L'ESPRESSO 26

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Settimanale di politica cultura economia N. 26 • anno LXVIII • 3 LUGLIO 2022 Domenica 3 euro L’Espresso + La Repubblica In Italia abbinamento obbligatorio alla domenica. Gli altri giorni solo L’Espresso 4 euro

POLITICA

SOCIETÀ

UCRAINA

Nichi Vendola: cara sinistra, ti sei smarrita

Gli scienziati precari un danno per l’Italia

Caracciolo e Scurati I falsi sulla guerra

Cereali, petrolio, materie prime. La corsa pazza dell’inflazione è alimentata dalla finanza e dai furbetti che fanno scorte. Ecco chi ci guadagna, mentre il governo non sa come aiutare famiglie e imprese



Altan

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Sommario numero 26 - 3 luglio 2022

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La sinistra deve ritrovare il suo popolo

Lirio Abbate

Prima Pagina

Carovita, chi ci guadagna Vittorio Malagutti e Carlo Tecce In coda al supermercato: “Non fate più le offerte?” Gigi Riva Risposte sbagliate all’inflazione provocheranno la recessione Fabio Sdogati Scienziati precari Gloria Riva L’appello del Nobel: “Servono 10 miliardi” colloquio con Giorgio Parisi “Sono tornato ma quanti problemi” colloquio con Gianvito Vilé Dottori via dalla base Gianfrancesco Turano Letta-Meloni, l’ora dei secchioni Susanna Turco Pier Ferdinando, l’uomo che sussurrava a Gigino Antonio Fraschilla La nostra sinistra smarrita Nichi Vendola Ma l’esercizio della delega non taglia fuori i cittadini Stefano Bonaga La breccia anti-aborto Loredana Lipperini La guerra invisibile dialogo tra L. Caracciolo e A. Scurati a cura di S. Minardi La frontiera d’Europa è nel deserto Bianca Senatore Senza i rubli Cipro muore Elena Kanadiakis Se si ferma la locomotiva Eugenio Occorsio La crisi della globalizzazione paralizza il liberismo europeo Federica Bianchi Giustizia, “Le garanzie? Roba da ricchi” colloquio con Nello Rossi di P. Biondani Rifiuti, il futuro di Roma dipende dai vicini Andrea Barchiesi

Idee

Condannati all’utopia Scene da una rinascita possibile Io e i miei fantasmi Pazzo per Tognazzi Arabi compagni di strada Jorit che dà voce ai muri

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Il Villaggio globale di Riace ripopolato dagli afghani Alice Pistolesi La nuova corsa all’oro che minaccia i Lakota M.Cavalieri e D. Mulvoni L’ultima favola di Saint-Exupéry, il piccolo principe di Alghero Maurizio Di Fazio

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L’Espresso fa parte in esclusiva per l’Italia dei consorzi investigativi

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Andrea Porcheddu Francesca De Sanctis colloquio con Raffaele La Capria di Stefania Rossini colloquio con Louis Garrel di Claudia Catalli Marisa Ranieri Panetta colloquio con Jorit di Tommaso Panza

Storie

Opinioni

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Rubriche La parola Taglio alto Bookmarks Ho visto cose #musica Scritti al buio Noi e voi

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COPERTINA

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La parola

limite

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Oggi viviamo nel tempo in cui «tutte le opinioni sono vere» per dirla con il sofista Protagora. La tecnologia con gli smartphone ha eliminato dalla nostra quotidianità la fatica dell'apprendimento. E in Rete troviamo, almeno in potenza, tutto lo scibile umano. Peccato che averlo a disposizione non significhi affatto possederlo. E comunque quale migliore “illusione di sapere” che andare in giro con tutto lo scibile umano in tasca? Fine della mediazione culturale, dei maestri, della distinzione tra continua verifica e intrattenimento, tra ozioso scorrere pagine digitali e ricerca a fini conoscitivi. Sì, perché sapere o conoscere non coincidono con l'accumulo illimitato di informazioni come invita a fare la Rete, da consultare rapsodicamente senza un metodo, un'ipotesi da verificare, un senso

da ricercare. Eppure viviamo in un'epoca in cui districarsi nel mondo, averne una concezione, oltretutto condivisa, è diventato impossibile. O comunque necessita di un sapere non illimitato, ma vasto, aperto, fondato su sinergie di saperi, su comunità scientifiche che si verificano vicendevolmente, consapevoli dei limiti, dei margini di errore, della capacità mimetica dell'impostura tra le imperanti falsificazioni. Invece sperimentiamo un dilettantismo di massa che proprio perché fragile cerca alleati e credibilità nella ripetizione ossessiva come fosse un mantra. Un surrogato di sapere che si avvale anche di una buona dose di violenza perché, non avendo senso del limite, si crede indiscutibile, assoluto, potente, garantito dalla quantità di fedeli.

EVELINA SANTANGELO 3 luglio 2022

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Cronache da fuori

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Makkox

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Editoriale

Lirio Abbate

La sinistra deve ritrovare il suo popolo

Illustrazione: Ivan Canu

Tornare a rappresentare donne, operai e giovani. Sulla pace, l’ambiente, l’uguaglianza. In Francia ci riescono. E in Italia? L’Espresso cambia editore. Verso il futuro nel solco della tradizione

P

erché il vento che in Francia ha fatto tornare la sinistra, non soffia anche in Italia? Una sinistra nuova, vitale, libertaria, pacifista, egualitaria. Capace di raccogliere l’entusiasmo dei più giovani e persino di riconnettersi con quella classe operaia che non è mai morta, nonostante i suoi tanti necrofori. Una sinistra di sinistra come scrive nelle pagine seguenti Nichi Vendola, facendo riferimento ad un linguaggio chiaro, che impugna una bandiera che non è un feticcio ma una speranza, che si congeda senza rimpianti dalle compromissioni con il liberismo e con i suoi apologeti. C’è un lungo elenco di fattori che hanno determinato una crisi di sistema, ma qui ci chiediamo: qual è stato il pensiero della sinistra? Che fare? L’inflazione schiaccia questo paese. Pressato dalla corsa pazza dei prezzi che non si ferma per i giochi della finanza, ma anche per i furbetti. E il governo di Mario Draghi non riesce a trovare una soluzione concreta. Gli elementi ci sono tutti, purtroppo, per radiografare un’Italia stretta nella morsa economica che favorisce solo alcuni gruppi. Che ci guadagnano. Mettendo sempre più all’angolo il ceto medio. L’inchiesta di copertina de L’Espresso di Vittorio Malagutti e Carlo Tecce documenta i meccanismi che alimentano il carovita e chi ci guadagna. Si mostra come le quotazioni di grano, riso e soia volino in Borsa sull’ottovolante senza che le merci si muovano dai silos. Ma c’è anche chi fa scorte per poi vendere al rialzo. Si specula sui consumatori. E noi lo raccontiamo. Partiamo dalla pandemia, i disequilibri economici, il collasso climatico, la guerra in Ucraina. Prodotti alimen-

tari e poi metano, carburanti, petrolio: i prezzi corrono più veloci di qualsiasi intervento di Stato. E mentre la politica italiana brancola nel buio al grido di «speculatori, speculatori» per acquietare la popolazione, come leggerete nelle pagine successive, nessuno sa come e cosa fare per evitare che domani il conto sia ancora peggiore. Questi sono i tempi, che coincidono con l’apertura di un nuovo ciclo per L’Espresso. Si chiude il periodo in casa Gedi, che ringrazio per la fiducia e la libertà che mi ha dato, e si inaugura una nuova stagione per questo giornale nato 67 anni fa. Il nuovo editore è L’Espresso Media, di cui è presidente Denis Masetti e azionista di maggioranza Danilo Iervolino, un innovatore della tecnologia, applicata alla formazione e all’istruzione e adesso all’informazione. Il cambio di proprietà ha un valore altamente simbolico, perché L’Espresso entra nell’orbita di un editore indipendente, moderno e tecnologico, con grandi progetti di rilancio e prospettive, e tutta l’intenzione di ampliare la base di lettori. Continueremo ad essere un giornale che non vuole annegare nel chiacchiericcio, e cercheremo di dar voce, oggi come sempre, all’Italia migliore, dovunque essa lotti per non lasciarsi soffocare. L’obiettivo è quindi di conservare e rafforzare la dignità originaria de L’Espresso, così come ci è stato tramandato da Arrigo Benedetti, Eugenio Scalfari e Carlo Caracciolo, avendo cura di traghettare “un certo modo di fare giornalismo” nell’era digitale. Q © RIPRODUZIONE RISERVATA

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Il ritorno dell’inflazione

BENI ALIMENTARI, ENERGIA, MATERIE PRIME. LA CORSA PAZZA DI PREZZI NON SI FERMA PER EFFETTO DEI GIOCHI DELLA FINANZA. MA ANCHE DEI FURBETTI. E IL GOVERNO NON SA COSA FARE

CAROVITA 12

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Prima Pagina

CHI CI GUADAGNA DI VITTORIO MALAGUTTI DI CARLO TECCE

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Il ritorno dell’inflazione

E

ccolo qui il conto di trent’anni di strategie energetiche sbagliate, di mercati senza regole, di sotterfugi geopolitici pericolosi, di governi incapaci di interpretare il futuro. Eccolo qui il conto che somma la pandemia mondiale, i disequilibri economici, il collasso climatico, la guerra in Ucraina. Grano, latte, soia, riso e poi metano, carburanti, petrolio: i prezzi corrono più veloci di qualsiasi intervento di Stato. E mentre la politica italiana brancola nel buio al grido di «speculatori, speculatori» per acquietare la popolazione, come dimostra quest’inchiesta dell’Espresso, nessuno sa come e cosa fare per evitare che domani il conto sia ancora peggiore. Il più lesto a togliersi dagli impicci con una dichiarazione alle Camere e una deposizione in Procura, lo scorso marzo, fu lo scienziato Roberto Cingolani ministro per la Transizione

LE QUOTAZIONI DI GRANO RISO E SOIA VANNO IN BORSA SULL’OTTOVOLANTE SENZA CHE LE MERCI SI MUOVANO DAI SILOS. MA C’È ANCHE CHI FA SCORTE PER VENDERE DOMANI AL RIALZO Ecologica: «L’aumento del costo del gas dipende da un’intera filiera e ciò si traduce nel risultato di una grande speculazione da parte di certi snodi che non producono, ma fanno solo transazioni. In Europa c’è il Title transfer facility (Ttf) e il punto di scambio virtuale (Psv) ad esso agganciato. Io li ho fatti i nomi, si chiama mercato, poi discutiamone». Peccato che la scelta di utilizzare il Ttf come indice di riferimento per Vittorio Malagutti le quotazioni del gas fu sugGiornalista gerita dall’Unione europea e accolta dal governo italiano sette anni fa. Cingolani non c’era e non c’entra, però a volte gli speculatori sono meno ignoti di quanto sembri. Al ministro sono seguite Carlo Tecce le denunce mediatiche dei Giornalista colleghi Stefano Patuanelli 14

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(Agricoltura), Enrico Giovannini (Trasporti), Luigi Di Maio (Esteri). Tutti battaglieri e inflessibili pur non avendo competenze specifiche. A distanza di 27 anni dalla sua fondazione, soltanto in primavera, l’Autorità di regolazione per l’energia e l’ambiente (Arera) ha ricevuto i poteri per esaminare i contratti del settore. Nel governo c’era parecchia apprensione. Alla fine, la segnalazione di Arera che non ha saputo (potuto) scovare le aziende da esporre al pubblico ludibrio ha un po’ deluso le attese. Perché la faccenda è complessa, sostiene l’Autorità, e i meandri di un contratto sono così fitti da permettere che la speculazione non lasci traccia. Lo racconta il presidente Stefano Besseghini: «Anche a fronte di un prezzo iniziale di stipula, i contratti sono accompagnati da formule che aggiornano automaticamente il prezzo sulla base degli indici. A questo si aggiungono strumenti finanziari che gli operatori adottano per la copertura del rischio. La complessa analisi condotta dall’Autorità ha dimostrato come l’indicazione di eventuali extraprofitti vada affrontata considerando anche tutti i costi e i margini che si generano lungo la filiera». Vuol dire che, secondo l’Arera, per stanare gli speculatori non è sufficiente tassare i profitti di Eni, Enel e altre aziende simili, ma bisogna agire prima nei percorsi contrattuali con maggiori controlli. Quello che spaventa l’Arera è la stratificazione di errori e omissioni che ha reso la situazione ingestibile


Foto: Alessandro Serrano’ / AGF, Shutterstock, Ansa; pag. 12-13: Shutterstock (3)

Prima Pagina

e dunque imprevedibile: «Dobbiamo sgombrare il campo dall’idea che sia il conflitto russo-ucraino - afferma Besseghini - ad aver ingenerato tensioni sui prezzi. I fondamentali dell’energia hanno iniziato a cambiare a metà dello scorso anno con la ripresa economica dopo la pandemia. Ormai, però, in questa fase di estremo nervosismo, gli effetti sui prezzi si producono anche con le sole parole». Però le sanzioni europee contro la Russia, il principale fornitore energetico del continente, hanno trasformato in drammatica una situazione critica. Questo è innegabile. E lo segnala il ministero per lo Sviluppo economico con le analisi del Garante per la sorveglia dei prezzi: «Le sanzioni sul greggio russo hanno mostrato i primi effetti – è scritto nei documenti del 14 giugno - a partire da aprile 2022. Le ridotte capacità di raffinazione hanno intaccato le scorte, portandole ai minimi (quelle del gasolio) dal 2008. Un aumento delle importazioni da Medio Oriente e Asia è anche all’origine dei maggiori costi dei prodotti petroliferi in Europa (maggiore incidenza dei noli marittimi). A causa delle ridotte capacità di raffinazione e di un calo delle quotazioni delle materie prime, i margini sono aumentati. Anche operazioni speculativo-finanziarie hanno contributo ad aumentare i margini, con acquisti “a lungo” oltre il 15 maggio». Cos’è successo: il petrolio russo non arriva direttamente in Europa, ma fa giri più larghi e quindi più onerosi.

Il ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani. Sopra: il ministro dello Sviluppo Economico Giancarlo Giorgetti. Nella foto grande: la raffineria di Sarroch in Sardegna, di proprietà della Saras

L’Europa si è imposta il divieto di comprare direttamente il petrolio di Mosca (non il metano), ma lo prende da altri che lo prendono dai russi. Per esempio dall’India. Più ampia è la «filiera» e più è diffusa la speculazione tra stoccaggi, assicurazioni, raffinazioni. E proprio contro la speculazione, il primo atto di governo, con un certo ritardo, è la formazione di una struttura di missione al ministero per lo Sviluppo Economico di Giancarlo Giorgetti con una nuova collaborazione con la Guardia di finanzia per fermare la speculazione fin dove si può. Non certo in India. L’anomalia del mercato è chiaramente visibile dal grafico pubblicato in queste pagine che segnala l’aumento del margine lordo, somma del margine di raffinazione e di quello di distribuzione. Questo indicatore praticamente raddoppia dopo l’invasione russa in Ucraina. Significa che i grandi raffinatori, per esempio, restando in Italia, l’Eni e la Saras dei Moratti, vedono aumentare di molto i loro profitti. E intanto la benzina è stabilmente sopra i due euro a litro nonostante la riduzione delle accise. Il governo, comunque, continua a rincorrere il carro impazzito degli aumenti dell’energia. Nei giorni scorsi è stato firmato un nuovo decreto per dare un taglio alle bollette dell’elettricità, azzerando gli oneri di sistema, e a quelle del gas, grazie a una serie di sgravi fiscali. Il provvedimento, il quinto consecutivo dal luglio dell’anno scorso, tampona i rincari 3 luglio 2022

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Il ritorno dell’inflazione 1.300

per le famiglie meno abbienti e le piccole imprese e costa caro alle casse dello Stato. «Non credo che potremo tirare fuori soldi cash ogni trimestre per le bollette, come abbiamo fatto finora», diceva in senato il ministro Cingolani lo scorso 18 gennaio. Sono passati sei mesi e l’esborso per il Tesoro è più che raddoppiato, da 5 ad almeno 11 miliardi solo per finanziare gli interventi a favore dei redditi più bassi. Nel frattempo, anche per effetto della guerra in Ucraina, i costi dell’energia non hanno mai smesso di aumentare e soprattutto non si vede all’orizzonte nessuna riforma organica che intervenga sui meccanismi di funzionamento del mercato elettrico, che di fatto resta agganciato a quello internazionale del gas, l’olandese Ttf. E qui le regole del gioco sono quelle della Borsa. Le quotazioni si muovono anche per effetto delle voci e delle previsioni, più o meno realistiche, sull’andamento delle forniture. Il tutto amplificato dai movimenti speculativi a base di contratti derivati. «È molto difficile stabilire in che misura il movimento dei prezzi è dovuto alla finanza e quanto al gioco della domanda e dell’offerta», osserva Alessandro Marangoni, esperto di strategia e finanza nei settori energetici, presidente della società di consulenza Althesys. Lo stesso copione va in scena anche nelle Borse agricole internazionali, un altro mercato che ha riflessi immediati nella vita di tutti i giorni. Il grano viaggia al rialzo del 30 per cento rispetto all’inizio dell’anno. E lo stesso vale per la soia. Per il riso siamo al 20 per cento circa, mentre il prezzo del granturco da gennaio ha messo a segno un incremento del 50 per cento. È un boom senza precedenti. Gli analisti spiegano che a spingere le quotazioni, pur tra qualche recente correzione al ribasso, è l’intreccio di una serie di fattori che raramente in passato si sono presentati tutti insieme. L’ultima fiammata, in ordine di tempo, è stata innescata dalla guerra in Ucraina, ma già a partire dalla seconda metà dell’anno scorso, il raccolto inferiore alle attese negli Stati Uniti e in Canada aveva provocato un primo consistente aumento dei prezzi sui mercati internazionali. Al conflitto scatenato dalla Russia si è poi sommato, in questi mesi, il caldo record in India, lo stop alle esportazioni deciso da almeno una ventina di Paesi e, infine, la siccità che da settimane ha colpito l’Europa occidentale, dalla Francia fino alla Sicilia. L’International grain council, l’organizzazione intergovernativa che promuove la 16

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GRANO

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Andamento del prezzo alla Borsa merci di Chicago negli ultimi due anni, valori in dollari per bushel = 27,21 KG)

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ELETTRICITÀ

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Andamento del prezzo unico nazionale negli ultimi due anni, valori in euro al megawattora registrati alla Borsa elettrica

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IN CODA AL SUPERMERCATO: “MA NON FATE PIÙ LE OFFERTE?” DI GIGI RIVA Avranno sicuramente ragione Tito Boeri e Roberto Perotti quando sostengono (su la Repubblica) che i cittadini tendono a percepire un’inflazione più alta di quella effettiva. Ma vallo a spiegare agli italiani. Sembra un po’ la stessa storia dell’emergenza criminalità con i dati del Viminale che danno i reati in netto calo ma la gente che si sente sempre più insicura e invoca lo sceriffo in città. Cronaca di un giorno qualunque di inizio estate in un supermercato italiano quando le fonti ufficiali concordano su aumenti dei prezzi che non raggiungono le due cifre. Coda alle casse con in cima un signore arruffato e bizzarramente vestito, pareo trasparente su costume da mare giubbino nero con le maniche tagliate, che mette i prodotti acquistati sul nastro trasportatore e già mette le mani avanti. Dice alla cassiera: «Prendo sempre le stesse cose e vedrà che alla fine il conto è il doppio del solito. È cresciuto tutto del cento per cento». La cassiera fa una leggera smorfia ma in ossequio al principio per cui non bisogna contraddire il cliente ribatte conciliante: «Mi sa che ha ragione». Lo scontrino sputato


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GAS NATURALE

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Quotazioni in euro per megawattora al mercato TTF di Amsterdam, andamento ultimi due anni 132,28

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BENZINA E GASOLIO

Benzina

Gasolio

Andamento del margine lordo in euro per mille litri di benzina o gasolio

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dalla macchina è una sentenza: «175 euro». «Ecco, di solito pagavo tra i 90 e i 95, più o meno ci siamo». Raccatta la merce, la posa nei sacchetti e saluta quasi beffardo: «Per fortuna me lo posso permettere». Il breve dialogo è il detonatore di un dibattito. «Secondo me», calcola la signora con il bimbo il braccio, «non è il cento per cento ma il cinquanta sì. L’altro giorno a metà pomeriggio mi era venuta fame e sono entrata in un forno, ho ordinato un pezzo di focaccia e una bottiglietta d’acqua e mi hanno chiesto 9,5 euro. In un forno! Non da Carlo Cracco». Intervengono quattro ragazzi nerboruti e variamente tatuati, dall’accento uno è italiano e tre stranieri (rumeni?), gli abiti macchiati da cantiere denunciano il loro mestiere, muratori. «Alla pausa pranzo di solito andavamo in una di quelle trattorie alla buona. Non possiamo più permettercelo, ormai ti chiedono anche 12 euro per un primo. E allora ci riforniamo qui, panini e affettati. Ma nell’ultimo mese, booom, hanno tolto anche il prosciutto crudo in offerta che era la nostra salvezza». Dal fondo si sente un “poveretti” che provoca la reazione indispettita di una giovane bionda che si autocertifica già madre di tre figli: «Poveretti? Poveretta io, che devo rinunciare ai biologici che costano di più altrimenti non arrivo alla fine del mese e volevo tirar su i miei ragazzi con prodotti sani». «Se ne farà una ragione, signorina, siamo pur cresciuti lo stesso anche quando non c’erano i biologici», la riprende un uomo in braghe corte e canottiera, che sta allineando sul nastro, attento a non farle rotolare e cadere, sei bottiglie di birra e tre di vino: «Bevo per dimenticare», fa l’ironico, «fra

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cooperazione sul mercato dei cereali, segnala però che nel complesso la produzione di grano per quest’anno e per il prossimo non dovrebbe calare di molto, al massimo un paio di punti percentuali, secondo l’aggiornamento più recente, quello di metà maggio. Come si spiega, allora, l’impennata dei prezzi, un boom che dai cereali si è esteso a un gran numero di prodotti agricoli, dai latticini fino all’ortfofrutta? La risposta va cercata nella gran giostra delle Borse merci mondiali, da quella di Chicago, la più importante del mondo, fino all’Euronext di Parigi. Gli operatori finanziari si scambiano contratti derivati per scommettere sull’andamento delle quotazioni dei cereali e delle altre materie prime agricole. Grano, riso, soia e molti altri prodotti vanno sull’ottovolante dei prezzi senza mai muoversi dai silos in cui sono conservati. I futures e le opzioni, nati per proteggersi dal rischio di aumenti o di cali dei prezzi, finiscono così per amplificare le oscillazioni del mer-

poco tra covid, guerra, siccità e i mascalzoni che speculano dovremo accendere un mutuo per venire a fare la spesa». Se ne è stata sinora silente un’anziana che, a differenza degli altri pare però più ferrata nel calcolo verosimile dei rincari. La magra pensione non le consente valutazioni un tanto al chilo. O ha buona memoria o conserva gli scontrini per una comparazione. «Il burro, 250 grammi, costa 2,80, era sotto i due euro solo due mesi fa, un chilo di pasta è attorno ai 2,5 euro ed era pure sotto i due anche sotto 1,5. Per la passata di pomodori c’era una promozione per fortuna e ho speso 0,75 per un barattolo piccolo. Più 8 euro per l’olio e pensare che era in offerta col 44 per cento di sconto, dicono. Offerta...». Poi alza le spalle e sottovoce, perché per pudore non vuole partecipare al dibattito, aggiunge: «Secondo me gli aumenti sono in generale attorno al 20 per cento. Consiglierei a tutti di avere pazienza tra gli scaffali perché cerca e ricerca si trovano anche degli sconti. Lo so, io non ho niente da fare e mi posso permettere il tempo. Ma è l’unica salvezza. Che mondo lasciamo ai giovani». Avanti un altro, invita la cassiera. È un turista milanese che ha fatto scorta per la vacanza e ha il carrello pieno. Sarà perché sono finalmente cominciate le sue ferie, ha voglia di chiacchierare e cerca di spargere ottimismo. «Ho fatto tre ore di coda in autostrada e non c’erano incidenti. Traffico del fine settimana. E pensare che la benzina è sopra i due euro al litro. Ma dov’è questa crisi?». La prendono come una provocazione. «Ma dici davvero? Tornatene a Milano». n ©RIPRODUZIONE RISERVATA

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Il ritorno dell’inflazione

UN REPORT DEL MISE MOSTRA QUANTO L’AUMENTO DEL PETROLIO SIA DOVUTO ALLE SANZIONI. E I GRANDI RAFFINATORI COME ENI E SARAS MOLTIPLICANO I LORO PROFITTI cato al rialzo o al ribasso. Centinaia di hedge fund ( fondi speculativi) e tutte le grandi banche d’affari tirano le fila di operazioni miliardarie, spesso governate da sofisticati algoritmi che di volta in volta regolano tempi e modi del trading. Secondo uno studio della Banca dei regolamenti internazionali di Basilea (Birs) il valore di mercato dei derivati sulle commodity, oro escluso, a fine 2021 è arrivato a 390 miliardi di dollari, il 30 per cento in più rispetto all’inizio del 2020. La speculazione però non viaggia solo nell’alto dei cieli della finanza. Una recente analisi pubblicata da Coldiretti osserva che l’andamento delle quotazioni in questi ultimi mesi ha mostrato in più occasioni che «chi ha stoccato le merci è indotto a trattenerle nei magazzini, magari facendo passare l’idea che non c’è disponibilità di prodotto, per poi rivenderle a quotazioni maggiori». In altre parole, tra un passaggio all’altro dal produttore fino ai trasformatori, c’è chi approfitta delle tensioni 18

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Contrattazioni alla Borsa Merci di Chicago

sui mercati per aumentare i propri margini di guadagno. Alla Borsa merci di Foggia, principale snodo del trading nazionale di cereali, il prezzo del grano duro è aumentato di quasi il 90 per cento: l’estate scorsa viaggiava intorno ai 300 euro la tonnellata, ora siamo a 567 euro. Un rialzo che pare difficile da giustificare con il semplice gioco della domanda e dell’offerta, anche se, in base alle previsioni più aggiornate in Italia la produzione di grano duro non arriverà ai 4 milioni di tonnellate con un calo del 15 per cento rispetto al 2021. Intanto, però, i pastifici sono costretti ad acquistare farine con una spesa che rispetto a un anno fa è aumentata di oltre il 60 per cento. L’incremento dei costi di produzione si è comunque fin qui scaricato solo parzialmente sui prezzi finali al consumatore. Le grandi catene di supermercati, facendo leva sulla propria forza contrattuale, hanno infatti concesso il minimo indispensabile alle richieste di adeguamento dei listini avanzate dall’industria e dai produttori, che sono in grave difficoltà anche per l’impennata dei prezzi dell’imballaggio (carta e vetro), del trasporto (benzina e gasolio) e dell’elettricità. «Le aziende agricole devono affrontare l’ostruzionismo dell’industria e della grande distribuzione, che fanno resistenza di fronte alle richieste di aumenti nel timore di perdere clienti», spiega Cristiano Fini, presidente di Cia, la Confederazione italiana agricoltori. Lo scenario però sta velocemente cambiando e a farne le spese saranno sempre di più i consumatori. «Nei primi cinque mesi dell’anno siamo riusciti a contenere gli aumenti dei nostri prodotti a una media del quattro per cento», spiega Marco Pedroni, presidente di Coop Italia. Da qui alla fine dell’anno, però, «anche noi, come il resto della grande distribuzione non potremo fare a meno di ritoccare ancora i listini», ammette Pedroni. Che per prudenza preferisce non azzardare previsioni sull’entità di questi aumenti. Gli scenari di settore disegnati dagli analisti vedono però un’inflazione che nel carrello della spesa potrebbe tradursi entro dicembre in rincari in media del 10 per cento rispetto a dodici mesi prima. È una tassa in più che grava sugli italiani. Una tassa quanto mai iniqua perché colpisce soprattutto i cittadini a basso reddito, costretti a sacrificare una quota rilevante dei loro introiti per l’acquisto di beni di prima necessità. n ©RIPRODUZIONE RISERVATA

Foto: Tim Boyle / Bloomberg via Getty Images

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Il commento di FABIO SDOGATI*

Risposte sbagliate all’inflazione provocheranno la recessione

L’

origine delle difficoltà diffuse dell’economia mondiale in questa fase risale allo shock sanitario da Sars-Covid-19 che ha colpito in rapida successione molte economie a partire dall’inizio del 2020. Quello shock creò ad un tempo difficoltà dal lato dell’offerta e difficoltà dal lato della domanda. Dal lato dell’offerta, le politiche di contenimento, insieme agli isolamenti volontari, non distrussero capacità produttiva in senso proprio come invece è ad esempio tipico delle guerre, ma produssero tagli importanti alle attività produttive in moltissimi paesi e alla circolazione nazionale e internazionale delle merci. Dal lato della domanda, lo shock assunse la forma di riduzione di spese per consumi e aumento della quota di reddito destinata al risparmio. Dunque, meno offerta e meno domanda. La distinzione da libro di testo tra “inflazione da offerta” e ‘”inflazione da domanda” è quindi utilissima per determinare da dove siano venute le spinte inflazionistiche prevalenti nella prima fase della crisi: l’inflazione era originata dalle difficoltà incontrate dalle imprese, cioè dai costi crescenti che dovevano sostenere a causa della ridotta disponibilità di materie prime, di semilavorati e prodotti intermedi, dell’uso ridotto di mezzi di trasporto causato dalla riduzione della forza lavoro utilizzabile. In particolare, fu il prezzo delle materie prime ad avviare il processo inflazionistico: come abbiamo visto in passato, il fatto che i prezzi delle materie prime vengano determinati su mercati

finanziari ne ha “agevolato” l’esplosione e la diffusione a sezioni crescenti dell’economia reale produttiva in tempi rapidissimi. Certo, nel tempo anche la domanda avrebbe dato il suo contributo alla crescita dei prezzi delle merci e dei servizi, poiché mano a mano che l’attività produttiva tornava a crescere e l’occupazione a riprendersi, i redditi delle famiglie tornarono a crescere e, con essi, la spesa per consumi. Fortunatamente, questo processo venne sostenuto da gran parte dei governi al mondo mediante politiche di sostegno alle famiglie accompagnate da politiche di garanzie pubbliche ai debiti delle imprese. Questa “doppia natura’’ dell’inflazione attuale va sottolineata perché oggi ci troviamo di fronte a due combinazioni diverse delle cause dell’inflazione, da domanda o da offerta: vi è ampio accordo tra economisti e responsabili delle politiche economiche che l’inflazione europea è caratterizzabile come prevalentemente da offerta, mentre quella statunitense è prevalentemente da domanda. La distinzione è importante perché è su di essa che si basa il giudizio sulla adeguatezza o meno delle politiche antinflazionistiche di cui si discute, in particolare della opportunità o meno di una politica monetaria più o meno aggressivamente restrittiva da attuare mediante la fine del noto Quantitative Easing e, ancor più, mediante l’aumento dei tassi di sconto da parte delle banche centrali. La strategia di aumento dei tassi di sconto ha ovviamente l’obiettivo

di rendere il credito più costoso e, quindi, di colpire la domanda di beni di consumo e di investimento: si tratta, comunque la si voglia imbellettare, di una politica che mira alla riduzione della domanda da parte di famiglie e imprese, con effetti potenzialmente recessivi. Ora, se questa strategia può essere giustificata da chi la propone perché ritenuta la sola efficace per abbattere la domanda, non si vede in che modo essa possa esserlo quando la causa dell’inflazione è essenzialmente dal lato dell’offerta, come è in Europa, dove pandemia prima e guerra poi hanno avuto, stanno avendo e avranno effetti molto pesanti sui prezzi alla produzione, in particolare per i forti aumenti dei prezzi dell’energia. Tant’è: in Area Euro dobbiamo prepararci ad aumenti dei tassi che verranno adottati in tutta probabilità il 21 luglio e poi di nuovo, e probabilmente con mano più pesante, il 7-8 settembre. La posizione critica di chi scrive è facilmente giustificabile: l’inflazione da offerta si combatte adottando strumenti per l’aumento dell’offerta, per l’aumento della produttività, per riportare merci e servizi sul mercato, per ristabilire in tempi brevi il funzionamento delle catene globali di produzione: verrebbe da dire, in aperta polemica con i protezionisti esteri e nostrani, per ridare fiato a quella globalizzazione che ha consentito decenni di prezzi stabili e scambi abbondanti. Q * Professore di Economia Internazionale presso GSM Politecnico di Milano © RIPRODUZIONE RISERVATA

