L'Espresso 1

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Settimanale di politica cultura economia N. 1 • anno LXVIII • 8 GENNAIO 2023 Domenica 3 euro L’Espresso + La Repubblica. In Italia abbinamento obbligatorio alla domenica. Gli altri giorni solo L’Espresso 4 euro Schlein movimentista, Bonaccini pragmatico. Percorsi, stile, alleanze li dividono. Clima, diritti, lavoro accomunano i duellanti per la segreteria dem PARTITI DIVERSI Poste Italiane s.p.a.sped.in A.P.-D.L.353/03 (conv.in legge 27/02/04 n.46) art.1comma 1-DCB RomaAustriaBelgioF ranciaGermaniaGreciaLussemburgoPortogalloPrincipato di MonacoSloveniaS pagna € 5,50C.T. Sfr. 6,60Svizzera Sfr. 6,80Olanda € 5,90Inghilterra £ 4,70
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Prima Pagina

Schlein, non sono un’aliena colloquio con Elly Schlein di Susanna Turco 8 Bonaccini, lontano da Roma colloquio con Stefano Bonaccini di Carlo Tecce 12 Psicoanalisi di circolo Simone Alliva 16 Professione cooptatore Francesco Corbisiero 20 Con il Mes è un’altra cosa Eugenio Occorsio 24 Sovranità condivisa Amélie Baasner 28 C’era una volta l’esercito tedesco Uski Audino 32 Siria, c’è un giudice a Berlino Marta Bellingreri 36 A Belgrado i muri parlano Christian Elia 40 Se inquini il satellite ti vede Patrizia Caraveo e Emilio Cozzi 44 Cure per tutti come col Covid colloquio con Hans Kluge di Simone Baglivo 48 Plastica, quanto è dura la seconda vita Gloria Riva 52 La burocrazia frena l’alluminio green Antonia Matarrese 54 Così sprechiamo il taglio al reddito 58 Diabolik sul Web truffa in tuo nome Alessandro Longo 60 Big Travel fa rotta sul Rwanda Giampiero Moncada 64 Bookmaker, gli sponsor imbarazzanti Ivo Romano 68

Storie

COPERTINA Foto di S.Costantino /Getty Images, A.Benedetti/ Corbis/Getty Images

Nel paese delle meraviglie

Francesca De Sanctis 72 Sfida al tempo e alla gravità 77 Amici interrotti Daniela Ceselli 78 Gli amori di via del Campo Giuseppe Fantasia 80 Metodo Isotta Angiola Codacci-Pisanelli 84 Doppio ritratto Nadia Terranova 86

Storie

Il prete che veglia sui migranti: “I miei compagni salvano vite” Silvana Franchi 88 A lezione di fake news, così crescono i piccoli cani da guardia Massimiliano Salvo 92

Sommario numero 1 - 8 gennaio 2023 Abbonati a SCOPRI L’OFFERTA SU ILMIOABBONAMENTO.IT L’Espresso fa parte in esclusiva per l’Italia del Consorzio internazionale dei giornalisti investigativi Ricevi la rivista a casa tua per un anno a poco meno di €6,00 al mese (spese di spedizione incluse) Le inchieste e i dibattiti proseguono ogni giorno sul sito e sulle pagine social de L’Espresso. UNISCITI ALLA NOSTRA COMMUNITY lespresso.it @espressonline @espressonline @espressosettimanale
Comunque vada sarà un problema
Editoriale
Alessandro Mauro Rossi 5
72 44 32 52 24 Rubriche Siani 31 Opinioni Bookmarks 87 Ho visto cose 96 #musica 96 Scritti al buio 97 Noi e voi 98

Comunque vada sarà un problema

Il 19 febbraio i militanti e i simpatizzanti del Pd si ritroveranno ai gazebo per votare il nuovo segretario. Ma che vincano i liberal-riformisti che fanno capo a Stefano Bonaccini o i progressisti rappresentati da Elly Schlein (gli altri due concorrenti Paola De Micheli e Gianni Cuperlo sembrano solo degli outsider) resterà comunque il problema di fondo, che da tempo corrode le radici del Pd. Esisterà ancora il Partito Democratico come l’abbiamo conosciuto negli ultimi anni? Finora le diverse anime del partito si sono in qualche modo accomodate nella grande stanza di compensazione rappresentata dagli organismi dirigenti e di governo. C’era sempre un posto per qualcuno, c’era sempre un pezzo di potere da gestire anche quando le urne avevano detto qualcosa di diverso. Il potere senza i voti, o quantomeno senza abbastanza voti. Alla fine le due anime del Pd, appunto liberal-riformisti, cresciuti al tempo della segreteria di Matteo Renzi, e i progressisti, rivenienti da quel che resta della componente catto-comunista, hanno convissuto perché la forza centripeta del quadro politico consentiva loro, forse li obbligava a stare insieme per costituire un partito elettoralmente rilevante e quindi di potere.

Le elezioni del 25 settembre, però, hanno cambiato il quadro. Non solo perché il Pd le ha perse (in democrazia può capitare) ma perché hanno attivato due magneti esterni che finora praticamente non funzionavano: Carlo Calenda e Giuseppe Conte. Calenda era considerato uno sbruffone, un pierino, oppure un economista, un manager della politica a seconda delle occasioni. Ma non era stato mai preso abbastanza sul serio. Il Pd lo ha persino fatto eleggere al Parlamento Europeo, trascurando il fatto che Calenda pensa solo a Calenda e ha sempre e solo usato il Pd. E infatti è uscito poco dopo per fondare il suo partito personale. Il risultato elettorale del 25 settembre gli ha assicurato qualcosa di più del diritto di tribuna in Parlamento. Dopo la non vittoria alle elezioni comunali di Roma, ma con un ottimo risultato, e con

La contesa tra Bonaccini e Schlein per la guida del Pd potrebbe provocare la nascita di due partiti contrapposti. Sarebbe un danno non

il 7,8 per cento dei voti alle politiche è diventato protagonista: accanto a una vecchia volpe come Matteo Renzi, amico-serpente sempre nell’ombra, ma presente quando conta, si muove in totale libertà con una proposta politica non indifferente alla parte liberal-riformista del Pd che oggi si riconosce in Bonaccini. Dall’altra parte i Cinque Stelle della prima ora erano considerati degli eretici, anche dalla base del Pd, e con cui non si doveva prendere nemmeno un caffè. Poi con Giuseppe Conte è cambiato molto, forse tutto. I temi identitari della sinistra sono stati fatti propri dal Movimento con lo smottamento di voti e consensi dal Pd verso i Cinque Stelle. Ora, è vero che tutti e due i principali candidati alle primarie annunciano che non ci saranno scissioni chiunque vinca, ma tra i militanti non è così. D’altra parte già le primarie sono un istituto divisivo di per sé, hanno sempre lasciato scorie. Questa volta, con i due magneti a destra e a sinistra, il dilaniarsi del partito sarà ancora più forte. Chi garantisce, se vince Schlein, che pezzi di Pd non se ne vadano verso Calenda e Renzi? E chi scommetterebbe che pezzi di Pd non se ne andranno verso i Cinque Stelle se vince Bonaccini? Alla fine se i Pd diventassero due forse sarebbe la soluzione più logica anche se la peggiore per la democrazia italiana: mentre il centrodestra pensa di dar vita a un grande Partito conservatore con dentro tutte e tre le sigle attuali, il centrosinistra è sempre più diviso, con le sue anime che non hanno nemmeno

intenzione di parlarsi, di cominciare a discutere di un percorso comune, e quindi, con la legge elettorale attuale, pensata proprio dal Pd, il centrosinistra è impossibilitato a vincere. Solo un Pd forte può fare da catalizzatore, da cerniera e da mediatore. Il futuro del Partito Democratico e anche dell’alternanza democratica dipende certo dal risultato del 19 febbraio, ma soprattutto da quello che accadrà dopo, cioè se il Pd avrà la forza di respingere le spinte attrattive dei due magneti esterni. E tornare a essere un punto di riferimento per la Politica ma soprattutto per quei milioni di italiani che credono in un’Italia democratica e progressista.

Editoriale Alessandro Mauro Rossi 8 gennaio 2023 5
solo per la sinistra ma per tutto il Paese
La sinistra al bivio
PARTITI DIVERSI IDEE, PROGRAMMI, ALLEANZE. COLLOQUIO CON ELLY SCHLEIN E STEFANO BONACCINI CHE SI CONTENDONO LA SEGRETERIA DEL PD 6 8 gennaio 2023
Elly Schlein e Stefano Bonaccini
Prima Pagina 8 gennaio 2023 7

SCHLEIN NON SONO UN’ALIENA

arla del diritto alla casa come bene primario, della difesa degli ultimi, di salario minimo, redistribuzione, conversione digitale ed ecologica. Vuole abolire la legge Bossi-Fini, vuole una nuova legge elettorale. Vuole un partito che faccia scelte chiare, scansi le larghe intese, metta al centro della propria azione «quell'intreccio tra giustizia sociale e climatica che è già centrale nella vita delle persone».Insomma,hainmenteunprogramma di governo, oltreché di opposizione. Ma non chiedetele la prima cosa che farebbe da segretaria del Pd: «No, mi spiace, non saprei dire: non è così che ragiono».

Elly Schlein è irritante perché non sa giocare su un terreno precostituito. Forse è per questo che è riuscita a farsi largo, in dieci anni di politica-politica, con un percorso

fuori dagli schemi, sopravvivendo alle più micidiali correnti gravitazionali della sinistra. Forse è per questo che ora, da candidata alla segreteria Pd, viene guardata come una marziana. Dentro il partito, si intende: perché fuori la capiscono benissimo. In strada la fermano i ragazzi, ma anche gli anziani, la pregano di «resistere»; le manifestazioni, che di solito riesce a lasciare solo per ultima, nella sua campagna per le primarie diventano assemblee spontanee, autocoscienze collettive, ricongiungimenti familiari a microfono aperto. «Mi piace fare ragionamenti sulla fase politica. Non offro posti, semmai un posto dove stare. Capisco che posso sembrare strana, assicuro che non lo sono.

La sinistra
bivio
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È GIOVANE, È DONNA, VUOLE UN PARTITO CHE TORNI A GUARDARE AGLI ULTIMI, INTRECCIANDO DIRITTI SOCIALI E CIVILI. “NON TRATTATELE COME QUESTIONI MARGINALI, PERCHÉ SONO CENTRALI”
Susanna Turco Giornalista COLLOQUIO CON ELLY SCHLEIN DI SUSANNA TURCO
8 8 gennaio 2023

Nei palazzi sembro un'aliena, ma forse è un bene: se dobbiamo cambiare metodo, non ci dobbiamo allineare a quello che ci ha portato alla sconfitta», dice.

Schlein è la felicità di chi sguazza negli stereotipi. È donna, quindi le appioppano padrini e padroni, da Romano Prodi a Dario Franceschini, «anche se non mi sono mai fatta cooptare e non comincerò ora». Ama un'altra donna, quindi le hanno confezionato il vestitino di paladina dei diritti civili: è ovvio non possa occuparsi d'altro, no? È giovane, ha 37 anni, quindi la trattano alla stregua di una novizia, anche se ha governato, è stata eletta, animava la protesta di Occupy Pd nel 2013, è stata europarlamentare e vicepresidente dell'Emilia-Romagna, è stata la più votata nella sua regione nel 2020: 23 mila voti, la metà circa degli attuali iscritti nel Pd. Schlein perché la dipingono pericolosa

Elly Schlein durante l’evento per la presentazione della sua candidatura alle primarie del Partito Democratico. A destra, dall’alto, con Romano Prodi e, sotto, alla Camera durante il voto di fiducia al governo Meloni

L’ALBERO GENEALOGICO

Elena Schlein, Elly, nasce a Lugano, in Svizzera, da madre italiana e padre americano, il 4 maggio 1985 Dall’età di cinque anni suona il pianoforte, a quindici compra di nascosto una chitarra elettrica.

Si trasferisce in Italia, a Bologna, per frequentare l’università: per un anno il Dams, poi Giurisprudenza. Nel 2008, durante la campagna elettorale di Barack Obama, parte per Chicago come volontaria. Nel 2013 dà vita alla mobilitazione OccupyPd contro le larghe intese, organizzandola a livello nazionale.

Nel 2014 è eletta al Parlamento europeo, si occupa principalmente di diritti, immigrazione, giustizia fiscale, conversione ecologica, lotta alla corruzione e alle mafie. Nel 2015 Schlein lascia il Pd, lancia con Civati il partito Possibile

Per le elezioni regionali del gennaio 2020, guida la lista Emilia-Romagna coraggiosa. Viene eletta nell’assemblea legislativa regionale, riceve l’incarico di vicepresidente e assessora al Contrasto alle diseguaglianze e Transizione ecologica. Il 4 dicembre del 2022 annuncia la candidatura alla segretaria nazionale del Partito Democratico.

estremista minoritaria e/o velleitaria?

«Veniamo per cambiare, non mi aspettavo tappeti rossi, mi sarei preoccupata del contrario. Ma chi la pensa così non ha capito che le istanze che portiamo avanti sono centrali, non marginali: le stesse di chi vota Pd». Si è fatta un'idea del perché la vedono così?

«Sfuggiamo dagli schemi tradizionali di costruzione del consenso, siamo creature misteriose. Non siamo qui per una resa dei conti identitaria, ma per rinnovare insieme, con una visione credibile attorno a tre cardini: il lavoro, le diseguaglianze e il clima. Nella società c'è già una consapevolezza che tiene intrecciate queste lotte. Sovrapposizioni che le nuove generazioni subiscono in modo particolare, mentre alla sinistra è mancato proprio il saper anticipare le grandi trasformazioni che spaventano la società».

Pagine 8-9: R. Brancolini / Ipa. Pagine 10-11: M. Minnella / Foto A3, Ansa, Agf
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La sinistra al bivio

È per questo che ha perso le elezioni?

«Se non guidi i processi di trasformazione, accadono lo stesso, ma vanno addosso ai più fragili. È per questo che per ricostruire un nuovo Pd serve anzitutto rispondere alle aspettative della sua base: difendere chi sta peggio, chi è marginalizzato. Devi mettere al centro questi temi: redistribuzione, un grande investimento sulla conversione digitale ed ecologica. Bisogna ridurre i divari. Nel Pd che sogniamo torna al centro la difesa della casa come bene primario. Serve investire nelle case popolari, riqualificandole, come ho fatto in Emilia-Romagna: così abbassi le bollette alla fascia più povera e nel contempo riduci le emissioni»

Anche Meloni dice che la casa «è sacra, non tassabile, non pignorabile».

«La presidente del Consiglio pensa soltanto a quelli che hanno già una casa di proprietà, non vede che oggi per prendere il mutuo ti chiedono garanzie che la gran parte dei giovaninonpuòfornire,vistocheil62percento dei giovani lavoratori ha contratti a termine. In questa manovra, ha deciso di tagliare le risorse grazie alle quali, ad esempio, avevo potuto, in Regione, investire in politiche di riduzione dell'affitto. Meloni quindi, quando parladellacasa,mentesapendodimentire».

Lei dice che diritti sociali e diritti civili sono inscindibili.

«E quando lo dico qualcuno ride. Ride perché non sa di che parlo. È facile ridere al caldo, ignorando che ci sono 4, 5 milioni di poveri, che hanno il doppio della probabilità di vivere in zone con dissesto idrogeologico». Non le sembra di fare discorsi troppo complicati?

«A me sembra non si rendano conto che guidare la conversione ecologica significa dare fiato all'imprenditoria: le imprese green sono quelle che hanno resistito meglio alle difficoltà di questi anni, sono le nuove direttrici dello sviluppo».

Esempio?

«Sono allo studio nuovi parchi eolici offshore. Uno è in Sicilia, creerebbe 8 mila posti di lavoro. Questo governo sta tenendo bloccato il decreto sulle comunità energetiche, ma a Prato dello Stelvio - non a Oslo - la comunità c'è e ha prodotto un milione di euro di risparmio. Sono cose che esistono, si fanno già. La politica non le vede, la gente sì. Il nostro lavoro è anche questo».

Il Pd sta meglio al governo?

L’ex tesoriere

su L’Espresso n° 51 del 31 dicembre 2022, ha annunciato il proprio sostegno a Elly Schlein. A destra, l’ex ministro e parlamentare Dario Franceschini. Anche lui si è schierato per Schlein in nome di un ricambio anche generazionale

«Sarebbe stato meglio vincere le elezioni, perché la destra non sta facendo l'interesse del Paese. Ma voglio un partito che si rinnovi profondamente. Non abbiamo perso per mancanza di proposte, ma per un forte problema di credibilità».

Serve un nuovo gruppo dirigente?

«Sì, ma non basta. Serve un nuovo metodo, per gestire il partito. Non serve uno, o una, sola al comando. È il motivo per cui parlo al plurale e sto costruendo una squadra plurale. E per il quale, nell'attesa di cambiare questa legge elettorale, si dovranno fare primarie per selezionare i candidati. Non ci serve un partito degli eletti, o delle correnti: i partiti sono strumenti per migliorare la vita delle persone. Ci serve un Pd che sappia ridare voce alla base che in questi anni si è sentita poco ascoltata, o esclusa, da un sistema che non è fuggito dalla tentazione del governo per il governo, del potere per il potere».

Lo disse anche Letta, nel marzo 2021, quando fu eletto. Ma poi.

«Non sono certo la prima che sente questa esigenza. Nicola Zingaretti fece Piazza grande,EnricoLettahaanimatoleAgorà.Questa candidatura è un progetto collettivo per costruire un ponte tra le energie che ci sono già dentro la comunità dem, con le spinte che ci sono fuori. Bisogna tenere insieme 5,6 milio-

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Ds, Ugo Sposetti,

ni di elettori, salvaguardando il pluralismo ma senza rinunciare a una visione chiara. Significa scegliere».

Scegliere cosa?

«Dare una identità riconoscibile. Un Pd che sani le fratture coi nostri mondi di riferimento prodotte, ad esempio, da politiche del lavoro che hanno liberalizzato i contratti a termine. Il Pd che vogliamo costruire non farebbe il memorandum con la Libia, che ha creato una frattura con l'associazionismo, e abolirebbe la legge Bossi-Fini, studiata apposta per creare irregolarità, quando invece serve regolare il flusso di chi cerca lavoro». Può esistere ancora il campo largo, con Conte che punta a svuotare il Pd? E la vocazione maggioritaria?

«Il bipolarismo non c’è più. Dobbiamo scegliere chi vogliamo rappresentare, e in una società dove le disuguaglianze sono aumentate vertiginosamente non possiamo rappresentare tutti. La proposta è di governo, a 360 gradi, ma deve avere anche il coraggio di rompere gli schemi, costruendo alleanze coerenti».

Lei è una nativa democratica, perché la sua possibile leadership ha prodotto tante allergie proprio nel Pd?

«In questo congresso non si tratta di fare una resa dei conti, tutte le culture di provenienza oggi sono poste davanti a un interrogativo: come cambiamo un modello di svi-

LE FRASI

Se dobbiamo cambiare metodo non ci dobbiamo allineare a quello che ci ha portato alla sconfitta

Lavoro, diseguaglianze e clima: i cardini di una visione credibile. Nella società c’è già una consapevolezza che tiene intrecciate queste lotte

Le imprese green sono quelle che hanno resistito meglio alle difficoltà di questi anni, sono le nuove direttrici dello sviluppo

luppo che alimenta le disuguaglianze e distrugge il pianeta? Dobbiamo costruire una alternativa. Sembra che questo sia rivoluzionario, ma se qualcuno pensa che ciò che abbiamo fatto in questi anni è andato bene lo dica. Su giustizia sociale, climatica e ambientale sta discutendo il mondo».

Cosa la differenzia dal suo principale competitor, Stefano Bonaccini? Dopotutto avete governato insieme fino ad agosto, ha notato Massimo Cacciari.

«La nostra forza è stata proprio quella di fare lo sforzo di far convergere le nostre diversità, al governo. Ma siamo molto diversi sulla prospettiva politica, altrimenti non mi avrebbero chiamato per le Regionali del 2020, per chiedermi di dare una mano a contrastare l’avanzata delle destre».

Bonaccini è sempre stato favorevole all'autonomia differenziata. Aveva firmato un accordo con Zaia e Fontana. Lei si è sempre opposta, anche in giunta.

«Non l'ho mai ritenuta una priorità e oggi, di fronte al ddl Calderoli che trasuda secessionismo leghista e scavalca il Parlamento nella definizione dei diritti essenziali, penso sia un progetto da rigettare con forza. Insieme con l'altro che gli va a braccetto: il presidenzialismo. Troveranno la nostra opposizione a tutto ciò che comprometta il sistema di pesi e contrappesi previsto dalla Costituzione».

La pensavate all'opposto anche sul taglio dei parlamentari. Nel referendum del settembre 2020 lei votò no.

«Dicevo che avere meno deputati e senatori non garantisce di averne migliori: abbiamo un problema di qualità, non di quantità. Dicevo che quella riforma, mancando il cambio di legge elettorale, non incideva sui metodi di selezione della classe dirigente, e che quindi non sfiorava la questione morale. Tutte questioni attuali, mi pare».

L'ha imbarazzata quando al Monk, il giorno in cui si è candidata, si sono tutti messi a cantare Bella ciao?

«È stato spontaneo, mi ha fatto piacere, la conosciamo tutti. Non siamo mai stati giovanilisti, né rottamatori, vogliamo un rinnovamento inclusivo. Con una connessione forte con chi vogliamo rappresentare. Prendendoci il nostro spazio, senza aspettare che una società così patriarcale e paternalista ci consideri pronti. Perché non succederà».

Foto:A. Casasoli / Foto A3, V. La Verde / Agf
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sinistra al bivio

BONACCINI LONTANO

i è discusso per settimane dell’ennesima sconfitta elettorale del Partito Democratico. Almeno su questo coerente con sé stesso. Molte parole, acute riflessioni, taglienti proposte. Nel frattempo, già pronto da mesi, il presidente emiliano-romagnolo Stefano Bonaccini accudiva la sua candidatura alla successione del segretario Enrico Letta. La seconda versione del buon amministratore locale Bonaccini, più affabile e mediatico, fu introdotta tre anni fa per la campagna elettorale di rielezione. Così fermò (non da solo, ma con la rivale di oggi Elly Schlein e le giovani sardine) le truppe leghiste in terra rossa. La sua vittoria alle primarie è scontata. Il suo successo - che poi sarebbe un miracolo, rialzare un partito morente - assai meno.

Bonaccini, la prima cosa che farà da segretario del Pd?

«Se sarò eletto, come prima cosa chiamerò Elly Schlein, Paola De Micheli e Gianni Cuperlo per chiedere loro di darci una mano. Così come farò con tutte le democratiche e i democratici, a prescindere da chi abbiano votato: chiederò a tutti di togliere le magliette di parte del congresso per indossare quella del Pd. Perché il Pd deve essere una comunità unità in cui ci si rispetta e ci si riconosce».

La prima cosa che non farà da segretario del Pd e che i suoi predecessori hanno fatto sbagliando?

«Non mi permetto di dare lezioni a nessuno. So quello che non farò io: non creerò una nuova corrente. Ripeto

12 8 gennaio 2023 La
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RAPPRESENTARE DI PIÙ I TERRITORI. BASTA CON IL CENTRALISMO DEL PASSATO. IL MODELLO LABURISTA. IL NUOVO PD SECONDO IL PRESIDENTE DELL’EMILIA-ROMAGNA COLLOQUIO CON STEFANO BONACCINI DI CARLO TECCE
DA ROMA
Carlo Tecce Giornalista

L’ALBERO GENEALOGICO

Stefano Bonaccini nasce il 1° gennaio 1967 a Campogalliano, piccolo paese in provincia di Modena dove ancora abita. La politica è una delle due passioni della sua vita. L’altra è il calcio.

A meno di 20 anni si iscrive al circolo del Pci,

A

Dal 2014

quello che ho detto candidandomi nella mia sezione: se sentirò qualcuno definirsi bonacciniano gli dirò che non ha senso. Se vincerà la nostra proposta per un nuovo Pd, ci sarà infatti il completo ribaltamento di un sistemachenonhapiùragiond’esserevistochele correnti hanno smesso di produrre pensiero, sintesi e classe dirigente. Coinvolgeremo invece la base, i territori e gli amministratori locali che debbono tornare protagonisti. Il Pd ha bisogno di essere riportato nella realtà quotidiana, nella vita di chi lavora, studia, fa ricerca, assiste e cura gli altri: ecco, chi tiene apertiinostricircolieinostriamministratori saranno le antenne del partito nuovo». E che ne farà delle folti correnti e degli ancora più numerosi capi?

«Un grande partito o è plurale o non è democratico. Ma ho detto sin da subito che non avrei chiesto né accettato il voto di alcuna

Bagno di folla con selfie per Stefano Bonaccini durante una manifestazione per la Pace e Roma

corrente. Anche la nostra riflessione sull’identità del Pd è bene che includa questa necessità: un conto è avere proposte chiare e forti da fare al Paese, altro conto è pensare di rintanarci nelle appartenenze del passato, il che sarebbe un errore mortale. Il confronto di idee fra diverse aree culturali deve generaredinamismoecambiamento,mentrelecorrenti di oggi hanno portato solo immobilismo. Faccio due esempi concreti: se diventerò segretario, posso assicurare che non accadrà mai più di vedere candidature al Parlamento paracadutate da Roma sul territorio, così come non si vedranno più leader del partito che si candidano in listini lontani dai propri collegi». In breve spieghi a un elettore del Pd su quale tema in particolare il suo partito differisce dalla coppia Calenda&Renzi e dai Cinque Stelle di Giuseppe Conte e

8 gennaio 2023 13 Prima Pagina Foto:
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L.Mistrulli
Fotogramma, Fotogramma, Agf
a pochi passi dalla casa in cui è cresciuto, lo stesso in cui erano iscritti i suoi genitori. Proprio da lì lo scorso 20 novembre ha annunciato la sua candidatura alla Segretaria nazionale del Partito Democratico 22 anni Bonaccini è stato nominato assessore alle politiche giovanili del Comune di Campogalliano. Dal 1999 al 2006 è stato assessore ai Lavori Pubblici nella città di Modena, nel 2010 viene eletto segretario regionale del Pd guida la Regione Emilia-Romagna, dopo essere stato riconfermato alle elezioni regionali del 26 gennaio 2020. Dal 2015 al 2021 è stato presidente della Conferenza delle Regioni, guidandola nei mesi più drammatici dell’emergenza Covid.

ovviamente poi ci illustri le strategie sulle alleanze.

«La nuova identità del Pd non si misura sugli altri. Dobbiamo riprenderci il nostro spazio, quello di principale forza di opposizione e del centrosinistra: lasciare la rappresentanza della sinistra ai Cinque Stelle e quella dei moderati al Terzo Polo significherebbe regalare alla destra altri 20 anni di governo. Noi costruiremo un partito laburista che rappresenta il lavoro e i lavori, contro la precarietà e per l’occupazione di qualità creata da imprese serie e responsabili. Un partito che si batte contro le diseguaglianze sociali e territoriali, di genere e generazionali. Un partito che mette in cima alle priorità la lotta al cambiamento climatico e la transizione ecologica, tenendo insieme lavoro e ambiente. Un partito dei diritti e dei doveri, che riparte dalla scuola e dalla sanità pubblica perché quando si parla di istruzione e salute non ci sia più distinzione tra ricco e povero. Un partito che fa della legalità e della giustizia un tratto essenziale».

Sì, però le alleanze?

«Se il Pd torna a fare il Pd le alleanze verranno di conseguenza, con chi condivide un programma e si sente alternativo alla destra su valori e contenuti. A meno che Cinque Stelle e Terzo polo non vogliano perdere all’infinito».

A parte il centrodestra, il Sud si è affidato soltanto ai Cinque Stelle e soprattutto per il reddito di cittadinanza. Ha spesso criticato questa misura di sostegno contro la povertà affermando che andrebbe riformato e non abolito, in che modo?

«Parliamo di fatti: nel 2016 in Emilia-Romagna fummo i primi, insieme alla Puglia, a introdurre una misura di contrasto alla povertà, il Reddito di solidarietà, poi superato dal Reddito di cittadinanza, misura nazionale che il governo Meloni ha deciso adesso di cancellare per 700mila persone. Privare di un sostegno economico chi è in grave difficoltà è semplicemente vergognoso: al contrario, noi pensiamo che una misura universale contro la povertà sia indispensabile, così come è necessaria una politica attiva del lavoro per rendere occupabile chi il lavoro lo perde. Su entrambe queste due ultime cose, formazione e lavoro, il Reddito di cittadinanza non ha funzionato: per questo serve una riforma, non certo un taglio o un azzeramento come ha fatto la Meloni».

Non teme che la sua figura molto legata a un territorio venga vista con diffidenza al Sud e che, nei fatti, in futuro ci possa essere un centrosinistra con un partito del Centro-Nord (il vostro) e uno del Centro-Sud (quello di Conte).

«Il Pd non sarà mai il partito di una parte del territorio. Casomai, vorrei che fossimo di più il partito dei territori, che spesso si sentono distanti dal centro, ma questo è un altro discorso. Ho iniziato la mia campagna congressuale partendo proprio dal Sud e nelle prossime settimane ci tornerò molte volte. Perché un grande progetto di sviluppo per l’Italia non può che partite dal Mezzogiorno e perché nessuna delle questioni cruciali che prima ho indicato - dal lavoro ai diritti, dalla scuola alla sanità - può essere affrontata senza uno scatto in avanti del Sud. I Cinque Stelle hanno raccolto consenso in mancanza d’altro, non perché i cittadini del Sud non aspirino a uno sviluppo del Mezzogiorno. Vedo più un limite nostro, invece».

Per l’autonomia differenziata si era schierato con i leghisti Zaia e Fontana. Adesso la sua posizione è più sfumata. Pentimento o realismo politico?

«L’errore che si è ripetuto in questi anni, anche da sinistra, è stato quello di voler affrontare i nodi in maniera centralistica o assistenzialistica. Con l’unico effetto che i giovani continuano a scappare al Nord o all’este-

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Giovani militanti del Pd durante l’ultima campagna elettorale. A destra: il segretario del Pd Enrico Letta
La sinistra al bivio

ro. Io credo che l’autonomia debba tornare ad essere un valore per tutto il Pd. La differenza sostanziale con la destra è che noi vogliamo un’autonomia giusta e solidale, che assicuri a tutti livelli essenziali di prestazioni e una equa perequazione delle risorse per i servizi e le infrastrutture. Mi perdoni, ma per credere che sia meglio programmare e gestire le risorse dal centro anziché dal territorio, bisogna davvero non aver amministrato mai un minuto in vita propria. Che è un po’ il limite di una parte della classe dirigente nazionale. Con De Luca o Emiliano discutiamo spesso, ma non su questo. Anzi, su questi temi con i sindaci e i presidenti di regione del Mezzogiorno del Pd la pensiamo in realtà allo stesso modo».

