Settimanale di politica cultura economia N. 38 • anno LXVIII • 25 SETTEMBRE 2022 Domenica 3 euro L’Espresso + La Repubblica In Italia abbinamento obbligatorio alla domenica. Gli altri giorni solo L’Espresso 4 euro SPECIALE ELEZIONI Mentre incombe la crisi, si chiude la corsa al voto più strana della storia repubblicana 100 nomi pronti a salire sul carro del vincitore. E l’Istat fotografa un Paese fragile
25 settembre 2022 3 Altan
Editoriale
Prima Pagina
Il momento della verità BrunoManfellotto 12
Cento nomi per Giorgia Meloni SusannaTurco 16
L’arrocco dei leader SimoneAllivaeAntonioFraschilla 22
Sempre più ricchi, sempre più poveri CarloTecce 28
Marche, alle radici del disastro LoredanaLipperini 32
L’alleanza per favorire Putin Catherine Belton 36
Tassisti e balneari difesi dalla destra GianfrancescoTurano 40
C’è l’inflazione e la banca gode VittorioMalagutti 42
Se i prezzi aumentano, aiutiamo i poveri colloquioconDanielCohendiA.Bonalume 44 Salvi solo se solidali ThierryChopin 48 Ancora e sempre vaccini colloquioconGiuseppeRemuzzidiGloriaRiva 50
Un centro europeo per pagare meno i farmaci 52
Psico dramma ChiaraSgreccia 56
Il disagio cresce, pochi gli specialisti MarialauraIazzetti 58
Il prisma delle identità colloquioconLudovicoBessegatodiPietroTurano 62 Aldrovandi, la morte rimossa AdilMauro 66 Spiati, il Watergate greco FedericaBianchi 72
Izyum, la scoperta dell’orrore LorenzoTondo 78 Usa, perché Biden può farcela colloquioconJ.PodestadiM.CavalierieD.Mulvoni 82
Idee
Che noia, quel Calvino PaoloDiPaolo 86
Il canone letterario che non c’è di WlodekGoldkorn 90
Sua Maestà lo stupore colloquioconChandraLiviaCandianidi CarloCrosato 92
La vita non sa raccontarsi DanieleMencarelli 96
La mia patria è la pace StefanoVastano 100
Odio le armi colloquioconChristophWaltzdiClaudiaCatalli 102
Storie
I nuovi italiani senza cittadinanza che cambiano il volto dello sport MarcoGrieco 106
Opinioni
Altan 3
Makkox 8
Serra 27 Corleone 70 Valli 122
Rubriche
La parola 7
Taglio alto 20
Bookmarks 105
Ho visto cose 118
#musica 118
Scritti al buio 119
Noi e voi 120
COPERTINA Illustrazione di Altan
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Venti di guerra, l’Italia si sceglie il futuro LirioAbbate 11
36 78 110 62
86 numero 38 - 25 settembre 2022 25 settembre 2022 5
bella ciao
«Fischia il vento e infuria la bufera»… su Bella Ciao. Certamente non una novità in assoluto, dato che alla canzone partigiana capita con una certa regolarità di ritrovarsi (suo malgrado) nell’occhio del ciclone. E, tipicamente, l’intensità delle polemiche cresce all’avvicinarsi di qualche scadenza elettorale. Come l’attuale, in attesa di conoscere la percentuale dei Fratelli d’Italia eredi del fu Msi, nel loro tribolato processo di normalizzazione che si muove spesso col ritmo del “passo del gambero” (come conferma l’ostentato supporto all’«autocrazia elettorale» di Viktor Orbán). L’ultimo episodio è quello che ha visto al centro la cantante Laura Pausini, la quale si è rifiutata di intonare Bella Ciao durante un seguitissimo programma tv iberico, motivando la decisione col rifiuto di «cantare canzoni politiche» e di «farsi strumentalizzare». La Spagna, peraltro, è il Paese che ha lanciato la serie “La Casa di carta”, diventata successo planetario tramite Netflix, dove si sente spesso risuonare Bella
Ciao con uno straordinario “effetto rimbalzo” della sua notorietà (un po’ come il Gramsci reso global dagli studiosi angloamericani). È una questione di onestà intellettuale. I protagonisti dello show business dovrebbero assumersi la responsabilità di dichiarare in maniera esplicita che il loro fine è quello di non alienarsi delle quote di pubblico. Una cosa discutibile, ma comprensibile dal loro punto di vista. E, pertanto, in questo caso dovrebbero astenersi dall’invocare una loro neutralità di fondo e dal dissertare sulla natura “partitica” del canto partigiano. Infatti, può accadere soltanto in una nazione dalla memoria corta e non condivisa come l’Italia. In qualsiasi Paese normale uno degli “inni” fondamentali della Resistenza, combattuta da tutti gli antifascisti, sarebbe intonato come tale anche dai professionisti della musica. Ma, appunto, l’Italia non lo è, mentre continua instancabilmente a rappresentare uno dei laboratori principali del neopopulismo.