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Università

SCIENZIATI

PRECARI DI GLORIA RIVA

B

arbara Tomasello, 44 anni, è ricercatrice al dipartimento di Scienze del Farmaco dell’Università di Catania. A tempo determinato. «Scado a febbraio 2023». Poi? «Il nulla. Se non dovesse presentarsi un concorso per ricercatore, farò i conti con vent’anni dedicati alla ricerca di cure innovative, che non mi hanno portato a una stabilizzazione». La sua storia è simile a quella di altri 25.297 ricercatori dell’Università italiana: iper qualificati, precari, dotati di spirito di sacrificio e con una grande passione per il proprio mestiere. Altrimenti non si spiegherebbe

SONO OLTRE 25MILA, RICERCATORI IPERQUALIFICATI E SENZA CERTEZZA DEL FUTURO. I SOLDI DEL PNRR E UNA LEGGE DI RIFORMA PROMETTONO UN CAMBIAMENTO. MA I DUBBI RESTANO perché trascorrono svariati decenni nei laboratori di università che non garantiscono alcuna certezza. I questi giorni Camera e Senato stanno discutendo e approvando il decreto Pnrr2 al cui interno c’è un emendamento che di fatto dà il via libera a una riforma dell’Università, «all’insegna del contrasto alla precarietà», secondo il primo firmatario e se20

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natore del Pd Francesco Verducci. Una riforma indispensabile, visto che sulla ricerca pioveranno 17 miliardi di euro del piano di ripresa e resilienza. Tuttavia fra i ricercatori c’è meno entusiasmo: «Leggeremo il testo definitivo per capire se ci sarà una svolta sostanziale», dice Barbara Tomasello. Nel suo caso la nuova legge prevede la stabilizzazione come professore associato, ma solo dopo un altro concorso, e altri anni come ricercatore. L’ultima volta che lo Stato ha messo mano all’Università italiana era il 2010 con la riforma Gelmini, che ha portato a un depauperamento dell’università in termini di personale a tempo indeterminato. L’organico stabile è sceso dai 62.768 professori del 2008 a 46.245 nel 2020. Sono invece cresciuti i ricercatori, precari per definizione (visto che la


Foto: Claudia Greco / AGF

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Gelmini ha eliminato quelli a tempo indeterminato), passati da 12 a 25mila. A cui si aggiungono 30mila professori a contratto, sostanzialmente chiamati per insegnare un solo corso e retribuiti a forfait, e 32.185 dottorandi che spesso suppliscono alla penuria di docenti salendo in cattedra. L’iter per diventare docente dura almeno 11 anni: prima tre anni di dottorato, poi cinque di assegno di ricerca e si approda al concorso per ricercatori, che è di due tipi, A e B. Il primo prevede un percorso quinquennale che sfocia nel nulla, perché non può essere rinnovato e non arriva alla stabilizzazione. L’altro dura tre anni e consente di accedere a un contratto a tempo indeterminato come professore associato, dopo aver ottenuto l’abilitazione scientifica nazionale. Grazie alla riforma contenuta nel decreto

Pnrr, è stato abolito l’assegno di ricerca, sostituito dal contratto di ricerca. «L’assegno di ricerca non godeva di ferie, malattia o indennità di gravidanza. Non era neppure una collaborazione coordinata e continuativa. Per capirci, quando il primo decreto Covid ha offerto un contributo economico ai precari, gli assegnisti sono rimasti esclusi anche da quello. Il nuovo contratto di ricerca garantirà più tutele, ma resta una forma di lavoro a tempo determinato», spiega Luca Galantucci, ricercatore e fisico, migrato in Inghilterra per continuare a lavorare, e attivista di Università Manifesta: «Tornerei in Italia anche subito, ma non ci sono le condizioni per la stabilizzazione». Galantucci racconta che la riforma dell’Università era in discussione già da un anno e, dopo un presidio difronte a Montecitorio, lo scorso autunno i ricer-

Una sala della biblioteca della Scuola Normale Superiore di Pisa

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Università catori sono stati auditi in Commissione al Senato: «Si stava costruendo una riforma complessiva. Poi l’urgenza di chiudere il ddl Pnrr2 ha spinto il governo a prendere alcuni pezzi di quella riforma e inserirli in un maxi emendamento. È l’ennesima decisione calata dall’alto, che lascia intatta la precarietà di questa professione», commenta Galantucci. Fra le novità, viene introdotto un unico modello di ricercatore, sostituendo quello di tipo A e B, della durata di sei anni e con la possibilità di diventare professore associato già dal terzo anno: «Ma deve essere il ricercatore a fare richiesta e, realisticamente, saranno fatte pressioni affinché la domanda avvenga al sesto anno. Inoltre, e questo è molto problematico, la valutazione non avviene solo in base all’ottenimento dell’abilitazione scientifica nazionale, ma superando una prova didattica i cui criteri sono completamente soggettivi. Mentre prima il passaggio da ricercatore di tipo B a professore associato era automatico, ora c’è la valutazione di una commissione locale, in cui le dinamiche sono, per usare un eufemismo, non esattamente trasparenti», racconta il ricercatore. Con la riforma, anziché ridurlo, si allunga il calvario da precario ad almeno 14 anni: tre di dottorato, cinque di contratto di ricerca e sei da ricercatore. «Invece negli altri settori, inclusi gli enti pubblici di ricerca, come il Cnr, il periodo di precariato è di 36 mesi e poi c’è la stabilizzazione». Inoltre, la riforma lascia inalterata la possibilità di bandire per tre anni i

L’APPELLO DEL NOBEL “SERVONO 10 MILIARDI” COLLOQUIO CON GIORGIO PARISI Premio Nobel per la Fisica e docente di Fisica Teorica all’Università la Sapienza, Giorgio Parisi torna a parlare dell’urgenza di salvare la ricerca in Italia. L’occasione sarà il centenario dell’Unione di Fisica Pura e Applicata che si svolgerà a Trieste fra il 10 e il 13 luglio, dove si sono dati appuntamento i premi Nobel di tutto il mondo per raccontare come la Fisica e la scienza siano importanti per lo sviluppo dell’umanità. Si parlerà di guerra in Ucraina, di nucleare, di sottofinanziamento alla ricerca. Quest’ultimo sarà proprio l’argomento toccato da Parisi. Professore, ci dà un’anteprima? «È positivo che il Piano di Ripresa e Resilienza punti 17 miliardi di euro su alcuni settori della ricerca applicata e di base, fondamentali per il paese e finora sottovalutati. Tuttavia queste risorse offrono uno sviluppo drogato perché i fondi si interrompono bruscamente nel 2027. Per evitare questo brutale definanziamento è necessario che il governo, già con la prossima Finanziaria, istituisca un fondo da 10 miliardi di euro per sostenere la ricerca scientifica almeno fino al 2028 e comunque per il prossimo decennio». Tra gli obiettivi del Pnrr c’è la creazione di 30mila borse di studio per dottorati, 120 borse per giovani ricercatori e si intende assumere mille nuovi ricercatori a tempo determinato. Non bastano?

BISOGNA ASPETTARE I CINQUANT’ANNI PER ESSERE STABILIZZATI. GLI STIPENDI SONO BASSI. I LABORATORI SONO POCHI E SENZA FONDI. PERCIÒ MOLTI CONTINUANO AD ANDARE ALL’ESTERO contratti di ricercatore di tipo A, «che finiscono su un binario morto e riceveranno la grossa fetta dei finanziamenti stanziati per l’Università nel Pnrr. Quando termineranno quei soldi quale destino avranno quei ricercatori? Non saranno rinnovati. In sostanza si tratta di una riforma a costo zero, che non modifica il declino dell’università, dove il personale è sempre più precario. 22

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Inutile dire che non servirà a riportare in Italia ricercatori o ad attrarne di stranieri», perché in Francia e Germania la stabilizzazione avviene entro i 32-35 anni di età, mentre la media italiana supera i 45 anni. In un sondaggio realizzato dal Cnr è emerso che la priorità per i ricercatori è la necessità di un reclutamento costante, con una certezza dei concorsi, evitando le maxi sanatorie. Richiesta rimasta inascoltata nella riforma. Come racconta Daniele Archibugi, ricercatore e autore del libro “L’Apprendista stregone, Consigli, trucchi e sortilegi per apprendisti studiosi”, Luiss University Press, che scrive: «Per una intera generazione, i posti banditi sono stati pochissimi, spesso perché gli organici erano già stati riempiti con sanatorie, idoneità, concorsi riservati e quanto altro ci si pote-


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Foto: Alessandro Serrano’ / AGF

«Come ha detto lei, gran parte delle risorse finanziano ricercatori con contratto a termine. Senza la garanzia di inserimento stabile, almeno per chi ha dimostrato di saper fare ricerca in modo egregio, rischiamo di sprecare questa occasione». In termini assoluti l’Italia fa registrare l’investimento più alto: 17 miliardi, contro i nove di Germania e Francia e i quattro della Spagna. Non bastano a colmare il gap con gli altri Paesi? «Non bastano neppure per agganciare la Francia, rispetto alla quale abbiamo un sottofinanziamento medio annuo di cinque miliardi. Siamo lontanissimi da Paesi come Germania, Inghilterra, Finlandia. Ci sono Paesi, come l’Olanda, che hanno da poco avviato un programma per la creazione di un fondo decennale che ogni anno destina un miliardo di euro per lo sviluppo delle idee dei ricercatori. Anche a noi serve un progetto simile se vogliamo attrarre le menti più brillanti». Così facendo non si rischia di disperdere risorse in piccoli progetti? «La scienza è come l’agricoltura, alcune coltivazioni vanno annaffiate, ma c’è bisogno di pioggia per un buon raccolto. Bisogna sviluppare mille idee per un risultato ottimo». Esistono dei settori in particolare su cui puntare? «La scienza deve crescere tutta insieme, nessuno va lasciato indietro. Il Pnrr investe soltanto su alcuni settori della ricerca scientifica, lasciandone scoperti altri. Ad esempio, è giustissimo sostenere la ricerca di base sui nuovi virus, ma è importante non lasciare indietro gli studi sulle malattie cardiopatiche e l’obesità. E nell’informatica, è sacrosanto dedicare risorse all’Intelligenza Artificiale, ma c’è lo studio degli algoritmi e delle telecomunicazioni da non sottovalutare. Quindi lo Stato, in base a un principio di sussidiarietà, deve occuparsi delle altre aree scientifiche attraverso il proprio bilancio ordinario. E torniamo al mio appello: alla ricerca servono 10 miliardi in

va inventare per dare un posto fisso a tutti coloro che avevano per qualche giorno appeso la giacca su un attaccapanni di qualche Facoltà. Si sono così riempiti i ranghi con tanti studiosi meritevoli ma anche con persone che studiose non lo erano affatto. In queste condizioni, è giocoforza che gli studiosi più motivati e talentuosi preferiscano lavorare in Paesi in cui le progressioni di carriera avvengono con maggiore regolarità». In Italia è necessario attendere oltre i quarant’anni per la stabilizzazione, come è successo ad Antonio Zuorro, Ingegnere Chimico e ricercatore all’Università Roma1: «Salvo sorprese, in autunno sarò nominato professore associato a tempo indeterminato. Ma ho 44 anni. I compagni di corso che hanno scelto una carriera

Finanziaria per avere una visibilità almeno al 2028». E se il Governo non dovesse ascoltare il suo appello? «Nel campo della ricerca scientifica la bilancia commerciale è totalmente sbilanciata sull’export di capitale umano. È un tema cruciale ed è necessario tornare a parlarne seriamente e subito perché la situazione è insostenibile. Stiamo popolando i dipartimenti delle università straniere di eccezionali docenti e scienziati italiani: questo per l’Italia si traduce in un’immensa dispersione di risorse in termini di investimento in formazione e di competenze. Tutto ciò sarebbe accettabile se vi fosse un’altrettanta importazione di cervelli stranieri, uno scambio di risorse, che tuttavia non avviene perché qui da noi non c’è alcuna garanzia di continuità di finanziamento della ricerca ed è scarsa la possibilità di accedere ai bandi pubblici. Ci sono delle facoltà in cui a stento si trovano ricercatori disposti a lavorare a Roma e più le figure sono apicali, più la selezione diventa ardua, perché nessuno scienziato sceglie di puntare sull’Italia, dove i fondi alla ricerca sono in contrazione da anni. Di più, siamo al paradosso: lo Stato investe cinquantamila euro l’anno per ciascun ricercatore, ma non offre le risorse per sostenere i progetti di ricerca veri e propri. Senza un modello di sostegno alla ricerca di lungo periodo, i bravi ricercatori che formeremo con i soldi del Pnrr, allo scadere del contratto, porteranno il proprio bagaglio di competenze e conoscenze all’estero, poiché l’Italia non offrirà le risorse per farli proseguire nei propri studi». G.R. ©RIPRODUZIONE RISERVATA

Giorgio Parisi

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Università nell’industria privata o hanno proseguito all’estero guadagnano tre volte tanto e sono stati stabilizzati da almeno un decennio», dice Antonio, che è anche a capo dell’Associazione ricercatori a tempo determinato, Arted, una delle sigle coinvolte nella riforma del preruolo universitario: «È una revisione migliorativa, perché elimina l’assegno di ricerca e il doppio binario dei ricercatori. Teoricamente, con la nuova riforma, una volta diventati ricercatori si ha la certezza della stabilizzazione alla fine dei sei anni, ma permane il problema del precariato, che non consente di accendere un mutuo, per esempio. Anche gli stipendi sono inadeguati al costo della vita delle città e succede che il ricercatore diventa una professione d’élite: non proseguono i più meritevoli ma chi se lo può permettere». Ecco perché, come scrive il Cnr nella terza edizione della “Relazione sulla ricerca e l’innovazione in Italia” la media degli italiani con dottorato è lo 0,5 per cento, contro l’1,2 dell’Europa. Sono 12mila i ricercatori

7,6%

le risorse complessive che il Pnrr destina alla ricerca, 16,94 miliardi di euro

1.000

i ricercatori da impiegare a tempo determinato. L’obiettivo è assumere anche 30mila dottorandi

1.800 EURO

lo stipendio di un ricercatore in Italia. 2.800 euro è lo stipendio medio in Europa

IL CONFONTO CON L’EUROPA È IMPIETOSO. GLI ITALIANI CON UN DOTTORATO SONO MENO DELLA METÀ CHE NEGLI ALTRI PAESI. E C’È ANCHE LA DISCRIMINAZIONE DI GENERE migrati in Austria, Svizzera, Francia, Regno Unito, Spagna e Usa a fronte di trentamila dottorandi in Italia. La fuga di cervelli è inesorabile e, come spiega Maurizio Masi, professore di Chimica Fisica Applicata al Politecnico di Milano e segretario Uspr, unione sindacale professori e ricercatori universitari: «Da noi un professore ordinario guadagna meno di un post doc Marie Curie europeo: in Italia il primo stipendio è di 2.900 euro lordi, mentre un ricercatore francese ne guadagna 2.800. Per essere attrattivi dovremmo almeno raddoppiare gli stipendi. Un neolaureato al Politecnico guadagna 1.700 euro netti al mese, mentre una borsa per il dottorato vale fra i 1.100 e i 1.400 euro mensili, vuol dire che il mondo della ricerca italiana non è competitivo. Una soluzione potrebbe essere 24

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Il laboratorio di Fisica dell’Università Pirelli Bicocca di Milano

quella di consentire ai dottorandi e ai ricercatori di lavorare anche per le imprese private, ma nonostante la liberalizzazione dell’attività di consulenza sia stata introdotta nel 2010, di fatto è stata stoppata da una sentenza della Corte dei Conti». E a proposito della riforma: «Non basta. Quello che i giovani chiedono per fare ricerca in Italia sono le infrastrutture, la continuità dell’attività di ricerca e un fondo destinato non all’Università ma ai progetti dei ricercatori. I soldi vanno dati ai ricercatori, non alle università. All’estero funziona già così». Non da ultimo c’è il problema della scarsa presenza femminile. Dice il Cnr che solo il 37 per cento delle donne sceglie una materia scientifica e, benché metà degli studenti e dei dottorandi sia donna, queste si diradano con il proseguire della carriera. Lisa Vaccari, 48 anni, responsabile di uno dei laboratori del Centro di ricerca Elettra Sincrotone di Trieste, racconta che per una donna ricercatrice ci sono due momenti critici: «Il primo è la conciliazione fra maternità e precarietà. Spesso si posticipa la prima, come nel mio caso. Sono rimasta incinta poco dopo la stabilizzazione, ho avuto una figlia e sono rientrata al lavoro tre mesi dopo il parto. Rimpiango


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“SONO TORNATO MA QUANTI PROBLEMI”

Foto: Riccardo Venturi / Contrasto

COLLOQUIO CON GIANVITO VILÉ

di non aver avuto il tempo per un secondogenito, ma non posso lamentarmi perché immagino che molte colleghe abbiano rinunciato in toto alla maternità. Il secondo momento difficile è segnato dalla difficoltà di destreggiarsi fra la carriera, una volta raggiunto il contratto a tempo indeterminato, e la cura dei figli. È complicato, perché c’è un atteggiamento sessista nei confronti delle donne, basato sulla convinzione che solo agli uomini che ambiscono a un ruolo di responsabilità sia consentito il compromesso fra presenza fisica ed emozionale con i figli. Il caso di Samantha Cristoforetti, criticata perché ha lasciato i figli alla cura del padre, mentre lei è partita per una missione spaziale, la dice lunga sul tipo di cultura ancora troppo maschilista che vige in Italia». Un sistema più attento alla parità di genere, fondi nelle tasche dei ricercatori e per la creazione di laboratori innovativi, meno precariato, più meritocrazia, certezza dei bandi, un accesso più rapido al mondo della ricerca scientifica e stipendi in linea con quelli europei. Eccola la riforma che chiedevano i ricercatori italiani. E Q che ancora non c’è.

Ricercatore al Politecnico di Milano, Gianvito Vilé, 34 anni, diventerà professore fra due anni. Un’eccezione che conferma la regola? «Mi sono laureato al Politecnico, ho conseguito un dottorato a Zurigo e poi sono tornato a Milano per fare il ricercatore. Qui ho un mio laboratorio, finanziato grazie al Politecnico e ai fondi dell’azienda farmaceutica Bracco. Senza il contributo da un milione di euro dell’industria privata non sarei qui». Un cervello tornato in Italia, dunque. Cosa ti ha convinto a tornare? «La possibilità di guidare un laboratorio indipendente. Studio nuovi sistemi catalitici in grado di convertire gli scarti, come l’anidride carbonica prodotta dagli impianti industriali e la plastica, in biocarburante o metanolo, quindi in nuova energia. Potremmo arrivare a una soluzione applicabile, per esempio Gianvito Vilé all’altoforno dell’Ilva, entro cinque anni. Per le sue applicazioni e implicazioni ambientali questo filone di ricerca ha ricevuto quattro finanziamenti europei, più il grosso contributo della Fondazione Bracco: questo denaro mi ha permesso di assumere due dottorandi, un post dottorando e presto entreranno nel team di ricerca altre quattro persone. Fare ricerca in Italia non è facile, perché esistono pochi fondi e il grado di successo è basso, è invece necessario applicare ai bandi europei anche in partnership con altri laboratori europei». Quindi fare ricerca in Italia è possibile? «Richiede dedizione e la capacità di muoversi fra i bandi di finanziamenti pubblici italiani ed europei. La vera critica è che in Italia non abbiamo, come in Svizzera, in Germania, in Olanda, in Austria, un fondo nazionale dedicato al finanziamento delle idee innovative. Ci sono ottime storie di ricerca in Italia, che tuttavia fioriscono su un terreno più arido e impervio rispetto al resto d’Europa. E per questo molti colleghi scelgono di far fiorire il proprio progetto altrove. Succede perché qui manca un’apertura nei confronti dei giovani che hanno idee coraggiose e perché non si è compreso che, per portare avanti un’attività sperimentale, come la mia, servono laboratori attrezzati che costano diverse migliaia di euro e serve tempo per fare esperimenti e arrivare a una soluzione». Il Pnrr destina quasi 17 miliardi di euro alla ricerca. L’obiettivo è spendere una larga parte di questi soldi per creare nuove posizioni da ricercatori. Condivide questa impostazione? «C’è stata una capillare attività che ha consentito di capire dove spendere questi finanziamenti e molte delle tematiche individuate sono ottime. Tuttavia, anziché creare soltanto posizioni per ricercatori, sarebbe stato utile potenziare le infrastrutture esistenti e aprire nuovi laboratori indipendenti, come il mio, offrendo i fondi iniziali per avviare la ricerca». G.R. Q ©RIPRODUZIONE RISERVATA

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Il diritto alle cure

DOTTORI VIA DALLA BASE DI GIANFRANCESCO TURANO

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Foto: C. Greco / FOTOGRAMMA

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a medicina territoriale è un incubo dal quale molti sono in fuga. Orari infiniti, mancanza di personale, incombenze burocratiche deliranti hanno colpito la prima rete di sicurezza della sanità. Il danno maggiore è stato in Lombardia che è la regione più colpita dalla pandemia ma anche la più ricca d’Italia. Gli oltre dieci milioni di residenti, se possono pagare, dispongono di strutture private che hanno fatto concorrenza poco leale agli ospedali pubblici e che offrono ben altre opportunità di guadagno rispetto alla convenzione di cui godono i medici di base, liberi professionisti senza ferie pagate, senza malattia e, a maggior ragione, senza previdenza infortunistica. Già in difficoltà quando devono trovare i sostituti, che pagano di tasca propria, in Lombardia molti dottori di medicina generale rischiano di passare l’estate in ambulatorio dopo avere tentato senza grande successo di lanciare il movimento Coccarde gialle. Lo sciopero di sabato 26 marzo con 500 partecipanti, non pochi rispetto al numero dei medici di base, e il corteo fra la stazione Centrale di Milano e il Pirellone, non ha avuto molto seguito. Il movimento langue sui social con 3.187 follower su Facebook e un ultimo post Instagram dei primi di giugno. È una foto del Siss, il sistema informatico socio-sanitario della regione che registra le attività di ogni medico. In un mese il dottore coccarda gialla autore del post ha fatto segnare 1.422 accessi al sistema con 2.157 accertamenti. Tutto poco compatibile con le 38 ore settimanali del contratto. Anche i dati generali non lasciano dubbi. Secondo l’agenzia statistica regionale (Asr), che peraltro riporta cifre aggiornate al 25 marzo 2021, la Lombardia ha un medico di base per ogni 1.614 abitanti. Ogni medico ha 1.389 assistiti. La media nazionale è di un medico ogni 1407 abitanti con 1.212 assistiti. Soltanto la provincia auto-

La manifestazione delle Coccarde gialle, la protesta dei medici di base nel piazzale del Pirellone, tenutasi a marzo a Milano

noma di Bolzano, caratterizzata da un territorio molto meno accessibile, fa peggio con un medico ogni 1.905 abitanti e 1.583 assistiti per medico. Alla fine del 2021 si contavano in Lombardia 5.919 medici di base, di cui 5.496 titolari e 423 provvisori, con una carenza di personale valutata fra il 10 e il 15 per cento destinata a un peggioramento verticale nel prossimo quinquennio quando 2.465 medici del territorio, quasi la metà di quelli attivi oggi, raggiungeranno l’età pensionabile. Infine, secondo i dati del bollettino regionale dello scorso marzo, mancano 1.166 fra medici e pediatri. Anche se sulle cifre non c’è discussione, le possibilità di scaricabarile politico rimangono intatte. «La carenza di medici di famiglia», ha detto la vicepresidente e assessore al welfare lombardo Letizia Brichetto Moratti, «è un problema nazionale che si trascina da anni. La questione verrà risolta solo quando il nostro sistema sarà capace di formare in numero sufficiente il personale necessario. Intanto lavoriamo su riorganizzazione dei tempi e dei modi di lavoro, maggiore capacità dei medici di lavorare insieme, rafforzamento della telemedicina e integrazione con la rete delle case di comunità che stanno sorgendo. Stiamo lavorando affinché il ministero della Salute accolga le proposte avanzate dalle Regioni». Quello che i dati e le dichiazioni ufficiali non raccontano lo raccontano le storie raccolte da L’Espresso. Sono anni che la Lombardia corre a tappare i buchi importando medici dal Mezzogiorno, dall’Europa dell’Est e prossimamente dall’Ucraina. I risultati non sempre sono stati all’altezza. «In Calabria o in Sicilia è più difficile prendere una convenzione di medicina generale», racconta una dottoressa partita dal Sud per l’avventura in Lombardia. «A ottobre 2021 ho iniziato a lavorare in Val Seriana, nella zona più colpita dal Covid-19. Sono passata da zero a 1.800 pazienti in brevissimo tempo, perché lì si

CON LA NUOVA ONDATA ALLE PORTE, LA PANDEMIA RIVELA LE FALLE DELLA MEDICINA GENERALE. PROFESSIONISTI IN FUGA DA UN MESTIERE SVALUTATO 3 luglio 2022

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Il diritto alle cure

può sforare il tetto dei 1.500 per mancanza di medici. Il carico burocratico-amministrativo è micidiale. Dovevano inserirmi nella rete intranet e ci hanno messo una settimana. Una settimana di ricette a mano. Ho affittato l’ambulatorio del medico andato in pensione. Con lui era a norma. A me hanno mandato un’ispezione e mi hanno minacciato di multa o chiusura perché mancava il termosifone in bagno. A fine gennaio mi sono dimessa ma ritento nel lecchese, un’altra zona molto carente». L’ondata pandemica che ha infierito sulla Lombardia ha dato la mazzata definitiva a un mestiere sotto pressione che gode di cattiva stampa e di un rapporto pessimo con la macchina istituzionale guidata per oltre quattro anni dal forzista Giulio Gallera, fino alla sostituzione con l’altra azzurra Brichetto Moratti, aspirante alla poltrona di Fontana nel 2023, perché in politica comanderà anche la Lega del presidente Attilio Fontana ma la sanità resta saldamente in mano agli uomini del Cavaliere. I soldi sono lì e sono sempre di più grazie alla quota di circa un sesto della spesa sanitaria nazionale, proporzionale agli abitanti, di cui la Lombardia gode. Oltre ai 124 miliardi complessivi di budget 2022 c’è la missione 6 del Pnrr, dedicata agli investimenti sanitari da qui al 2026 per 18,5 28

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LE SCELTE Walter Bergamaschi, direttore generale dell’Ats di Milano. A sinistra, il ministro della Salute Roberto Speranza. A destra, Letizia Brichetto Moratti, vicepresidente e assessore al welfare della Lombardia

miliardi di euro. La missione 6 ha destinato 8,043 miliardi alla riqualificazione della medicina territoriale con il decreto del ministro Roberto Speranza. Alla Lombardia, tra Pnrr e fondo complementare, andranno 1,24 miliardi di euro da destinare alle nuove strutture della sanità territoriale. L’investimento più dispendioso, con 3 miliardi di euro da distribuire in tutta Italia, riguarda 1.350 case di comunità (cdc) e 400 ospedali di comunità (odc). Sono soluzioni concepite per tappare i buchi lasciati da anni di chiusure di ospedali. Le case di comunità, in effetti, seguono la falsariga delle case della salute create per decreto dal ministro Livia Turco nel 2007. Si spera con migliore fortuna visto il sostanziale fallimento del tentativo introdotto quindici anni fa dal governo Prodi. Su missione 6 la Lombardia è stata fra le ultime a partire. Oggi il sito della Regione, aggiornato a febbraio 2022, annuncia l’apertura di 216 case di comunità e 71 ospedali di territorio entro la fine del 2024. Poco più di un anno fa non esisteva niente. A fine aprile 2022 c’erano quindici strutture aperte. In due mesi ne sono arrivate altre undici, divise fra venti case di comunità e sei ospedali leggeri. La distribuzione geografica è ancora abbastanza casuale con aree di forte concentrazione nel corridoio


Foto: FotoA3, Fotogramma (2), Agf

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Milano-Como-Varese, che è già ben attrezzato di ospedali tradizionali, sia pure anche quelli in difficoltà di staff. I centri urbani di Leno (Brescia) e Giussano (Monza-Brianza) hanno una casa e un ospedale di comunità a pochi passi di distanza. Nel capoluogo regionale ci sono due case, una in viale Zara e l’altra nella centrale via Rugabella che dipende dall’Asst Milano nord con sede a Sesto San Giovanni, a una decina di chilometri di distanza, invece che dall’Ats Milano, guidata da Walter Bergamaschi. Persino nella metropoli pochi conoscono l’esistenza delle case della comunità che sono mal spiegate e molto poco frequentate, al contrario delle sale di attesa in pronto soccorso. Non è detto sia un male. I carichi di lavoro ordinari e straordinari stanno tenendo i medici generalisti lontani dalla nuova formula che propone di dividere le 38 ore settimanali in 20 di ambulatorio e 18 nelle cdc o negli odc. «La riforma prevede un distretto ogni centomila abitanti, con due case di comu-

La protesta dei medici di famiglia tenutasi a Firenze e organizzata dal movimento delle Coccarde gialle, in contemporanea con l’analoga manifestazione svoltasi a Milano

nità», ha dichiarato il consigliere salviniano Emanuele Monti, presidente della commissione sanitaria. «Ognuna ha bisogno di sei o sette medici di medicina generale. A livello territoriale ogni distretto dovrebbe avere ottanta medici di base. Ce ne sono sessantacinque. Quindici di questi devono andare nelle cdc. Sono disponibili a fronte di quello che sarà un aggravio di lavoro?» La replica è di un medico di base. «Fino a dicembre dovevamo fare noi le prenotazioni dei tamponi molecolari. Con quaranta richieste il sistema andava in palla e la rotellina girava per cinque minuti. Io aspettavo dopo cena, quando il carico di richieste si alleggeriva. Hanno risolto a marzo, con i tamponi rapidi. Adesso hanno aggiunto le case di comunità. Ma quando trovo il tempo di andarci se, dopo tre ore di visite in ambulatorio mi trovo novanta fra messaggi e chiamate perse sul cellulare? Il problema è che ci sono pochi laureati con tante opportunità in ospedale dopo trent’anni di selezione assurda. Quando ho studiato a Pavia eravamo in 400 per corso. A chi sceglieva medicina generale la Regione offriva tre anni di specializzazione. Con i test siamo scesi a 200 studenti per corso. Se ne sono accorti adesso e hanno tolto dai questionari le domande di cultura generale. Nel frattempo, la Lombardia ha cambiato modello. Una volta si reggeva sugli ospedali mentre gran parte del Sud aveva i medici di base, stimati e rispettati. Oggi è diventata come il Sud, con la differenza che le istituzioni ci disprezzano e i pazienti ci accusano di ogni nefandezza». Insomma i medici di base sono un po’ come gli operatori del turismo. C’è sempre qualcuno che li accusa di non volersi sacrificare. Ma mentre i balneari lottano per gli indennizzi, i medici di base non hanno questa opportunità e finora nessuno dei morti sul lavoro per Covid-19 è stato riconosciuto come tale. Non è proprio un incentivo alla vigilia della prima ondata estiva segnata dalla variante Omicron 5. Q © RIPRODUZIONE RISERVATA

POCHI E CON UN CARICO CRESCENTE. CROLLA IL MODELLO LOMBARDO. NONOSTANTE GLI INVESTIMENTI COSÌ FALLISCE IL SISTEMA DELLE CASE DELLA SALUTE 3 luglio 2022

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Dopo il voto

LETTA MELONI L’ORA DEI SECCHIONI 30

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Prima Pagina STUDIOSI, CARTESIANI, PRUDENTI. COSÌ, TRA PIANI B E NUOVI ULIVI, I CAPI DI FDI E PD PROGETTANO LA MARCIA VERSO IL 2023. CONTRO GLI AVVERSARI INTERNI DI SUSANNA TURCO