Il Pd ha raggiunto il suo migliore risultato nel 2008 a un anno dalla fondazione e poi ha sempre perso di più e governato di più. Cosa ne ha desunto da questo andamento storico?

«Il Pd è nato per unire le diverse anime riformiste e per cambiare l’Italia. Assicurare la stabilità e rispondere alle emergenze di questi anni non è stato un errore in sé, ma ha finito per allentare il nostro rapporto con la società e per indebolire la nostra proposta di innovazione. La sola responsabilità, elemento essenziale, non può essere la nostra ragione sociale. Né possiamo trasformare la nostra cultura di governo, in cui io credo pro-

LE FRASI

fondamente, in permanenza al governo. Stare all’opposizione potrà farci bene».

Un grande partito o è plurale o non è democratico. Ma le correnti oggi hanno portato solo immobilismo. Non farò una mia corrente

L’inchiesta sulla corruzione al Parlamento europeo vi tocca da vicino. Al solito è stato detto: mai più. Invece lei si è chiesto perché ciò è successo e nessuno nel partito se n’è accorto?

La nostra cultura di governo non può diventare permanenza al governo. Stare all’opposizione potrà farci bene

«Il Pd si costituirà parte lesa. Una cosa mi è però chiara: c’è una questione morale che non può essere relegata solo alla sacrosanta indignazione. Né alla meritoria e necessaria attività della magistratura. L’onestà è obbligatoria per chiunque e bisogna che sia la politica a prevenire e curare questi mali, che uccidono la credibilità e la funzione della politica stessa. Bisogna tornare a una stagione di sobrietà per chi fa politica e ricopre incarichi pubblici. E insieme a Pina Picierno, quando abbiamo lanciato il nostro “tandem” per il congresso, siamo partiti affrontando di petto proprio questi temi, che considero identitari per la sinistra».

Se ce ne fosse il bisogno, come accaduto con Draghi, farebbe un governo di unità nazionale con Giorgia Meloni?

«La destra ha ottenuto dagli elettori un mandato chiaro a governare. Se non ne saranno capaci si tornerà a votare e ci candideremo a sostituirli».

Le alleanze verranno. A meno che Cinque Stelle e Terzo polo non vogliano perdere all’infinito

Franceschini ha dichiarato che Elly Schlein rappresenta una sinistra moderna. Con una battuta. Lei quale pezzo di antiquariato si prende?

«Avrei preferito che il suo appello al cambiamento si fosse unito al mio, per un rinnovamento radicale, qualche mese fa, quando si dovevano fare le liste elettorali. Adesso è un po’ tardivo e meno coraggioso, diciamo. Adesso Franceschini ha il diritto di sostenere chi crede».

Esaurita l’ironia, che discontinuità - rottura, cesura etc - Bonaccini può garantire al partito?

«Serve innovazione concreta, non a parole o di facciata, perché continuando così si muore. E serve una classe dirigente nuova rispetto agli ultimi 20 anni. Non il nuovo per il nuovo, o il nuovo purchessia, ma persone capaci e competenti che abbiano fatto la gavetta nel territorio e che siano oggi pronte a scrivere un nuovo corso. Il Pd ne ha tantissimi di questi uomini e di queste donne, tenuti troppo a lungo in panchina. Io rappresento loro».

8 gennaio 2023 15 Prima Pagina Foto: Foto A3 (2)

La sinistra al bivio

PSICOANALISI DI CIRCOLO

DI SIMONE ALLIVA

Ma perché c’è un congresso?» è la battuta più in voga nei circoli, semideserti, di tutta Italia. Diciamo, per usare un eufemismo, che sono i giovani del Partito Democratico quelli meno entusiasti di queste primarie. Quelli della generazione Z, alla quale il Pd guarda come al suo elettorato, ma che sempre meno da quel partito si sentono ascoltati. «Questo congresso è la copia di tutti i precedenti. Hanno solo aggiunto la parola “costituente”, ma non c’è visione, non c’è un percorso», dice Filippo Greco, 24 anni, segretario reggente dei Giovani Democratici del Lazio. È diventata un baratro la distanza che separa le parole dei candidati dai militanti che colorano di rabbia e stanchezza questa fase congressuale. Lo si vede nei volti desolati di chi è nel Partito da tempo come Raffaele Boninfante, esperto di comunicazione, amministratore della pagina Facebook di satira politica Socialisti Gaudenti, con diverse campagne elettorali vinte sulle spalle: «Il Pd sta cercando il nuovo segretario come si cerca un idraulico e con la stessa passione. Ma servirebbe uno psicoanalista, dovrebbe capire chi è e cosa rappresenta oggi. Invece sembra che si ripeta quanto siano bravi i nostri amministratori, cosa in parte vera, ma non basta essere bravi a tappare le buche per strada per convincere il Paese e la maggioranza a scegliere la sinistra alle politiche».

La discussione sul nome, su chi dovrà salvare un partito ai minimi storici, ha già

LE NUOVE LEVE

Un momento di “Factory 365”, iniziativa organizzata dai Giovani Democratici a Roma, nel dicembre 2014, per preparare i temi da sottoporre all’assemblea nazionale del partito

stancato i suoi iscritti. Giorgia Cirelli, dei Giovani Democratici di Ostia, è chiara: «Siamo ossessionati dall’uomo solo al comando (o la donna). Ogni volta in attesa di un salvatore. Noi Gd siamo contrari alle primarie: valorizzano l’aspetto personale, poco quello politico, la discussione è sul singolo candidato, mentre i problemi sono più profondi. Il Pd avrebbe dovuto, da subito, imporre un congresso per tesi, politico, e non un “cambio nome”. Sono tesserata a un partito perché voglio determinare

una linea politica, non seguirla». Eppure, proprio alla ricerca della linea politica, il Nazareno ha deciso di sottoporre ai suoi iscritti un questionario chiamato la Bussola. Domande a risposta multipla, ma anche box da compilare sulle ragioni profonde della «missione» del PD. Un lunghissimo elenco di quesiti su «chi siamo e cosa vogliamo». I risultati verranno lavorati da Ipsos e confluiranno nella discussione preli-

Foto: M. MinnellaA3
Simone Alliva Giornalista
VIAGGIO NELLE SEMIDESERTE SEZIONI DEM D’ITALIA. DOVE, TRA GLI ISCRITTI PIÙ CRITICI, CI SONO I GIOVANI. QUELLI DELLA GENERAZIONE Z, UN POTENZIALE ELETTORATO CHE SI SENTE INCOMPRESO 16 8 gennaio 2023
8 gennaio 2023 17 Prima Pagina

La sinistra al bivio

minare alla stesura del nuovo Manifesto dei valori che un comitato di 87 saggi sta preparando e che l’assemblea dovrà votare. Un tempo c’erano i gruppi dirigenti, le sezioni, le riunioni e anche le cene tra compagni. Ma quello era il mondo di prima, oggi c’è un pdf.

«Se chiamo i vecchi militanti e chiedo loro di compilare il pdf su come si sta nel partito me ce mandano», ride amaramente Andrea Falzetti, 25 anni, del Pd di Roma: «I dirigenti non capiscono che sono i circoli la base su cui rifondare questo partito. Certo, faremo la gazebata, andremo diligentemente a votare a queste benedette primarie, ma non c’è stata una riflessione importante sul ruolo del Pd nella società. Si parla dei nomi, ma non capiscono che ci puoi mettere anche Lenin alla guida del Pd, rimarrai comunque fagocitato dalle logiche che hanno portato a questo congresso. E non è questione anagrafica, attenzione, bensì di contenuti. Una generazione di venticinquenni scese in piazza per Bersani, che 25 anni non li aveva. Era per quello che proponeva. Oggi non vedo grandi idee che parlano al mio mondo. La mia non è una generazione che vive di apatia politica, vuole lottare per cambiare lo stato delle cose e lo fa anche dentro il partito. Solo che siamo un Paese che vive con il 40 per cento di disoccupazione giovanile, ma

LA POLITICA SUL TERRITORIO

La sede del circolo dem “Aniasi” di Milano Centro, in corso Garibaldi. A destra: alcuni Giovani Democratici di Ostia, X Municipio di Roma, riuniti nel circolo Pd nel 2017

che ogni cinque anni fa campagna elettorale sulle pensioni minime. Forse bisogna ripartire da qui».

Filippo, che di anni ne ha 22, annuisce: «Se ascolti i quadri di partito, c’è entusiasmo; ti raccontano una storia su questo congresso. Se parli con la nostra gente, anche coi vecchi, è un’altra cosa. Abbiamo chiesto in queste settimane un confronto nei circoli con gli esponenti nazionali, su tutti i livelli, e ci hanno risposto con un pezzo di carta che chiede come dev’essere un partito. Ma come si fa? Bisognerebbe ripartire dalle idee, dalle riunioni, riattivare i circoli, ma alla fine dai circoli non passano più neanche i candidati».

In Toscana Stefano Bonaccini ha attraversato con la sua campagna elettorale Livorno, Carrara, Castelvecchio Pascoli. «Ma non ha fatto incontri nei circoli; la sua è una campagna che guarda già alla seconda fase, quella delle primarie aperte», fa notare Danilo, 24 anni. E ci sarà una ragione. Se i numeri contano, e in questo caso contano, è fuori che si giocherà veramente il congresso. Il motivo è il crollo degli iscritti, in particolare negli ultimi due anni: erano 830 mila nel 2008, agli esordi, ma era un’era geologica fa, poi 380 mila con Renzi, 320 mila nel 2021 e 50 mila oggi. La conta interna, quella che si tiene, appunto, tra gli iscritti, rischia di diventa-

18 8 gennaio 2023

re una corsa al ribasso, per pochi intimi, ed è meglio preparare il terreno altrove.

Calcoli, insomma. Ma dove sono le idee, gli slanci, gli azzardi? «Passiamo troppo tempo a pensare ai destini futuri dei Franceschini e degli Orlando di turno e parliamo troppo poco di sanità, istruzione, di tutto quello che rende possibile vivere bene in Italia», dice Manuele Covillo, giovane vicesegretario del Pd di Vignola, nella rossa provincia di Modena: «Devo essere sincero: anche qui che il partito gode di buona salute, che i circoli sono pieni di tesserati giovanissimi, c’è sconforto. Ci troviamo con un congresso che si gioca su regole decise dalla segreteria uscente. Una segreteria che continua a gestire il partito come se nulla fosse successo. E francamente è poco convincente veder portare avanti temi “costituenti” da persone che per tanto tempo avrebbero potuto incidere dalle loro posizioni e non lo hanno fatto.

Non sono credibili». La credibilità del partito, ai minimi storici, pesa anche su chi lavora dentro i circoli. Lo spiega Marina, 23 anni, di Milano, che milita nel Pd da quando ne aveva 18: «La gente non capisce cosa sia accaduto. Lo addebita al partito, a Letta, a Draghi, alle alleanze. Facciamo molta fatica a spiegarlo e direi che non lo hanno ancora capito neanche ai vertici». Comunque sia, per l’analisi della sconfitta è troppo tardi; chi si è fidato ed è caduto non si fida più. «Ero militante del Pd e me ne sono andato dopo pochissimo tempo. Mi ero tesserato durante la segreteria Zingaretti, mi sembrava giusto fare la mia parte», spiega Antonio, 21 anni, studente di Scienze politiche: «Per me il Pd avrebbe dovuto ritrovarsi in un progetto che riguardi tutti, i giovani e gli anziani, il centro e le periferie, gli stranieri che arrivano da profughi e quelli che arrivano a studiare. Ma quando mi sono tesserato ho visto che il sistema partito non c’era già più. C’erano giovani vecchi che si muovevano all’ombra dei padri politici. Queste elezioni hanno solo messo in scena il suicidio assistito di una classe dirigente abituata a campare di rendita e incapace di pensare alla competizione. Qui la passione è finita».

Ma non per tutti. Andrea Bertaccini, capogruppo del Pd di Valsamoggia, è nato nel 1997: «Sì, lo sguardo è disincantato. Mi aspetto che il Pd chiarisca cosa possa fare da grande. È importante che si scelga una linea condivisa e la si porti avanti soprattutto su temi come diritti, lavoro, precariato. E bisogna tenere conto non solo della famosa base, ma di tutto quel corpo di militanza che porta avanti il Paese come gli amministratori locali».

«La passione non è finita, bisogna far spazio al rinnovamento», dice Brando Benifei, capodelegazione (e tra i più giovani in questa legislatura) degli eurodeputati Pd: «La prova è nell’affollata assemblea soprattutto di under 40 che con Coraggio Pd abbiamo riunito a Roma e che è proseguita con incontri a Milano, Padova, Cagliari, Firenze, Bari. Faremo proposte per l’assemblea costituente del 20 gennaio perché non conta solo chi sarà la nuova guida del Pd, ma anche come ci organizziamo e dove andiamo. Ci interessa cosa accadrà dopo».

Foto: FrFotiaAgf, D. SalernoAg. Fotogramma
DIBATTITO
SALVARE IL PARTITO HA STANCATO I TESSERATI. CHE CHIEDONO UN CONGRESSO POLITICO. E CHE SONO CROLLATI: DAGLI 830 MILA DEL 2008 FINO AI 50 MILA DI OGGI 8 gennaio 2023 19 Prima Pagina
IL
SU CHI DOVRÀ

PROFESSIONE COOPTATORE Tra lobby e corruzione

DI FRANCESCO CORBISIERO

e si tratti di soft power, lobbying oppure corruzione è questione di sfumature e, più spesso, d’importi. Nel caso del Qatargate i contorni di tutte e tre le attività rischiano di coincidere e sovrapporsi. Peggio, di aggrovigliarsi. Nonostante la posta in gioco sia tutt’altro che materiale: l’integrità e la trasparenza nell’operato dei funzionari europei, la fiducia dei cittadini nelle istituzioni. Non ultima la possibilità stessa dell’Ue di presentarsi sul palcoscenico globale come «impero di libertà e diritti». Con quali credenziali, se si accettano tangenti da un emirato pur di aiutarlo a superare un esame scrupoloso proprio in tema di rispetto dei diritti umani?

Lo scandalo - che al momento coinvolge quattro persone: l’ex eurodeputato Antonio Panzeri, l’ex vicepresidente dell’Europarlamento Eva Kaili, l’assistente parlamentare Francesco Giorgi e il segretario (autosospeso) dell’ong No peace without justice Niccolò Figà-Talamanca - sta investendo le istituzioni europee. Forse, sotto sotto, senza troppo sorprenderle. Del resto, i palazzi di Bruxelles, terminale per eccellenza della rappresentanza d’interessi, sono al corrente del meccanismo alla base della vicenda. Che possiede addirittura una definizione precisa: élite capture. In italiano l’espressione potrebbe tradursi come cooptazione predatoria; sta a indicare la pratica di avvicinamento di membri della leadership di un Paese tramite intermediari con l’offerta di un arricchimento personale. Il proposito minimo consiste nell’ammorbidire le resistenze verso i progetti di cooperazione della potenza straniera, quello massimo nel conquistare alla propria causa un difensore d’ufficio. Provvisto di prestigio, contatti, ascendente, informazioni, conoscenza dei dossier e capacità di costruzione del consenso; pronto a intervenire, quando occorre. A ciascuno viene affidato il compito di sorvegliare gli interessi del proprio datore di lavoro e diffondere le narrazioni più consone per il loro sviluppo. A costo di alterare la realtà dei fatti, sia agli occhi delle opinioni pubbliche dei rispettivi Paesi sia a fini di consenso interno dei regimi.

La locuzione élite capture compare nel rapporto Kalniete, risultato di una laboriosa indagine realizzata dall’Inge special committee del Parlamento europeo. Questo documento resta il primo e unico testo ufficiale ad averne fatto menzione in riferimento all’attività d’interferenza e destabilizzazione di sistemi e processi democratici nei Paesi europei da parte di Russia e Repubblica popolare cinese. Accomunate dalla matrice antidemocratica dei propri governi, entrambe hanno utilizzato la tecnica per motivi di rivalità strategica nei confronti dell’Occidente. In pace e in guerra. Così, soltanto all’indomani dell’invasione dell’Ucraina, è stato possibile venire a conoscenza dell’improvvisa uscita di capi di governo, ministri e alti funzionari occidentali che erano nei board di aziende russe a controllo o partecipazione pubblica: Gazprom, Rosneft, Lukoil, Sibur, Ržd, Zarubezneft,

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Pagina Foto: J.F. BadiasAP Photo / Lapresse
Prima
L’interno della sede del Parlamento europeo, a Strasburgo
S
INTERMEDIARI CHE AVVICINANO I POTENTI DI ALTRI PAESI PER VEICOLARE INTERESSI IN CAMBIO DI PROFITTI. È L’ÉLITE CAPTURE, UNA PRATICA CONSOLIDATA. BEN OLTRE IL QATARGATE
Francesco Corbisiero Giornalista

Sberbank. Figure poste dal Cremlino a protezione dei propri asset con l’obiettivo di favorire, rendere duratura e, all’occorrenza, accrescere la dipendenza economica dei singoli Paesi e dell’Europa tutta da Mosca. A ostilità aperte, indici di Borsa a picco e sanzioni imminenti, dal mattino del 24 febbraio scorso, tutti o quasi hanno rassegnato le dimissioni: Gerhard Schröder, François Fillon, Wolfgang Schüssel, Karin Kneissl, Christian Kern, Hans Jörg Schelling, Alfred Gusenbauer, Paavo Lipponen, Esko Aho, Matteo Renzi («giusto e doveroso dare un segnale»). Popolari, socialisti, liberali, conservatori. Travolti in maniera trasversale insieme all’illusione di poter costruire la pace attraverso il commercio, secondo l’adagio tedesco «wandel durch handel». Provando ad addomesticare l’orso. Oppure il dragone. Malgrado ripensamenti e diserzioni abbiano ridotto la lista, diversi elementi di spicco dell’establishment europeo continuano a sedere nei consigli d’amministrazione delle aziende cinesi: Huawei, ToJoy, Asian Infrastructure Investment Bank, Cefc China Energy, Hainan Cihang Charity Foundation Inc. Nascosti o ben in vista vi si trovano David Cameron, Dominique de Villepin, Jean-Pierre Raffarin, Danny Alexander, Rudolf Scharping, Philipp Rösler, Štefan Füle, Yves Leterme, Jean-Marie Le Guen, Jean-Louis Borloo, Boris Tadić. Alcuni di loro preferiscono commerciare in modo indiretto sulla Via della Seta, concedendo consulenze e sviluppando attività sussidiarie. Il risultato è il medesimo: senza tante preoccupazioni per gli standard del partner, stringono legami che presto o tardicomplice il crescendo delle tensioni internazionali, stavolta tra Stati Uniti e Cina riguardo allo status dell’isola di Taiwan - saranno costretti a tagliare. Con seri risvolti per l’economia e la sicurezza nazionale.

Tra lobby e corruzione

fo Urso a imprese di casa nostra per fare affari nell’Iran degli ayatollah, scosso dai disordini per la morte della giovane Mahsa Amini e prossimo destinatario di sanzioni.

Quale via d’uscita? Sull’esposizione delle sue classi dirigenti a tentativi di assoldamento da parte di agenti d’influenza esteri, la risposta dell’Ue è apparsa tardiva e confusa. A scandalo ormai scoppiato, la presidente della Commissione Ursula von der Leyen ha dichiarato di aver proposto l’istituzione di un ente di vigilanza indipendente. Nonostante l’impegno in questo senso, la proposta non si è ancora trasformata in un’iniziativa legislativa da presentare al Parlamento, organo riluttante a vedersi imporre una regolamentazione. Sarà per questo che, persino nella relazione presentata da Sandra Kalniete, i componenti dello Special Committee sbagliano fattispecie e usano public affairs ed élite capture come sinonimi. Col rischio di danneggiare la rappresentanza d’interessi legale e regolata. Come accade quando invitano la Commissione a valutare se i periodi di cooling-off (raffreddamento) nei casi di revolving doors (porte girevoli, cioè il passaggio di funzionari dal settore pubblico al privato e viceversa) siano ancora idonei e auspicano che gli Stati membri si adeguino in sede nazionale, dimenticando come l’ingresso in una società privata possa verificarsi anche a distanza di molto tempo dall’abbandono

L’UE È VULNERABILE AI TENTATIVI DI ASSOLDAMENTO DELLE CLASSI DIRIGENTI DA PARTE DI AGENTI D’INFLUENZA ESTERI. RUSSIA E CINA HANNO GIÀ INFILTRATO I SUOI PROCESSI DEMOCRATICI

Al di là delle due superpotenze, non bisogna sottovalutare Stati in apparenza innocui e insospettabili. Perché col tempo il ricorso all’élite capture si è esteso a diverse aree del mondo, dove non si bada a spese in pubbliche relazioni. Monarchie del Golfo (Arabia Saudita, Bahrein, Emirati Arabi Uniti, Qatar), dittature dell’Asia centrale (Azerbaigian, Kazakistan, Uzbekistan), autocrazie di stampo religioso con ambizioni da potenza regionale (Iran e Turchia) e Stati africani dimostrano di esercitare questa diplomazia parallela con evidente padronanza, come documenta il paper “Spin doctor to the autocrats”, pubblicato nel 2015 dal gruppo di ricerca olandese Corporate Europe observatory. Ecco dunque spiegata la fascinazione, pure italiana, per la cosiddetta «diplomazia del caviale» azera, l’elogio del «Rinascimento arabo» pronunciato dal senatore Matteo Renzi al cospetto del principe saudita, le consulenze concesse dall’attuale ministro per lo Sviluppo economico Adol-

di una carica elettiva. D’altra parte, i requisiti necessari perché un uomo politico diventi un efficace lobbista non decadono allo scadere di un certo termine. O, ancora, quando suggeriscono ai diretti interessati di denunciare l’avvicinamento da parte di un apparato straniero: in mancanza di una giurisdizione vincolante in materia a più livelli, la raccomandazione può risolversi nella rinuncia dell’interessato a uno stipendio a cinque zeri. In definitiva, come ammette Kalniete, «al momento l’Ue non è in grado di ostacolare la creazione di canali d’influenza all’interno delle istituzioni». Servirebbe l’intelligence, ma «anche gli strumenti di controspionaggio, dipendenti dalla volontà degli attori nazionali di condividere informazioni, rimangono scarsi». Così l’Europa si avvicina a una nuova Guerra fredda: incosciente, vulnerabile, incerta.

22 8 gennaio 2023
Foto: F. FlorinAFP via Getty Images
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L’eurodeputata Sandra Kalniete, relatrice sull’interferenza straniera nell’Ue

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DI EUGENIO OCCORSIO

a disputa sul Mes non è solo sul Mes. Chissà se Giorgia Meloni se ne rende conto ma è un test sui nostri rapporti con l’Europa, alla vigilia di appuntamenti chiave come il nuovo Patto di Stabilità. «L’Italia non accede al Mes, lo posso firmare col sangue», dice la premier con grinta enfatica. Appunto, non accederà,nonlometteindiscussionenessuno: ma il nostro Paese si è messo di traverso anche alla ratifica della riforma del fondo salva-Stati, il Mes appunto, e ne ha fatto un velenoso caso politico. Eppure il testo fa piazza pulita della terribile Troika ed è pieno di postille a noi favorevoli: «Una per tut-

una situazione tipo quella greca, che l’Italia aveva schivato di pochissimo». Ora che non c’è più l’ombrello protettivo del quantitative easing della Bce, l’acquisto dei titoli del Tesoro è un supporto fondamentale.

te», spiega Andrea Boitani, economista della Cattolica: «Il nuovo Mes servirà per separare le crisi dei debiti sovrani da quelle delle banche evitando il pericolo del “double loop”, la spirale per cui se va in crisi uno Stato precipitano anche le banche che hanno in pancia i suoi debiti e viceversa. Insomma, a evitare - intervenendo a sostegno del fondo europeo di risoluzione delle crisi bancarie -

Ma Meloni dimostra di non aver seguito le vicende che portarono il governo Conte II ad avallare il 9 dicembre 2020 la riforma del Mes (manca la ratifica parlamentare). Si riuscì a evitare una clausola punitiva per l’Italia: la ristrutturazione obbligatoria con il taglio di parte dei debiti nel caso di crisi dello spread. «È un’ipotesi estrema - spiega Giampaolo Galli, direttore dell’Osservatorio dei conti pubblici - però per un Paese che ha un debi-

24 8 gennaio 2023 Conti pubblici
CON IL MES È UN’ALTRA
MELONI È CONTRO IL FONDO SALVA-STATI MA OPPORSI FRONTALMENTE ALL’EUROPA POTREBBE COSTARE ALL’ITALIA UN NUOVO PATTO DI STABILITÀ CON REGOLE MOLTO RIGIDE SUL DEBITO Eugenio Occorsio Giornalista L
COSA

to del 150 per cento del Pil è bene considerarla. Visto che il taglio del debito comporta una perdita per i creditori - fondi d’investimento italiani e stranieri, banche, istituzioni finanziarie private e pubbliche - si possono immaginare le conseguenze. La ristrutturazione era obbligatoria in caso di richiesta di aiuto del Mes (intervenuto nelle crisi di Grecia, Irlanda, Portogallo, Cipro e Spagna, ndr), ora grazie all’intervento italiano l’obbligatorietà è caduta». Di fatto, la possibile ristrutturazione non è più conditio sine qua non per il “soccorso”. Chi è stato l’artefice di questa provvidenziale modifica in extremis? Proprio Alessandro Rivera, il direttore generale del Tesoro che Meloni vuole silurare entro il 24 gennaio, scadenza dello spoils system. E che invece si è battuto come un leone a Bruxelles con gli allora ministri Giovan-

ni Tria prima e Roberto Gualtieri poi, con successo.

Con una buona dose di contraddittorietà, ora la premier ha derubricato a «questione secondaria» quella del Mes. Ma è stata lei a esasperarla togliendo spazio a problemi cruciali come salari e disuguaglianze. «La verità è che il Mes è un tassello integrante del disegno europeo di risposta alle crisi», spiega l’economista Innocenzo Cipolletta. «Il rischio è che dietro il braccio di ferro ci sia una questione politica più sottile. I governi tedesco, francese e spagnolo tengono alta la guardia nei confronti di vicende apparentemente tecniche, perché se prevale la linea Meloni dell’ossessiva avversità contro l’Europa e dei bastoni fra le ruote a ogni occasione, il cattivo esempio rinforzerebbe i gruppi di estrema destra: l’AfD (Alternati-

8 gennaio 2023 25 Prima Pagina Foto: Getty Images
Manifestazione dei portuali di Amburgo contro il carovita

ve für Deutschland), il Rassemblement National di Marine Le Pen, gli spagnoli di Vox». La tensione era salita già quando, il 16 dicembre, la Bce aveva alzato i tassi dal 2 al 2,5 per cento e - malgrado con l’inflazione al 10 per cento il costo del denaro resti negativo in termini reali - diversi esponenti della maggioranza si erano detti «sorpresi e indignati» per una mossa giudicata inevitabile in tutti i palazzi d’Europa. «Non ratificare il Mes - aggiunge Cipolletta - è come sottolineare che ne potremmo aver bisogno e ne vorremmo avere uno diverso. Approvarlo così com’è e fare in modo di non averne bisogno è il miglior messaggio ai mercati».

C’è poi un aspetto di fondo che induce a un atteggiamento più possibilista sul Mes, l’opposto di quello odierno: a metà anno sarà varato il nuovo Patto di Stabilità perché entri in vigore il 1° gennaio 2024, stavolta con pene economiche pesanti per i trasgressori. Ormai è sicuro che verrà confermato il doppio vincolo del 3 per cento di deficit/Pil e del 60 sul debito. Gli stessi parametri del patto sospeso per il Covid-19 ma con un dettaglio: le regole sul debito («discesa al 60 per cento con il taglio ogni anno di un ventesimo della quota eccedente il 60») non saranno più uguali per tutti. Per l’Italia - con un debito/Pil intorno al 150 per cento - se rimanessero rigide finirebbero inevitabilmente inattuate (così come lo sono state con il vecchio patto) e si riaccenderebbe lo scontro in Europa. Le prescrizioni verranno invece decise caso per caso dalla commissione sulla base di parametri oggettivi come il saldo primario (esclusi cioè gli oneri da interessi) e la verifica del lavoro di rientro in corso, ma soprattutto il grado di collaborazione nei confronti del disegno europeo. Restar fuori da questo processo sarebbe devastante anche perché dopo il NextGenEu (leggasi Pnrr), del quale siamo i maggiori beneficiari, si vuole ripetere l’esperienza con qualche intervento comune contro l’emergenza guerra-energia-inflazione. Anche sul rispetto delle regole del Pnrr, verificate periodicamente per continuare i finanziamenti, c’è peraltro discrezionalità di Bruxelles e presentarsi con dei conti in sospeso non è l’ideale. «Motivi di opportunità politica avrebbero suggerito di non alzare tanta polvere intorno al Mes», commenta Angelo Baglioni, presidente di Ref Ricerche. «Si doveva fare a meno di trasalire

0,5

sopra le righe. Il pericolo di mettersi contro l’Europa in vista delle prossime sfide è dietro l’angolo». Oltretutto, Meloni, che dal 2020 è presidente dei Conservatori Europei a Strasburgo (63 eurodeputati), sta cercando di smarcarsi dai movimenti di estrema destra (verso i quali invece spinge Salvini, ndr) in vista delle elezioni del 2024, stabilendo un’alleanza con il Ppe: qualsiasi svolta sovranista rimette indietro le lancette.

Il nuovo Patto di Stabilità arriverà in un momento molto difficile, con l’Europa stessa se non in recessione in forte rallentamento per l’inflazione e gli aumenti di tassi. Un indebolimento che non risparmia neanche i membri più forti del “club” a partire dalla Germania. Gli economisti più acuti come Wolfgang Munchau fanno notare che il rallentamento tedesco non coincide con un atteggiamento più benigno della Bce bensì con una vittoria dei “falchi” guidati da Isabel Schnabel, che all’inizio (2020) del suo mandato nel comitato direttivo della Bce era attenta a non irrigidire le condizioni di credito, e invece ora è diventata monetarista spinta, nel senso di aumentare i tassi senza pietà per domare l’inflazione, come se volesse dimostrare che non riserva privilegi alla Germania. Insomma, l’era Draghi è finita e il messaggio è chiaro dal primo giorno di presidenza Lagarde: non contate sulla Bce per risolvere i vostri problemi. Va detto che c’è ancora qualche incertezza sui tempi del nuovo patto, osserva l’economista Stefano Micossi: «Viene da chiedersi se in un panorama economico complicato da una guerra ai confini dell’Ue, la crisi energetica e un difficile aggiustamento monetario per battere l’inflazione, questa discussione possa trovare lo spazio che merita nel Consiglio Europeo». Ammesso che l’anno prossimo davvero entri in vigore il nuovo patto, «l’aggiustamento avverrebbe in un arco di tempo di quattro anni, estendibile per altri tre con un rafforzamento ulteriore delle misure di riforma e investimento. Il piano verrà discusso con la Commissione e dopo i necessari adattamenti approvato dall’Ecofin. La Commissione vuole dar vita a una procedura di sorveglianza vincolante in maniera analoga a quella dei Pnrr». Visto per valutare la sostenibilità del debito non esistono tecnologie affidabili, ecco che il fattore “reputazionale” diventa decisivo.

