capace di raffinare fino a 20 milioni di barili di petrolio all’anno e forte di una rete di oltre seimila distributori di benzina. «In realtà - sostiene Ghirelli - il nostro obiettivo è partecipare alla riqualificazione energetica dell’impianto, dal recupero del calore allo sviluppo di bioplastiche». Un programma ambizioso. E a lungo termine. Trafigura invece è riuscita da subito a tagliare i ponti con suoi soci russi, compagni di strada imbarazzanti dopo l’invasione dell’Ucraina e le sanzioni economiche contro il regime di Putin.
Negli anni scorsi la multinazionale del trading con sede a Ginevra e Singapore era diventata il principale partner di
TRASBORDO
Le operazioni di scarico del greggio da una petroliera
Rosneft, un’intesa cementata da innumerevoli affari in giro per il mondo. La flotta di Trafigura trasportava il petrolio russo in ogni angolo del pianeta, ma soprattutto verso l’Europa. Ai rapporti commerciali si sono poi aggiunte iniziative comuni anche in campo industriale, dalla raffinazione alla ricerca e allo sfruttamento di nuovi giacimenti. L’intesa aveva fatto un salto di qualità nel 2015, quando il gruppo di Sechin, finito nella lista nera europea dopo l’invasione della Crimea dell’anno precedente, aveva ottenuto proprio da Trafigura nuova liquidità per oltre un miliardo di euro sotto forma di pagamenti anticipati per forniture di greggio.
L’embargo deciso l’anno scorso dai Paesi occidentali ha costretto tutti i grandi trader internazionali a cambiare rotta. Il greggio di Mosca però non è scomparso dal mercato. In parte ha trovato nuovi sbocchi in Asia e un flusso tutt’altro che trascurabile ha continuato a raggiungere l’Europa anche grazie a complicate triangolazioni in cui però Trafigura, più volte tirata in bal-
L’impianto siciliano è stato rilevato dal fondo di investimento
Argus New Energy, con sede a Cipro. Alla sua guida Michael
Bobrov, manager che fino a poco fa lavorava per il gruppo di trading
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lo, ha sempre negato ogni ruolo. Il calo in volume dei traffici è stato comunque ampiamente compensato dal boom dei prezzi delle materie prime in generale, dagli idrocarburi fino ai metalli.
Il bilancio 2022 del gigante del trading si è così chiuso con numeri da record: i ricavi sono esplosi a quota 318 miliardi di euro, oltre il 50 per cento in più dell’anno precedente e il migliaio circa tra azionisti e trader del gruppo, guidati dall’amministratore delegato Jeremy Weir, si sono spartiti circa 1,7 miliardi dividendi (oltre un milione di euro ciascuno, in media) su profitti complessivi per 7 miliardi.
Dopo l’invasione dell’Ucraina, però, Trafigura non ha potuto fare a meno di prendere le distanze dai tradizionali alleati di Mosca anche su altri fronti. La ritirata strategica dal mercato russo è stata avviata con la vendita della partecipazione del 10 per cento nella Vostok Oil, una società controllata da Rosneft nata per sfruttare le immense risorse petrolifere nascoste nel sottosuolo delle regioni artiche. A dicembre
del 2020 il colosso del trading aveva sborsato ben 7 miliardi di dollari (circa 6 miliardi di euro) per partecipare all’affare, benedetto da Putin in persona. Nel luglio scorso, a meno di due anni dalla firma di un accordo che fece grande scalpore negli ambienti diplomatici e finanziari, una società di Hong Kong costituita solo pochi mesi prima ha preso il posto di Trafigura al fianco dei soci russi nel capitale di Vostok Oil. I dettagli finanziari dell’operazione non sono stati resi noti. In sostanza, non è chiaro quanto l’acquirente abbia pagato le azioni e neppure tempi e modi del saldo. Mancano informazioni precise anche sul disimpegno dalla raffineria indiana. Si sa che l’affare è transitato dal Lussemburgo. Nel paradiso fiscale del Granducato ha sede la Hara capital, che per conto di Ghirelli ha rilevato la quota del 25 per cento circa ceduta da Trafigura. A quale prezzo? «No comment», replica l’imprenditore italiano che spiega soltanto di essersi finanziato «sui mercati internazionali». L’unico dato certo è che le azioni passate di mano erano iscritte nel bi-
Foto: Bloomberg / Getty Images; pag 68-69: Gianni Cipriano/The New York Times
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lancio del venditore per 165,9 milioni di dollari e che, come recita un comunicato ufficiale, la transazione ha ricevuto tutti i via libera necessari da banche e autorità.
Il controllo del grande impianto asiatico, che ha il doppio circa della capacità di raffinazione di Priolo, rimane comunque in mani russe. Oltre a Rosneft, il principale fornitore di greggio, con una quota del 49,5 per cento, a libro soci troviamo anche una partecipazione del 25 per cento circa che fa capo al gruppo moscovita Ucp guidato dal finanziere Ilya Scherbovich, da sempre legato al Cremlino e in particolare a Sechin.
La raffineria di Varinar, in posizione strategica sulla costa nordoccidentale dell’India, ha grandi prospettive di crescita. Come detto, per effetto delle sanzioni, buona parte del petrolio siberiano un tempo destinato all’Europa ha preso la via dell’Asia. Priolo invece
è stata costretta ad affrontare il problema opposto: la scarsità di greggio da raffinare una volta esaurite le forniture di Lukoil, azionista unico dell’impianto messo fuori gioco dall’embargo deciso da Europa e Stati Uniti. Peggio ancora, le banche creditrici, in prima linea Unicredit e Intesa, avevano chiuso i rubinetti dei prestiti, nel timore di finire a loro volta nella lista nera delle sanzioni americane in quanto finanziatrici di una società controllata da Mosca.
Per scongiurare il crac serviva al più presto un nuovo socio che prendesse il posto di Lukoil. Nelle settimane scorse è così arrivata dagli Stati Uniti l’offerta del fondo Crossbridge, mentre il governo di Roma era pronto a nazionalizzare temporaneamente la raffineria come ultima ratio per evitare una chiusura che avrebbe lasciato senza lavoro oltre 3 mila persone, tra dipendenti diretti e indiretti. Alla fine, a sorpresa, l’ha spuntata un fondo d’investimento di Cipro, Argus New Energy, che si è fatto avanti tramite la propria controllata, Goi Energy, anche questa con base nell’i-
ECONOMIA AFFARI E SANZIONI
Negli stessi giorni della compravendita di Priolo il gruppo cedeva la sua partecipazione in una grossa raffineria indiana controllata da Rosneft. La quota è stata comprata da un italiano, Filippo Ghirelli
CAPO AZIENDA
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Jeremy Weir, amministratore delegato di Trafigura. A destra: al lavoro sul rame estratto dalle miniere di Kolwezi, in Congo
sola del Mediterraneo, centro offshore per eccellenza della finanza russa.
La nota ufficiale che ha annunciato l’operazione non ha fornito alcuna indicazione sul prezzo pagato dagli acquirenti. Un fatto è certo, però: Trafigura si è impegnata a rifornire di greggio l’impianto siciliano e provvederà anche a rivendere i prodotti petroliferi una volta raffinati. Questo è quanto prevede l’accordo siglato nei giorni scorsi. In altre parole, usciti di scena i russi, sarà la multinazionale del trading, antica alleata di Mosca, a garantire un futuro a Priolo. Per comprendere i reali equilibri tra le forze in campo basta un particolare. Al posto di comando del fondo Argus New Energy c’è Michael Bobrov, un manager che fino a settembre lavorava in Israele per Trafigura. Il mondo è piccolo.
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miliardi di euro
I profitti di Trafigura nel 2022, più che raddoppiati rispetto al 2021
MILIARDI DI EURO
I ricavi del gruppo Trafigura nel 2022
7,1
318
La percentuale acquistata dall’imprenditore Filippo Ghirelli nella raffineria indiana di Varinar
24,5
I dipendenti della raffineria di Priolo, compreso l’indotto
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La percentuale del petrolio raffinato a Priolo sul totale del greggio lavorato in Italia
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Foto:
/
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Images
Simon Dawson
Bloomberg via Getty
Getty
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ECONOMIA FINANZA E POTERE
Vivendi cerca soldi nella rete
CHIGI
Una neverending story densa di rebus e colpi di scena. È la partita per il decollo della rete digitale in Italia, che si gioca intorno al destino degli asset di Telecom, da mesi al centro delle cronache finanziarie. Prossimo appuntamento: mercoledì 25 gennaio, con tutti i protagonisti coinvolti convocati al Mimit (Ministero delle Imprese e del Made in Italy) dal titolare Adolfo Urso, che assieme a Palazzo Chigi gestisce il dossier.
In sintesi: l’Italia è in ritardo nella realizzazione di una rete digitale di ultima generazione, l’autostrada più importante oggi per lo sviluppo economico e sociale. Con il Pnrr l’Europa ha destinato risorse consistenti, che vanno assolutamente intercettate. Per questo il governo Draghi aveva individuato un percorso, la creazione di una rete unica frutto dell’unione delle infrastrutture di Telecom e Open Fiber (Of), l’operatore nato nel 2015 e oggi controllato al 60% da Cassa Depositi e Prestiti (Cdp) e dal fondo australiano Macquaire.
L’esecutivo a guida Giorgia Meloni ha subito aperto il dossier, affidandolo appunto a Urso e ad Alessio Butti, sottosegretario con delega al digitale, ed entrando nel vivo con una serie ravvicinata di riunioni lo scorso dicembre.
Primo risultato di quegli incontri, serviti per capire i dettagli di una operazione non semplice: la Rete sarà sì nazionale, ma non unica: Of, almeno per il momento, rimane fuori dal perimetro, anche per le lunghezze dell’esame Antritrust dell’Unione Europea in caso di operatore unico.
Fin qui un cambio di rotta, ma nessun problema insormontabile: una scelta di politica industriale. Rete Nazionale, quindi, e a guida pubblica: centrata sul ruolo di Cdp, la cui quota di controllo (83%) è nelle mani del Ministero dell’Economia e delle Finanze (Mef), ed è guidata da Dario Scannapieco.
A complicare e non di poco la situazione è l’azionariato di Telecom. Da giugno 2015 azionista principale è il gruppo francese quotato Vivendi del finanziere Vincent Bolloré, che di recente ha passato il timone ai figli Cyrille e Yannick. A seguire il dossier hanno messo il loro uomo di punta: Arnaud de Puyfontaine, che di Vivendi è l’amministratore delegato. Vivendi era entrato in Telecom nel 2015, a seguito di un’operazione su una controllata in Brasile con la spagnola Telefonica (precedente azionista di rilievo di Telecom). Qualche cifra: Vivendi entrò in Telecom con il titolo (quotato in borsa) a 1,16 euro; nei mesi successivi altri acquisti, sino ad arrivare al 24% circa del capitale. Spesa complessiva: 3,9 miliardi, con un valore di carico medio a 1,07 euro. Da allora, la gestione di Telecom entra in un vortice: i capiazienda si susseguono uno dietro l’altro. In successione: Marco Patuano, Flavio Cattaneo, l’israeliano
GIORGIO
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La strategia del governo per l’infrastruttura digitale nazionale non piace ai francesi. Le dimissioni di Puyfontaine dal cda di Telecom per lasciarsi le mani libere
Amos Genish, Luigi Gubitosi, Pietro Labriola. A oggi, ben cinque in poco più di 90 mesi. Una media di 18 mesi a testa.
SORPRESA
L’amministratore delegato di Vivendi, Arnaud de Puyfontaine si è dimesso, con una mossa a soprpresa, dal cda di Telecom, di cui il suo gruppo è il primo azionista
E il titolo? Giù, sempre più giù, sino a toccare il fondo: 0,17 euro lo scorso 12 ottobre. Per poi risalire a quota 0,26 nella settimana del 16 gennaio. Capitalizzazione attuale di Telecom (ordinarie più risparmio): 3,95 miliardi. La quota di Vivendi vale oggi 950 milioni, con una perdita rispetto all’investimento iniziale di tre miliardi. Nel frattempo già due le svalutazioni a bilancio, con un valore di carico attuale a 2,3 miliardi (e una ulteriore minusvalenza potenziale di 1,4 miliardi).
Questa analisi sui conti di Vivendi spiega i colpi di scena dell’ultima settimana. Se il 23 dicembre scorso de Puyfontaine sottolineava come sulla Rete «il clima è sereno per considerare altri investimenti di Vivendi in Italia», la mattina di lunedì 16 gennaio a mezzo stampa sbatteva la porta e lasciava il board di Telecom, creando una situazione insolita, nessun rappresentante diretto di Vivendi nel consiglio. Perché?
Tutto ruota intorno alle modalità di cre-
azione della Rete Nazionale. «È Cdp il nostro soggetto, tutti gli altri possono concorrere, ma la guida pubblica significa che Cdp è il soggetto», ha dichiarato Urso in audizione al Senato, il giorno successivo alle dimissioni, aprendo anche la porta ad altre realtà «a cominciare dai fondi». Il disegno che nel corso delle riunioni al Mimit ha iniziato a delinearsi come il più coerente è quello di una offerta di Cdp, magari accompagnata da fondi come Macquaire e Kkr (quest’ultimo già presente in Fibercoop, controllata Telecom) direttamente a Telecom, per rilevarne la Rete. Il vantaggio: le risorse affluirebbero direttamente a Telecom, e sarebbero quindi destinate a ridurne il debito, salvaguardando la forza lavoro (a rischio sono molti dei 40 mila dipendenti), e con beneficio per tutti gli azionisti. Vivendi, a seguire la stessa Cdp con il 9% (entrata nel 2018), migliaia di piccoli azionisti e fondi comuni.
A de Puyfontaine questo schema non sta bene. Per i francesi meglio una scissione, una divisione in due di Telecom: una società di servizi (ServCo) e una di Rete
Foto: N. Laine/Bloomberg /Getty Images
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ECONOMIA FINANZA E POTERE
2015
1,16
(NetCo). Con i soci attuali di Telecom riprodotti in fotocopia nelle due società. Perché? Semplice: a quel punto l’offerta di Cdp&Co dovrebbe essere non a Telecom, ma a Vivendi stessa, per rilevarne il 24% della quota nella NetCo. Con il risultato che ingenti risorse entrerebbero direttamente a Vivendi. Tutto a scapito dell’intera filiera italiana del valore della Rete.
Cassa
Questo l’oggetto del contendere. Per questo de Puyfontaine ha lasciato il cda, quando ha capito che dopo i primi approfondimenti il nuovo governo aveva percezione della validità anche etica di una offerta direttamente a Telecom. Per di più, la scissione richiederebbe non meno di 1214 mesi. Ma soprattutto si è dimesso perché se, come non è escluso, alla fine l’offerta arrivasse (a Telecom), si sarebbe trovato nell’imbarazzo di vedere magari la maggioranza dei consiglieri guardare con favore al progetto, magari così consigliati dagli advisor. Il ruolo degli advisor finanziari, infatti, è cruciale per operazioni del genere, e il giudizio non potrebbe essere disatteso dal board. Per la società guidata da Labriola, lavorano da mesi nomi del calibro di Goldman Sachs, Vitale e Mediobanca. Gli azionisti indipendenti si sono affidati ad Equita.
Appuntamento al 25 gennaio, giorno in cui la Chiesa cattolica celebra la conversione di San Paolo apostolo sulla via di Damasco.
1,07
3,95
2,3
Quota di carico medio
La quota di Vivendi vale oggi circa 950 milioni con una perdita di 3 miliardi, il 75% dell’investimento iniziale
Valore di carico attuale a fine giugno 2022, ultimo bilancio disponibile
Vivendi entra in Tim il 25 giugno
VALORE AZIONI
EURO MILIARDI EURO
ATTUALE CAPITALIZZAZIONE DI TIM (ord più risparmio)
MILIARDI
Foto: Agf
Nei mesi successivi arriva a quasi il 24%
Depositi e Prestiti farebbe un’offerta all’azienda italiana per rilevare la rete.