La presidente di FdI Giorgia Meloni e il segretario del Pd Enrico Letta

Foto: F. Fotia - Agf

N

otizia ferale per le redazioni dei giornali e per gli autori di satira: si apre ufficialmente l’era dei secchioni. Vi mancava Danilo Toninelli e il suo fantasismo senza copione? Non avete visto ancora niente, la nostalgia diverrà insopportabile. Il voto nelle città ha dato una legnata alla possibilità (per taluni: la speranza) di una estate fatta di balletti tra partitini e movimenti in discesa, quadriglie Renzi-Calenda, tanghi Di Maio-Conte, con Salvini a fare la spaccata tipo Heather Parisi. Intendiamoci: le danze nell’affollata sala del centro vi saranno - specie con questo caldo che funge da flipper alle sinapsi - ed è una garanzia che persino Beppe Grillo abbia ricominciato le sue calate all’Hotel Forum di Roma, eppure le Amministrative hanno certificato che il tempo prossimo non è quello dei cavalli pazzi, delle rivoluzioni del cambiamento, dei nuovi mostri, della geometria ellittica e iperbolica. È quello invece degli assi cartesiani, delle rette, dei culopietristi, dei secchioni appunto. Gente che studia e prende appunti, gente che ha il terrore della brutta figura, gente che rinuncia al colpo d’ala se intravvede il rischio di una gaffe, gente che la sconfitta della povertà non la proclamerebbe nemmeno sotto tortura, figuriamoci sopra un balcone. Del resto è il momento storico. Il prezzo della benzina e il calo del potere d’acquisto dei salari tirano più di rosari e Madonne, lo stato solido più dello stato gassoso, la noia credibile più del colpo pazzo: è insomma la stagione di Enrico Letta e di Giorgia Meloni. L’uomo che vince senza muoversi, la donna che vince senza incarichi. L’unico altro protagonista con cui triangolare il gioco politico-istituzionale sarà Mario Draghi, con un ruolo ancora da definire, un grado di fantasiosità probabilmente superiore ma accuratamente occultato. È, per dire del fu-

turo che ci aspetta, la stessa onda che porta più in alto che mai nella considerazione una eterna prudente come Mara Carfagna, da un decennio in predicato di leadership. Il trionfo prossimo dei secchioni, rassegnarsi. Lo dicono i sondaggi, lo dicono i risultati del voto, lo dice l’assenza di alternative. Colpito forse a morte il tripolarismo a marca grillina che ha segnato questi anni e devastato questo Parlamento, fiaccato il fighettismo neocentrista tutt’altro che domo (al momento sembrano esserci più dirigenti che elettori, molto ci si aspetta in questo senso da Carlo Calenda, deciso a un polo autonomo), rinforzato invece il bipolarismo annebbiatosi dal lontano 2013, ecco dunque avanzare - tra mille problemi - la coppia che, salvo stravolgenti novità invisibili all’orizzonte, ci porterà dritti fino al voto politico del 2023. Quando magari saremo chiamati a scegliere tra l’uno e l’altra. Il capo del Pd e la capa dei Fratelli d’Italia, sinistra e destra, lei più giovane all’anagrafe ma più anziana in Parlamento (16 anni da deputata, contro 13), lui con molta più esperienza di governo, impegnati in politica sin dalla culla (tendenza accademico-familiare lui, creatura di popolo e di sezione lei), leader dei due partiti che i numeri e gli elettori danno come i più forti, accoppiata già collaudata nelle decine di incontri pubblici stile Sandra e Raimondo (copyright Meloni) che hanno fatto la delizia dei cronisti, sono destinati volenti o nolenti a guidare la partita nei prossimi mesi, sfidando i rispettivi limiti, che sin qui li hanno condannati ad eccellere senza sfondare. Nel trionfo di una politica che appare dimentica dell’arte vitale Susanna Turco della zampata. La realtà Giornalista non dà scampo. 3 luglio 2022

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Dopo il voto Il voto delle città, ballottaggi soprattutto, ha contribuito col suo a definire la situazione. Da una parte c’è il Pd di Letta che, ironia della sorte, si è trovato a dover riequilibrare i magri risultati del 2017, eredità dell’ultima fase del renzismo: adesso, cinque anni dopo e previa cura di «serenità», il bilancio dei comuni capoluogo è passato da 17 e 5 per il centrodestra a un meno sbilanciato 13 a 10, una vittoria civica e senza esagerazioni che tuttavia per come si è costruita sfarina i progetti di «campo largo» sin qui sbandierati, senza per ora averne concretamente di nuovi. Dall’altro c’è Giorgia Meloni che – in un centrodestra ammaccato - vince la disfida interna su FI e soprattutto sulla Lega, primeggiando anche dove perde (a Verona, sconfitto Sboarina, Fratelli d’Italia ha comunque tre consiglieri, la Lega solo uno), o addirittura riuscendo a vincere sola contro il centrodestra: come a Jesolo, Venezia, dove sindaco è il trentacinquenne Christofer De Zotti, o a Mortara, Pavia, dove il medico di FdI Ettore Gerosa costituirà il primo monocolore. Esempi, vedremo se luminosi, di una tendenza in espansione: anche se al sud non è andata bene, Meloni ha conquistato al nord – storicamente più ostico per la destra MsiAn – larghe fette di voto in uscita soprattutto dal Carroccio. E continuerà, se nel centrodestra non le fanno troppi sgambetti. La gabbia di coalizioni problematiche è in effetti uno dei punti che accomuna i due leader, ma i problemi più gravi in questo campo ce li ha proprio Meloni. Dopo una vita di politica, l’ex capa dei giovani di An, da un decennio capa dei Fratelli d’Italia che ha portato dal niente alle stelle del 21 per cento, deve decidersi se sferrare l’attacco finale al centrodestra sfrangiato. Conquistarsi cioè una leadership che con lei sarebbe più a destra che mai, dal dopoguerra ad oggi. Neanche il genere l’aiuta, ovviamente: il paternalismo berlusconiano, post-sconfitta, circa la necessità di nomi e facce meno destrorse e più moderate per vincere, si coniuga perfettamente con il paternalismo salviniano, post-sconfitta, circa la necessità di una minor litigiosità interna per vincere (proprio il leader leghista, ricordiamo, ha alzato polemica contro Fratelli d’italia anche nella domenica dei ballottaggi, a urne aperte). Insomma è chiaro che Salvini e Berlusconi vogliono allearsi con una Giorgia Meloni più 32

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Il leader della Lega, Matteo Salvini. A destra, il presidente del Movimento 5 stelle, l’ex premier Giuseppe Conte

quieta, meno incombente, ed è per questo che lei prova l’attacco. Martedì, al discorso d’apertura a Roma del vertice di Ecr, il partito dei conservatori di cui è presidente, la leader di FdI ha passato due terzi del tempo ad alludere malvagiamente al leader leghista («di fronte alle minacce di Putin un leader politico non può tentennare, balbettare», «ci sono i leader e i follower, noi abbiamo deciso di guidare il popolo non di seguirlo», eccetera), ed è sicuro che stia manovrando sulle prossime Regionali in modo da ottenere, magari appoggiando l’operazione Letizia Moratti in Lombardia, il posto che ritiene dovuto in Sicilia, con la riconferma di Musumeci. Non è chiaro però fin a che punto sia disposta a spingersi: nei retropalco si parla di un «piano B» di «rottura», eppure i consiglieri più vicini hanno sempre escluso questo orizzonte. Per convenienza politica, per storia, per carattere: gli elettori di centrodestra preferiscono i federatori; chi ha rotto partiti e alleanze non ha mai fatto strada, da Fini ad Alfano; Meloni ama primeggiare dentro un gruppo più che slanciarsi da sola. Ergo. Enrico Letta ha se possibile il problema opposto: nessuno all’orizzonte potrebbe insidiargli la leadership, visti i numeri. Eppure si tratterebbe di una leadership inutile: se il panorama resta questo, una vittoria nel 2023 è abbastanza esclusa. Per mancanza di partecipanti, e relativi alleati con cui raggiungere la maggioranza: l’abbraccio coi Cinque stelle sembra davvero averli sciolti (come da profezia di Vittorio Sgarbi nel 2018: «inglobiamo i Cinque stelle e facciamoli morire») ma non si è ancora trovato qualcuno o qualcosa in


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PIER FERDINANDO, L’UOMO CHE SUSSURRAVA A GIGINO

Foto: A. Casasoli - A3, M. Minnella - A3

DI ANTONIO FRASCHILLA

grado di sostituirli o integrarli. Ecco perché il campo largo è scomparso rapidamente dal lessico del segretario dem, che all’indomani dei ballottaggi (intervistato dalla Stampa) si è rimesso a parlare di Ulivo, anzi di «nuovo Ulivo», cioè di una cosa che deve ancora trovare il suo «nome, un programma, un progetto». Ed ecco perché esalta il campo del civismo, da dove vengono del resto due dei migliori esempi della vittoria alle amministrative: Tommasi a Verona, Fiorita a Catanzaro. Eppure mancano altre gambe su cui far camminare un'alleanza sufficientemente vasta. Il modello Parma, ad esempio, è difficile da replicare: nonostante il sindaco uscente Federico Pizzarotti dica (al Foglio) che il Pd vince «recuperando una parte della sinistra delusa», con «civici», «riformisti moderati» e «forze che rappresentano l’evoluzione dei Cinque stelle», realizzare tutto ciò su scala nazionale è al momento abbastanza fuori portata. Funzionano alcune realtà territoriali dem: quella emiliano romagnola guidata da Luigi Tosiani (dal modello Bologna fino, oggi, alla riconquista di Piacenza) e, adesso, quella del neo segretario dem in calabria Nicola Irto, regista dell’operazione Fiorita a Catanzaro. Di fatto quello che manca, fuori dal Pd, è una sinistra sufficientemente articolata, radicata, rinnovata: oggi l’area di Articolo Uno è divaricata tra chi vuol dirigersi verso i dem e chi verso Conte, mentre ancora più a sinistra Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli sembra si apprestino a darsi una comune identità rosso verde, con nome e simbolo. Difficile però che basti. Q

«Dici sciocchezze…dilettante». Correva l’anno 2018 e Pier Ferdinando Casini si rivolgeva con questi toni a Luigi Di Maio, l’allora barricadero leader del Movimento 5 stelle che si era appena insediato al ministero dello Sviluppo economico nel primo governo Conte, sostenuto anche da Matteo Salvini. I due, Di Maio e Salvini, a Casini non piacevano proprio. E il sentimento era reciproco: come dimenticare l’intemerata di Di Maio durante la campagna elettorale delle scorse Politiche proprio nella città del fondatore dell’Udc, Bologna, contro «quel Casini che ha affossato la commissione sulle banche e ora viene candidato non a caso dal Pd»? Ma se con il segretario della Lega anche oggi, a quattro anni di distanza, i rapporti sono a dir poco freddi, specie dopo il “tradimento” di Matteo che non ha più sostenuto la corsa al Quirinale dell’eterno democristiano, tra Casini e Di Maio qualcosa è cambiato. I due adesso si sentono giornalmente e di solito la discussione va così: uno parla (Casini) l’altro ascolta e prende appunti ( Di Maio). Per molti, le mosse del ministro degli Esteri da un anno a questa parte sono di «puro stampo casiniano». Lo scorso novembre Di Maio ha aperto all’ingresso del Movimento 5 stelle nel gruppo del Partito socialista europeo: «Una grande intuizione di Luigi», diceva entusiasta il suo (ex) delfino, Giancarlo Cancelleri. Ma chi è sempre stato un forte sostenitore dell’aggancio dei partiti nazionali a famiglie storiche del Parlamento Europeo? Lui, Casini. Poi sono arrivati il sostegno al governo Draghi e all’atlantismo, diventati da mesi due tasselli fondamentali della politica del ministro degli Esteri. E chi c’è dietro questo cambio di rotta? Sempre lui, Casini. Resta una domanda: come ha fatto l’ex presidente della Camera a prendere il ruolo di gran suggeritore politico di Di Maio? La risposta sta tutta in un luogo: la Farnesina. Un palazzo nel quale Casini è sempre stato di casa e che conosce stanza per stanza, dirigente per dirigente, diplomatico per diplomatico. Tanto che una funzionaria di peso oggi è anche la sua fidanzata, Maddalena Pessina, responsabile della promozione culturale del ministero. È stata lei la chiave di volta per ammorbidire certe rigidità del ministro nei confronti del fidanzato eccellente. Di certo anche grazie a lei i rapporti tra i due sono migliorati fino a diventare idilliaci. Sembra passata un’era geologica rispetto al dicembre del 2019 quando Casini, proprio grazie ai suoi buoni uffici alla Farnesina, portava a segno un colpo mediatico che metteva a dir poco in ombra il titolare del dicastero, cioè Di Maio, facendolo infuriare: Casini in quei giorni era volato a Caracas per parlare direttamente con il comunista Maduro e liberare dei deputati dell’opposizione venezuelana che rischiavano il carcere a vita perché accusati di un fallito colpo di Stato. Missione compiuta con tanto di complimenti del presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Ma non di Di Maio, che però aveva già capito che se voleva fare strada, soprattutto in quelle stanze, doveva per forza avvicinarsi a Casini. Q ©RIPRODUZIONE RISERVATA

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L’intervento

LA NOSTRA SINISTRA SMARRITA DI NICHI VENDOLA

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n Francia è tornata la sinistra: questa è la notizia. Nuova, radicale, vitale, libertaria, pacifista, egualitaria. Capace di raccogliere l’entusiasmo dei più giovani e persino di riconnettersi con quella classe operaia che non è mai morta, nonostante i suoi tanti necrofori. Una sinistra di sinistra. Che usa un linguaggio chiaro, impugna una bandiera che non è un feticcio ma una speranza, si congeda senza rimpianti dalle compromissioni con il liberismo e con i suoi apologeti. Una sinistra che combatte corpo a corpo sia contro il radicalismo xenofobo dei sovranisti che contro l’estremismo di centro di Macron, ovvero del riformismo delle contro-riforme. Un soggetto plurale, quello guidato da Jean-Luc Melenchon, che irrompe nella transizione francese riuscendo a costruire un suo “popolo” tutt’altro che minoritario, una moltitudine che reagisce agli incantamenti della manipolazione populista e che accetta la sfida per il governo senza per questo morire di governismo. Perché il vento francese non soffia in Italia?

della politica, anche se io credo che la crisi riguardi la sinistra e non la politica. La politica esiste persino quando si auto-commissaria o si traveste da tecnica: ciò che invece è sparito nel gorgo di un riformismo subalterno è la potenza di un pensiero critico, di una autonomia culturale, di una weltanschauung, che dovrebbero essere il fondamento, l’anima e la ragione sociale della sinistra.

Penso sia urgente un discorso di verità: aspro, scomodo, necessario. Rileggendo la storia recente e guardandosi attorno. Tornando al luglio del 2001, ai giorni incandescenti del G8 di Genova, alle piazze affollate di una straripante domanda di «riforma intellettuale e morale»: lì c’era un protagonista mondiale, un blocco sociale in nuce, l’agenda di una vera transizione sociale ed ecologica. Ma la sinistra di governo non capì e disertò. Invece dieci anni dopo capì e ugualmente disertò: quando ai referendum 27 milioni di italiani votarono per la difesa dei beni comuni e dell’acqua pubblica, si teorizzò che l’acqua è pubblica ma la brocca no, dev’essere privata, e che le privatizzazioni sono moderne e necessarie, perché tutto si misura col metro costi-benefici. Anni su anni di imbarazzi, di contrordine compagni, di soggezione ai totem e ai tabù della rivoluzione liberista. Culminati con la nascita del governo Monti: cioè impedendo che dalla crisi del berlusconismo si potesse uscire con il voto e con uno sbocco a sinistra. E così spingendo l’Italia verso una virulenta reazione populista. Come se un dio capriccioso avesse disegnato un destino infelice per la sinistra: l’impedimento a esistere senza travisamenti. De te fabula narratur.

Quella resa è figlia del galleggiamento opportunistico sulle onde corte del giorno per giorno. La sinistra che fa il surf e non conosce le profondità. Che si è disconnessa dalla materia nuda e cruda dei rapporti di produzione, ha smesso di conoscere la fabbrica dei lavori e dei saperi, ha rubricato scuola e lavoro come competenze specialistiche e politiche di settore, ha subìto un approccio retorico alla «questione sociale», ha con incomprensibile leggerezza riposto in archivio la «questione meridionale». La categoria del ritardo - quello meridionale sulla velocità settentrionale, quello del lavoro sulla modernità del Capitale - ha surrogato qualsivoglia analisi del capitalismo italiano, del suo modello di sviluppo, delle sue compromissioni con la corruzione e con le mafie, delle sue virtù e dei suoi vizi. La sinistra ha smesso di vedere e di conseguenza non è stata più vista: evasa dai suoi domicili naturali, confinata nella Ztl del terziario e dei professionisti. E se qualche volta è tornata in fabbrica, lo ha fatto per celebrare l’epopea dell’impresa. La fine delle ideologie è stata questa cosa qui: l’assunzione del punto di vista del mercato come se fosse scienza neutra o pura natura, l’eutanasia del principio-speranza nella vita pubblica, l’abolizione dell’idea conflittuale di alternativa, l’espulsione del dolore del lavoro dalla politica. Davvero, ci siamo persi.

Portiamo dunque sulle spalle il peso di una sconfitta molto più grande e più grave di quanto non dica un esito elettorale. Gli exit poll del senso comune certificherebbero una crisi verticale 34

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Qui siamo, prosaicamente. Felici di aver conquistato Verona, ma con l’angoscia che gli amici di CasaPound e i razzisti padani possano tornare al potere. Per questo occorre mettere a fuoco la caduta della partecipazione democratica, la debolezza del sindacato, la delegittimazione dei corpi intermedi, le mappe di una democrazia desertificata e ridotta al rango di “votificio”. Il voto contiene un vuoto clamoroso di rappresentanza. Se la sinistra si annulla nella rincorsa del centro, nel nome di un’alleanza che appare una resa, se si appanna la sua autonomia intellettuale, allora svaniscono i suoi riferimenti naturali.

Eppure fatichiamo ad accorgercene, ci ac-


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La manifestazione del 23 marzo 2002 in difesa dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori

Foto: P. Scavuzzo - Agf, M. Frassineti - Agf

contentiamo di scommettere sulle debolezze dei nostri avversari, ci basta vincere un ballottaggio, conquistare dieci campanili, per galvanizzarci e tornare a non vedere ciò che è sotto i nostri occhi: la metà degli elettori si astiene, la crisi sociale svuota di senso le agorà della democrazia, il populismo reazionario semina paure e odio negli individui senza riparo. E poi pesano tutti i rendiconti amari della realtà. Il lavoro che è solitudine e competizione. La città che è speculazione, rendita, cumulo di rifiuti. La formazione e la ricerca che sono spesso altra solitudine, nella perdita di valore sociale del lavoro intellettuale. L’ascensore sociale che è fermo da diversi lustri. In un contesto globale di accumulo di crisi: quella finanziaria internazionale, con il suo esito nefasto in termini di politiche di austerità; quella climatica; quella demografica; il ciclo pandemico del Covid e dei suoi derivati; la guerra in Ucraina e ciò che essa ha rivelato di un mappamondo avvelenato dai nazionalismi, dai sovranismi, dalla folle corsa al riarmo. Dinanzi a queste crisi di sistema, qual è stato il pensiero della sinistra? Papa Francesco, profeta della parresia, ha parlato, individuando con puntigliosità le radici del male, denunciando il cannibalismo di quel turbo-capitalismo finanziario che estrae ricchezza dall’impoverimento della vita. La sinistra, quella del dovere teologico del governare, ha invece bal-

bettato luoghi comuni, dispensando prediche. E dunque qui siamo, prigionieri del nostro rimosso, forse del nostro rimorso. Che fare? Proviamo a ripartire dallo spaesamento in cui abitiamo come profughi del «secolo breve», dai perché della perdita della «cassetta degli attrezzi» con cui costruivamo il nostro stare al mondo, dalla rottura drammatica della «connessione sentimentale» col mondo del lavoro salariato e delle giovani generazioni, persino dal rischio di insignificanza che corriamo quando ci rifugiamo sotto le insegne del moderatismo, quando non cogliamo il nesso imprescindibile tra diritti civili e diritti sociali, quando non capiamo che la precarietà corre veloce dal lavoro alla vita e viceversa. Se perdiamo le parole del discernimento, di conseguenza perdiamo radici, relazioni, fascino, orizzonte: fino al paradosso di vedere la povera gente consegnarsi al carisma loffio e malandrino di una destra che è protezionista, indulgente e garantista con i ricchi, ma che è feroce, intollerante e giustizialista con i poveri. Quel paradosso chiede alla sinistra di rompere l’incantesimo, di dirsi tutte le verità, di uscire allo scoperto. Con il coraggio di chi non rinuncia a immaginare «un altro mondo possibile». Q ©RIPRODUZIONE RISERVATA

IL VENTO FRANCESE NON SOFFIA QUI. I PROGRESSISTI HANNO PERSO LA CONNESSIONE CON IL POPOLO 3 luglio 2022

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Prima Pagina

L’opinione

di STEFANO BONAGA

Ma l’esercizio della delega non taglia fuori i cittadini

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rovo a partire dall’articolo 49 della Costituzione: «Tutti cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale». Ora, la determinazione è certo un concetto di rapporto causa/effetto ma la delega non è l’unica forma di determinazione. Si può certo determinare la politica nazionale delegando inevitabilmente al potere legislativo le norme, ma anche certamente agendo in molteplici altri modi per la soluzione di svariati problemi concreti di ordine locale, sociale, culturale, comunicativo, etc. Peraltro le norme non formalmente dirimenti (si o no a un diritto) possono restare lettera morta senza una attività politica concreta e diffusa che le attualizzi. Un esempio per tutti una norma che favorisse l’integrazione degli extracomunitari. Non mi risulta che il decalogo di Mosè abbia reso virtuosa tutta la comunità credente. Aggiungerei inoltre che la stessa attuazione della Costituzione non è un percorso di ordine etico deduttivo ma di ordine politico sperimentale. All’interno del paradigma occidentale della sovranità dei cittadini le elezioni sono una condizione necessaria per il riconoscimento di una democrazia formalmente intesa ma non certo una condizione sufficiente per il suo corretto esercizio. Nello stesso tempo le aspettative diffuse sulla efficacia dell’azione governativa comportano una ingenua combinazione di pretese al benessere e alla giustizia sociale astrattamente implicita nell’aspettativa. Viene infatti accreditato,

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sia dalla comunicazione del sistema politico che dal sistema mediatico in genere, il diritto alle attese di ragionevolezza e efficacia governativa in funzione del bene comune dei cittadini i cui soli doveri consisterebbero nel peraltro non vincolante e sempre più disertato accesso al voto e nel sempre più aggirato dovere di contribuzione fiscale. In Italia ma non solo, lo sbriciolamento organizzativo e operativo dei partiti nella fase attuale, mentre consente ancora l’esercizio della funzione di rappresentanza in ordine alla formazione delle Camere, ha prodotto l’abbandono preoccupante della altrettanto necessaria funzione di coinvolgimento attivo dei cittadini nella costruzione politica della società. Al mio punto di vista appare uno scenario paradossale e illusorio: una politica sempre più impotente che si legittima sulla base di una premessa virtuale che scommette sull’efficacia dei procedimenti formali per aspirare ragionevolmente a una società giusta, ignorando o sottovalutando l’enorme risorsa delle potenzialità di una cittadinanza messa nelle condizioni politiche di essere attiva. Poiché questa prospettiva è trascurata ideologicamente tanto meno è sperimentata politicamente. Dunque si dà il trionfo verbale dell’espressione offerta politica: una democrazia concepita secondo il paradigma mercantile della domanda generica e della offerta specifica, nella competizione delle offerte, la cui composizione è fatta di programmi ovvero di dichiarazioni d’intenti peraltro quasi sempre prive delle modalità di attuazione, di facili slogan e di qualche figura che alternativamente

li rappresenta. L’elaborazione delle prospettive sociali, un tempo attuata attraverso il coinvolgimento dei cittadini è ormai un ricordo. Peraltro questo ricordo aiuta a disambiguare la recente retorica diffusa del superamento dell’opposizione Destra/ Sinistra. Mentre è vero che l’enunciazione più o meno autentica di alcuni valori tradizionalmente appartenenti alla sinistra – come lavoro e giustizia sociale – compare ormai anche nella destra, ciò che è insuperabile è la differenza radicale dei paradigmi di modalità di governo. La Destra fa appello a un consenso elettorale che si esaurisce nella delega, la Sinistra fa appello (dovrebbe per natura appellarsi) a una partecipazione costante, nella triplice congiunzione di consenso elettorale, di deliberazioni condivise e sopratutto di un “partem capere” che implica iniziative di presa in carica diretta di aspetti della vita sociale, a tutti livelli, da parte di una cittadinanza su diversi campi. Dal controllo alla solidarietà, dai progetti a forme di autonomia e a esperienze comuni, secondo il modo più concreto di concepire la politica: occupazione reale di spazi, spazi di diritti, di formazione, di salario, di cultura, di innovazione ambientale, etc: un vero e proprio esercizio del kratos, potere diretto, che accompagni la delega all’archè, al comando. Dunque occorrerebbe rinunciare ad un immaginario consolante che proietta nella delega alla migliore offerta politica la realizzazione del diritto a una società giusta. Viva il ruolo del Parlamento, viva il ruolo del governo, ma riviva la società responsabile del suo futuro. Q © RIPRODUZIONE RISERVATA



L’opinione

LA BRECCIA A Prontuario per gli smemorati. Come negli Usa, anche in Italia il tentativo di rimettere in discussione il diritto all’autodeterminazione della donna torna ciclicamente DI LOREDANA LIPPERINI

È

sacrosanto evocare Margaret Atwood e “Il racconto dell’ancella” per sfogare costernazione e rabbia dopo la decisione della Corte suprema degli Stati Uniti sull’aborto. Peccato, però, che quel romanzo sia stato scritto nel 1985, e, certo, reso famoso dalla serie televisiva che ne è stata tratta nel 2017 sotto la presidenza Trump. Dunque, occorre avere memoria, e avere ben chiaro che negli Stati Uniti l’attacco ai diritti delle donne (e non solo) è cominciato esattamente in quel tempo, con la presidenza di Ronald Reagan, che proprio nel 1985 bloccò i finanziamenti del governo federale alle organizzazioni non governative internazionali che praticano l’interruzione di gravidanza all’estero o informano sulla medesima. La norma, detta Mexico City Policy, venne eliminata da Bill Clinton nel 1993, reintrodotta da George W. Bush nel 2001, eliminata ancora da Barack Obama nel 2009 e infine nuovamente introdotta da Donald Trump in uno dei suoi primi ordini esecutivi. L’altalena di provvedimenti dovrebbe dimostrare che c’è da decenni una larghissima parte di politici ed elettori che si rifiuta di ammettere la libera scelta delle donne. E che spesso passa alle vie di fatto: negli anni Novanta i no-choice bloccavano fisicamente l’accesso alle cliniche, cari smemorati: in soli sei mesi, nel 1993, due medici abortisti sono stati uccisi, e un terzo, che indossava il giubbotto antiproiettile, venne colpito alle braccia «per impedirgli di continuare nella sua opera di morte». Il parroco di Mobile, Alabama, dirà nella sua predica: «Se si devono ammazzare 100 medici per salvare un milione di bambini, benissimo, il prezzo non è troppo alto».

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Erano gli anni di Bill Clinton, che venivano dopo il lungo governo di Reagan prima e di Bush senior poi. Quegli spari venivano dalla paura: paura di una vera legge sull’aborto, paura che il mondo sarebbe andato diversamente. Paura, teniamolo a mente. Stephen King ne parlò in almeno un romanzo, “Insomnia”, dove i no-choice assaltano un centro femminista, uccidendo la gran parte delle organizzatrici e delle ospiti. Il problema è che tutto questo non riguarda solo gli Stati Uniti, come moltissime donne si sono sgolate a ripetere prima della sentenza, ma un grandissimo numero di Paesi, anche europei. E riguarda noi. Sì, è vero, la legge 194 è ancora in piedi. Formalmente. L’indagine Mai Dati! condotta da Chiara Lalli e Sonia Montegiove, e pubblicata dall’Associazione Luca Coscioni, ci dice che in 11 regioni italiane c’è almeno un ospedale con il 100 per cento di obiettori. 31 in tutto, per essere precisi, e ce ne sono 50 con percentuale superiore al 90 per cento e oltre 80 con tasso di obiezione superiore all’80 per cento. Le cose sono peggiorate durante e dopo il Covid-19. E in molti casi, i dati, appunto, non sono pervenuti. Per non parlare delle regioni, come Umbria e Marche, che di fatto impediscono il ricorso all’aborto farmacologico. Un piccolo sforzo di memoria, dunque, è necessario per chi si stupisce dei numeri, e per quanto è avvenuto negli Stati Uniti, e a Malta, dove una turista americana ha rischiato la morte perché anche in caso di perdita di liquido amniotico, se il cuore del feto batte, non si può intervenire, e per chi è rimasto stupefatto per lo Strajk Kobiet, lo sciopero delle donne polacche del 2020 e 2021 contro la sentenza della Corte Costituzionale che ha reso illegali quasi tutti i casi di aborto. Passo indietro. 1988. È Giuliano Amato a intraprendere quel «parliamone» che diventerà frequentissimo. Durante un dibattito sulla legge 194 organizzato al club Turati di Milano, Amato critica la sentenza della Corte Costituzionale che consente alla donna di abortire anche senza il consenso del coniuge. In realtà, contesta tutta la legge, sostenendo che la donna dovrebbe decidere da sola solo se la gravidanza mette in pericolo la sua salute. In parole ancor più povere, Amato non accetta l’idea stessa di autodeterminazione. 1992. Amato è presidente del Consiglio. Viene intervistato dall’emittente cattolica Telepace. Sostiene Loredana che la vita «è un valore enorme. Se mettiaLipperini Giornalista mo in discussione questo, se non limitiamo


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NTI-ABORTO a casi essenzialissimi le ipotesi in cui un essere umano può mettere in discussione la vita di un altro essere umano, allora viene meno proprio il fondamento della convivenza prima ancora che il fondamento della solidarietà». Dunque, la vita va protetta «una volta che si è formata». In quello stesso anno, in commissione Giustizia viene approvato un emendamento di Carlo Casini (leader del Movimento per la vita) che estende la «protezione dell’ infanzia alla fase prenatale». Salto di secolo e di millennio. Negli anni Zero inizia la battaglia di Giuliano Ferrara, culminata nella presentazione della lista elettorale “Aborto? No grazie”, e peraltro mai terminata. In mezzo, tanti episodi che forniscono il clima. Nel settembre 2011 a San Giovanni in Fiore (Cosenza) il parroco Don Emilio Salatino decide di suonare le campane a morto ogni volta che in città viene praticato un aborto. Due mesi prima, il presidente della Regione Piemonte Cota aveva proposto un protocollo, bocciato dal Tar e riproposto sotto altra forma «per il miglioramento del percorso assistenziale per la donna che richiede l’interruzione volontaria di gravidanza». Il miglioramento prevedeva l’inserimento nei consultori di associazioni no-choice. Sempre all’inizio degli anni Dieci, le ginecologhe di alcuni consultori torinesi si rifiutano di affiggere un manifesto del Centro aiuto alla vita, con un feto e la scritta: «Mamma, ti voglio bene». Stesso mese, stessa città. Tre volontari dell’Associazione Ora et Labora in Difesa della Vita si muniscono di una croce che al posto dei

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chiodi ha feti di plastica e diffondono volantini dove il feto parla in prima persona alla madre che lo uccide. Fermano le donne, tutte le donne. Sfileranno a Roma, in un giorno di maggio 2012 (lo stesso della festa della mamma), con quelle stesse croci, ricordando alle donne che abortiscono, le assassine, che le loro anime bruceranno all’inferno. E dunque, care e cari smemorati, il problema c’è sempre stato. Per paura. Forse per il timore occidentale della crescita zero. Di certo per la mancata accettazione di quanto le donne siano cambiate, siano determinate e più forti di prima. Paura, certo: non è per questo che si uccidono le mogli e le fidanzate che abbandonano? Quando lo si sottolinea, scatta lo scherno verso le femministe con le ascelle pelose, in tutti gli ambienti. Anche letterari, sì, certo. Infine, un altro appello alla memoria. Quelle famose femministe non si sono mai distratte, in Italia e altrove. Ci sono sempre state anche se non sono sempre state narrate. Dal 1971 hanno rivendicato il diritto di scegliere se essere madri o non esserlo. Femministe di prima, seconda, terza, quarta ondata, settantenni e ventenni, con pratiche che si aggiornano e resistono, anche se nessuno se ne accorge (tranne le donne, evidentemente). Se si vuole citare Atwood, è bene ricordare che la scrittrice ha sempre sostenuto di non aver mai scritto nulla che non sia già accaduto. E che è pronto ad accadere ancora. Q © RIPRODUZIONE RISERVATA

MAURO BIANI

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Un mondo senza epica

Bucha 2022, una donna sulla tomba della figlia uccisa nella chiesa di Sant’Andrea

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FRAMMENTATO. SUPERFICIALE. IL RACCONTO DEL CONFLITTO IN UCRAINA MANCA DI PROFONDITÀ E DI SGUARDO D’INSIEME. E MENTRE TUTTO SI SVOLGE SOTTO I NOSTRI OCCHI, NE SAPPIAMO SEMPRE MENO DIALOGO CON LUCIO CARACCIOLO E ANTONIO SCURATI A CURA DI SABINA MINARDI FOTO DI PAOLO PELLEGRIN