25 settembre 2022 7 La parola MASSIMILIANO PANARARI
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Cronache da fuori
Makkox
Soffiano venti di guerra e l’Italia si sceglie il futuro
Le mosse disperate di Vladimir Putin confermano che il conflitto in Ucraina durerà ancora a lungo. E il nuovo governo italiano non potrà permettersi ambiguità.
E dovrà dire chiaramente come sciogliere i nodi che attanagliano il Paese
Venti di guerra infuriano sul voto italiano e sulle borse del mondo. Li scatena Vladimir Putin che dimostra sempre più di essere un “dittatore” disperato: una mobilitazione militare pianifica ta in Russia e falsi referendum nell’Ucraina occupata sono però segni di debolezza. Putin ha ordinato il coinvolgimento di trecentomila riservisti e ha promesso di usare “tutti i mezzi” per difendere il territorio russo, accu sando l’Occidente di complottare per distruggere il suo paese. Davanti a questa ennesima prova di disperazione e di intimidazione i Paesi europei non devono arretrare, non si possono pie gare alle minacce finanziarie ed economiche con il taglio del gas e l’aumento delle bollette (occorre il tetto al prezzo del gas), e non si può indietreggiare nel sostegno all’Ucraina. E non ci si può rassegnare alla frammentazione del mondo. La Russia di fatto ha violato la Carta delle Nazioni unite e il principio di uguaglianza degli stati e non si può aprire la strada ad altre guerre di an nessione. Chi si considera forte cerca di soggiogare con tutti i mezzi bellici chi è più debole, e questo non è pos sibile. È reale il rischio di divisione del mondo e serve più cooperazione.
Oggi l’Italia è chiamata alle urne, e dal risultato politico si deciderà il fu turo del Paese. Ma è importante che il premier incaricato dal Capo dello
Stato, Sergio Mattarella, abbia come linea guida quello di far restare l’Italia protagonista dell’Unione europea e della Nato, e l’autorevolezza internazionale per garantire la fiducia che abbiamo ricevuto in prestiti miliardari dall’Unione. I politici che andranno a formare il nuovo governo e la nuova maggioranza in Parlamento, devono avere la coscienza e la forza di conti nuare a stare dalla parte di chi è aggredito e dei più deboli, sostenere gli ultimi, rafforzare l’istruzione, avere la responsabilità e l’urgenza di dare ri sposte concrete agli imprenditori e alle famiglie attanagliate dalla crescita costante del costo della vita, aiutare le attività industriali e commerciali che stanno chiudendo mettendo in mez zo alla strada migliaia di dipendenti, scongiurare una crisi senza precedenti sul piano economico-sociale e, contestualmente, soluzioni strutturali a medio e lungo termine. Su questi temi non ci si può dividere fra Nord e Sud. Dopo i tanti bla bla che abbiamo ascoltato durante questa campagna elettorale, la più pazza che la storia repubblicana ricordi, ora è tempo dei fatti. Ora è il tempo di dimostra re da quale parte stanno i politici che andranno a governare l’Italia e quali saranno le loro azioni pratiche e con crete. Perché qui è in gioco l’intera società, non solo quella nera o rossa. Ma i colori della nostra bandiera. Q
25 settembre 2022 11
EditorialeLirio Abbate