Il gruppo di Bolloré avrebbe voluto prima una scissione per poter massimizzare i propri incassi
FIGLI
Vincent Bolloré con i figli Yannick (a sinistra) e Cyrille ai quali ha ceduto la guida delle aziende di famiglia
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Bruschini
inflazione italiana è stata stimata all’11,6%. Da noi si registra la punta massima, mentre nei Paesi europei si rileva un livello più contenuto. La dinamica dell’inflazione in Francia, infatti, registra una crescita del +5,9% e in Germania del +8,6. Pesano sul nostro sistema economico, quale Paese trasformatore di materie prime, i maggiori costi dell’energia e delle importazioni. In più sedi si discute su come la Bce tenti di frenarne la corsa. Molto probabilmente, in luogo di puntare sia sull’incremento del costo del denaro sia sul blocco del quantitative easing, sarebbe stato meno dannoso se la Bce, sin dalla fine del 2021,
Una Finanziaria che punta al naso anziché alla Luna
quando apparivano i primi segnali della ripresa internazionale, avesse concentrato l’azione a ridurre la liquidità immessa sul mercato finanziario per la difesa dell’euro e per arginare gli effetti del Covid-19. E, tuttavia, non possiamo non convenire che è dura contrastare l’inflazione da costi indotta da rincari generalizzati delle energie fossili in un Paese fragile come il nostro, è lo è ancora di più quando il governo con la legge finanziaria ha scelto di impiegare 6,5 miliardi di euro di spesa pubblica in deficit per il varo di misure identitarie per legittimare la Visione della presidente Meloni in occasione del dibattito in Senato sulla fiducia. Con l’aumento della Flax Tax, con il condono delle bollette fino a mille euro, con il bonus fiscale alle società di calcio e con quota 103, ne esce, checché ne pensi la presidente del Consiglio, una Visione della nazione con il fiato corto, che punta al naso, anziché alla
Luna. Da queste azioni ne è scaturita la scelta di reintrodurre le accise e l’Iva al 22% che dal 1° gennaio ha prodotto aumenti di 18,3 centesimi per benzina e diesel. Misure destinate ad alimentare l’inflazione, anziché attutirla, perché si tratta di un componente di costo che entra nella struttura dei prezzi di tutti i prodotti.
L’utilizzo della spesa pubblica in deficit per finanziare con interventi identitari la “presa della Bastiglia” ha indotto la presidente del Consiglio a rimangiarsi ciò che durante la deflagrazione dei costi energetici, a causa della guerra in Ucraina, era stato il suo cavallo di battaglia: azzerare la vergogna degli oneri di sistema. Ma per azzerarli per tutto il 2023 ci sarebbero voluti troppi soldi, 12 miliardi di euro. Senza le spese identitarie, invece, si poteva prorogarli per almeno sei mesi, attendendo l’evoluzione del mercato. Invece no! Meglio non fare niente.
L’andamento del risparmio finanziario depositato presso le banche è un’interessante cartina di tornasole dei morsi dell’inflazione. Infatti, mentre dal 1° gennaio 2019 al luglio del 2022 la loro consistenza aveva registrato una crescita di 274 miliardi, a ottobre 2022 si è constatata una brusca inversione di tendenza, con un calo dei depositi dal luglio scorso, in tre mesi, di 50 miliardi di euro, pari al 2,47% del totale.
A niente vale che i partiti della maggioranza si sbraccino nel sostenere che la manovra è stata approvata dall’Europa, quindi tutto bene. E no. Le cose alla fin fine non potrebbero stare così. Il rispetto del vincolo di bilancio non è un plauso alle scelte politiche che lo animano. I conti si faranno dopo, anche con l’Europa. Non so se il governo si accorgerà, mi auguro di sì, di questa scelta politica. Una cosa è certa: quando l’inflazione peserà di più sulla borsa della spesa, chissà cosa continuerà a pensare quell’elettorato di destra che vagheggiava con Fratelli d’Italia il ritorno dello spirito proprio della fiamma.
BANCOMAT
È dura contrastare l’inflazione, se il governo impiega spesa pubblica in deficit per le misure identitarie
L’
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Alberto
ECONOMIA EQUILIBRIO TRA VITA E PROFESSIONE
FUORI ORARIO
Interi piani di uffici illuminati durante la notte, a Londra
Venerdì chiuso Lavorare meno, lavorare meglio
MATTEO NOVARINI
Miwa Sado aveva 31 anni, faceva la giornalista ed è stata uccisa dal lavoro. Anzi, dal troppo lavoro. È morta un giorno di quasi dieci anni fa, con il cellulare ancora stretto in mano, dopo aver accumulato 159 ore di straordinari in un mese. La sua storia ha spinto il Giappone a fare i conti con un male così diffuso da avere un nome — karoshi, morte per eccesso di lavoro — e da uccidere, secondo gli attivisti del Consiglio nazionale per la difesa delle vittime del karoshi, diecimila persone all’anno. Nel 2021 il governo di Tokyo ha deciso di affrontare il problema con un nuovo strumento: la settimana lavorativa di quattro giorni, inserita tra le linee guida del Piano economico annuale. Una misura che vorrebbe anche lasciare più tempo ai lavoratori per l’aggiornamento professionale, permettere alle coppie di fare più figli e ringiovanire così una società sempre più vecchia.
Il Giappone non è stato né il primo né il solo Paese a proporre la settimana corta. Il caso più conosciuto è quello dell’Islanda, che tra il 2015 e il 2019 ha coinvolto 2.500 persone in esperimenti su diversi tagli di orario in 66 luoghi di lavoro. Secondo la società di ricerca Autonomy e l’Associazione islandese per la sostenibilità e la democrazia, che hanno analizzato i risultati, è stato «un successo straordinario»: mentre la produttività è rimasta costante o è
aumentata, i dipendenti hanno accusato meno stress.
Più di recente, il Belgio ha proposto di permettere la scelta tra quattro o cinque giorni, a parità di stipendio, all’interno di una riforma che sancisce anche il diritto di spegnere i dispositivi elettronici e di ignorare le comunicazioni legate al lavoro fuori orario. La Scozia, invece, ha stanziato 10 milioni di sterline per un programma sperimentale. La Spagna ha approvato un progetto pilota, il Portogallo lo farà partire nel 2023.
In Italia, per adesso, i test sono limitati alle iniziative di alcune aziende. Intesa Sanpaolo ha deciso di proporre ai dipendenti, oltre a 120 giorni di smart working all’anno, una settimana di quattro giorni da nove ore, a parità di retribuzione. «Un nuovo modello organizzativo che va in-
Foto: N. Pandev / Getty Images
Dalla Gran Bretagna al Giappone, sempre più Paesi sperimentano la settimana di quattro giorni. In Italia, sono le aziende a sceglierla.
A beneficio della salute dei dipendenti. Ma pure della produttività
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ECONOMIA EQUILIBRIO TRA VITA E PROFESSIONE
contro alle esigenze di conciliare gli equilibri di vita professionale e lavorativa e dimostra attenzione al benessere del personale», secondo la banca. Intanto Magister Group passerà da 40 a 32 ore nelle sue società Ali e Repas, Lavazza si è limitata ai venerdì brevi tra maggio e settembre, Tim a chiudere gli uffici il venerdì aumentando le giornate di lavoro da remoto.
L’ultimo grande esperimento è in corso in Gran Bretagna. I ricercatori di Cambridge, di Oxford e del Boston College valuteranno l’impatto della settimana corta sulla produttività e sul benessere dei dipendenti di 70 aziende in diversi settori.
I risultati saranno pubblicati a febbraio. Il Financial Times, nel frattempo, ha intervistato quattro imprenditori che hanno aderito e tre di loro hanno dichiarato di volere mantenere la settimana di quattro giorni anche in futuro. «Dopo la pandemia, le persone sono esauste», ha raccontato al giornale britannico Shaun Rutland, amministratore delegato dell’azienda di videogiochi Hutch: «In questo periodo abbiamo perso un bel po’ di persone». L’orario ridotto è diventato, quindi, un modo per attrarre e trattenere personale.
Tra i sostenitori della settimana breve ci sono gli ambientalisti. Un giorno di lavoro in meno significa un giorno in meno in cui i dipendenti devono guidare fino al lavoro e in cui gli uffici devono essere riscaldati. Le organizzazioni britanniche Platform London e 4 Day Week Campaign hanno calcolato che accorciare la settimana lavorativa equivarrebbe a eliminare dalle strade 27 milioni di auto. E se è vero, come ha rilevato l’Institute for Fiscal Studies londinese, che la disparità salariale tra uomini e donne aumenta dopo la nascita del primo figlio, la settimana corta può essere una soluzione: un giorno in meno in ufficio è un giorno in più
che un genitore può trascorrere con i figli, con una miglior organizzazione familiare e senza dover rinunciare alla carriera o accumulare uno svantaggio rispetto ai colleghi dell’altro sesso.
C’è anche la questione salute che non riguarda solo il Giappone. Secondo l’Organizzazione mondiale della Sanità, 745 mila persone sono morte nel solo 2016 per ictus e malattie cardiache riconducibili a un carico eccessivo di lavoro. Le troppe ore in fabbrica o in ufficio aumentano poi la probabilità di errori, incidenti e malattie: causano, dunque, costi anche per il datore di lavoro. Lo hanno dimostrato ricerche su diversi settori: quelle di Stanford sugli operai dell’industria bellica durante la Prima guerra mondiale e sui programmatori di software, oppure quella dell’Università giapponese di Waseda su uno studio di architetti. Anche un dato Ocse, d’altra parte, prova che lavorare di più non rende sempre un’economia più forte: gli italiani lavorano 1.669 ore all’anno, contro le 1.349 dei tedeschi.
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Orario ridotto, smart working, diritto alla disconnessione. Misure per limitare lo stress, aumentato con la pandemia, a parità di retribuzione. Anche se non mancano le voci critiche
Molti economisti, però, restano scettici. Quando la prima ministra finlandese, Sanna Marin, ha parlato di settimana di 24 ore, Carlo Cottarelli ha scritto su Twitter: «La premier finlandese propone di lavorare 24 ore a parità di stipendio, perché stare a casa aumenta la produttività. Mah! Di solito la produttività dipende da tecnologia, investimenti...». Altri sottolineano che stare al lavoro non significa solo produrre. L’obbligo di aumentare la propria efficienza, per concentrare in quattro giorni il lavoro di cinque, renderebbe più difficile socializzare, condividere le competenze e costruire una cultura aziendale. Brendan Burchell, professore di Cambridge che dovrà valutare gli esiti dell’esperimento britannico, ammette che «una delle cose più dannose per la salute mentale del personale di un’azienda è la costante pressione di dover lavorare con scadenze serrate e ad alta velocità». Lo hanno provato sulla propria pelle i dipendenti di Digital Enabler, una società tedesca di siti per e-commerce che ha sperimentato turni di cinque ore.
TURNI IN FABBRICA
Un lavoratore nello stabilimento Lavazza di Torino, nel marzo 2016
Per aiutarli a concentrarsi, i dirigenti hanno tentato di separarli dai telefoni e dai social durante il lavoro, ma non potere contattare amici e parenti per tutta la mattina si è rivelato un peso eccessivo.
Eppure, l’idea che non siano necessarie 40 ore di lavoro settimanali è tutt’altro che recente. Nel 1930 John Maynard Keynes prevedeva che ai suoi nipoti ne sarebbero bastate 15. Tre anni dopo Giovanni Agnelli, in una lettera a Luigi Einaudi, indicava «l’incapacità dell’ordinamento del lavoro» di trasformarsi alla stessa velocità «dell’ordinamento tecnico» come causa di disoccupazione. Nel 1935 Bertrand Russell, nel suo “Elogio dell’ozio”, affermava che, «con un minimo di organizzazione», quattro ore al giorno sarebbero state sufficienti a produrre abbastanza per tutti. Nel 1965 una commissione del Senato americano stimava che entro il 2000, grazie al progresso tecnologico, gli statunitensi avrebbero lavorato 14 ore a settimana.
Dopo la conquista del sabato libero, però, in gran parte dell’Occidente non si è quasi più discusso di riduzioni di orario. «Per 30 anni l’idea dominante è stata quella della produttività a tutti i costi», ha spiegato Simone Fana, autore del saggio “Tempo rubato”. Il giornalista Davide De Luca ha scritto che «per una finta partita Iva o un lavoratore di una moderna startup, in cui il culto dell’impresa stabilisce che chi lascia la scrivania prima delle 20 è un peso di cui l’azienda deve liberarsi, la riduzione degli orari non sembra più un tema vincente». Dopo la pandemia, la sensibilità pare essere cambiata. La sintesi migliore, forse, la fornisce ancora il professor Burchell di Cambridge: «Spesso le persone parlano della settimana di cinque giorni come se fosse indicata nel libro della Genesi. Sono molto lontane dalla verità. Alcune delle argomentazioni contro la settimana di quattro giorni si dimostreranno infondate. Se si vuole andare in quella direzione, le persone possono farcela».
Foto: M. Bertorello –Afp / Getty Images
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Rivoluzione verde Il treno che il Paese sta rincorrendo
Per decarbonizzare la siderurgia bresciana, che da sola produce il dieci per cento delle emissioni dell’acciaio italiano, i manifatturieri hanno stretto un’alleanza con gli allevatori locali. Brescia, infatti, è una costellazione di acciaierie e stalle: le prime consumano un sacco di metano, le seconde ne producono anche di più. Realizzando 30 biodigestori si produrranno entro il 2025 fino a 100 milioni di metri cubi annui di gas per soddisfare il 40 per cento del fabbisogno delle acciaierie, 180 mila le tonnellate di anidride carbonica in meno, un risparmio di 160 milioni di euro sulle importazioni di gas e investimenti sul territorio per 200 milioni. La via bresciana per affrontare la transizione ecologica è un percorso obbligato: «La sopravvivenza delle acciaierie si gioca tutta sulla decarbonizzazione», ha detto Antonio Gozzi, presidente di Federacciaio. Le 13 imprese coinvolte da Confindustria Brescia nel progetto del biometano valgono sei miliardi di fatturato e danno lavoro a 5.500 persone. Non stupisce quindi la fretta nel sostenere questo business: ma il resto d’Italia tiene lo stesso passo?
Angelica Sbardella e Aurelio Patelli, scienziati del Centro Studi Enrico Fermi, sfruttando la fisica e i big data possono stabilire quanto siano performanti e solide la capacità di innovare delle imprese italiane e la competitività regionale. Lo fanno sfruttando l’Economic Fitness and Complexity, disciplina inventata da Luciano Pietronero, a capo del team di ricercatori dell’Istitu-
to Fermi, creatore di un algoritmo in grado di definire il potenziale industriale di Stati e regioni. A livello quantitativo l’Italia non ha fatto grandi passi in avanti: produce il cinque per cento dei brevetti europei, mentre gran parte dell’innovazione è in mano alla Germania (46 per cento). Ma applicando l’algoritmo di Pietronero si scopre che la Lombardia è la regione europea dove si concentrano le innovazioni più competitive ed è l’intero Nord Italia, più la Toscana, a segnare un’eccellenza, insieme a Île-deFrance e Germania del Sud.
Restringendo il campo ai brevetti verdi, l’Italia non brilla: il 46 per cento delle idee più originali è tedesco, la Francia segna il 17 per cento, l’Italia è al quattro, raggiunta dalla Spagna. «C’è un arretramento di Puglia, Abruzzo, Piemonte e Lazio che innovano meno e hanno perso competitività nei confronti dell’Est Europa, ma anche
ECONOMIA INNOVAZIONE SOSTENIBILE
Grazie a un algoritmo, il Centro Studi Fermi ha stabilito quanto le nostre imprese siano competitive sul piano delle tecnologie per la transizione ecologica.
Solo il 4 per cento dei brevetti è italiano
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GLORIA RIVA
della Spagna, cresciuta molto nell’ultimo ventennio», dice il fisico Patelli, che continua: «Eppure Lombardia ed Emilia-Romagna sono campionesse internazionali nella capacità innovativa, così come la Liguria. Non producono un elevato numero di brevetti, ma sono in media più competitive». Nel Centro Italia, il traino è la Toscana seguita da Umbria e Marche, mentre al Sud dà segnali di dinamismo la Campania.
Il 25 gennaio l’indagine sarà presentata a Roma all’evento “La transizione ecologica: un’opportunità di sviluppo per l’Italia”, organizzato dal Centro Fermi con la Scuola Sant’Anna e il Forum Disuguaglianze Diversità, e L’Espresso ne anticipa i risultati: «L’Italia è ai vertici nella generazione di energia da fonti rinnovabili e nelle tecnologie per la mitigazione da gas serra, come nelle batterie e nei sistemi di stoccaggio dell’idrogeno. Siamo anche avanzati nel ri-
uso e riciclo dei rifiuti, nella preservazione della qualità dell’aria. Mentre siamo arretrati sulle tecnologie digitali a sostegno della transizione, su cui è necessario investire di più», dice Sbardella.
Un business su cui puntare è quello delle batterie agli ioni di litio: il Molise si appresta a ospitare la gigafactory di Stellantis per concentrarsi sull’auto elettrica, in Campania la società cinese Faam ha già avviato una linea produttiva. «È un settore da sostenere», conferma Marco Righi, fondatore della reggiana Flash Battery, leader nelle batterie al litio: «L’elettrificazione dei veicoli è solo all’inizio. Il nostro business passerà dall’attuale produzione prototipale di migliaia di batterie a quella massiccia di milioni di pezzi entro pochi anni». La Flash Battery realizza sistemi di elettrificazione di furgoncini per il delivery nei centri storici, di vetture per la pulizia e la raccolta
LA RICERCA
I laboratori di Technoprobe, azienda lecchese tra le più dinamiche nel settore dei semiconduttori e della microelettronica
Foto: Technoprobe © Laila Pozzo
22 gennaio 2023 83
L’Innovation Lab di
Enel a Catania, esteso per oltre dieci ettari, dispone di apparecchiature all’avanguardia nel campo dell’energia rinnovabile
dei rifiuti, di carrelli automatici, ma anche di macchine da scavo, betoniere e trattori. «Non esiste in Europa un’industria chimica sufficientemente sviluppata per rispondere alla domanda di litio, indispensabile per le batterie. Nello scenario di tensioni internazionali che si prefigura non è una grande idea dipendere totalmente dalla Cina, tanto più che la domanda potrebbe crescere al punto da non poter essere soddisfatta con le sole importazioni».