Un mondo senza epica

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rutale, ma decisiva. Dolorosa, ma rivelatrice: la guerra accompagna la nostra civiltà. Però, mentre la tradizione classica considera il combattimento un momento che avvicina alla verità, noi siamo immersi nella nebbia: la guerra in Ucraina è raccontata in modo deviante, senza visione d’insieme né profondità. Condannati a non capirne granché, assistiamo al contrario all’inesorabile messa in discussione di categorie come spazio e tempo, allo sgretolamento dell’idea di Occidente, alla prova da sforzo dell’Europa. Lucio Caracciolo, direttore della rivista Limes e tra i più puntuali osservatori delle mutazioni geopolitiche contemporanee, e lo scrittore Antonio Scurati, che ha appena riaggiornato il saggio “Guerra. Il grande racconto delle armi da Omero ai giorni nostri” (Bompiani), riflettono sulla guerra in corso. Scurati, partendo dall’epica antica, ragiona su archetipi millenari, e sui significati e i valori che la guerra esprime. Quali echi classici ritrova in questo conflitto, e cosa dell’attualità smentisce ciò che della guerra sapeva? Antonio Scurati: «La costante rispetto a una tradizione millenaria di racconto della guerra è l’illusione che si tratti di un momento di verità. Nella tradizione occidentale individuo un paradigma, che risale all’epica omerica e all’Iliade: la guerra è “il paradiso dello spettatore”, un accadimento umano governato, nella narrazione, dal criterio della “piena visibilità”. Gli eroi di Omero, prima di scontrarsi in battaglia, devono essere avvistati, con una tecnica che diventerà una convenzione, la “teicoscopia”, lo sguardo dall’alto delle mura dell’individualità nelle sue caratteristiche distintive. Solo dopo inizia il racconto del conflitto. Questo perché gli eroi pri-

“ Dalla tv e dai social media ho l’immagine di un quadro puntinista di singoli racconti di cronaca. Cronaca dell’orrore. Siamo in piena nebbia” Lucio Caracciolo

Il dialogo integrale è pubblicato sul nostro sito lespresso.it

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ma di uccidere o essere uccisi devono potersi offrire allo splendore della gloria: la piena visibilità li fa riconoscere, in modo che possano brillare anche per un solo istante, ed essere eternati. Se ciò non accadesse morirebbero in maniera anonima, nell’indistinto della mischia. Questa convenzione narrativa porta con sé un enorme bagaglio etico, estetico e metafisico. Nel senso che svela una civiltà che non concepiva una vita dopo la vita. Quella civiltà incentra lo sforzo verso questo istante luminoso, che sarà ricordato dalla posterità. Da ciò discende una tradizione, che ha evidenze anche nel cinema e persino nella teoria militare, che fa sì che in Occidente continuiamo a pensare alla guerra come momento di verità, in cui i contendenti si mostrano nei valori e nelle identità. E i conflitti rivelano, danno la possibilità di comprendere la realtà. Dall’altro lato, sul piano morale noi occidentali europei riconosciamo che questa guerra non ha giustificazioni, nulla di epico. Ma temo che quell’archetipo omerico, in modo inconsapevole, continui a influenzarci». Lucio Caracciolo: «Trovo affascinante l’interpretazione della guerra a partire dal paradigma omerico. Siamo però in ambito poetico e la ricostruzione è successiva agli avvenimenti che si presume siano accaduti sul terreno. La narrazione che noi facciamo oggi è tutto fuorché poetica, ed è una narrazione “in tempo reale”, contemporanea a ciò che ci fanno vedere che accade sul campo di battaglia. Soprattutto, non avendo il privilegio della visione distaccata degli eventi, se leggiamo la guerra così come ci viene raccontata in tv e sui social abbiamo l’immagine di un quadro puntinista in cui non c’è assolutamente né una visione di insieme né tantomeno una profondità. Siamo nelle due dimensioni, ci sono punti come singoli fatti di cronaca dell’orrore, che non riusciamo a

“Nell’universo omerico opera il meccanismo della “piena visibilità”: la battaglia è un evento decisivo, che svela significati e valori” Antonio Scurati


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Foto: Magnum / Contrasto

Zaporizhzhia 2022, volontari realizzano trappole per disabilitare i veicoli nemici

congiungere e che vengono selezionati in base alla capacità di informazione e/o di propaganda delle parti in causa o di chi racconta la guerra. Tutto non al servizio di una rappresentazione dall’alto, e neppure di una rappresentazione dal basso, ma rasoterra, in cui se una persona non ha informazioni precedenti sulle origini, le cause, gli eventi passati, difficilmente riesce a capire qualcosa. Fondamentale nella narrazione è poi la demonizzazione dell’avversario. Sia l’attuale Stato ucraino che lo Stato russo escono di risulta dalla decomposizione dell’impero zarista prima, e dell’unione sovietica poi. La narrazione ignora la complessità, tende piuttosto a demonizzare da una parte dall’altra il nemico, sia l’imperialismo russo che il cosiddetto nazismo ucraino. Mancano tutte le premesse per una narrazione che racconti spiegando, contestualizzando, unendo i puntini. Non possiamo certo pretendere che rinasca Omero, ma il modo in cui stiamo raccontando questa guerra, più di altre, è deviante. E ci lascerà basiti anche davanti al suo esito: perché non spiegato, non previsto. Quale sarà? Non so. Ma non sarà – per usare un termine di Scurati – “decisivo”, perché è una guerra con troppa profondità per risolversi con una campagna militare». Scurati: «Caracciolo usa un termine preso a prestito dalla storia della pittura, “puntinismo”, illuminante. E non è in

contrasto con ciò che dicevo. Nel senso che, durante tutta la modernità, il paradigma omerico della guerra è stato contestato. Penso a Don Chisciotte, romanzo fondativo della modernità europea, che è una parodia dei poemi cavallereschi. O al passo della Certosa di Parma di Stendhal in cui il giovane Fabrizio del Dongo parte alla ricerca di Napoleone, finisce nel mezzo della più grande battaglia di tutti i tempi, Waterloo. Ma in una prospettiva rasoterra, appunto, è talmente frastornato da non capire di trovarsi in battaglia. Cosa accade con la contemporaneità? Prima guerra del Golfo, la notte tra il 18 il 19 gennaio 1991, il paradigma omerico viene riabilitato in maniera surrettizia. Seduti sul divano, a migliaia di chilometri di distanza, abbiamo l’illusione di essere lì perché in quel momento ci viene raccontata la guerra, attraverso immagini poverissime di contenuto informativo - i traccianti della contraerea sul cielo di Baghdad e il corrispondente Peter Arnett nella stanza dell’Al Rashid Hotel che dice: io sono qui, ma di quello che sta accadendo so meno dei miei colleghi nella sede di Atlanta – ma quella diretta genera in noi Sabina Minardi l’illusione della presenza. La narrazione Giornalista della guerra è all’insegna della frammen3 luglio 2022

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Un mondo senza epica

Il corpo di un soldato russo nel villaggio di Moschun, appena liberato, nell’aerea dell’Oblast di Kyiv

tazione. Ma ciò non toglie che il puntinismo dia a noi, guerrieri da salotto, l’illusione della presenza, e della comprensione. Bisogna capire anche quanto sia pregiudicante la demonizzazione dell’avversario. Perché la demonizzazione è reciproca. Pensiamo al paradosso per cui i due contendenti militari si accusano reciprocamente di nazismo, come per gettarsi addosso lo stigma del male assoluto. Ripenso a una delle più importanti teorie politiche della guerra, quella di Carl Schmitt, che distingueva tra “nemici giusti”, ai quali si riconosceva la legittimità a muovere guerra, e l’inimicus in senso ampio, cui non si riconosceva alcuna legittimità: potevi solo sterminarlo o essere sterminato. In questa guerra ci sono solo nemici. Da distruggere». Ma tutto ciò è inevitabile? O c’è un modo per favorire la comprensione, oltre le demonizzazioni reciproche? Caracciolo: «La demonizzazione non è un’invenzione di oggi, è uno schema che legittimamente appartiene alla propaganda, e la propaganda è parte della guerra. Solo che chi è chiamato a narrare la guerra dovrebbe avere la capacità di mettere da parte le sue antipatie e fare un passo indietro. Altrimenti si va da ciò che Scurati chiama piena visibilità alla piena invisibilità. Noi oggi siamo in piena nebbia della guerra. C’è poi altro che non favorisce la comprensione: ed è il 44

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diverso senso del tempo e dello spazio. Le guerre russe sono sempre state concepite a partire da una idea del tempo e dello spazio completamente diverso da quello delle potenze occidentali. Per informazioni rivolgersi a Napoleone, il quale dopo aver inseguito l’esercito russo fin dentro le mura del Cremlino aspetta vanamente che Alessandro I gli comunichi i termini della sua resa, e costui non gli comunica alcunché. Segue disastrosa ritirata, solo perché Napoleone aveva una fretta maledetta di concludere la guerra, portando a casa gloria e successo. Sia il popolo russo sia quello ucraino hanno un’idea del tempo e dello spazio molto più dilatati rispetto alla nostra. Questo mi porta a riflettere su una categoria che noi usiamo in maniera un po’ automatica, Occidente. Se c’è qualcosa che emerge da questa guerra è che il termine “Occidente” non rappresenta più molto. Se vogliamo confrontare lo spazio canonico che rappresentava durante la guerra fredda, il Nord America e l’Europa, c’è una differenza di approccio già riguardo al tempo. Banalmente: i nostri governanti firmerebbero qualunque foglio di carta per far finire la guerra, per gli americani questa deve essere una guerra che punisce la Russia e forse la distrugge una volta per tutte. L’Occidente è un corpo plurale di soggetti che stanno perdendo quello che immaginavano li unisse».


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Foto: Magnum / Contrasto

Borodyanka 2022, uno dei luoghi più distrutti dell’Ucraina, e per gli osservatori internazionali una gigantesca scena del crimine

Scurati: «C’è anche un diverso valore attribuito alla vita umana individuale e un diverso rapporto con la violenza. Noi europei d’Occidente avvertiamo Putin come il nemico della nostra civiltà. L’ipotesi stessa che si possa invadere militarmente un Paese ce lo fa sentire come nemico. Ma anche la disponibilità degli Stati Uniti a inserire questo conflitto nella loro strategia geopolitica, ci risulta estranea. Questo “noi” non si estende sulle due sponde dell’Atlantico ma è molto più circoscritto, abbraccia le nazioni dell’Europa continentale ma probabilmente non arriva neanche fino alla Gran Bretagna. E non sono solo le strategie che non coincidono più, ma anche i valori: siamo più un solo popolo». È il futuro dell’Europa, che la guerra sta denudando. Scurati: «Dell’Europa vanno ripensati i confini, e non nel senso di continuare ad allargarli ma di rimettere in discussione gli allargamenti degli ultimi decenni. Non può esserci unità politica se non all’interno di una comunità di interessi e di valori. Non può esserci unità politica europea senza una forza militare autonoma. E questa comunità di interessi non può estendersi oltre l’Europa a 17, a 13?… non l’Europa a 27». Caracciolo: «Su dove passino i confini europei resto dell’idea che dobbiamo affidarci all’acume di Giulio Cesare e di Ottaviano Augusto, che avevano stabilito la frontiera roma-

na tra i fiumi Reno ed Elba, il confine che separava le due Germanie nella guerra fredda. L’ideologia di Putin cammina guardando indietro. Lui non sta facendo altro che riportare la Russia dove doveva stare. Quando ricorda la grande guerra del nord di Pietro il Grande, 1700-1721, non fa solo riferimenti geografici. Dice che sarà una guerra lunga, in continuità con altre con gente etnicamente, culturalmente russa». Scurati: «Cosa dovremmo fare noi? Rafforzare questo “noi”. Guardo con stupore a chi vorrebbe avviare una procedura per l’ingresso dell’Ucraina nell’Europa: sanno quello che fanno? Non dovremmo invece avviare una procedura per estromettere dall’Europa l’Ungheria, la Polonia e quei Paesi che non condividono i principi fondamentali del trattato?». Caracciolo: «Non credo che la proposta possa essere realizzata in tempi visibili: siamo la parte di mondo più intrisa di identità, culture nazionali e subnazionali. Una delle poche cose positive della guerra è il ricordarci la fortuna di cui godiamo: di vivere in un sistema di libertà e di diritti incommensurabilmente superiori a chi è in un regime, in cui per dire ciò che pensa deve bisbigliare. Teniamolo presente. Non per entrare in una logica di guerra tra democrazia contro tutti, ma per essere consapevoli del privilegio che abbiamo». Q ©RIPRODUZIONE RISERVATA

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LA FRONTIERA D’EUROPA È NEL DESERTO IL MAROCCO È LA NUOVA LIBIA, PONTE VERSO IL CONTINENTE. MA LE MILIZIE PAGATE CON I FONDI UE BLOCCANO I FLUSSI GIÀ NEL SAHEL DI BIANCA SENATORE DA OUJDA (MAROCCO)

Un paio di infradito, lasciate da un migrante nel deserto vicino al confine tra Algeria e Libia

Foto: A. Jadallah – Reuters / Contrasto

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o provato a scalarlo varie volte quel muro di ferro alto 9 metri, ma venerdì ho rinunciato e forse mi sono salvato la vita». A Nador, città portuale sulla costa del Marocco, a due passi dall’enclave spagnola di Melilla, ha piovuto per qualche minuto. Per questo, l’incontro con Makan, 22 anni e originario della Nigeria, si svolge in un bar al chiuso. È scosso per la morte di 37 migranti che venerdì 24 giugno hanno provato a scavalcare il muro. Sono precipitati, sono stati picchiati, alcuni sono morti soffocati. E ora la sezione di Nador dell’Association marocaine des droits humains chiede che si apra un’indagine seria per l’accaduto. È la prima volta da anni che accade una tragedia simile e forse non è un caso. Il vicepresidente, Omar Naji ci aveva accompagnato in macchina lungo la barriera di metallo, solo poche ore prima che si scatenasse l’inferno. Ed è proprio da Nador, dalle coste del Mediterraneo, che abbiamo

imboccato la rotta dei migranti per arrivare fino al deserto algerino. E vedere cosa succede, quali sono gli effetti della crisi del grano bloccato in Russia e se ci sono davvero indizi di un incremento dei flussi verso l’Europa. Lungo la strada da Nador verso Oujda, nonostante il caldo, ci sono gruppi di uomini e donne che camminano per arrivare al mare. E ci sono bimbi che giocano a calcio. «Sono tutti minori non accompagnati, ma non ci sono abbastanza fondi per gestirli tutti, sono aumentati negli ultimi mesi», spiega il volontario che ci accompagna. Il Marocco, infatti, di recente è diventato meta di un gran flusso di migranti sub-sahariani, molti più di prima, perché le rotte desertiche verso Tripoli sono diventate troppo rischiose. Il Marocco potrebbe diventare la nuova Libia. A confermarlo è Jamila Berkau, responsabile del progetto Afrag. A Oujda si occupa della prima assistenza ai migranti che arrivano. La cittadina è solo a pochi km dal confine algerino ed è diventata molto 3 luglio 2022

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Le conseguenze della guerra / Le rotte dei migranti povera da quando la frontiera tra i due Paesi è stata sbarrata. Mentre prima viveva di commercio e turismo, oggi vive di mercato nero e traffici illeciti, anche di esseri umani. I migranti arrivano a piedi lungo il deserto, dopo un viaggio di mesi e mesi, come Aminata, arrivata con i figli dalla Guinea Bissau. «Mi hanno stuprato due volte e tutte e due le volte sono rimasta incinta», sussurra. Il frutto della sua violenza ha il volto di un bimbo di nove mesi che tiene in braccio con amore. «Hanno abusato di me la prima volta a casa mia, perché c’è una guerra etnica e la mia tribù dicono sia malvagia, l’ultima volta è stata in Niger». Hanno ucciso gran parte della sua famiglia e non sapeva cosa fare. Insieme a lei, nella stanza dell’’associazione Afrag c’è anche Zalika, arriva dal Mali. Durante il suo viaggio verso il Marocco è stata torturata e picchiata così tanto che all’arrivo i volontari hanno dovuto portarla in ospedale. È ancora sotto shock. Nonostante il caldo, si avvolge e si nasconde dentro un pile rosa. Quando era a poche miglia dal Marocco, un gruppo che si è spacciato per attivisti si è fatto pagare per portarla in un centro. Peccato però, che il centro fosse finto e che arrivata lì le abbiano chiesto altri soldi prima di rispedirla, come un pacco, indietro nel deserto. Non parla molto ma racconta di aver pianto tanto. Ora fa ancora fatica a sentirsi al sicuro. Ha solo 17 anni. Mentre parla, arrivano quattro uomini, anche loro giunti da poco. Jamila li fa accomodare nella stanzetta. «Ormai la rotta più battuta verso l’Europa è quella che attraversa Ciad, Niger, Algeria e Marocco», spiegano i ragazzi. Arrivano rispettivamente da Sud Sudan, Camerun e Nigeria. Durante il cammino, hanno incontrato trafficanti di uomini e milizie che li hanno derubati e picchiati. «Alcuni dei ragazzi che erano con noi sono stati uccisi, altri sono morti di sete. Altri ancora, invece, sono stati feriti e abbandonati nel deserto a dissanguarsi ed essiccarsi», racconta David. I loro volti dicono più delle parole. Sono stati dissetati e nutriti dall’associazione che ha dato loro anche vestiti nuovi e puliti. Ma i segni delle sofferenze li portano addosso, come una patina trasparente ma percettibile. Dai discorsi si intuisce che c’è qualcosa che non rivelano con chiarezza. Chi vi ha respinto in Ciad e Niger?, proviamo a chie48

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L’ACCOGLIENZA Jamila Berkau, referente del progetto Afrag di Oujda. In alto, migranti subsahariani attraversano il deserto tra Ciad, Niger e Algeria per poter arrivare in Marocco

dere. «Gruppi paramilitari pagati dal governo, ma con i soldi dell’Unione europea», spiega David. Interviene Jamila Berkau a chiarire, mentre i ragazzi temono di essersi esposti troppo e Aminata si agita. «Il Niger e il Ciad ricevono soldi dall’Italia provenienti dal Fondo Africa. E i governi locali impiegano quei fondi per pagare milizie che respingono i migranti», dice Jamila: «Ma lo fanno con ogni mezzo, cioè quasi sempre con brutalità». Si chiamano accordi soft, cioè accordi che non seguono il classico iter normativo, vengono siglati da diversi organismi e agenzie e soprattutto non vengono pubblicizzati. In questo modo, l’Unione Europea esternalizza le sue frontiere, allarga sempre di più i suoi confini, affinché meno persone possibile riescano ad accostarsi alle coste del Mediterraneo. Ma a che prezzo? «La verità è che noi non vogliamo andare via dalle nostre case, ma se c’è la guerra, c’è il terrorismo, veniamo massacrati, viviamo nel terrore, cosa possiamo fare?». Oluwa, 24 anni, ha studiato lingue e letterature europee: «È un istinto scappare, mettersi al sicuro, salvaguardare la propria specie, la stirpe o semplicemente la propria famiglia. Non fareste lo stesso?». La domanda resta nell’aria, come una freccia prima di colpire il punto dolente. L’Europa respinge, non ac-


Foto: B. Senatore

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coglie i profughi che arrivano da una certa parte di mondo e spende milioni e milioni in armamenti, mentre una parte dell’Africa non ha più cibo. Qualche giorno fa il Programma alimentare mondiale dell’Onu ha annunciato che sospenderà gli aiuti alimentari in Sud Sudan, perché non ci sono più fondi. Proprio ora che, tra grano bloccato e cambiamenti climatici, l’Africa rischia la più grande crisi alimentare di tutti i tempi. «La maggior parte dei Paesi africani dipende dal grano russo», racconta Fatima, volontaria di un’associazione per lo sviluppo dell’Africa: «Il Senegal dipende per il 66 per cento, la Somalia per il 70, la Tanzania per il 64, il Sudan per il 75, la Repubblica Democratica del Congo per il 69. E poi c’è chi dipende al 100 per cento dal grano russo, come per esempio il Benin. L’Africa dimostra tutta la sua grande fragilità con questa forte dipendenza dalle produzioni del nord del mondo». Gli effetti della crisi alimentare non si vedono ancora, eppure i ragazzi che ho incontrato hanno raccontato che nelle ultime settimane c’è un fermento insolito nelle chat Telegram dei rispettivi Paesi. «Ci sono tantissime richieste di persone che vogliono partire e chiedono aiuto e suggerimenti», raccontano i ragazzi. Aminata conferma. Ormai in molte aree non c’è più cibo, non c’è

IL MURO DI MELILLA Omar Naji, vice presidente dell'Association marocaine des droits humains al porto di Nador. In alto, il muro di Melilla

acqua e i prezzi sono diventanti insostenibili per chiunque. «Arriveranno molte persone», ammette Fatima. Mentre si sventola con un quadernetto, guarda in alto a sinistra e riflette: «Vedremo i primi segni di un flusso intenso tra settembre e ottobre e ci saranno molti più arrivi verso l’Europa. Non solo verso la Spagna. Ci saranno più partenze anche via mare». Sarà una manna per i trafficanti di uomini, per i contrabbandieri e per chi fa affari con l’Ue. Dopo che l’ultimo dei ragazzi è andato via, ci rimettiamo in cammino per arrivare nel deserto. Da Oujda verso Ain Sefra, al di là del confine algerino, lungo rotta che conduce nel Sahel, attraverso la valle del Saoura e del Tuat. La strada è impervia, desolata com’è ovvio che sia una strada nel mezzo del deserto e in alcuni tratti non c’è che la linea dell’orizzonte, tremolante per il caldo. A circa una trentina di km da Oujda, la guida si ferma e mostra un angolo di sabbia. «Questo lo chiamano il punto zero, perché è ormai la fine del viaggio e i migranti sanno che la città è vicina. Di solito si fermano qui, piangono e pregano per esser arrivati ormai a pochi km dalla meta. Vivi». Ma lo chiamano il punto zero anche per un altro motivo. È proprio qui che Marocco e Algeria, abbandonano i migranti che vengono respinti, invitandoli a imboccare la strada nel verso opposto. Andando verso sud, c’è un gruppo in cammino. Alcuni sono scalzi ma hanno maglie a maniche lunghe e foulard o cappucci in testa, per ripararsi dal sole. Con loro c’è anche una ragazzina, è ferita in volto, l’hanno colpita dei trafficanti che volevano tenersela come schiava. È stato solo un caso che non ci siano riusciti. Mentre erano fermi al checkpoint improvvisato, tra due Toyota bianche a sbarrare il cammino, è arrivato un furgone a tutta velocità, per forzare il blocco. Gli uomini lo hanno rincorso e hanno lasciato libero il gruppetto. Il destino ha voluto che Nyamey arrivasse fino al confine con il Marocco. Giunti a una sessantina di chilometri da Oujda lungo il deserto, andare oltre diventa rischioso. È tempo di tornare indietro, al punto di partenza. A Nador si scavano le buche per seppellire i cadaveri dei migranti morti nel tentativo di superare la barriera di Melilla. Senza identificarli, senza nessuna pietà. Q © RIPRODUZIONE RISERVATA

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Le conseguenze della guerra / Effetto Putin

SENZA I RUBLI GLI OLIGARCHI FUGGONO, I RESIDENTI CON DOPPIA CITTADINANZA SCAMBIANO IN NERO. IL TURISMO LANGUE. VIAGGIO NELL’ISOLA STRETTA TRA UE E SANZIONI

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l manuale di sopravvivenza alle sanzioni contro la Russia si riassume in tre punti. Ekaterina li passa in rassegna sulla punta delle dita: su Telegram si accede al mercato nero per scambiare euro e rubli; Serbia e Georgia sono i Paesi dove fare scalo per raggiungere la madrepatria ora che i voli sono interrotti; e se il proprio conto bancario è stato congelato c’è una rete di avvocati a cui rivolgersi per chiederne lo sblocco. «Vale solo per i cittadini la cui colpa è avere il passaporto russo: gli oligarchi hanno imparato dai tempi della guerra in Crimea a proteggere il patrimonio dalle sanzioni» commenta la donna. Alle sue spalle le palme battute dal vento e da temperature che sfiorano i 40 gradi indicano che il fronte della guerra è lontano, anche se le conseguenze del conflitto non hanno tardato a manifestarsi pure a Limassol, seconda città di Cipro. Sul lungomare tanti indizi provano come la fama di «Mosca del Mediterraneo» di cui si fregia la città sia più che meritata. Le scritte a caratteri cirillici sulle insegne dei chioschi, i motoscafi dai nomi come «Sputnik» e «Kirill», le cassiere nei supermercati che annunciano il conto in russo, contribuiscono all’estraniante sensazione di essere in una località balneare affacciata sul Mar Nero, più che sul Mediterraneo. Con la sua comunità di 50mila espatria-

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ti, Limassol rappresenta un monumento all’amicizia tra la piccola isola e il gigante russo: per decenni, infatti, Cipro ha coltivato un rapporto esclusivo con gli investitori e i turisti del lontano Paese. Ora però che lo Stato membro dell’Unione europea si è unito alla politica di sanzioni contro Mosca, le sorti della comunità e dell’economia locale abituata a fare affidamento su di essa si ritrovano appese a un filo. «Come faremo senza i russi?», è la domanda che serpeggia tra i vicoli del bazar, mentre i residenti con la doppia cittadinanza, stretti tra le sanzioni europee e le limitazioni imposte dalla madrepatria, si interrogano sul proprio futuro. «Molti di noi hanno avuto il conto congelato dalle banche cipriote in via precauzionale» racconta Ekaterina S. emigrata da San Pietroburgo dieci anni fa e proprietaria oggi di un ristorante, che accetta di figurare solo con il suo nome. «I più fortunati invece hanno trasferito i soldi in altri Stati, come la Bulgaria, e valutano di andarsene». Per far fronte al blocco dei trasferimenti monetari tra i due Paesi, in tanti si affidano al mercato nero di Telegram. «Vendo 100mila euro per rubli» legge ad alta voce la donna Elena Kanadiakis scorrendo i messaggi di un Giornalista gruppo, «Euro in cam-

Foto: Y. Kourtoglou - Reuters / Contrasto

DI ELENA KANADIAKIS DA LIMASSOL


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CIPRO MUORE

Residenti russi a Nicosia festeggiano la festa nazionale con le loro bandiere

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Le conseguenze della guerra / Effetto Putin bio di rubli, massima urgenza» recita un altro annuncio. Nelle settimane successive all’invasione dell’Ucraina, un drappello di persone ha sfilato sul lungomare in solidarietà con la madrepatria. Poi la comunità si è chiusa nel silenzio. La stazione radio più popolare, Russian Wave, continua a mandare in onda le canzoni delle popstar amate da Mosca, ma si rifiuta di lasciare commenti. Stessa scelta per Vestnik Kipra, l’organizzazione culturale che stampa il giornale a caratteri cirillici dell’isola, mentre il Festival della cultura russo-cipriota che, come ogni anno, avrebbe dovuto animare la città è rimandato a data da destinarsi. «È stato uno shock: fino a un momento fa eravamo benvoluti, e ora veniamo trattati come la pecora nera della

“COME FAREMO SENZA I RUSSI?” A RIEMPIRE GLI ALBERGHI CI SONO I RIFUGIATI UCRAINI. “QUI CONVIVEVAMO SERENI ORA È TUTTO PIÙ DIFFICILE” famiglia. Eppure, abbiamo la cittadinanza cipriota e quest’isola è la nostra casa» commenta Ekaterina. Molte foto in bianco e nero esposte in vendita tra le cianfrusaglie del bazar di Limassol raccontano il legame che unisce l’isola di Afrodite a Mosca. Cartoline sbiadite con giovani in posa nella Piazza Rossa testimoniano di quando l’influente partito comunista cipriota, istituito a Limassol e tutt’ora seconda forza politica, aveva alimentato lo scambio culturale tra i due Paesi. Poi, con il crollo dell’Unione sovietica, il rapporto è stato consolidato: l’isola si è fatta benvolere grazie alla concessione di agevolazioni fiscali, e quando a seguito della crisi del debito greco la banca di Cipro è collassata, molti risparmiatori russi sono stati incentivati a investire i loro fondi superstiti nel mercato immobiliare. A fare la differenza, però, sono stati soprattutto i «passaporti d’oro». Grazie a un’iniziativa del governo, poi bloccata nel 2020, i cittadini che investivano più di 2 milioni e 52

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NEI BAR Due uomini d’affari russi fumano in uno dei locali della costa

mezzo di euro nell’isola potevano ottenere la cittadinanza cipriota, e quindi un passaporto europeo, per sé e per la propria famiglia. I beneficiari del programma sono stati quasi 7mila, e di questi la metà erano russi. «Tutto è possibile: qui siamo a Cipro» assicuravano i politici ignari di essere filmati nell’inchiesta di Al Jazeera che due anni fa ha costretto il governo a interrompere il programma rivelando come molti passaporti venissero venduti illegalmente. Secondo la Commissione indipendente istituita per indagare sullo scandalo, infatti, un terzo dei beneficiari aveva ottenuto il passaporto pur non avendo i prerequisiti necessari. Da allora, il governo dell’isola si è detto pronto a fare chiarezza e ha ritirato i documenti di 39 persone; poi, nell’aprile scorso, quattro oligarchi presi di mira dalle sanzioni di Bruxelles come Alexander Ponomarenko, presidente del consiglio di amministrazione dell’aeroporto di Mosca, si sono visti revocare la cittadinanza cipriota. A ulteriore conferma che il conflitto in Ucraina ha sbaragliato le carte, la quarta banca dell’isola, la Russian Commercial Bank, posseduta per metà, fino all’inizio del conflitto, dalla banca russa Vtb, ha cessato le operazioni finanziarie. Mentre le truppe russe avanzavano in Ucraina il ministro delle Finanze Constantinos Petrides ha assicurato che le banche cipriote non avrebbero subito contraccolpi, ma la Russia rimane il principale partner economico del Paese, responsabile di oltre il 25% degli investimenti esteri. Basta aggirarsi sul lungomare per notare i primi effetti di


Foto: Y. Karahalis - Reuters / Contrasto (2), M. Papadopoulos - Contrasto

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questa dipendenza: gli uffici di commercialisti e avvocati abituati a trattare con la clientela russa hanno chiuso i battenti, e il celebre cartello con scritto «Limassolgrad», il soprannome della città, dondola di fronte agli uffici dismessi di un’agenzia immobiliare. Prima che i voli tra i due Paesi venissero interrotti, i turisti in arrivo da Mosca erano i secondi, per numero, dopo gli inglesi e soprattutto i più bendisposti a spendere. Oggi sulle navette in percorrenza del lungomare, dove le fermate prendono i nomi dei resort che riempiono l’orizzonte, molti posti rimangono vuoti. «Solo i russi erano capaci di lasciare 100mila euro in un colpo solo», commenta Marinos Dimitriou, gioielliere, mentre espone in vetrina un orologio di lusso resistente all’acqua: «Dubito che quest’estate riuscirò a venderlo». Secondo il governo l’isola è destinata a perdere, a causa del mancato arrivo dei russi, oltre 600 milioni di euro. «Per noi è una beffa: i turisti a cui impediamo di visitare l’isola andranno nella vicina Turchia, il Paese che da quasi cinquant’anni occupa la parte nord di Cipro», commenta Haris Theocharous, presidente dell’Unione degli albergatori di Limassol. «Siamo solidali con l’Ucraina ma la nostra piccola isola sta pagando un prezzo sproporzionato rispetto ad altri Paesi europei». A riempire gli alberghi, nei primi mesi, sono stati soprattutto i rifugiati ucraini. Nella campagna intorno alla capitale Nicosia, cinque cupole dorate importate da San Pietroburgo sfavillano sotto al sole. Costrui-

VITA QUOTIDIANA Il lungomare deserto, le scritte in cirillico, lungo le strade

ta grazie ai finanziamenti di un magnate, la Chiesa ortodossa dedicata a Sant’Andrea e ai santi russi è un punto di ritrovo per la comunità slava dell’isola. Padre Isaiah si aggira tra le famiglie arrivate da Kiev che giocano sul sagrato e dispensa generose benedizioni. «Prima della guerra nessuno faceva distinzioni tra i russi e gli ucraini: pregavamo tutti nella stessa lingua. È quello che cerchiamo di continuare a fare, ma più si prolunga la guerra più sarà difficile» ammette. Mentre gli abitanti dell’isola si interrogano sulla durata del conflitto, trovare un appartamento libero a Limassol è sempre più difficile. Dall’inizio della guerra più di 20mila persone sono arrivate nell’isola: rifugiati ucraini ma anche dipendenti di aziende russe con sede a Cipro, che stanno facendo trasferire qui i loro impiegati. A riprova che il futuro dei rapporti con l’antico alleato è ancora da scrivere. «L’isola conta già su altri investitori, come i libanesi e gli israeliani, ma i russi erano quelli più stabili, interessati a finanziare progetti a lungo termine come università e ospedali» spiega Pavlos Loizou, amministratore di Wire, società di analisi di dati immobiliari. «Qualcuno prenderà il loro posto? È troppo presto per dirlo». Così, mentre a largo di Limassol le navi da crociera solcano il mare, la piccola isola attraversata nei secoli da Veneziani, Templari e Inglesi attende di scoprire quale sarà il prossimo forestiero a sbarcare, armato di progetti ambiziosi e soprattutto di moneta sonante. Q © RIPRODUZIONE RISERVATA

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Germania

SE SI FERMA LA LOC L’ECONOMIA TEDESCA È IN CRISI. DIPENDENTE DAL GAS RUSSO E DALL’IMPORT DI MATERIE PRIME RISCHIA DI FINIRE IN RECESSIONE. CON CONSEGUENZE GRAVI PER TUTTA EUROPA DI EUGENIO OCCORSIO 54