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L’Italia al voto IL MOMENTO DELLA VERITÀ La leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni DI BRUNO MANFELLOTTO FOTO DI JEAN-MARC CAIMI E VALENTINA PICCINNI DOPO LA PEGGIORE CAMPAGNA ELETTORALE DI SEMPRE, CHI VINCE DOVRÀ GOVERNARE. E INVECE DI PEPPA PIG AVRÀ SUL TAVOLO LE QUESTIONI FONDAMENTALI. EUROPA E CONTI PUBBLICI 12 25 settembre 2022
Prima Pagina 25 settembre 2022 13
al voto
oi bisognerà governare davvero, non basterà più sparare bufale, diffondere demagogia, parlare alle pance. Perché la campagna elettorale - a memoria di cronista la peggiore mai vista per toni, ambiguità e vaghezza - presto si allontanerà nel tempo e bisognerà scegliere, decidere, schierarsi. Arriverà il momento della verità. E allora saranno dolori. Preceduti da molte avvisaglie.
Abbiamo visto una giovane aspirante premier correre in Andalusia per sostenere Vox, una formazione antieuropeista e neofranchista, nel senso del generalissimo Franco, quello del colpo di stato militare in Spagna e della quarantennale dittatura fascista. Abbiamo visto capi partito sorridere a Putin e ai suoi soldi, attaccare la Nato e opporsi a sanzioni contro la Russia salvo fare precipitosamente marcia indietro, come Salvini e Conte, al mutare delle condizioni belliche. Guerra pacioccona. Abbiamo visto Fratelli d’Italia e Lega regalarci gli uni il video di uno stupro e l’altra quella del consigliere comunale che trascina una rom davanti alla telecamera e dice: «Se vinco io non la vedrete più».
E poi è stato un turbinìo di rigassificatori voluti e negati, di appelli al ministro dell’Interno perché impedisse contestazioni ai comizi (adunate sediziose?), di dentiere donate e di pensioni gonfiate, di tasse tagliate a vantaggio di chi non le paga e di irrefrenabile voglia di “scostamento di bilancio”, cioè più debito e chissenefrega. Una destra scomposta e inquietante che ha oscurato quella del milione di posti di lavoro (Berlusconi 1994), del contratto con gli italiani (Berlusconi 2001) e dell’allarme sugli stupri e l’invasione degli immigrati (Salvini 2008 e 2018).
In questa bolgia urlata, però, c’è stato anche chi come Giorgia Meloni ha cercato di distinguersi per sfoggio di moderazione, sorrisi e toni misurati, Cernobbio e Washington Post. Per poco. Eccola uscire di nuovo al naturale senza svelarci mai quale sia quella vera: parole accorte sull’Europa e sull’euro, fino a ieri descritta l’una come la sentìna di tutte le burocrazie e l’altro come origine di tutti i mali; scostamento di bilancio macché; nessuno è più filoatlantico di me; vedrete che ministri, li mejo fichi del bigoncio; Draghi? ci sentiamo spesso... Poi i toni sono tornati quelli di sempre: gratti Giorgia e spunta Meloni.
Tutto è cominciato con «la pacchia è finita», non ci fa-
remo più mettere i piedi in testa da Bruxelles, vedrete. Seguono l’abbraccio dell’atlantista Meloni al filorusso Viktor Orban e il voto contrario di Fratelli d’Italia (e Lega) alla dura reprimenda del parlamento di Strasburgo contro la «autocrazia elettorale» del premier ungherese. In nome dell’interesse nazionale. Solita solfa, la memoria ci rimanda ad Antonio Martino e a Giulio Tremonti, solo che oggi l’azionista di riferimento della destra non è più Berlusconi pronto a temperare gli eccessi degli alleati e in Europa c’è una guerra.