Proprio le gigafactory potrebbero essere fra le destinatarie dei fondi europei che la Commissione si appresta a creare per sostenere l’industria del Vecchio Continente. Nel dettaglio se ne parlerà al Consiglio Europeo straordinario del 9 e 10 febbraio, ma già la presidente Ursula von der Leyen ha annunciato che il Fondo per la Sovranità europea sarà pronto entro l’estate e sarà accompagnato da un allentamento dei vincoli sugli aiuti di Stato. L’obiettivo è contrastare l’iniezione di oltre mille miliardi di dollari che il governo statunitense ha deliberato a sostegno dell’industria americana per combattere la permacrisi, l’inflazione e per affrancarsi dal dominio cinese dei microchip e dell’elettronica di base. «La politica economica europea sta sostenendo gli sforzi
dell’industria per azzerare le emissioni di gas serra entro il 2050, ma nel nostro Paese persiste una lobby industriale che ci condanna a un declino economico irreversibile», avverte Andrea Roventini, economista della Scuola Sant’Anna, che continua: «I prossimi dieci anni sono fondamentali non solo per la lotta al cambiamento climatico, ma per rilanciare la crescita economica sostenibile e inclusiva dell’Italia. Gli interventi necessari sono talmente grandi che non possono essere assoggettati alla logica del mercato costi-benefici. C’è bisogno di uno Stato innovatore, che non pensi solo ai dividendi delle proprie società pubbliche, ma crei rapporti simbiotici tra le imprese statali e private».
I tempi per mettere a punto una tale rivoluzione sono strettissimi e non sarà neppure facile inserirsi in mercati veloci e competitivi, come spiega Roberto Crippa, alla guida di Technoprobe, azienda lecchese da mezzo miliardo di fatturato e utili che si attestano attorno ai 240 milioni, una delle imprese più dinamiche nel settore dei semiconduttori e della microelettronica. Conta fra i propri clienti colossi come Apple, Tsmc, Intel, Stm, ha tre centri di ricerca, 600 brevetti depositati, un quarto della forza lavoro impiegata in ricerca e sviluppo: «I prodotti che oggi offriamo al mercato sono in gestazione negli uffici tecnici dal 2017. E le tecnologie che stiamo studiando oggi vedranno la luce fra due o tre anni: questo perché i clienti condividono con noi quelle che adotteranno nei prossimi cinque. L’elettronica, il digitale e le tecnologie più innovative hanno una velocità di cambiamento rapidissima», spiega l’imprenditore, facendo notare quanto in realtà risulti difficile salire sul treno in corsa dell’innovazione tecnologica. E la rapidità resta il tallone d’Achille italiano. Tornando al progetto bresciano, ad esempio, gli imprenditori raccontano che ci sono oltre mille richieste di biodigestori, utili a trasformare gli scarti degli allevamenti in metano, bloccate dalla burocrazia.
Foto: Enel Green Power
ECONOMIA INNOVAZIONE SOSTENIBILE
FONTI PULITE
Ci sono eccellenze come Lombardia ed EmiliaRomagna. E siamo avanti in vari settori:
dall’energia rinnovabile
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al riciclo dei rifiuti. Ma il tallone d’Achille resta la scarsa rapidità del cambiamento
Fabrizio Barca
Due Italie coesistono l’una accanto e dentro l’altra. In campo sociale, ci sono organizzazioni di cittadinanza attiva che danno voce a saperi e aspirazioni delle persone rimuovendo «ostacoli al pieno sviluppo della persona umana»; ma anche associazioni che sfruttano la loro natura “terza” per prendere commesse facili e sottopagare il lavoro. In campo pubblico, lavoratori e lavoratrici che rischiano nell’interpretare discrezionalmente procedure ridondanti per servire il Paese; ma anche funzionari che si nascondono dietro le norme senza attenzione all’effetto del loro agire o non agire. In campo privato, im-
La politica scelga tra l’Italia giusta e l’Italietta furba
prese piccole, medie e medio-grandi che innovano, rischiano, creano buoni lavori, hanno relazioni industriali democratiche, rendono trasparente il proprio impatto ambientale e fanno della sostenibilità uno strumento; ma anche un mondo imprenditoriale che non innova, non garantisce la sicurezza di chi lavora, relegandolo nell’irregolarità, e nasconde i danni ambientali.
Le politiche possono eliminare ostacoli all’Italia giusta. Oppure assecondare l’Italietta – si merita questo nome — verso un’inarrestabile decadenza dove le disuguaglianze diventano ancora più grandi.
Quando hai per le mani risorse speciali, che non torneranno, come col Pnrr, la responsabilità è maggiore. Puoi pensare solo a spenderle – se ci riesci – per dare un po’ di ossigeno all’Italietta, o usarle per compiere una svolta e liberare l’altra Italia.
Ecco perché i risultati delle analisi dell’I-
Il governo usi le risorse disponibili per favorire la parte del Paese che lavora per la transizione verde
stituto Fermi sono così importanti. Ci descrivono con rigore un pezzo dell’Italia che lavora per un futuro più giusto. Usando le informazioni sulla capacità di brevettare nuove idee, ci mostrano che sul fronte delle tecnologie di una transizione verde siamo nel pacchetto delle prime nazioni d’Europa, anche se non in testa, e che lo siamo grazie a un ruolo significativo nelle energie rinnovabili e nell’economia circolare. E ci mostrano anche la posizione primaria della Lombardia e di rilievo dell’Emilia-Romagna. Ma pure segnali significativi nel Sud, che è decisivo cogliere.
Attenzione: i numeri non dicono che l’Italia acchiapperà il treno della transizione ecologica, ma che esiste la capacità per farlo. E non c’è scritto da alcuna parte che quella transizione e un accelerato processo di decarbonizzazione siano destinati a produrre un bagno di sangue per imprese e lavoro. Dipenderà dalla capacità di gestire con radicalità il cambiamento, di assicurare una riconversione che produca buoni lavori, mentre ne vengono meno altri. Conterà, certo, la capacità del sistema delle imprese dell’Italia migliore. Ma, come in ogni momento di mutazione industriale e «distruzione creativa», conterà la capacità delle politiche pubbliche di rimuovere gli ostacoli alla moltiplicazione di imprese verdi, concentrando su di esse gli incentivi esistenti; utilizzando le grandi imprese pubbliche per realizzare investimenti che indichino la strada alle altre (come il Forum Disuguaglianze Diversità ha proposto da tempo); orientando la domanda pubblica per sanità, scuola, mobilità, cura del territorio; e, nell’installazione di pannelli solari e pale eoliche, costruendo spazi di confronto che consentano alla cittadinanza di orientare le scelte. E conterà la capacità di accompagnare le crisi aziendali affinché lavoratrici e lavoratori possano concorrere a costruire nuove opportunità. Quale Italia sarà favorita dal governo?
L’INTERVENTO
22 gennaio 2023 85
Il conto salato del golpe fallito
DANIELE MASTROGIACOMO
è chi piange, chi si dispera, chi accusa di «tradimento» i militari che al posto di proteggerli li ha consegnati alla polizia. La favola del Bene che sconfigge il Male questa volta ha un risvolto imprevisto. Svela che si è trattato di un grande inganno. Chi la raccontava sulle messaggerie criptate con nomi di gruppi che evocavano lotte mistiche alle lussurie dell’antica “Babilonia” o ricordavano l’innocenza del “Bambino” o ancora proponevano “Feste” e frivole “Caccia e pesca”, in un gioco di fantasia che puntava a depistare chi scandagliava la Rete, alla fine ha lanciato il sasso ma nascosto la mano.
C’è un gruppo preciso che ha mestato nel torbido. Che ha mobilitato la piazza senza esporsi. Che ha atteso il risultato e quando ha visto il fallimento ha preso il largo. Non solo i responsabili politici e della sicurezza pubblica, dimessi, incriminati e arrestati. Ci sono i finanziatori occulti. L’assalto ai palazzi dei Tre Poteri di Brasilia, domenica 8 gennaio scorso, ha dimostrato quanto fosse radicato nel Paese il rifiuto di un voto che ha assegnato la vittoria alla sinistra proclamando Inácio Lula da Silva il 39° presidente del Brasile. Chi lo ha esaltato, guidato, organizzato per almeno tre anni, è tuttora protetto dalla sua condizione economica e sociale oltre che da settori militari e della polizia.
Se nella prima settimana di questo 2023 i social pullulavano di proclami bellicosi e incitamenti a prendere il potere da parte dell’esercito, la seconda è un coro disperato di commenti densi di tragedia e di paura. I
tremila partecipanti adesso si abbandonano a risentimenti, abiure, condanne in una «caccia» al colpevole che ovviamente sono «gli infiltrati provocatori». Gente legata al Pt di Lula che ha trasformato una battaglia in un saccheggio. L’ennesimo fake delle migliaia che hanno scandito prima la vittoria di Jair Bolsonaro nel 2018 e poi l’ultima campagna elettorale. Non si registra un solo commento nel quale si metta in dubbio la scelta scellerata di una devastazione che era puro sfogo e non certo azione politica. Tutto diventa un equivoco. La farsa con cui si cercava di nascondere il golpe. È l’ennesimo tentativo di salvarsi e di ridurre quasi a una ragazzata l’assalto alla democrazia. Eppure, dietro questi uomini e donne, anziani e giovani, famiglie intere, disposti a un viaggio di dieci ore, a piedi e su bus messi a disposizione, per non mancare all’appuntamento con la Storia, ci sono oltre 58 milioni di voti per l’ estrema destra: il 49,1 per cento del corpo elettorale, metà del Brasile.
Il cambio di umore deriva dal timore di
Foto: E. Peres –AP Photo/ La Presse ECONOMIA BRASILE
C’
Furti e danni alle opere per un valore che oscilla tra quattro e 20 milioni di euro. Mentre i registi dell’assalto ai palazzi dei Tre Poteri e i finanziatori restano coperti da un’estesa rete di protezione
86 22 gennaio 2023
ta dei ministeri, come gran parte di Brasilia, è stata disegnata da Oscar Neimeyer nel 1960. Concepì una città dal nulla; la creò come sospesa su una pianura verdeggiante con palazzi ed edifici moderni, basati su un’architettura futurista, rivoluzionaria per quei tempi. Dal 1987, il cuore del potere è patrimonio dell’umanità, tutelato dall’Unesco. Ma le ferite inflitte a questi palazzi, dentro e fuori, sono profonde. Quelli che hanno potuto visitarli raccontano di sfregi su Las Mulatas, un dipinto di donne in cammino che domina la Sala Nobile di Planalto: trafitto con almeno sette coltellate e strappato in più punti. Realizzato da Emiliano di Cavalcanti, pittore modernista brasiliano degli Anni Venti, era passato nelle mani del governo dopo il fallimento di una compagnia di assicurazioni. Viene valutato in 1,6 milioni di dollari. C’è poi l’orologio del XVII secolo appartenuto a Valthazar Martinot, l’orologiaio di Luigi XVI. Era un dono della Corte francese al re portoghese João VI, giunto a Rio da Lisbona quando fuggì da Napoleone. È rimasto solo l’involucro. Ce n’erano solo due al mondo. L’altro è conservato a Versailles.
una condanna che potrebbe anche arrivare a infliggere 30 anni di carcere. Solo quando sono stati portati in Prefettura, le mani legate dietro la schiena, identificati e interrogati, i seguaci dell’ex capitano diventato presidente hanno fatto i conti con la realtà. Si sentivano protetti, sostenuti dai militari che li avevano ospitati sul loro territorio, davanti al quartier generale dell’esercito, per due mesi. Vedersi sgomberare a forza dal loro campeggio e finire in un carcere famigerato come Papuda, dove sono rinchiusi killer e boss del narcotraffico, è stato un vero shock. Sui 1.500 arrestati, 648 sono stati rilasciati. Persone anziane, con problemi di salute, donne con bambini piccoli. «Motivi umanitari», ha spiegato la polizia.
Adesso si fanno i conti dei danni. Sono ingenti. Una prima stima parla di quattro milioni di euro, che possono arrivare a 20. La squadra di 50 investigatori che sta setacciando la sede della Corte suprema federale, del Congresso e della Presidenza, è affiancata da esperti della Sovrintendenza e del ministero della Cultura. La spiana-
BRASILIA
I manifestanti, sostenitori dell'ex presidente brasiliano Jair Bolsonaro, sul tetto dell'edificio del Congresso nazionale a Brasilia
Ci sono i doni delle delegazioni di Iran, Ungheria, Algeria e Indonesia. In parte rovinati, in parte trafugati. Sparita anche una enorme perla donata dal Qatar. E poi i rivestimenti danneggiati. Come la parete lignea policroma di Athos Bulcão. Infine, le sculture: il Pifferaio Magico di Bruno Giorgi, totalmente distrutto, la statua della Dea bendata, simbolo della Giustizia, realizzata da Alfredo Ceschiatti davanti alla Corte suprema su cui l’orda di invasori si è accanita con i punteruoli. Chi pagherà? In Brasile si è aperto il dibattito. È molto probabile che i danni saranno accollati a chi verrà condannato in un processo che si annuncia epocale. Il 93 per cento degli
intervistati in un sondaggio non assolve i fan di Bolsonaro. Le responsabilità penali sono personali. Su questo la giustizia brasiliana è inflessibile. Chi indaga ha raccolto centinaia di elementi. Video, filmati, foto, dialoghi sulle chat, impronte digitali, persino reperti biologici. Ai responsabili si uniranno i finanziatori dell’assalto e poi i dirigenti della polizia militare e comandanti dell’esercito che lo hanno agevolato. Sono stati individuati e i primi arrestati nell’operazione “Ulisse”. L’ultima azione della magistratura, il solo baluardo rimasto a difesa della democrazia davanti a un Paese sull’orlo di un golpe.
22 gennaio 2023 87
Il lusso è LEN TEZ ZA
Armani, lo stilista italiano più apprezzato al mondo, parla di sé e della moda del futuro. Senza filtri.
Perché «definirsi non è mai facile. Ma è un esercizio che dopo gli ottant’anni non si può rimandare»
CULTURA RE GIORGIO
88 22 gennaio 2023
ELEGANZA INCONFONDIBILE
Giorgio Armani ritratto da Paolo Pellegrin a Milano, nel 2010
CULTURA RE GIORGIO
Colloquio con GIORGIO ARMANI di GIUSEPPE FANTASIA
Parlare di sé e definirsi non è mai facile, ma è un esercizio che superati gli ottant’anni non si può più rimandare. Ti aiuta a segnare un punto fermo, a guardarti dentro e fuori con onestà». Giorgio Armani, lo stilista italiano più apprezzato e amato al mondo, “Re Giorgio”, come lo definisce chi di stile e di moda se ne intende (ma non soltanto), lo ha fatto “Per amore”, citando l’omonimo libro pubblicato di recente da Rizzoli che nasce a sua volta da un coffee table book uscito nel 2015 in occasione dei 40 anni del marchio globale che porta il suo nome. Dalla narrazione per immagini, Armani è passato a quella per parole, nonostante sia «un uomo di fatti, di azioni più che di celebrazioni o, peggio ancora, di autocelebrazioni».
Quello che ne è venuto fuori è un Armani senza filtri, un uomo che parla di sé, della sua giovinezza a Piacenza, degli studi di medicina interrotti, della carriera con Sergio Galeotti con cui tutto ebbe inizio e delle persone a lui vicine, del successo, delle abitazioni (Milano, Pantelleria, Forte dei Marmi, dove ha passato il lockdown) e degli animali, anche quelli che non ci sono più (il gatto Isolina), condividendo la sua idea di creatività e ciò che lo affascina nel mondo di oggi, ciò che non funziona e che a volte si ferma, non sempre con la nostra volontà. La sua sfilata del 1998 in Place Saint-Sulpice, a Parigi, ne è l’esempio, annullata solo tre ore prima dell’inizio per motivi di sicurezza, prontamente risolti, e poi per mancanza di autorizzazione, con milleduecento invitati in attesa di entrare. La sfilata fu fatta comunque per pochi intimi e tutto il cibo previsto per la cena fu dato ai senzatetto della zona. Abbiamo ancora in mente quelle immagini ai vari tg italiani della sera, come ricordiamo quelle di un’altra sfilata, sempre a porte chiuse, nel febbraio del 2020, all’inizio della pandemia, dove la musica fu sostituita dal rumore assordante del silenzio. Le cri-
LO STILE
Armani con i modelli Primavera/Estate 2023. Di fianco: lo stilista a una sfilata a Pechino, nel 2012
tiche ci furono, ma gli scivolarono addosso.
«Decisi di sfilare perché sentii il dovere morale di proteggere il mio team e il mio il pubblico», spiega: «La pandemia ha preso due anni della nostra esistenza, è stato un evento sconvolgente che ci ha ricordato quanto siamo piccoli e fragili, un evento che mi ha ricordato gli anni della mia infanzia, anni di restrizioni e di paura per la sopravvivenza».
