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Black Post, il sito web dei nuovi italiani Alessandro Leone
from L'ESPRESSO 30
by BFCMedia
L A REDAZIONE A ROMA Black Post, il sito web dei nuovi italiani “Il futuro è l’Africa”
Sul giornale online i migranti di prima e seconda generazione raccontano storie, commentano l’attualità, si sfogano. E lottano contro il razzismo di Alessandro Leone
Bangaly Fode Kante era uno studente di 19 anni quando la morte di suo padre, nel 2009, gli scaricò addosso le responsabilità del capofamiglia. Dal Mali, il suo Paese, si trasferì in Gambia per gestire la fabbrica che aveva ereditato ma la crisi economica lo costrinse a chiudere. Qualche anno dopo, nel 2012, il colpo di Stato dei ribelli inaugurò il periodo di instabilità in Mali, che dura ancora oggi. Fu allora che iniziò il suo viaggio verso l’Europa, alla ricerca di un nuovo inizio. Attraversò il deserto a piedi, si nascose in un camion che trasportava cammelli e arrivò in Libia, da dove salpò in gommone verso l’Italia.
Oggi Kante è mediatore linguistico e culturale nei centri di accoglienza e tribunali di Roma, dove aiuta persone che hanno vissuto esperienze simili alla sua. È un ragazzo timido, che lascia intravedere la sua parte più intima nella poesia. La prima che ha scritto si intitola “Me orfano”, concepita in un periodo in cui si sentiva “abbandonato”. «Mia nonna mi ha sempre detto che essere orfano non vuol dire perdere i propri genitori ma vivere con i propri dolori», dice. Parte dei suoi componimenti si trovano sul Black Post, sito web amministrato interamente da migranti di prima e seconda generazione.
Il suo slogan è “l’informazione nero su bianco”, un’espressione che di solito indica chiarezza, precisione, ma che in questo caso implica un ribaltamento di prospettiva: i migranti non sono più oggetto dell’informazione, sono soggetti attivi. Raccontano storie, commentano l’attualità, si sfogano come su un diario e lottano contro xenofobia e razzismo. «Vedo questa opportunità come un modo bello e semplice per poter allacciare le due sfere, gli italiani con gli stranieri. Noi quando scriviamo ci poniamo come stranieri, anche se in realtà io mi sento italiana a tutti gli effetti, però quando scrivo mi sento una straniera che parla a un italiano e gli tende la mano», afferma Rose Ndoli, camerunense, 37 anni, in Italia dal 1999.
L’idea risale al 2018, quando Matteo Salvini era ancora ministro dell’Interno e la Lega volava nei sondaggi come primo partito. Il contrasto all’immigrazione occupava grande spazio nell’agenda politica e rappresentava uno dei punti nevralgici del programma leghista. Quando Salvini arrivò al governo mantenne le sue promesse e varò i discussi decreti sulla sicurezza e l’immigrazione, che introdussero le multe alle ong e indurirono l’accoglienza e il trattamento dei rifugiati arrivati dopo la traversata nel Mediterraneo. «Salvini ha impedito a queste persone di studiare, lavorare, andare in centro. Quotidianamente mi ritrovavo persone che mi dicevano di voler lavorare o imparare l’italiano. Questo è quello che cerca di fare una parte della politica. Ti fa vedere lo straniero appena arrivato con il telefonino che non fa niente mentre tu ti spacchi la schiena. Ma devi capire cosa c’è dietro», sottolinea Bruna Kola Mece, redattrice italo-albanese, 29 anni, che lavora nell’accoglienza e nel supporto ai migranti.
In questo clima di crescente scontro nell’opinione pubblica, Luca De Simoni, uno studente di 28 anni, chiese aiuto a Sandro Medici, ex direttore del Manifesto e già presidente del X Municipio di Roma nella prima decade del 2000.
«All’inizio, quando andai da Sandro a illustrargli l’idea, il nome che avevo proposto era L’Uomo Nero. Sai, la favola. Una minaccia costruita su una favola, sulla narrazione che veniva fatta da Salvini», racconta De Simoni: «Gli ho detto che con questo titolo non sarebbe andato da nessuna parte. Era molto provocatorio», gli rispose Medici.