Non fermiamoci agli slogan. Dietro “la pacchia è finita” si nasconde il no della destra ad abolire il vincolo che frena l’azione dell’Europa: dover decidere all’unanimità. No, la destra vuole che continui così lasciando potere di interdizione ai singoli paesi dell’Unione. Insegue un’Europa più debole, sogna di scardinare la superiorità della legislazione europea su quella nazionale. Ma stando in Europa e negoziando l’Italia ha sempre avuto molto da Bruxelles: valga per tutti l’esempio del Pnrr, più soldi che a tutti. Senza contare la tolleranza che ha accolto nei decenni gli incoercibili sforamenti dei parametri su deficit e debito. Senza l’Euro-
L’Italia
P FRATELLI D’ITALIA NON HA UNA CLASSE DIRIGENTE ADEGUATA A GUIDARE IL PAESE. E APPENA FA FILTRARE QUALCHE NOME AUTOREVOLE, C’È IL FUGGI FUGGI 14 25 settembre 2022
pa, da soli, o magari alleati di Ungheria e Polonia - che ci fanno concorrenza aprendo le porte alle imprese italiane che delocalizzano - saremmo solo più deboli e ininfluenti.
E poi, mirabile, c’è stata l’indignata reprimenda contro Peppa Pig - forse il più fulgido emblema della campagna 2022 - per la comparsa nel cartone animato di una coppia lesbica, due genitori dello stesso sesso. E comunque, via, tutto rientrerebbe negli eccessi elettoralistici se la memoria non ci riportasse al novembre del 2000 quando An, la culla di Meloni, e la Lega votarono nel Lazio e in Lombardia due mozioni per bandire dalla scuola libri di testi giudicati “marxisti” per sostituirli con opere di autori “affidabili”. Piccoli minculpop crescono.
Non basta. Nel cahier de doléances della destra c’è anche il Quirinale, dove premier e ministri sono chiamati a giurare sulla Costituzione, che però i padri fondatori della fiammella che tuttora arde nel simbolo di Fratelli d’Italia non vollero approvare. E c’è Sergio Mattarella al quale Giorgia Meloni non ha mai risparmiato critiche, per il quale non ha votato nella recente rielezione e contro il quale nel 2018 presentò una richiesta di impeachment per
aver bocciato la nomina a ministro dell’Economia di Paolo Savona, profeta dell’uscita dell’Italia dall’euro. E sul cui capo pende il piano per una riforma presidenzialista che lo spingerebbe alle inevitabili dimissioni. Diritti e assetti istituzionali rimessi in discussione, mine sotto le fondamenta della democrazia.
Ma ciò che più spaventa la Meloni è l’economia, le scelte di politica economica che segneranno il destino dell’Italia. Già, ma chi le farà? Da sempre all’opposizione, il suo partito non ha allevato una classe dirigente né si è formato una cultura istituzionale e amministrativa necessaria per governare un Comune, una Regione, il Paese. Ha fatto filtrare nomi di papabili per i diversi dicasteri, ma per il più delicato di tutti, l’Economia, c’è il fuggi fuggi o un significativo caveat. Fabio Panetta, numero due della Bce, in pole position per la successione a Visco in Banca d’Italia, la prima scelta di Giorgia, ha fatto trapelare la sua indisponibilità. Potrebbe restare al suo posto Daniele Franco, anche lui ex Banca d’Italia e all’Economia con Draghi, ma appena s’è affacciata l’ipotesi ha lanciato un messaggio esplicito: «Un Paese più indebitato è un Paese che ha minori margini di flessibilità ed autonomia». Ha meno sovranità. Capito, sovranisti d’Italia?