«Abbiamo parlato tanto, noi della moda, industria tra le più importanti in Italia e non solo, ma anche tra le più inquinanti, basata com’è su produzione e circolazione scellerata di merci. Abbiamo cercato di trovare soluzioni per un futuro migliore, di razionalizzare e di moralizzare, ribaltando assurdità nonsense che negli anni sono diventate il nostro modo di agire. Ma oggi, due anni e mezzo dopo, vedo che, parole a parte, non è cambiato molto. Anzi: non è proprio cambiato nulla», prosegue.
In effetti, oggi c’è lo stesso numero esponenziale di collezioni, la stessa foga di esserci, le stesse sfilate presentate con gran dispendio di mezzi. «Siamo tornati esattamente dove eravamo. Forse con ansia maggiore, come a compensare il periodo in cui tutto ciò non si è potuto fare». Anche lui ha
Foto: pagine 88-89: Paolo Pellegrin –Magnum / Contrasto, Archivio Armani, pagina 91: Archivio Armani
“Occorre rallentare. Le modalità del fast fashion hanno decretato il declino del settore. Rendendo questa industria una delle più inquinanti. L’alta qualità, invece, richiede tempo”
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messo in scena una grande sfilata a Dubai per i dieci anni dell’Armani Hotel (il primo è a Milano, in via Manzoni), «ma era una celebrazione programmata da tempo e ho voluto portare a termine il progetto». Ovvio, vien da pensare, per uno che vuole sempre il meglio, che aspira alla perfezione e che si impegna al massimo per raggiungerla. Ovvio per uno che ama il silenzio e l’essenzialità, che detesta il chiasso e l’eccesso, «anche solo metaforici», che si fida di poche persone e che ha bisogno del sostegno di una famiglia attorno a sé fatta di legami di sangue — la sorella Rosanna e i nipoti Silvana, Roberta e Andrea con le figlie Maria Vittoria e Margherita — e di legami affettivi – “il fido” Leo Dell’Orco su tutti — che ha coltivato negli anni.
«L’emergenza attuale», disse in quei giorni di chiusura globale in una lettera indirizzata a un quotidiano e lo ribadisce ancora, «dimostra come un rallentamento attento e intelligente sia la sola valvola d’uscita, una strada che finalmente riporterà valore al nostro lavoro e che ne farà percepire l’importanza vera al pubblico finale. Il declino del fattore moda per come lo conosciamo è iniziato quando il settore del lusso ha adottato le modalità operative del fast fashion, carpendone il ciclo di consegna continua nella speranza di vendere di più, ma dimenticando che il lusso richiede tempo per essere realizzato e per essere apprezzato».
Nella moda del futuro, dunque, «il lusso non può né deve essere fast». Un outsider vero e proprio, dunque, un Armani «rigoroso, preciso, pignolo, intransigente, leale, costante, determinato e appassionato» – per usare gli aggettivi che ama di più per definire sé stesso – ma anche e soprattutto «eccentrico», che non è necessariamente sinonimo di flamboyant, teatrale ed eccessivo, ma nel senso del purismo assoluto, della rinuncia a ogni forma di decorativismo almeno quanto l’abbondanza consapevole di decori, il dialogo con altre forme espressive, la bizzarria nata dalla cultura. «L’eccentricità»
22 gennaio 2023 91
– parola usata anche per il titolo di una mostra di undici anni fa (Eccentrico) che ripercorreva la sua linea creativa attraverso abiti e accessori dal 1985 in poi, dalla prima linea a Emporio Armani, da EA7 a A/X fino alla linea di alta moda Armani Privé — «è indipendenza di pensiero come d’azione» e di questa indipendenza sono testimoni quasi cinquant’anni di collezioni, invenzioni fantastiche da offrire come esempi.
Lui, che ha costruito il suo impero sull’osservazione del reale e che vive la realtà al massimo, è riuscito a vestire le donne vere e gli uomini veri con mille sfumature di grigio, o del greige, questo è sicuro, ma anche con tanto colore che nel suo caso, però – ed è ciò che lo rende unico — non è mai troppo urlato o aggressivo. Quando c’è, si vede, dà quel tocco in più che fa la differenza, impreziosisce, distingue e non disturba mai. La nuova collezione uomo Autunno/Inverno 2023-24, appena presentata nel suo teatro di via Borgonuovo, con i suoi uomini gentili e impeccabili come le donne che li accompagnano all’uscita finale, ne è l’ennesimo esempio: una maniera per ripensare ancora una volta le regole della formalità borghese senza essere mai banale. «Less but better», diceva il designer Dieter Rams, una frase che Armani ha fatto sua portandola dentro di sé a differenza di qualcun altro che, senza gusto e omologato al sistema, magari l’avrebbe tatuata su un polso o un bicipite. La sua non è una definizione minimalista, ma una essenzialità fatta per seguire il corpo e i movimenti, non una sfida estetica ma una ricerca di naturalezza, di continuità tra abito e persona.
Questa è la mia storia
«Mi piace pensare a me stesso rubando una definizione al pittore Wassily Kandinsky: “sono come un pezzo di ghiaccio entro cui brucia una fiamma”. Sono una persona di testa, di pensiero, ma le mie azioni vengono tutte dal cuore, sono infiammate di passione». Così scrive lo stilista in “Per amore” (Rizzoli, pp. 208, € 19,90), viaggio nella dimensione più intima e nella creatività unica di Armani, in un racconto in prima persona.
Foto: Archivio Armani Archivio personale Giorgio Armani
CULTURA RE GIORGIO
“Voglio che l’azienda a cui ho dedicato tutta la vita vada avanti anche senza di me. Ho preparato il piano di successione. Ci sarà un Armani dopo Armani. Adesso non rivelo chi, io ci sono ancora”
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GLI AFFETTI
In alto a sinistra, Armani durante il servizio militare. Sopra, con la madre e il fratello Sergio a Misano Adriatico nel 1937. In basso a sinistra: con il nipote Andrea e Leo Dell’Orco a Marrakech nel 1988. Sotto, con il gatto Isolina nel 1989
«Non abbiamo bisogno di tanto», aggiunge, «e non dobbiamo per forza vivere circondati di cose, non fa bene a noi, alla nostra mente e al pianeta che abitiamo. Ho ricevuto questo imprinting da piccolo ed è indelebile: a casa nostra c’era poco, ma non mancava nulla, soprattutto non mancava la dignità».
Esiste un guardaroba ideale? «Certo, ognuno ha il suo, ma per me è un distillato di capi senza tempo che donne e uomini possono combinare, ogni volta, nel modo che li rappresenta meglio in quel momento. Del resto, le cose belle non hanno una data di scadenza, non diventano improvvisamente brutte al finire della stagione, anzi acquistano bellezza e personalità negli anni».
Non è un caso che tutto il suo lavoro (anche la linea Armani Casa) sia basato su questa idea, su un’evoluzione sottile e millimetrica di capi classici, di una modernità fatta per durare nel tempo, una filosofia del vivere e del vestire che è sostenibile, che invita al riutilizzo ed evita lo spreco, una modernità del vestire che non separa mai il bello dal buono, l’etica dall’estetica. «Penso che la coscienza ambientale sia il movimento di pensiero più forte emerso negli ultimi anni. Sta al tempo presente come la contestazione sessantottina alle idee allo-
ra dominanti. Non si può produrre il bello a scapito del pianeta che ci ospita, che è unico e che dovremmo consegnare il più possibile intatto alle generazioni che ci seguiranno, come dovremmo consegnare intatte, e più verdi possibili, le città che abitiamo, immaginando dimensioni del vivere più armoniche e a misura d’uomo».
Il processo di miglioramento continuo cui mira passa attraverso la catena produttiva, il coinvolgimento dei fornitori, la scelta delle materie prime, ma anche l’organizzazione degli eventi e tutta una serie di donazioni volte a beneficio delle aree verdi. Primi passi e primi tentativi, certo, soluzioni personali e non generali, ma ad avercene. «Per un uomo di successo come me, restituire non è una buona azione, ma un dovere verso la comunità, un imperativo cui non ci si può sottrarre. La società, intesa come unità globale degli umani, è come la natura; l’ambiente siamo noi, ci appartiene come noi apparteniamo a esso e dovremmo tutti fare in modo che il nostro passaggio sul pianeta non sia occasione di distruzione, ma di costruzione». Per un dopo che, se lo vogliamo, potrà essere migliore per tutti. Il suo come sarà? «Detesto l’idea di mettere il punto e scrivere “the end”, ma mi rendo conto che farlo è necessario. Voglio che il frutto di tanta fatica, questa azienda alla quale ho dato tutta la mia vita e tutte le mie energie, vada avanti, a lungo, anche senza di me. Ho creato una fondazione e, a quanti si interrogano su questo scottante argomento, dico solo che il piano di successione l’ho preparato, che ci sarà un Armani dopo Armani, ma non lo rivelo adesso, perché ci sono ancora».
Per approfondire o commentare questo articolo o inviare segnalazioni scrivete a dilloallespresso@lespresso.it i nostri giornalisti vi risponderanno e pubblicheremo sul sito gli interventi più interessanti
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Nel Regno del Piccolo Principe
Il merito è di una donna: non di Consuelo, la sua “piuma” amatissima, alla quale dedica fino a un attimo prima dell’ultimo volo lettere struggenti. Ma Elizabeth Reynal, moglie di uno dei suoi editori americani. Sarebbe stata lei a spingere lo scrittore-aviatore a scrivere un racconto per l’infanzia intorno a quella figura di bimbo che faceva capolino tra le sue carte: un ragazzino biondo, con la sciarpa al vento, che inseguiva tramonti e curiosità.
“Il Piccolo Principe” viene pubblicato per la prima volta a New York dalla Reynal & Hitchcock in piena Seconda guerra mondiale: è il 6 aprile del 1943, Antoine de Saint-Exupéry ha da poco lasciato gli Stati Uniti. Qualche mese dopo scrive all’editore: «Non so niente del mio libro, neppure se è uscito in libreria! Mi scriva, per favore!». In pochi mesi la storia ha venduto 37 mila copie: è già un successo, ma è nulla rispetto a ciò che sarebbe accaduto in seguito.
Ottant’anni dopo “Il Piccolo Principe” è uno dei dieci libri più venduti al mondo, con una stima di quasi duecento milioni di copie in circolazione. Puntualmente tra le strenne natalizie, protagonista di adattamenti musicali, teatrali e audiovisivi di ogni tipo è, assieme a “Pinocchio”, il
più famoso libro per l’infanzia. E la passione si estende al suo autore, a quel fascinoso aviatore di Lione al quale editori e romanzieri dedicano biografie, epistolari e spy story decise a scavare nella sua misteriosa esistenza: infanzia in un castello di Saint-Maurice-de-Rémens a Le Mans, terzo di cinque figli; padre, il visconte Jean de Saint-Exupéry, che muore quando lui ha solo quattro anni; madre pittrice, dalla quale eredita il gusto dell’acquerello. Cresciuto, si arruola nel reggimento di aviazione di Strasburgo, ottiene il brevetto di pilota civile e militare, è protagonista di moltissime avventure: da pilota della Compagnia generale di imprese aeronautiche in Africa, a Buenos Aires dov’è direttore della linea aeropostale Argentina-Francia. E le incursioni continue nel deserto, come quando tenta un raid tra Parigi e Saigon. Le missioni di ricognizione aerea durante la
CULTURA BESTSELLER GLOBALI
Pubblicato durante la guerra, è uno dei libri più letti e amati al mondo. Ottant’anni dopo riedizioni, biografie, musical, mostre ne celebrano
il leggendario autore
94 22 gennaio 2023
SABINA MINARDI
guerra, da capitano di complemento. Fino all’ultima, tra la Sardegna (che nel 2019 gli ha dedicato un museo, il Mase, ad Alghero) e la Corsica. Un volo fatale che oggi ispira uno dei principali giallisti francesi, Michel Bussi, a indagare su quella mattina del 31 luglio 1944, quando Antoine de SaintExupéry decolla da Borgo. E non ritorna più: e se alcuni rottami del bimotore americano riaffiorano anni dopo, del suo corpo non si saprà più nulla. Bussi rilegge il mistero alla luce del “Piccolo Principe” con “Codice 612. Chi ha ucciso il Piccolo Principe?” (Edizioni e/o): e se quel racconto, sostiene, fosse proprio il suo testamento?
«Sembrerò morto e non sarò vero», leggiamo al capitolo 26 della storia. La controinchiesta riparte esattamente da lì per approdare all’esplicito invito a riscoprire quel libro così difficilmente etichettabile: racconto filosofico, educazione sentimentale,
opera spirituale, dietro un’ingenua, delicata storia per i più piccoli.
«Il Piccolo Principe è un libro che non ha eguali nella storia della letteratura. È per bambini ma anche per grandi. È il libro di un uomo che aveva definito la sua vita un lungo “esilio dall’infanzia”, ma che è stato fino all’ultimo un adulto impegnato e serissimo, capace di andare negli Stati Uniti per convincere l’opinione pubblica della necessità di difendere l’Europa. È il libro di un aviatore-scrittore che voleva comunicare all’umanità la visione che aveva avuto di un mondo visto dall’alto; gli era sorta spontanea la domanda: dove vi siete persi, uomini? Come vivete? Come vi prendete cura di un pianeta così piccolo nell’immensità dello spazio?», nota Anna Castagnoli, che ha scritto la prefazione a una nuova, raffinata, edizione del testo (Mondadori), tradotto dalla poetessa Chandra Livia Can-
A sinistra: un momento dello spettacolo “Il Piccolo Principe”. Per la prima volta il Teatro alla Scala ha commissionato un’opera per ragazzi a un autore contemporaneo. Il compositore Pierangelo Valtinoni ha dato vita a un nuovo lavoro con la regia di Polly Graham e i solisti, l’Orchestra e il Coro di Voci Bianche dell’Accademia
Teatro alla Scala diretti da Vitali Alekseenok. In programma varie date, fino al 16 marzo 2023
Foto per gentile concessione di: A. Moletta –Teatro alla Scala
22 gennaio 2023 95
CULTURA BESTSELLER GLOBALI
diani e illustrato da Beatrice Alemagna. Che ammette di aver affrontato con timore la sfida di una storia impressa nella memoria collettiva, disegni inclusi: «All’inizio mi ero rifiutata», racconta all’Espresso l’illustratrice: «Mi sembrava di compiere un’eresia. Poi ho affrontato la scommessa di rivoluzionarlo un po’. Ho cercato di innovare dove era possibile -in effetti, il testo è molto chiaro e descrive perfettamente i personaggi. Senza tradire, ma esplorando piccole strade parallele. Ad esempio, provando a interpretare questo dire continuamente da parte dell’autore che siamo di fronte a un piccolo essere: per questo motivo ho rappresentato il protagonista come un folletto. E ho voluto fare apparire l’aviatore perché, da lettrice, mi era sempre parso molto frustrante non vederlo mai vicino al Piccolo Principe. Ormai sappiamo che il bambino è in fondo l’alter ego di Saint-Exupéry, ma per me era importante che ci fosse un confronto diretto tra i due. Come mi spiego l’infinita fortu-
na del libro? Perché è un’avventura psicologica pazzesca, ricchissima di contenuti: la politica, la paura di crescere, il desiderio di proteggere il bambino che è dentro di noi, l’ossessione del potere, la differenza tra essere e apparire. Una scena che mi ha emozionato? L’accudimento della rosa. Il pianto del bambino nello scoprire che la sua rosa non è unica e rara, ma che sulla Terra ne esistono altre. E poi questa avventura intergalattica è la storia di una grande amicizia, commovente. Sono questi contenuti esplosivi del libro a renderlo un testo osannato, in Francia quasi biblico».