L’obiettivo era cercare i futuri redattori del Black Post e il modo più veloce ed efficiente per farlo sembrava quello di presentarsi ad alcuni degli eventi delle comunità africane di Roma: «Mi ricordo la diffidenza. Andavamo con Luca, biondo con gli occhi azzurri, in posti dove c’erano solo persone di colore, ci guardavano diffidenti», dice Medici. Oggi non ha nessun ruolo nel progetto: «Va avanti da solo. È giusto che sia così, ha un senso se se ne occupano loro».
Nel Black Post non esiste una linea editoriale. Tutti scrivono su ciò che vogliono, in totale libertà. Neanche si definisce propriamente un “sito gior-
Nella foto di gruppo: la redazione di Black Post
nalistico”, perché riunisce varie forme di comunicazione. Kola Mece, per esempio, commenta l’attualità del Medio Oriente, mentre Ndoli si lascia guidare dalle riflessioni scaturite da una parola o da un evento che ha vissuto. Nel 2019, sei di loro hanno messo per iscritto le loro vite nel libro “Mig generation, la banda del Black Post si racconta”, con la prefazione di David Sassoli, ex presidente del Parlamento Europeo recentemente scomparso. Nell’introduzione si legge: «Li
guardiamo ma non li vediamo e se li vediamo non li guardiamo. Però c’è chi li accetta e li raccoglie».
IL RAZZISMO IN ITALIA
Ndoli lavora in un asilo, dove i bambini ancora non sanno cosa sia il razzismo. Un giorno, fuori dalla scuola un alunno chiese a suo nonno di aspettare un momento: prima di andarsene doveva salutare un amico. «Chi è?», gli disse il nonno. «Quel bambino con la maglia rossa», gli rispose il nipote. «Quello nero?». «Si chiama Andrea». «Ah, sì, perché è tuo amico? È nero!».
«È un’altra generazione», dice Ndoli: «Però ora ci siamo noi e dovremmo abbattere quella barriera. Perché un bimbo non vede il razzismo? Da dove arriva? Dalle persone che gli stanno accanto. Ai bimbi interessa solo l’affetto, la carezza, lo sguardo».
Ne sa qualcosa anche Amro Mahmud, 28 anni, che scrive poesie come Kante. Vive nel quartiere Appio-Tuscolano, Roma sud, lo stesso del centro sociale Spartaco, dove la redazione del Black Post si riunisce. È nato in Italia da genitori egiziani, per questo parla italiano con accento romano e si definisce “un arabo degli anni Ottanta”. «Da bambino a scuola ero Amro l’egiziano, perché non parlavo italiano. E quando poi scendevo giù in Egitto l’estate ero l’italiano perché magari avevo un modo di fare e vestire diversi. Crescendo uno capisce che non è una mancanza ma una ricchezza. Non è facile, non so se mi sento ancora in grado. A volte prevale Amro l’italiano, a volte l’egiziano. Io non so in che lingua penso o sogno», afferma.
Il Black Post trascende le frontiere del giornalismo per diventare uno spazio di condivisione di queste esperienze. Nel 2020, la Germania ha ricevuto 100mila richieste d’asilo in più dell’Italia, quinta dopo Spagna, Francia e Grecia, secondo i dati Eurostat. Durante il periodo Salvini la percezione del fenomeno si fece ancora più grave: uno studio dell’Istituto Cattaneo sosteneva che per il 70 per cento degli italiani i migranti nel Paese fossero il quadruplo di quelli effettivamente presenti.