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roprio nel momento del maggior bisogno, in Europa si è guastata la locomotiva. La Germania, il Paese economicamente più potente del continente, guida e riferimento per l’intera Unione Europea che su di esso tradizionalmente conta per un salvifico effetto-traino, sta dando inquietanti segni di debolezza economica. Una raffica di eventi, dalle difficoltà delle forniture del post-Covid fino adesso alla guerra in Ucraina, ne stanno minando la solidità. La Germania è il Paese di gran lunga più dipendente da Mosca per le forniture energetiche, molto più dell’Italia: pochi giorni fa Tom Krebs, economista dell’università di


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Foto: Mauricio Palos / Bloomberg via Getty Images

OMOTIVA GERMANIA Mannheim e ascoltato consigliere del ministro delle Finanze, il liberale Christian Lindner, ha quantificato in 429 miliardi di euro la perdita per il Paese nel caso di blocco totale delle forniture di gas russo. È quanto Mosca minaccia apertamente, e sempre che non sia l’Europa a decretare l’embargo - potrebbe realizzarsi da un giorno all’altro come ritorsione all’eventuale introduzione del price cap oppure come “vendetta” se davvero, come è nei programmi, scatterà da fine anno il blocco degli acquisti dell’“altra” fonte cruciale, il petrolio russo. La cifra avanzata da Krebs è pari al 12% del Pil tedesco: «Significherebbe precipitare in una crisi peggiore del crack finan-

ziario nel 2009 e del blocco pandemico nel 2020», ha detto a scanso di equivoci Krebs. «Tutti i settori industriali soffrirebbero pesantemente, con importanti interruzioni della produzione: auto, chimica, metalli, meccanica, vetro, ceramica». Insomma tutte le componenti più smaglianti del miracolo tedesco di questi anni. La riduzione del Pil potrebbe arrivare al 6,5%: visto che la crescita oggi è appena superiore al 2% con forti tendenze al ribasso, significherebbe andare in negativo probabilmente per più anni. Già oggi la situazione non è rosea. Il Fondo Monetario nel suo outlook di fine aprile (che considera la guerra ma non il taglio al gas) ha rivisto al ribasso le previsioni: il Pil tedesco crescerà del 2,1% nel 2022,

SUPREMAZIA Una linea di produzione della Bmw. La supremazia tedesca nel settore automotive rischia di essere messa in discussione

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Germania l’1,1% in meno di quanto previsto in gennaio e meno della media dell’area euro (2,8%). La revisione al ribasso è peggiore di quella dei partner: la differenza in negativo rispetto alle stime precedenti è dello 0,8 nella media dell’eurozona. Si approfondirebbe persino il divario con l’Italia, accreditata dall’Fmi di una crescita del 2,3% per quest’anno dopo il risultato record del 6,6% del 2021 contro il 2,8 tedesco (peggio del 5,8% di media dell’eurozona). Cosa succede a Berlino? «Il fatto che nel 2021, l’anno della grande ripresa della maggior parte delle economie, la Germania abbia marciato con il freno tirato, non abbia insomma distaccato tutti i partner come era solita fare all’uscita da ogni crisi - osserva Andrea Boitani, ordinario di Economia politica alla Cattolica di Milano - indica un elemento di fondo: il modello basato sull’export industriale che tanta fortuna ha portato ai tedeschi negli ultimi trent’anni, si è rivelato sorprendentemente debole e insufficiente. Come peraltro rilevano molti economisti tedeschi, che non si stancano di chiedere una maggior diversificazione». Non bastano produzioni manifatturiere al più alto livello in grado di imporsi su ogni mercato: «Di fatto la forte dipendenza dalle esportazioni - spiega Boitani - rende da un lato esposti alle forniture di materie prime e semilavorati che nella laboriosa uscita dalla crisi Covid già andavano a corrente alternata, pensiamo solo alle componenti elettroniche cinesi. E dall’altro lato le correnti di export si sono scontrate con la perdurante recessione in molti dei Paesi acquirenti oltre che con tutte le strozzature nella catena delle forniture connesse anch’esse con la caotica uscita dalla crisi del coronavirus». Con la guerra la situazione è precipitata: la crisi sta nuovamente allargandosi a livello mondiale, e per la Germania è entrato prepotentemente in gioco il fattore-dipendenza dalla Russia. In questa che gli economisti chiamano “policrisi” si interseca una fitta serie di fattori negativi: «Intanto la dipendenza dal settore industriale, pari al 25% dell’economia - contro il 17% dell’Italia, ancora meno per Francia e Stati Uniti - si rivela un’arma a doppio taglio: benissimo quando il mondo marcia a pieni giri, deleterio quando la globalizzazione arranca e la balcanizzazione del pianeta avanza», commenta Brunello Rosa, 56

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SOSPESO La stazione di arrivo in Germania del gasdotto Nord Stream 2. L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia ha costretto la Germania a rinviare l’apertura dell’impianto

docente alla London School of Economics. In altri Paesi la struttura dell’economia è più articolata, dai servizi turistici dell’Italia ai consumi privati dell’America, e questi settori sostengono le rispettive economie nelle fasi di magra dell’industria. «C’è ancora - riprende Rosa - un punto dolente: la Germania in tutti questi anni di splendore ha accumulato, per una malintesa politica di parsimonia, surplus di bilancia dei pagamenti che avrebbero dovuto essere invece investiti in infrastrutture per rendere l’economia più elastica e pronta a tollerare momenti difficili». Ancora un altro aspetto riporta al discorso del gas: «Per la sua struttura produttiva la Germania è tremendamente “energivora”, però non ha potenziato a sufficienza né le fonti rinnovabili, che pure esistono, né la differenziazione dei mercati di approvvigionamento». Il Paese è rimasto insomma dipendente dal gas russo - all’inizio della guerra era il 55% del fabbisogno tedesco contro il 40% dell’Italia - anzi voleva esserlo ancora di più visto che per potenziare le forniture ha addirittura raddoppiato il gasdotto Nord Stream che dalla Russia porta il gas direttamente nell’area industriale di Brema-Amburgo: il raddoppio (da 10 a 20 miliardi di metri cubi di gas l’anno) è appena stato ultimato, ma Berlino l’ha bloccato all’inizio della guerra con il risultato di far


Foto: Krisztian Bocsi / Bloomberg via Getty Images, Thomas Trutschel / Photothek via Getty Images

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innervosire ulteriormente i russi che invece ci vedevano un segnale molto positivo di Ostpolitik. Anche i tedeschi, che della coltivazione di un rapporto privilegiato con Mosca avevano fatto un punto d’onore di politica estera (Angela Merkel è nata nella Ddr, l’attuale cancelliere Olaf Scholz è socialdemocratico come Gerhard Schroeder, l’artefice del Nord Stream 2) erano assai ben disposti, e infatti fino all’ultimo hanno tentato la via del dialogo a guerra cominciata: ma la scellerata continuazione dell’insensato conflitto di Putin e ha giocoforza imposto la chiusura di ogni ponte. E proprio per questo ora Putin si accanisce con i tagli unilaterali che in certe giornate portano alla riduzione fino al 60% delle forniture di gas a Berlino. In queste condizioni, alla Germania non resta che far marciare a pieni giri sia le centrali a carbone che aveva in programma di chiudere (contando appunto sul maggior gas che sarebbe arrivato con il Nord Stream 2) sia le tre centrali nucleari rimaste in servizio: Emsland in Bassa Sassonia, Isar 2 in Baviera e Neckarwestheim 2 nel Baden-Württemberg. Tutte dovevano essere “rigorosamente” chiuse entro il 31 dicembre 2022 a quanto aveva promesso la nuova ministra verde per l’Ambiente, Steffi Lemke, all’insediamento del governo nello scorso dicembre. Ora le chiusure sono sta-

CANCELLIERE Il cancelliere tedesco Olaf Scholz. Il governo di Berlino è fra i più cauti in Europa nel decidere le sanzioni contro la Russia di Vladimir Putin

te tutte posticipate sine die, con buona pace della lotta al cambiamento climatico. La dipendenza dal gas sta lentamente scendendo ma è ancora intorno al 35-40% e prima del 2024 non sono previsti significativi miglioramenti. «Serviranno anni prima che venga riorganizzata tutta la struttura energetica tedesca», conferma Daniel Gros, economista tedesco con PhD a Chicago e lunga esperienza nei centri studi comunitari. «Ora finalmente - spiega Gros - è partita la marcia verso la diversificazione con l’acquisto di tre rigassificatori flottanti da posizionare nel mare del Nord, dove sono già in funzione pozzi off-shore sia di petrolio che di gas che si sta cercando di valorizzare, e c’è anche un discreto potenziale di energia eolica». In ogni caso, ci tiene a puntualizzare Gros, «l’economia tedesca è abbastanza forte da reggere anche una non catastrofica recessione, che è quanto potrebbe capitare». Ma le sorprese non sono finite. L’Ocse sta preparando un rapporto sull’economia tedesca che sarà pubblicato in ottobre. «Stanno emergendo alcune inaspettate carenze», ci anticipa Andrew Wyckoff, già economista alla US National Science Foundation e oggi direttore per le scienze, la tecnologia e l’innovazione dell’Ocse, che sta coordinando la ricerca. Wyckoff, che nei giorni scorsi è venuto a Venezia per il convegno dell’Aspen sull’intelligenza artificiale, spiega: «Se la Germania riuscisse ad utilizzare appieno in modo funzionale ed efficace le innovazioni tecnologiche oggi disponibili, come le sofisticate applicazioni del “machine learning”, il suo Pil sarebbe più alto del 25-30%». Intendiamoci, precisa subito, «la manifattura tedesca, a partire dalle auto, è sempre di qualità eccelsa. Però, parlando ad esempio proprio delle auto, c’è come un pregiudizio nel lanciarsi anima e corpo sulle tecnologie diverse dal motore a scoppio dove la Germania ha una consolidata leadership mondiale». Non a caso sono state proprio le case tedesche a chiedere all’Ue di ritardare dal 2035 al 2040 il limite previsto per la cessazione delle vendite di macchine a benzina. Il rischio è la perdita della più classica delle supremazie commerciali, che potrebbe finire nel museo dalla politica industriale del XX secolo. Q © RIPRODUZIONE RISERVATA

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L’analisi di FEDERICA BIANCHI

La crisi della globalizzazione paralizza il liberismo europeo

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e è stata la guerra l’incubatrice dell'Unione europea, è la globalizzazione che l'ha resa adulta. Negli ultimi trent'anni la Ue è diventata un colosso commerciale: il più grande mercato unico al mondo, con l'economia più aperta del globo. Fondata sul libero commercio, nella convinzione che vantaggiosi rapporti economici reciproci avrebbero garantito la pace, dentro e fuori i suoi confini, l'Unione ha stretto in tre decenni 45 accordi commerciali con oltre 70 Paesi.

Ma da tre anni i suoi 27 membri non ratificano più nulla. L'ultimo accordo è stato quello con il Vietnam del 2019. Poi la stasi. Che, non a caso, ha coinciso esattamente con l'inizio della fine della globalizzazione così come l'abbiamo conosciuta fino ad oggi. Paradossalmente, i calamai dell'inchiostro europeo si sono svuotati proprio quando il resto del mondo ha accelerato la ricerca di nuove forme di accordo. La Serbia ha appena siglato un accordo con la Cina, gli Stati Uniti di Joe Biden si sono inventati l'"Indo-Pacific economic framework" per gli alleati asiatici, dopo l'uscita dal Tpp, Trans-Pacific partnership, voluta da Donald Trump. Ma, neonata sul piano politico, per non parlare di quello militare,

l'Unione, senza i suoi muscoli da economia adulta, mette a rischio futuro e prosperità. Non che Bruxelles non ci abbia provato a perseverare sulla strada del libero commercio. Prima con il Ceta, l'accordo con il Canada, entrato provvisoriamente in vigore nel 2017 pur non avendo ancora ricevuto la ratifica definitiva. Poi con l'accordo con il Mercosur, sospeso da anni, e con l'intesa con l'Australia, franata a pochi metri dal traguardo. Infine l'anno scorso con il Cai, l’accordo con la Cina, voluto dalla Germania di Angela Merkel e morto a pochi giorni dal parto. Il problema? Bruxelles ha ignorato per anni un dato semplice: i suoi cittadini quegli accordi di libero scambio non li vogliono più. Non come sono stati concepiti. Con tutele inesistenti per l'ambiente. Senza attenzione ai temi sociali, come l'impatto negativo che l'incremento di una produzione e le sue modalità ha sulle comunità locali. Con l'oblio per le conseguenze di una delocalizzazione continua e progressiva sul futuro lavorativo delle nuove generazioni. Se vent'anni fa i cittadini protestavano per strada, oggi lo fanno votando partiti di estrema sinistra o di estrema destra,

NON SOLO MERCI E PRODUZIONE MA DIRITTI, AMBIENTE E TENUTA DEI VALORI OCCIDENTALI

che finiscono per paralizzare le decisioni del Consiglio europeo. Esempio lampante ne è la Francia: il presidente Macron, prima del recente voto legislativo non ha osato ratificare nessun trattato e oggi, con un Parlamento condiviso con Marine Le Pen e Jean-Luc Mélenchon, la sua agenda liberista è bloccata. Non solo. Ironia della sorte, adesso che la Commissione europea ha deciso di aggiungere le norme socio-ambientali mancanti ai futuri trattati, il mondo è cambiato. Gli stretti interscambi commerciali non garantiscono più la pace: si sono trasformati in armi improprie e potenti. Il gas e il grano sono usati da Mosca per impoverire e dividere gli avversari politici; il petrolio e l’oro dai Paesi del G7 per fermare l’avanzata delle armate russe. Intanto la Cina arruola truppe alleate riunendole in un'associazione commerciale dietro l'altra, gli Usa rispondono inventandosi nuove forme di partnership economica come l'Ipef e il Giappone, primo alleato asiatico, li rivuole nel Tpp. Come aveva fatto intravedere anche in Europa l'ormai defunta partnership transatlantica con gli Usa, il futuro delle rotte commerciali dipenderà sempre meno dalle esigenze economiche di ogni blocco politico mondiale e sempre di più dai rispettivi imperativi strategici e di sicurezza nazionale. Per l’Occidente l’obiettivo principe non sarà più il prezzo più basso delle merci ma la sopravvivenza del suo ordine democratico. E l’ecosostenibilità del globo. Q © RIPRODUZIONE RISERVATA

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I guasti del processo

GIUSTIZIA “LE GARANZIE? ROBA DA RICCHI” DA PALAMARA ALLE RIFORME, DAL DEPISTAGGIO SULLA STRAGE BORSELLINO AI MALI DEL CSM. PARLA UNO DEI LEADER STORICI DI MAGISTRATURA DEMOCRATICA COLLOQUIO CON NELLO ROSSI DI PAOLO BIONDANI

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contri furibondi e denunce penali tra magistrati. Giudici indagati o arrestati per reati gravi. Scandali e misteri perfino nella lotta alla mafia. Processi lentissimi, norme incerte, sentenze contrastanti. E cittadini sempre più sfiduciati. La giustizia italiana attraversa una crisi profonda, strutturale. Per capirne le cause e i possibili rimedi L’Espresso ha intervistato Nello Rossi, che dopo una lunga carriera giudiziaria oggi è il direttore editoriale di Questione giustizia, la rivista di Magistratura democratica, storico laboratorio di pensiero e riforme giuridiche progressiste. La magistratura, che in passato riuscì a resistere ai peggiori attacchi esterni, oggi attraversa una crisi interna senza precedenti, amplificata da vicende emblematiche come il caso Palamara. Come se ne esce? Servono leggi diverse? Controlli ispettivi più severi? «Il caso Palamara? Innanzitutto chiamiamolo con il suo vero nome: caso Palamara - Ferri, dai nomi dei due principali protagonisti degli incontri dell’hotel Champagne. A partire da quello scandalo è nata una crisi che non passa e che rischia di innescare una spirale distruttiva di una struttura fondamentale dello Stato democratico di diritto. Come se ne esce? In primo luogo distinguendo tra i fatti, emersi dall’indagine di Perugia, e la narrazione, offerta da una parte dei media sulla scia del best-seller di Sallusti e Palamara».

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Se è vero che Palamara è stato radiato e inquisito per corruzione, il suo caso non si può liquidare come isolato o marginale: centinaia di giudici lo votavano e si riconoscevano in lui. «L’indagine ha svelato una storia brutta e grave di amministrazione distorta delle nomine, scoperchiando un verminaio di ambizioni personali, manovre di corridoio, sotterranee compromissioni con la politica. Nel ruolo di protagonisti sono emersi i rappresentanti della magistratura più clientelare e più corporativa. Grazie però alle abili cure di Sallusti, il vero dominus del racconto a due voci, la realtà dei maneggi sulle nomine si è trasformata in una narrazione completamente diversa. Una storia di condizionamento della giustizia italiana ad opera di un cosiddetto “sistema”, egemonizzato da una fantomatica sinistra giudiziaria. Il tutto senza addurre uno straccio di prova o di casi concreti. Palamara da manovratore è stato presentato come succube e vittima, mentre la parte più compromessa della magistratura si è defilata silenziosamente. Se non si ristabilisce un minimo di verità su tutto questo, la crisi è destinata a durare all’infinito, perché non si capirà in quale direzione Palo Biondani ricercare rimedi realmente efficaci». Giornalista Autorevoli magistrati, avvocati e giuristi


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Foto: Tania / Contrasto

Nello Rossi, dirige Questione giustizia

parlano da tempo di degenerazione delle correnti. Cosa pensa della recente riforma del Csm, che ha l’obiettivo proclamato di ridurne il peso? «Il sistema elettorale approvato dal Parlamento ha una netta curvatura maggioritaria che non convince. Quando il Csm decide sulle nomine o su altre questioni istituzionali, l’esistenza di una maggioranza predeterminata a priori è il peggio che possa capitare. Comunque, qualsiasi sistema elettorale non produrrà i frutti sperati senza una rigenerazione della democrazia interna alla magistratura. Alla questione morale si può rispondere con i procedimenti disciplinari e penali. Ma per restituire vitalità e correttezza al governo autonomo della magistratura occorre affrontare di petto la questione democratica, contrastando le oligarchie e promuovendo più discussione collettiva, più riflessione comune, più ricerca di un’etica condivisa. E ciò rimanendo fedeli al modello costituzionale, che parla di elezioni senza imboccare il vicolo cieco del sorteggio in tutte le sue fantasiose versioni. Un magistrato isolato non sarebbe più colto, né più indipendente, né più consapevole del suo ruolo e della necessaria imparzialità». Molte delle ultime riforme penali hanno indebolito la pubblica accusa in nome di un garantismo che però premia soprattutto i colletti bianchi, mentre le carceri restano piene di detenuti per droga e invivibili. Emble-

matico il tema dell’impunità per prescrizione, che si doveva abolire e invece è raddoppiata con la cosiddetta improcedibilità. Stiamo tornando a una giustizia classista, debole solo con i forti? «Ma siamo già immersi sino al collo in una giustizia classista! C’è ormai un processo a due velocità che fluisce rapido e senza intoppi esclusivamente nei confronti degli ultimi della terra. Purtroppo è solo al di fuori di questa area che si comincia a discutere di garanzie e di ragionevole durata del processo. Diciamolo con chiarezza: un processo penale come il nostro, articolato in tre gradi di giudizio e fitto di subprocedimenti, non può essere breve. Occorreva moltiplicare le alternative al dibattimento, snellire le impugnazioni. La riforma Cartabia lo ha fatto solo in parte. E si è creduto di poter rimediare a questi vuoti mandando al macero i giudizi di impugnazione che superano una certa durata. Il macero: è questo il vero significato della formula esoterica “improcedibilità”. Era nettamente preferibile il sistema introdotto dalla legge Orlando». La giustizia civile è un disastro quasi ovunque, con tempi infiniti, procedure cavillose e norme incerte, eppure se ne parla pochissimo. «È del tutto ovvio che non si vive bene, e non si investe, in un Paese in cui recuperare un credito, far rispettare un contratto, risolvere una controversia di lavoro, avere una causa con il fisco sono operazioni troppo lunghe e incerte. Perciò il Pnrr è mirato sulla giurisdizione civile e tributaria. Bisogna rinunciare ai troppi orpelli e semplificare. Molto si spera dal potenziamento dell’ufficio del processo, uno staff di collaboratori qualificati dei giudici, che dovrebbe aumentare il numero e accelerare i tempi delle decisioni senza uno scadimento di qualità. È una scommessa difficile ma si può vincere». Alla strage di via D’Amelio è seguita la peggior indagine antimafia degli ultimi trent’anni: un’offesa alla memoria di Paolo Borsellino, un tradimento dei suoi insegnamenti. Come si spiega che un falso pentito sia diventato l’architrave di processi e condanne confermate? Perché nessun magistrato ha pagato per quello scandalo? «Quella vicenda è al tempo stesso un terribile errore giudiziario e un fittissimo ginepraio. E non sarò certo io, che non me ne sono occupato, a poterlo districare. Posso dire che, quando non si rispettano le regole, arrivano frutti avvelenati. E le cronache parlano di numerose e gravi anomalie nelle prime indagini, tra cui colloqui riservati con il pentito e contatti con i Servizi. Purtroppo è morto il procuratore Tinebra , che in quel processo ha avuto un ruolo primario. Certamente vi sono state gravissime carenze di professionalità nella valutazione della credibilità del pentito e nella ricerca di riscontri. E così si è aperta la strada ai depistaggi. Sa perché l’errore giudiziario toglie il fiato anche ai magistrati che non l’hanno commesso? Perché è sempre un errore collettivo, una falla del sistema, una enorme ferita, prodotta da tante azioni e distrazioni inammissibili, sulla pelle di un innocente». Q © RIPRODUZIONE RISERVATA

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La transizione ambientale

RIFIUTI IL FUTURO DI ROMA DIPENDE DAI VICINI LA CAPITALE VUOLE RENDERSI AUTONOMA MA INTANTO ACEA PUNTA AGLI SCARTI DEL SUD E SI ESPANDE IN CENTRO-ITALIA TRA PROTESTE E ALTOLÀ DI ANDREA BARCHIESI

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nodi di Roma stringono i vicini fino a soffocarli. La capitale è l’unica grande città europea in cui un’azienda controllata dal Comune (Ama) svolge la raccolta dei rifiuti urbani ma non possiede impianti di recupero e smaltimento. I rifiuti urbani che non possono essere smaltiti in discarica vengono trasformati in rifiuti speciali con trattamento biologico meccanico e sono inviati ad impianti fuori regione. Con i recenti incendi di Malagrotta e Spinetoli, nelle Marche, il problema della scarsa qualità delle differenziate, unito ai trasporti costosi hanno riproposto la drammaticità del problema. Ne pagano le conseguenze le popolazioni confinanti, dato che l’altra società romana privata con partecipazione pubblica, Acea, sta potenziando le strutture dell’Italia centrale per acquisire più utili e diminuire i costi dei trasferimenti che solo nel 2020, per lo smaltimento di 900mila tonnellate di rifiuti urbani indifferenziati, hanno pesato sulle spalle dei romani per 130 milioni di euro. Roma esporterà nelle regioni confinanti una ulteriore quantità di rifiuti da trattare, mentre già adesso gli scarti vengono assorbiti dal termovalorizzatore di San Vittore, con una capacità di 400mila tonnellate l’anno. Il piano annunciato dal sindaco Gualtieri potrebbe costi-

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tuire una soluzione ai bisogni dei romani. Resta il tema del potenziamento degli impianti anticipato dal piano industriale dell’Acea insieme all’implicita strategia di espansione. La società partecipata dal Comune capitolino intende investire nei prossimi tre anni 445 milioni di euro nelle strutture nell’Italia centrale, acquisendo partecipazioni nelle società miste pubbliche private. Un onere eccessivo rispetto alle necessità degli abitanti di quei luoghi e che si spiega con la necessità di sopperire alle esigenze della capitale. Ma dopo? «Probabilmente, quando Roma sarà autosufficiente, tutto quello che è stato migliorato nell’Italia centrale servirà ad accogliere gli scarti delle popolazioni del Sud», osserva Alessandro Marangoni, direttore scientifico Was – Waste strategy e Ceo di Althesys. Il disegno che si sta realizzando non piace alle comunità locali coinvolte anche dall’effetto legato allo stop di Malagrotta. Nelle Marche, Sara Moreschini, sindaco di Appignano del Tronto, annuncia battaglie amministrative che puntano alla costruzione di impianti necessari solo ai bisogni dei cittadini, mentre Andrea Barchiesi il segretario regionale Marche della FedeGiornalista razione italiana trasporti della Cisl, Clau-


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Foto: Gian Marco Sanna

Un edificio sul sito di una discarica abusiva nella zona di Monte Stallonara a Roma

dio Giuliani, spiega che «è necessario un unico regolamento regionale per tenere a bada i comportamenti troppo espansivi di Acea». Anche in Abruzzo ci si prepara a dare battaglia e non è escluso che Toscana ed Umbria seguano a ruota. Il quadro di Utilitalia (Federazione che riunisce le aziende speciali dei servizi pubblici dell’acqua dell’ambiente e dell’energia elettrica) è eloquente: in Italia nel 2019 sono stati prodotte 30,1 milioni di tonnellate di rifiuti urbani di cui 2,8 milioni sono trattati in regioni diverse da quelle di produzione. Il flusso viaggia principalmente dal centro-sud verso il nord, il centro è costretto ad esportare il 17 per cento della produzione dei propri rifiuti. In definitiva, nessuno è contrario alla costruzione di impianti ma prevale la sindrome nimby, (not in my back yard), non nel mio cortile. Sempre secondo i dati di Utilitalia, nel 2019 per trasportare i 2,8 milioni di tonnellate di rifiuti sono stati necessari 108 mila viaggi di camion, pari a 62 milioni di chilometri percorsi con 75 milioni in più da versare sulla Tari da parte dei cittadini interessati. A Roma, intanto, come afferma l’assessore all’Ambiente Sabrina Alfonzi, l’attuale giunta cercherà di realizzare l’autosufficienza che da sempre è mancata: «Stiamo conferen-

do ad Ama la delega a partecipare al bando del Pnrr che finanzia gli impianti per il trattamento della frazione organica. E proviamo a far lavorare in sinergia Ama ed Acea. Provvederemo alla realizzazione di due biodigestori da 100mila tonnellate ciascuno, due impianti per la differenziazione e potenzieremo il termovalorizzatore di San Vittore di ulteriori 200mila tonnellate rispetto alle 400mila attuali». Alessandro Marangoni, da direttore scientifico di Athesys, ha realizzato uno studio per L’Espresso nel quale indica, dati alla mano, quale sia la strada per l’autonomia di Roma: «Occorrono una nuova capacità di gestione della frazione organica fra le 200mila e le 250mila tonnellate l’anno; impiantistica aggiuntiva per la selezione dei rifiuti differenziati per circa 500mila tonnellate l’anno e un termovalorizzatore per 350, 400mila tonnellate annue per i residui non riciclabili». Confrontando questa analisi con le intenzioni della giunta capitolina il nodo principale da sciogliere è il termovalorizzatore e il suo funzionamento adeguato alle esigenze tecniche richieste. Ora, insieme agli scarti di Roma, il termovalorizzatore di San Vittore ospita anche quelli delle altre regioni centrali. Un aumento della sua capacità di 200mila tonnellate annue non sarebbe sufficiente. Si dovrebbe limitare alle sole esigenze della capitale e le altre regioni dovrebbero fornirsi di uno strumento del genere in un'altra area. La strategia romana non potrà non avere conseguenze sulle mosse dei vicini destinate a frenare il cammino di Acea all’interno dei propri confini. E non è l’unica questione aperta, osserva Marangoni: «Roma ha ancora una raccolta differenziata inferiore alla media nazionale, il 47 per cento contro il 61 per cento del resto della penisola. I costi di gestione sono elevatissimi e quelli di smaltimento e trasporto non hanno eguali, oltre 200 euro per tonnellata». L’Acea si sta muovendo con ingenti investimenti: a Terni e ad Ancona ha acquisito il 60 per cento di Ferrocart e Cavallari per attività di selezione e recupero di carta, ferro, legname e metalli. Sempre ad Ancona ha acquistato il 70 per cento di Simam, per la quale, a partire dal 2023, ha un’opzione del 100 per cento. Qui si parla di attività legate alla progettazione, realizzazione e gestione di impianti per il trattamento delle acque e dei rifiuti. A Teramo, l’Acea ha acquisito il 70 per cento della Serplast per il riciclo della plastica. A Verona, ha integrato il 60 per cento della Meg, sempre per il riciclo della plastica. Nelle Marche, a San Benedetto del Tronto è entrata nella Picena Ambiente mentre in Abruzzo ha acquistato il 65 per cento della Deco, diventando concessionaria di Ecolan. In Toscana, con altri 12 soggetti privati e pubblici, ha siglato l’accordo Aires, Ambiente innovazione ricerca energia e sviluppo. È una politica di espansione senza precedenti che consentirà al Comune di Roma d’investire gli utili per migliorare i servizi della capitale, sempre che i vicini glielo permettano. Q © RIPRODUZIONE RISERVATA

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Negli anni Ottanta ha dato vita alla più incredibile esperienza del teatro italiano: la Compagnia della Fortezza. Ora, mentre il carcere di Volterra accoglie il teatro stabile, Armando Punzo vara un nuovo spettacolo di Andrea Porcheddu illustrazione di Nicolò Canova


Cultura in carcere

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e le ricordo bene le prime volte in cui si entrava nel carcere di massima sicurezza di Volterra. I documenti, i controlli, le sbarre, i metal detector, le lunghe attese allo spaccio bar o nei corridoi. Ci voleva tempo per arrivare nel cortile della rocca medicea del piccolo centro toscano. Eravamo emozionati e spaventati, noi spettatori chiamati ad assistere agli spettacoli della Compagnia della Fortezza, fondata e guidata da Armando Punzo. Dagli anni Ottanta – il 1988 è l’anno di fondazione del gruppo di teatro composto da detenuti attori – le mura spesse del carcere erano testimoni di una delle esperienze più incredibili della storia del teatro italiano. E noi spettatori di professione non potevamo non dare conto di tanta emozione: a leggere le cronache di quelle prime aperture, i critici abbondano di un “impressionismo” emotivo difficile da domare. Sappiamo bene cosa sono le carceri italiane: l’impatto era talmente forte che superava ogni lucida analisi critica. Ma il regista ci ha guidati, anno dopo anno, ogni luglio, a lavori sempre più complessi,

«La prigione è un luogo tra i più terribili, concretissimo, claustrofobico. Io continuo ad indagarlo. Insieme all’altro luogo, che è l’attore: l’essere umano» raffinati, profondi. Creando una poetica tutta sua, intrecciata indissolubilmente alle presenze – ai corpi, alle voci, alle storie – dei detenuti-attori. Ora, mentre il carcere si apre per “Naturae-La valle della permanenza” (questo il titolo dello spettacolo 2022) e per un progetto che coinvolge anche comuni limitrofi, Punzo rivendica la potenza dell’Utopia. Se Michelangelo Pistoletto diceva che «gli artisti realizzano le utopie, altrimenti non sono», Armando Punzo è l’uomo dell’utopia incarnata. Perché la sua ricerca – personale e collettiva – è davvero un costante richiamo alla meraviglia di un sogno impossibile che diventa reale. 68

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«Il desiderio di vedere un mondo e un Uomo che si possano trasformare. Il cambiamento non può essere solo una speranza differita nel tempo, un paradiso da raggiungere. Occorre agire quotidianamente per ottenere dei cambiamenti. E il mio lavoro lo testimonia. Utopia è una parola che ha avuto un declino terribile, ha assunto un’accezione quasi negativa. “Utopista” è un’offesa: indica qualcuno fuori dal mondo, che non ha capito che è meglio essere pragmatici, realisti. Insomma, un inconcludente sognatore. Invece, ho sempre cercato, e in particolare negli ultimi otto anni, di difendere l’Utopia. Ricordo bene cosa era il carcere quando siamo arrivati, quando è arrivato il teatro, quando è arrivata un’altra possibilità per l’essere umano. So come questo luogo è cambiato, quanto ancora si trasforma, quanto le persone si trasformano. E non è un aspetto che tocca solo i detenuti. Di solito, la trasformazione viene veicolata e banalizzata nel concetto di riabilitazione o di rieducazione. No: la prigione è un luogo della realtà tra i più terribili, concretissimo, monolitico,


Foto: S. Vaja (4)