26 8 gennaio 2023
Prima Pagina Conti pubblici
La Bce ha deciso di portare il costo del denaro dal 2 al 2,5 per cento AUMENTO DEI TASSI 150 Secondo Eurostat il rapporto debito/Pil italiano del 2022 si attesterà al 150,2% PER CENTO DEBITO/PIL 60 Il trattato di Maastricht e il Patto di Stabilità prevedono un tetto massimo del 60% del rapporto debito/Pil PER CENTO LIMITE EUROPEO
Ci trovi a Milano in MargheraGaribaldiNavigliVespucci BullonaOberdan lafiletteriaitaliana www.lafiletteriaitaliana.it Seguici su: Lo vuoi un file o? SE NON QUI, DOVE?

Il cambiamento è qualcosa di inevitabile. E le società sono fondamentalmente in grado di assorbire anche i cambiamenti più importanti. Tuttavia, ciò che l’Occidente ha vissuto negli ultimi 20 anni difficilmente rientra nella categoria di cambiamento, ma piuttosto in quella di terremoto. Attacchi islamisti, guerra in Iraq e Afghanistan, crisi bancaria, Brexit, cambiamento climatico, pandemia, guerra in Europa: la parola “crisi” è stata usata in modo quasi inflazionato dalla stampa europea.

In queste situazioni l’Unione Europea non solo è stata esposta a gravi shock esterni, ma è anche stata messa radicalmente in discussione come progetto politico, e si è trovata a dover reagire più rapidamente di quanto fosse abituata a fare. Infatti, ciò che era iniziato come una serie di cambiamenti ha assunto una nuova qualità con l’insorgere della pandemia di Covid-19. Gli europei si sono resi conto in maniera abbastanza brutale di quanto dipendessero da altri continenti: nel momento in cui i porti cinesi sono stati bloccati, le catene di approvvigionamento si sono interrotte in un batter d’occhio. L’unico lato positivo è stata la presa di coscienza, dopo le prime reazioni dal sapore nazionalista, che la solidarietà può essere la forza dell’unione, così come la ricerca medica comune, grazie a cui è stato possibile mettere sul mercato dei vaccini molto efficaci, comprati e distribuiti dall’Ue.

Ma appena i ristoranti, gli uffici e le università riprendevano il loro ritmo normale, ecco che scoppia la guerra russa contro l’Ucraina. Una guerra che si sarebbe potuto (e dovuto) anticipare. Invece, chiudere gli occhi davanti all’evidenza sembra essere una strategia politica ben diffusa. La guerra iniziata dalla Russia aggiunge un altro elemento di fragilità al quadro europeo: la dipendenza energetica. Le leggi del mercato liberale e mondiale non funzionano se le regole vengono ignorate dagli attori maggiori. Quello che sembrava certezza si trasforma in dubbio, il sistema della globaliz-

SOVRANITÀ CONDIVISA

DI AMÉLIE BAASNER

zazione dominato dalla logica dei prezzi bassi ormai è fallito. Voler trasformare i regimi autoritari attraverso i rapporti commerciali – dottrina cara soprattutto alla Germania – si è rivelato illusorio.

L’AUTORE

Cresciuta in un contesto francotedesco, Amélie Laura Baasner è giornalista, scrivendo per giornali in Francia, Germania e Italia, impegnandosi per uno scambio transnazionale di opinioni. Dal 2019 lavora presso l’Università di Humboldt a Berlino

L’Ue, troppo lenta nelle sue decisioni, e poco capace di andare oltre gli interessi nazionali dei 26, si è svegliata in un mondo in piena trasformazione, veloce e profonda. L’esempio più azzeccato è l’incapacità europea di trovare un accordo su una politica migratoria comune. Nei prossimi anni le persone continueranno a cercare di entrare nell’Ue - e l’invecchiamento della società europea ha un estremo bisogno di questa immigrazione per ragioni economiche - ma invece di trovare un accordo su compromessi efficaci, gli Stati europei non fanno altro che scaricarsi l’un l’altro sia le responsabilità che le persone interessate. Il mondo di oggi non è più quello del 2000 ed è inverosimile pensare che le risposte alle sfide di questo secolo possano essere quelle del Novecento.

I centri di potere politico, economico e anche militare sono ormai la Cina e gli Stati Uniti. Gli Stati Uniti hanno un vantaggio fondamentale rispetto agli europei: possono agire velocemente e in modo omogeneo

28 8 gennaio 2023
Il rincorrersi di eventi epocali, dal Covid alla guerra, ha messo a nudo le fragilità di una Ue incapace di un indirizzo comune. A partire dalle politiche sull’immigrazione
Europa Oggi

per tutto il Paese. Lo dimostra ad esempio l’Inflation reduction act che non è solo uno strumento di protezione della propria industria e degli investimenti in America, ma anche un gigantesco programma nella lotta contro il cambio climatico.

Dall’altro lato, la Cina prosegue sulla sua strada strategica per diventare il leader mondiale in un futuro ormai prossimo. Investimenti nelle industrie e infrastrutture chiave dei Paesi europei e in territori ricchi di materie prime fanno parte di un piano globale del 21esimo secolo, tanto quanto il programma di modernizzazione delle infrastrutture nel proprio Paese.

L’Ue potrebbe avere voce in capitolo, ma solo se parlasse con un’unica voce – nelle riunioni G7 sono 3 i Paesi membri dell’Ue, e anche nel G20 gli europei avrebbero più peso se parlassero per l’Unione intera: insieme abbiamo un capitale enorme grazie al mercato comune, alla popolazione di 450 milioni di persone, alla moneta comune e alla ricerca capace di competere con il mondo intero. Questo semplice fatto diventerà ancora più rilevante quando il processo di adesione dei Paesi dei Balcani occidentali, della Moldavia e dell’Ucraina – processo fondamentale ed inevitabile da un punto di vista geo-

IL TEMA

In un mondo profondamente cambiato, l’Ue deve rimodellare e riformare le sue istituzioni per aver voce in capitolo. Se gli Stati nazionali rispondono alle sfide del 21esimo secolo in maniera obsoleta chiudendosi su se stessi, l’Unione perde il suo enorme capitale rappresentato dal mercato comune, una popolazione di 450 milioni di persone, la moneta comune e la ricerca di alto livello. Per essere capaci di competere con il mondo intero, gli Stati nazionali devono condividere la loro sovranità

strategico – arriverà a compimento.

Come possiamo allora meglio unire le nostre forze? Attraverso riforme profonde delle istituzioni europee che ne rimodellino il funzionamento. Questo approccio includerebbe una chiara distribuzione delle competenze, la legittimazione democratica delle decisioni (rafforzamento del Parlamento europeo), decisioni a maggioranza nel Consiglio europeo e una riduzione del numero di commissari.

È chiaro che cambiamenti così profondi sono difficili da mettere in atto. Per prima cosa ci vorrà il consenso delle popolazioni. Si sa che il prestigio delle istituzioni comuni è debole, e l’ultimo scandalo di corruzione al più alto livello ha ulteriormente minato la fiducia dell’opinione pubblica. Anche se il fondo salva Stati “NextGenerationEU” è stato accolto favorevolmente, il sostegno della popolazione all’Ue non è garantito.

Lo scetticismo nei confronti dei compromessi lenti e complicati - e che spesso possono essere bloccati dai singoli Statista crescendo, soprattutto tra le giovani generazioni. Chi vuole difendere la democrazia e l’integrazione europea deve mantenere la promessa di una prosperità che possa essere percepita da tutti. Quando i regimi autoritari sembrano essere in grado di difendere gli interessi nazionali con maggiore successo e in modo più mirato, questo diventa un problema per la democrazia nel lungo periodo.

L’Europa deve affrontare una scelta: o continua a fare “business as usual”, nel qual caso ci stiamo dirigendo verso un muro e presto saremo solo spettatori della competizione tra Stati Uniti e Cina; oppure ci affermiamo con la nostra idea di un ordine di base libero e sociale, avendo la forza di farlo con una voce unica e unita e di prendere tutte le misure politiche, economiche, finanziarie, di politica della ricerca e infine anche di difesa necessarie per raggiungere questo obiettivo. È questo il grande paradosso europeo: gli Stati nazionali, per sopravvivere, devono condividere la loro sovranità in un’Unione rafforzata dall’interno.

8 gennaio 2023 29
Prima Pagina
Foto: Olaf Loose / Getty Images
Bandiere dell’Europa davanti alla sede della Commissione europea a Bruxelles

di PAOLO SIANI*

Una favola per i bambini detenuti con le madri

Ho provato in tutti i modi a tirare fuori dal carcere i bambini innocenti che sono rinchiusi negli Icam (istituti a custodia attenuata per detenute madri) con le loro mamme. C’ero quasi riuscito con l’approvazione alla Camera, il 30 maggio 2022, della legge che istituiva le case famiglie protette come l’unica possibilità di far scontare la pena a una donna con figli fino a 6 anni. Poi la caduta del governo ha interrotto l’iter legislativo che adesso è tutto da rifare. Allora abbiamo pensato di rendere quella ingiusta detenzione di quei bambini un po’ meno triste. Per questo abbiamo realizzato il progetto favolette. Un progetto che nasce da un’idea dalla Fondazione Giancarlo Siani onlus, che ha deciso di coinvolgere grandi scrittrici e scrittori nella creazione di audiolibri destinati a bambine e bambini per far arrivare le storie anche in contesti dove solitamente non approda la lettura, per esempio gli Icam.

È nata così una raccolta di favole “sonore”, nella quale autori e autrici si sono messi a disposizione dei giovani lettori con storie fantasiose e piene di avventura. Da quell’esperienza nasce il libro e il progetto sociale “Favolette”.

Tutto nasce in realtà dall’ultimo articolo di Giancarlo, pubblicato sul Mattino il 22 settembre 1985, in cui scriveva dei “muschilli”, i bambini usati come corrieri della droga, e si chiedeva per loro quale futuro ci sarebbe stato. Con la no-

stra Fondazione Giancarlo Siani onlus, abbiamo deciso di non far cadere nel vuoto quella domanda e così, con uno strumento gentile e potente, come quello della lettura condivisa ad alta voce, ci siamo dedicati proprio ai bambini, per garantire a ogni bambina e a ogni bambino la migliore possibilità di crescere a prescindere dalla città o dal quartiere in cui vive.

Perché sappiamo ormai con certezza che ascoltare storie dalla voce della mamma e del papà fa bene a ogni bambina e a ogni bambino. Più presto si comincia e migliori saranno i risultati.

Ma “Favolette” è un libro magico. Ha il potere di moltiplicare le storie. Infatti, grazie all’aiuto di tutti, per ogni copia del libro acquistata una sarà regalata ai bambini e al-

le bambine presenti negli Icam o nelle sezioni nido delle carceri e ai bambini ricoverati negli ospedali pediatrici. Perché leggere una favola è parte della cura, fa bene al cuore, al cervello e anche all’umore. E pochi giorni fa abbiamo già donato 15 libri ai bambini dell’Icam di Lauro attraverso il garante dei diritti dei detenuti.

Questo è il nostro piccolo ma significativo contributo per provare a garantire una partenza e una crescita felice a ogni bambino, in attesa che la politica rimetta in cima ai suoi pensieri i diritti negati ai bambini innocenti costretti a vivere in un carcere con la loro mamma.

*Paolo Siani, pediatra, già vicepresidente commissione parlamentare Infanzia e Adolescenza

8 gennaio 2023 31 Prima Pagina L’intervento
Una donna con il figlio detenuta nell’Icam, struttura a custodia attenuata, di Milano

C’ERA UNA VOLTA L’

32 8 gennaio 2023 Guerra in Europa

ESERCITO TEDESCO

DI USKI AUDINO

Mancano pochi giorni alla fine dell’anno. Solo due settimane al passaggio di consegne dalla Francia alla Germania nel comando della Task force congiunta della Nato (Vjtf), l’unità di intervento rapido creata al vertice Nato del 2014 in Galles in risposta all’occupazione russa della Crimea. Il 18 dicembre scorso i vertici dell’esercito e il ministero della Difesa a Berlino hanno ricevuto una lettera dai contenuti esplosivi a firma del generale della decima divisione corazzata Ruprecht von Butler. Nel corso delle esercitazioni di Münster con i panzer Puma, i 18 mezzi corazzati da combattimento per la fanteria hanno raggiunto un’operatività pari a zero, un «fallimento totale», riferisce il generale di divisione. «La capacità operativa dei veicoli è una lotteria, mi spiace doverlo dire così duramente», conclude il generale, consapevole che i mezzi corazzati sarebbero dovuti entrare in azione nella missione Nato Vjtf di lì a poco. La notizia della miseria in cui versa l’esercito tedesco rischia di valicare le frontiere e diventare un ennesimo caso internazionale e tutto questo a 10 mesi dalla Zeitenwende, la «svolta epocale» che destinava 100 miliardi alla Difesa annunciata dal cancelliere Olaf Scholz. La titolare del dicastero Christine Lambrecht corre ai ripari, decide di sospendere l’entrata in azione dei panzer Puma nella missione Nato e di rimettere in funzione i «vecchi ma buoni»

Marder, i cingolati in dotazione all’esercito tedesco dal 1970. La vicenda viene sintetizzata dalla stampa tedesca come «il fallimento totale dei Puma», il veicolo frutto della partecipazione congiunta di due grandi marchi dell’industria della difesa tedesca, Rheinmetall Landsysteme e Krauss-Maffei-Wegmann (Kmw). Il ministero sospende anche l’acquisto di un altro lotto dei cingolati mentre l’amministratore di Rheinmetall, Armin Papperger, liquida la vicenda come «una tempesta in un bicchier d’acqua» e in un’intervista alla Frankfurter Allgemeine am Sonntag parla di «lievi difetti» che si possono sistemare in due-tre settimane.

I NUOVI TANK NON FUNZIONANO, MA È SOLO L’ULTIMO DEI FALLIMENTI. CHIAMATA A FARE LA SUA PARTE NELLA DIFESA EUROPEA LA GERMANIA SCOPRE DI NON ESSERE PRONTA

La vicenda getta luce su una questione aperta. Cosa è lecito aspettarsi dalla Bundeswehr nel 2023? Qual è il livello delle sue prestazioni? Ha ancora senso parlare di Bundeswehr avendo in mente la Wehrmachtelasuapotenzadifuoco?Sonoquesteledomandedacuipartireperragionare sul ruolo della Germania nella difesa europea, sul suo coinvolgimento a sostegno dell’Ucraina e sul contributo nella Nato. In sintesi, per parlare del suo ruolo di potenza o di impotenza militare nel cuore del continente.

La storia dei Puma non è che l’ultimo episodio di

8 gennaio 2023 33 Prima Pagina Foto: P. Schulze / picture alliance via Getty Images
Un carro armato Puma durante un’esercitazione Uski Audino Giornalista

Guerra in Europa

una lunga serie di fallimenti della Difesa tedesca. Il penultimo ha riguardato il caso della dotazione insufficiente di munizioni. A fine novembre la Bundeswehrverband, l’associazione di categoria dei militari, ha annunciato che le Forze armate avrebbero avuto bisogno di munizioni per l’equivalente di 20 miliardi e in fretta. In caso contrario, le munizioni sarebbero state sufficienti a coprire appena tre giorni di combattimento e non i trenta previsti dagli accordi Nato.

La richiesta ha un ordine di grandezza che è tutt’altro rispetto a quanto previsto dal bilancio dello Stato negli ultimi anni. Nel 2015 per le munizioni erano stati previsti 296 milioni, saliti progressivamente a 700 milioni nel 2021 e a 1,125 miliardi nel 2023. «Il tema della carenza è noto da anni», ha detto il presidente dell’associazione dei militari André Wuestner, «e adesso bisogna finalmente far partire gli ordini», che in ogni caso non saranno evasi prima di uno-due anni. Manca ogni tipo di munizioni per qualsiasi tipo di sistema di difesa, ha specificato il portavoce del governo Steffen Hebestreit. Per questa ragione si è tenuto in cancelleria un vertice “informativo” tra il cancelliere Scholz e gli esponenti dell’industria delle armi. Ma l’ordine di grandezza dei 20 miliardi resta, segno inequivocabile di una valutazione poco azzeccata nel corso del tempo.

«Per anni le nostre truppe sono state trascurate e mandate in rovina e questo ha lasciato tracce visibili», si difende la ministra della Difesa Lambrecht, ormai bersaglio di un quotidiano tiro al piccione dopo 13 mesi in carica. Le radici della questione affondano in effetti nella riunificazione della Germania, che prevedeva tra le sue precondizioni la conferma di un profilo defilato nel campo militare. A partire dal 1990, quando il bilancio della Difesa superava il 2,4 per cento sul Pil, la curva

ESERCITAZIONE

Un reparto femminile della Bundeswehr durante un’esercitazione

delle spese è andata progressivamente a scendere fino a toccare il minimo nel 2014. «Se dal 1990 al 2014 il bilancio della Bundeswehr è andato progressivamente a ridursi, è naturale che oggi sia più facile vedere rompersi qualcosa, mentre ricostruire è più difficile», ha detto la presidente della Commissione Difesa Marie-Agnes Strack-Zimmermann, in un colloquio con la stampa estera a Berlino. Da nove anni a questa parte, però, il bilancio della Difesa tedesca è risalito e quasi raddoppiato, passando dai 32,44 miliardi del 2014 ai 50,2 del 2022, se si esclude il «bilancio speciale» da 100 miliardi annunciato dopo l’aggressione in Ucraina. Da parte degli osservatori - continua Strack-Zimmermann, esponente liberale della coalizione di governo tedesca - «c’è eccessiva impazienza» perché si pensa che con 100 miliardi si possa risolvere tutto, ma «con 100 miliardi non si va semplicemente al supermercato a fare acquisti di armi». Eppure, nonostante il lento e progressivo crescere del bilancio della Difesa l’equipaggiamento e le dotazioni per i 260 mila militari delle forze armate tedesche negli ultimi quattro anni hanno fatto passi avanti minimi, stando ai report annuali degli incaricati del Parla-

34 8 gennaio 2023
DOPO ANNI DI SPESA PER GLI ARMAMENTI IN CALO ORA LA TENDENZA SI È INVERTITA. MA È TUTTO IL PAESE CHE PER DECENNI NON HA CONSIDERATO POSSIBILE UN IMPEGNO MILITARE

mento per le Forze armate succedutisi negli ultimi anni, da Hans-Peter Bartels a Eva Hoegl. E questo dato inizia a essere oggetto di confronti. «In termini di tecnologia radio i soldati tedeschi sono molto indietro rispetto ai contingenti Nato degli Stati baltici», commenta Peter Carstens, esperto di politica militare della Frankfurter Allgemeine Zeitung.

La ministra Lambrecht al Bundestag ha confermato l’impegno tedesco di voler raggiungere l’obiettivo del 2 per cento sul Pil alla Difesa, come previsto dagli accordi Nato del 2014, ma non più entro l’anno come annunciato il 27 febbraio scorso da Scholz bensì nei prossimi 5 anni. Una decisione che rimane nel solco delle scelte dell’ex cancelliera Angela Merkel, che ha sempre detto di volersi progressivamente avvicinare a quella soglia, senza annunciare svolte epocali che non avrebbe potuto mantenere.

Sul contributo tedesco alla Nato, anche da parte degli Stati Uniti circolano dubbi e perplessità. Secondo un generale Usa di stanza in Europa, «il dibattito senza fine sulla ricostruzione dell’esercito tedesco e il suo deficit di cultura strategica» diminuiscono l’utilità della Germania come allea-

GOVERNO

Il cancelliere Olaf Scholz. Sopra: la ministra della Difesa Christine Lambrecht, entrambi della Spd

to della Nato, anche se rimane comunque fondamentale dal punto di vista logistico per le sue basi. Il sostegno formale alla Germania invece non è mai mancato. Sul caso dei Puma e del comando tedesco alla guida della missione Nato dal primo gennaio il segretario dell’Alleanza atlantica Jens Stoltenberg si è detto «assolutamente ottimista che la Germania sarà un eccellente Paese-guida del Vjtf», la Very High Readiness Joint Task Force che vedrà impegnati 12 mila soldati, di cui circa 8.000 tedeschi, la maggior parte dei quali provenienti dalla 37^ brigata di fanteria meccanizzata “Sassonia”.

Berlino inoltre ha mobilitato le sue forze anche nell’ambito del rafforzamento del fianco orientale della Nato in vista di una possibile minaccia di aggressione russa nel Baltico. Da settembre circa 5.600 soldati tedeschi della brigata Pomerania anteriore 41 sono dispiegati nella base lituana di Rukla nell’operazione Nato di attività rafforzata di vigilanza Eva (Enhanced vigilance activity).

Infine c’è l’impegno militare tedesco in Ucraina. È ancora lecito parlare di partner riluttante nel sostenere la causa contro l’aggressione russa? Sempre meno.

È vero che il governo di Berlino fa resistenza alla consegna di alcune categorie di armi, come i cingolati Marder o i Leopard 2, richiesti esplicitamente da Kiev. Ma è altrettanto vero che la lista di dispositivi militari inviati e quelli in corso di autorizzazione è lunga e dettagliata, è pubblica e viene aggiornata settimanalmente. Sul sito del governo si può anche leggere che dall’inizio del 2022 Berlino ha autorizzato la fornitura di armi in Ucraina per oltre 2,25 miliardi di euro. La questione su quale sistema di difesa sia opportuno inviare rientra invece nell’ambito di cosa è giusto fare per evitare una escalation del conflitto, un dibattito interno al governo tedesco ma che riflette discussioni analoghe in tutti i Paesi europei.

In sintesi, l’esercito tedesco più che riluttante è sguarnito e non solo per motivi storici. Le ragioni sono le stesse che hanno portato il precedente governo a dipendere dalle risorse energetiche della Russia. Dopo la riunificazione l’opzione di una guerra alle porte di casa era uscita dai radar.

8 gennaio 2023 35 Prima Pagina Foto: A. Hosbas / Anadolu Agency via Getty Images, M.Kappeler / picture alliance via Getty Images, S. Gallup / Getty Images

regime

SIRIA, C’È UN GIUDICE A BERLINO

MAMO

Ogni volta che si annuncia una nuova data di inizio di un processo, l’avvocato per i diritti umani siriano Anwar al-Bunni commenta con uno sguardo fiducioso, un sorriso sottile e pensa già umilmente al prossimo passo. «Siamo al terzo processo in Germania. Dopo quelli di Coblenza e Francoforte — questo secondo ancora in corso — ne è iniziato uno nella capitale Berlino. Ma aspettiamo il debutto di quelli in Olanda, Austria, Svezia, Belgio…speriamo anche negli Stati Uniti e in Spagna. Siamo sempre pieni di lavoro».

Al-Bunni si riferisce al terzo processo siriano per crimini contro l’umanità, iniziato a fine agosto. Questa volta sotto accusa è un miliziano palestinese-siriano della Brigata “Movimento Palestina Libera” a servizio del regime di Bashar al-Assad. L’imputato si chiama Mowaffak D. e, mentre la polizia tedesca faceva le sue indagini e chiamava più volte i testimoni per ascoltare ancora i dettagli e verificare, i rifugiati siriani lo incontravano che passeggiava a Sonnenallee, la cosiddetta “Via degli Arabi” a Neukölln, Berlino. L’ex miliziano beveva tè e fumava narghilè nei numerosi café arabi, ignaro che di lì a poco sarebbe stato arrestato. Il crimine di cui è accusato Mowaffak D. è aver lanciato un razzo al checkpoint di ingresso al campo di rifugiati Yarmouk, nella capitale Damasco, diretto a colpire un gruppo di civili in fila per ricevere gli aiuti umanitari dell’Agenzia della Nazioni Unite Unrwa, che è destinata all’aiuto della popolazione rifugiata palestinese in Medio Oriente. Sette delle persone colpite dal razzo sono morte, tra cui un bambino di sette anni; altre trenta sono rimaste ferite, di cui tre gravemente. Era il marzo del 2014, il campo si trovava sotto assedio del regime e il palestinese-siriano ha colpito la popolazione civile inerme: una strage che molti ricordano, in

Sit-in a Berlino per ricordare tutte le persone scomparse e imprigionate dal regime siriano

NELLA CAPITALE IL TERZO PROCESSO TEDESCO PER I CRIMINI CONTRO L’UMANITÀ COMMESSI DURANTE LA GUERRA CIVILE DAGLI UOMINI DEL PRESIDENTE ASSAD

quei giorni a Damasco.

Se appena un anno fa, il 13 gennaio 2022, a Coblenza, per la prima volta nella storia un ufficiale del regime di Damasco è stato condannato all’ergastolo per crimini contro l’umanità compiuti a danno di cittadini siriani arrestati perché protestavano pacificamente tra il 2012 e il 2013, a Francoforte è un medico degli ospedali militari di Homs e Damasco a essere sotto accusa per tortura e omicidio. «Anziché curarli, li seviziava», commenta al-Bunni, «e que-

Le violenze del
DI MARTA BELLINGRERI FOTO DI ALESSIO
36 8 gennaio 2023

sta è una delle tante prove che il regime siriano ha usato qualsiasi persona, qualsiasi mezzo per uccidere il proprio popolo: non solo l’esercito, gli agenti della sicurezza, i medici, ma anche milizie locali e straniere alleate, come quelle provenienti da Iran, Libano e Iraq». Entrambi i processi sono stati raccontati da L’Espresso, compreso il giorno della sentenza di Coblenza. Quelle di Francoforte e di Berlino si aspettano nei primi mesi del 2023.

«Le persone che abitavano nel campo di Yarmouk o là vicino vivevano in una condizione di sofferenza, di stenti e di paura, a causa dell’assedio», racconta Sara, avvocata al fianco di Anwar al-Bunni al Centro siriano per gli studi e le ricerche legali. È lei che ha seguito dall’inizio alla fine il dossier di Berlino dell’imputato Mowaffak D., proprio per la sua conoscenza del contesto attorno a Damasco. Su sua richiesta il nome vero non viene pubblicato perché l’avvocata in questi anni ha con-

tinuato a viaggiare verso la Siria, dove è iscritta all’Ordine degli Avvocati, e non risiede dunque in Germania come rifugiata. «Quando uno dei testimoni colpito dalla strage è venuto a Berlino da un’altra regione tedesca sono andata personalmente a prenderlo alla stazione: suo figlio piccolo era una delle vittime. All’arrivo nella capitale, è scoppiato a piangere, sentiva che di nuovo quella tragedia, quel razzo gli stesse crollando addosso; allo stesso tempo era eccitato, pronto a chiedere giustizia, voleva scattare e pubblicare foto e video con me, ma ho detto che non potevo perché la mia identità come avvocata in Germania è nascosta. Oggi la sua voce viene ascoltata da un giudice tedesco».

L’emotività legata al dolore profondo di questo padre, sopravvissuto a una strage di civili in Siria, è esplosa anche in Tribunale, quando urlando e piangendo ha detto all’imputato: «Perché avete ucciso tutti questi bambini, donne e civili innocenti? Per amore del vostro padrone Bashar? Vediamo come vi salverà ora dalle voci delle vittime che chiedono giustizia». In aula, ha riferito in un post su Face-

8 gennaio 2023 37 Prima Pagina
Marta Bellingreri Giornalista

book Anwar al-Bunni, avevano tutti le lacrime agli occhi, anche la giudice che ha interrotto l’udienza per una pausa. Accanto all’accusa di strage di civili, durante una testimonianza di un’altra vittima, è stato definito un nuovo crimine contro l’umanità: l’imputato, nel lavoro con la sua brigata per mantenere l’assedio del campo, avrebbe contribuito a rendere impossibile l’arrivo di cibo e aiuti umanitari e, quindi, partecipato a fare morire di fame altri civili.

«L’imputato Mowaffak D. è arrivato in Germania con il ricongiungimento familiare da Beirut per riunirsi con la moglie e i figli. Probabilmente ha lasciato la Siria come molti perché la situazione è difficile per tutti e il regime non gli dava più quello di cui aveva bisogno», dice al-Bunni che oltre alla precisa documentazione e preziosa raccolta di testimonianze del suo Centro siriano per gli studi e le ricerche legali, ha dovuto anche conquistare insieme ai colleghi la fiducia di tanti rifugiati siriani. I quali, superata la paura, si sono detti disponibili a diventare testimoni dei processi. Cosa non scontata, date le continue pressioni e minacce a cui sono soggetti i familiari. Una delle vittime del processo di Francoforte ha ritirato la propria testimonianza a dibattimento iniziato proprio per le minacce di morte che la sua famiglia ha subito in Siria.

Prima che si aprisse il processo a Berlino, sono passati diversi mesi tra la deposizione dinanzi al procuratore generale del dossier e l’arresto dell’imputato Mowaffak D. «Siamo stati costantemente in contatto con la polizia tedesca: da un lato capivo la loro esigenza di poter procedere senza dubbi e nessuna falla prima di far iniziare il processo; dall’altro lato, era nostro compito mantenere un legame stretto con le famiglie, le vittime, i testimoni, soprattutto

per rafforzare la loro fiducia nella giustizia, che ha dei tempi lunghi». In questo senso, la sentenza di un anno fa a Coblenza, ha aiutato tanto. «Uno shock e una sorpresa per tutti: negativamente per chi sostiene il regime e non si sente più sicuro di circolare, positivamente per chi si è affidato e fidato. Per poter dire che insieme ce l’abbiamo fatta». In Germania da ormai otto anni, Anwar al-Bunni ha dedicato e continua a dedicare tutta la sua vita alla giustizia per la Siria e le vittime della guerra civile ancora in corso nel Paese. Anche lui è stato un prigioniero politico dal 2006 al 2011, nella Siria pre-rivoluzione, e nel 2014 ha dovuto lasciare Damasco perché ricercato dal regime: a un appuntamento col fratello, hanno rapito lui per errore e Anwar ha capito che doveva scappare dal lì. A Berlino nel 2015 ha registrato l’associazione che aveva fondato dieci anni prima a Damasco, il Centro siriano per gli studi e le ricerche legali, un nome che al tempo voleva sviare il regime di Assad, non usando direttamente le parole “diritti umani” o “prigionieri politici”.