A luglio dell’anno scorso, la redazione si è spinta oltre aprendo una petizione online con il brand Lush per una riforma della legge sulla cittadinanza, che ha appena compiuto 30 anni. Si chiama #Italianiveri e ha ottenuto quasi 18mila firme. In Italia uno straniero può richiedere la cittadinanza dopo 10 anni se dispone di una soglia di reddito, mentre una persona nata nel Paese deve aspettare fino ai 18 anni. Qualsiasi problema rischia di allungare di molto il processo. Oggi i cittadini stranieri sono cinque milioni: nel 1992, quando la legge è stata concepita, erano 300mila. Kola Mece è nata in Albania nel 1992, però vive in Italia dall’anno seguente. Ha aspettato con pazienza fino ai 18 anni per richiedere la cittadinanza, ma l’ha ottenuta solo a 24. «A volte puoi sbagliare un documento, oppure non hai la residenza continuativa. Avevo il permesso di soggiorno congiunto a quello di mia madre, quindi ho cominciato a richiederla a 18 anni. C’è voluto tempo e questo tempo fa la differenza per i concorsi, per i viaggi. Non puoi fare tante cose. È una negazione», pensa. Quando è diventata finalmente italiana si è candidata alle regionali del 2018 in Lombardia: «L’esercizio del tuo potere politico fa tan-
Bangaly Fode Kante
Bruna Kola Mece
Qui sopra: Soumaila Diawara. A destra: Rose Ndoli
Nel centro sociale Spartaco, a Roma, dove si riunisce la redazione di Black Post to. Per me è stata una sofferenza non poter votare in Italia, non poter decidere. Puoi muovere le cose e la cittadinanza ti dà questo diritto. A volte gli italiani non se ne rendono conto e questo mi fa ancora più rabbia».
Per Marcelha Magalhaes, invece, prendere la cittadinanza era una questione di necessità. Arrivata dal Brasile per studiare, si è sposata con un italiano e ora lavora all’ambasciata del suo Paese d’origine. Quando ha divorziato, l’avvocato le aveva fatto intendere che chiedere la custodia di sua figlia con la cittadinanza italiana sarebbe stato più facile: «Il mio ex marito ha chiesto la revoca del passaporto della bambina, perché secondo lui potevo portarla via. Il giudice gli ha detto no».
MIGRANTI PER NECESSITÀ
Il viaggio di Soumaila Diawara verso l’Italia fu molto lungo. In Mali era militante politico del partito di estrema sinistra Sadi e fu accusato ingiustamente di aver partecipato al tentato omicidio del presidente ad interim Diocounda Traoré nel 2012. Fuggì verso l’Algeria, un paese terrorizzato dal pericolo dell’Ebola, dove riuscì a racimolare una somma sufficiente per proseguire. In Libia, che definisce “l’inferno sulla terra”, fu arrestato dalla polizia e poi rinchiuso a Bouslim. In quel breve frangente due persone morirono per mancanza di cure, prima che lui potesse negoziare la sua scarcerazione per 800 euro. Dopo un primo naufragio, il giorno di Natale del 2014 partì verso Palermo.
Gli ostacoli non si placarono con l’arrivo in Europa. All’inizio si vestiva con ciò che trovava nei cassonetti, poi restò isolato per qualche mese in un centro di accoglienza a Modica. Quando seppe di non aver ottenuto l’asilo si rifugiò a Roma, da immigrato clandestino. Oggi, però, è riconosciuto come rifugiato politico: «Quando le persone pensano che i problemi dell’Italia si devono all’immigrazione e non alla corruzione, al nepotismo, alle mafie, alla scarsa educazione, vuol dire che c’è un gran problema», riflette.
«Questo paese soccorre in situazioni tragiche, dopodiché si ferma lì. È caritatevole ma non c’è ancora la cultura dei diritti. Siamo in progressiva decadenza e abbiamo bisogno di queste energie. I principali sostenitori di questa posizione sono proprio i padroni, la Confindustria, perché hanno capito che questo Paese senza di loro non funzionerebbe. È cinico come ragionamento, ma è aderente al punto di realtà in cui siamo in questo momento», afferma Medici. A dicembre il governo Draghi ha firmato un decreto per concedere 70mila permessi di lavoro a stranieri, nonostante il gruppo WeBuild sostenga che ne servirebbero almeno 100mila. Nel frattempo, solo nel biennio 2018-2019 i migranti sfruttati dal caporalato con salari e condizioni degradanti sono stati 180mila, secondo uno studio di Openpolis.
Nella redazione del Black Post guardano al futuro con ottimismo: «Che lo vogliano o no, la situazione cambierà. Più avanti saranno loro i veri italiani. Sono il futuro», dice Amro. Ndoli invece ribalta la previsione: «L’Africa sarà il futuro, questo è certo. In Europa le risorse si stanno esaurendo. Per l’Africa l’Europa non sarà più un sogno, il sogno sarà l’Africa». Q