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claustrofobico. Ma quando si incontra con un punto di vista diverso, non riesce più a rimanere tale, è obbligato a trasformarsi». In effetti, la prospettiva di questo viaggio artistico e certamente politico è affascinante. Di solito, si sa, è il contesto a determinare il testo. L’ambiente influenza quanto vi accade – e non potrebbe essere altrimenti. Raccontava Susan Sontag che, quando andò a fare “Aspettando Godot” nella Sarajevo assediata, il testo “assurdo” di Beckett diventava quasi neorealismo: non c’era da mangiare, si dormiva all’aria aperta nel freddo e Godot, come la Nato, non arrivava mai. A Volterra, però, le cose sono andate diversamente. L’azione del teatro ha fatto sì che il “testo” – ossia la pratica scenica – sia riuscito a modificare il contesto. Adesso si sta lavorando per la costruzione di un vero e proprio teatro dentro il carcere: «Sì, un Teatro stabile in carcere», dice Punzo: «Ne ho parlato la prima volta 22 anni fa. Ora ci stiamo riuscendo, i lavori inizieranno». Insomma, questo progetto nato sul finire del secolo scorso sta trovando una rinnovata vi-

PALCOSCENICO NATURAE

Lo spettacolo “Naturae-La valle della permanenza” sarà rappresentato al Carcere di Volterra dall’11 al 17 luglio, ore 16 (compagniadellafortezza. org). Repliche in località simboliche come la Salina Locatelli, il Triangolo Verde Peccioli, il Teatro del Silenzio di Lajatico. Sopra, in senso orario: “La valle dell’innocenza”; “Naturae-La vita mancata”; “Beatitudo”, con Armando Punzo al centro; un altro momento di “Naturae”

talità. Certo non è mutato l’ardore iniziale: la spinta, oscura eppure creativa, di un giovane regista che, dopo esperienze importanti (come con Jerzy Grotowski) arrivava nel carcere per capire, studiare, mettersi alla prova. «Mi sono reso conto che non è stata una scelta occasionale né superficiale. Non volevo fare qualcosa di “strano” per poi tornare nel teatro mainstream. Ho rifiutato tante proposte. Ho cercato invece un lavoro in profondità. E continuo a indagare questo luogo: luogo ordinario, ossia l’edificio, il carcere, con le sue contraddizioni e luogo che è “l’attore”, l’Uomo». Già, l’essere umano. Quando noi spettatori ci perdevamo nel labirinto costruito per “Orlando Furioso”, quando ci incantavamo per un Pasolini spinto a un paradossale “elogio del disimpegno”, quando risuonavano le parole di Shakespeare, era – ed è – serrato il confronto tra individui chiamati senza reticenze a guardarsi negli occhi nella dimensione della detenzione. Chi sono quei reclusi-attori? Oggi Punzo invita a superare il canone occidentale, a sganciarsi dalla meravigliosa descrizione dell’Umano creata da Cervantes e Shakespeare. Con il Bardo la Compagnia della Fortezza ha fatto i conti: oggi non basta più. «È intoccabile Shakespeare? È vero: il suo racconto dell’Uomo è enorme. Noi siamo anche ciò che lui ha straordinariamente scritto. Ma ne dobbiamo uscire. Dobbiamo fermare la claustrofobica “ruota della vita”. Non sono buddista, ma quel concetto è concretissimo e terribile. Pensare che non potremo mai uscire dalla “ruota della vita” mi angoscia. Eppure, molti artisti, di fatto, ci chiudono comunque nell’eterna ruota della vita. Oggi abbiamo continuamente notizie che confermano quanto siamo orribili come esseri umani e quanto non riusciamo mai ad affrancarci da questa natura terribile. Ma perché dobbiamo continuare a raschiare il guazzabuglio brutto che siamo e che sono, e invece non proviamo a interrogarci su un “poi”? Come ci allontaniamo dal noi stessi di sempre?». Punzo parla di “liberato in vita” cui aspirare, piuttosto che il “liberato in morte”, salvato o meno da religioni o credenze in un paradiso-altrove. E il concetto di libertà – per chi lavora in un carcere – è ovviamente nodale. La questione, però, non è tanto né solo uscire dalle celle, quanto piut3 luglio 2022

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Cultura in carcere tosto provare ad andare oltre sé stessi. Sembra quasi di sentire Antonin Artaud, il visionario folle, quando parlava di “corpo senza organi”, capace di “danzare alla rovescia”, liberato davvero dalla schiavitù dell’anatomia. Risuona in Armando Punzo: «Bruciare in scena. Morire a sé stessi: dobbiamo imparare a far morire la parte più ordinaria di noi, per liberare la creatività, il sé potenziale straordinario sommerso dalla quotidianità. La “Conferenza degli uccelli” di Farid al-Din Attar è il racconto di un viaggio cui mi piace accostare il nostro. L’upupa invita al volo: ma gli uccelli accampano pretesti per non muoversi. Ecco, noi stessi siamo i pretesti per non cambiare. Dobbiamo provare ad andare verso un oltre, per vivere l’esperienza della meraviglia, per coltivarla poi, dopo il teatro». Negli ultimi anni, dunque, la Compagnia e Punzo hanno abbracciato questo percorso complesso e difficile. La svolta c’è stata con l’incontro con l’universo di Borges, che ha portato ad uno spettacolo di folgorante bellezza, “Beatitudo”. Ma anche il poeta argentino non è stato sufficiente. Di nuovo punto e a capo. La ricerca non si è fermata. Adesso arriva “Naturae”: «Ci siamo chiesti, senza pietà, se eravamo capaci di fare quel che sognavamo e che avremmo voluto e dovuto fare. Sono in grado, nella mia vita, di allontanarmi da me stesso, di mettermi in crisi, di pormi domande e mandare tutto all’aria? Borges ci ha aiutato, ha indicato personaggi diversi: di “Beatitudo” siamo contenti, la scena è bellissima, con un lago creato nel cortile del carcere. Ma i dubbi non passavano». Ecco allora le indagini sulle “nature” dell’Essere Umano: nature sommerse, che cercano di uscire e cui noi, con mille scuse, non diamo spazio. «Cercare l’armonia», dice Punzo, «è faticosissimo. Abbiamo le nostre abitudini, le soluzioni comode, e invece dobbiamo allontanarcene. Sembra, paradossalmente, che stiamo vivendo la migliore esperienza di vita possibile. E non parlo delle guerre, delle catastrofi, delle crisi. È assurdo, no? Invece quel che vorrei è passare da homo sapiens a homo felix». La cosa strana, sorprendente, è che ci stiano provando in un carcere di massima sicurezza. E magari ci riescono. Q ©RIPRODUZIONE RISERVATA

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Scene da una rinascita possibile La Compagnia Fort Apache di Roma con attori ex detenuti. Il Teatro libero di Rebibbia. E i tanti talenti emersi, da San Vittore a Castelfranco Emilia di Francesca De Sanctis

«O vinci o muori, era questo il nostro destino». E in caso di caduta, fine di ogni prospettiva. Se sei difettoso, vieni abbattuto, cancellato, accantonato. Succede di continuo. Non possiamo permetterci di sbagliare, perché la società semplicemente non lo accetta. Figuriamoci se si cade a causa di un crimine. Figuriamoci se si va contro la legge e poi si finisce rinchiusi per anni in un carcere. Ripenso a quelle parole pronunciate sul palcoscenico del Teatro India di Roma, ai corpi degli attori, alle loro catene e alle bare-abbeveratoio sistemate a terra. Lo spettacolo così carnale, puntellato da picchi poetici, è “Destinazione non umana”, il nuovo lavoro della Compagnia Fort Apache Cinema Teatro, l’unica compagnia stabile costituita da attori ex detenuti, che si sono formati nelle diverse carceri di provenienza. La dirige Valentina Esposito, autrice e regista, che da oltre 20 anni conduce attività teatrali dentro e fuori le prigioni italiane, con grande costanza e passione. Ricorderete sicuramente Marcello Fonte, vincitore della Palma d’oro a Cannes nel 2018 per la sua interpretazione come attore protagonista di “Dogman”, il film di Matteo Garrone. Ecco, lui, per esempio, proviene proprio da lì, da quel groviglio di storie di vita che è Fort Apache. Ci arrivò per caso, quando morì all’improvviso un ex detenuto e lui, che faceva il custode del centro sociale romano Nuovo Cinema Palazzo, sapendo a memoria la parte, lo sostituì, diventando attore stabile della compagnia. Garrone lo vide e se ne innamorò.


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Foto: J. Fenz (3)

Tre momenti dello spettacolo “Destinazione non umana” della Compagnia Fort Apache Cinema Teatro

In tanti rinascono grazie al teatro. Fra gli ex detenuti ci sono anche dei talenti, poi approdati anche al cinema, come Aniello Arena, ex ergastolano del carcere di Volterra, cresciuto professionalmente nella Compagnia della Fortezza di Armando Punzo e interprete di vari film, come “Ultras” di Francesco Lettieri. Oppure Salvatore Striano e Cosimo Rega, divenuti noti al grande pubblico soprattutto grazie al film del 2012 diretto dai fratelli Taviani “Cesare deve morire”, coprodotto dal Centro Enrico Maria Salerno che li seguiva da tempo. Entrambi, infatti, hanno recitato per anni sul palco del Teatro Libero di Rebibbia, grazie a Fabio Cavalli e a Laura Andreini Salerno, da vent’anni attivi nel carcere romano con laboratori, spettacoli, seminari. Ricordo quel pomeriggio del 2005 in cui andò in scena per la prima volta “La tempesta” di Shakespeare nella riscrittura che ne fece Eduardo De Filippo in dialetto napoletano. Fu interpretata dai detenuti del reparto di “alta sicurezza” di Rebibbia, diretti da Fabio Cavalli, che aveva collaborato fino alla fine con Isabella Quarantotti, moglie di Eduardo, scomparsa tre mesi prima del debutto. Gli occhi dei detenuti brillavano dalla felicità. Un lavoro prezioso, dunque, quello che viene svolto all’interno delle nostre carceri. A Milano, per esempio,

Donatella Massimilla lavora con detenuti e detenute del carcere di San Vittore dal 1989. Di recente, hanno portato in scena “Le Visite in Versi”, in cui le attrici del Cetec (Centro Europeo Teatro e Carcere) recitano e cantano in diverse lingue del mondo, donando una nuova musicalità alle poesie di Alda Merini. Nel Carcere di Castelfranco Emilia (Modena), invece, è stato allestito di recente “Odissea”, una produzione Teatri dei Venti in coproduzione con Ert / Teatro Nazionale, con la regia di Stefano Tè, in cui attori professionisti e carcerati erano in scena insieme, in un viaggio nel quale gli spettatori stessi erano parte dell’equipaggio. Insomma, se ad entrare nel carcere è il mondo, che si accende grazie al teatro, la rinascita è possibile. E per tornare a “Destinazione non umana” (che sarà in tournée a Campobasso, Narni e poi Milano nel 2023), quello spettacolo racconta proprio questo: il senso di solitudine, la precarietà, la paura della morte e del dolore, che riguarda tutti noi e ancora più chi viene da quel mondo carcerario, dove ciascuna persona sembra essere in attesa di una “macellazione”, proprio come i sette cavalli da corsa geneticamente difettosi al centro della pièce. Ma il teatro, forse, può aiutare a cambiare rotta. Q ©RIPRODUZIONE RISERVATA

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1922-2022 Roma, gli amici intellettuali, la scrittura e il mistero. “Ho molto amato la vita. La morte è solo l’altra faccia”, diceva il grande scrittore scomparso, in questa intervista inedita

IO E I MIEI

fantasmi colloquio con Raffaele La Capria di Stefania Rossini

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hiuso nella sua bella casa all’ultimo piano di un palazzo nobiliare di Roma, Raffaele La Capria si dimostra soavemente indifferente agli allarmi della pandemia e quanto accade nel mondo. L’età gli ha regalato quella leggerezza ondivaga del pensiero che annulla gli affanni del presente e sfuma i ricordi del passato. Ma l’autore di quel capolavoro del Novecento che è “Ferito a morte” riesce ancora a parlare di sé vagando dalla giovinezza napoletana a quella che chiama “la mia dolce vita romana”, passando dai libri che ha scritto alle persone che ha amato, fino al mistero che lo aspetta in un epilogo che non gli fa paura. Non ha più la grinta della giovinezza e il tono sicuro della maturità, ma non mostra fastidio per le sue amnesie, anzi spesso ne fa un vezzo nella conversazione: «Le dispiace ricordarmi il titolo di quel libro che mi ha reso famoso?». Nelle risposte è però asciutto e conciso, più di quanto sia mai stata la sua prosa. Come se gli anni gli avessero fatto an-

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che il dono dell’essenziale. La Capria, che cosa pensa di questo virus che ci ha cambiato la vita? «Non me ne curo». Ma anche lei avrà dovuto stare chiuso in casa, uscire con prudenza... «Per me non ha fatto differenza. Resto comunque a casa. Sono sempre stato una creatura sedentaria e libresca. A volte leggo, per lo più ricordo». Non soffre la solitudine? «Lei si riferisce al fatto che un anno fa ho perso mia moglie, Ilaria Occhini. Ma io non potrei sentirmi solo in questa casa perché la casa stessa è Ilaria, nelle pareti, nelle tappezzerie, in ogni dove». Quando vorrà uscire, troverà però una città diversa: poca gente in giro e quasi tutti con una mascherina sul viso. «Che vuole che sia? Per me Roma era già una città di fantasmi. Con il passar del tempo le ho dato confini sempre più stretti, poche strade vicine, poche piazze per le mie brevi passeggiate. Ma tanti fantasmi». A che cosa si riferisce?

Sopra: Raffaele La Capria in uno scatto del 2008. Lo scrittore avrebbe compiuto 100 anni a ottobre. In queste pagine, una conversazione realizzata a casa dello scrittore due anni fa, nel pieno della pandemia


Foto: G. Fiorio / Contrasto

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«Ai miei amici scrittori, attori e artisti che non ci sono più. Li accolgo con tenerezza. Sono abituato da sempre ai fantasmi». Come mai? «Perché sono nato e cresciuto a Napoli e per di più da ragazzo abitavo a Palazzo Donn’Anna, un luogo che rappresentava l’anima della città. Lì convivevano in armonia i pescatori, i no-

bili, i borghesi e anche i fantasmi». Ne ha visti molti? «Non direttamente, ma quando rientravo di sera avevo sempre la sensazione che qualcuno di loro mi seguisse». Lei ha scritto che intrattiene con Napoli un poetico litigio. Che cosa vuol dire? «È un conflitto di sentimenti. Avrò sempre nostalgia di Napoli che per

me è un paesaggio spirituale. Anche soltanto la visione del Golfo mi parla, ma non posso dire lo stesso della cultura napoletana». Eppure nel bene e nel male è una cultura notevole. Perché non le piace? «È inautentica e accomodante, è nata dalla grande paura che la borghesia ha avuto della plebe. Anche la lingua è stata addomesticata. Prima c’era la truculenza di Basile, dopo l’uomo bonario di De Filippo. Anche per questo ho lasciato Napoli per venire a Roma quasi settant’anni fa». Fece parte di una diaspora intellettuale. Se ne andarono anche Antonio Ghirelli, Francesco Rosi, Pasquale Prunas, Giuseppe Patroni Griffi. Come mai la maggior parte di voi scelse di vivere a Roma? «Perché allora era una città importante, colta, effervescente, una vera capitale all’apice della sua belle époque. Ognuno tende a compiacere la propria giovinezza, ma quelli erano dati oggettivi. C’era davvero una dolce vita». Ce la descriva. «Andavi in un bar di via Veneto e ti trovavi a conversare con Ennio Flaiano o Goffredo Parise. Trovavi lavoro alla Rai, ti mettevano in una stanza con Enzo Golino ed Enzo Siciliano e scoprivi che nella stanza accanto c’era Carlo Emilio Gadda. Mangiavi ai tavoli comuni da “Cesaretto” in via della Croce e li ritrovavi tutti lì. Poi al cinema o al teatro. E la notte si finiva a via Veneto...». Tra loro chi le manca di più? «Franco Rosi perché era il più buono, poi anche Peppino Patroni Griffi, ma in modo diverso». Perché? «Era omosessuale e per trovare un’intesa con gli omosessuali bisogna essere come loro. Siamo stati molto amici, ma mancava sempre qualcosa perché io non avevo quel lato». In quel clima romano lei ha vinto un premio Strega con il suo romanzo ancora oggi più venduto, “Ferito a morte”. Poi ha scritto molti altri libri, ma viene ricordato soprattutto per quello. È una cosa 3 luglio 2022

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che la infastidisce? «No, mi fa piacere perché vuol dire che era davvero un bel romanzo, aveva un andamento musicale nella trama e nella lingua. Era il 1961, vinsi per un solo punto su Giovanni Arpino e tutti dopo, incontrandomi, mi dicevano: “Se non ti avessi dato il mio voto, non avresti vinto”. Facevo finta di crederci e ringraziavo». Quando ha capito che avrebbe fatto lo scrittore? «Ho sempre saputo di essere diverso. Sentivo che qualcosa mi chiamava ad alte imprese. Questo qualcosa era la cultura, la scrittura». Nella sua belle époque lei era giovane, famoso e piuttosto attraente. È stato molto amato? «Ho avuto i miei momenti. Da questo punto di vista è stata una vita piena». E ha molto amato? «Sì, certo, come tutti i giovani, ma soprattutto ho amato mia moglie Ilaria, una persona particolare non soltanto per la bellezza ma anche per l’intelletto». Era anche un’attrice famosa e ricercata, nipote di un monumento della cultura come Giovanni Papini. Dopo che l’ha trovata, non si è più mosso? «Più o meno, diciamo molto più che 74

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meno. Non mi chieda altro». Non lo farò e passo alla sua stagione pessimistica. Il suo ultimo libro, uscito nel 2016, è una raccolta di scritti che si intitola “Il fallimento della consapevolezza”, un titolo che non dà scampo. «Infatti non c’è scampo. Descrivo la condizione in cui tutti ci troviamo oggi. Non siamo più sicuri che ciò di cui siamo consapevoli sia la verità». Quando è sopraggiunto il fallimento? «Quando si è rotta la catena che ci legava alle generazioni precedenti e alla loro cultura. I giovani hanno il diritto e il dovere di uccidere il padre, ma devono conoscere bene ciò che il il padre ha fatto. Non è possibile dire cose nuove ignorando la tradizione. Per questo oggi anche il panorama letterario è pieno di nebbia. Non intravedo nessuno che si distingua». Eppure c’è un fiorire di giovani scrittori e scrittrici. Nessuno che l’abbia interessata? «La quantità quasi mai è segno di qualità. Non vedo un solo scrittore che possa essere considerato un punto di riferimento, come lo furono anche da giovani Moravia, Calvino, Pasolini...». Posso farle qualche domanda sul tempo che passa, sulla sua età?

«Certo, è comunque la mia vita». Compirà tra poco 98 anni. Avrebbe mai pensato di giungere fino a qui? «Non mi curo degli anniversari. Corna facendo, in salute non sto male, se avrò fortuna potrei anche diventare centenario. So che tra pochi anni saluterò tutti e me ne andrò, ma adesso sono come quel tizio che cadde dal decimo piano e, arrivato al quinto, disse: finora va tutto bene». L’inevitabile arrivo a piano terra non le fa paura? «So che dovrebbe farmela perché è la fine di tutto, ma non ci penso. Chi, come me, ha amato molto la vita, sa che la morte è soltanto l’altra faccia». Immagina un aldilà? «Non le risponderò. Io sono un uomo religioso, ma nel mio modo. Penso che nel mondo la cosa più importante sia il mistero e quando c’è il mistero c’è religiosità». Ha parlato spesso del mistero, ma senza mai dargli contorni precisi. Prima di lasciarci ci dica meglio che cosa intende. «Il mistero è mistero, mica lo posso rivelare. È qualcosa che sentiamo che c’è ma che non possiamo capire fino in fondo. E poi, se le dicessi di più che mistero sarebbe?». Q © RIPRODUZIONE RISERVATA

Foto: F. Giaccone / Contrasto, Istituto Luce / Contrasto

Sopra: al Premio Strega, Alberto Guidi, Raffaele La Capria (al centro), Maria Bellonci. A destra: La Capria con Alberto Arbasino


Bookmarks/i libri A cura di Sabina Minardi

QUANDO AMY WINEHOUSE ERA FELICE Desideri e malinconie esplodono d’estate. I nuovi racconti di Federico Pace

EMANUELE COEN Le vite degli altri, personaggi noti che pensiamo di conoscere. Donne e uomini, scrittori e pittori che amiamo, artisti e poeti che abbiamo sempre ammirato, fotografi ed equilibristi che per qualche tempo si ritrovano al centro della Storia. Vicende che, sarebbe meglio dire, ci illudiamo di conoscere, perché Federico Pace svela dettagli nascosti, sfumature impreviste, ribalta punti di vista, illumina zone d’ombra. Dopo aver raccontato in “Controvento” i viaggi che cambiano la vita e in “Scintille” gli incontri che decidono i nostri destini, con “La più bella estate” (pubblicato da Einaudi, come gli altri due libri) lo scrittore sceglie di indagare la più effimera ma forse anche la più amara delle stagioni. E riesce a trasmettere quel senso di attesa, la meraviglia (anche della natura) e il disincanto attraverso sedici racconti affilati e struggenti, che portano dentro il senso della fine e l’ebbrezza fugace della felicità. Come “La percezione della libertà”, ambientato a Londra nella torrida estate del 2003, la più calda che si ricordi, che per Amy Winehouse, 19enne ancora sconosciuta, segna forse il momento più felice della sua esisten-

za. «Prima c’è la corsa, la salita rapida, l’affanno e la gioia. La sensazione di essere infinitamente liberi. La febbrile necessità di afferrare il cielo. Salire, salire, più in alto possibile», così Pace decide di cogliere l’ultimo istante spensierato della tragica vita della cantautrice, prima che entrasse nel rullo compressore del successo per perdersi nei suoi incubi. E con lo stesso stupore si resta incantati di fronte al racconto “Il silenzio della Luna”, forse il più riuscito, protagonista Michael Collins, l’unico dei tre astronauti americani (era in missione con Neil Armstrong e Buzz Aldrin) a non aver allunato nell’estate del 1969. Sembra di vederlo Michael, solo verso il lato oscuro della Luna, mentre tutti i riflettori sono accesi sugli altri due. «Divenne remoto a tutti: l’unico uomo dell’intero sistema solare a essere separato da ogni cosa». Q © RIPRODUZIONE RISERVATA

“LA PIÙ BELLA ESTATE” Federico Pace Einaudi, pp. 192, € 14

Nella più tradizionale delle premesse, l’ultima indagine di un detective è sempre la più intricata. Ma anche la più irresistibile. Un ricco imprenditore sceglie un modo estremamente scenografico per suicidarsi. E Segre, senza uno straccio di indizio, riprende a investigare: forzando i suoi limiti e tutto ciò che ha appreso con l’esperienza. Mettendosi nei panni della vittima. A Bergamo Alta, tra nemici spesso annidati nelle proprie famiglie.

Una storia di poligamia, e un viaggio tra gli usi e i costumi del Mozambico, tra riti di iniziazione, incantesimi e una girandola di donne che da nemiche diventano confidenti, complici, sostegno l’una per l’altra in una società drammaticamente maschilista. Da un’autrice appena premiata con il Premio Camões, il più importante riconoscimento del mondo lusofono, e prima donna ad aver pubblicato un romanzo nel suo Paese (“Ballata d’amore al vento”).

Un reportage dentro la nazione aggredita, che è un viaggio tra luoghi fisici e quelli dell’animo. Da Leopoli a Kiev, lungo strade che non esistono più, edifici rasi al suolo, paesaggi urbani stravolti, ma anche un cammino dentro il male, nel dolore e nella crudeltà, nelle lacrime e nella violenza. Con le foto di Andrii Gorb che guarda in faccia vite distrutte, occhi spenti, bandiere strappate. Una testimonianza forte, i cui utili andranno a sostegno della popolazione ucraina.

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“NIKETCHE” Paulina Chiziane (trad. Giorgio De Marchis) La Nuova frontiera, pp. 380, € 18,90

“DA LEOPOLI A KIEV” Luigi Alfieri Cinquesensi, pp. 196, € 13 3 luglio 2022

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Protagonisti

Pazzo F iglio e nipote d’arte, ex enfant prodige con l’ironia di un cineasta navigato e l’ego di un attore richiesto in tutto il mondo, Louis Garrel ha tante anime. Basta parlarci qualche minuto per accorgersene. Per fortuna tutte attraversate da una sana autoironia, con la quale sa rendere lievi i suoi racconti spesso tragicomici, tanto nella realtà quanto al cinema. Trentanove anni compiuti da poco, come regista è arrivato al suo quarto film, presentato all’ultimo Festival di Cannes. Si chiama “L’innocent”, è una commedia che strizza l’occhio al complesso di Edipo raccontando un figlio che tenta di proteggere sua madre (Anouk Grimberg) dalla relazione con un uomo che è stato in prigione (Roschdy Zem), finendo goffamente nei guai. Dedicata alla sua vera madre Brigitte Sy - che partecipava a laboratori teatrali con detenuti - uscirà in Italia quest’anno, come anche “Le vele scarlatte” di Pietro Marcello e “Les Amandiers” della sua ex Valeria Bruni Tedeschi in cui interpreta il grande regista di cinema e teatro Patrice Chéreau, scomparso nove anni fa. Neanche a dirlo, Garrel non solo ama l’Italia sin dai tempi in cui Bertolucci lo scelse per il suo “The Dreamers”, ma sfoggia un italiano perfetto. «Macché perfetto, devo migliorare» dice subito, in italiano ovviamente, aprendo la nostra intervista con una battuta. Partiamo dal suo ultimo film da regista: dopo l’ambientalista “La crociata” in cui dirigeva sua moglie Laetitia Casta firma un’altra commedia. Come mai?

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PER TOGNAZZI Autoironico, l’attore e regista francese rende lievi i suoi racconti tragicomici. Ora interpreta Chéreau. E ai giovani dice: puntate al teatro, non al cinema colloquio con Louis Garrel di Claudia Catalli

«Continuo a seguire volentieri il consiglio di un mio amico, lo scrittore e attore Jean-Claude Carrière: la commedia apre più porte. Ogni volta che ne firmo una non pretendo che piaccia, spero che almeno deluda positivamente: ho sempre pensato all’imbarazzo dei registi che impiegano anni a realizzare un film che la gente critica dopo solo un’ora, un’ora e mezza al massimo. Quando tocca a me sono sempre un po’ emozionato». Quali sono le commedie che prende come ispirazione? «Quelle capaci di raccontare la realtà sociale con ferocia, penso ai film di Alberto Sordi e di Ugo Tognazzi. Oggi penso a Nanni Moretti, un modello di come fare il regista e l’attore restando se stesso, senza distanziarsi troppo dal reale». A lei piace autodirigersi nei film?

«Stare davanti e dietro la macchina da presa raddoppia il piacere, specie se come me fai l’attore e ami dirigere gli attori. Il guaio è che sono troppo severo con me stesso, pretendo molto e so bene di non avere abbastanza talento da poter fare tutto da solo. Quando si dice che il cinema è un’arte di squadra è vero, senza la mia troupe sarei perso». Quando ha dovuto dirigere sua moglie com’è andata? «La mia famiglia mi ha abituato alla bellezza di lavorare con persone che conosci a fondo. Laetitia è una brava attrice, piena di empatia e molto amata dalla gente che la ferma per strada. Vederla recitare per me è stato un piacere». Com’è stato tornare a lavorare invece con Valeria Bruni Tedeschi? «La sfida non era tanto recitare per lei,


Idee

Foto: L. Venance - AFP via Getty Images

L’attore e regista francese Louis Garrel

quanto dover interpretare Chéreau, che oltre ad essere il suo insegnante di teatro era anche un genio incredibile, di cui oltre tutto mi aveva confidato di essere segretamente innamorata. La possibilità di deluderla, quindi, era doppia, se non tripla». Conosceva Chéreau? «Ero affascinato da lui, è stato il Molière dei nostri tempi. Nella mia scuola di teatro era osannato come un dio vivente, una volta l’ho incontrato a cena grazie a Valeria. Io sono un tipo abbastanza leggero, con lui ho imparato a non esserlo, perché era l’esatto contrario della leggerezza. Dava l’impressione di lavorare sempre, era molto serio, colmo di angoscia e di passione per gli attori». Come si è preparato per interpretarlo?

«Mi sono riguardato tutte le sue interviste e ho lavorato molto sulla sua febbre, una febbre di libertà, sesso e creatività sorprendente. Ho cercato di raccontarlo come maestro di teatro che era anche artigiano nel suo teatro, un po’ come Moretti nel suo cinema (Nuovo Sacher a Roma, ndr). Ho guardato anche un documentario in cui c’era una Valeria giovanissima che studiava a Nanterre e diceva con una punta di masochismo: “Amo i registi che mi spezzano”. A quel punto ho lavorato con i giovani attori del film proprio come se facessimo delle vere prove, come girassimo un documentario sul mestiere di regia teatrale, che “spezza” per costruire». Più complesso calarsi nei panni di Chéreau, oppure di Godard per Michel Hazanavicius?