I tre processi in Germania sono stati e continuano a essere un buon esempio di come il principio della giurisdizione universale possa essere applicato. E sono anche di incoraggiamento per gli altri Paesi, come l’Olanda, dove il procuratore generale è stato contattato dal Centro siriano per gli studi e le ricerche legali, da Berlino, al momento giusto. «Una delle vittime e futuro testimone di un processo che si aprirà presto ha seguito per anni gli spostamenti del suo carnefice dalla Siria al Libano, alla Turchia, alla Grecia, dove è rimasto un anno, fino a quando è arrivato in Olanda e…tac, il nostro dossier era già pronto per far partire il caso», racconta al-Bunni. La sua collega Sara — come gli altri del Centro, nel loro piccolo ufficio di una stanza — nel frattempo sostiene il testimone a Berlino: «Il raz-

zo che ha ucciso suo figlio, ha ferito anche lui. Sono fiera che abbiamo accompagnato le vittime, soprattutto per assisterle quando vedono la persona che ha compiuto il crimine a processo». Per Sara non è importante solo a livello individuale, ma collettivo. «Sono fiera soprattutto come donna: i diritti delle donne, infatti, fanno parte di quelli umani e sento che le donne portano avanti la giustizia, interessandosi ai dettagli che servono per queste cause. La giustizia è dentro di me, ma sento che questa lotta non è per me: è per tutta la società».

Prima Pagina
L’AVVOCATO CHE DIFENDE LE VITTIME: LA PRIMA CONDANNA È STATA UNO SHOCK. I COLPEVOLI CONFIDAVANO NELL’IMPUNITÀ. ORA SEMPRE PIÙ PERSONE ACCETTANO DI TESTIMONIARE
Le violenze del regime 38 8 gennaio 2023
Anwar al-Bunni, 62 anni, davanti al suo ufficio a Berlino
40 8 gennaio 2023 Lo scenario dei Balcani
NAZIONALISTI FILORUSSI CONTRO ANTIFASCISTI. I GRAFFITARI SI COMBATTONO A COLPI DI SPRAY NELLA CAPITALE SERBA. DOVE L’UCRAINA REINCARNA LA BOSNIA-ERZEGOVINA DEGLI ANNI ’90 A BELGRADO I MURI PARLANO
DI CHRISTIAN ELIA DA BELGRADO (SERBIA)

Tutto è iniziato con un murale raffigurante il presidente russo Vladimir Putin apparso a marzo scorso, poco dopo l’invasione dell’Ucraina, in un angolo di Belgrado. Dopo qualche giorno, è stato deturpato con sangue simbolico e occhiali da sole. Da quel momento, ogni giorno, e ovunque nella capitale serba, è in corso una sorta di guerra notturna tra graffitari, con gli ambienti nazionalisti che appoggiano Putin e la Russia, ritenuta nazione sorella, e gli antifascisti che vedono nell’Ucraina la metafora della Bosnia-Erzegovina degli anni Novanta. Una delle persone che ha deturpato il murale è stato Pyotr Nikitin, traduttore 41enne nato a Mosca che vive a Belgrado dal 2016: «Ho spruzzato la bandiera ucraina sugli occhi di Putin due volte». Il 24 febbraio, quando la Russia invase l’Ucraina, Nikitin protestò davanti all’ambasciata russa a Belgrado, insieme ad altre persone che hanno unito le forze in un gruppo Facebook in lingua serba chiamato “Russi, ucrai-

ni, bielorussi e serbi uniti contro la guerra”, che organizzano proteste mensili e sottolineano i crimini di guerra della Russia in Ucraina e la repressione del Cremlino in patria.

«All’inizio per i serbi era impressionante che ucraini e russi si unissero. Perché per loro era come se croati e serbi si fossero uniti nello stesso movimento contro la guerra negli anni ’90», ricorda.

Tutta la città è attraversata — assieme ai quasi 12 mila russi e a un numero imprecisato di rifugiati ucraini che sono fuggiti qui dalle sanzioni, dalla coscrizione militare e dalla guerra — da questa “guerra” allo stesso tempo invisibile e molto visibile.

Alla sinistra del murale di Putin, l’autore aveva originariamente dipinto la parola «brat» (fratello). Qualcuno ha poi cancellato la prima lettera con vernice blu, lasciando la parola «rat» (guerra). Recentemente, un sostenitore della Russia ha ripristinato la «B» ed enfatizzato le altre lettere con vernice spray nera. E via così: diverse lettere «Z» sono state dipinte sui muri, richiamando il simbolo delle forze armate russe, ma molte sono mutate in una «N», come quella davanti alla statua di Nikolai II, l’ultimo zar di Russia. Vicino all’Università di Belgrado, dei murales raffigurano, uno accanto all’altro, due uomini molto diversi: Joe Strummer, il defunto cantante del leggendario gruppo punk The Clash, e Stefan Dimitrijevic, cittadino serbo di 33 anni morto nell’aprile di quest’anno mentre combatteva a Luhansk per conto della Russia. Qualcun altro ha spruzzato delle «X» verdi sul volto di Dimitrijevic e sull’aquila serba sopra la sua spalla destra.

Una guerra tra nazionalisti e oppositori che ha una lunga tradizione a Belgrado. Lo racconta Ljiljana Radošević, storica dell’arte e curatrice del progetto Street Art Belgrado che ogni fine settimana accompagna gruppi in giro per la capitale serba, raccontandone la storia attraverso i murales. «Tutto iniziò alla fine degli anni ’80, quando artisti che si erano formati all’estero tornarono in quella che era una città triste e grigia. Quei murales, oggi, sono ritenuti un patrimonio artistico della città, difesi e curati dagli stessi cittadini. Una dinamica che, per certi versi, ha fatto di Belgrado un laboratorio dell’arte di strada impegnata politicamente». Vennero poi gli anni ’90: «Belgrado era una delle città più pericolose del mondo e anche questo ha prodotto una narrazione. Oggi non poteva mancare una sorta di dibattito rispetto alla guerra in Ucraina, che si fa metafora: da un lato Putin e la Russia, questa idea della fratellanza ortodossa di fronte alla Nato, agli Usa e all’Occidente. Dall’altro, gli oppositori di questa visione nazionalista che sottolineano le corrispondenze tra l’aggressione russa di oggi e quella serba alla Bosnia-Erzegovina di ieri. Più che la storia di questo Paese, finisce per essere raccontata sui muri la diatriba tra le differenti letture dei simboli del passato. Dalla Seconda guerra mondiale ai partigiani, dai bombardamenti Nato del 1999 fi-

8 gennaio 2023 41 Prima Pagina Foto: A. Isakovic –Afp / Getty Images
Un murale raffigurante il presidente russo Vladimir Putin, a Belgrado: la scritta brat, fratello, è stata trasformata in rat, guerra Christian Elia Giornalista

no alla guerra in Kosovo, dalla religione alle lotte per l’ambiente. I murales sono entrati così tanto nella vita quotidiana dei belgradesi che spesso i graffitari vengono ingaggiati dalle famiglie per ricordare un parente che è venuto a mancare. Ma è la politica che la fa da padrona, ieri come oggi, specialmente per i gruppi legati al mondo degli ultras delle squadre di calcio. Quelli del Partizan, in particolare, di estrema destra. A loro si oppongono gli antifascisti che usano i partigiani, quelli veri, per attaccare i miti del nazionalismo del passato e del presente. E all’improvviso, un anno fa, è tornata anche la guerra degli anni ’90 sui muri».

Nel novembre 2021 una donna viene trascinata via da ragazzotti incappucciati, prima di essere presa in consegna e arrestata. Aveva lanciato uova contro un gigantesco murale dedicato a Ratko Mladić, ex comandante delle truppe serbe nella guerra in Bosnia negli anni Novanta e condannato all’ergastolo per i crimini di guerra commessi a Srebrenica e altrove. Verrà rilasciata il giorno dopo, ma le immagini faranno il giro del mondo. Aida Corovic, con i suoi occhiali da intellettuale e la nuvola di capelli bianchi al vento, arriva trafelata dai mille impegni. È tra le fondatrici delle “Donne in Nero”, attivista e giornalista, con un passato in politica. Aida, da sempre, ha denunciato i crimini del regime di Milošević e quelli di guerra in Bosnia-Erzegovina durante gli anni Novanta. «Per formazione io non riesco a pensare al singolare. C’è un pensare, ma anche un agire, collettivo, sociale. Non potevo, non volevo girarmi dall’altra parte. Bisognava dire no a quel murale, a chi crede di farlo impunemente, a chi fa finta di non vedere. E dire no anche a quei vecchi amici e militanti. Fino a quando questo Paese e questa società non

faranno i conti con le responsabilità delle guerre degli anni Novanta, non andremo mai avanti». E i giovani? «Tanti, in Serbia, si impegnano nelle lotte ambientaliste, ma non si rendono conto che non esistono battaglie “a-politiche”, che molte delle loro problematiche di oggi arrivano ancora da là, dal male del nazionalismo, dal rapporto tra Stato e cittadino. Per me tirare le uova contro il murale di Mladić è un atto politico: bisogna ricordare sempre di non credere al potere e ai miti che utilizza perché gli servono per inchiodare le persone a battaglie del passato, con le quali molti dei giovani coinvolti nella realizzazione dei murales non hanno a che fare e finiscono così per essere inconsapevoli del presente. Un sondaggio tra i ventenni di oggi, anche solo un anno fa, avrebbe mostrato come loro non sappiano praticamente nulla di chi sia Mladić e di cosa abbia fatto. Eppure quest’ultimo diventa un brand, un simbolo di fedeltà alla Serbia che non ha alcun legame con la realtà, anzi la ribalta. Intanto i giovani emigrano, o devono conoscere qualcuno nell’onnipresente partito al potere per trovare lavoro, o vivono a casa coi genitori perché non hanno alcuna prospettiva. Però danno un senso alle loro giornate facendo scritte su Kosovo e guerra in Bosnia, riuscite a pensare a nulla di più assurdo?».

Comunque, la guerra dei murales, da quelli del passato a quelli di oggi, con la proiezione del conflitto tra Russia e Ucraina in Serbia, è una tradizione. «Questi ragazzi vengo-

no dai margini, non hanno speranze e l’idea di essere vittime di un complotto internazionale contro il loro Paese permette di non fare i conti con il potere attuale. Quando non hai spazi pubblici per un dibattito, ripieghi sui muri», continua Aida. E lo stesso discorso, in fondo, vale per gli oppositori: «Distruggono quello in cui non si riconoscono, ma di notte. È un atto politico, solo fino a un certo punto. La verità, in Serbia come altrove, è che regimi soft come quello del presidente Vučić non hanno bisogno della violenza esplicita, tolgono giorno dopo giorno la speranza. E tutto si riduce a una lotta di murales, su temi come il passato o la guerra in Ucraina che non toccano i nervi scoperti di queste società. Dove tutti quelli che possono vanno via. Lanciare uova era importante, ma farlo di giorno, mettendoci il volto e il corpo, ecco, era un appello anche a questi ragazzi. Nessuno regalerà loro la libertà, né dal passato né per il futuro».

Prima Pagina 42 8 gennaio 2023 Foto: P. Crom / Getty Images Lo scenario dei Balcani
CITTÀ
UNA
LABORATORIO DELL’ARTE
STRADA
POLITICAMENTE.
MANCARE
LA
È
SORTA DI
DI
IMPEGNATA
OGGI NON POTEVA
UN DIBATTITO RISPETTO ALL’INVASIONE DI PUTIN AI DANNI DI KIEV
Un murale celebra il mercenario russo “Motorola”, morto in Ucraina

GRUNDIG

Il nuovo Geoportale della Cultura Alimentare

LA LOTTA ALLE MICROFIBRE

Il portale che mappa e racconta il patrimonio gastronomico italiano

bre dei tessuti disperse durante i lavaggi.

Grundig non si ferma allo sviluppo di tecnologie all’avanguardia: ha scelto Marevivo, associazione ambientalista impegnata nella tutela del mare, per promuovere un progetto di informazione e sensibilizzazione sull’emergenza delle microfibre, con una campagna di comunicazione digitale per divulgare suggerimenti per contrastarla, come l’invito a prediligere le fibre naturali a quelle sintetiche prestando attenzione alle etichette dei capi.

Più attuale e rinnovato, più semplice e fruibile, più interattivo, ricco di contenuti da esplorare: è online il nuovo Geoportale della Cultura Alimentare (GeCA), lo strumento per la narrazione collettiva della nostra cultura gastronomica, creato dall’ICPI Istituto Centrale per il Patrimonio Immateriale del MIC - Ministero della Cultura.

Francesco Misurelli, CEO di Grundig Italia, ha ricordato quanto sia urgente un’azione da parte di tutti: “Il problema delle microplastiche riguarda ognuno di noi e intervenire significa attivarsi non solo per la salvaguardia del pianeta ma anche per il nostro benessere, se consideriamo che inconsciamente ognuno di noi ingerisce ogni settimana l’equivalente di una carta di credito in plastica.”

Tradizioni, riti, cerimonie e festività, saper fare, arti e mestieri, musica, danza, giochi: un grandioso Patrimonio Immateriale, da tutelare e tramandare.

Negli ultimi anni l’inquinamento da microfibre è divenuto un problema sempre più urgente: le minuscole particelle rilasciate dai tessuti sintetici durante i lavaggi impattano non solo sui nostri mari, ma anche sul nostro sistema alimentare venendo assorbite dai cibi di cui ci nutriamo.

Il tema è caro a Grundig, marchio storico nel settore degli elettrodomestici, che da sempre coglie le sfide più urgenti a livello globale e mette la propria tecnologia a disposizione della tutela ambientale, progettando soluzioni innovative per la salvaguardia delle risorse del pianeta.

L’azienda è stata tra le prime del settore ad affrontare concretamente il problema delle microfibre rilasciate in acqua attraverso la messa a punto del filtro FiberCatcher®, innovativo sistema di filtraggio, integrato nelle sue lavatrici di ultima generazione, che trattiene e raccoglie oltre il 90% delle microfi-

GeCA, caratterizzato da un roadshow di eventi e incontri strutturati con di informare e coinvolgere territorisecondo uno spirito comunitario di ed eredità culturale condivisa. Un multidisciplinare a più tappe in cui Ventura, Direttore dell’ICPI*, ha i le Comunità locali per fare il punto valorizzazione della cultura alimentare e attrarre nuovi progetti e contentitano le nostre origini e che da oggi, grazie a sono a disposizione di tutti e a portata di su www.culturalimentare.beniculturali.it. -

Segui la campagna di comunicazione sui canali Grundig www.grundig.com/it-it IG: @grundig_italia / FB: @GrundigItalia

le è un Istituto del Ministero della Cultura impegnato nella tutela, salvaguardia, valorizzazione e promozione dei beni culturali demoetnoantropologici italiani.

INFORMAZIONE PUBBLICITARIA
PATRIZIA
E
COZZI SE INQUINI IL SATELLITE TI VEDE Nella foto: un satellite Meteosat di terza generazione Tecnologia e ambiente 44 8 gennaio 2023
DI
CARAVEO
EMILIO

iamo venuti a esplorare la Luna e abbiamo scoperto la Terra».

Con queste parole Eugene Cernan, comandante di Apollo 17 e ultimo uomo ad aver calcato il suolo selenico giusto mezzo secolo fa, sottolineò l’emozione profonda che tutti gli astronauti “lunari” provarono guardando il nostro Pianeta splendere nel buio cosmico.

Il fascino è aumentato nel tempo: durante la missione Artemis I, conclusasi l’11 dicembre con un tuffo della capsula Orion al largo di San Diego, la Nasa ha arricchito non poco la raccolta di immagini della Terra vista dall’orbita lunare. Pura maraviglia, con la “A” che spalanca la bocca come ai bambini.

Non è un caso siano in molti a sostenere che il movimento ecologista sia nato in seguito alla consapevolezza diffusasi grazie all’iconica Terra che sorge, la foto scattata la vigilia di Natale del 1968 dall’equipaggio della missione Apollo 8. Fu un’idea nata all’improvviso, quando, uscendo dall’ombra della Luna, gli astronauti videro “sorgere” la Terra e decisero di immortalarla per condividere la magia del momento con tutti.

È indubbio la bellezza del nostro Pianeta sia uno stimolo per comprendere quanto sia importante difenderlo dall’azione antropica, capace di alterare l’ambiente e i suoi equilibri: le foreste hanno lasciato spazio a pascoli e campi coltivati, i fiumi sono stati deviati, sbarrati e prosciugati dall’eccessivo prelievo di acqua, l’inquinamento è ovunque. Non bastasse, la civiltà industriale ha modificato la composizione dell’atmosfera immettendo quantità enormi di anidride carbonica (CO2), con conseguenze significative sul clima.

La registrazione giornaliera della concentrazione atmosferica di CO2, detta “curva di Keeling”, è effettuata dallo Scripps Institution of Oceanography in vetta al Mauna Loa, alle Hawaii (e disponibile al sito: keelingcurve.ucsd.edu), mentre sull’impatto delle emissioni sono consultabili i Rapporti di valutazione periodici del Gruppo intergovernativo sui cambiamenti climatici, o Ipcc, delle Nazioni Unite.

Le conseguenze della crescita dei gas serra, invece, sono davanti agli occhi di tutti: le estati diventano sempre più calde, le piogge più sporadiche ma intense, le alluvioni non di rado catastrofiche. Sono effetti del cambiamento climatico, legato all’utilizzo dei combustibili fossili che, bruciando, liberano anidride carbonica, un gas in grado di permanere a lungo nell’atmosfera contribuendo a intrappolarne il calore. Con il metano, è il gas serra per eccellenza: sono loro i responsabili del progressivo aumento delle temperature.

Beninteso, l’emergenza non è una novità: già nel 1992, 154 nazioni avevano sottoscritto lo Un Framework on Climate Change proprio per tagliare le emissioni e scongiurarne - o

almeno ridurne - l’impatto climatico. Tre anni dopo si organizzò la Cop 1 a Berlino, ma si dovette aspettare il 2015, cioè la Cop 21 di Parigi, perché 194 Paesi si impegnassero a limitare il riscaldamento globale tra gli 1,5 e i 2 gradi centigradi. Manco a dirlo, le azioni concrete sono state insufficienti, tanto da rendere di tragica attualità le discussioni su come intervenire e, soprattutto, su chi debba pagare il conto, visto che il climate change ha anche la (non tanto) singolare caratteristica di colpire in particolare i Paesi più poveri esposti alle siccità prolungate e all’aumento del livello del mare. Come raccontato da Susanna Turco su queste pagine (il 27 novembre), è stato questo uno dei punti chiave affrontati alla Cop 27, tenutasi a Sharm el Sheikh, dove le nazioni più ricche hanno accettato, in extremis, di partecipare a un programma di risarcimento a favore delle nazioni la cui economia risente maggiormente dei danni dovuti al cambiamento climatico.

Una decisione considerata epocale, ma con un difetto: mentre i danni da alluvioni e inondazioni sono evidenti, come è possibile monitorare in dettaglio la produzione di gas serra? Quali e dove sono le attività che inquinano più?

Le migliori sentinelle oggi a disposizione sono i satelliti

che controllano il nostro Pianeta, capaci di rilevare sia quel che si vede sia l’invisibile agli occhi. Sappiamo misurare la quantità di anidride carbonica presente nell’atmosfera, ma per capire chi l’abbia prodotta occorre sfruttare ciò che viene emesso insieme con il gas. Per capire, ad esempio, quando e quanto inquini una acciaieria occorre utilizzare i satelliti che lavorano nell’infrarosso e misurano il calore liberato durante la lavorazione. Mentre, per monitorare le perdite di metano dai gasdotti o dai pozzi petroliferi, bisogna impiegare satelliti ad hoc. È perciò evidente che non esista una ricetta unica per monitorare i gas serra; vanno incrociati dati di fonti diverse.

È quello che fa Climate Trace, un’associazione no-profit che utilizza l’intelligenza artificiale per mettere a fattor comune quanto rilevato da 300 satelliti e 11mila sensori sparsi ovunque sul Globo. Trace sta per Tracking Real-time Atmospheric Carbon Emission; durante la Cop 27, Al Gore ha presentato il primo rapporto dell’organizzazione, che individua quasi 80mila inquinatori individuali. Benché Climate Trace riconosca e tracci una dozzina tra attività industriali, agricole e sociali

Emilio Cozzi Giornalista
S
Patrizia Caraveo Astrofisica
E ALL’INTELLIGENZA ARTIFICIALE È POSSIBILE MONITORARE LE EMISSIONI DI C02. E MIGLIORARE LE PREVISIONI DEGLI EVENTI CLIMATICI PIÙ ESTREMI 8 gennaio 2023 45 Prima Pagina Foto: ESA, M. Perelli –Rosebud2
GRAZIE AI DATI RACCOLTI IN ORBITA

che producono gas serra, la palma dei maggiori inquinatori va ai pozzi petroliferi, la cui emissione risulta essere il triplo di quella dichiarata. I combustibili fossili inquinano quando vengono estratti e trasportati, quando vengono raffinati e utilizzati. Una parabola non certo virtuosa, che oggi possiamo seguire in tempo reale attraverso le mappe pubblicate su climatetrace.org.

IL LAVORO SVOLTO DA CLIMAT TRACE HA DIMOSTRATO CHE L’INDUSTRIA PETROLIFERA RILASCIA UNA QUANTITÀ DI ANIDRIDE CARBONICA TRE VOLTE SUPERIORE A QUANTO DICHIARATO

Misurare è un passo cruciale per combattere le emissioni di gas serra e per calcolare la compensazione per chi, pur non contribuendo all’inquinamento, è vittima delle sue conseguenze. Per questo è di fondamentale importanza ampliare e diversificare la flotta dei satelliti che opera alle diverse lunghezze d’onda.

Grazie alle risorse del Pnrr - 1,07 miliardi di euro più 230 milioni da fondi diversi -, l’Italia si doterà dal 2026 della costellazione Iride, che utilizzerà diversi tipi di apparati per monitorare lo stato del suolo. A inizio dicembre è stato firmato un contratto da 68 milioni di euro per la realizzazione dei primi 22 satelliti, dieci dei quali affidati alla torinese Argotec - già fra i protagonisti di Artemis 1 - e 12 a Ohb Italia. Forniranno alle istituzioni e a clienti privati immagini di alta risoluzione del territorio, che potrà essere monitorato grazie a passaggi frequenti. Solo così sarà possibile tenere sotto controllo le fragilità del nostro Paese, per contribuire alla prevenzione di eventi disastrosi come la tragedia di Ischia.

La prevenzione, però, deve poter contare sulla capacità di anticipare gli eventi atmosferici più violenti. Sarà uno dei compiti del nuovo satellite Meteosat Third Generation Imager-1 (o Mtg-I) lanciato il 13 dicembre per raggiungere il suo

punto di osservazione privilegiato nell’orbita geostazionaria, giusto sull’equatore, da dove ha sempre l’Europa e l’Africa sotto il proprio occhio vigile. È il primo di una nuova generazione di sei satelliti europei in grado di fornire informazioni basilari per il rilevamento precoce di tempeste violente, oltre che per le previsioni meteo e il monitoraggio del clima. Frutto della collaborazione annosa tra l’Agenzia spaziale europea e l’Organizzazione europea per l’esercizio dei satelliti meteorologici (Eumetsat), progettato e costruito da un consorzio di oltre 100 partner industriali europei sotto la guida di Thales Alenia Space e Leonardo (in collaborazione con Ohb e con Telespazio a realizzare e gestire il “segmento di terra”), il satellite vanta anche il primo “cacciatore di fulmini” europeo, l’unico al mondo in grado di riconoscere anche il bagliore di un singolo fulmine nel cielo.

I dati di Mtg-I miglioreranno le previsioni anche su una scala temporale da minuti a ore, consentendo di fotografare la situazione quasi in tempo reale (il cosiddetto nowcasting).

Basterà a scongiurare il peggio? No, ma come disse Cernan, grazie allo spazio la Terra si può conoscere. E, magari, imparare ad averne più cura.

Prima Pagina
Tecnologia e ambiente
46 8 gennaio 2023 Foto:
–Afp / GettyImages
La Kaombo Norte gestita da Total al largo della costa dell'Angola
R. Bosch
Netweek, presente in Lombardia, Piemonte, Valle d’Aosta, Liguria e Toscana, è leader nell’informazione locale cartacea. Questo significa, prima di tutto, prossimità, conoscenza, interesse e passione per i territori trattati. La forza della glocal communication 38 Redazioni locali 44.000 Notizie prodotte/mese 500.000 Copie diffuse/settimana Oltre 8.9 mil. Abitanti dei territori coperti redazionalmente Oltre 54 Settimanali locali PIEMONTELIGURIA VALLE D’AOSTA TOSCANA LOMBARDIA www.netweek.it

salute

CURE PER TUTTI COME COL COVID

COLLOQUIO CON HANS KLUGE DI SIMONE BAGLIVO

Nessuna istituzione è perfetta, neanche la nostra. Il coronavirus ha evidenziato i fallimenti dell’attuale sistema tra ritardi nelle segnalazioni, mancanza di responsabilità e debole cooperazione. Dobbiamo riformare il Regolamento sanitario internazionale per renderlo più collaborativo. Sapete quando è stato aggiornato l’ultima volta? Nel 2005…». Inizia all’insegna della franchezza il colloquio con Hans Kluge, direttore dell’Organizzazione mondiale della Sanità (Oms) per l’Europa. La sua nomina è arrivata 39 giorni prima che scoppiasse una pandemia globale. Il medico belga, 54 anni, un passato nei Médecins sans frontières, dal 1° febbraio 2020 è responsabile della salute pubblica di un miliardo di cittadini sparsi in 53 Paesi (Russia inclusa) dall’Atlantico al Pacifico e coordina migliaia di dipendenti grazie a un budget biennale da 700 milioni di dollari. Kluge parla a L’Espresso dopo aver guidato una lunga missione umanitaria in Ucraina. È appena rientrato nel suo quartier generale di Copenhagen. Si trova a metà del suo manda-

to e precisa subito di «non voler andare da nessuna parte prima di aver mantenuto le mie promesse». Il suo mantra, ripetuto più volte, è «non lasciare nessuno indietro». La sua visione? «Tutte le persone devono avere accesso ai servizi sanitari di cui hanno bisogno, quando ne hanno bisogno e dove ne hanno bisogno. Senza difficoltà finanziarie. I Paesi che progrediscono verso l’assistenza sanitaria universale migliorano anche l’accesso alla scuola e al lavoro, riducono la povertà, promuovono l’inclusione e la giustizia. Quando ci uniamo per una salute migliore per tutti, otteniamo quindi prosperità economica e coesione sociale». Non a caso «United action for better health» è lo slogan della sua strategia. Il direttore regionale ammette che l’Europa «non era assolutamente preparata» a una pandemia, ma difende il suo operato: «Siamo stati realisti e proattivi fin dall’inizio. Abbiamo preso decisioni sulla base delle evidenze disponibili, cercando di evitare che

Cure a un paziente Covid-19 al PitieSalpetriere di Parigi

si verificassero scenari peggiori». Ricorda che durante il picco dei contagi chiamava continuamente tutti i capi di Stato «per capire cosa li tenesse svegli la notte». Ha lavorato a stretto contatto con l’ex ministro della Salute Roberto Speranza («ho apprezzato molto la sua leadership»), dal momento che «l’Italia non era solo in prima linea ma anche sul primo fronte della pandemia e la sua esperienza ha aiutato successivamente gli altri Paesi». Ad oggi, però, tra strutture degradate e visite impossibili, il diritto alla salute non è scontato in Italia. Oltre la metà dei medici ha più di 55 anni e ogni anno ci sono solo 18 laureati in medicina ogni 100.000 abitanti. «È una bomba a orologeria che deve essere disinnescata», afferma Kluge. Un consiglio a Orazio Schillaci, neoministro della Salute del governo Meloni? «Si confronti con gli elettori per capire quali sono le sfide più urgenti, ascolti gli esperti per trovare soluzioni e mantenga la fiducia dei cittadini». Per il rappresentante dell’Oms, investire nel personale sanitario significa investire in un futuro più sano per tut-

48 8 gennaio 2023 Il diritto
alla
Simone Baglivo Giornalista

ti noi. Migliorare la sanità è il modo migliore per mostrare ai medici e agli infermieri il nostro apprezzamento. «Gli operatori sanitari sono i nostri soldati, non dimentichiamo i loro sacrifici. Il Covid-19 ha lasciato un segno profondo: 9 su 10 vorrebbero lasciare gli ospedali». Si scaglia poi contro le teorie «false» degli «antiscientifici» no vax, ricordando lo studio congiunto Oms-Ecdc del 2021, secondo il quale i vaccini anticovid in Europa hanno salvato mezzo milione di vite («una verità inconfutabile»). Rivendica di aver chiesto a Mario Monti di guidare la Commissione paneuropea per la Salute e lo Sviluppo per ripensare le priorità politiche alla luce delle pandemie. «Non possiamo prevedere il futuro, ma possiamo rafforzare i nostri meccanismi di preparazione e coordinamento. L’individualismo va evitato perché si ritorce contro noi stessi». Kluge spiega che «la pandemia di Covid non è finita», ma

precisa che il suo ufficio si sta occupando anche di altro, come ad esempio delle malattie animali, dei virus respiratori stagionali e dell’epidemia di mpox (vaiolo delle scimmie, ndr). Svela che la sorveglianza speciale dell’Oms utilizza un sistema di allerta precoce per rilevare qualsiasi rischio tramite attente indagini epidemiologiche. La chiave di successo per la sicurezza sanitaria globale, secondo il responsabile europeo, viaggia su un doppio binario e richiede investimenti nel personale sanitario e nella salute mentale. «Da una parte dobbiamo essere pronti in caso di emergenze come le pandemie, dall’altra dobbiamo rafforzare i nostri sistemi sanitari per fronteggiare crisi altrettanto letali come le malattie non trasmissibili (cancro e disturbi cardiaci). Questo approccio dovrebbe essere adottato anche dall’Italia». Inoltre, è fondamentale rimuovere gli ostacoli a uno stile di vita sano e ridurre ictus e infarti combattendo l’ipertensione e il consumo di tabacco e alcool («è allarmante che gli europei ne siano i principali consumatori nel mondo»). Affrontare la carenza di operatori sanitari, aumentare l’uso di strumenti digitali nell’assistenza sanitaria, rendere i sistemi sanitari più sostenibili, condividere informazioni e ridurre le disuguaglianze sono solo alcune delle sfide future, racconta Kluge. Tra le sue priorità c’è anche l’emergenza climatica, considerando che il nostro continente è quello che si sta riscaldando più rapidamente. «Le temperature in Europa si sono innalzate tra il 1961 e il 2021 a un tasso medio di circa 0,5 °C ogni decennio. Negli ultimi 50 anni il clima estremo ha causato la morte di oltre 148.000 persone nella nostra regione. Nel 2022, l’Europa ha vissuto l’estate più calda mai registrata e i devastanti incendi hanno provocato le più alte emissioni di carbonio dal 2007». Ciò nonostante, ripone le sue speranze nel summit ministeriale che si svolgerà a luglio in Ungheria. «Auspico che i leader siano in grado di stimolare

INVESTIRE IN SANITÀ, GARANTIRE

EUROPEO DELL’OMS

azioni concrete. È necessario collaborare per affrontare le minacce ambientali più urgenti per la salute e fornire una tabella di marcia per la transizione verso un’energia rinnovabile». Dopo 23 anni trascorsi al servizio delle Nazioni Unite, Kluge è consapevole di dover continuare a dedicare tutto se stesso al suo lavoro. Confessa che la sua ispirazione quotidiana sono le sue due figlie: «Voglio lasciar loro un mondo più sano».