Un debito elevato condiziona, 2774 miliardi sono un macigno insopportabile, il rapporto con il Pil (134 per cento) è il doppio di quello tedesco (così la Germania si può permettere di nazionalizzare Uniper, colosso dell’energia). E con la guerra, il caro energia e l’inflazione tutto si fa più difficile. Chi viene candidato a ministro dell’Economia lo sa bene, ma sa anche che dovrà fare i conti con una Meloni di cultura statalista e autarchica (ma le nostre imprese macinano la metà del loro fatturato con l’export!) e con un programma della destra che tra flat tax, pensioni, reddito minimo, dentiere e niente Iva sui prodotti alimentari potebbe costare più di cento miliardi. Alla vigilia di una legge di bilancio decisiva e strategica e dell’attuazione del Pnrr che, se davvero venisse rimesso in discussione, sarebbe perso per sempre.
C’è da essere davvero preoccupati, troppe sono le domande senza risposta e davvero fa paura pensare, con il poeta, che le scopriremo solo vivendo. L’economia, e la scelta del ministro adatto, dovrebbero preoccupare anche Giorgia. Certamente ricorda bene com’è finito Berlusconi... Q
Una manifestazione di militanti di Fratelli d’Italia
Prima Pagina
© RIPRODUZIONE RISERVATA 25 settembre 2022 15
Il suo principale pregio, a questo punto, è di essere finita. La più scontata, statica, vacua, povera, campagna elettorale che la storia repubblicana abbia celebrato lascia adesso il posto a una questione che, visto l’andazzo trionfale, è avanzata a passo di leone nel corso delle settimane. Una questione che occupa i pensieri della leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni e, con le dovute proporzioni, del suo cerchio magico o «bunker» (in Fdi c’è chi lo chiama così) e occupa i pensieri della leader assai più di quanto non facciano gli atti della ministra dell’Interno Luciana Lamorgese, le polemiche per i contestatori in piazza, e forse persino la spericolata difesa d’ufficio del premier ungherese Viktor Orbàn (eseguita forse non sapendo la differenza tra una democrazia liberale e una illiberale o, peggio, sapendola benissimo). Una questione che suona così: adesso il potere come lo distribuisco? «Ci sono centinaia e centinaia di poltrone da occupare», sussurra tra il preoccupato e il goloso uno dei consiglieri occulti della regina o meglio del re (Meloni si fa chiamare «il presidente di Fdi», vorrebbe fare «il premier» non ama la declinazione al femminile, le parrebbe di essere discriminata). Si stendono dunque liste, a cento nomi si arriva in un attimo. Di governo, sottogoverno, per la burocrazia, per le partecipate: uno spoils system di tutto rispetto. Anche perché, oltre a tutte le nomine politiche, per la primavera 2023 è previsto un pozzo di no-
MARCELLO PERA
LETIZIA MORATTI
GIULIO
CENTO NOMI PER Marcia su Chigi DI NOME COGNOME GOVERNO, SOTTOGOVERNO, ENTI E BUROCRATI: CHI È SUL CARRO E CHI CI SALE. ECCO COME SARÀ IL PAESE DI FDI. GIRANO GIÀ LE LISTE E IN PRIMAVERA ALTRE 500 POLTRONE IN BALLO REVENANT
EUGENIA ROCCELLA IGNAZIO LA RUSSA
TREMONTI Foto: Agf (9), Getty Images (3), FotoA3
16 25 settembre 2022
GIORGIA MELONI
mine generosissimo per la scadenza dei vertici di Eni, Enel, Leonardo, Poste, Terna, Amco, Consip, Consap, Sogin, Enav, giusto a citare i maggiori: oltre cinquecento poltrone da assegnare tramite Tesoro e Cdp, qualcosa di talmente ampio da aver fatto pensare ai maligni, prima dell’estate, che Mario Draghi o chi per lui sarebbe stato disposto ad allungare artatamente di qualche mese il governo al solo fine di poterle decidere. Ma tant’è: per il futuro, giusto ad anticipare qualche nome, appare già ben posizionato l’ad Claudio Descalzi, per una riconferma all’Eni, l’ad di Terna Stefano Donnarumma, già visto a Milano alla Conferenza programmatica di FdI in primavera, mentre gira anche il nome di Paolo Gallo di Italgas e dell’ex ceo di Fincantieri Giuseppe Bono. Andrea Abodi, ad del Credito sportivo, il nome che Meloni aveva fatto per il Comune di Roma, potrebbe andare a Sport e Salute spa o, secondo altri, alla presidenza del Coni. E si potrebbe proseguire, stile Pagine gialle, per chi se le ricorda.