«Chéreau, perché Valeria lo conosceva bene. In generale l’unico modo per interpretare i mostri sacri è riportarli al quotidiano: quando mio nonno Maurice Garrel interpretò Freud mi raccontò: “Non ho potuto recitare Freud, ho interpretato solo un dottore”. E così io ho interpretato solo un regista, sarebbe stato impossibile altrimenti». Che cosa consiglierebbe a un giovane attore, o magari un domani ai suoi figli nel caso volessero diventare attori? «Dedicarsi al teatro. Fare l’attore di cinema non è un vero mestiere, è un hobby. Tutti possono recitare in un film, in modo più o meno professionale. Il teatro invece è un mestiere fatto di passione e sacrifici, che consente una carriera più solida». Essere diretto da una donna le fa differenza? «Essendo cresciuto con una madre regista sono stato abituato sin da piccolo a pensare che il sesso di chi ti dirige sia ininfluente. Ho avuto la fortuna di lavorare accanto a grandi attrici come Isabelle Huppert e Marion Cotillard, ma anche Saoirse Ronan sul set di “Piccole Donne”, altro film diretto da una donna di grande bravura (Greta Gerwig, ndr). Ho capito che lavorare con donne di talento aiuta a tirare fuori il meglio di sé, bisogna solo sperare di esserne all’altezza». Lavora molto con il cinema italiano: ha in arrivo anche il nuovo film di Pietro Marcello “Le vele scarlatte”. «Spero di lavorare sempre più con registi italiani, hanno quella visione del cinema fatta di passione e derisione che amo. In particolare ammiro Pietro, abita vicino a casa mia a Parigi, ci siamo piaciuti sin dal primo momento. È un regista di cui sono un po’ geloso, perché è anticonvenzionale e veramente libero. Il suo realismo magico mi aveva colpito già in “Martin Eden”, in poco tempo abbiamo costruito un bel rapporto: sa che quando ci parlo mi esce spontaneo imitare il suo accento campano? Giuro, è più forte di me». Q ©RIPRODUZIONE RISERVATA

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Civiltà a confronto

Arabi COMPAGNI DI STRADA È nato prima il minareto o il campanile? La risposta in un saggio tratto da un ebook de L’Espresso. Che mostra come culture distanti abbiano radici comuni: in Africa di Marisa Ranieri Panetta

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e costruzioni protese verso l’alto punteggiano la storia: dalla Torre di Babele ai moderni grattacieli. Questi due esempi, pur lontani nel tempo e nello spazio, hanno in comune una caratteristica: sono monumenti dell’uomo per l’uomo, a riprova delle proprie capacità, in una sfida senza limiti. Puramente religioso era invece lo scopo degli obelischi egizi connessi al culto solare, la cui città sacra nella Bibbia è citata come On e dai greci detta Eliopolis. Si trovava vicino all’attuale capitale egiziana e, proprio per costruire il Cairo, furono utilizzati i copiosi materiali rimasti nel sito. Di forma quadrangolare e dalla punta a piramide ricoperta da metalli per riflettere la luce, furono gli obelischi a contendersi il titolo della costruzione più alta (e più sottile), a partire dal III millennio a.C. Ma, come vedremo, la corsa a toccare le nuvole è ancora molto attuale. Gli imperatori romani trasportarono diversi obelischi in Italia; ma non si trattava di fede religiosa: servivano a dare prestigio alla capitale e a sottolineare la conquista del paese più ricco del Mediterraneo. Oggi ne esistono più a Roma

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che al Cairo: ben tredici, che fanno ormai parte del panorama urbano caratterizzando le piazze principali. Altri furono donati dall’Egitto agli Stati Uniti, a Parigi e a Londra e si è scelto proprio un obelisco come monumento in onore di George Washington nella capitale degli Usa che porta il suo nome: una costruzione dalle tante vicissitudini che quando fu terminata, nel 1888, vantava il titolo della più alta al mondo ( fu sorpassata, poco dopo, dalla Tour Eiffel). Sarebbero dunque questi i precursori più elevati dei minareti islamici e dei campanili cristiani; ma ci sono altri antenati, molto meno conosciuti e straordinari nel loro genere: le stele di Axum in Etiopia. Una di esse si trovava a Roma fino a qualche anno fa, a piazza di Porta Capena, dove era stata innalzata nel 1937 davanti all’allora Ministero delle Colonie. Axum era la capitale di un impero che conobbe una grande fioritura nei primi secoli dopo Cristo, a controllo delle rotte commerciali tra il mar Rosso e l’Africa centrale. Le stele erano opere dalla simbologia ancora oggetto di discussione tra gli studiosi. Osservate nei particolari, sembrano gli antesignani anche dei grattacieli; rivelando infatti

superfici con ritmi orizzontali di sporgenze e rientranze, sembrano indicare tanti appartamenti uno sull’altro, con i dettagli delle finestre e delle porte con battenti (qualcuno ha avanzato l’ipotesi che possano rappresentare i vari gradi dell’elevazione dell’anima). Finalità a parte, sono state sempre considerate espressione dell’alto grado tecnologico raggiunto dalla comunità che le ha realizzate. Erano infatti ricavate da un unico blocco di granito e si ergevano per oltre venti metri. Tuttora, nel Parco archeologico di Axum, si può vedere a terra, ridotto in pezzi, l’esemplare più grande: sfiorava i 30 metri e pesava 517 tonnellate. Anche i campanili cristiani e i minareti islamici guardano in alto e, pur nella diversa rappresentanza religiosa, hanno caratteristiche comuni: l’esistenza ultramillenaria, la continuità d’uso e la contiguità a edifici sacri, chiese e moschee. Se condividono con gli esempi precedenti l’elevazione, sempre più progressiva, a fare da prototipo sono state sicuramente le torri, soprattutto quelle di difesa: lungo mura urbiche o in luoghi strategici, così come si trovavano sia lungo il Mediterraneo, sia nelle regioni


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Foto: K.M. Westermann - Getty Images

“Minareti petrolio e libri osé” è un ebook sul mondo arabo a cura di Angiola CodacciPisanelli, in omaggio per gli abbonati digitali de L’Espresso. A sinistra: la Grande Moschea di Kairouan, Tunisia

iraniche fino all’India. Per i minareti è stata avanzata un’altra ipotesi: la derivazione dal Faro di Alessandria, ancora in funzione nel Medioevo e importante punto di riferimento per i naviganti. E infatti il nome arabo manarah, significa proprio “faro”. Ricorda, fra gli altri, questo celebre monumento il minareto di Kairouan, in Tunisia. A pianta quadrata, come la maggior parte di questi edifici, è composto da piani decrescenti, con feritoie. Furono i califfi Omayadi, che governarono l’impero islamico dal 661 al 750, a introdurre nel Maghreb i minareti-torre a pianta quadrata costruiti in mattoni, che sono rimasti i più diffusi. Ma in Persia e nel Turkestan i primi esempi erano ottagonali, e di forma cilindrica quelli iracheni. Col tempo, furono coronati da cupole dorate, tappezzati di ceramiche multicolori, abbelliti da finestre con ricche cornici, e apparivano a coppie, ai lati del portale della moschea, o quattro, agli angoli dei cortil. Un esempio particolare si trova a Jam, in Afghanistan. Ha una struttura circolare ed è famoso per la decorazione che evidenzia le incisioni con disegni geometrici e versetti del Corano. Si trova in una zona brulla, circondato da alte

montagne. È andata distrutta la moschea vicino alla quale si ergeva con i suoi 65 metri, in un centro residenziale della dinastia dei Ghuridi, che tra il XII e il XIII secolo controllava non solo l’Afghanistan, ma vaste zone dell’Iran, del Pakistan e dell’India settentrionale. È stato il primo monumento afghano a entrare nel Patrimonio Unesco. Nelle grandi città, gli alti minareti delle moschee hanno contribuito, e contribuiscono, alla definizione urbanistica dei luoghi; pensiamo a Santa Sofia di Istanbul, e alla modernissima moschea costruita da re Hassan II a Casablanca, in Marocco, inaugurata nel 1993 con il minareto finora più alto del mondo, ben 210 metri. È la stessa corsa al record da esibire, che continua a riguardare gli skyscrapers: i grattacieli. Nei secoli passati la spettacolarità degli edifici sacri musulmani era invece affidata all’architettura e alla decorazione delle moschee. Un esempio per tutti è proprio la moschea di Kairouan. Estesa per 9000 mq, ha avuto una vita piuttosto travagliata. Dal 670 fino all’836 fu distrutta e ricostruita tre volte. A sorprendere è il cortile con le sue gallerie, scandito da oltre 400 colonne in marmo bianco, gra-

nito e porfido, provenienti dai resti della Cartagine romana. Altre colonne, fornite sempre dall’antica Cartagine, si trovano nella moschea di Testur. Questa città, impiantata su un precedente abitato romano, fu abbandonata nel Medioevo. Nel XVI secolo tornò a nuova vita, con l’arrivo di ebrei e musulmani fuggiti dalla Spagna dopo la “reconquista” cristiana. Le diverse culture degli abitanti che la popolarono si riflettono sia nell’aspetto del minareto, che sembra un campanile, sia nella presenza di due stelle di David incise sulla torre: un esempio di convivenza pacifica, di lavoro comune, di tradizioni rispettate, che ancora riecheggiano nel malouf, la musica tipica tunisina che unisce assonanze arabe e andaluse. Come dai minareti il muezzin fa sentire la sua voce per invitare i fedeli alla preghiera, i campanili fungono da richiamo per i devoti cristiani. Per questo tipo di architettura l’origine risale sempre alle torri militari e all’inizio non c’erano le campane. Sin dalla prime erezioni di chiese, si diffusero torri in coppia, cilindriche o quadrate, solo per dare rilievo all’ingresso e alle facciate, come avancorpi. Per l’introduzione delle campane abbiamo una data precisa: nel 561 Gregorio di Tours ne attesta l’uso su una torretta. La diffusione è però attribuita all’esempio di papa Stefano II nell’VIII secolo, che ne sistemò tre nel campanile della prima basilica di S. Pietro a Roma. Da torre di sorveglianza e appello religioso, la costruzione dei campanili è stata in seguito affidata ad architetti e artisti celebri. Pensiamo al campanile di Giotto a Firenze o a quello della basilica di S. Marco a Venezia, di particolare pregio artistico e architettonico. La presenza di questi monumenti, legata a tante singole storie locali, è così diffusa da aver fatto definire l’Italia come il “Paese dei campanili”. E campanilismo è definito il legame al luogo natio e alle sue tradizioni. Il significato positivo del termine ha finito però con l’assumerne un altro negativo. L’amore di campanile diventa così sinonimo di grettezza e faziosità e i rintocchi, in questo caso, suonano a vuoto. Q ©RIPRODUZIONE RISERVATA

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Street art

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goch (aprire gli occhi) è il suo nome di “battaglia”. Jorit, come tutti lo conoscono, è il nome che gli ha dato la madre, olandese, Ciro è il secondo nome, in onore del nonno, preteso da cinque zie. Achille Bonito Oliva, padre della Transavanguardia, e critico tra i più importanti, lo ha definito “il nuovo Caravaggio”. Il writer napoletano, ormai famoso in tutto il mondo per i suoi giganteschi volti, grazie ai quali contribuisce a riscattare le periferie ed esprime precise posizioni critiche e ideologiche, è tornato a Scampia, dove lo abbiamo incontrato. E, nell’ambito del progetto “Maggio dei Monumenti 2022”, ha dato vita, dopo i ritratti di Angela Davis e di Pier Paolo Pasolini, al volto di Fabrizio De André. Il nome della strada che ospita il Faber, alla cui realizzazione ha contribuito la giovane writer di Scampia Trisha Palma, dà all’opera un significato ancora più forte: è Via Don Giuseppe Diana, il prete campano ammazzato dal clan dei casalesi a Casal di Principe nel 1994. Un artista ha un pensiero critico sulle cose, non è mai neutrale. Cosa pensa dell’ostracismo nei confronti di artisti, sportivi russi dopo l’invasione dell’Ucraina? Ha parlato con lo scrittore Paolo Nori, in un primo tempo censurato per un corso di cultura russa, dopo aver realizzato il volto di Dostoevskij? E lei stesso andrebbe oggi in Russia? «Trovo che siano episodi inaccettabili. Con Paolo Nori ci siamo incontrati alcune settimane dopo qui a Napoli, mi ha fatto molto piacere aver partecipato alla presentazione del suo libro su Dostoevskij, è uno scrittore di cultura immensa. In Russia io andrei subito. Penso che la cultura russa vada studiata a fondo, anche per comprendere le motivazioni di questo conflitto. Sono stato in Russia nel 2019, mentre dipingevo il volto di Jurij Gagarin, e ho percepito nettamente quanto quel popolo sia orgoglioso. Bisogna conoscere e capire i contesti, altrimenti non capiremo mai

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Da Maradona a Mandela, i suoi grandi volti sfregiati dominano le periferie. Writer internazionale, è ora tornato a Napoli. Con un nuovo ritratto: Fabrizio De Andrè

Jorit CHE DÀ VOCE AI MURI colloquio con Jorit di Tommaso Panza come le cose, a volte, precipitano». Putin ha elogiato apertamente il suo murale su Dostoevskij. Non ha temuto di essere considerato filoputiniano? «È stato chiaramente un elogio inaspettato e, in effetti, è bastato perché qualcuno mi additasse come filoputiniano. Credo che ci sia un grosso equivoco. A me non sembra che tutta l’opinione pubblica sia d’accordo sull’invio di armi agli ucraini, quindi cosa vuol dire: che gli italiani che non sono a favore sono tutti filoputiniani? I ragionamenti degli italiani sono più avanti di quanto non crediamo. Ormai molti esperti in televisione si trovano lì a discutere per portare avanti un’agenda o interessi specifici. La gente comune, invece, che è più libera, può essere tranquillamente in grado di portare avanti un pensiero critico. Come persona cerco di interrogar-

mi sulle ragioni che hanno portato a questo conflitto, ma anche su come potrebbe finire». Crede che la street art abbia realmente un ruolo nella riqualificazione delle periferie? «Chiaramente sono di parte, ma dico sì, ci credo veramente. Le persone riescono a sentirsi parte di qualcosa che non finisce nel dimenticatoio e non resta anonimo. Un palazzo di periferia resta tale, ma un palazzo con un murale sopra accoglie qualcosa di specifico, che crea identità. L’identità non contribuisce a riqualificare solo strutturalmente, è fondamentale perché riqualifica le coscienze, fa sentire le persone fiere di appartenere a un territorio». In Italia spesso parla del futuro dei giovani chi giovane non è o non ha consapevolezza delle difficoltà vere. Lei come vede il futuro dei giovani italiani?


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Foto: E. Imperato - Ag. Controluce

Jorit davanti al murale raffigurante George Floyd realizzato a Napoli due anni fa

«A me sembra che il treno vada solo in direzione dello smantellamento dello stato sociale e del pubblico. Ne faccio sempre un discorso di giustizia sociale, un ragionamento che è fuori dall’orizzonte di qualsiasi politico. È scontato dire che una società dovrebbe essere fondata sulla parità di diritti e di opportunità, poi vediamo che non è così. Se non ho le stesse opportunità del figlio di o non ho la possibilità di costruirmi lo stesso futuro di chi viene da una condizione agiata, dov’è la parità di diritti? C’è una canzone di Enzo Avitabile che dice “Tutt’eguale song ‘e criature, nisciuno è figlio e nisciuno”. L’unica cosa che può cambiare il futuro dei giovani e realizzare un sogno di uguaglianza è la scuola pubblica». Abbiamo assistito all’omicidio della giornalista di Al Jazeera, Shireen Abu Akleh, da parte dei soldati israeliani. Lei in quei territori è stato, ed

è stato anche arrestato dai militari israeliani nel 2018, quando ha realizzato il volto di Ahed Tamimi, giovane attivista palestinese. Cosa significa subire un arresto in una zona di guerra, ce lo racconta? «Se penso alle immagini dei funerali della giornalista, nel momento in cui i soldati israeliani hanno caricato il corteo con la bara, mi vengono i brividi. Disumano. Quelle persone hanno resistito sotto le manganellate pur di non far cadere il corpo. Aggredire persone che portano in spalla una bara è una forma totale di razzismo e persecuzione. I palestinesi sono un popolo oppresso in ogni aspetto della loro vita. L’arresto è coinciso con l’ultimo giorno di lavoro, ero con uno dei miei collaboratori, Salvatore. Pensavo ci avrebbero sparato. Sono arrivati in macchina, ho pensato fosse un controllo, invece sono scesi puntandoci gli M-16 addosso. Il

giorno prima avevano ammazzato un ragazzino di 16 anni e ho temuto saremmo stati i prossimi. Ci hanno trattenuto per 24 ore, durante le quali siamo stati interrogati e minacciati. Uno dei soldati mi ha puntato la canna del fucile sulla pancia per quasi un’ora giocando costantemente con il dito sul grilletto. Sono riuscito a fare un post sui social prima che ci sequestrassero il telefono e ci buttassero per terra. Quel gesto ci ha salvato e permesso di essere liberati. Non potrò tornare in Israele per i prossimi dieci anniı». Come sono nate le cicatrici sul volto? Che sono poi la firma delle sue opere. E ce n’è una per lei più significativa di altre? «Ho trascorso un lungo periodo in Tanzania. Mi capitava spesso di vedere molti ragazzi africani portare questi piccoli sfregi sulla pelle che in realtà rappresentano dei simboli. Mi piaceva l’idea che rinunciassero a un pezzo di se stessi per senso di appartenenza alle proprie tribù, fa parte della cultura africana. Le cicatrici sono diventate la firma dei miei murales, prima di realizzarle sul mio volto, due anni fa. Realizzare Diego Maradona mi ha emozionato tanto, lui mi ha anche scritto per ringraziarmi. Per un ragazzino napoletano che cresce col suo mito, Diego è quasi un Dio». L’ultima domanda è su questo lavoro che ha realizzato adesso a Scampia. E cosa può anticiparci riguardo al futuro? «L’idea di realizzare Fabrizio De Andrè in questa zona è nata nell’ambito del progetto “Maggio dei Monumenti 2022”. Con la mia fondazione, la Fondazione Jorit, ci siamo proposti di dare vita a quest’opera, a cui sto lavorando insieme a Trisha, una giovane street artist di Scampia. Inoltre sempre nell’ambito del “Maggio dei monumenti” c’è un’altra opera in corso a Ponticelli a firma di un altro artista, Zeus, con cui stiamo collaborando. Il futuro? È quello che faccio oggi. E quello che faccio è tutta la mia vita, oltre ai miei affetti personali che ovviamente vengono prima di ogni cosa». Q © RIPRODUZIONE RISERVATA

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Il destino dei profughi CALABRIA

L’accoglienza non si ferma Il Villaggio globale di Riace ripopolato dagli afghani Mentre l’ex sindaco Mimmo Lucano attende la sentenza d’appello, una rete di associazioni mantiene in vita il borgo solidale con gli aiuti. “Contro la criminalizzazione di un modello” di Alice

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Pistolesi foto di Giacomo Sini


Storie

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Una delle donne arrivate nel borgo di Riace, modello di accoglienza

all’Afghanistan a Riace per ricostruire una nuova vita. Quattro famiglie sono arrivate nel mese di giugno nel borgo calabrese, dove l’accoglienza ministeriale è stata bloccata poco dopo l’avvio del procedimento giudiziario contro Mimmo Lucano. Il processo di appello all’ex sindaco, condannato in primo grado a 13 anni e 2 mesi di carcere con una serie di accuse legate alla gestione dei progetti di accoglienza dei richiedenti asilo, è iniziato il 25 maggio. Il 6 luglio è fissata la prossima udienza. Ezatullah e Roqia, 30 e 29 anni sono arrivati a Riace dopo una lunga attesa. «Abbiamo trascorso quasi nove mesi in Pakistan. Veniamo da Kandahar. Siamo fuggiti con la nostra bimba di tre anni alla fine di agosto e siamo riusciti ad attraversare il confine. Io lavoravo con gruppi di statunitensi, mentre mia moglie era una maestra. Non potevamo restare, rischiavamo entrambi tremende ritorsioni», raccontano a L’Espresso. Entrare o uscire dal Pakistan non è facile. Ezatullah e la sua famiglia hanno dovuto aspettare che venisse loro concesso un visto, che costa circa 800 euro a persona. A Riace sono quindi arrivati tramite un percorso umanitario gestito dall’associazione Jimuel Onlus. «Ci siamo presi carico del costo del visto e del viaggio. Lo Stato italiano chiede infatti delle garanzie per l’arrivo delle persone provenienti dall’Afghanistan. Noi siamo riusciti a coprire i costi per quattro famiglie tramite le sottoscrizioni di privati che hanno donato quote all’associazione. Riace, subito dopo l’invasione russa, si era resa disponibile anche ad accogliere famiglie ucraine, ma serviva un’approvazione formale, che il Consiglio Comunale non ha dato», racconta Isidoro Napoli, presidente di Jimuel. A Riace Ezatullah e Roqia hanno iniziato la propria ripartenza. Roqia ha una borsa lavoro in un laboratorio di sartoria ed entrambi stanno frequentando la scuola di italiano. «Vedo il mio futuro qui, prima di arrivare speravo di trovare un buon posto in cui vivere ma non potevo esserne sicuro. Il nostro 3 luglio 2022

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Il destino dei profughi obiettivo è imparare l’italiano prima possibile e iniziare la nostra nuova vita», prosegue Ezatullah. Un “modello Riace” in versione ridotta sta quindi ricominciando. Le famiglie afghane sono ospitate all’interno del cosiddetto Villaggio globale, la zona del borgo in cui le decine di case abbandonate dai cittadini emigrati nel Nord Italia o all’estero vengono affittate, tramite un’associazione, alle famiglie rifugiate. «Gli afghani stanno ripopolando il borgo ma in realtà l’accoglienza spontanea a Riace non si è mai fermata», racconta Mimmo Lucano. E non si è fermata nonostante nel 2016 sia iniziata la trafila giudiziaria per l’ex sindaco e nel 2017 siano stati congelati i fondi del progetto Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati, sostituito nel 2018 dal Sipromi, Sistema di protezione per titolari di protezione internazionale e per i minori stranieri non accompagnati e nel 2020 dal Sai, Sistema accoglienza Integrazione), finanziato con fondi del ministero dell’Interno.

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opo che a Riace vennero bloccati i progetti in corso, i migranti vennero trasferiti in altri centri sparsi in tutta Italia. Il blocco dei finanziamenti ha di fatto paralizzato l’accoglienza a Riace: il borgo si era nuovamente spopolato, anche se c’era chi aveva comunque deciso di restare. Il modello Riace, iniziato nel 1998 con i primi sbarchi di curdi e ampliato nei vent’anni successivi, ha contribuito, secondo molti, a fermare lo spopolamento del piccolo centro. In quindici anni il Paese era infatti tornato ai livelli di popolazione del 1920, arrivando a superare i 2.500 abitanti, mentre negli anni Novanta abitavano a Riace solo 1.600 persone. La storia di accoglienza del borgo calabrese parte da lontano e ha visto Mimmo Lucano in prima linea prima come volontario e poi come sindaco. Lucano è stato infatti primo cittadino di Riace dal 2004 al 2018, anno in cui Antonio Trifoli è stato eletto con una

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lista civica vicina alla destra, mentre l’ex sindaco non ha ottenuto i voti per poter entrare in Consiglio comunale. «Ho sempre pensato che l’accoglienza nei borghi spopolati contribuisse a far rinascere un senso di identità. Le comunità in cui ci sono solo autoctoni non sono ideali, non c’è crescita, contaminazione. Io ho sempre considerato quello che abbiamo creato negli anni come qualcosa di spontaneo, che andasse al di là dei confini. Il fatto che un luogo di emigrazione in cui non c’è lavoro e ci sono fortissime infiltrazioni mafiose si stesse trasformando in uno di arrivo ha incuriosito tanti. Nel bene e nel male», racconta Mimmo Lucano. Ma a ripopolare Riace sono stati negli anni anche i riacesi stessi. Tra questi c’è Vincenzo, emigrato prima in

Toscana e poi a Parigi subito dopo il diploma per ragioni di studio e lavoro, e rientrato nel Paese per lavorare con l’accoglienza. «Sono tornato ad abitare nella mia vecchia casa. Lasciare Riace era stata una necessità visto che volevo lavorare con il cinema. Adesso continuo a farlo ma ho la base nel mio paese e aiuto a portare avanti il nostro progetto di accoglienza. Come me sono stati molti i giovani riacesi che erano tornati per lavorare negli anni passati. Ora in molti sono ripartiti», racconta. Riace continua in ogni caso a essere «meta di un’accoglienza spontanea». Sono ad oggi, oltre alle famiglie afghane arrivate a giugno, trenta le persone provenienti da Nigeria, Ciad, Etiopia, Etitrea, Somalia, Ghana ed Egitto che abi-


Storie Mimmo Lucano) che stanno, tramite sottoscrizioni, sostenendo il modello di accoglienza con eventi, iniziative e raccolte fondi.

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Uno scorcio di Riace con uno dei laboratori per le attività comuni. A sinistra, in alto un gruppo di giovani residenti e, in basso, l’ex sindaco Mimmo Lucano

tano nel borgo. «Arrivano tramite passaparola. Tra loro c’è chi ha concluso i progetti di accoglienza nei Sai ma non sa dove andare. C’è chi fugge dalla violenza dei propri familiari. La scorsa settimana è arrivata una ragazza nigeriana incinta con i suoi due bambini. Vengono qui perché sanno che possono trovare una porta aperta, che nonostante tutto non lasciamo per la strada nessuno», spiega l’ex sindaco.

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el Villaggio globale non ci sono solo case. È anche un luogo di attività: restano aperti i laboratori tessili, di falegnameria, il forno sociale, la biblioteca dei diritti umani ed è in fase di creazione Radio Aut, una web radio che si rifà all’esperienza dell’emit-

tente antimafia creata a Cinisi negli anni Settanta da Peppino Impastato. È attivo, poi, il banco alimentare che fornisce ogni settimana un buono spesa a ciascun nucleo familiare, così come l’ambulatorio medico in cui tre medici specialisti visitano gratuitamente sia le persone rifugiate che i riacesi. Dietro al modello di accoglienza c’è il sostegno di una serie di associazioni. Centinaia le attività che dall’inizio del processo a Lucano si sono svolte in tutta Italia per raccogliere fondi con l’obiettivo di portare avanti il progetto. Una delle realtà più attive è “Una luce per Riace”, associazione bolognese che si occupa di pagare le bollette alle case dei rifugiati che abitano nel Villaggio globale. Al lavoro anche vari “Comitati 11 giugno” (data di inizio del processo a

n modello, quello di Riace, che ha subito un processo di criminalizzazione. A dirlo, tra gli altri, una delegazione di parlamentari europei di Verdi (Greens-Efa) e Sinistra (Left) che i primi di giugno ha fatto visita al borgo calabrese per portare la propria solidarietà all’ex sindaco. Un sostegno che, secondo Damien Careme del gruppo dei Greens, si sostanzia al Parlamento di Strasburgo con l’appoggio di 60 deputati. La criminalizzazione della solidarietà non è un fatto solo italiano ed è anzi diffusa in tutta Europa. Secondo un dossier realizzato dal gruppo dei Verdi, sono state 89 le persone perseguite nei Paesi Membri tra gennaio 2021 e marzo 2022. Tra questi 18 devono affrontare nuove accuse e quattro sono essi stessi migranti. Nell’88 per cento dei casi le persone sono state accusate di «favoreggiamento dell’ingresso, del transito o del soggiorno di migranti». A questi casi si sommano poi le quasi 300 persone che tra agosto e settembre 2021 sono state arrestate per aver aiutato i migranti che attraversavano illegalmente le frontiere tra Bielorussia e Polonia a seguito della crisi afghana. Anche il rapporto “Accused of solidarity”, publicato da Border violence monitoring network (Bvmn, una rete indipendente di associazioni che monitorano le violazioni dei diritti umani alle frontiere esterne dell’Ue) alla fine di maggio descrive e documenta il processo di «criminalizzazione» dei migranti e delle associazioni e operatori impegnati in questo campo. Elencando e contestualizzando gli episodi di criminalizzazione il rapporto evidenzia il «deterioramento della situazione» per chi offre sostegno ai migranti. Una criminalizzazione che, secondo le rilevazioni di Bvmn, sta diventando «sempre più raffinata perché attuata con metodi e strumenti formalmente legali». Q ©RIPRODUZIONE RISERVATA

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Le battaglie energetiche STATI UNITI

La nuova corsa all’oro delle Black Hills che minaccia i Lakota Dopo l’esproprio delle loro terre, i nativi americani in difesa delle colline sacre contro lo sfruttamento dei giacimenti minerari di litio e uranio

Cavalieri e Donatella Mulvoni da Pine Ridge

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uella che da quasi centocinquant’anni ribolle nelle arterie scure di questi boschi è la più lunga e caparbia battaglia del popolo nativo contro il governo americano, la lotta di resistenza per il riscatto delle Black Hills, le colline nere, rubate dai coloni. Questi clivi ricoperti di conifere e irrorati da bacini di acque dolci, non sono un appezzamento di terreno come tanti nel Dakota del Sud; sono le He Sapa, le terre sacre degli Oceti Sakowin, (che i rivali bollarono Sioux, i piccoli serpenti), la confederazione di tribù alleate Lakota, Dakota e Nakota. Qui, nacque il leggendario guerriero Cavallo Pazzo; qui cavalcarono Toro Seduto e Nuvola Rossa. La terra che ha alimentato la fierezza di un popolo che non si è piegato neppure all’offerta di centocinque milioni di dollari, il prezzo che la Corte Suprema nel 1980 aveva stabilito per compensare l’espropriazione illegittima, consumata nella seconda metà dell’Ottocento, quando i bianchi si lanciarono nella corsa all’oro. Un fondo mai riscosso, oggi lievitato oltre il miliardo. Dopo decenni di lotte, i nativi, recintati nella riserva di Pine Ridge, avevano posto grandi speranze nell’“amico” Biden; ma il recente attacco russo all’Ucraina gli ha sbattuto davanti il timore di una seconda calata. «Dobbiamo adottare tutti gli strumenti e le tecnologie che possono

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liberarci dalla dipendenza dai combustibili fossili (...) Dobbiamo porre fine alla dipendenza dalla Cina e da altri Paesi», ha detto il presidente lo scorso marzo, invocando il Defense production act, una legge risalente alla Guerra Fredda, per incoraggiare le estrazioni di litio e altri materiali per motivi di sicurezza nazionale. Aumentare le miniere, dunque. «Le macchine elettriche hanno bisogno di litio, le bombe di uranio», spiega Carla Rae Marshall, attivista della Black Hills clean water alliance, la principale associazione che monitora le attività minerarie sulle colline sacre del Dakota del Sud. La incontriamo nel suo ufficio a Rapid City. «Questa energia sarà verde per gli altri, ma per noi avrà un prezzo devastante perché le Black Hills, con tutte le riserve minerali, sono sotto tiro ancora una volta. Siamo pronti a combattere di nuovo». Di nuovo, appunto. Perché i Lakota Sioux lottano per la sopravvivenza da quando i bianchi “scoprirono” l’America e iniziarono ad accaparrarsi ogni centimetro. Fino a quel momento erano gli unici abitanti delle Grandi pianure del West, poi romanzate in decine di film hollywoodiani. Vivevano grazie alla caccia al bisonte, nucleo essenziale del loro sostentamento. Dal maestoso «buffalo» si ricavava cibo, pelli per le tende, grasso da conservare, ossa per costruire utensili.

Foto: Q. Sakamaki / Redux / Contrasto

di Manuela

Un teschio fuori da una roulotte nella riserva dei nativi americani nel Dakota del sud


Storie

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Le battaglie energetiche

Un'adolescente della riserva di Pine Ridge. Al centro, i busti dei presidenti al Mount Rushmore

«Noi Lakota diciamo che le Black Hills sono il cuore di tutto ciò che esiste», racconta Monique Mousseau, l’attivista locale con cui viaggiamo. Lunga oltre duecento chilometri, con vette che arrivano a duemila metri, questa catena montuosa deve il nome alla fitta vegetazione che la fa apparire tenebrosa da lontano, ma bellissima e ricca di sfumature quando la si attraversa. «Per voi è terra da sfruttare; per noi le colline rappresentano invece l’anima che alimenta la nostra spiritualità, la connessione con la Madre Terra. Un Lakota cercherà sempre di tornare qui, dove può sentirle e vederle», dice Mousseau, mentre le indica, dopo essere scese dall’auto, appena entrate nella riserva di Pine Ridge, una delle aree più economicamente depresse degli Stati Uniti in cui vivono quarantaseimila Lakota della banda Oglala. «I colonizzatori ce le lasciarono pensando che non servissero a nulla, salvo cambiare idea quando scoprirono che erano ricche d’oro». Avevano provato a fidarsi, i nativi, quando nel 1851 prima e poi nel 1868, al forte di Laramie, il governo americano siglò con loro un trattato promettendo che nessuno avrebbe toccato le Black Hills. Le buone intenzioni dei 88

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visi pallidi durarono poco, giusto il tempo di scoprire l’oro custodito nel ventre della terra, dopo una esplorazione del generale George Armstrong Custer nel 1874. Le colline nere furono invase da minatori e coloni, in barba a tutti i trattati, tanto che il governo li annullò nel 1877. Fu allora che iniziò la lotta instancabile dei Lakota per riavere indietro il territorio «rubato».

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o sfruttamento però è continuato negli anni Cinquanta, stavolta per estrarre uranio. Negli anni Settanta, l’opposizione locale, ma soprattutto il crollo dei prezzi, fecero fermare le pompe. Oggi l’unica attiva è la miniera d’oro Wharf. «Sono andati via lasciando centinaia di siti minerari abbandonati, alcuni a cielo aperto, senza bonificare le acque contaminate con materiale radioattivo o i terreni», denuncia Marshall. A metà degli anni Duemila, l’aumento dei prezzi dell’uranio ha riacceso le torce degli «esploratori». La Black Hills clean water alliance fiata sul collo di tutte le compagnie che hanno richiesto i permessi pubblici necessari. Ce ne sono diverse in corsa per estrarre uranio, litio, oro e terre rare. Clean

water alliance punta il dito in particolare contro i progetti di estrazione della multinazionale canadese-cinese Azarga/Powertech Uranium. «Utilizzerebbero enormi quantità di acqua, oltre trentamila litri al minuto, completamente gratis». In ballo ci sono miliardi di dollari. «Cinquant’anni fa nessuno fu ritenuto responsabile del danno ecologico. Non permetteremo che accada ancora», promette l’ambientalista. Una lotta tra Davide e Golia, perché le compagnie già da anni scaldano i motori. Non vede l’ora la canadese United Lithium, impegnata in un progetto di scavo che, se approvato, occuperà una quarantina di chilometri quadrati nelle Black Hills. «Le miniere degli anni ’70 non impiegavano i nostri metodi moderni. Siamo entusiasti, ci aspettiamo scoperte capaci di sostenere la domanda crescente di litio per rifornire i mercati nordamericani», ha dichiarato Michael Dehn, il presidente. Negli anni successivi alla Seconda Guerra Mondiale, le colline nere furono una fonte importantissima di «oro bianco». Oggi, nonostante le sostanziose riserve negli Stati Uniti, esiste solo una miniera attiva e si trova in Neva-


Storie

Foto: Nikki Kahn / Getty Images, Al Drago / Bloomberg via Getty Images, Terray Sylvester /Redux / Contrasto

Un ballerino Oglala Lakota durante le manifestazioni contro l'oleodotto Dakota access

da, anche in questo caso su terra sacra. L’America, che ha ceduto il passo a Cina, Australia, Argentina, sente di non poter più rimandare la corsa. Il litio è necessario per la produzione di telefoni, computer, prodotti farmaceutici. E per i veicoli elettrici, ovviamente, che nel 2030 si stima utilizzeranno il 90 per cento del litio a disposizione. Certo, resta difficile un’opposizione tout court. «Ci sono pro e contro», riflette il professor Jim Stone, direttore del dipartimento di ingegneria ambientale della School of mines and technology di Rapid City: «Se ci fosse più integrazione degli stakeholder e se i minerali venissero utilizzati per uso nazionale, questo sarebbe un luogo ideale per produrre energia sostenibile. Innanzitutto non c’è una popolazione numerosa nei dintorni, ma capisco che per i Lakota il problema non sia solo legato all’inquinamento, ma anche alla sacralità del territorio». Le politiche energetiche di Biden sono un guanto di sfida imposto dai tempi. Non certamente dettato da poca considerazione delle esigenze delle popolazioni indigene. Anzi, fin dal primo giorno alla Casa Bianca, con un ordine esecutivo, il presidente ha imposto il blocco dei lavori dell’oleo-

dotto Keystone, come aveva fatto Obama, mentre Trump aveva ridato poi il via libera. A parole e nei fatti, con la nomina ad esempio agli Interni della prima ministra nativa americana Deb Haaland, Biden ha messo in chiaro che il rispetto dell’autogoverno dei popoli tribali è una priorità della sua amministrazione. Ha poi stanziato miliardi per aiutare le riserve ad affrontare la siccità, bonificare le miniere e tamponare le conseguenze della pandemia, tremende per gli indiani. Insomma, una inversione di tendenza quella del democratico rispetto al predecessore repubblicano.