Una venerazione che oggi si rinnova. Il Teatro alla Scala di Milano ha incaricato il compositore Pierangelo Valtinoni di realizzare uno spettacolo con la regia di Polly Graham. E c’è attesa per il musical in arrivo il primo febbraio a Roma, e da lì per le principali città italiane. «Il Piccolo Principe è un capolavoro capace di creare una sintonia indescrivibile con i lettori, e da questo punto di vista i numeri parlano chiaro», dice il produttore Antonio Murciano: «Credo che il motivo sia il fatto che è un’opera adatta a tutte le età. Quello che abbiamo cercato di fare è trasporre la stessa magia sul palco, in modo da far vivere a tutti un’espe-
Beatrice
Foto: Chesnot –GettyImages, Ullstein Bild –GettyImages, B. Zawrzel –NurPhoto / GettyImages
Alemagna: “La sfida era innovare senza tradire. Ho scelto di mostrare l’aviatore per rendere visibile l’amicizia tra i due, il bambino e l’adulto”
IL RICHIAMO DELLA FANTASIA
Dall’alto, in senso orario: mostra “A la Rencontre du Petit Prince” al Musee des Arts Decoratifs di Parigi; Antoine de SaintExupéry; spettacolo a Cracovia. In basso a sinistra: disegno di Beatrice Alemagna per “Il Piccolo Principe” (Mondadori)
In volo, tra teatri e librerie
Sceneggiature, spettacoli, libri: “Il Piccolo Principe” continua a ispirare. E se Topolino ha di recente tributato un omaggio a fumetti al capolavoro di Saint-Exupéry (“TopoPrincipe”, sceneggiato da Augusto Macchetto, con i disegni di Giada Perissinotto e i colori di Andrea Cagol), gli ottant’anni dalla prima uscita del libro sono l’occasione per riedizioni e biografie romanzate. Come quella di Romana Petri, “Rubare la notte” (Mondadori): perché Antoine de Saint-Exupéry non è solo l’autore di un grande libro, ma un personaggio che vale in sé una grande storia. E sulla scena arriva “Il Piccolo Principe”, spettacolo firmato Razmataz Live. Da Roma (1-12 febbraio) proseguirà il suo viaggio a Bologna (Teatro Celebrazioni, 1619 febbraio), Torino (Teatro Colosseo, 2326 febbraio), Firenze (Tuscany Hall, 2-5 marzo) Milano (Teatro Repower, 23 marzo-2 aprile). Poi, a fine anno, a Parigi.
rienza unica». Sarà l’immaginazione, assicura il regista Stefano Genovese, ad essere più sollecitata, coerentemente con l’idea che “l’essenziale è invisibile agli occhi”: «Gli occhi, le orecchie, l’olfatto…sono solo parti sensoriali per arrivare alla destinazione finale: il cuore di ogni spettatore», annuncia. Destinazione alla quale punta anche la raccolta epistolare che L’Orma editore ha da poco riunito in “Saint-Exupéry – Con un sogno in testa. Lettere da un pianeta tra le stelle” (a cura di Eusebio Trabucchi): scritti alla madre, agli amici, ai suoi amori, sullo sfondo degli scenari più tipici dei suoi libri (“Volo di notte”, “Terra degli uomini”, “L’aviatore”): il deserto, i rimbombi della guerra. A bordo di un aereo: dove “si entra in contatto con il vento, la notte, la sabbia del mare. Si cerca la verità tra le stelle”.
«Quel che colpisce di Saint-Exupéry è la sua enigmaticità, la sua sproporzione», interviene la scrittrice Romana Petri, presto in libreria con “Rubare la notte” (Mon-
dadori), biografia romanzata di “Tonio” e dei suoi doni ai lettori: lo stupore, la meraviglia di quell’essere bambini, come ogni grande è stato una volta: «Aveva fame di vita come di morte, di amore come di solitudine. Poteva essere un libro aperto, ma anche un codice cifrato. Colpisce la sua ossessione per la madre (tutta sua), mai generata da quella donna sofferente che prima di lui aveva perso il marito e due figli. Il grande successo del “Piccolo Principe” credo sia dovuto proprio all’oscuro fascino onnivoro che promanava». Il magnetismo di uno «che non ne voleva davvero sapere di diventare grande fino in fondo», come sottolinea Chiara Gamberale in un’altra edizione del “Piccolo Principe” (edita da Feltrinelli): amuleto magico che un uomo, 80 anni fa, ci ha lasciato – insieme a una volpe e a una rosa - per ricordarci -in ogni luogo, in ogni tempo - il senso dell’amicizia, il valore della cura, il bello di emozionarci.
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CULTURA PROTAGONISTI
Una proposta irrifiutabile
Un attore rifiuta una dopo l’altra ogni singola proposta della sua agente. È Corrado Guzzanti nella nuova serie
“Call my agent - Italia”, disponibile su Sky e Now. Remake del francese “Dix pour cent”, racconta attraverso personaggi di spicco dello spettacolo italiano le storture del settore, prendendone in giro la mitomania, l’insofferenza, l’egocentrismo. «Mi capita davvero di rifiutare diversi progetti», confida a L’Espresso Guzzanti. Vedendolo anche nelle serie “Io sono Lillo” su Prime Video, “I delitti del bar Lume” su Sky Cinema e Now e “Boris 4” su Disney+ non si direbbe: «Oggi sono meno riluttante di qualche anno fa, la pandemia e il lockdown hanno giocato un ruolo importante nel farmi venire voglia di fare di più».
Quanto c’è di vero e di suo nel Guzzanti che vediamo in “Call my agent - Italia”?
«Un buon 60 per cento. Con la mia agente discutiamo sempre, contrattiamo come alle bancarelle. Mi capita di rifiutare delle cose, ma ultimamente mi sono anche divertito a partecipare a progetti non miei, facendo più l’attore che l’autore».
Alcune battute sembrano sue, come quando dice che farebbe volentieri Pachino Express più che Pechino Express.
«In effetti mi hanno lasciato pericolosamente a briglia sciolta. Abbiamo improvvisato tanto anche con Emanuela Fanelli, che è sempre stata bravissima ed è cresciuta artisticamente. Ci siamo divertiti molto sul set, come anche con Michele di Mauro».
Alla fine, nonostante l’infarto, il suo per-
UNA VITA IN SCENA
Corrado Guzzanti, 57 anni, è un autore televisivo, comico, imitatore, attore, sceneggiatore e regista
sonaggio dovrà fare il film di Luana Percoli, l’improbabile sedicente attrice interpretata da Fanelli. Non c’è modo di sfuggire agli improvvisati oggi?
«È sempre più difficile, anche perché i registi sono diventati abilissimi manipolatori, più bravi a convincerti che non a dirigere». Cosa deve avere un progetto per ottenere il sì di Guzzanti?
«Deve convincermi l’idea e la scrittura, devo intravedere nel personaggio qualcosa che mi faccia venire subito delle idee. Se leggendolo mi si accende la lampadina è un buon segno. Se invece sento che è un personaggio che può fare chiunque, standardizzato, e non ho margini per inventare nulla, allora preferisco non accettarlo».
Nella serie vorrebbe fare un film sul sindaco con Ricky Gervais, nella realtà lo farà mai?
«Magari, farei qualunque cosa con Gervais, anche portargli il caffè a tavola».
Passiamo a un’altra serie: in “Sono Lillo”
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colloquio con CORRADO GUZZANTI di CLAUDIA CATALLI
Abilissimi manipolatori”
su Prime Video interpreta un artista tedesco e dice a Lillo che dovrebbe chiamarsi Scusaman, perché la tv brutta rovina la civiltà moderna. Lo pensa davvero?
«È una questione di dosi: un po’ di tv brutta va bene, basta non intossicarsi. La tv senza rispetto per lo spettatore esiste da sempre: è una tv cinica, sciatta, pigra, chi ci lavora timbra il cartellino. Una tv inerte dal punto di vista delle idee, è la tv dell’abitudine di chi la guarda con la coda dell’occhio mentre fa altro, pensata più come rumore di fondo che come qualcosa da seguire attivamente».
Da che dipende la dubbia qualità di questa tv?
«A volte solo dalla fretta. Lo so perché mi sono trovato dall’altra parte, a dover consegnare qualcosa di approssimativo con la scusa del “Tanto poi sul set lo aggiustano”. Per fortuna poi ci sono anche serie bellissime come “The Bad Guy”, ricche di idee che funzionano».
Tornando a Lillo, siete amici fraterni ormai, com’è lavorare insieme?
«Lillo mi aveva ha proposto prima un altro personaggio che non mi convinceva, poi questo artista folle tedesco e il rischio di lavorarci insieme è sempre lo stesso: tornare a casa con i crampi per quanto abbiamo riso».
Come nel programma comico Lol?
«Quando me l’hanno offerto ho pensato “Buttati, è la terapia del calcio nel sedere”, in quel momento post pandemia ne avevo bisogno. Mi sentivo un marziano all’inizio, poi mi sono lasciato andare anche gra-
Foto: Adolfo Franzò
La riluttanza, il ritorno in tv, la satira. Tra i tanti vizi degli attori e le poche virtù del piccolo schermo. Lo showman è tra i protagonisti di “Call my agent - Italia”. “I registi?
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CULTURA PROTAGONISTI
zie ai miei amici Maccio Capatonda e Virginia Raffaele».
È stato anche un modo per farsi conoscere dalle nuove generazioni.
«Capita che vengano dei ragazzini a chiedermi una foto, non succedeva da un po’, e i genitori che li accompagnano mi raccontano che hanno fatto rivedere a casa video miei di vent’anni fa. È gratificante». Gratificante come girare la quarta stagione di “Boris”?
«Quello è stato commovente, come rincontrare gli amici delle medie. Parlavamo da anni della quarta stagione, tra attori e autori eravamo riluttanti: riaprire la scatola di un cult era pericoloso, io stesso non volevo reinterpretare Mariano». Come l’hanno convinta?
«Con il ricatto morale del “non puoi non esserci”, sentivamo tutti il bisogno di rendere omaggio a Mattia Torre. Abbiamo trovato questa nuova chiave della passione di Mariano per le armi e abbiamo esagerato, infatti hanno tolto tanto, lo avevo fatto persino partecipare all’assalto di Capitol Hill».
Nel trionfo del politicamente corretto c’è ancora spazio per una comicità scorretta?
«Poca. Quello che abbiamo fatto vent’anni fa in tv oggi verrebbe, se non censurato, molto criticato. C’è un eccesso isterico e ampiamente ipocrita di controllo. Ricky Gervais continuamente spiega che non è legittimo infuriarsi per la satira e reagire ad ogni cosa che sembri vagamente offen-
SERIE TV
Corrado Guzzanti in una scena di “Call my agent – Italia”, disponibile su Sky e Now
siva. Oggi è difficile dire liberamente ciò che si pensa, ci si ammorbidisce molto anche per ragioni produttive. Penso sia solo una fase: oltre un certo limite tornerà una comicità molto scorretta, come in Inghilterra e negli Stati Uniti».
Aspetta quel momento?
«Io trovo sempre il modo, con un po’ di furbizia si riesce comunque a dire quello che si vuole».
Che fine ha fatto la satira in Italia?
«È depotenziata, non perché non ci sia gente capace di farla, anzi ci sono autori bravi, ma lo scenario politico è totalmente cambiato rispetto agli anni Novanta. Vedo che i satirici sono costretti a fare un lavoro più sul quotidiano, toccando il politico sulle dichiarazioni del giorno: è una satira da consumare al momento, difficile che resti e si ricordi anni dopo».
Sta scrivendo una nuova serie comica. Cosa può anticiparci?
«Sarà una specie di road movie, la storia di una strana fuga».
“Fascisti su Marte 2”?
«Magari, lo rifarei. E dire che per anni non ho più voluto rivederlo, già di mio non amo rivedermi, poi dato che per realizzarlo avevo visto ogni cinegiornale dell’epoca ero intossicato dalla materia. Quando l’ho rivisto tempo dopo mi è parso un bel lavoro, mi piacerebbe che ricapitasse. Erano altri tempi, ma ogni cosa può resuscitare
in qualche forma. I produttori non ci scommetterebbero sopra come successo commerciale, ma magari qualche produttore particolare potrebbe pensarci. Poi oggi potrei togliere anche Marte dal titolo!».
Scusi, perché non ama rivedersi?
«Sono un grande rompiscatole, mi vedo e trovo mille difetti. La mia compagna mi minaccia, quando guardiamo cose mie in tv dice: “Stai zitto, oppure vai via e lo vedo da sola”. Quando passano gli anni da un progetto me lo godo di più, lo riguardo più rilassato. Sarà che per carattere una volta che ho fatto una cosa poi vado avanti».
Dove finiscono tutti i personaggi che ha interpretato?
«Li tengo in una casa al mare, parcheggiati, ogni tanto ne richiamo qualcuno. È una “safe house”, come quelle della Cia, non posso rivelare dove si trova».
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CULTURA 27 GENNAIO
L’incoscienza della Memoria
Il giorno della Memoria — 27 gennaio, in ricordo del 27 gennaio 1945, data dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz — non è una festa nazionale come sono il 25 aprile, festa della Liberazione, e il 2 giugno, festa della Repubblica, ma un giorno di lavoro, di studio, che dovrebbe essere pretesto per cercare di comprendere le ragioni storiche di quanto è avvenuto nel nostro Paese e in Europa tra anni Venti e anni Quaranta del secolo scorso.
La legge del 2000 che lo ha istituito invita a riflettere «su quanto è accaduto al popolo ebraico e ai deportati militari e politici italiani nei campi nazisti [...] affinché simili eventi non possano mai più accadere». Ho sempre trovato molto velleitaria questa proposizione finale, la quale presuppone che possa crearsi una consapevolezza così diffusa di quanto avvenuto, che le aberrazioni del passato non possano ripetersi. La storia conferma che non è così e la cronaca lo rende tragicamente tangibile. Ciò non toglie opportunità e necessità all’operazione della ricostruzione storica delle dinamiche che hanno consentito l’affermazione di quelle dittature, fascista e nazista, delle quali lo sterminio di massa organizzato è stato la più macroscopica conseguenza.
Mi chiedo, tuttavia, se e fino a qual punto questa riflessione sia stata fatta
IL CALENDARIO CIVILE
Quello di Massimo
Castoldi (Università di Pavia) è il secondo degli interventi sulle date fondanti della Repubblica affidati all’Istituto pavese per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea. Il primo, sul 12 dicembre, strage di piazza Fontana, è uscito sul n. 49 del 2022. I prossimi saranno su 10 febbraio, 8 marzo, 25 aprile, 1° maggio, 2 giugno, 4 novembre.
fuori dall’ambiente degli specialisti, o se invece ci siamo il più delle volte limitati a una narrazione rituale, nell’inesorabile affermarsi di “Un tempo senza storia”, come Adriano Prosperi ha intitolato un suo libro recente (Einaudi, 2021). I dati che l’Eurispes ci fornisce sono eloquenti. Se nel 2004 il 2,7 per cento della popolazione italiana credeva che la Shoah non fosse mai esistita, nel 2020 questa percentuale è salita al 15,6. Se dovessimo estendere l’inchiesta dalla Shoah alla deportazione politica, che peraltro in Italia è fenomeno più rappresentativo (circa 24.000 deportati politici, circa 8.000 ebrei), queste percentuali di ignoranza salirebbero in modo esponenziale. L’istituzione del giorno della Memoria non ha evidentemente ottenuto gli effetti sperati. Anzi si potrebbe dedurre che alla ritualità delle commemorazioni corrisponda un incremento di atteggiamenti razzisti e neofascisti.
Occorre restituire complessità storica al fenomeno, per ridonargli interesse. Invi-
La liberazione di Auschwitz è la data simbolo per non dimenticare la Shoah. Ma occorre evitare la vuota ritualità e restituire complessità storica ai fatti. Ridestando interesse e sgomento
MASSIMO CASTOLDI illustrazione di Pierluigi Longo
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to a vedere il film documentario del 2016 “Austerlitz” di Sergei Loznitsa, che il regista girò con una telecamera fissa posta in alcuni luoghi del campo di Sachsenhausen. In una serie di lunghe sequenze passano turisti intenti compulsivamente a fotografarsi nei luoghi di tortura e di morte nella generale incoscienza della storia, che le guide meccanicamente raccontano. È il percorso inverso rispetto a quello fatto da Austerlitz, il protagonista dell’omonimo romanzo di Winfried Georg Sebald (Adelphi, 2002), che attraverso una faticosa ricerca storica e memoriale prende coscienza da adulto di essere uno di quei bambini ebrei giunti a Londra in treno durante la guerra, mentre i suoi genitori venivano deportati in un campo di sterminio. Osservando il film, ho notato nella sconcertante babele turistica, in due momenti diversi, nello sguardo di due ragazze un lampo di sgomento e un istante di confusione. Due bagliori improvvisi che indicano, con Prosperi e Sebald, una strada.
Wlodek Goldkorn
Ricordare senza i testimoni
Anche se volessimo raccontare non saremmo creduti», scriveva Primo Levi. E invece i sopravvissuti, “i salvati”, sono stati creduti. Però, appena finita la guerra e per oltre tre decenni, non c’è stata molta voglia di ascoltarli. Le ragioni di quel rifiuto? La prima: prevaleva comprensibilmente l’urgenza di ricostruire, di vedere il futuro e non guardare il passato. Era un fenomeno comune a tutta l’Europa e al nascente Stato d’Israele. Si volevano rimettere in moto le economie o, nel secondo caso, porre le fondamenta di una nuova patria. Risale a quel periodo il boom delle nascite. Si voleva, lo desideravano pure i reduci dei lager, mettere su famiglie, fare figli, ricominciare a sognare. La seconda ragione dello scarso ascolto è più drammatica. È il senso di colpa di chi non è rimasto fra “i sommersi”, di chi avvertiva nel fondo dell’animo di essere in vita perché gli altri sono morti; e anche di questo ha parlato Levi. La terza ragione, infine, era l’inadeguatezza del racconto. Era difficile testimoniare, perché nessuna parola né immagine erano in grado di rispecchiare la realtà. La Shoah (e qui sta la sua unicità) significava la totale negazione di tutti i valori alla base della civiltà. Il Male diventò Bene e il Bene Male in un rovesciamento del mondo radicalmente nichilista.