8 gennaio 2023 49 Prima Pagina Foto: T. Samson / Getty Images
STANDARD
PUBBLICA.
PANDEMIA,
DIRETTORE
ELEVATI DI ASSISTENZA
DALLA LEZIONE DELLA
IL BILANCIO DI HANS KLUGE,
PLASTICA QUANTO È DURA LA SECONDA VITA
La tutela del Pianeta

LA PROPOSTA UE SUL RIUSO COLPISCE LA FILIERA DEL RICICLAGGIO PER NUOVE PRODUZIONI. E RIVELA UNA DIVERGENZA GLOBALE DI VISIONI, FONDATA PERÒ SUI DATI DI CRESCITA DEI RIFIUTI CHE FINISCONO IN DISCARICA O NELL’AMBIENTE

DI GLORIA RIVA

Dandora è un paese alla periferia di Nairobi, capitale del Kenya. Per metà è uno slum e per metà è una discarica, la più grande al mondo. I suoi abitanti sono tutti waste picker: occupano la giornata scalando le montagne di spazzatura in cerca di pezzi da riciclare e rivendere e respirano tutti gli stessi fumi pestilenziali, generati dall'immondizia bruciata. Tutto per guadagnare qualche centesimo di dollaro, insufficiente per una vita dignitosa. La materia prima non scarseggia mai: qui ogni giorno approdano duemila tonnellate di nuovi rifiuti. Va così da 45 anni, senza che alcuna associazione o ente internazionale di tutela sia ancora riuscito a spezzare il primato di Dandora.

Proprio con la plastica raccolta su queste colline è stato realizzato il martelletto blu impugnato a Nairobi lo scorso 2 marzo da Espen Barth Eide, ministro per il Clima della Norvegia e presidente del programma ambientale delle Nazioni Unite. Con due colpi di quel martelletto, le Nazioni Unite hanno ratificato l'accordo #BeatPlasticPollution, cioè Abbattere l'inquinamento da plastica, la più importante risoluzione internazionale per la tutela dell'ambiente, per rendere i Paesi responsabili dell'intero ciclo di vita della plastica, dalla produzione allo smaltimento, fino al riciclo o al riutilizzo. L'inquinamento da plastica, assieme ai cambiamenti climatici e al crollo della biodiversità, rischia di compromettere la salute dell'uomo: «Abbondanti tracce di microplastica sono state trovate nell'aria che respiriamo, nel cibo che mangiamo, nel sangue umano, nel latte materno. E ogni anno finiscono in mare 11 milioni di tonnellate di plastica e si prevede che questa cifra raddoppierà nei prossimi cinque anni, tripli-

cherà entro il 2040», recita il testo delle Nazioni Unite. In questo processo di lotta alla plastica, ha già preso forma lo scacchiere dei Paesi e relativi portatori di interessi: da un lato le nazioni progressisteNorvegia, Svezia, Francia, Germania, Ruanda, Perù, Ghana e Costa Rica - puntano a ridurre al minimo la produzione e l'uso della plastica; dall'altro gli Stati Uniti, con il supporto di Australia, Giappone e Paesi arabi, mirano ad annacquare l'ambizioso processo, riducendo il problema a una corretta gestione dei rifiuti ed evitare l'introduzione di obiettivi globali. «Molti Paesi puntano a raggiungere una soluzione simile agli accordi di Parigi per il clima, dando agli Stati l'autonomia di decidere gli obiettivi e di valutarli a rendiconto i progressi fatti», racconta Giuseppe Ungherese, etologo e responsabile della campagna Inquinamento di Greenpeace Italia, che aggiunge: «Dal punto di vista della lotta ambientale, questo modello si sta dimostrando poco efficace». Duemilacinquecento ministri e capi di Stato di 147 Paesi si sono incontrati in Uruguay a inizio dicembre per cercare di raggiungere un'intesa, ma i due schieramenti sono ben lontani da un accordo e per questo si rivedranno a Parigi il prossimo 22 maggio. Nel frattempo, il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres con un tweet ha ricordato che «le materie plastiche sono combustibile fossile e rappresentano una seria minaccia per i diritti umani, il clima e la biodiversità. Mentre continuano i negoziati per un accordo su #BeatPlasticPollution, invito i Paesi a superare il concetto di rifiuto e ridurre all'o-

8 gennaio 2023 53 Prima Pagina Foto: Shutterstock
Rifiuti in plastica finiti in discarica Gloria Riva Giornalista

La tutela del Pianeta

rigine il consumo di plastica». A tal proposito, l'Italia che impegni ha preso? «Per ora risulta non pervenuta in questo schieramento», risponde Ungherese.

L'Italia non si è espressa in questa partita, ma proprio mentre in Uruguay i capi di Stato, riuniti al tavolo delle Nazioni Unite cercavano un accordo per responsabilizzare ciascuno Stato sull'intero ciclo di vita della plastica, il nostro Paese alzava le barricate contro la nuova proposta europea di regolamento sul riciclo e il riuso degli imballaggi presentata a Bruxelles lo scorso 30 novembre dal vicepresidente della Commissione Europea, Frans Timmermans. La normativa, che diventerà legge fra due anni, prevede la neutralità climatica entro il 2050 incentivando il riutilizzo dei contenitori, per evitare una sovra produzione di confezioni, flaconi, buste e soprattutto contenitori usa e getta in plastica e carta. L'obiettivo è ridurre i rifiuti da imballaggio, in crescita del 20 per cento tra il 2009 e il 2019, facendo sparire dai bar le bustine di zucchero per il caffè, ma anche le confezioni singole dei grissini serviti al ristorante, così come i bicchierini di plastica o di carta e le bustine delle merendine contenute nei distributori automatici. McDonalds, così come tutte le altre catene di fast food e i piccoli take away di qualsiasi cibo etnico o tipico, dovrà inventarsi un modo per offrire hamburger e bibite in contenitori che siano riutilizzabili, come del resto ha preso a fare in Francia. Lo stesso vale per il cibo a domicilio. Per capirci, le nuove regoleprendendo ad esempio il modello già adottato dai Paesi nord europei, premieranno il vuoto a rendere, a scapito della trasformazione di una bottiglia d'acqua in un flacone per detersivi.

L'iniziativa è stata accolta con una levata di scudi da parte dell'industria del packaging italiano - che vale oltre sette miliardi di euro di giro d'affari, quarantamila addetti e seicento imprese -, soprattutto perché la proposta della Commissione va nella direzione opposta agli investimenti portati avanti dalle stesse aziende per favorire il riciclo. Secondo i dati degli imprenditori, a livello europeo sarebbero 700 le imprese che subirebbero un impatto negativo proprio a causa dell’introduzione della nuova normativa e, fra queste, le industrie di Italia e Germania, sarebbero le più colpite.

LA BUROCRAZIA FRENA L’ALLUMINIO GREEN

Dall’industria automobilistica ai casalinghi, dall’edilizia ai nuovi imballaggi, dal design agli shuttle spaziali. L’alluminio, metallo duttile e malleabile per eccellenza, è uno degli elementi più diffusi in natura dopo l’ossigeno e il silicio. Secondo un recente studio commissionato dall’International aluminium institute (Iai), la domanda complessiva è destinata ad aumentare di circa il 40 per cento entro il 2030 e sarà quindi necessario produrre ulteriori 33,3 milioni di tonnellate di alluminio all’anno passando da 86,2 a 119,5 milioni di tonnellate.

L’Italia insieme alla Germania e dopo Stati Uniti e Giappone si classifica terza nel mondo per quantità di alluminio riciclato: una buona pratica che non solo evita nuove estrazioni ma riduce il costo energetico del 95 per cento rispetto a quello sostenuto per produrre alluminio primario. E il risparmio va di pari passo con l’abbattimento delle emissioni inquinanti: i dati del World economic forum (Wef) confermano che il

54 8 gennaio 2023
Foto: A. Serrnò / Agf
DI

SETTECENTO LE IMPRESE EUROPEE, ITALIA E GERMANIA IN TESTA, A SUBIRE UN IMPATTO NEGATIVO. NONOSTANTE NEL NOSTRO PAESE IL 96 PER CENTO DI IMBALLAGGI TORNI A NUOVA VITA

Le due balene di 6 e 3 metri che emergono da un mare di plastica, piazzate davanti al Pantheon, a Roma, dagi attivisti di Greenpeace per denunciare lo stato di salute del nostro ecosistema marino

Correttamente, gli imprenditori dicono che il 96,3 per cento degli imballaggi in plastica viene riciclato. Per quale motivo dunque accanirsi tanto sui contenitori monouso, se poi vengono tutti riciclati? Gli ultimi dati Ispra, Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, pubblicati la scorsa settimana dicono che l'Italia nel 2021 ha prodotto (o importato) imballaggi per un peso complessivo di 14,4 milioni di tonnellate, con un aumento dell'8,5 per cento rispetto all'anno precedente, ma solo 10,5 milioni di tonnellate sono state ri-

recupero del 95 per cento di questo materiale ridurrebbe annualmente la domanda del 15 per cento, evitando 250 milioni di tonnellate di emissioni CO2.

«Il riciclo dell’alluminio porta un doppio risparmio in termini di energia e di sostenibilità rispetto per esempio all’estrazione da bauxite (la fonte principale dell’alluminio, un minerale che si presenta sotto forma di argilla granulosa o rocciosa di colore rosso: per ottenere una tonnellata di alluminio primario occorrono quattro tonnellate di bauxite, ndr). Il metallo viene di fatto rifuso e raffinato per tornare a nuova vita», spiega Paolo Agnelli, industriale lombardo del settore che con il fratello Baldassarre guida il gruppo Alluminio Agnelli, leader nella produzione di pentole professionali e profili in alluminio, per il 30 per cento destinati al settore automotive, nonché fondatore e presidente di Confimi Industria, la Confederazione delle piccole e medie imprese private italiane. Quarantacinquemila le aziende associate che danno lavoro a circa 650 mila addetti e un fatturato aggregato pari a 85 miliardi di euro. «In un contesto di economia di guerra come quello attuale ci sono stati momenti in cui il recupero del metallo con tempi certi si è dimostrato difficoltoso. E questo ha fatto lievitare i costi.

Paolo Agnelli, fondatore e presidente di Confimi Industria

Oggi, ma non è al suo apice, il prezzo del profilato è aumentato in media del 40 per cento rispetto al periodo pre-pandemia. Il tutto è regolato dalla Borsa dei metalli di Londra e, al variare dei prezzi del metallo primario, varia anche quello di acquisto dei rottami che si riciclano. I Fondi pensione americani sono stati i primi a investire sull’alluminio ma si trattava di investimenti conservativi. Poi sono arrivati i fondi speculativi con operazioni aggressive. A giro intervengono su differenti materie prime, anche sulle fonti energetiche, creando forti squilibri».

Le aziende associate a Confimi Industria impegnate nella lavorazione dell’alluminio rappresentano il 15 per cento del totale. Quanto pesa la lentezza della burocrazia sulla produzione? «Condivido due considerazioni: in Lombardia sono necessari tra i 6 e i 12 mesi per avere un certificato che si chiama Aia (Autorizzazione integrata ambientale), indispensabile per installare nuovi forni e impianti. Tempi biblici per una sola integrazione a un impianto già esistente. Per non parlare dell’allaccio alla rete energetica dei pannelli solari: a impianto ultimato ci vogliono 8/10 mesi prima dell’utilizzo a regime», sottolinea Agnelli.

8 gennaio 2023 55 Prima Pagina

La scala mobile che trasporta i contenitori in plastica in un impianto di riciclaggio. A destra, raccoglitori di rifiuti nella discarica di Dandora

ciclate. L'Italia avvia al recupero l'82 per cento degli imballaggi e, in questa quota, il 96 per cento della plastica viene effettivamente riciclato. Tuttavia, nell'ultimo decennio il volume degli imballaggi utilizzati in Italia è cresciuto del 26 per cento e lo smaltimento in discarica rappresenta ancora il 17,4 per cento del packaging, un valore in costante aumento. Sostanzialmente Ispra conferma i timori del vicepresidente della Commissione Europea, Timmermans, che nella proposta di regolamento sul riciclo e il riuso degli imballaggi avverte: «Se non si agisce subito, entro il 2030 la Ue registrerà un ulteriore aumento del 19 per cento dei rifiuti di imballaggio e, per i rifiuti di imballaggio di plastica, addirittura del 46 per cento». Secondo i dati Ue, in media, ogni europeo produce quasi 180 chili di rifiuti di imballaggio all’anno, che sono tra i principali prodotti a impiegare materiali vergini: il 40 per cento della plastica e la metà di tutta la carta utilizzate nella Ue. Da qui l'invito di Timmermans a «creare una nuova economia del riuso», specificando che il riuso non è in competizione con il riciclo, al contrario ha aggiunto: «So che in Italia moltissimo già è stato fatto sul riciclo e nessuno vuole mettere in pericolo gli investimenti sottostanti, ma visto che non tutte le pratiche di riciclo

MILIONI DI TONNELLATE

È la quantità di plastica che, nel 2030 verrà riversata in mare. Oggi sono 11 milioni

650

PER CENTO

È la crescita del consumo di contenitori usa e getta nell’ultimo decennio

33funzionano veramente bene, è importante fare di più».

Del resto una stretta sul fronte del consumo di plastica sembra oltremodo necessaria anche sul fronte del conto economico. Primo perché dall'anno scorso è entrata in vigore la Plastic Tax europea che prevede un contributo di 0,80 euro per ogni chilo di rifiuti di imballaggio di plastica non riciclato. I conti sono presto fatti: a fronte di oltre mille tonnellate di plastica non riciclata, l'Italia nel 2023 pagherà all'Europa una tassa da 760,665 milioni di euro l'anno. Detto altrimenti, è come se tutti i tagli di spesa previsti dalla decurtazione del Reddito di Cittadinanza finissero per compensare la gabella che l'Italia deve pagare all'Europa per il mancato riciclo degli imballaggi. A fine 2019 il governo Conte I aveva previsto di introdurre la Plastic Tax italiana per colpire l'utilizzo delle inquinanti plastiche monouso e con l'obiettivo di generare 650milioni di gettito. Tuttavia quella legge non è mai entrata in vigore ed è stata rinviata di anno in anno, essendo osteggiata dagli imprenditori del settore. E ora l'intenzione del ministro Gilberto Pichetto Fratin è addirittura di eliminare definitivamente la Plastic Tax italiana, lasciando quindi al contribuente l'onere di pagare la Plastic Tax europea. Il secondo motivo dell'urgenza di una

8 gennaio 2023 57 Prima Pagina Foto: D. Irungo / Epa / Ansa, Shutterstock
È l’ammanco nelle casse pubbliche per la mancata introduzione della Plastic Tax italiana
MILIONI DI EURO
26
La tutela
del Pianeta

COSÌ SPRECHIAMO IL TAGLIO AL REDDITO

Il taglio del reddito di cittadinanza al 40 per cento delle famiglie percettrici consentirà un risparmio per le casse pubbliche di 785 milioni di euro. La stangata arriverà a settembre, quando perderanno il diritto al contributo le famiglie che al proprio interno non hanno minori, non hanno anziani o disabili. L'obiettivo è quello di favorire l'attivazione al lavoro di queste persone, anche se dall'Istat, alla maggior parte degli economisti italiani, resta più d'una perplessità sulla capacità di attivare queste persone, che hanno mediamente un'età elevata, bassi livelli di istruzione, sono soli e vivono al Sud. A cosa serviranno i soldi risparmiati? Una cifra quasi analoga, 760 milioni di euro, è quella che lo Stato italiano dovrà versare all'Europa - proprio nel 2023 - per la Plastic Tax, ovvero per far fronte alle oltre mille tonnellate di rifiuti di plastica da imballaggio che il nostro Paese non è stato in grado di riciclare, ma ha disperso nell'ambiente o incenerito. I più maliziosi dicono che l'Europa ha introdotto la gabella sulla plastica per far fronte al buco di bilancio generato da Brexit, e racimolare

stretta sul fronte delle plastiche monouso lo racconta Giuseppe Ungherese di Greenpeace: «Lo scorso anno l'Italia, nel recepire la direttiva sulle plastiche monouso, ha apportato alcune modifiche al testo europeo, promuovendo per esempio le plastiche compostabili, che sono espressamente vietate dalla norma europea perché non frenano i danni ambientali causati dall'usa e getta. L'abbiamo fatto notare all'allora ministro della Transizione Ecologica, Roberto Cingolani, invitandolo a correggere il testo, suggerendo iniziative, ma non siamo stati ascoltati». Le eccezioni previste dalla traduzione italiana della normativa riguardano soprattutto le plastiche che entrano in contatto con gli alimenti: l’Italia consente di aggirare il divieto utilizzando la plastica

così quasi sei miliardi di euro: i maggiori contribuenti saranno, nell'ordine, Germania, Francia e per l'appunto l'Italia. Ma l'Europa risponde che quel contributo serve a generare maggiore consapevolezza rispetto all'importanza di ridurre il consumo di plastica usa e getta. In teoria l'Italia si era mossa in anticipo, introducendo a sua volta la Plastic Tax italiana con la finanziaria del 2019 grazie al governo Conte I, così da far pagare ai produttori di plastica monouso questa tassa, con l'obiettivo di ridurne il consumo. Ma quella tassa, odiata dalle imprese, non è mai stata introdotta, rinviata di anno in anno, anche perché risultava difficile capire chi avrebbe dovuto pagare quella tassa, se i produttori di plastica, gli importatori o i produttori di monouso. Addirittura il governo Meloni ha in programma di eliminarla definitivamente. La tassa europea, però, resta e dal 2023 andrà versata a Bruxelles. Chi paga il conto? Per quest'anno ci pensano i poveri ai quali è stato tolto il sussidio. Poi si vedrà.

biodegradabile e compostabile, ma per la comunità europea – che ha già chiesto all’Italia di correggere l’errore – queste dovrebbero essere vietate al pari di piatti e bicchieri realizzati con plastiche derivati da petrolio e gas fossile.

Risultato: ora l'Italia rischia una procedura di infrazione proprio a causa delle plastiche monouso. «L’Italia sembra preferire una finta transizione ecologica. La verità è che se vogliamo andare oltre la plastica e la cultura dell'usa e getta, dobbiamo promuovere soluzioni basate sul riutilizzo, obiettivo principale della direttiva europea che il nostro Paese sta volutamente ignorando», afferma Ungherese, che invita l'attuale governo a prendere per mano l'industria italiana sostenendo e promuovendo un percorso di vera transizione ecologica.

Perché se il benessere delle imprese e quindi dei lavoratori sono un aspetto da salvaguardare, non va dimenticato che parte delle duemila tonnellate di rifiuti al giorno vomitate sulle colline keniote di Dandora provengono anche dall'Europa, che quando non sa dove mettere i propri rifiuti in eccesso li esporta, in Paesi più poveri.

58 8 gennaio 2023 Prima Pagina La tutela del Pianeta
LA STRETTA SUL CONSUMO DI PACKAGING INQUINANTE SI IMPONE ANCHE SUL FRONTE ECONOMICO. DAL 2023 ROMA PAGHERÀ A BRUXELLES UNA TASSA DI 760 MILIONI DI EURO L'ANNO

DIABOLIK SUL WEB TRUFFA IN TUO NOME

DI ALESSANDRO LONGO ILLUSTRAZIONE DI SIMONE ROTELLA

Anna, nome di fantasia, è una professionista milanese che da due anni è costretta a girare tra varie stazioni dei carabinieri, «dove ormai la conoscono tutti. Deve sempre dimostrare che non è stata lei a fare vendite online truffaldine, dove viene usato un suo documento di identità. E in un caso è andata pure a processo: è stato il costo maggiore», spiega Enrico Frumento, esperto di cybersecurity presso il Cefriel (Centro di ricerca, innovazione e formazione), che ha seguito la vicenda.

I truffatori hanno ottenuto, non si sa come, una copia digitale del documento di identità e con quella hanno aperto un account su vari siti di vendita di oggetti usati. A suo nome truffano gli acquirenti, non spedendo gli oggetti venduti.

Caso ancora irrisolto. Come quello di una ragazza, aspirante modella, che si è trovata a sua insaputa complice di

cybercriminali per una truffa riguardante la banca Intesa San Paolo. «Voleva partecipare a un concorso per modelle, quindi ha mandato ai presunti organizzatori il book fotografico, dati anagrafici e copia del documento di identità», spiega Paolo Dal Checco, tra i più noti informatici forensi italiani, che si è imbattuto nel caso. Con quei dati i criminali nel 2022 hanno aperto un finto sito di Intesa San Paolo (su un al-

tro dominio registrato a nome della ragazza), su cui hanno provato ad attirare vittime. Sono le classiche mail o sms dove ti chiedono di cliccare su un link per verificare il tuo conto corrente (o altre richieste senza senso) e finire così, appunto, su un sito che simula quello di una banca. La vittima è spinta a inserire lì i propri dati bancari, che possono quindi essere usati per rubare soldi dal conto.

Fare tutto questo con i dati di terzi, come quelli dell’aspirante modella, è un po’ come rapinare una banca con una maschera alla Diabolik, che riproduca perfettamente le sembianze di un’altra persona, su cui fare ricadere ogni colpa. Nella realtà non si può fare (ancora); su Internet, sì.

Poi c’è Antonella, 45 anni, residente in una città del Sud Italia. Aveva perso la car-

60 8 gennaio 2023 Furto di identità
DI
PROFESSIONISTA.
CON IL PROFILO DI UNA MODELLA. I CYBER RAGGIRI CRESCIUTI DEL 27 PER CENTO NONOSTANTE NORME E AVVISI
FRODE SU EBAY CON IL DOCUMENTO
UNA
FALSA BANCA

ta d’identità e in pieno agosto ha ritirato al Comune il nuovo documento. Ma «a causa di un errore dell’impiegato comunale, che aveva sbagliato l’inserimento del mio indirizzo, sono stati emessi due documenti», ha raccontato sul blog di Crif (Centrale rischi di intermediazione finanziaria, è una società privata che gestisce un sistema di informazioni creditizie).

Il funzionario ha assicurato che il documento errato sarebbe stato distrutto. Peccato che, a quanto pare, sia finito invece nelle mani sbagliate. «A gennaio vengo contattata telefonicamente da una società di recupero crediti, la quale mi chiede il motivo del man-

cato pagamento delle rate relative all’acquisto di un telefono e mi invita a saldare quanto prima». Poi si scoprirà che i cellulari acquistati a rate (con finanziamento) erano due, per un totale di 1.500 euro; in un negozio di cellulari, da parte di qualcuno che, grazie a quel documento, si era spacciato per lei. Antonella ha dovuto sporgere denuncia e per fortuna ha potuto contare sulla testimonianza del negoziante che si ricordava a chi aveva venduto quegli smartphone. Una persona con il nome e il documento di Antonella, più o meno la stessa età; ma un volto diverso.

Sono tre tipologie di quello che gli esperti chiamano furto di identità. Reso molto più facile con Internet, per la circolazione anche digitale dei documenti e la possibilità di fare frodi a distanza. Nei primi sei mesi del

8 gennaio 2023 61 Prima Pagina
Alessandro Longo Giornalista

Furto di identità

2022 i casi di furto di identità sono stati circa 15.400, ben il 26,9 per cento in più rispetto all’anno precedente, a quanto si legge in un rapporto pubblicato da Crif a fine dicembre. L’importo medio della frode è di 4.700 euro. Si noti che Crif calcola solo i furti di identità che portano a una «frode creditizia», come nel caso di Antonella: uno smartphone, una lavatrice, una tv acquistati con finanziamento attivato a nome di terzi. Per un danno stimato di circa 72 milioni di euro in sei mesi (rispetto ai 63 milioni circa dei primi sei mesi del 2021).

I furti di identità complessivi sono chiaramente molti di più, difficili da stimare e includono i casi in cui i truffatori compiono reati a nostro nome; sottraendo il nostro tempo (per scagionarci) e spesso anche denaro che va agli avvocati. Può capitare a tutti, «anche a me è successo», ci dice Claudio Telmon, noto esperto di cybersecurity, analista per la società P4I. «Tempo fa, quando ero ancora sull’elenco telefonico, mi è arrivata una telefonata a casa: “Ti ho trovato! Ti ho pagato un iPhone usato e non me lo hai mai mandato! Abito in zona, quindi non mi scappi!”. È risultato che qualcuno aveva creato a mio nome un profilo su eBay, dando nome, cognome e Comune di residenza, e truffava appunto con finte vendite di apparecchiature elettroniche». Per fortuna dall’altra parte c’era una persona ragionevole «altrimenti mi sarei potuto trovare in difficoltà. Poi ho trovato il profilo falso su eBay, l’ho segnalato a eBay che nel giro di poche ore lo ha bloccato. Infine, sono andato a sporgere denuncia per furto di identità. Per fare un profilo di quel tipo non serve nemmeno un documento di identità, bastano poche informazioni. Ma con un documento in mano è possibile fare danni più seri», dice Telmon. Come sa bene Anna, a cui è più difficile dimostrare di non essere stata lei a truffare tanta gente, appunto perché qualcuno ha ottenuto il suo documen-

to. I modi per riuscirci sono numerosi: con la complicità di chi lo fotocopia (in un albergo, in un negozio per un contratto…) o persino di funzionari comunali, come s’è visto. «Oppure ci spingono a mandare per mail copia del nostro documento per partecipare a un concorso o a candidarci a un posto di lavoro», dice Dal Checco: «Possono contattarci profili falsi, a tal scopo, anche via social media. Con i nostri documenti possono aprire anche conti correnti o conti scommesse da usare poi per fare riciclaggio di denaro. O per commettere altri reati. Con un tuo documento possono anche attivare una sim con cui gestire, al telefono, attività criminali», aggiunge.

Lui quest’anno ha aiutato un giovane a raccogliere prove informatiche a propria discolpa. «Si era iscritto a piattaforme di investimento in criptovalute, i cui gestori gli hanno chiesto il documento di identità. L’hanno usato per aprire altri conti di investimento con cui hanno truffato, a suo nome, altre persone». I truffatori si sono intascati infatti tutti i soldi investiti dagli utenti della piattaforma. Il ragazzo non solo ha perso il proprio denaro ma si è trovato indagato per truffe fatte a terzi «ed è talmente invischiato che non sarà facile dimostrare che non è stato lui», dice Dal Checco.

Dai vari casi emerge proprio questa situa-

62 8 gennaio 2023
IN SEI MESI 15.400 CASI, PER UN DANNO STIMATO DI 72 MILIONI DI EURO. IMPAZZANO GLI ACQUISTI A RATE DI TELEFONI ED ELETTRODOMESTICI PER UN IMPORTO MEDIO DI 4.700 EURO

zione kafkiana. Una volta che mettono le mani sul tuo documento è difficile uscirne. Un informatico di Torino l’aveva perso insieme al portafoglio, aveva anche denunciato il fatto e ottenuto un nuovo documento; ciononostante si è ritrovato alcuni finanziamenti attivati a proprio nome, tanto che ora risulta cattivo pagatore e non riesce a ottenere un mutuo. È persino indagato per un reato compiuto, a Napoli, con un’auto noleggiata tramite quel documento (come ha riportato Repubblica Torino nel 2022).

Gli esperti consigliano di ridurre il rischio stando bene attenti prima di fornire il nostro documento per un annuncio di lavoro, un concorso o a qualcuno che ci contatta via social.

Consiglio comune è anche quello di attivare servizi che ci mandano un alert via sms in caso di finanziamenti, carte o conti attivati a nostro nome. Almeno così possiamo parare il colpo denunciando subito e disconoscendo l’operazione. Se siamo schedati dalle banche come cattivi pagatori, per colpa di finanziamenti che magari nemmeno sappiamo di avere (e quindi non saldiamo), potremmo non avere altra scelta che rivolgerci a società specializzate nella riabilitazione della reputazione creditizia.

«Il costo della pratica di riabilitazione varia sempre in base alle problematiche

LA SICUREZZA

Attività operative nella sala del Cnaipic, Centro nazionale anticrimine informatico protezione infrastrutture critiche della polizia postale. A sinistra, uno studio per la tecnologia di riconoscimento facciale

che riscontreremo», si legge sul sito di una di queste società; 150 euro più Iva come costo iniziale per avviare la pratica.

Altri soldi, fastidi e preoccupazioni, da cui solo in parte, con la massima prudenza, possiamo pararci. La beffa è che, come confermano da Crif, gli strumenti per tutelare gli utenti ci sono già. Ci sono servizi online che permettono ai negozianti, con un controllo automatico, di scoprire se un documento è irregolare, contraffatto per un furto di identità. C’è, con un decreto del 2011, il «sistema pubblico per la prevenzione del furto di identità»” per verificare la conformità con i dati registrati nelle banche dati degli enti di riferimento (Agenzia delle Entrate, ministero dell’Interno, ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, Inps e Inail). A un livello superiore, come spiegano da Banca d’Italia, ogni banca è obbligata a verificare l’autenticità e la validità del documento d’identità per aprire conti o finanziamenti. La normativa lascia però spazio di discrezionalità alle banche: in pratica obbliga a un controllo approfondito solo in caso di dubbi.

La tecnologia c’è ma è poco usata; le norme a tutela un po’ lasche. Nessuna sorpresa che i furti di identità continuino a crescere.