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Trump, i Lakota non perdoneranno mai lo sgarro di aver voluto celebrare nel 2020 la festa dell’indipendenza ai piedi del monte Rushmore, l’attrazione turistica più famosa delle Black Hills, con i faccioni incisi nella roccia dei presidenti Washington, Jefferson, Roosevelt e Lincoln (ognuno a suo modo coinvolto nell’oppressione). Il marketing americano lo promuove come il santuario della democrazia. Per gli indigeni è il simbolo dell’oppressione bianca. Due anni fa, i manifestanti indiani, arrivati per dire a

Trump che non era il benvenuto, si sono sentiti urlare, ironia della sorte: «Tornatevene a casa vostra». Ad organizzare le proteste c’era Nick Tilsen, anima del collettivo Ndn, arrestato durante una dimostrazione. È il volto della campagna di restituzione delle He Sapa, che ha visto un risveglio anche a seguito della stagione Black lives matter. «C’è un movimento globale per il ritorno delle terre nelle mani dei nativi. L’intero sistema economico degli Stati Uniti è stato fondato sull’olocausto delle nostre popolazioni e sul lavoro degli schiavi. Hanno cercato di finirci, ma siamo ancora qui. Lo spirito di resistenza scorre nel sangue del nostro popolo, è lo stesso di Cavallo Pazzo», dice Tilsen. Il collettivo punta alla creazione di un trust che gli permetterebbe di lavorare con il dipartimento degli Interni alla gestione del territorio, oggi per la maggior parte di proprietà federale. Ricorda Nick: «Abbiamo sempre rifiutato il denaro del governo per le colline nere è tempo che le restituiscano». La relazione viscerale con questi luoghi non si può monetizzare: «Le Black Hills non sono in vendita e non lo è neppure il popolo Lakota». Q © RIPRODUZIONE RISERVATA

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Itinerari d’autore

SARDEGNA

In volo sul mare dei coralli L’ultima favola di Saint Exupéry il piccolo principe di Alghero Un anno dopo l’uscita negli Usa del suo capolavoro, il libro più tradotto con la Bibbia e il Corano, soggiornava di fronte Capo Caccia, di fronte al museo che ne celebra il genio di Maurizio

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Di Fazio


Storie Gli oggetti della vita di Antoine de Saint-Exupéry e il libro che lo ha reso immortale

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magari ripensava ai suoi mille atterraggi di fortuna. Come quella volta che precipitò nella foresta tropicale mentre era diretto alla Terra del Fuoco. O quando si schiantò nel deserto libico durante un tentativo di raid da Parigi a Saigon: correva il 30 dicembre del 1935, a salvarlo furono un beduino e i mezzi dell’Aeronautica italiana. Ad Alghero, Antoine de Saint-Exupéry aveva trovato un orizzonte degno della sua fame insaziabile di libertà. Ogni tanto si metteva a scrutare le stelle che si specchiano in quel mare estatico. Ma il mondo bruciava, e lo richiamava all’ordine. Del resto non gli era mai piaciuto indugiare troppo a lungo a terra. Il suo posto era in cielo. E saliva nella cabina del suo fulmineo Lightning P38. Operazioni perlustrative, le sue: non mitra-

gliatrici, ma ricognizioni al servizio delle forze alleate americane dislocate nella base militare di Fertilia. Il compito era di localizzare e fotografare gli avamposti tedeschi. La Seconda guerra mondiale stava virando verso il suo colpo di coda. In Sardegna, nella città del corallo, il grande poeta-aviatore era arrivato il 10 maggio del 1944. Qui aveva festeggiato, virtualmente, il suo compleanno: vagava a migliaia di piedi d’altezza quel 29 giugno, sorvolando le Alpi. I nazisti lo avevano intercettato ma era riuscito a sfuggire tra le fidate nuvole, immergendosi «in quella profonda meditazione del volo, nella quale si assapora una inesplicabile speranza». Non sapeva che l’appuntamento col destino sarebbe stato solo rinviato: per l’uomo che aveva «fatto della sua vita un sogno, e di un sogno la realtà» si

aprivano, infatti, le ultime settimane su questo strano pianeta. Nella “piccola Barcellona”, paradiso turistico a venire, Saint-Exupéry soggiornava in una villetta che oggi non c’è più, nella baia di Porto Conte. Era pur sempre estate: quando non decollava suonava il violino, si cimentava a scacchi, andava in barca, deliziava i commilitoni con giochi di prestigio e i ricordi picareschi del Sud America e della Guerra civile spagnola. E continuava a scrivere: concluse il romanzo “La cittadella”, compose il suo testo giocoforza testamentario “Lettera a un americano”. Con lui, inseparabile, l’amico John Phillips, fotoreporter di “Life”. Sono sue le straordinarie immagini finali dell’autore di Le petit prince, con quella faccia un po’ così, quell’espressione un po’ così, più ironica che eroica, da adulto mai di3 luglio 2022

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Itinerari d’autore sincantato. “Il piccolo principe”, il suo capolavoro metaforico, il libro più tradotto nella storia con La Bibbia e il Corano, era già uscito negli Stati Uniti l’anno precedente (in Italia sarebbe sbarcato nel 1949). 14 luglio 1944: piomba la consegna di partire per la Corsica. 18 luglio: Antoine è a Bastia. 31 luglio: lo scrittore francese stacca l’ombra dal suolo senza più un ritorno. È il suo viaggio di addio. Si fa per dire, lo leggeremo per millenni. L’aveva presagito: «Ho detto ieri al tenente Gavoille: “Ne riparleremo dopo la guerra”. E il tenente Gavoille mi ha risposto: “Non pretenderà di essere ancora vivo dopo la guerra, capitano!”». Era nato a Lione nel rotondo 1900, di origini aristocratiche, all’alba pionieristica del secolo dell’aviazione e della narrativa moderna. Dal 2019 ad Alghero, all’interno dell’area marina protetta Capo Caccia e di una torre costiera eretta dagli aragonesi nel 1572, è visitabile il Mase (Museo Antoine de Saint-Exupéry). Il panorama è magico, a perdita d’occhio, perfetto per il suo intestatario ideale che abitò, in quei due mesi e mezzo, proprio lì di fronte. Aperture estive dal martedì alla domenica. Il suo direttore artistico è Massimiliano Fois, storico e artefice del saggio “Pizzicaluna a L’alguer”, incentrato proprio su questa sua misconosciuta stagione terminale algherese.

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n altro libro molto interessante sul tema è “Il piccolo principe dall’isola alle stelle” di Luciano Deriu. Più in generale, è imperdibile “Saint-Exupéry. A biography” del premio Pulitzer Stacy Schiff. Al Mase troverete cimeli d’antan, documenti rari, opere d’arte, installazioni, i ritratti fotografici di Phillips e tutte le prime edizioni dei suoi libri. Da “Corriere del sud” (1928) a “Pilota di guerra” (1952), passando per “Volo di notte” (1929), il bestseller istantaneo “Terra degli uomini” (1939) e tante altre pagine memorabili postume. “Le petit prince” ha venduto sì più di duecento milioni di copie, ma la statura di un gigante della Via Lattea della letteratura non si esaurisce nella sua intra-

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Il tavolo di lavoro e, in alto, ritratti dello scrittore-aviatore

montabile favola allegorica dalle molteplici chiavi di lettura, valida per qualsiasi classe anagrafica e generazione di passaggio. Né basta la dimensione letteraria a restituirne la complessità biografica: pilota militare dopo la Grande Guerra e poi civile per linee di migliaia di chilometri come la mitica Aeropostale Argentina-Francia, aveva desiderato fin da ragazzino di trasvolare continenti e oceani, pampas e rarefazioni d’Africa, nell’azzurro infinito striato di semplice fato. Da lassù il nostro mondo riguadagnava le sue debite proporzioni: «Le civiltà sono soltanto fragili dorature: basta un vulca-

no a cancellarle, un nuovo mare, un vento di sabbia». Senza perdere, tuttavia, un grammo della sua congenita magnificenza: «Sotto l’aeroplano, le colline scavavano già il loro solco d’ombra nell’oro della sera. Le pianure si facevano luminose, ma di una inconsumabile luce: in quelle regioni esse non finiscono mai di restituire il loro oro, così come dopo l’inverno non finiscono mai di restituire la loro neve». La voce, lo sguardo degli angeli. Come è dura, ma pura, l’avventura. Imperversano i terribili anni Trenta del Novecento e Antoine de Saint-Exupéry si libra più in alto che può: ormai scarseggiano le ri-


Storie

Il romanzo Vol de nuit scritto nel 1931. In alto, una veduta del mare di fronte Alghero

serve democratiche e morali d’ossigeno nella vecchia Europa. Anzi, sono agli sgoccioli. Meglio rischiare la pelle in quote vertiginose, «spinto verso quella vita forte che porta con sé sofferenze e gioie, ma che, sola, conta qualche cosa». Ogni tanto riatterra anche per amore di Consuelo, sua moglie, un’artista salvadoregna del giro dei surrealisti con cui si moltiplicano le turbolenze. Non disdegna il giornalismo, collabora con Paris-Soir. Scoppia il nuovo conflitto planetario: cerca di darsi da fare coi galloni di capitano di complemento, vorrebbe governare una squadriglia di caccia ma l’Armée de

l’Air lo confina in una di ricognizione. La carta di identità non è più verdissima per il tempo. Il maresciallo Pètain si inginocchia a Hitler, il regime collaborazionista infesta la culla della rivoluzione e lui prova ancora a onorare la patria. Scampa a un nuovo sinistro volante e nel 1942 ripara a New York, dove va a vivere, insieme a Consuelo, in un appartamento appartenuto a Greta Garbo. Ma non si dà pace. Lo avvistano in Québec. Per gli statunitensi, la sua fede gollista è incrollabile e lo adottano a differenza del governo canadese. Riappare all’improvviso sui radar europei: gli affidano incarichi strategici, ma

secondari, nel cuore del Mediterraneo. L’epilogo è noto. Per decenni la sua morte sarà ammantata di mistero e di una malsana aura romantica: e se fosse stata una messinscena, un formidabile capitolo extra? Un pescatore francese trova tra le sue reti un braccialetto d’argento con inciso “Antoine”. Glielo aveva regalato la moglie. Quando riaffiora a galla il relitto del velivolo, il pilota della Luftwaffe che l’aveva abbattuto confessa la sua ammirazione postuma: aveva letto quasi tutti i suoi libri, tranne “Il piccolo principe”. «Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi». «È incerto se Saint-Exupéry volasse per scrivere o scrivesse per volare», ha osservato da par suo Umberto Eco nella prefazione al fumetto che un altro prodigio dell’immaginazione, Hugo Pratt, gli ha dedicato nel 2009. E non tutte le rielaborazioni in materia sono uguali: è ben diversa la sua visione da quella, per esempio, di Marlowe di tre secoli e mezzo prima. Il suo Faustus non parlava certo al cuore latente dell’umanità, ma alla nostra inconfessabile hybris. Scorrazzante nell’aria, trainato da draghi svolazzanti e scintillanti di fuoco, riassumeva in questi termini la superficie terrestre sbirciata dalle sommità celesti: è «più piccola della mia mano». Antoine de Saint-Exupéry ha inseguito un’aerodinamica di fraternità e amicizia universale. Il candore e lo stupore da preservare, «tutti i grandi sono stati bambini una volta. Ma pochi di essi se ne ricordano». Una rotta fuori dalle sfere tragiche della sua epoca. La febbre della carlinga, della fusoliera, del motore; il cadere e il rialzarsi sulle piume di metallo della fantasia. Ogni volta che ascendeva in cielo diventava un po’ più immortale. «Bisognerebbe lavorare più che per sé stessi, per l’eternità», affermò tra l’altro. E magari ripensò alle onde di Alghero, alla sua esistenza incredibile e poco importava che fosse il suo ultimo volo a occhi aperti. «Mi domando se le stelle sono illuminate perché ognuno possa un giorno trovare la sua». Q © RIPRODUZIONE RISERVATA

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Ho visto cose/tv

RAFFA, DIVINA DELLA PORTA ACCANTO Un anno senza Carrà, che riuscì a conciliare normalità e magnificenza

BEATRICE DONDI Nella prima puntata del neonato programma, alla prima telefonata della prima volta del rivoluzionario quiz che diventerà il simbolo della domanda formato tv, la signorina da casa ipotizzò che nel barattolo ci potessero essere 25mila fagioli. A quel punto Raffaella Carrà strinse le labbra lucide, alzò le sopracciglia e scosse la testa: «Forse un po' meno, ma riprova domani». Ecco, il successo di quella donna immaginifica si potrebbe riassumere in questa semplice prova di conduzione datata anni Ottanta. Un telefono grigio, con la rotella e il prefisso per chi chiama da fuori Roma, capace di unire per la prima volta le case alla piccola scatola televisiva. Una chiacchierata, tra amiche, dove anche se dici una castroneria al massimo ci scappa un sorriso. E una speranza, solida, che magari non oggi o magari chissà, prima o poi arriva un giorno migliore. Non le gambe, la risata, le canzoni, i guantini di pelle, gli abiti esagerati, le interviste impossibili, la folla plaudente, la schiena inarcata, il successo planetario, l’apertura mentale futuribile, l’urgenza della libertà. Piuttosto in questo primo anno senza Raffaella Carrà, che ha lasciato una voragine emotiva persino in chi ha sempre guardato alla sua televisione con un filo di disincanto, quello che resta come lascito intriso di malinconia nean-

che fosse una brioche di Nanni Loi in un cappuccino altrui, è proprio la consapevolezza di aver perduto un'irripetibile meraviglia della porta accanto. L'evidenza di una divina che seduta al tavolino mentre il montepremi scalava di 50 mila lire a ogni risposta mancata, era in grado di far sembrare quotidiana la sua sessualità pudica, i suoi abiti importabili, le sue faccette e i suoi lustrini sulle braccia aperte, composte, generose. Da quell'infausto 5 luglio del 2021, in cui Raffaella smise all'improvviso di “cantare a casa mia”, il suo santino è cominciato ad apparire come un ologramma sopra ogni piccolo schermo, come un riflesso mancato, un post-it che all'utopica ricerca di un'erede capace di unire questi due aspetti così lontani, così vicini. Perché variegati omaggi le sono stati più (o meno) tributati, un po' di Ariston, un filo di Eurovision, una seconda serata, una promessa di una piazza, una manciata di libri, uno show che arriverà con calma nel 2023 oltre all'imperdibile “Tuca Tuca Remix” con Carmen Russo che balla in un Colosseo in miniatura con Enzo Paolo Turchi vestito da centurione. Ma qualcuno in grado di regalarsi al pubblico in quel modo, no, non è stato ancora avvistato. Da Trieste in giù. Q

#musica Aborto, tutti contro l’odiata sentenza Ci voleva una sentenza allucinante come quella della Corte Suprema americana che ha annullato il diritto costituzionale all’aborto, per scatenare l’ira dell’intero mondo della musica. Eddie Vedder dei Pearl Jam ha urlato a Imola che in America i diritti delle donne non sono garantiti, Pink ha postato sui suoi social una proposta forte e condivisibile: «Se apprezzate la sentenza antiabortista

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© RIPRODUZIONE RISERVATA

GINO CASTALDO allora non ascoltate più la mia musica», come dire se la pensate in quel modo non voglio neanche immaginare che le mie canzoni siano da voi amate e ascoltate. Al festival di Glastonbury, ormai la tribuna rock per eccellenza, è stato un coro continuo: Billy Joe Armstrong dei Greenday ha detto che rinuncerà alla cittadinanza americana, e in questo periodo è anche questo un pensiero condivisibile; Olivia Rodrigo ha tuonato contro i giudici e poi insieme a Lily Allen hanno cantato “Fuck you”, Billie Eilish ha detto che

è una giornata nera per le donne in America. Quel gran genio di Kendrick Lamar ha terminato il suo concerto con in testa una corona di spine e il sangue che colava sulla sua camicia bianca urlando a ripetizione: «Godspeed for women’s rights; they judge you, they judge Christ!». E poi ancora Taylor Swift, Bon Iver che ha postato un laconico ma significativo «I cant stop cryng», e poi ancora Harry Styles, Cher, Cat Power, Alicia Keys, John Legend, uomini e donne di ogni stile e generazione. Perfino Mariah Carey ha tuonato: «It is truly


Scritti al buio/cinema

LA RIVOLUZIONE SPEZZATA DI HONG KONG Un documentario racconta la rivolta dei giovani contro Pechino. Da non perdere

FABIO FERZETTI

Foto: S. Spaziani - picture alliance / Ansa, J. Okpalo - WireImage / GettyImages

Molte rivoluzioni sono rivoluzioni mancate. Alcune sono riuscite anche se (o proprio perché) sono rivoluzioni mancate. Nessuna, riuscita o meno che sia, somiglia a quella tentata dai giovani di Hong Kong nel 2019. Ce lo ricorda questo documentario minuzioso e travolgente che rievoca le diverse fasi della rivolta e l’umanità davvero nuova che le stava dietro. Nuova perché composta da ragazzi e ragazzini pronti a rischiare tutto per la libertà. Nuova perché anonima, intercambiabile, mascherata, e non solo per via dei lacrimogeni. Ma soprattutto capace di usare gli strumenti della modernità, smartphone e social in testa, con un’agilità e un’inventiva che magari non vincono (come potrebbe questa “regione amministrativa speciale” piegare la Cina e i suoi spietati “robocops”?) ma costringono il Potere a gettare davvero la maschera. Il tutto non in qualche arcaica e remota contrada ma nel cuore della modernità più estrema, con effetti anche visivamente clamorosi a ricordarci il ruolo decisivo della fotogenia, chiamiamola così, nella comunicazione contemporanea. Anche se in primo piano resiste l’umanità struggente di quella folla occidentalizzata ma così diversa da noi, che si alterna in ogni ruolo davanti e dietro agli obiettivi. Ragazzi che si uccidono per lanciare un messaggio (quel fantasma

unfathomable and disheartening to have to try to explain to my 11 year old daughter why we live in a world where women’s rights are disintegrating in front of our eyes». È vero, come si fa a spiegare a una figlia di 11 anni perché viviamo in un mondo in cui i diritti delle donne si stanno disintegrando davanti ai nostri occhi? Il problema come sempre è l’America, il Paese delle massime contraddizioni, il rigoglioso luna park della cultura moderna e poi la nazione della pena di morte, delle armi libere, di Trump. «Viviamo in un’America che non riconosco», scrive Jennifer Lopez e Madonna lo spiega ancora meglio: «Mi sono

gigante in impermeabile giallo che appare pochi secondi fra i grattacieli è un colpo al cuore); genitori che si mobilitano per difendere quei ragazzi; vecchi contadini (lo zio Chen) che urlano il loro disprezzo in faccia ai poliziotti; manifestanti che occupano la Camera ma non toccano un chicco di riso e se proprio hanno fame lasciano i soldi sul tavolo... Inevitabile, con tutte le differenze, pensare al G8 (e a “Diaz” di Daniele Vicari). Qui però tutto dura mesi, i ribelli imparano a “farsi acqua” per tener testa al nemico, due milioni di hongkonghesi su sette scendono in piazza mentre la polizia arruola i malavitosi per fare il lavoro sporco. E un rappresentante furioso degli ex-coloni, accento “posh” e indice puntato contro una ragazza basìta, regala con la sua sfuriata una sintesi davvero perfetta della posta in gioco. Da non perdere, anche perché la Cina è vicina a molti, specie nel mondo degli affari, e come già per il documentario sul delitto Khashoggi le piattaforme non fanno esattamente la fila per diffonderlo. Q © RIPRODUZIONE RISERVATA

“REVOLUTION OF OUR TIMES” di Kiwi Chow Hong Kong 152’

Kendrick Lamar

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svegliata con una notizia terrificante, il ribaltamento di Roe v. Wade», in riferimento a una sentenza storica del 1973 che affermò il diritto di una donna alla scelta dell’aborto. E continua: «Ora la Corte Suprema ha deciso che i diritti delle donne non sono più diritti costituzionali. Di fatto abbiamo meno diritti di una pistola». La scesa in campo è potente e massiccia. I messaggi non si limitano a deplorare l’accaduto. Molti annunciano battaglia, e allora ne vedremo delle belle. Non capita spesso che la musica si mobiliti in massa, ma quando succede l’effetto Q è garantito. © RIPRODUZIONE RISERVATA

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Noi e Voi

N. 26 3 LUGLIO 2022

DIRETTORE RESPONSABILE: LIRIO ABBATE CAPOREDATTORI CENTRALI: Leopoldo Fabiani (responsabile), Enrico Bellavia (vicario) UFFICIO CENTRALE: Beatrice Dondi (vicecaporedattrice), Sabina Minardi (vicecaporedattrice) REDAZIONE: Federica Bianchi, Paolo Biondani (inviato), Emanuele Coen (vicecaposervizio), Angiola Codacci-Pisanelli (caposervizio), Antonio Fraschilla, Vittorio Malagutti (inviato), Antonia Matarrese, Mauro Munafò (caposervizio web), Carlo Tecce (inviato), Gianfrancesco Turano (inviato), Susanna Turco ART DIRECTOR: Stefano Cipolla (caporedattore) UFFICIO GRAFICO: Martina Cozzi (caposervizio), Alessio Melandri, Emiliano Rapiti (collaboratore) PHOTOEDITOR: Tiziana Faraoni (vicecaporedattrice) RICERCA FOTOGRAFICA: Giorgia Coccia, Mauro Pelella, Elena Turrini SEGRETERIA DI REDAZIONE: Valeria Esposito (coordinamento), Sante Calvaresi, Rosangela D’Onofrio OPINIONI: Altan, Mauro Biani, Luca Bottura, Massimo Cacciari, Lucio Caracciolo, Franco Corleone, Donatella Di Cesare, Roberto Esposito, Luciano Floridi, Bernard Guetta, Sandro Magister, Makkox, Bruno Manfellotto, Ignazio Marino, Ezio Mauro, Michela Murgia, Denise Pardo, Massimo Riva, Pier Aldo Rovatti, Giorgio Ruffolo, Eugenio Scalfari, Michele Serra, Raffaele Simone, Bernardo Valli, Gianni Vattimo, Sofia Ventura, Luigi Vicinanza, Luigi Zoja COLLABORATORI: Simone Alliva, Erika Antonelli, Viola Ardone, Silvia Barbagallo, Loredana Bartoletti, Giuliano Battiston, Marta Bellingreri, Marco Belpoliti, Caterina Bonvicini, Floriana Bulfon, Ivan Canu, Gino Castaldo, Giuseppe Catozzella, Manuela Cavalieri, Rita Cirio, Stefano Del Re, Alberto Dentice, Francesca De Sanctis, Cesare de Seta, Roberto Di Caro, Paolo Di Paolo, Fabio Ferzetti, Alberto Flores d’Arcais, Marcello Fois, Antonio Funiciello, Giuseppe Genna, Wlodek Goldkorn, Marco Grieco, Luciana Grosso, Helena Janeczek, Stefano Liberti, Claudio Lindner, Francesca Mannocchi, Gaia Manzini, Piero Melati, Luca Molinari, Donatella Mulvoni, Matteo Nucci, Eugenio Occorsio, Marco Pacini, Massimiliano Panarari, Gianni Perrelli, Simone Pieranni, Paola Pilati, Sabrina Pisu, Laura Pugno, Marisa Ranieri Panetta, Mario Ricciardi, Gigi Riva, Gloria Riva, Stefania Rossini, Evelina Santangelo, Elvira Seminara, Caterina Serra, Chiara Sgreccia, Francesca Sironi, Leo Sisti, Elena Testi, Chiara Valentini, Chiara Valerio, Stefano Vastano, Daniele Zendroni PROGETTO GRAFICO: Stefano Cipolla e Daniele Zendroni GEDI Periodici e Servizi S.p.A. Via Ernesto Lugaro, 15 – 10126 Torino C.F. P.IVA e iscrizione Reg. Imprese n. 12546800017 N. REA TO - 1298215 CONSIGLIO DI AMMINISTRAZIONE PRESIDENTE: Gabriele Acquistapace AMMINISTRATORE DELEGATO: Michela Marani CONSIGLIERI: Corrado Corradi, Roberto Moro, Carlo Ottino, Luigi Vanetti Società soggetta all’attività di direzione e coordinamento di

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SE GLI ALLARMI RESTANO INASCOLTATI RISPONDE STEFANIA ROSSINI [ STEFANIA.ROSSINI@ESPRESSOEDIT.IT ] Cara Rossini, che pena vedere certi video e leggere certi articoli e guardare certi tg. Come se il mondo si fosse d’improvviso svegliato da piedi. Ammoniscono ormai da tutte le parti: mancherà il gas, l’elettricità e persino l’acqua. Ci illustrano la siccità e le temperature altissime di questi giorni. E tutti gli allarmi dei climatologi da decenni, terra di nessuno. I politici pensano alle prossime elezioni, a come risollevarsi dalle batoste quelli che le hanno subite, a come sfruttare il momento chi ha visto lievitare i consensi. Come Giorgia Meloni. L’ho vista sbraitare in Spagna in un video. E ho visto anche Putin che parla di fine di un’epoca e che gli Usa non sono i padroni del mondo. E poi vedo Zelensky che accoglie Boris Johnson a Kiev. Loro due insieme sembrano un cartone animato. Zelensky ha lo sguardo stanco e sfiduciato, mentre Boris ha l’aria di un sopravvissuto all’attacco di una tribù di Apache. Di Maio contro Conte, Conte contro Draghi, Letta che parla di campi larghi o larghissimi e Salvini che paventa la leadership di una donna della destra che sembrava in mano sua e gli è scappata come un bambino ai giardinetti. Solo papa Francesco sembra ottimista, gli altri hanno facce da funerale che basta guardarli per sentirsi salire l’attacco di panico. E il nostro ministro della Salute che si è preso il Covid con tutta la mascherina che avrà portato anche quando stava da solo e le quattro dosi che si sarà fatto. E noi? Da che parte ci giriamo? C’è l’inflazione i risparmi prendono il volo, in che investiamo? In libri rari? È appena passata l’ennesima norma che toglie le mascherine quasi ovunque e ci avvertono che i contagi salgono. Evviva. E la guerra continua in Ucraina ma ormai sembra che non faccia neppure più notizia. Mariagrazia Gazzato

La si può anche prendere così, con un po’ di ironia, tanto per allontanare la paura che invece incombe su ogni questione. La nostra lettrice tocca con voluta leggerezza tutte le situazioni che hanno scosso le vecchie certezze e rendono incerto il futuro. Il Covid che non molla la presa. La guerra che non fa più notizia perché, nei tempi della diretta degli orrori, ogni sorpresa è già stata consumata e con essa ogni pietà. La destra che fa la voce grossa ma non trova coesione al suo interno mentre Giorgia Meloni, che pure ne incarna l’unica leadership, continua a strillare inutilmente al vento i suoi culti arretrati dell’amor patrio e della famiglia tradizionale. L’elettricità e il gas che saranno razionati e forse dovremo imparare a farne un uso moderato. E i prezzi, soprattutto i prezzi, che crescono senza tregua. Un’amabile addetta di un supermarket, una di quelle ragazze laureate o laureande che lavorano sperando in un altro futuro, mi ha detto che ormai passa la maggior parte del suo tempo a cambiare i cartelli dei prezzi, che aumentano di pochi centesimi anche più volte al giorno. Si potrebbe dire che nella serie delle piaghe del nostro tempo mancano soltanto le cavallette. Sarebbe un errore perché dalla Sardegna stanno biblicamente sbarcando in continente.

Questo giornale è stampato su carta con cellulose, senza cloro gas, provenienti da foreste controllate e certificate nel rispetto delle normative ecologiche vigenti. Certificato ADS n. 9053 del 06/04/2022 Codice ISSN online 2499-0833

N. 26 - ANNO LXVII - 3 LUGLIO 2022 TIRATURA COPIE 204.900

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3 luglio 2022

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Michele Serra

Satira Preventiva

Con la siccità arriva il riso-cactus La nuova varietà biotecnologica è in grado di crescere senz’acqua. Problemi: le spine e dopo la cottura resta duro come i sassolini di ghiaia

Fratelli d’Italia Meloni sta pensando a una grandiosa “battaglia per l’acqua”, facendosi immortalare mentre, da vera italiana, erige dighe e scava pozzi. Per distinguersi dal modello mussoliniano, il suo staff le ha consigliato di non farlo a torso nudo. Anche le processioni e le novene per invocare la pioggia sono considerate un baluardo della tradizione cristiana. La destra devota considera la siccità (così come l’Aids, il Covid, il voto di Verona) una punizione divina causata dalla depravazione dei costumi. Dunque per fare piovere bisogna pregare molto e accoppiarsi solo con il coniuge, possibilmente a scopo riproduttivo. All’obiezione che una famiglia con dodici figli rischia di consumare più acqua di una coppia gay, la risposta è facile: ci penserà la Provvidenza. La Lega Anche Salvini è favorevole alle processioni, ma con una coloritura tipicamente leghista: bestemmiare ogni cento metri per dare più vigore alla richiesta. Il pellegrinaggio alla sorgente del Po è considerato malaugurante: da quando c’è andato Bossi, la sorgente si è essiccata e il Monviso si è abbassa-

to di cento metri. Meglio dunque un pellegrinaggio alla foce, sparando alla copiosa fauna avicola per ingannare il tempo. Ottimo bottino anche con i pesci gatto agonizzanti nelle pozze, è possibile catturarli con le mani. La componente laica della Lega non crede molto nell’efficacia della cerimonia per quanto riguarda la precipitazioni, ma parteciperà ugualmente perché il divertimento è garantito. Draghi Propone un incentivo europeo contro la siccità (Water Improvement Fund), l’emissione di bond per la ricerca scientifica sul comportamento delle nuvole (Clouds Behavior Research Fund), la nascita di una Scuola Superiore Europea di Idraulica (European Hydraulics Mastership School). Nel caso non dovesse piovere in tempi brevi, è comunque previsto un massiccio piano di finanziamento delle processioni (Religious Processions Financing Plan). Tecnologia Come sostiene Elon Musk, tutto si risolve con la tecnologia. Grazie alle biotecnologie sarà presto disponibile il riso-cactus, in grado di crescere senz’acqua. Pare sia ottimo, basta avere cura di levare le spine con una pinzetta, chicco per chicco, prima della cottura, comunque inutile perché la consistenza resta simile a quelle della ghiaia anche dopo ore di cottura. Interessante anche il mais varietà Underground, che vegeta all’ingiù e in tal

modo trova riparo dalla grande calura. Il caratteristico sapore terroso può essere facilmente corretto con soda caustica, oppure con l’ipnosi, convincendo i commensali che è buonissimo. La polenta, di colore molto scuro, può anche essere usata come terriccio per le piante di appartamento. Il Pd È accusato dai denigratori di non interessarsi alla siccità perché, essendo il partito delle Ztl, si accorgerà del fenomeno solo quando non ci sarà più acqua per annaffiare le petunie sui balconi. Secca la replica dei dem: «Chi crede che siamo in allarme solo per le petunie cerca di dare del Pd un’immagine riduttiva e caricaturale. Siamo molto preoccupati anche per azalee, begonie, ibiscus e la grande biodiversità delle piante ornamentali in vaso. Tanto le piante da interni quanto quella da esterni, con pari dignità, hanno diritto ad annaffiature regolari». Berlusconi Si è detto disponibile a risolvere personalmente il problema della siccità offrendo di tasca sua dieci milioni di bottiglie di acqua minerale, gassata e naturale. Quanto all’agricoltura, il problema lo riguarda molto da vicino perché, in occasione della nuova discesa in campo, non vorrebbe ritrovarsi circondato solo da erba secca. Come in occasione del G8 di Genova, darà dunque incarico di incollare foglioline finte agli steli inariditi. Q ©RIPRODUZIONE RISERVATA

La rubrica “L’antitaliana” di Michela Murgia tornerà nelle prossime settimane

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3 luglio 2022

Illustrazione: Ivan Canu

L

a politica, colta di sorpresa, si sta mobilitando sull’emergenza siccità, tradizionale ricorrenza estiva degli ultimi vent’anni e dei prossimi venti. Ogni partito ha le sue proposte operative. Sono valide anche per gli anni a venire.


Bevi responsabilmente

amarodelcapo.com

publione.it

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È il liquore d’erbe di Calabria che esprime la magia unica dei colori, sapori e profumi di questa terra. Un’opera dell’uomo che celebra il trionfo di una natura aspra, ma accogliente e generosa, un capolavoro unico, da bere ghiacciato.



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