E tuttavia, a partire dagli anni Ottanta, la figura del testimone diventò centrale perché restituiva l’aura dell’autenticità a un’esperienza altrimenti difficile da assimilare. Vennero fuori migliaia di testi, libri, memoir. Divennero prassi diffusa i viaggi nei luoghi dello sterminio, sono nati musei della Shoah e una serie di rituali civili. Soprattutto grazie alla Fondazione Spielberg, abbiamo circa 50 mila testimonianze registrate dei reduci della Shoah. Materiale prezioso per gli storici. Oggi i testimoni vengono a mancare. E allora come faremo a conservare la memoria? Ovviamente con i riti civili. Ma c’è pure un passaggio generazionale interessante: artisti (di ogni genere) della “terza generazione” — nipoti veri o ideali dei reduci o dei sommersi — che producono opere, dove il passato serve a immaginare l’avvenire. E poi c’è la lezione di Ágnes Heller: la filosofa ammoniva che non basta sentire i testimoni o visitare i luoghi per stare dalla parte giusta. Occorre imparare il sentimento dell’empatia. In apparenza indicava i limiti della testimonianza, in realtà tracciava un sentiero per trasportarla nel futuro.
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Il commento
CULTURA CINEMA
Che ansia laprima volta
è sempre una prima volta: per Paolo Genovese, regista di “Perfetti sconosciuti”, commedia amara che conta più di venti remake in tutto il mondo. Roba da Guinness. E anche per Margherita Buy, quasi quarant’anni di carriera, occhi azzurri profondi e malinconici, protagonista in tanti film di Nanni Moretti tra cui “Il sol dell’avvenire”, in uscita ad aprile. Buy e Genovese si conoscevano, si erano incrociati diverse volte, in passato avevano lavorato fianco a fianco nella serie tv “Amiche mie”, versione italiana di “Sex and the city”. Ma un film insieme non l’avevano mai fatto.
Per questo motivo, e non solo, “Il primo giorno della mia vita”, tratto dall’omonimo romanzo di Genovese (Einaudi) nelle sale dal 26 gennaio, ha il sapore di un nuovo inizio. La storia ruota intorno a un argomento molto delicato: un uomo misterioso (Toni Servillo) si presenta a quattro persone che hanno toccato il fondo, decise a farla finita. Un motivatore senza motivazioni (Valerio Mastandrea), una ex atleta olimpica su una sedia a rotelle (Sara Serraiocco), un ragazzino bullizzato (Gabriele Cristini) e, appunto, una poliziotta dal carattere forte, interpretata da Buy, che
ha perso all’improvviso la figlia sedicenne. L’angelo propone loro un patto: una settimana di tempo per far rinnamorare della vita i quattro sconosciuti, aiutarli a trovare un nuovo senso, ricominciare quando tutto intorno sembra crollare. Prende spunto da qui la nostra conversazione a tre, poi si allarga ad altre riflessioni: la rinascita dopo un grande dolore, il coraggio di affrontare l’esistenza, la gioia inaspettata. E la scoperta di una sensibilità comune nel raccontare una storia. Come è andata insieme sul set? «Molto faticoso, un film difficile su un argomento complesso. Abbiamo girato tutto di notte, con la pioggia, il freddo. I sentimenti variavano spesso, tra l’odio e l’idea di non riuscire a farcela», scherza ma non troppo Buy. «Per interpretare Arianna ho pensato subito a Margherita. Ha messo la sua fragilità e la sua sensibilità al servizio del personaggio, è imbattibile nel mettere in scena l’emozione, la compassione, la tenerezza», replica Genovese, che malgrado
C’
Il dolore, la felicità, la rinascita. Quattro sconosciuti, un uomo misterioso che li fa rinnamorare della vita. L’attrice e il regista dialogano sulle emozioni: paura, curiosità e voglia di ricominciare
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colloquio con MARGHERITA BUY e PAOLO GENOVESE di EMANUELE COEN
la lunga carriera in queste settimane affronta diversi esordi.
INSIEME SUL SET
Paolo Genovese, 56 anni, regista, sceneggiatore e scrittore; l’attrice Margherita Buy, 61 anni
Per la prima volta, infatti, il regista ha realizzato un film storico, la serie tv tratta dal best seller di Stefania Auci “I leoni di Sicilia” (Nord), in autunno su Disney +, di cui sono appena terminate le riprese, mentre ora è impegnato nelle prove della versione teatrale di “Perfetti sconosciuti”, che debutterà a Caserta a febbraio, per approdare ad aprile al teatro Ambra Jovinelli, a Roma. «La creatività va nutrita, fare cose nuove diventa l’unico mezzo per trovare energie. Tempo fa mi hanno chiesto di fare “Perfetti sconosciuti 2”, poi “Perfetti sconosciuti – la serie”, addirittura un gioco in scatola. All’epoca ho detto no perché non avrei trovato gli stimoli, ora li ho trovati con il teatro».
L’esistenza, in realtà, è costellata di prime volte. Scelte radicali, opportunità da cogliere, sfide inattese, eventi lieti e malattie,
lutti che costringono a ripensare sé stessi, cambiare schemi, ricominciare da capo. Rinascere. Proprio come nel film “Il primo giorno della mia vita”. «Ogni volta che faccio una cosa per la prima volta sono terrorizzata. Le novità mi fanno paura, le affronto con sospetto e drammaticità», afferma l’attrice. Anche sul set? «Dopo il primo giorno di lavoro sono distrutta, non dormo per una settimana. All’inizio mi sento come in un luogo sconosciuto, un pianeta lontano abitato da gente strana. Poi mi abituo». Un’apprensione che per Buy non conosce confini, si estende dal lavoro alla sfera privata. «I viaggi? Ho sempre vissuto le novità tragicamente, rovinando la vita a tutti. La prima volta in aereo, in nave, in moto, un disastro». E il primo bacio? «Non ricordo, non ero io. Sicuramente qualcuno mi ha sostituito all’ultimo momento», taglia corto con un sorriso.
Foto: M. Marin
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Nell’affrontare le novità non potrebbero essere più diversi, Buy e Genovese. Lei ansiosa e impaurita, lui intraprendente e coraggioso. «È la curiosità a spingere le mie scelte», dice il regista senza esitazione: «Di recente ho letto una vecchia intervista ad Albert Einstein in cui diceva: “La teoria della relatività non l’ho scoperta perché sono un bravo fisico, un bravo studioso o perché sono intelligente, ma perché sono mosso da una profonda curiosità”. Vale per l’arte, la politica e la vita privata». La curiosità ha spinto Genovese a indagare un argomento molto scabroso, la scelta di togliersi la vita e la forza di ricominciare quando tutto sembra perduto. Il film, ambientato a Roma, alterna momenti cupi e improvvisi sprazzi di felicità, notti piovose e giornate di sole.
Qual è il rischio più grande nel narrare un tema così difficile? «È complicato raccontare la follia dell’istante in cui si prende la decisione di farla finita, la grande sofferenza che cova dentro una persona apparentemente normale. La maggiore difficoltà è risultare credibili», prosegue Buy. L’attrice si è trovata spesso a interpretare personaggi attraversati da una sofferenza profonda, come di recente Eleonora Chiavarelli, la moglie di Aldo Moro in “Esterno notte” di Marco Bellocchio, la serie in sei puntate su Rai1. «In quel caso è diverso: il dolore fa parte del dolore di una nazione intera, che ha spezzato il cuore di milioni di persone. Mentre il film di Genovese è una storia di fanta-
IL FILM
Una scena del film
“Il primo giorno della mia vita”. Da sinistra: Valerio Mastandrea, Toni Servillo, Sara Serraiocco, Margherita Buy, Gabriele Cristini
sia», spiega Buy. Secondo il regista, invece, il pericolo più grande è risultare banali, ridondanti. Non a caso sulla sceneggiatura hanno lavorato a lungo. «Paradossalmente il film parla di felicità, anzi il primo titolo era “Felicità”, poi suonava come una canzone dei Ricchi e poveri e lo abbiamo scartato». Una volta toccato il fondo, per fortuna, in molti casi scatta un meccanismo di autodifesa. «Accade qualcosa di miracoloso, una risata, qualcuno che ti fa risentire la voglia di andare avanti», riflette l’attrice. «Un istinto, non una capacità personale. Per quanto mi riguarda, a salvarmi sono le persone di che ho intorno, ad esempio mia figlia, non potrei mai darle un peso così grande. Non voglio giudicare, ma a volte la depressione è un atto di egoismo perché fai stare male le persone che ti sono vicine».
Senza arrivare all’estremo della depressione, gli stati d’animo che percorrono il film confinano con il malessere diffuso nel Paese. Gli italiani sono sempre più malinconici, secondo l’ultimo rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese. È una fotografia in cui vi rispecchiate? «Adoro la malinconia, ci sono nata, è il mio stato d’animo preferito, porta sempre a una riflessione. Diffido delle persone entusiaste, gli italiani malinconici mi piacciono», sottolinea Buy. Genovese è più pessimista: «Magari fossimo malinconici, creativi, sento invece un Paese depresso. Non è un caso che il primo personaggio di questa storia, Napoleone (Valerio Mastandrea, ndr), trae spunto da una statistica secondo cui sette milioni di italiani soffrono di depressione. Un meccanismo arrendevole, che ci fa deporre le armi».
Foto: M. Marin
CULTURA CINEMA
Buy: “Adoro la malinconia, ci sono nata, è il mio stato d’animo preferito, porta sempre a una riflessione. Diffido delle persone entusiaste, gli italiani malinconici mi piacciono”
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La forza della glocal communication
Kafka dalla pelle nera
Mohsin Hamid contro il razzismo. Nuove ispettrici per GiménezBartlett. Montale bibliotecario. E Mencarelli da ascoltare
La presidente della Comunità Valenciana, dispotica e potente, è morta, stroncata da una dose di cianuro nel caffè. Di fronte a quel corpo di donna ingombrante come una balena spiaggiata, meglio sarebbe chiudere in fretta il caso. Per tutti, tranne che per le sorelle Miralles, appena uscite dall’Accademia di Polizia. E decise ad affermare giustizia e libertà per vie sorprendenti. Come la regina dei polizieschi ci ha mostrato con Pedra Delicado.
LA PRESIDENTE
A. Giménez-Bartlett (trad. M. Nicola) Sellerio, pp. 409, € 16
Alla riscoperta di un tempo poco noto, tra il 1929 e il 1938, che il poeta trascorse da direttore del Gabinetto Vieusseux di Firenze, straordinario hub della cultura italiana. “Bibliotecario riluttante”, più immerso nei problemi gestionali che attratto dal fascino del luogo, fino al riconoscimento di un tempo importante nel suo cammino verso il Nobel. Quando pronunciò la frase che dà il titolo al saggio.
L’ULTIMO
BIANCO Mohsin Hamid (trad. Norman Gobetti) Einaudi, pp. 127, € 16
Una moderna, kafkiana metamorfosi, con un personal trainer al posto di Gregor Samsa, per esplorare il razzismo, la fatica di essere minoranza, l’errore di considerare per sempre i privilegi, la realtà di tensioni sociali basate ancora sul colore della pelle. Mentre la cronaca ci consegna ennesimi episodi di violenze razziste; mentre l’economista Thomas Piketty dedica il suo ultimo pamphlet alle discriminazioni, suggerendo un vero e proprio modello per “Misurare il razzismo” (La nave di Teseo) e raddrizzare isterie identitarie e l’ossessione di certa politica per l’origine etnica, lo scrittore anglo-pakistano Mohsin Hamid, noto in Italia per “Il fondamentalista riluttante”, affronta il tema della globale ipocrisia verso le differenze con un romanzo provocatorio e sottilmente sarcastico: “L’ultimo uomo bianco” (Einaudi). Sorretta da una scrittura sinuosa, avvolgente come un filo apparentemente innocuo che alla stretta improvvisa soffoca, è la storia di un uomo bianco che un bel mattino scopre di essere diventato scuro. Con tutte le conseguenze che ne derivano. Sul piano individuale: straniamento, angoscia, senso di ingiustizia, tentazioni suicide. Su quello sociale: tra diffidenza, tensioni. Effetti paradossali: come quando la tv riferisce che un uomo scuro è stato ucciso da un uomo bianco, ma l’uno e l’altro sono la stessa persona. La trasformazione è parte di un misterioso contagio che si propaga in tutta la società. E non è solo una faccenda epidermica: cambiare colore vuol dire spalmare sulla pelle l’esperienza di essere nero. Fare i conti con pregiudizi e diffidenze, essere chiamati a rivedere i nostri stessi gesti e pensieri. Inevitabile che, tra panico e ipotesi apocalittiche, la violenza esploda e il sospetto di un complotto ordito da secoli nutra milizie punitive, decise a difendere la bianchezza per le strade di un imprecisato Paese: gli Stati Uniti, d’istinto, ma ovunque l’uguaglianza è messa in discussione. Servirà un’alba nuova per conquistare la consapevolezza che siamo tutti migranti, nel corpo e nelle identità. Donne e uomini con un solo destino: cambiare.
“SONO STATO ANCHE BIBLIOTECARIO”
Chiara De Vecchis
AIB, pp. 221, € 30
In contemporanea con l’uscita dell’ultimo romanzo di Daniele Mencarelli (Mondadori), la voce di Federico Cesari, l’attore protagonista della serie tv da “Tutto chiede salvezza”, accompagna l’emozionante storia di Pietro e Jacopo, padre e figlio. E del loro viaggio. Che comincia su una Golf che li pianta in asso, tra tornanti e paesi arroccati. E prosegue nella malattia, nel disamore, nella rabbia. Nell’amore di un uomo che non si arrende.
FAME D’ARIA
Daniele Mencarelli (letto da F. Cesari)
Audiobook Audible
UOMO
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BOOKMARKS Sabina Minardi
Nostalgia in cerca d’autore
Roberto Andò e Emanuele Trevi portano a teatro “Ferito a morte”. Vincendo la scommessa di rappresentare una storia amata
Bella sfida portare in scena romanzi cult, libri apprezzati e amati. Perché rischiare allora? Il teatro ha un grande potere: quello di immergere lo spettatore in luoghi e atmosfere fino al momento della messa in scena solo immaginati. “Ferito a morte”, il romanzo di Raffaele La Capria vincitore del Premio Strega nel 1961, rivive sul palco proprio grazie a quell'atmosfera resa palpabile dal chiacchiericcio musicale dei personaggi, dall'acqua schiumosa del mare, dalla vita apatica nelle stanze del Palazzo, in una Napoli che «ti ferisce a morte o t'addormenta». Nello spettacolo andato in scena al Teatro Argentina di Roma c'è un mondo intero che viene ricreato da Roberto Andò (regia) ed Emanuele Trevi (adattamento), entrambi amici dello scrittore scomparso la scorsa estate. Ed è questo il pregio dello spettacolo coprodotto da Teatro di Napoli, Fondazione Campania dei Festival, Emilia Romagna Teatro, Teatro Stabile di Torino: offrire un punto di vista diverso di quella polifonia di storie, personaggi, ricordi che pur senza seguire una trama riescono a trasmettere nostalgia di un tempo andato ma senza rimpianti. Quella che viene narrata da Massimo De Luca - un Andrea Renzi perfettamente calato nella parte, che da un angolo del proscenio dialoga con il Massimo giovane, Sabatino Trombetta, in scena con un cast di grandi attori - è la sua stessa vita. Ce la racconta in una mattina, ripercorrendola dall’estate del 1943, quando incon-
Aurora Quattrocchi e Gea Martire in un momento di “Ferito a morte” dal romanzo di Raffaele La Capria
tra Carla durante un bombardamento, fino al giorno della sua partenza per Roma, nel 1954. Davanti ai nostri occhi c'è una città indolente. I personaggi della borghesia partenopea, che attraversano il palco suddiviso orizzontalmente, sono annoiati. Trascorrono il loro tempo al Circolo Nautico o in barca, ma senza entusiasmo, apatici come Jep Gambardella nel film “La Grande bellezza” di Sorrentino e incapaci perfino di dialogare davvero, ognuno seduto al proprio tavolino durante il pranzo della domenica. In questo lento scorrere delle esistenze lampi di bellezza squarciano la scena, come l'incontro iniziale fra Massimo e Carla, seduta sul letto di fronte alla finestra spalancata, così simile al quadro di Edward Hopper “Morning sun”. E poi quella barca in mezzo al mare... Chissà cosa si nasconde sotto l'acqua pronta a inglobare anche noi grazie ai video di Luca Scarzella. In fondo questo è uno spettacolo che parla di tante cose, ma soprattutto della voglia di fuggire e ricominciare da capo che prima o poi attanaglia tutti.
“Ferito a morte”, regia di Roberto Andò Milano, Teatro Strehler, fino al 22 gennaio. Cesena, Teatro Bonci, dal 26 al 29. Genova, Teatro Ivo Chiesa, 8-11 febbraio.
APPLAUSI E FISCHI
Se in questi giorni siete a Milano dovete assolutamente conoscere la professoressa Gallina Cicova. Impazzirete per questa signora giramondo che raccoglie i reperti delle favole. Lei si chiama Emanuela Dall'Aglio e lo spettacolo è “Once upon a time. Museo della fiaba”. Al Teatro PimOff fino al 22 gennaio.