8 gennaio 2023 63 Prima Pagina Foto:Getty Images, Agf

DI GIAMPIERO MONCADA

ono riusciti a fare incontrare nella capitale dell’Arabia Saudita, Riyadh, ben 57 ministri del Turismo di tutto il mondo. Oltre a personalità di prestigio come l’ex premier britannico, Theresa May, e l’ex segretario delle Nazioni Unite, il coreano Ban Ki-Moon. Erano più di 3mila le persone presenti, tra le quali 250 amministratori delegati delle più importanti aziende del settore. L’invito arrivava dagli organizzatori del Global summit, l’incontro che viene organizzato dal Wttc, World travel and tourism council, ogni anno in una località diversa, e che a novembre del prossimo anno si svolgerà in Rwanda.

Nonostante il termine “council” nel nome suggerisca che si potrebbe trattare di una istituzione, è in realtà un’associazione di aziende che operano in questo ambito. E il loro Global summit, una sorta di assemblea plenaria dell’organizzazione, rappresenta per il turismo quello che Davos rappresenta per l’economia in generale: gli esperti, i politici e gli imprenditori più importanti del mondo si riuniscono per confrontarsi sul futuro e, naturalmente, per allacciare relazioni e alleanze.

«Durante i tre giorni a Riyadh sono stati conclusi accordi e memorandum

d’intesa del valore di 50 miliardi di dollari. La sola Arabia Saudita, Paese ospitante, ha siglato 50 accordi; e si stima che il contributo del turismo alle economie regionali del Medio Oriente potrà crescere a una media annua del 7,7 per cento. Un valore tre volte superiore al tasso di crescita media delle economie regionali».

A parlare così è Roberta Garibaldi, esperta di enogastronomia che ha appena lasciato la carica di amministratore delegato dell’Enit, l’agenzia italiana di promozione turistica, per andare a ricoprire quella di vicepresidente con delega al turismo dell’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, alla quale aderiscono 36 Paesi). Lei il Wttc lo frequenta da tempo perché «si tratta di occasioni internazionali che arricchiscono e sono molto stimolanti, oltre a essere poi utilissime per creare delle buone relazioni».

Ma tra i 57 ministri del Turismo presenti, quello italiano non c’era. Anzi, di italiani ce n’erano proprio pochi. E nessuno, a quanto pare, in rappresentanza di istituzioni.

Come imprese, in compenso, c’era Gabriele Burgio, amministratore delegato del primo gruppo italiano, Alpitour, che opera in tutti i campi: outgoing, incoming, trasporti e così via. Lui era stato in Arabia Saudita anche un mese prima per firmare un accordo di partnership con il ministero del Turismo.

64 8 gennaio 2023
Il business dei viaggi
BIGTRAVEL FA ROTT La ventiduesima edizione
and
a Riyadh DOPO L’ARABIA, IL WTTC SCEGLIE L’AFRICA PER IL SUMMIT MONDIALE. UNA DAVOS DEL TURISMO CHE RIUNISCE POLITICI E VERTICI DELLE 250 AZIENDE CHE DECIDONO METE, FLUSSI E AFFARI PER 50 MILIARDI DI DOLLARI S
del World travel
tourism council
Giampiero Moncada Giornalista

OTTA SUL RWANDA

8 gennaio 2023 65 Prima Pagina

Il business dei viaggi

«I sauditi si sono appena aperti al turismo e hanno individuato un partner di riferimento per ogni Paese. Per l’Italia, hanno scelto noi. Al Global summit, comunque, io vengo sempre perché è un’occasione d’oro per i contatti. Basta pensare che dopo due giorni qui, sto tornando a casa con 170 biglietti da visita. È comprensibile che di italiani ce ne siano pochi perché il nostro tessuto imprenditoriale, anche nel turismo, è fatto di piccole e medie aziende; e partecipare a questi eventi rappresenta un costo sproporzionato rispetto ai benefici che può ricavarne un’azienda familiare. Non è diverso in altri settori, come la moda, l’energia, i trasporti. Basta leggere il Financial Times e si vede che l’Italia è presente pochissimo negli eventi internazionali. Io vado da anni a Berlino per l’Ihif (International hotel investment forum) dove ormai partecipano più di 2mila persone: ci sono anglosassoni, spagnoli, francesi e io sono l’unico italiano. Penso però che potremmo provare a ospitare il Wttc da noi, perché sarebbe un’ottima opportunità. Quando era arrivato al Turismo il ministro Garavaglia, gli avevo detto di interessarsi per proporre l’Italia. Natural-

CANDIDARSI PER OSPITARE L’EVENTO

EQUIVALE A SALIRE DI COLPO NELLA CLASSIFICA DELLE DESTINAZIONI PIÙ

GETTONATE NEI CATALOGHI DEI TOUR OPERATOR DI TUTTO IL MONDO

mente, si tratta di lavorare con largo anticipo, perché le candidature si presentano due anni prima. Quindi adesso possiamo provarci per il 2024 o il 2025».

In effetti, la località scelta per ospitare il successivo Global Summit viene svelata durante la manifestazione conclusiva dell’evento precedente. Somiglia un po’ all’annuncio di dove si svolgeranno le Olimpiadi o i Mondiali di calcio. Perché ci si candida con largo anticipo. D’altra parte, vincere questa gara può voler dire salire di colpo nella classifica delle destinazioni turistiche più presenti nei cataloghi dei tour operator di tutto il mondo. Insomma, i vertici del Wttc hanno una grande responsabilità nel decidere, ogni volta, dove tenere

questo evento ma anche un grande potere. Quali criteri seguono? Lo spiega Arnold Donald, presidente dell’organizzazione e fino a qualche mese fa amministratore delegato del più grosso gruppo di crociere al mondo, la Carnival.

«Il nostro obiettivo è di favorire la collaborazione tra pubblico e privati per incentivare un turismo sostenibile. E la location che scegliamo per il nostro evento ha un suo ruolo. Il precedente Global summit l’abbiamo tenuto nelle Filippine, che stavano per riaprire le frontiere al turismo dopo il blocco dovuto al Covid-19, ma l’abbiamo fatto lì anche perché hanno scelto di valorizzare e proteggere il loro immenso patrimonio naturalistico, fornendo agli altri un esempio concreto. Qui in Arabia Saudita il turismo è appena iniziato e le autorità hanno fatto una scelta di tutela dell’ambiente e di sostenibilità sociale».

Anche se lo dice con diplomazia, le parole di Donald sembrano significare: «Se un Paese vuole ospitare il nostro evento annuale, deve aderire alle nostre politiche».

Quello della sostenibilità, ambientale e sociale, è ormai da anni il tema dominante

66 8 gennaio 2023

di tutta l’attività dell’associazione, che in questo modo punta a prevenire e disinnescare le critiche rivolte alle attività turistiche da parte degli ambientalisti più radicali: dai trasporti, nel loro mirino per le emissioni di aerei e navi, alle strutture ricettive, accusate di alterare gli equilibri dei centri urbani e delle oasi naturalistiche.

Non a caso, il titolo del Global summit saudita era proprio “Il viaggio per un futuro migliore”.

«Il nostro business si basa proprio sul viaggio e si sta lavorando per sostituire quelli attuali con motori elettrici e a idrogeno. Ma nel frattempo, esiste la tecnologia Saf (Sustainable aviation fuel). E i governi dovrebbero considerarla una priorità, così come fanno con le auto elettriche alle quali vengono già destinati dei sostegni concreti», dice Julia Simpson, Ceo del Wttc e con una lunga esperienza proprio alla guida di compagnie aeree.

Visto il contesto, c’è da pensare che i governi siano più che disponibili ad accogliere i suggerimenti e le richieste che Simpson e Donald avanzano a nome della categoria. Basta pensare che un ministro del Turismo

STRATEGIE

Foto di gruppo al Global summit con i partecipanti al tavolo degli accordi decisivi per la prossima stagione turistica e per le strategie globali dei tour operator mondiali

che ospita il Global Summit non si limita a passare per fare un saluto ma partecipa a tutti i lavori, dall’inizio alla fine, incontrando decine o anche centinaia di personalità. E al Wttc non fanno per nulla mistero della loro capacità d’influenza sui politici.

Proprio in merito all’emergenza climatica, Simpson dice di avere parlato, all’ultimo G20, con il ministro del Turismo delle Fiji a proposito di un intero villaggio che andava spostato lontano dalla costa. E nei giorni scorsi, appena due settimane dopo aver lasciato Riyadh, era al COP15 di Montreal dove ha concluso un accordo con l’Agenzia delle Nazioni Unite per il turismo (UnWto) per raggiungere un obiettivo preciso: recuperare, entro il 2030, la biodiversità perduta nel mondo.

Una collaborazione che può portare a risultati concreti?

Risponde ancora Arnold Donald: «Abbiamo presentato a Riyadh i risultati di una ricerca che ha misurato l’impronta climatica del settore viaggi e turismo in 185 Paesi e viene fuori che, a fronte di una crescita del settore pari al 4,3 per cento annuo nel decennio 2010-2019, l’impatto sull’ambiente è cresciuto di appena il 2,4 per cento. Le stime fatte in precedenza prevedevano che il settore avrebbe avuto la responsabilità dell’11 per cento del totale delle emissioni di gas serra. Mentre questa ricerca riporta che ci siamo fermati all’8,1 per cento. Un risultato dovuto allo sviluppo tecnologico e all’introduzione di varie misure di efficientamento energetico. E anche al contributo dato da molte strutture, anche piccole, in tutto il mondo seguendo le best practices che abbiamo suggerito noi».

Sempre per parlare di interventi concreti, l’Arabia Saudita ha annunciato un programma di investimenti nella green economy pari a 186 miliardi di dollari. E le prime realizzazioni di strutture ricettive, ad appena cinque anni dall’apertura delle frontiere ai visitatori per turismo, sembrano proprio rispettare i criteri ecologici più rigorosi.

Certo, si tratta quasi sempre di strutture di lusso. Come l’Habitas di AlUla, dove dormire può costare intorno ai 1.000 euro a notte. Segno che, forse, il vero lusso oggi è proprio il rispetto dell’ambiente. O che, magari, rispettare l’ambiente può essere un vero lusso.

8 gennaio 2023 67 Prima Pagina

aneggiare con cura. Avvertenza d’obbligo, largamente ignorata se la Lega calcio di serie A non sembra farsi grandi scrupoli. Eppure bisognerebbe procedere con i piedi di piombo quando si ha a che fare con i bookmaker. Almeno con quelli che operano fuori dalla giurisdizione italiana. Ma pecunia non olet, a patto di essere disponibili a esporsi senza troppe riserve a qualche figuraccia e contribuire al marketing di chi opera senza troppa trasparenza, sgusciando abile tra le mille opportunità offerte dalle zone d’ombra della globalizzazione. Era già successo, succede ancora.

Nel 2017 si era scatenato il finimondo, quando la Lega di Serie A, con incredibile leggerezza, aveva firmato un contratto di sponsorizzazione con la 1XBet, società russa di scommesse che a quei tempi operava in Italia nonostante fosse sprovvista

68 8 gennaio 2023 Affari e sport DI IVO ROMANO
M IN NOME DEI SOLDI, LEGA E CLUB SALGONO SULLA GIOSTRA DELLE MAJOR ASIATICHE DELLE SCOMMESSE CHE TRA ORIENTE E EUROPA SI MUOVONO SUL CONFINE TRA GIOCO LEGALE E ILLEGALE BOOKMAKER GLI SPONSOR IMBARAZZANTI

della necessaria licenza. La Lega aveva replicato che quell’accordo era stato stipulato dall’advisor Isg (Interregional Sports Group) e che comunque aveva valore solo sul mercato estero. Eludendo il nodo cruciale, come se ricevere soldi da chi opera illegalmente nel proprio Paese sia normale. Da poche settimana 1XBet ha ottenuto una licenza per il mercato italiano, attraverso la Cmobet Srl, azienda di proprietà spagnola, ma fino a pochi mesi fa cipriota, come spiegato in un servizio della trasmissione Report, che ha analizzato le nebulose vicende di quel bookmaker. In Russia, invece, la licenza gli è stata revocata, neanche a dirlo, per scommesse illegali. Nell’ottobre 2021 una manager del gruppo 1XCorp, Olesya Mospanova, è stata invece condannata a 3 anni di reclusione per evasione fi-

scale. Nonostante ciò i rapporti con la Lega non sono mai stati interrotti, neanche dopo lo scoppio della guerra in Ucraina, quando la gran parte dei partner occidentali ha dovuto chiudere ogni relazione con gli imprenditori russi, come i fondatori Roman Semiokhin, Dmitry Kazorin e Sergey Karshkov.

Che la trasparenza non fosse il talento della 1XBet era emerso per la verità già molto prima, nel 2019. Risale a tre anni fa la decisione della Gambling Commission inglese di revocargli la licenza, costringendo Chelsea, Liverpool e Tottenham a sfilarsi dagli imbarazzanti contratti di sponsorizzazione. Ma altrove i rapporti hanno resistito, con la nostra Lega calcio e con il Barcellona.

Fiaccata ma tutt’altro che vinta, 1XBet ha spostato il proprio mercato di espansione nel continente africano e in Sud America, grazie a licenze che permettono di operare nel mercato del betting in Nigeria,

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Foto: Sportimage / Alamy Stock
Photo / Ipa Ivo Romano Giornalista BORDO CAMPO Jamie Vardy del Leicester, sullo sfondo il marchio Yabo

Affari e sport

Burundi, Camerun, Ghana, Senegal, Uganda e Zambia, senza dimenticare le munifiche sponsorizzazioni di competizione calcistiche continentali come Champions League africana e Coppa d’Africa.

Strategia che va di pari passo con la decisione di spostare la sede operativa dal paradiso fiscale di Curacao a Cipro. Anche questa non proprio una scelta quanto una necessità. Dal momento che Curacao ha dichiarato fallita 1XBet, bersaglio di una class action di un gruppo di scommettitori diventati creditori e rappresentati dall’associazione Sbok che reclamavano il pagamento di 830mila euro mai corrisposti. La prima sentenza risale al 2021 mentre il 6 maggio 2022 è stato respinto anche l’appello, come ha scritto Josimarfootball, il sito che per primo ha pubblicato la storia. Un contenzioso che non avrebbe di certo bloccato 1XBet.

LE

TROVANO IL

Truffe ai clienti, scommesse illegali, opacità aziendale e quant’altro. Non un problema per la Lega di Serie A che ha confermato la sponsorizzazione (sempre tramite l’advisor Isg), naturalmente valida solo per l’estero (in Italia non sarebbe legale), come pure per l’Agenzia dei Monopoli, che non avuto difficoltà nel fornire una licenza. Del resto, quella dei contratti imbarazzanti sembra essere una costante. Due anni fa, la stessa Lega era incorsa nel medesimo infortunio, allora in Asia, dove legarsi a certi marchi comporta insidie anche maggiori. E in quel caso in buona compagnia. Perché alla Lega si era aggiunto il Milan. Entrambi avevano legato la propria immagine a quella di Yabo Sports. Il colosso sportivo del mercato asiatico di casinò online e scommesse sportive ha così potuto affiancare il proprio logo a quello della Lega nel corso delle partite trasmesse in tv in Asia. Quanto al Milan, Yabo sports è stato Official regional part-

ner per l’Asia, partnership annunciata dal club rossonero in un comunicato dai toni entusiastici, in cui si esaltava il nuovo sponsor, definito «leader di mercato nei servizi di gioco interattivo in Asia, che ha rafforzato la sua posizione, sviluppando funzionalità di gioco avanzate e affidabilità per costruire una reputazione già ben rispettata nella Regione».

La strategia di Yabo Sports, la stessa di altri bookmaker operanti in Asia era chiara: ottenere il massimo della visibilità in determinati Paesi. E quale modo migliore che sfruttare il traino di grossi club, al pari di Psg, Bayern, Monaco, Manchester United e Federazione Argentina che non sono state da meno nella disinvolta ricerca di sponsor. Anche a costo di scivoloni grotteschi, come quando un modello di bella presenza fu fatto passare per dirigente del gruppo, in occasione di presentazioni ufficiali degli accordi di sponsorizzazione, come ha ricostruito la stampa online inglese.

Ma c’è un risvolto in questa storia sul quale vale la pena riflettere. Yabo aveva licenza nelle Filippine, ma operava in tutto il continente asiatico, compresa la Cina, laddove aveva pure il grosso dei clienti. Ma, e il ma non è di poco conto, Yabo in Cina non poteva ufficialmente operare perché le scommesse sono illegali dal 1949, ovvero dall’avvento del regime comunista di Mao. La partnership con Lega e

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SOCIETÀ
MODO DI AGGIRARE I DIVIETI ALLA RACCOLTA DI PUNTATE SUGLI INCONTRI E SPESSO INSTAURANO UN SISTEMA DI AZIENDE SCHERMO PER AMPLIARE IL MERCATO

club è stata dunque uno dei cavalli di Troia della società per rendere manifesta la propria presenza in un mercato che sul piano formale le è precluso. Curioso che si voglia essere presenti dove in realtà non si avrebbe alcuna possibilità di essere, a meno di non considerare che in Cina il mercato illegale delle scommesse, contro il quale il regime annuncia a ondate il pugno di ferro, genera un volume d’affari di 140 miliardi di dollari all’anno, una torta che il Partito non intende lasciare fuori dal proprio controllo.

L’anno scorso il marchio Yabo Sports è scomparso. La Lega di A ha spiegato che «la partnership è terminata a scadenza regolare di contratto» e che ora «ha come International main partner beIT, per promuovere il made in Italy nel mondo». Quanto al Milan ha lasciato cadere il silenzio.

In realtà il tramonto di Yabo ha a che fare con una colossale indagine partita già nel 2019, quando Lega e Milan accettarono la sponsorizzazione, e conclusasi con una serie di rumorosi provvedimenti: 4000 arresti, lo smantellamento della sede operativa cinese, l’oscuramento del sito Internet. È stato ricostruito che la rete del bookmaker contava 80 mila agenti per il reclutamento di clienti, 5,6 milioni soltanto in Cina, per il piazzamento delle giocate. Numeri colossali, al pari di profitti stimati in 15 miliardi di dollari, al cospetto dei quali paiono spic-

NEGLI STADI

Ibrahimovic festeggia dopo il gol all’Inter a San Siro il 9 febbraio 2020. A sinistra, Mohamed Sherif dell’ al Ahly e il portiere del Kaizer Daniel Akpeyi durante la finale di Champions League al Mohammed V Stadium di Casablanca

cioli però i 200 mila euro sequestrati. A condividere la recidiva della Lega c’è anche l’Inter che all’inizio del 2022 aveva annunciato l’accordo di partneriato in Asia con Ayx, da questa stagione sostituita da Hua ti Hui (Hth). Entrambi bookmaker asiatici sbarcati nel Regno Unito e sponsor del Manchester United, peraltro già legato a Yabo. L’ingresso in Gran Bretagna era avvenuto tramite Tgp Europe, una white label (con sede nell’Isola di Man) specializzata nel gioco online con licenza della Gambling commission. In pratica una società schermo sul conto della quale l’ente pubblico inglese che vigila sul mondo delle scommesse aveva sollevato il dubbio che fosse diventata il mezzo attraverso il quale bookmaker non in grado di ottenere una licenza direttamente aggirassero l’ostacolo. Perplessità accentuate dalla storia stessa dell’azienda. Tgp Europe, come risulta da fonti aperte, è infatti una diramazione di Tgp Group, a sua volta una filiale del Suncity Group, uno dei più grandi provider di casinò e bookmaker online in Asia. Il gruppo ha sede a Macao, enclave del gioco, nella regione autonoma cinese. Il ceo è Chau Cheok-wa, conosciuto come Alvin Chau, arrestato l’anno scorso su ordine della Procura del popolo di Wenzhou per riciclaggio, frode e gioco illegale: rischia 12 anni di carcere.

8 gennaio 2023 71 Prima Pagina Foto: M. Bertorello / AFP via Getty Images, D. Staples / Sportimage via IPA Images

Un momento dello spettacolo “Kurios: Cabinet of Curiosities”, la nuova produzione del Cirque du Soleil, in arrivo in Italia

(im)possibili
Sogni

Clown spericolati, acrobati volanti, idee folli. Torna in Italia il Cirque du Soleil. Con un nuovo spettacolo che segna la rinascita della compagnia

di Francesca De Sanctis

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immaginazione non ha limiti, giusto? E allora liberate la vostra fantasia e provate a inventare un mondo diverso, in cui le idee più folli e i sogni impossibili diventano realtà. In fondo è solo un gioco, un meraviglioso gioco. E c’è chi sa farlo molto bene, tanto da far sognare il pubblico di tutto il mondo grazie ai variopinti spettacoli animati da acrobati volanti e clown spericolati. Meglio prepararsi allora, perché il Cirque du Soleil sta per tornare finalmente in Italia: “Kurios – Cabinet of curiosities”, scritto e diretto da Michel Laprise, è pronto a condurci in uno strano regno abitato da un inventore di fine Ottocento, una realtà parallela in cui la scienza evolve in maniera del tutto inaspettata.

“Kurios” è un vero e proprio kolossal in stile steampunk. Sarà a Roma dal 22 marzo al 29 aprile (Tor di Quinto) e a Milano dal 10 maggio al 25 giugno (piazzale Cuoco), un tour prodotto da Show Bees e Vivo Concerti, partner italiani del Cirque du Soleil Entertainment Group. L’intervallo, dunque, è finito. E pensare che proprio nei giorni in cui scoppiava la pandemia di Covid-19, a marzo del 2020, la città di Roma veniva tappezzata di manifesti che pubblicizzavano

In scena tanti buffi personaggi in stile steampunk si muovono in uno spazio pieno

l’arrivo del circo canadese con “Totem”. Ma lo show fu annullato, come tutti gli altri 44 lavori in tournée, e il Cirque du Soleil costretto a ricorrere alla bancarotta assistita. Ecco perché il loro ritorno sulla scena ha qualcosa di miracoloso.

«Non potrò mai dimenticare quei giorni del 2020 in cui tutto è precipitato. Qualche settimana dopo saremmo dovuti venire proprio in Italia, che in quel momento era uno dei Paesi più colpiti dal Covid-19. In pochi giorni il mondo è andato in lockdown, tutti i nostri spettacoli sono stati annullati e le nostre entrate sono passate da un miliardo di dollari all’anno a zero nel giro di pochi giorni». A parlare è Stéphane Lefebvre, il nuovo amministratore delega-

to del Cirque du Soleil Entertainment Group, una lunga carriera finanziaria alle spalle e un grande amore per la musica classica. Un anno fa ha sostituito Daniel Lamarre, ora vicepresidente esecutivo della società. Insieme hanno rilanciato le attività del circo canadese a Las Vegas (dove hanno degli spettacoli fissi) e in tutto il mondo con il ritorno in scena soprattutto di storici show riaggiornati, come “Kurios–Cabinet of curiosities”, che per il suo debutto europeo ha scelto la Royal Albert Hall di Londra, dove arriverà il 12 gennaio per festeggiare i 150 anni del teatro.

Cosa vedremo? Uno spettacolo fatto di magia e poesia capace di strappare più di un sorriso, un mondo capovolto (e non è solo un modo di dire considerando la cena a testa in giù della scena “Upside Down World”), una sfilata di personaggi molto stravaganti come Madamoseille Lili, alta appena un metro, che vive nella pancia di Mr Microcosmos; Nico, con un costume a forma di fisarmonica che gli permette di piegarsi fino dove vuole (per realizzare il suo abito il costumista ha trascorso una

Sogni (im)possibili
di oggetti insoliti, tra cui una mano meccanica da oltre 300 chili
L’ 74 8 gennaio 2023

settimana cucendo l’abito dall’interno); Klara, con la sua gonna di antenna fatta ad anelli modello hula-hoop e ispirata a “Metropolis” di Fritz Lang, e poi tanti altri buffi personaggi che si muovono in una camera delle meraviglie piena di oggetti insoliti, compresa una mano meccanica di 340 chili azionata da due artisti tramite un meccanismo a pedale e ad ingranaggi.

Pensate che in scena per questa 35esima produzione ci sono 47 artisti provenienti da 17 Paesi diversi. Quando il Cirque du Soleil si mette in viaggio è una piccola città in movimento: in questo caso sono 65 ca mion, 122 addetti del tour e 2mila tonnel late di attrezzatura, tanto per darvi un’i dea. Dunque, tutto come prima?

La speranza è quella di tornare ai livelli di una volta, «quando avevamo una trenti na di spettacoli in giro per l'Europa - dice Lefebvre - ma è ancora presto per dire se ce la faremo quest’anno o nel 2024. Accadrà sicuramente e non dovremo aspettare molto». Certo, gli effetti della pande mia sono stati tanto devastanti quanto spiazzanti per la compagnia nata nel

Una scena di gruppo e un’acrobazia da “Kurios: Cabinet of curiosities”.

Sotto: Stéphane Lefebvre, amministratore delegato del Cirque du Soleil

1984 in Quebec dall’ex mangiatore di fuoco Guy Laliberté. La troupe circense si è ritrovata all'improvviso con un debito di circa un miliardo di dollari. Ha dovuto lasciare senza lavoro 4.679 acrobati e tecnici, ovvero il 95 per cento dei suoi dipendenti. La maggior parte di loro è stata poi licenziata a giugno, quando il gruppo ha chiesto di attivare la procedura per bancarotta assistita ed evitare così il fallimento.

«La cosa più complicata da fare per me è stato proprio il licenziamento di migliaia di persone, molte delle quali erano persone care che lavoravano con noi da anni. È stata la cosa più difficile che abbia mai fatto in vita mia», racconta Lefebvre. Ma come è riuscito il Cirque du Soleil a superare la crisi? «Abbiamo puntato tutto sulla forza del nostro marchio e scoperto il potere della resilienza. Avevamo tanti motivi per arrenderci, ma non l’abbiamo fatto. Abbiamo tirato fuori i muscoli e siamo diventati più flessibili. Abbiamo investito nel virtuale e pianificato nuove esperienze». E così alla fine di novembre 2021, circa mille artisti erano già tornati

Fotopagine 72-73: P. Parks –Afp / GettyImages, pagine 74-75 per gentile concessione di: M. Tsang (2), E. Miller –GettyImages
8 gennaio 2023 75 Idee

In senso orario, quattro immagini dal backstage di “Kurios”: relax, trucco, prove costume, allenamenti. A centro pagina: Kazuha Ikeda, una delle protagoniste dello spettacolo. A destra: esibizione del Cirque Trottola

a lavorare nelle produzioni, principalmente nei revival di spettacoli già consolidati. «Vorrei estendere il ciclo di vita dello spettacolo medio del Cirque du Soleil (in genere viene prodotto uno spettacolo nuovo ogni due anni che va in tournée per 15 anni) e poi adattare spettacoli più piccoli a mercati specifici, piuttosto che spingere ogni show in tutto il mondo», spiega Lefebvre. Ma è soprattutto grazie all’arrivo di nuovi investitori se la crisi è stata superata. Nel novembre 2020, il Cirque du Soleil ha finalmente trovato i fondi necessari (375 milioni di dollari) per riprendere le attività grazie a nuovi azionisti canadesi e americani. La società è stata acquisita dal fondo Catalyst Capital, un gruppo di private equity canadese divenuto principale azionista della società. «Questo ci ha permesso di dimezzare il debito che avevamo e di trovarci oggi con una buona liquidità. Sono stati lunghi mesi di lavoro, ma avevamo un solo obiettivo in mente, quello di salvare il Cirque. È stato un processo complesso, ci sono state diverse offerte per rilanciare l’azienda. L'importante non era

solo l’acquisizione di Cirque, ma avere i fondi necessari per rilanciare la nostra attività. Ed è quello che ci siamo impegnati a fare dallo scorso giugno con la graduale ripresa dei nostri spettacoli e dei rapporti preesistenti con partner come Mgm Resorts, Aeg, Disney, senza dimenticare la costante ricerca di altri business e mercati in cui poter investire anche con nuove attività», spiega Lefebvre.

«Quando abbiamo riaperto a Las Vegas, nel giugno del 2021, i biglietti sono andati a ruba, la gente ha ancora tanta voglia di sognare». E la dimostrazione è arrivata ad agosto, grazie al nuovo record di biglietti venduti a Montreal - quasi 270 mila - per lo spettacolo “Kooza”. «Prima della pandemia il Cirque du Soleil impiegava circa 4.900 persone in diversi Paesi. Oggi siamo 2.500 dipendenti in tutto il mondo, di cui 450 presso la sede centrale di Montreal. È qui che i nostri artisti vengono a prepararsi per i loro spettacoli. Il mio compito è quello di pensare a quale messaggio lanciare, a quali emozioni vogliamo suscitare. La missione del Cirque du Soleil è sempre stata

Foto: S. Corum –Afp / GettyImages (4), D. Arnold –WireImage / GettyImages, per gentile concessione di: P. Laurecon
Sogni (im)possibili
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quella di evocare l'immaginazione e di sorprendere il suo pubblico».

Per farlo, questa grande macchina dei sogni, continua a coinvolgere artisti da tutto il mondo che ogni giorno condividono tutto, dai pasti agli allenamenti, come ci racconta Caio Sorana, giocoliere di 33 anni, nato in Brasile ma cresciuto nelle Marche, che proprio in questi giorni è in partenza per il Canada, dove lavorerà per la nuova produzione del Cirque du Soleil. “Echo” debutterà a Montreal il 20 aprile e Caio si esibirà nel numero “Inbox” in coppia con l'equilibrista francese Clément Malin con il quale forma la compagnia circense Soralino. «Il nostro è uno spettacolo molto semplice, un gioco con delle grandi scatole di cartone, che arriva in maniera diretta allo spettatore», racconta: «Credo sia stato scelto per questo, per il suo linguaggio universale. L’aspetto più interessante di questo lavoro? Condividere le giornate con artisti provenienti da tutto il mondo: il Cirque du Soleil è un melting pot incredibile».

Sfida al tempo e alla gravità

La campana batte i suoi rintocchi e la scena circolare comincia a popolarsi di strambi personaggi che fra clownerie e acrobazie sfidano pericoli e forza di gravità.