La destra s’avanza, come mai prima nella storia d’Italia. E il mazzo è in mano a Fratelli d’Italia, mai accaduto sin qui. Bisognerà vedere gli effetti di questa rivoluzione di settembre, di questa Marcia su Chigi. Già se ne possono indovinare i volti, proviamo a fare dei nomi. Tanti da un giorno all’altro si ritroveranno
SORELLE
DANIELA SANTANCHÈ
ISABELLA RAUTI
AUGUSTA MONTARULI
CHIARA COLOSIMO
Susanna Turco Giornalista
Prima Pagina
17
Roberto Cingolani, il ministro alla transizione ecologica che Meloni farebbe di tutto per tenersi, ma che ancora deve essere convinto a rimandare il ritorno al suo mondo, alla sua carriera. Negli ultimi giorni per le caselle del Mef sono spuntate altre due opzioni: da una parte lo spacchettamento, come ai tempi d’oro di Silvio Berlusconi. Dall’altra il nome di Domenico Siniscalco, che nei primi anni Duemila si diede la staffetta con Giulio Tremonti. Ecco: se
tri, Carlo Cottarelli, «nel 2020-21 abbiamo
GUIDO CROSETTO
ADOLFO URSO
GIAMPAOLO ROSSI
FRANCESCO FILINI
GENNARO SANGIULIANO
ANGELO MELLONE
GIOVANBATTISTA FAZZOLARI
PANETTA PER L’ECONOMIA AMBISCE A BANKITALIA. IN CALO MOLLICONE DOPO IL CASO PEPPA PIG, ORSINA CONSIGLIERE PER L’IDENTITÀ CONSERVATRICE, E C’È CHI DÀ RICOLFI ALL’ISTRUZIONE
MINISTERIABILI
18 25 settembre 2022
Siniscalco è in ascesa, Tremonti no. Nota è la sua ambizione di tornare a sedere nella poltrona che lo vide superministro: altrettanto improbabile che si realizzi, a meno di non voler fare la mossa più antidraghiana che esista, posto fra l’altro che super-Giulio spende i tre quarti delle sue dichiarazioni in punzecchiamenti all’ex presidente della Bce. Di qui la sua candidatura con Fratelli d’Italia: una specie di premio di consolazione proprio per poter sventolare il nome di Tremonti senza poi trovarselo in casa. Un paradossale destino tra la vecchia gloria e la bella statuina che coinvolge anche un altro big delle liste: Marcello Pera. L’ex presidente del Senato, data l’età e le condizioni generali, sarebbe visto meglio come presidente di una qualche bicamerale, se mai si farà.
Per le caselle dell’esecutivo si assiste infatti a questo particolare fenomeno: scarsa disponibilità a mettersi in gioco, viste la difficile prospettiva e la credibilità non esattamente granitica di cui godono Meloni e il suo apparato. Insomma anche per chi non concorda con i timori alla Bernard-Henry Lévy e per chi non teme la calata dei lanzichenecchi neofascisti sul Palazzo, lanciarsi nell’impresa e rischiare, magari rinunciando a ottime posizioni o offerte di lavoro, è un’opzione non esente da dubbi. Vale non solo per Panetta o Cingolani. Persino uno come Guido Crosetto, per dire. Cofondatore di Fratelli d’Italia, consigliere ascoltatissimo della principes-
CARLO NORDIO
MATTEO ZOPPAS
GIULIO TERZI DI SANT’AGATA
GIUSEPPE PECORARO
STEFANO PONTECORVO
MATTEO PIANTEDOSI
STEFANO ANTONIO DONNARUMMA
Foto: FotoA3 (4), Agf (9), Getty Images
25 settembre 2022 19
gno di lui più di qua che di là e, visto l’andazzo, potrebbe essere meglio così.