Peggio per voi se non siete mai stati al Teatro Sociale di Amelia, gioiello settecentesco realizzato interamente in legno. Le porte del teatro ormai sono chiuse. Il Demanio, che lo ha acquistato, ha indetto una gara per trovare qualcuno che lo gestisca – udite udite – gratuitamente. Si salverà?
110 COLPO DI SCENA
Francesca De Sanctis
In piscina con Hockney
Più di qualcuno aveva storto il naso quando David Hockney, il più importante pittore britannico, aveva iniziato a dipingere prima con l’iPhone e poi con l’IPad, ma lui di complessi e imbarazzi non ne ha mai avuti. E così come non si è fatto alcun problema qualche mese fa a presentarsi al sontuoso ricevimento annuale di Buckingham Palace per l’Ordine al merito in ciabatte gialle («che belle calosce David», gli ha detto il padrone di casa Re Carlo, «danno un tocco di colore alla serata»), con l’utilizzo di un’app per dipingere ha spiegato al mondo che l’arte deve comprendere la tecnologia e sfruttarla. E allora quando la 59 Productions e la London Theatre Company hanno deciso di dare vita a Londra a un nuovo spazio per spettacoli immersivi, Lightroom, è venuto naturale chiedere a Hockney di inaugurarlo con un’esposizione che tra proiezioni su larga scala e animazioni ci racconterà la vita e la tecnica del Maestro nato a Bradford 85 anni fa. Sarà la voce di Hockney a guidarci in un percorso che partirà proprio dai primi anni passati nello Yorkshire, quando il padre lo porta spesso nei musei che da quelle parti però si limitano a collezioni di quadri vittoriani. I suoi punti di riferimento da ragazzo sono Matisse e Picasso: il primo per il colore, il secondo per il tratto. La sua agognata iscrizione al Royal College of Art deve aspettare due anni, perché è costretto a prestare servizio presso un ospedale: come da tradizione di famiglia infatti è obiettore di coscienza e si rifiuta di svolgere il servizio militare (non così scontato negli anni ’50). Sosteneva di essere cresciuto tra Bradford e Hollywood per la quantità di cinema americano che vedeva da ragazzo e proprio
In mostra a Londra proiezioni e animazioni per raccontare il pittore britannico.Tra polaroid e passione per le tecnologie
per questo decide a metà degli anni ’60 di trasferirsi a Los Angeles. Quella decisione cambierà completamente lo stile di Hockney, che fa della luce della California il suo principale alleato: i suoi quadri diventano una sorta di miraggio del sogno americano, con prati verdi e curatissimi, il mito della forma fisica, le ville. Soprattutto, le piscine: ne dipingerà una ventina nel corso della sua vita e quello diventerà il suo tratto distintivo, la serie più iconica. La sua pittura ci restituisce scene di vita anche molto drammatiche, attraverso una sorta di minimalismo teatrale. Lavora anche per il teatro, realizzando scenografie per l’opera e per il balletto che vedremo riprodotte da Lightroom. Sperimenta poi con la fotografia, iniziando quasi per caso: scatta alcune polaroid a una villa che avrebbe voluto dipingere, e una volta assemblate per cominciare il lavoro pittorico, capisce che questo medium aveva una dignità tutta sua. Diventa uno dei pittori più acclamati (nel 2018 è suo il record, con quasi 91 milioni di dollari, dell’opera d’arte più costosa di un artista vivente) e i suoi quadri vengono contesi dai grandi musei del mondo e amati dal pubblico, perché capaci di una luce nuova, raggiante nelle primavere, cristallina nella trasparenza dell’acqua, sfavillante nei paesaggi. Non poteva esserci titolo migliore per questa sua nuova avventura: “Bigger & Closer (not smaller & further away)”, asserzione che ha il sapore quasi di uno sfottò al mondo dell’arte che si allontana dal pubblico. Ci sono voluti tre anni per prepararla e dal 22 febbraio sarà finalmente visitabile, in quattro piani e sei capitoli. Oltre alla voce di Hockney, troveremo una partitura composta appositamente da Nico Muhly. L’unico commento arrivatofinorada Hockney sulla mostracidiceche «il mondo è bellissimo se lo guardi, ma la maggior partedelle persone non lo fanno: puntano gli occhi a terra mentre camminano senza guardare davvero le cose con intensità. Io voglio ribaltare questa attitudine».
Il quadro dei record: “Portrait of an Artist (Pool with Two Figures)”, del 1972, battuto all’asta da Christie’s nello stesso anno
smART Nicolas Ballario 22 gennaio 2023 111
Le donne non piangono più
Hai voglia a dire che i social hanno deformato la realtà, che ci stanno gettando in una gigantesca Matrix dal futuro incerto, hai voglia a lamentarti dell’aborme invadenza dei post con i quali oggi si celebra ogni momento della nostra vita.
La verità è che senza di loro ci saremmo persi i più gustosi litigi dell’età contemporanea. Morgan e Sgarbi litigano? Possiamo tutti divertirci a commentare i termini esatti con i quali, dopo un lungo idillio, i due si sono mandati a quel paese: «Sei un topo» ha detto Sgarbi, «sei senza cuore» ha risposto Morgan. Quasi un colpo di fioretto se paragonato allo tsunami Shakira. Lei a proposito del suo ex Piqué reo di aver sbandierato ai quattro social la sua nuova fidanzata ci ha scritto una canzone che, da notare, è stata scritta e utilizzata esattamente come un social, ovvero con l’intento di far diventare virali due precise frasi del pezzo, che sono «Hai scambiato una Ferrari con una Twingo e un Rolex con un Casio», diventata immediatamante slogan, e soprattutto «le donne non piangono più, le donne fatturano» colpo di genio destinato a entrare stabilmente nel nostro frasario. Il pregio è che tutto que-
UP & DOWN
Torna in tour, otto anni dopo l’ultima volta in Italia, quaranta dopo l’uscita del primo album intitolato con messianica semplicità: Madonna. La curiosità è d’obbligo considerando che Madonna si è traformata in una sorta di grottesco reality senza veli della sua vita. Come sarà in concerto? O meglio, sarà un concerto?
Per comunicargli che non vogliono più avere nulla a che fare con lui, gli avvocati di Kanye West hanno deciso di utilizzare la stampa. Kanye ne combina almeno una a settimana, ma questa è davvero eccessiva. Non gli hanno spiegato che uno come lui in America, senza avvocati non può sopravvivere?
La frase di Shakira, ormai celebre, è l’evoluzione del “dissing” dei rapper che si sono sfanculati per anni. Perché l’insulto è l'arte del presente
sto consente a legioni di utenti di esercitare liberamente il democratico esercizio del sarcasmo. Non è altro che una successiva evoluzione del “dissing” dei rapper che si sono sfanculati per anni, con una radicata attitudine a dire in pubblico cose che magari sarebbe stato bene mantenere in privato. 2Pac e Notorius Big, ambedue morti a pistolettate, se ne sono dette di tutti i colori, compresa un’allusione di 2Pac sull’essere andato a letto con la compagna del rivale. Eminem ne ha fatte talmente tante da essere inelencabili, ma è riuscito nel primato di massacrare la madre in un pezzo e poi chiederle scusa in un altro.
Anche in Italia non si sono risparmiati colpi. Fabri Fibra se l’è presa con la sua famiglia, con Jovanotti, e un pezzo ha dovuto addirittura modificarlo perché citava Laura Chiatti in modo improprio, lei ha vinto la causa e lui ha douto eliminare il nome. Viene da sorridere di tenerezza a pensare che un tempo i poveri cantautori ogni tanto si mandavano a dire qualcosa attraverso le canzoni, ma erano delle garbate e signorili invettive, tipo Guccini che se la prese con un critico («un pio, un teorete, un Bertoncelli o un prete a sparare cazzate») o De Gregori che sfotteva il suo amico Venditti definendolo «pianista di piano bar». L’insulto in musica è arte del presente. Basta un vaff… e gli streaming piovono a milioni.
Foto: L.
Koffel –Gamma Rapho /
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LE GAUDENTI NOTE Gino Castaldo 22 gennaio 2023 113
La cantante colombiana Shakira
Marcuzzi, niente di nuovo
C’era grande attesa per il ritorno televisivo di Alessia Marcuzzi. E la domanda semplice semplice, di quelle che sorgono spontanee, è banalmente: perché? Cinquantenne in stile Dorian Gray, oltre cinque milioni di follower e una sorta di entusiasmo endemico che la accompagna da tempo, Marcuzzi nel suo passato recente e remoto non ha propriamente mai dato l’idea di essere un talento incompreso prigioniero suo malgrado della morsa di casa Mediaset. Nata alla rincorsa delle coppie potenziali di “Colpo di fulmine”, cresciuta a pane e Festivalbar, era approdata come conseguenza naturale in quel mondo frutto di intelligenze maldestre altrimenti detto reality. Delle sue edizioni all’“Isola dei Famosi” si ricordano momenti altissimi, tra cui il “cannagate” denunciato con moralismo assertivo da una ex pornostar e la pubblica umiliazione di Riccardo Fogli in pelle e ossa da parte di quel signore di Fabrizio Corona. «Sono pronta a fare altro», disse in chiusura dell’esperienza fra i naufraghi, lasciando aperti spiragli di buon gusto, giusto un attimo prima di finire alla conduzione dell’isola delle tentazioni, dove davanti al tradizionale falò cercò di gestire con garbo i disappunti amorosi di tal Damiano detto er Faina.
Alessia Marcuzzi canta, balla, conduce ed è anche autrice del programma del martedì su Rai Due
di Alessia Marcuzzi ha sempre fatto sottilmente intendere che non sarebbe approdato con facilità al programma del secolo. Certo, veniva difficile supporre una quota imbarazzo di tale portata come quella presente nel suo “Boomerissima”, ma che avrebbe smentito la sicurezza dell’annuncio del consueto ottimismo del direttore Coletta («Se Rai Due facesse solo programmi di intrattenimento si risveglierebbe più facilmente. Quando i prodotti sono ben realizzati e coerenti, possono incontrare il favore del pubblico») era facilmente prevedibile. Nato sulla suggestiva onda dell’inarrivabile Diaco, lo show di prima serata ospita l’ennesimo scontro generazionale che fa sembrare i giovani assai più anziani dei vecchi e riesce nell’impresa non facile di trasformare la leggerezza in semplice vacuità. In pratica, una sorta di come eravamo che non ce l’ha fatta, in cui si costringono glorie passate a cantare sempre la stessa canzone. E dove Alessia Marcuzzi, con perenne aria stupita da fotoromanzo, riesuma glorie recenti scongelandole dai reality di cui sopra. Insomma, niente di nuovo su diversi fronti. Solo, come avrebbe detto il Mattatore, un grande avvenire dietro le spalle.
DA GUARDARE MA ANCHE NO
Non sarà un’operazione nostalgia, come dice Minoli ma il suo Mixer (Rai Tre) di nostalgia ne scatena parecchia. Non tanto per il faccione multischermo del giornalista, quanto per gli ospiti di un’Italia che fu: Berlinguer, Vitti, Yourcenar, Troisi, Mastroianni. L’elenco continua, lo sconforto avanza, la visione merita.
Dunque, eccezion fatta per la felice parentesi con la Gialappa’s di “Mai dire gol”, in cui lasciò libero spazio alla sua oggettiva autoironia, il percorso televisivo
È vero che amare (il calcio) significa non dover mai dire mi dispiace, ma dopo due anni l’abbonato Dazn vive quantomeno con una punta di rammarico. La rotella del buffering è ormai compagna di curva, il rimborso per il match non visto si aspetta con puntualità e il desiderio di tifare per le bocce è sempre più prepotente.
Foto per gentile concessione di: M.
D’Avanzo –Uff. Stampa RAI
Con un passato saldamente fondato sui reality stile Mediaset, era difficile aspettarsi qualcosa di buono dallo show Boomerissima
HO VISTO COSE
114 22 gennaio 2023
Beatrice Dondi
Com’era pulp il cinema muto
Tutto quel che non si poteva mostrare della Hollywood anni Venti in un film solo. La cacca (d’elefante) e la droga, gli eccessi e le orge, i falli giganti e le attrici pronte a tutto e anche ad altro. Il controverso ”Babylon” di Chazelle prende le mosse dal celebre “Hollywood Babilonia” di Kenneth Anger (Adelphi), ma sfuma la prima (Hollywood) e i suoi dati storici per accentuare la seconda (Babilonia) e la sua aura mitica. Concedendo forse troppo a etica e estetica odierne.
L’idea era raccontare il trapasso dal cinema muto al sonoro come un’epopea grandiosa e miserabile, tragica ed esilarante, mimando l’entusiasmo, l’ingordigia, l’innocenza selvaggia e molto “pulp” di un mondo sparito. Il risultato è un film di vivificante ambizione che alterna momenti irresistibili e perfino profondi a lungaggini e ovvietà. Anger - era il 1959 - illuminava il lato sordido quando non criminale del massimo sogno collettivo generato dalla modernità. Chazelle reinventa quel mondo e quelle illusioni con un occhio all’inclusività odierna e l’altro all’insaziabilità, ovvero all’insoddisfazione cronica che oggi ci avvolge. Sfrondando il quadro storico-sociale (niente crisi del 1929,
ENTUSIASTI E PERPLESSI
Leone d’argento a Venezia con “Saint Omer”, la rivelazione Alice Diop ha alle spalle una lunga serie di docu. Uno dei più belli, “Nous”, tutto girato su un treno che attraversa Parigi e le sue periferie da Nord a Sud, è su Mymovies.it fino al 13 febbraio con molti altri inediti in MyFrenchFilmFestival. Da non perdere.
Attenzione: spoiler. Nel fortunato “Grazie ragazzi”, remake corretto ma pallidino del vibrante film francese “Un triomphe”, i detenuti in fuga vengono riacciuffati. Nell’originale (e nella storia vera cui si ispira), la facevano franca. Altro che riparativa: la giustizia in Italia ha da essere punitiva.
Vizi ed eccessi di Hollywood prima che arrivasse il sonoro. Tra alti e bassi il nuovo film di Chazelle mostra l’altra faccia di “La La Land”
niente Hays Code, il famigerato codice di autocensura, pochi nomi e fatti reali) per esaltare l’energia, la sfrontatezza, la libertà di quell’alba di gloria.
Così accanto ai tre protagonisti, il divo (Brad Pitt), la starlet (Margot Robbie), il factotum destinato a fugace carriera (Diego Calva), tutti al meglio, ecco una cinese che canta canzoni hard ma ha il dono di scrivere didascalie geniali per quei film senza dialoghi, ecco il jazzista afro che il talento non salva dalle umiliazioni, ecco l’ingenuità del factotum messicano farne il testimone ideale di un’epoca grandiosa e inesauribile. Che Chazelle pantografa poggiando sulle spalle dei tre protagonisti, tutti a loro modo sognatori, il senso e il peso di un trapasso epocale in cui riverberano le ansie del nostro presente.
Chi aveva amato “La La Land” ritroverà i ritmi, le accelerazioni e le sospensioni geniali di un regista di indiscutibile talento. Chi vuole approfondire legga David Thomson, “La formula perfetta - Una storia di Hollywood” (sempre Adelphi). Chi vuole compensare la sbornia digitale di “Avatar” si tuffi dentro “Babylon”, stessa durata ma immagini fatte di carne e sangue. Anche se, come sintetizza in una scena da antologia una meravigliosa Jean Smart, cronista e a suo modo storica di quel mondo, solo il cinema crea un eterno presente.
BABYLON di Damien Chazelle Usa, 189’
22 gennaio 2023 115 BUIO IN SALA Fabio Ferzetti
Nei confini della libertà
Il mio primo cane si chiamava Full e ha cambiato la mia vita. Un cane che ha dovuto, suo malgrado, subire tutti gli errori tipici di una neofita. Nonostante avessi atteso per anni la possibilità di avere un cane e avessi studiato e ascoltato tanto dagli esperti, quando è arrivato, ho fatto una serie di errori clamorosi. L’allevatrice mi raccomandò di non lasciarlo libero a correre tutto il giorno in giardino, ma di cercare di dosare le sue forze e gestire il suo spazio, alternando momenti di libertà a momenti di pausa. Mi disse di usare il famoso trasportino (gabbia portatile in plastica, ndr) come cuccia/tana e di creare un recinto in giardino dove confinare la sua euforia, quando mi fossi assentata per diverse ore. Mi piangeva il cuore doverlo “chiudere”, mi sembrava di metterlo in prigione. E quindi lo lasciai libero di correre tutto il giorno lungo la rete a inseguire le macchine. Il risultato: cane magrissimo, sfinito, unghie delle zampe consumate, sordo a ogni richiamo. Un disastro. Mi resi conto che lo spazio andava gestito e che l’allevatrice aveva ragione. Il benessere del cane passa anche attraverso la gestione dello spazio, come poi ho capito bene nei tanti corsi cinofili che ho seguito. Spazio, cibo e gioco, sono le risorse da gestire per il benessere del cane. Il traspor-
CAREZZE E GRAFFI
Quando si interagisce con un cane non pensiamo mai all’orologio. Il tempo, non è mai perso, ma sempre investito. Quello che conta è la qualità delle ore che dedichiamo a costruire una buona relazione con il nostro compagno di vita.