La pista sotto il tendone si trasforma così nel quadrante di un orologio e lo chapiteau diventa un tempio in cui celebrare la forza del tempo. È uno spettacolo da non perdere quello della compagnia francese Cirque Trottola, “Campana”, per la prima volta in Italia. È andato in scena per tutto il periodo natalizio a Parma, dove sarà replicato ancora l’8 gennaio all'interno del festival internazionale “Tutti Matti sotto Zero”, organizzato da Grand Circus Hotel e Teatro Necessario. Poi sarà a Torino, nella stagione della Città di Grugliasco curata da blucinQue/Nice in collaborazione con Fondazione Cirko Vertigo, il 18, 19, 21 e 22 gennaio. Non è un caso se il Cirque Trottola è ospite di due dei quattro Centri italiani di produzione di circo contemporaneo. L'articolo 31 bis del decreto del Fondo Unico dello Spettacolo dal vivo (Fus) ha infatti istituito i Centri di produzione di circo contemporaneo, con il compito di promuovere le nuove creazioni circensi in Italia e all’estero e ospitare altri spettacoli di circo contemporaneo realizzando rassegne e festival. Si tratta del Teatro Necessario Circo a Parma, del blucinQue/Nice a Torino, del Sic/Stabile di Innovazione Circense a Pesaro e del CpccL nel Lazio. I primi tre hanno creato anche uno spettacolo insieme che combina le loro creatività, “Circo Suite”, andato in scena di recente all'Auditorium Parco della Musica di Roma, dove l’8 gennaio si conclude la rassegna “Ops!”. L'ultimo appuntamento è con “L'Uomo calamita”, nato dall'incontro fra Wu Ming e il Circo El Grito, diretto dai due fondatori dello Stabile di Innovazione Circense, Fabiana Ruiz Diaz e Giacomo Costantini. Il loro circo è stato il primo ad essere riconosciuto dal ministero della Cultura nel 2015. E se volete saperne di più sul mondo del circo, esiste una Community library, che raccoglie, conserva e valorizza i libri legati alla storia del circo. Si trova a Roma, in via Assisi, dove ha sede la Scuola romana di circo. F. D. S.

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Amici interrotti

Due adolescenti cresciuti insieme. Finché i commenti altrui li separano. E l’armonia spezzata genera dolore e lutto. Pregiudizi sotto accusa in “Close” di Lukas Dhont

Gran Premio Speciale della Giuria al Festival di Cannes, presentato alla Festa del Cinema di Roma nella sezione Alice nelle città, “Close” è il secondo film del regista belga Lukas Dhont, in sala in questi giorni.

La sua discussa opera prima, “Girl”, vedeva un giovane alla ricerca della sua identità personale ed artistica, nel difficile percorso della transizione di genere. Qui sono protagonisti della vicenda due ragazzi di tredici anni, Léo (Eden Dambrine) e Rémi (Gustav De Waele), davvero straordinari nell’interpretare questa avventura senza ritorno chiamata adolescenza. Amici inseparabili, complici di battaglie immaginarie, protagonisti di luminose fughe nella campagna bagnata dal sole di fine estate, trascorrono le giornate assieme: ridendo, scherzando, rincorrendosi in bicicletta. Talvolta Léo, ben accolto dalla madre di Rémi (Émilie Dequenne), si ferma nella loro bella casa e dormono l’uno vicino all’altro.

Poi inizia la scuola. Una nuova esperienza, un contesto sconosciuto, altri

volti, altre esperienze. La loro intimità viene subito notata dai coetanei, che con innocente malizia chiedono se stiano insieme, insomma se siano una coppia. Immediatamente i due amici si cercano con lo sguardo, sorridono confusi, domandano il perché di quella domanda. «Così sembra», viene risposto loro. Léo e Rémy, senza dare né voce, né sfogo alla commovente fragilità che li insidia, si allontanano. L’amicizia si spezza.

Il regista ne coglie la segreta inquietudine negli sguardi, negli improvvisi rabbuiamenti, negli slanci che si convertono in aggressività. Di fronte ad un contesto, che misura i comportamenti ed assegna etichette, è Léo, per difendersi dai commenti e le insinuazioni, a prendere le distanze da Rémy, che resiste e cerca di trattenerlo. Si lascia coinvolgere dalla fisicità estroversa e festosa di lotte e inseguimenti nel cortile di scuola. Sceglie pratiche sportive virili, come l’hockey sul ghiaccio e il calcio, per confermare la sua imberbe mascolinità. Non attende più l’amico per recarsi a scuola. Non trascorre il tempo in sua compagnia. Non ne condivide

più la passione per la musica e l’oboe. Altri i discorsi: Mbappé, Ronaldo, la playstation. Altri gli orizzonti: le risa, il pullman, la gita al mare; sentirsi parte di una comunità; nascondersi e confondersi nel gruppo per non essere esclusi o considerati estranei. Poi un evento tragico irrompe nella sua vita e la seconda parte del film prende una piega diversa, la narrazione rallenta sul piano drammaturgico, procede per stati d’animo, si fa più analitica nel raccontare come le emozioni implodano

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Cinema

e il dolore inespresso non riesca a trovare una via di fuga.

Dhont accarezza corde intime con mano sicura, composta eleganza e stile visivo calibrato. Nessuna retorica compiaciuta nel suo sguardo insistito, sia quando mostra la vitalità tangibile degli adolescenti, la bellezza palpabile del paesaggio, i sorrisi luminosi, i corpi agili e sottili che tagliano per i campi; sia quando indugia sulla pressione invisibile del dolore, la fatica di un allenamento sportivo che

spezza il fiato, l’inquietudine che lavora sotto l’apparenza, alterando in modo minimale i lineamenti. Il regista mette in scena i volti, le sospensioni, la rarefazione della logica discorsiva, per entrare nel territorio difficile degli affetti e delle emozioni, anche grazie alla bella fotografia di Frank van den Eeden. La tensione drammatica è generata dall’oscillazione tra piani ravvicinati e silenzi sfuggenti, calma apparente e angoscia incombente. Il pianto – degli adolescenti,

non degli adulti - è continuamente trattenuto, sospeso, rinviato.

Per noi spettatori una tensione proficua che si riempie di domande: su che cosa possa compiersi di così terribile e devastante nel mondo interno dei ragazzi, quando decidono di rinunciare alla vita; di quanto pesi un giudizio quando stanno con i loro coetanei; di quanta miopia ci possa essere nell’evitare le loro speranze deluse, le fragilità non dichiarate, le parole e le paure non dette, gli affetti non condivisi; di quanto spesso ignoriamo la complessità dei loro vissuti relazionali e gli interrogativi sull’identità sessuale, additandoli a sciocchezze o argomenti da derubricare e di quanto, infine, attraverso utili sigle e procedure, che li identificano come BES e DSA o altre granitiche categorie, ci si sia allontanati da quella genuina, intuitiva, capacità di sintonizzarsi sul loro dolore, convenzionalmente detta sensibilità. Consolatoria per gli adulti la fiducia nell’immaginarli sempre pieni di vita e di futuro, senza rendersi spesso conto del malessere nel presente, in famiglia, tra gli amici, dentro l’istituzione scolastica, a due passi da noi. Il film non parla di attualità, non esprime alcuna denuncia, non focalizza in modo esclusivo le problematiche Lgbt, eppure la vulnerabilità degli adolescenti, la loro sofferta educazione sentimentale, il disagio che ne attraversa l’età è raccontato in modo toccante, esemplare ed universale al tempo stesso.

E quando il pianto di Léo irrompe sullo schermo, esprime un atto conoscitivo profondo e non obbligato, drammatico ed essenziale nell’evocare l’irreversibilità del tempo, l’impotenza dei gesti, il pungolo del senso di colpa; un’inutile eppure necessaria ribellione verso ciò che poteva essere e non è stato, ciò che non sarà più e tristemente è. Una fase aurorale di elaborazione del lutto, che strappa le lacrime ai personaggi ed anche a noi spettatori.

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Alcune immagini da “Close”, il secondo film del regista belga Lukas Dhont

Gli amori di via del Campo

Via del Campo/ c'è una puttana/Gli occhi grandi color di foglia/Se di amarla ti vien la voglia/ Basta prenderla per la mano», cantava Fabrizio De André nella canzone dedicata alla via simbolo della sua città. Oggi via del Campo, a Genova, è un passaggio obbligato per tutti coloro che vanno al Porto Antico, una strada lastricata che incrocia i caruggi del centro storico, ma negli anni Sessanta era un luogo malfamato, nonché punto d’incontro per artisti e appassionati di musica, vista la presenza del negozio di strumenti, spartiti e dischi di Gianni Tassio, icona della scuola genovese della canzone d’autore.

È proprio in quella via nell’ex ghetto ebraico che Lisetta Carmi, una delle personalità più interessanti del panorama fotografico italiano, scomparsa di recente a 98 anni, fu portata da un amico a una festa di Capodanno, mentre realizzava un reportage sulle condizioni di lavoro a Genova Porto. Era il 1965 e in quella casa viveva un gruppo di travestiti, ma lei non lo sapeva. Tra loro fu amore a prima vista. Iniziò a studiarli, a osservare e poi fotografare “per capire”, come disse più volte. Ci entrò così in confidenza che decise di rivederli ogni giorno, per sei anni, scattandogli ogni volta delle foto. Prima di lei, solo il fotografo svedese Christer Strömholm aveva fatto qualcosa di simile con i travestiti parigini, senza dimenticare lo studio fatto da Franco Pinna sulle prostitute

di Giuseppe Fantasia

La fotografa Lisetta Carmi in un autoritratto. Sopra, la copertina del volume “I travestiti” (Contrasto), ristampa del libro-scandalo del 1972. A destra, doppio ritratto in un “caruggio” di Genova

Fotografia
Nel 1965 Lisetta Carmi capita in una casa abitata da travestiti, a Genova. Affascinata dalle loro storie, scatta immagini potenti. Che ora rivivono in un libro e in una mostra
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del quartiere romano Mandrione con l’antropologo Franco Cagnetta. Ma Carmi andò oltre, entrando nelle loro vite in punta di piedi, conquistando la loro fiducia. «Li ho subito sentiti come esseri umani che vivono e soffrono tutte le contraddizioni della nostra società come minoranza ricercata da una parte e respinta dall’altra», scrisse nel libro “I travestiti” dove alcune di quelle foto furono raccolte dalla casa editrice Essedi di Roma, un libro che fece così scandalo, che molte librerie rifiutarono di esporlo. Allora, era il 1972, veniva venduto quasi clandestinamente, mentre oggi è diventato un pezzo di storia della fotografia italiana, tanto che la casa editrice Contrasto ha deciso di ripubblicarlo a distanza di cinquant’anni.

In molti avevano chiesto alla Carmi, quando era ancora in vita, di ripubblicarlo, ma lei aveva sempre rifiutato. Quelle foto ora hanno una nuova veste e sono delle “Fotografie a colori” non soltanto nel titolo del libro, immagini uniche che mostrano i suoi soggetti sotto una nuova luce. Se quelle originali in bianco e nero mettevano in risalto le loro esistenze notturne alludendo al loro senso di marginalità, quelle a colori, alcune delle quali sono esposte nella grande mostra monografica alle Gallerie d’Italia di Torino intitolata “Lisetta Carmi. Suonare Forte”, sembrano meno malinconiche e più gioiose. Immagini garbate, libere da pregiudizi morali e prive di qualsiasi forma di strumentalizzazione, capaci di catturare la se-

gretezza in cui i travestiti erano spesso costretti a vivere. Di lei si fidavano e ridevano insieme, chiedendole addirittura aiuto con i clienti stranieri, affinché capissero chi avevano avanti.

«Non è un caso se il mio interesse e la mia partecipazione ai loro problemi ha creato fra me e loro una fiducia, un affetto e una comprensione che mi hanno permesso di fare questo lavoro con un rapporto che andava al di là di un normale rapporto fra fotografo e fotografati», si legge nella nuova e preziosa edizione a cura di Giovanni Battista Martini con testi di Juliet Jacques, Vittorio Lingiardi e Paola Rosina. «Io stessa, aggiunge, ero assillata, forse a livello inconscio, da problemi di identificazione maschile o femminile. Non si tratta-

Foto:
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Lisetta Carmi –Martini&Ronchetti
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va tanto di accettazione di uno “stato” quanto di rifiuto di un “ruolo”. E i travestiti (o meglio il mio rapporto coi travestiti) mi hanno aiutato ad accettarmi per quello che sono: una persona che vive senza ruolo». Osservandoli, capì «che tutto ciò che è maschile può essere anche femminile e viceversa», come il fatto che «non esistono comportamenti obbligati, se non in una tradizione autoritaria che ci viene imposta fin dall’infanzia».

«Ma chi sono realmente i travestiti?», si chiede tra quelle pagine Carmi, e per quale motivo cercano così disperatamente la condizione femminile? «I travestiti si mascherano, è vero, ma lo fanno per necessità e hanno il coraggio di fare quello che fanno e di affrontare una realtà spesso drammatica e violenta. Per molti di loro non esiste una alternativa di lavoro: come uomini hanno un aspetto troppo femminile, come donne hanno l’impedimento dello stato anagrafico maschile. Sopportano stati di solitudine incredibile proprio

perché da una parte la società li ricerca e dall’altra li isola, li obbliga praticamente a vivere in ghetti, ha paura di riconoscersi in loro. Li usa, li paga, li giudica: ignorando volutamente che sono esseri umani». A quei tempi, poi, non era né scontato né facile essere un travestito e una come Lisetta Carmi, che proveniva da una famiglia ebrea benestante e colta, decise che di quelle esistenze, di quei volti e di quei corpi ne avrebbe fatto tesoro rappresentandoli al meglio. Una come lei, costretta a lasciare la scuola a quattordici anni, nel 1938, per le leggi razziali e le persecuzioni fasciste, sapeva molto bene cosa volesse dire essere un’emarginata. «Gli ebrei conoscono la sofferenza e credo di dovere al fatto di essere ebrea la comprensione che in tutta la vita ho avuto per chi soffre». Un’apertura verso gli altri, dunque, che per lei è stata una necessità ed è stata proprio la necessità di aprirsi agli altri e di comprenderli che la spinse verso la fotografia. Prima era stata una pianista talentuosa e ap-

prezzata, ma nel momento in cui capì che la musica la stava allontanando dal mondo, decise di abbandonarla senza alcun ripensamento. «Se le mie mani sono più importanti dell’umanità, smetto di suonare», e fu così che scese in piazza. Cinque anni prima di quelle foto, andò in Puglia con l’etnomusicologo Leo Levi a registrare i canti degli ebrei portandosi una macchina fotografica e nove rullini. Non aveva mai fotografato, ma scattò d’istinto, scoprendo di avere un altro talento, oltre alla musica, desiderosa di comprendere e raccontare. Lo fece, ad esempio, documentando il parto in bianco e nero, i lavori fotografici dedicati al mondo del lavoro in Italia e all’estero e i ritratti di Ezra Pound con cui vinse il premio fotografico Niépce. «Ricordo ancora quel giorno, ero andata a trovarlo, suonai il campanello, lui aprì e io non persi tempo: scattai. Feci venti scatti, ne scelsi undici. Fra questi quella foto».

Fotografia
82 8 gennaio 2023 Idee
Uno dei “travestiti” di Lisetta Carmi fotografato al momento del trucco e un ritratto scattato per strada

Il nuovo Geoportale della Cultura Alimentare

Il portale che mappa e racconta il patrimonio gastronomico italiano

Più attuale e rinnovato, più semplice e fruibile, più interattivo, ricco di contenuti da esplorare: è online il nuovo Geoportale della Cultura Alimentare (GeCA), lo strumento per la narrazione collettiva della nostra cultura gastronomica, creato dall’ICPI Istituto Centrale per il Patrimonio Immateriale del MIC - Ministero della Cultura. Tradizioni, riti, cerimonie e festività, saper fare, arti e mestieri, musica, danza, giochi: un grandioso Patrimonio Immateriale, da tutelaree tramandare. Il 2022 è stato l’anno del cambiamento per il progetto GeCA, caratterizzato da un roadshow nazionale di eventi e incontri strutturati con l’obiettivo di informare e coinvolgere territori e operatori culturali, per raccogliere e rappresentare, secondo uno spirito comunitario di tradizione ed eredità culturale condivisa. Un percorso multidisciplinare a più tappe in cui Leandro Ventura, Direttore dell’ICPI*, ha i contrato le Comunità locali per fare il punto sulla valorizzazione della cultura alimentare territoriale e attrarre nuovi progetti e contenti all’interno del progetto.

Storie e contenuti straordinari che rappresentano le nostre origini e che da oggi, grazie a GeCA, sono a disposizione di tutti e a portata di click su www.culturalimentare.beniculturali.it.

*L’Istituto Centrale per il Patrimonio Immateriale è un Istituto del Ministero della Cultura impegnato nella tutela, salvaguardia, valorizzazione e promozione dei beni culturali demoetnoantropologici italiani.

INFORMAZIONE PUBBLICITARIA
Leandro Ventura

Musica indipendente

Mi vesto così perché con i pantaloni larghi e i tacchi bassi canto meglio»: ha le idee chiare Isotta, cantautrice attesa al varco nel 2023 per vedere se manterrà le promesse accumulate l’anno scorso, quando le chiedi perché, con il fisico che ha, si nasconda dietro tailleur oversize e scarpe da educanda. È una risposta al vecchio dilemma delle cantanti: come conciliare aspetto e musica, bravura e sex appeal? Non è un problema superato, e vale in tutto il mondo: basta considerare il duello a distanza tra Dua Lipa e Bebe Rexha. Voce simile, stesse radici albanesi, successo parallelo: ma mentre Rexha, che ha premuto molto di più sul pedale della bomba sexy (e ci gioca fino in fondo nel video di “I’m blue” con David Guetta), sbanca il box office dagli Stati Uniti, Lipa in Gran Bretagna sta costruendo una carriera più solida, in cui colleziona premi per la sua musica e riconoscimenti per le iniziative di impegno sociale.

Anche in Italia lo scontro è nell’aria, ed è bastato un post di Nina Zilli per farlo scoppiare: «Consiglio a chi volesse mai intraprendere la carriera da cantante e/o cantautrice: esci le canzoni belle, non la f***», ha scritto, proprio nei giorni in cui Elodie lanciava il nuovo video sempre più sexy (“Ok. Respira”) e Beatrice Quinta, la più chiacchierata finalista di “X Factor”, si faceva fotografare nuda nella metropolitana di Milano. Niente di simile per Isotta Carapelli, trentenne toscana che ha condito con alcuni tra i riconoscimenti più importanti della musica indipendente (il Bianca d’Aponte per cantautrici e due premi al festival Musicultura) il lancio del suo primo cd “Romantic dark” (uscito per Women Female Label & Arts, etichetta discografica tutta al femminile aperta anche ad arte e poesia). E che in questa intervista racconta come lavora una cantautrice in un Paese che nelle donne vede ancora solo grandi interpreti di canzoni altrui.

Metodo Isotta

Emozioni private. Gioco di squadra. E la certezza che scrivere è solo l’inizio del lavoro di una cantautrice. Che a chi si spoglia sul palco preferisce tacchi bassi e vestiti oversize di Angiola Codacci-Pisanelli

Partiamo dalla prima cosa che colpisce il pubblico: davvero se si veste oversize canta meglio?

«Sarà che sono timida, ma io a cantare seminuda non ci riuscirei proprio. Quando sono tornata al Teatro Cimarosa di Aversa per cantare al Premio D’Aponte avevo i tacchi e mi sentivo sui trampoli. E mi sono resa conto che non mi aiuta: trasmettere le mie emozioni al pubblico è più difficile se io fisicamente non mi sento a mio agio mentre canto. Cerco di guidare chi mi ascolta verso una certa atmosfera e per riuscirci devo fargli arrivare testo e musica, melodia ed elettronica. Vestirmi in modo da attirare troppo l’attenzione sul mio aspetto sarebbe controproducente. Ma sto ancora sperimentando...». Firmi tutte le canzoni del tuo disco. Come le scrivi? Nasce prima la musica o il testo?

«Generalmente parto da un'idea di testo, metto a fuoco un’emozione che voglio condividere con chi mi ascolta. Poi ci costruisco sopra un “beat” anche

con l’aiuto dei musicisti con cui collaboro. Per esempio, una volta Pio Stefanini, con cui ho scritto quasi tutte le canzoni del disco, mi ha detto che andavaaportaresuofiglioagiocareapalla avvelenata. E io mi sono ricordata che da ragazzina non mi volevano mai in squadra: “Sai, ero grassa”, ho spiegato a Pio, “avevo i riflessi di un pesce morto”.Eluimihadetto:“Vadoetorno, tu butta giù questa storia che ci scriviamo un pezzo”. È nata così “Palla avvelenata”, una canzone sul bullismo che pensavo di non poter mai cantare in pubblico».

E invece?

«Invece l’ho cantata a Musicultura ed eseguirla in pubblico è stato catartico almeno quanto scriverla. Certo l’emozione quando canto dal vivo è ancora fortissima. Ma mi ha colpito una cosa che mi ha detto il mio pianista prima di salire sul palco a Recanati. Gli ho detto “Mamma mia, non si può vivere così: guarda come tremo, ho la bocca completamente secca». E lui mi ha rispo-

84 8 gennaio 2023

Isotta, cantautrice toscana. Il suo disco d’esordio si intitola “Romantic dark” (Women Female Label & Arts)

sto: “Ma è questo il bello di questo mestiere, se non ti emozionassi più che lo faresti a fare?”».

Che genere di emozioni racconta nelle canzoni del suo disco?

«La più personale è quella con cui ho vinto il Premio d’Aponte, “Io”. All’inizio ho scritto le prime due strofe, in metrica, su un ritmo che avevo in testa ma senza musica. Volevo raccontare un viaggio interiore, la ricerca dell’energia che ti spinge in strade diverse rispetto a quella che stavi percorrendo. Io ho sempre aspirato alla musica ma per sicurezza facevo anche l'università. E in quella canzone ho voluto raccontare l’esigenza di darmi una spinta in più verso un percorso che sentivo vitale». Ha frequentato una scuola per cantautori?

«No: fin da piccola ho fatto lezione di canto, poi di solfeggio, ma per la scrittura ho iniziato da sola, e imparo dagli autori con cui collaboro. Già a sei anni, con la prima maestra di canto, ho scritto la mia prima canzoncina - me la ricordo ancora anche se era una cosa indecente… A 14 anni l'ho presa un po’ più seriamente perché sentivo proprio il bisogno di cantare parole mie. Alle canzoni del disco ho iniziato a lavorarci cinque o sei anni fa».

E nel suo futuro cosa c’è?

«Sto lavorando al secondo album, sto chiusa in studio a scrivere e mettere in musica. Fare dei live è sempre un piacere, anche poter portare la mia musica a delle orecchie esterne. L’estate scorsa ho aperto i concerti di Madame, Raphael Gualazzi, Simona Molinari ed è stato bellissimo cantare davanti a un pubblico così grande. E in posti meravigliosi: grazie a Musicultura ho cantato in giro per l’Italia, in posti stupefacenti come lo Sferisterio di Macerata o a Paestum, davanti al tempio di Poseidone: uno scenario davvero mozzafiato, un’emozione che non è il massimo se devi cantare! Però ora penso solo a scrivere: mi capita di sognarle di notte, le parole di una canzone. Poi appena sveglia le scrivo su un blocchetto, anche se poi magari quando le rileggo non mi piacciono più...».

8 gennaio 2023 85 Idee

Doppio ritratto

Katherine Mansfield e Virginia Woolf. Grandi scrittrici, amiche, rivali. Raccontate da Sara De Simone con rispettosa empatia

C’

è qualcosa di più difficile che scrivere con rigore e freschezza la biografia di una scrittrice ed è farlo per due scrittrici, o meglio: scrivere della terza vita vissuta in autonomia da quel legame, da quell’insieme di ambizioni, proiezioni e affetto che va sotto il nome di amicizia. C’è riuscita Sara De Simone — studiosa, critica e traduttrice – con un libro indimenticabile che si intitola “Nessuna come lei” e racconta l’incontro fra Virginia Woolf e Katherine Mansfield. Esce per Neri Pozza a cent’anni dalla morte di quest’ultima, ma la ricorrenza non deve ingannare: non è un libro scritto in fretta per l’occasione, bensì il frutto di studi e pensieri che vengono da molto lontano.

La bellezza martellante di questo libro sta tutta in un susseguirsi di scene pervasive, infestanti. La complessità e la grandezza di un rapporto frainteso, ridotto a banalità da letture miopi e zoppe, si snodano tra due poli, la fine e l’inizio. La fine, iconica: «La scena che troppo spesso non figura nella storia della letteratura è quella di due donne – due scrittrici – che sono in una stanza, e parlano dei propri libri, e di quelli degli altri, e ridono, e sono d’accordo, e non sono d’accordo, e si guardano negli

Mansfield e Woolf sulla copertina di “Nessuna come lei” di Sara De Simone (Neri Pozza, pp. 428). Sopra: un ritratto di Katherine Mansfield

occhi, e si temono, e si ammirano. E sono amiche». L’inizio, una scena che non esiste: «Katherine Mansfield e Virginia Woolf che si incontrano in acqua, o in cima a uno scoglio muschioso, battuto dai venti della Manica». Non accadde mai, non accadde così. Fu Virginia, lusingata dall’insistenza con cui le riferivano che l’altra, la scrittrice di «storielle, in effetti piuttosto brillanti», voleva conoscerla, a buttar lì, fintamente annoiata e autenticamente compiaciuta, che magari avrebbe potuto raggiungerla in Cornovaglia, dove stava per recarsi. Era la metà degli anni Dieci del secolo scorso e nel giro dei salotti londinesi, dove Virginia brillava schivando sempre per un soffio il pericolo di essere oscurata da nuovi autori, da nuovi libri, Katherine diventava ogni giorno più popolare. La Hogarth Press, la casa editrice di Virginia e Leonard, esordì pubblicando due scrittrici: la stessa Woolf e subito dopo Mansfield. Cominciò una

giostra di sentimenti contrastanti, che Sara De Simone attraversa con lucidità, dimostrando che il ritratto delle amiche-rivali che a lungo è stato propinato è stantio e non funziona. Se l’amicizia fra donne è un recipiente così enorme da poter contenere in sé la violenza di sentimenti contrastanti, quella fra artiste è il regno in cui gli opposti convivono: ci si può volere bene ma anche invidiare, si possono provare sia ammirazione sia fastidio, ci si può trovare reciprocamente interessanti e allo stesso tempo non resistere alla tentazione di sminuirsi. E tutto questo può accadere senza che quel rapporto sia da uno sguardo esterno ridotto a storiella, a volgarizzazione. Sara De Simone legge tra le righe degli inviti, dei diari, delle lettere; interpreta senza forzare, immagina riempiendo vuoti solo apparenti, perché tra le righe c’è già tutto. Questo lavoro tiene conto delle parole e dei corpi, della sensualità e della ricerca della perfezione nell’arte e nella vita, e così sottrae Mansfield e Woolf all’appesantimento delle facili e fuorvianti etichette della depressione, dell’invidia, di tutto ciò che si dice delle donne quando non se ne riesce a dire la prismatica essenza. Quando non si riesce a dire soltanto: nessuna è come loro.

86 8 gennaio 2023 Foto: Xxxxxxx xxxxxxx xxxx
Letteratura Idee

A CURA DI SABINA MINARDI

OGNI DONNA È UN MISTERO D’ACQUA

La figura mitologica della Melusina al centro della favola di Laura Pugno. Tradotta in immagini da Elisa Seitzinger

Una poeta e scrittrice, Laura Pugno. Un’artista visiva magnetica com’è Elisa Seitzinger. Dopo “Nome non ha” di Loredana Lipperini, dedicato alla Terra e all’affascinante figura della Sibilla, profetessa e oracolo, la casa editrice Hacca prosegue il suo viaggio tra gli elementi e affida alle due autrici le chiavi della fantasia intorno al mistero dell’Acqua. Il risultato è “Melusina”, favola per parole e immagini con una fata marina per protagonista, creatura mutevole nelle forme e metafora per eccellenza della libertà e della femminilità. Sullo sfondo c’è la storia medievale di Melusina appunto, figura araldica e chimerica che ha perduto (per amore?) la coda di serpente per una coda di pesce, riletta nel saggio di Laurence Harf-Lancner “Morgana e Melusina, la nascita delle fate nel Medioevo”. E che Pugno riscrive a sua volta, facendo discendere la storia da una comunità di donne e di compagne, francesi inglesi tedesche scandinave e qualche italiana, che negli anni Settanta danno vita a una comune. Come uno stormo migratore, la comunità si disperde. E da lì inizia il viaggio di una figlia per approdare alla sua verità: per mari, salite e discese, amicizie e incontri, ipotesi e conferme. Perché in fondo questo è il mandato che la vita ci dà: esplorare, trovare la nostra natura, e infine di-

Dal drammaturgo rumeno fuggito dalla censura del regime, una smagliante storia sul potere del linguaggio e sulla forza della letteratura come luogo di libertà assoluta. Attraverso una girandola di personaggi eccentrici, ambiziosi, commoventi, e tutti ossessionati dalla bellezza delle parole colte nei luoghi più diversi, dai cartelloni pubblicitari alle etichette sulle scatole, una sorprendente storia su un romanzo collettivo, dalla trama intrecciata da un misterioso editore parigino.

“SINDROME

DA PANICO NELLA CITTÀ DEI LUMI”

Matei Visniec (trad. M. Barindi) Voland, pp. 329, € 17

Propositi per il nuovo anno: evitare sprechi ed eccessi.

E consumare con consapevolezza e voglia di condivisione.

ventare quello che già siamo. Tra scogliere, spiagge, vento, luoghi che respirano e seminano tracce e profumi capaci di ridestare la coscienza – isole, soprattutto, quel paesaggio che Laura Pugno ci ha già fatto conoscere nel ricercato, visionario romanzo “Sirene” – si compie un viaggio tra generazioni. E il potere della mutazione trasmigra di donna in donna, trasferendo il segreto di corpi capaci di diventare serpenti, draghi, rose, spine. Corpi che mutano, contenendo altre vite. Corpi che, una volta al mese, come il ciclo della luna, diventano sirene, mentre divino e umano finalmente combaciano perfettamente, anche se per un attimo solo. Intorno, un Mediterraneo esso stesso in trasformazione: non estraneo ai cambiamenti climatici. E alle evoluzioni degli uomini, portatori di un potere crudele.

“MELUSINA”

Pugno-Elisa Seitzinger Hacca, pp. 102, € 22

Il filosofo ed economista della decrescita torna sui temi del ridurre e del rallentare. E rivolge la sua attenzione all’universo del cibo, al nostro rapporto con la tavola, alla luce della felicità moderna che poggia su ricchezza e abbondanza.

E invece no: felicità è gustare, assaporare. E condividere il cibo, nel rispetto del suolo e della vita.

“L’ABBONDANZA

FRUGALE COME ARTE DI VIVERE”

Serge Latouche (trad. F. Grillenzoni) Bollati Boringhieri, pp. 152, €16

“Ci sono i vivi, i morti e quelli che vanno per mare”. Una nave e il suo equipaggio esplorano questa dimensione a sé, magica e rivelatrice.