Ansia da separazione. L’attesa del ritorno del padrone a casa non deve mai essere vissuta con angoscia. Evitiamo di salutarlo prima di uscire e di fare feste esagerate al nostro rientro. Per lui dovrà essere normale sapere che ci sono momenti in cui il padrone si assenta.
I consigli inascoltati dell'allevatrice. E gli errori di una neofita. Che sottovaluta il trasportino per gestire il benessere del cane
tino è una delle cose più utili per i neoproprietari. Se usato bene, si trasforma in men che non si dica nella tana/cuccia del cane e sarà il posto tranquillo e sicuro dove riposare, viaggiare, mangiare: un punto di riferimento. C’è chi rifiuta categoricamente di usarlo: «Il mio cane in gabbia, mai!». Non è una prigione, ma una tana dove il cane si rifugia per stare tranquillo. Il nostro compagno a quattro zampe ha bisogno di punti di riferimento per stare bene, questo è il primo che gli va offerto. Se abbiamo un giardino, buona regola sarebbe creare uno spazio delimitato solo per lui, magari con una cuccia e un tetto, in una zona ombreggiata. Un luogo dove il cane possa stare al sicuro senza costrizioni, mentre siamo a lavoro o impegnati altrove. Soprattutto per i cuccioli ci vogliono mille occhi: esplorano il mondo con la bocca e riescono sempre a ingurgitare qualcosa di pericoloso. Quindi è bene avere uno spazio delimitato dove poterlo lasciare quando non possiamo condividere del tempo con lui. La gestione dello spazio, anche se non sempre facile da mettere in pratica, è un primo passo verso il benessere del nostro cane. Quando avrà imparato a gestire la sua irruenza giovanile, il cane sarà pronto a vivere libero anche tutto il giorno. Starà a noi correggere il tiro ogni volta che se ne presenta la necessità. Per loro la routine e le regole sono un fondamento per sentirsi sicuri. Amano la coerenza, più si è coerenti nella gestione della quotidianità, più il nostro cane ci apprezzerà.
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Un cucciolo di pastore australiano, nel suo trasportino 22 gennaio 2023 117
Foto: AMICI BESTIALI
A. Kot
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Viola Carignani
Mosto o vino purché cotto
Hanno una consistenza diversa. Il primo è più denso e si lascia invecchiare. Il secondo era un elisir per i romani. Mille gli usi in cucina
Secondo quanto decretato da Columella, che ne scrisse già nel I secolo d.C., le vie del vincotto sono almeno due: «defrutum», particolarmente apprezzato già nella cucina di Apicio, se ridotto di un terzo, oppure «sapa» se ridotto della metà. Dagli scritti di Columella, appunto, apprendiamo che già presso i romani era usanza ravvivare le carni col mosto cotto. E così veniva usato anche in preparazioni dolci, come nelle torte, dove compariva come edulcorante ante litteram, mentre si faceva energizzante se allungato con acqua e la sua versione fermentata e cruda veniva apprezzata come tonico appetitoso e inebriante. Oggi sono altri i parametri per stabilire se si può parlare di mosto cotto o di vino cotto, in base alla sua consistenza. Infatti, il mosto cotto è più denso e si lascia invecchiare. Il vino cotto, invece, è stato dichiarato dalla Pat (Prodotti agroalimentari tradizionali italiani) Patrimonio Enologico della Regione Abruzzo, in primis nella zona teramana. In tempi lontanissimi il vino cotto era una sorta di biglietto da visita beneaugurante che il contadino offriva agli ospiti in segno di benevolenza nei momenti di convivialità durante le feste e le sagre. Già ai tempi di Plinio il Vecchio era usanza preparare questa bevanda così particolare, quasi un elisir. Il mosto cotto nasce ai tempi in cui i braccianti andavano a prestare i loro servigi ai contadini du-
Un barattolo di mosto cotto o Sapa, come viene chiamato soprattutto in alcune zone d’Italia
rante la vendemmia riportando a casa qualche cesta d’uva per ricavarne una tipologia di vino che sfidasse il tempo. Così fecero di necessità virtù e quel mosto che raccoglievano dopo la spremitura delle uve, e destinato a inacidire, lo inserirono, prima che il mosto fermentasse e si tramutasse in alcol, in un calderone cuocendolo fino a diventare una sorta di sciroppo denso. Infatti, ogni anno rabboccavano i contenitori del mosto cotto con quello nuovo conservandone sempre una buona quantità. Così di padre in figlio le botti rabboccate sono dopo secoli ancora in uso in alcune famiglie abruzzesi. Oggi come allora per migliorare il gusto del mosto è necessario — come da Disciplinare — aggiungere, per dare un particolare aroma, una mela cotogna per ogni quintale di mosto, migliorandone la morbidezza e la fragranza.
Paese che vai, mosto che trovi e tra i più celebri c’è di certo la Sapa già descritta dall’Artusi, che la racconta come quella sostanza che può servire in cucina a diversi usi poiché ha un gusto speciale. Ebbene la Sapa, come la chiamano nel Cesenate e nel Riminese, è un mosto d’uva (spesso di Trebbiano) sobbollito per ore in un paiolo di rame unitamente a una mezza dozzina di noci col guscio che, rivoltandosi, aiutano il mosto a non attaccarsi al fondo del calderone. Il suo utilizzo in cucina è vario, tanto che può essere usato come accompagnamento per formaggi o freschi o molto stagionati oppure come rinvigorente di yogurt e gelati (fiordilatte o crema). In cucina poi diventa eccelso con le castagne, o come farcia di paste sfoglie o paste frolle. La Sapa è diffusa in tutta l’Italia centrale, ma anche nelle isole, dove la sua incursione nelle ricette ha determinato una filiazione di preparazioni da manuale.
Foto: Natallia Khlapushyna
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118 22 gennaio 2023 GUIDE
DE L'ESPRESSO A TAVOLA Andrea Grignaffini
Destinazione Prosecco
Delittuoso sottovalutare il paradigma di successo del Prosecco, fenomeno capace di trascinare, in deflativo generalizzato (che riguarda, ovviamente, anche il mercato del vino), il comparto degli spumanti italiani, capaci di raggiungere, oltre al traguardo spaventoso di quasi un miliardo di bottiglie prodotte (970 milioni nel 2022), valori di export (dati Uiv-Ismea) superiori ai due miliardi. Il Prosecco, nella fattispecie, nome che unisce tre denominazioni, Prosecco DOC, Prosecco di Conegliano-Valdobbiadene DOCG e Asolo Prosecco DOCG, due regioni (Veneto e Friuli-Venezia Giulia) e nove province che lo delimitano, è la riprova di quanto un coordinamento territoriale sapiente, unito ad un lavoro impeccabile sul marchio, possano realizzare.
In questa logica, il lavoro di Colesel, ovverosia famiglia Bortolin, ormai da cinque generazioni capace di unire dedizione artigianale a ricerca instancabile della qualità, è determinante nella prosecuzione della tendenza. Siamo in località Santo Stefano, da sempre una delle zone capaci di regalare alcune fra le etichette più emozionanti della tipologia.
Con una incursione nell’altrettanto celebrata zona di Cartizze si raggiungono un totale di 16 vigneti, tutti identificati, nella logica del cru, attraverso le loro caratteristiche peculiari, punto di arrivo di un lavoro decennale sulla zonazione prima e poi sulla selezione clonale. Un’eccellente visione, insomma, unita a un saper fare che costituisce il vero patrimonio aziendale. Vini nitidi, puliti, capaci di imprimersi nella memoria e stemperare alcuni luoghi comuni sulla tipologia. Si parte dal Valdobbiadene DOCG Superiore di Cartizze Dry, raffinato, bollicina setosa e non troppo invadente, ma dalla persistenza marcata. Si passa poi al Valdobbiadene DOCG Prosecco Superiore Extra Dry Fontana Vecia, altrettanto elegante, iodato, agrumato e con tocchi officinali.
Una denominazione vincente e una famiglia che da cinque generazioni punta sulla qualità. In un territorio che traina l’export delle bollicine
Vlady Bortolin, proprietario della Colesel. Sopra, vigneti Colesel nella zona di Valdobbiadene
VALDOBBIADENE DOCG PROSECCO SUPERIORE
EXTRA BRUT TRIDIK QUOTA 430
PUNTEGGIO: 96+/100
È l’alfiere aziendale, etichetta di grande peculiarità, si apre al naso con note di mela verde e pera Abate, tocchi agrumati di lime e di timo fresco. Al palato ha bollicina tesa, salmastro-sapida, convincente croccantezza di beva e ritorno fruttato-officinale. Consigliato (in stagione) in abbinamento con un risotto con i bruscandoli o con gli asparagi.
COLESEL SPUMANTI SRL
Via Vettorazzi e Bisol, 4 31049 Valdobbiadene (TV) Italia
visite@colesel.com
Tel +39 0423 901055
22 gennaio 2023 119 GUIDE DE L'ESPRESSO IL
VINO Luca Gardini
Scuola a macchia di leopardo
ara Rossini, mi rifaccio alla notizia che riguarda quella famiglia finlandese che ha lasciato l'Italia per la Spagna, a causa di una scuola ritenuta impresentabile. Subito è partito il tam tam dello sciovinismo più insulso, del genere: come si permettono questi nordici che hanno solo renne e pinguini di riprendere noi italiani che abbiamo Dante e Petrarca? Senza dire che la maggior parte degli studenti italiani non conosce né l'uno né l'altro. Come al solito non si ammette a tutti i livelli che la scuola italiana è ridotta da anni a un parcheggio con un inutile esaminificio che promuove anche gli analfabeti. La scusa di ridurre tutto a un problema di stipendi dei professori è ridicola. Comunque grazie ai risultati della maturità, con promozioni bulgare del 99,9 per cento, tutti gli addetti ai lavori possono dire che una scuola così performante non si era mai vista. Nel frattempo tra un pestaggio, un oggetto lanciato al professore e avvocati chiamati da genitori indignati perché il mutismo del pargolo è stato sanzionato con una insufficienza, la scuola affonda peggio del Titanic. Tutta la mia solidarietà alla famiglia finlandese che troverà nella non lontana Spagna più cultura con cui alimentare i propri figli. Buena suerte amigos!
Marco Masolin
Altre lettere e commenti su lespresso.it
La buona sorte la augurerei piuttosto alla nostra scuola, malmenata da giudizi impietosi che non sempre e non ovunque si merita. La scuola italiana, come si sa, è fatta a macchia di leopardo, con eccellenze che non hanno niente da invidiare agli esperimenti dei Paesi nordici (si guardi soltanto alle scuole per l'infanzia di Reggio Emilia, a suo tempo valutate come le migliori al mondo), e con protagonisti del calibro di Maria Montessori che hanno rivoluzionato l'approccio con gli alunni e la didattica a favore di mezzo mondo, se si pensa che soltanto negli Usa oggi si contano 3.500 scuole montessoriane. Ma le eccellenze non escludono il loro contrario, cioè il degrado, anzi spesso lo producono e lo alimentano. Se continua a mancare una visione d'insieme per l'istruzione dei nostri ragazzi, se le riforme annunciate con enfasi da ogni governo (ricordate la Buona Scuola di Renzi?) non sono state neanche pannicelli caldi, è ipocrita rammaricarsi dell'abbandono scolastico in crescita o delle reazioni scomposte delle famiglie, mentre aumenta la forbice tra alunni che possono permettersi istituti di qualità e alunni inchiodati alle loro origini. La famiglia finlandese che voleva il sole, ha sbagliato a credere che brillasse su tutta l'Italia.
DIRETTORE RESPONSABILE:
Alessandro Mauro Rossi
CAPOREDATTORI CENTRALI:
Leopoldo Fabiani (responsabile), Enrico Bellavia (vicario)
CAPOREDATTORE: Lirio Abbate
UFFICIO CENTRALE:
Beatrice Dondi (vicecaporedattrice), Sabina Minardi (vicecaporedattrice)
Anna Dichiarante
REDAZIONE: Federica Bianchi, Paolo Biondani (inviato), Angiola
Codacci-Pisanelli (caposervizio), Emanuele Coen (vicecaposervizio), Vittorio Malagutti (inviato), Antonia Matarrese, Mauro Munafò (caposervizio web), Gloria Riva, Carlo Tecce (inviato), Gianfrancesco Turano (inviato), Susanna Turco
ART DIRECTOR:
Stefano Cipolla (caporedattore)
UFFICIO GRAFICO: Martina Cozzi (caposervizio), Alessio Melandri, Emiliano Rapiti (collaboratore)
PHOTOEDITOR:
Tiziana Faraoni (vicecaporedattrice)
RICERCA FOTOGRAFICA: Giorgia
Coccia, Mauro Pelella, Elena Turrini
SEGRETERIA DI REDAZIONE:
Valeria Esposito (coordinamento), Sante Calvaresi, Rosangela D’Onofrio
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120 22 gennaio 2023
C
Ray Banhoff
Picchia di più. Ti sei ammorbidito, non sembri te. Non è che, perché ora scrivi su L’Espresso, devi diventare democristiano». Oppure peggio: «Vai proprio bene per la gente del Pd». Mi arrivano questo tipo di messaggi dopo l’esordio della rubrica perché chi mi legge da tempo sa che spesso ci vado giù pesante quando scrivo e che non ho mai mancato di gettarmi in polemiche. Ma è un po’ come dire a tuo cugino che in terza media ha menato uno se ti fa da guardia del corpo. So mostrare i muscoli, sì, ma se lo facessi a comando sarei un bullo. Ma come, scrivi una rubrica su L’Espresso e
Ci sentiamo tutti un po’ Fantozzi e un po’ Batman
usi la prima persona, parli di te? Beh, tanto parlano sempre tutti di sé stessi anche quando parlano di altri, no? Avete davvero sempre bisogno di qualcuno che vi faccia da pedagogo? Dai.
Il fatto è che mi sento caricato di una responsabilità più grande di quella che posso sopportare, come se dovessi vendicare non so chi da non so cosa. Siamo ancora qui, derisi e calpestati come nella canzone di Gaetano. Siamo sempre di più, sempre più abituati a esser tristi e incazzati, a non arrivare a fine mese o non poter andare in vacanza: insegnanti, persone comuni, abitanti della provincia e della città, precari. E questi vorrebbero qualcuno, una sorta di Robin Hood, che in faccia ai potenti disegni uno sberleffo e diventi il loro condottiero, qualcuno che gli risolva la vita e riscatti quel senso di ingiustizia che loro sentono addosso come un astro nefasto. Come fu Beppe Grillo. Però
Abbiamo delegato a opinionisti e politici il nostro ruolo attivo di cittadini. Seguiamo, invece, l’istinto
poi si è vista la fine che ha fatto. Pure Cristo abbiamo messo in croce ed è il segno che delegare non funziona proprio.
Che poi mi son reso conto: è un atteggiamento che abbiamo tutti, che ho forse anche io. Cerchiamo un difensore e lo riprendiamo quando non si batte abbastanza anche se siamo noi quelli che dovrebbero lottare sul ring. L’altro giorno ero su un tram a Milano e sono saliti su dei ragazzini che facevano davvero i maleducati. Il punto è che invece di alzarmi in piedi e prenderli per un orecchio, mi sono cacciato a fondo nel mio telefono ad ascoltare la musica in cuffia. Quando li ho visti scendere mi son reso conto che erano più alti e più grossi di me e che erano talmente scemi da essere innocui. Il mio orgoglio ha sofferto il doppio. Mi sentivo Fantozzi.
Alla fine non siamo né Fantozzi né Batman, siamo qualcosa di molto più complesso e ogni giorno cerchiamo di farcela nonostante tutto, ma veramente tutto, ci remi contro. Nell’era dei social siamo abituati a parlare un sacco online e meno dal vivo, abbiamo creduto scioccamente che delegare a opinionisti, politici, commentatori, ci esentasse dal nostro ruolo attivo di cittadini e persone. Beh, onde evitare di sentirsi dei coglioni come me su quel tram è bene ricordarci che siamo noi i primi che devono cominciare a dire no, ogni tanto. È scioccante, il vostro capo ci rimarrà malissimo quando vedrà che non vi piegate e voi vi sentirete pieni di vita. Così come tutti gli altri che vi fanno incazzare ma a cui non rispondete perché «tanto non ne vale la pena». Invece la pena vale. Sgarbi che forse è matto come un cavallo ha sempre detto una cosa giusta, che lui sta molto bene nella vita perché non trattiene niente. Infatti Sgarbi è un figo, tutti lo amano, anche chi lo odia. E tutti vorrebbero essere un po’ lui ogni tanto. Ecco, non serve. Siate voi stessi e ascoltate solo il vostro istinto. È l’unico ad aver sempre ragione.
BENGALA
122 22 gennaio 2023
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