E lentamente, mentre osservano la vita della costa e la loro stessa esistenza da lontano, si inoltrano in uno spazio disorientante. Tra la bruma e il mare intorno, vivranno una strana, inspiegabile avventura. In un viaggio sostenuto da una scrittura limpidissima, che avvolge e culla. Verso un orizzonte che richiama e sfugge.

“ULTRAMARINO”

Mariette Navarro (Camilla Diez)

La Nuova Frontiera, pp. 157, € 16,90

8 gennaio 2023 87
Bookmarks/i libri
Laura

IL CAPPELLANO DELLA ONG

La solidarietà
prete che veglia sui migranti
miei compagni salvano vite in mare rinasce l’Europa migliore”
Il
“I
Don Mattia Ferrari collabora con Mediterranea Saving Humans. All’associazione che soccorre i naufraghi s’è avvicinato tramite i centri sociali. Perché condivide l’impegno per gli ultimi e la lotta ai respingimenti di Silvana Franchi
88 8 gennaio 2023
Don Mattia Ferrari sulla nave Mare Jonio della ong Mediterranea nel 2019

In mare vedi contemporaneamente il collasso della civiltà europea e la sua rinascita». Don Mattia Ferrari è il cappellano di Mediterranea Saving Humans, associazione della società civile che svolge attività di monitoraggio, denuncia e soccorso nel Mediterraneo. Si è avvicinato a questa realtà grazie ai centri sociali bolognesi, con cui «condivide l’impegno accanto agli ultimi» nella lotta per la giustizia: «Li ho conosciuti, perché ospitarono un richiedente asilo senza casa che non trovava un posto dove stare». Già come seminarista, don Mattia dava assistenza a chi aveva deciso di migrare in Italia: «Li accoglievamo in parrocchia e li aiutavamo a integrarsi», ricorda.

Nel 2018, quando Mediterranea è stata fondata, don Mattia era viceparroco di Nonantola (in provincia di Modena). Ora è a Roma e frequenta l’università, nello specifico Scienze sociali. «I centri sociali mi hanno coinvolto per avvicinare la Chiesa alla missione di Mediterranea». Una missione che, secondo don Mattia, è comune a chiunque voglia aiutare il prossimo: «Non deve sorprenderci, perché la Chiesa è chiamata a camminare vicino alle persone di buona volontà».

La particolarità di Mediterranea, d’altronde, è proprio questa: l’aver unito soggetti diversi e spesso considerati distanti in un’unica piattaforma, che lavora in mare e in terra con attività di solidarietà per costruire una coscienza collettiva del fenomeno migratorio. «È nella stessa natura della Chiesa. Il mio compito è accompagnare in mare i miei compagni», aggiunge don Mattia.

La prima missione di Mediterranea è iniziata il 3 ottobre del 2018. La nave Mare Jonio è salpata dal porto di Augusta battendo bandiera italiana. La data non è casuale: nel 2013, quello stesso giorno, 368 persone morirono in un naufragio a 800 metri dall’isola dei Conigli, al largo di Lampedusa. Anche negli anni e nei mesi precedenti c’erano state altre vittime, ma una tragedia così non poteva essere ignorata. È stata proprio questa tragedia, infatti, a dare origine all’operazione di controllo dei flussi migratori finanziata dal governo italiano e dall’Unione europea: “Mare nostrum”, che nei 12 mesi successivi ha salvato la vita a oltre 160 mila persone grazie alle navi della Marina militare italiana.

Di quell’operazione non c’è più traccia e il Mediterraneo è tornato a essere un cimitero di invisibili. Migranti, non persone, senza nome e identità. Nel 2021 l’Unhcr ha registrato 3.231 morti, nel 2020 quasi 1.900, nel 2019 intorno ai 1.500. Nella maggior parte dei casi pure sulle bare degli uomini, delle donne e dei bambini deceduti il 3 ottobre del 2013 non ci sono scritti nomi ma soltanto numeri.

«Nei soccorsi le persone vengono restituite alla vita», puntualizza don Mattia. Chi parte spesso scappa dall’inferno della Libia. È pronto a tutto, anche al sacrificio. «Gli equipaggi che salpano in mare e salvano queste persone rappresentano il volto migliore dell’Europa: il volto del riscatto, il volto di un’Europa lontana dalle logiche nazionalistiche e sorella degli altri popoli del mondo». Quest’Europa per don Mattia si costruisce e tuttora sopravvive grazie alle iniziative dal basso, dei cittadini e delle cittadine. «Noi non vogliamo più un’Europa colonizzatrice che si chiuda nella sua fortezza».

Durante le missioni in mare, l’equipaggio di Mediterranea ha assistito diverse volte alle intercettazioni e ai respingimenti delle imbarcazioni che cercano di raggiungere l’Italia da parte della cosiddetta Guardia costiera libica, il corpo armato che Palazzo Chigi finanzia e addestra. Ma tornare in Libia vuol dire tornare nei centri di detenzione: nei lager in cui non esistono diritti e in cui si subiscono costantemente torture. L’Europa e l’Italia lo sanno, ma si girano dall’altra parte.

Dal 2017 il governo firma accordi con un Paese, la Libia appunto, che non ha mai ratificato la Convenzione internazionale di Ginevra del 1951, in cui viene definito il termine «rifugiato» e sono sanciti i diritti e i doveri da rispettare per garantire protezione. Il Memorandum d’intesa è stato rinnovato anche quest’anno: da quando è stato siglato, secondo i dati di Amnesty International, sono state riportate in Libia più di 85 mila persone.

«È facile proclamare a parole la fraternità universale. Questi ideali però devono diventare carne. Come possiamo dire di essere tutti fratelli, se le persone annegano e nessuno le salva, se sono riportate nei lager a subire quelli che l’Onu chiama “orrori indicibili”? Le parole non bastano», commenta don Mattia. Sono le azioni delle organizzazioni non governative e di chi in generale aiuta il prossimo a trasformare questi valori in carne.

8 gennaio 2023 89 Storie Foto: Cortesia Mediterranea Saving Humans

«Noi tendiamo la nostra mano». A marzo don Mattia ha dovuto dare l’estrema unzione a un ragazzo detenuto in Libia. Racconta: «Si chiamava Sami. Ha provato a fare la traversata e per due volte è stato respinto. La seconda volta è stato deportato in un lager, dove per sette mesi ha vissuto in condizioni disumane. Quando hanno capito che stava per morire, l’hanno liberato. I suoi amici hanno provato a chiamare l’ambulanza, ma non c’era nulla da fare. Perciò hanno deciso di chiedermi una benedizione». In videochiamata è apparso un ragazzo scarnificato con gli occhi impietriti, terrorizzati, che parlava con un filo di voce.

Sono i ragazzi come lui a essere vittime degli accordi tra l’Italia e la Libia: «Ho visto con i miei occhi cose che pensavo fossero consegnate al passato», dice don Mattia.

In Libia non conta la provenienza o l’età. Nei lager ci sono anche minorenni che non riescono a mettersi in contatto con le proprie famiglie: «A questi ragazzi gli Stati europei stanno rispondendo con l’indifferenza».

Don Mattia per ora non sta partecipando alle missioni in mare, perché a maggio è stato minacciato sui social da quella che lui stesso definisce la

mafia libica: «Gestiscono la maggior parte dei respingimenti e dei centri di detenzione, ricoprono ruoli di primo piano e prosperano sui finanziamenti dell’Europa».

Le minacce sono arrivate da un account Twitter che ha aperto nel 2017 e che sistematicamente pubblica materiale sui respingimenti: «Lo fa ovviamente dalla prospettiva della mafia libica per cui i respingimenti sono soccorsi e i centri di detenzione sono centri di accoglienza». Per questo motivo don Mattia sottolinea che in diverse occasioni, anche da parte di esperti internazionali, questo account è stato considerato «portavoce

La solidarietà
Un gruppo di naufraghi poco prima del salvataggio, nell’agosto del 2019
90 8 gennaio 2023
La Mare Jonio durante l’ultima missione, nel gennaio scorso. Sotto, alcuni migranti soccorsi

della mafia libica».

«A un certo punto su questo account sono apparsi la mia foto, il mio nome e cognome». È accaduto anche al giornalista Nello Scavo. Per questi messaggi è stata aperta un’inchiesta dalla Procura di Modena, che ora però ha proposto l’archiviazione suscitando non poche polemiche per i toni e le parole utilizzate. «Non sappiamo se la mafia mi abbia attaccato perché sono cappellano di Mediterranea, perché dico che in Libia ci sono i lager o perché sostengo l’attivismo di chi vuole fuggire dai centri di detenzione».

Per don Mattia pensare che le ong

possano lavorare insieme alla mafia libica è offensivo: «Questa propaganda è manipolatoria. Aiuta soltanto a diffondere una sensazione di pericolo nei confronti dell’altro, che diventa una minaccia: qualcuno da respingere». Oggi chi si occupa di soccorso in mare è di nuovo sotto attacco. Il governo Meloni sostiene che la presenza di associazioni e ong in mare favorisca le partenze dalle coste libiche verso l’Italia. È una tesi che è stata più volte smentita e che ora viene nuovamente sostenuta per limitare il lavoro degli equipaggi. Ma non esistono dati che ne dimostrino l’evidenza. Probabilmente, se non ci fossero le

ong, nel Mediterraneo e nelle prigioni libiche si morirebbe di più. Da quando è stata abolita l’operazione “Mare nostrum”, non c’è nessuna nave finanziata dall’Unione europea o dall’Italia che si occupi principalmente di soccorrere chi attraversa il mare. Ora l’obiettivo è diverso: salvaguardare le frontiere. Ripete don Mattia: «La vera accoglienza è prima di tutto fraternità. Chi migra deve avere la possibilità di farlo in modo sicuro, non come avviene adesso. Aprire i canali legali di accesso significa fare un’importante operazione di giustizia e combattere la mafia».

Le operazioni di recupero dei naufraghi; sotto, un bambino viene trasferito sulla Mare Jonio
8 gennaio 2023 91 Storie Foto: Cortesia Mediterranea Saving Humans

A lezione di fake news Così crescono i piccoli cani da guardia

Il Paese scandinavo è primo al mondo nella classifica sull’educazione ai media. Informazione e giornalismo si studiano sin dalle elementari di Massimiliano Salvo

Nella scuola Hiidenkiven di Helsinki due studenti di 13 anni parlano di fake news con la loro insegnante, Laura Kahlos. «Non ci caschiamo. Sappiamo distinguere le notizie vere da quelle false». Lei ne è convinta e non solo perché i ragazzini frequentano una classe specializzata nello studio dei media. La professoressa Kahlos è una dei 25 mila insegnanti finlandesi registrati a Triplet, il portale della tv pubblica Yle che ogni giorno produce notizie da commentare in classe. Se si considera che in Finlandia lo studio dei media parte alle elementari e che informarsi in casa con giornali e telegiornali è la normalità, ecco spiegata la posizione della Finlandia nella classifica sulla media literacy, l’alfabetizzazione dei media: prima al mondo.

Media literacy: che cos’è «È un argomento fondamentale. Ancora di più in un’epoca di fake news», spiega Timo Koskinen, preside della scuola Hiidenkiven, dove oltre alle materie tradizionali si insegnano giornalismo, fotografia, video e il mondo dei social network, compresi i meme. «Bisogna dare agli studenti la capacità di comprendere in modo critico i media e il loro ruolo nella società». In un momento storico in cui le democrazie sono minacciate

dalla diffusione di false informazioni, la Finlandia sembra raggiungere questo obiettivo. È tra i primi cinque Paesi al mondo per la libertà di stampa nella classifica di Reporters sans frontières ed è prima nel Media Literacy Index 2022 pubblicato a ottobre dall’Open Society Institute Sofia, seguita da Norvegia, Danimarca, Estonia, Irlanda e Svezia. Questo rende la Finlandia il Paese con il «più alto potenziale per resistere all’impatto negativo delle fake news e della disinformazione», spiega l’Open Society Institute Sofia.

In Finlandia, d’altronde, si parla di media literacy dagli anni ’70. «E da una ventina d’anni abbiamo una strategia nelle scuole per educare all’utilizzo dei media in modo interdisciplinare», spiega Laura Makela, senior advisor del ministero della Cultura e dell’Educazione. «Combattiamo misinformazione e disinformazione, ma per riuscirci serve la consapevolezza che queste esistono. In Finlandia si comincia con i bambini e si continua con gli adulti». Makela sa che darsi obiettivi ambiziosi in un Paese ricco da 5,5 milioni di persone — meno degli abitanti del Lazio – è più semplice che altrove, ma sottolinea che il sistema funziona poiché tutte le istituzioni collaborano: il governo, le università, la radiotelevisione pubblica Yle, le biblioteche,

Il modello virtuoso
FINLANDIA
92 8 gennaio 2023

Uno

Storie 8 gennaio 2023 93
studente legge giornali seduto sui divani della Biblioteca Oodi, a Helsinki

le ong, le associazioni, i sindacati di giornalisti.

In classe, per esempio, si impara il processo di nascita delle news, la differenza tra disinformazione (false informazioni diffuse in modo doloso) e misinformazione (false informazioni diffuse senza sapere che siano tali). Ma si studiano anche i rudimenti delle pubblicità, le campagne di propaganda, il potere delle statistiche e del loro utilizzo fuorviante. E così pure la possibilità che foto e video vengano manipolati, che esistano falsi profili social e che agiscano con secondi fini. «Spesso gli studenti creano un proprio media e producono notizie, tramite siti web, articoli, video, foto, interviste», racconta Mari Vesanummi, giornalista di Yle News Class. «Ma anche sketch su TikTok. La disinformazione russa è una realtà e non arriva solo tramite i media tradizionali».

Il fact-checking

A un secolo dall’indipendenza dall’impero russo il rapporto con Mosca è infatti ancora ingombran-

te, considerati i 1.340 chilometri di confine, i tanti rifugi antiatomici e un esercito con centinaia di migliaia di riservisti. La lotta alla disinformazione in Finlandia si è intensificata con la crisi tra Russia e Ucraina nel 2014, in modo da soffocare sul nascere le fake news e impedire che diventassero virali. Proprio in quell’anno in occasione delle elezioni europee a Helsinki è nato Faktabaari, un servizio di fact-checking che verifica le informazioni nazionali e straniere con una qualità riconosciuta a livello internazionale. Tra il 2021 e il 2022 Faktabaari ha aperto le porte a decine di giornalisti italiani, grazie al progetto Erasmus+ “Stop Fake News: come riconoscere le notizie vere da quelle false”, organizzato dall’Ordine dei Giornalisti della Liguria.

La giornalista Piitulainen-Ramsay ha mostrato pratiche diffuse nelle testate finlandesi: come monitorare i flussi di condivisione sui social per individuare notizie virali; come smascherare la presenza di bot; come verificare l’attualità e la veridicità di immagini e video. Nell’affrontare di-

sinformazione e misinformazione politica su Twitter in Italia, non ha avuto dubbi da quali politici partire: Giorgia Meloni e Matteo Salvini.

In Italia si va in ordine sparso Il fatto che i due leader della destra italiana (nel frattempo diventati presidente e vicepresidente del Consiglio) siano considerati potenziali diffusori di fake news la dice lunga sulla diversità della situazione italiana rispetto a quella finlandese. Bastano due dati: l’Italia è al 58° posto nel mondo secondo il World Press Freedom Index di Reporters sans frontières; è al 23° posto nel Media Literacy Index, dietro tutta l’Europa occidentale e alcuni Paesi dell’ex blocco sovietico.

«In Italia non esiste un sistema coordinato per la media education. A livello ministeriale non esiste nemmeno la figura del media educator che è un profilo non solo tecnologico, ma anche culturale», spiega il ricercatore Luciano Di Mele, segretario nazionale di Med-Associazione Italiana Media Education. Dal 1996 Med

Il modello virtuoso
Una lezione sui media nei laboratori dell’Università Haaga-Helia di Helsinki
94 8 gennaio 2023

organizza corsi di formazione, premi e pubblicazioni scientifiche per diffondere una disciplina trattata ancora in ordine sparso, da singoli progetti scolastici a corsi di laurea magistrale. «Di recente è stata istituita la figura dell’animatore digitale nelle scuole, che però interviene su cose pratiche», aggiunge Di Mele. «Ben diversa è la media education, la cui importanza è difficile da far passare perché spesso alla politica non è chiaro l’argomento».

È anche per questo motivo che la Rai, pur facendo sensibilizzazione contro le fake news, si occupa di media education in modo altalenante come mostrano le vicissitudini dell’informazione rivolte ai più piccoli. Alla fine degli anni ’90 è nato un Gt Ragazzi nella trasmissione Solletico di Rai 1, proseguito su altre reti Rai sino al 2014 per poi scomparire. Nel 2021 è ripartito su Rai Kids con due strisce settimanali da questo autunno salite a 15 minuti, il martedì e venerdì su RaiNews e Rai Gulp. «È importante spiegare ai ragazzi le notizie dei grandi e insegnare loro a ela-

borarle in modo critico», spiega Mussi Bollini, vicedirettrice di Rai Kids e ideatrice con la giornalista Tiziana Ferrario del primo Gt Ragazzi. «Al tempo stesso sin dall’asilo bisogna educare all’uso degli strumenti, perché con cellulari e social ormai ogni ragazzo è un piccolo editore. In ogni caso la media education è una disciplina di cui non è tanto necessario parlare: bisogna soprattutto farla».

Finlandia, fiducia record nella stampa Ed è forse per questo che tra i giovani finlandesi non sempre è diffusa la percezione di aver studiato i media: perché la loro analisi avviene «in modo trasversale tra le materie», come spiega Kristina Kaihari della Finnish National Agency for Education durante una lezione sulla disinformazione nella Biblioteca Oodi di Helsinki. «Bisogna dare le capacità di districarsi nel mondo dell’informazione. Lo abbiamo fatto di recente per aiutare nella comprensione delle news legate alla guerra in Ucraina. Ma attenzione: dare gli strumenti

per capire è ben diverso dal fare propaganda».

Sui divanetti della biblioteca, intanto, il 30enne Mika Salonen sfoglia il quotidiano Helsingin Sanomat. Poco dopo, Ellen Forsstrom, liceale di 18 anni, legge lo stesso giornale. «Non so dire se ho studiato media education a scuola, ma abbiamo sempre parlato di attualità e media». Intorno a lei ci sono decine di giovani, uomini, donne e anziani che leggono giornali italiani e stranieri: «Qui è un abitudine; i miei genitori, per esempio, hanno da sempre l’abbonamento all’Helsingin Sanomat». Non sono i soli: con 350 mila abbonamenti e quasi un milione di lettori, questo giornale è presente tra il 75 per cento delle famiglie nella zona di Helsinki. D’altronde i finlandesi, a differenza degli italiani, si fidano degli organi di informazione. Lo dimostra il Digital News Report 2022 del Reuters Institute, che calcola la fiducia nel giornalismo in Italia al 35 per cento e in Finlandia al 69: la fiducia più alta del mondo.

Al centro, caratteri mobili esposti al Päivälehden, il museo della stampa di Helsinki. A destra, l’esterno della Biblioteca Oodi
Storie 8 gennaio 2023 95

CI MANCAVA SOLO IL SUMMER JOBS ACT

Un reality Netflix per ribadire un concetto condiviso dalla tv tutta: il disprezzo per le nuove generazioni scoprire all’improvviso che dovranno guadagnarsi il pane. Ovviamente, avendo il reality vaghe affinità con il reale, la busta paga è rigorosamente in nero e viene erogata da datori astiosi e incattiviti che vengono chiamati boss per alleggerire il clima. Praticamente una fiaba dei fratelli Grimm. A coronare il tutto la voce flautata di Matilde Gioli (infoto),checomeun’orchessa induce i ragazzi in tentazioni continue solo per dimostrarne l’inutilità emotiva. Loro, che addirittura a 20 anni non hanno un posto fisso. Loro, colpevoli di essersi innaffiati di tequila, come se in vacanza si dovesse fare altro. Loro che rimangono almeno perplessi quando si ritrovano immersi nel guano, a pulire gabbie dello zoo cittadino, o sgridati in malo modo perché, incredibile, non riescono a improvvisarsi pasticcieri. Insomma, il capitale umano a disposizione è sicuramente discutibile, ad alcuni manca la parola, le unghie sono fuori scala, l’eccesso di cui si vestono è funzionale alle visualizzazioni. Ma il disprezzo che trasuda nei loro confronti da ogni inquadratura è palpabile, come portatori insani di tutti i mali di una società troppo adulta, figli e figliocci di un sistema in cui il giudizio sprezzante di Briatore sui virgulti scansafatiche si ostina a essere considerato attendibile. Perché alla fine non importa che tu sia originario del Bosco verticale o di Centocelle. Quel che conta è che il lavoro nobilita, il reality un po’ meno.

Ascoltatori, ecco la lista di cinque buoni propositi

Chissà perché li odiamo così tanto. I giovani, le nuove leve, quel popolo di under qualcosa non piace praticamente a nessuno, al punto che appena possibile viene sbattuto in malo modo sul piccolo schermo facendo proprio il grido di battaglia del ministro del Merito sull’umiliazione

come motore fondamentale per la crescita. L’aspetto interessante di questo continuo stropicciamento nelle novelle generazioni è l’ingegnosa creatività con cui si traduce la resa scenica per poter volantinare con presunzione una valanga di moralismi spiccioli. Perché per dare contro ai giovani ci vuole impegno, costanza e dedizione. Come accade in “Summer Job” (Netflix) che pone al centro del raccontino l’annoso problema del lavoro. Sia chiaro: non quello di un mondo occupato da disoccupati, bensì il rifiuto allergico dell’impiego da cui i giovani scapperebbero a gambe levate. Così, con un sadismo di buon livello, dieci nuove leve tra i 18 e i 23 vengono attirati nella trappola di una spettacolare villa sulla spiaggia messicana per

C’è forte bisogno di buoni propositi, nella vita ovviamente, ma anche in quello speciale e dorato sottogenere dell’esistenza che è la musica. Il primo e più importante riguarda proprio noi, tutti noi, appassionati, cultori, semplici ascoltatori, passeggeri momentanei, telespettatori distratti: dobbiamo essere più esigenti, dobbiamo chiedere di più, non accontentarci, non farci sedare dalla pigrizia del già detto, del risaputo, dell’ovvio. Non piegarsi alle semplificazioni dell’algoritmo. Ce n’è bisogno perché, diciamolo pure, senza troppi preamboli, l’anno appena passato è stato decisamente modesto, per non dire di peggio. Anche se solo per gioco andiamo a scartabellare in giro per la rete le classifiche dei migliori dischi del 2022 troviamo ben poco, si percepisce lo sforzo, il raschiare il barile, il cercare pepite d’oro in fiumi e miniere che nel 2022 sono state molto poco generose. La vena è arida, la creatività latita. Buoni dischi ce ne sono, come sempre, soprattutto negli angoli più appartati, ma nel mainstream c’è poco da sorridere. La verità è che la tanto decantata rivoluzione si è inceppata. Il motore si è ingrippato, è bloccato, e la marea montante che ha portato nuovi volti, nuove modalità e nuovi codici, è diventata un carosello ripetitivo, un costante e inesorabile riciclaggio del già sentito. Ma se l’andamento è tutto al ribasso, la colpa è anche nostra. E allora prendiamoci solo qualche minuto e proviamo a immaginare una piccola lista di buoni propositi. Primo: non accontentarsi di quello che ci viene proposto, ritrovare la curiosità, la voglia di ascoltare non solo quello che già conosciamo e amiamo, ma

Ho visto cose/tv
#musica GINO CASTALDO 96 8 gennaio 2023
BEATRICE DONDI

anche quello che è appena oltre, che appartiene a un mondo che è a fianco di quello che già conosciamo a memoria. Secondo: distinguere il vero dal falso, gli imbrogli, i fake che riempiono la nuova scena da tutto quello che ha un minimo di sostanza. Terzo: opporsi alla cancellazione della memoria in atto nel nostro Paese, che è comunque un crimine molto grave per qualsiasi visione culturale di qualsiasi luogo e di qualsiasi generazione. La memoria va coltivata, amata, trasmessa come garanzia della nostra evoluzione. Quarto: per chi al contrario è troppo attaccato al passato e pensa che tutto ciò che è successo negli ultimi vent’anni sia solo spazzatura, vorrei ricordare che abbiano bisogno di vivere nel presente e che se teniamo gli occhi e le orecchie aperte qualcosa di nuovo per cui valga la pena di battersi ci sarà sempre. Quinto: per chi fa musica, spettacoli, arte, comunicazione, vale sempre quello che una volta disse Lucio Dalla: «Ogni trasmissione televisiva, ogni canzone che esce e non ha alcun senso di mistero e di inquietudine, è un delitto, come dare della candeggina nell’acqua da bere di un asilo».

CAPOFAMIGLIA IN UN NIDO DI VIPERE

La protagonista si annuncia al padre mai conosciuto. E le altre donne del suo clan cospirano contro di lui

Sembra un giallo alla Agatha Christie ma siamo in Costa Azzurra e precisamente a Porquerolles, ridente isoletta a poche miglia da Hyères. Sembra anche una storia di donne in rivolta, ma le signore forse non sono migliori del capoclan contro cui cospirano. Per finire - sorpresa - “Un vizio di famiglia” (già “L’origine du mal”) è un film autobiografico: la telefonata con cui il personaggio di Laure Calamy si annuncia al padre mai conosciuto riproduce infatti quella con cui la madre del regista, piccolo borghese di banlieue e donna di sinistra, scoprì a ormai 60 anni il suo vero padre, ricco banchiere di destra. A cui da quel giorno dedicò un’imbarazzante venerazione.

Il resto è pura, sfrenata, trionfale fantasia. Dalla villa sfarzosa e delirante in cui vive l’anziano e malandato Serge (Jacques Weber), al coro di arpie che lo circonda.

La moglie leopardata, accumulatrice compulsiva (Dominque Blanc); l’occhiuta, inflessibile governante (Véronique Ruggia Saura); la figlia ambiziosa che non vede l’ora di impadronirsi del capitale di famiglia (Doria Tillier); la secondogenita scapestrata (Céleste Brunnquell) che con quella telecamera sempreaccesaèun’evidenteportavoce del regista.

Anche se il centro di tutto è lei, la soave, trepidante, deliziosa Laure Calamy, occhioni sognanti e sorriso da vittima in cerca di riscossa. Riuscirà la timida Stéphane (il capofamiglia ha imposto alle figlie nomi maschili) a conquistare quel padre ricco e malato che tanti

anni prima abbandonò sua madre? Sopravvivrà il suo faccino innocente alle trappole di quel nido di vipere? O per esser più concreti: i quattrini del padre le consentiranno di abbandonare la sua vita da operaia addetta a inscatolare sardine?

Avrete capito che Marnier, già regista

dell’altrettanto seducente e insoddisfacente “L’ultima ora”, ama (fin troppo) i sapori forti. E a furia di colpi di scena e invenzioni di regia (tra cui un beffardo “split screen”), si fa prendere un po’ la mano, sacrificando la finezza e la coerenza delle sue invenzioni migliori. Su tutte quella carcerata innamoratissima della protagonista (la sempre sorprendente Suzanne Clément, attrice-feticcio di Xavier Dolan), ostaggio di un copione che a tratti guarda ai suoi personaggi con il loro stesso cinismo. Una leggerezza che Chabrol, modello evidente di Marnier, non avrebbe mai commesso.

“UN VIZIO DI FAMIGLIA” di Sébastien Marnier Francia, 123’

Scritti
buio/cinema
8 gennaio 2023 97
al
FABIO FERZETTI
aaacc
Il

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SE ANCHE CHURCHILL CREDEVA ALL’OROSCOPO

Cara Rossini, come ogni inizio d’anno, questi sono i giorni in cui si scatenano gli astrologi che fanno a gara a raccontarci ciò che ci succederà nel prossimo futuro. Sembra incredibile, ma i numeri stanno a dimostrare che in una società secolarizzata come la nostra, dove nessuno crede più a nulla se non ai soldi, ci sono milioni di persone che ancora seguono gli oroscopi. E questo nonostante il fatto, inevitabile, che le previsioni siano quasi sempre sbagliate. Una mente razionale, di cui dovremmo essere, chi più chi meno, dotati tutti, come può credere che costellazioni lontanissime, composte da stelle che magari non esistono più, possano influire e condizionare il nostro destino? Di più, come può essere che tutti i nati sotto un determinato segno, siano condizionati alla stessa maniera dall’inesistente flusso astrale? Probabilmente tutto è dovuto all’atavica paura dell’ignoto che l’essere umano ha sempre cercato di esorcizzare, ci si rifugia dell’irrazionale per evadere da una realtà che non ci piace. Chi vuol credere negli oroscopi lo fa per affrontare la vita di tutti i giorni e può essere la stessa persona che vuol credere in un dio per affrontare la paura della morte. Mauro Chiostri Caro Chiostri, comunque la si pensi sulla fede religiosa, eviterei di equipararla alla fiducia negli oroscopi: impenetrabile e universale la prima, effimera e intercambiabile la seconda. Gli oroscopi sono al massimo un trastullo per lo spirito, un ricordo di quel pensiero magico che ci ha fatto compagnia nell’infanzia. Credere che il nostro destino dipenda dalla disposizione degli astri al momento della nascita è un’ingenuità consapevole, un piccolo tributo alla speranza che tutto vada bene. Peraltro non c’è neanche bisogno di credere all’astrologia per dare un’occhiata all’oroscopo. Non ci credevano neanche Galileo e Keplero che, pur osteggiando ufficialmente la lettura astrologica del cielo, passarono molto tempo a fare oroscopi (l’uno per divertimento, l’altro per soldi, raccontano gli storici). Sappiamo invece che circa 13 milioni di italiani (secondo una ricerca del Cicap, comitato per il controllo sulle pseudoscienze fondato da Piero Angela) ricorrono non solo all’oroscopo, ma anche a cartomanti, chiromanti, indovini, santoni, sensitivi, tutti autoabilitati a leggere il futuro. Creduloni? Certo. Ma creduloni che vanno a tenere compagnia a uomini come Churchill che fece arruolare un astrologo nell’intelligence britannica per scoprire le mosse di Hitler (a sua volta dedito all’occulto), come Fanfani, che aveva la sua astrologa personale, o anche come Andreotti, Malfatti, De Michelis e ancora oggi tanti altri tra politici, imprenditori e professionisti della finanza che non si muovono se non hanno le previsioni del presunto esperto. L’oroscopo diffuso dai giornali e altri media appare così il più innocuo tra gli strumenti divinatori, anche se è usato come fece diversi anni fa un amico giornalista di un quotidiano che ogni giorno riscriveva di suo pugno il testo del segno zodiacale di una ragazza che stava corteggiando, convincendola via via che l’uomo del suo destino somigliava proprio a lui. E la sciagurata lo sposò.

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