Per il governo si preferisce pescare appena fuori: così l’ex ministro degli Esteri Giulio Terzi di Sant’Agata si gioca il ritorno alla Farnesina contro l’ambasciatore Stefano Pontecorvo, già Alto rappresentante civile Nato in Afghanistan. Per l’Interno, invano desiderato da Matteo Salvini, ci sono l’ex vicecapo della Polizia Giuseppe Pecoraro, già prefetto di Roma (nominato da Maroni), e l’attuale prefetto di Roma, Matteo Piantedosi, che fu capo di gabinetto e di fatto facente funzioni del ministro quando al Viminale c’era il leghista. Una poltrona importante dovrebbe averla Adolfo Urso, presidente del Copasir, fin troppo accurato in questi giorni nella sua funzione di rassicurazione oltreoceano circa l’affidabilità di Fratelli d’Italia. Non è ancora chiaro in che mani finirà la Cultura: dopo lo scivolone su Peppa Pig è però assai più probabile che Federico Mollicone finisca a stampare francobolli che non al posto di Dario Franceschini. Ci sarebbe Luca Ricolfi, editorialista di Repubblica, il quale a sua volta nel partecipare in collegamento alla Conferenza programmatica di Fratelli d’Italia si era però di fatto candidato all’Istruzione. Poi, con questi intellettuali, vai a sapere.
Piacerebbe assai una collocazione per Giovanni Orsina, politologo e docente Luiss, che viene consultato da Meloni per i rinforzi all’identità conservatrice, una per
Luigi Di Gregorio, docente di Scienze politiche all’Università della Tuscia, che viene ascoltato con discrezione per le questioni di campaign management e comunicazione. Cerca un ruolo Riccardo Pugnalin, già socialista e forzista, ex Sky italia, poi Vodafone, che ora dà consigli sulle nomine. Anche Francesco Filini, il coordinatore Ufficio studi FdI, dovrebbe accedere a un ruolo meno invisibile.
Gli intellò della destra del resto non sono tanti. Resta ascoltatissimo Angelo Mellone, che si dice sia pure il ghost writer di Io sono Giorgia. Non manca mai Alessandro Giuli, editorialista di Libero e ormai anche volto tv. Ci saranno sicuramente i volti che aleggiano sulla Rai da tempo immemore: il direttore del Tg2 Gennaro Sangiuliano, quello di Rainews24 Paolo Petrecca. E Giampaolo Rossi, l’ideologo del manifesto dei conservatori, che già si sente talmente in parte da raccontare come sarà la Rai di destra guidata da lui («faremo gli stati generali della tv pubblica») e da offrire consigli sui prossimi palinsesti via comoda intervista sul Foglio: «In questi giorni sto guardando una fiction spagnola molto divertente e coraggiosa. È ambientata durante la guerra civile, ma franchisti e repubblicani si alleano per combattere contro una invasione di zombie», racconta. Bellissima idea, davvero: ancora non è cominciato niente e già sembra di stare in un film di Nanni Moretti. Q
TAGLIO ALTO
MAURO BIANI
ROBERTO CINGOLANI
FABIO PANETTA
Marcia su Chigi Foto: Agf, FotoA3
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Prima Pagina DRAGHIANI
20 25 settembre 2022
L’ARROCCO
Hanno imbarcato dirigenti di partito seppure fuori dalle loro correnti, piazzato fedelissimi e aumentato in alcuni casi il ricorso agli esterni facendo fuori un pezzo di classe dirigente interna. I principali leader che rischiano di essere messi in discussione il giorno dopo il voto comunque hanno provato a blindarsi. Enrico Letta, il duo che bada a Silvio Berlusconi, Licia Ronzulli e Antonio Tajani (che non si sopportano a loro volta) e Matteo Salvini, tutti sanno di giocarsi la gran parte dei propri destini personali in queste elezioni, perché un pezzo di Partito democratico, di Forza Italia e di Lega è pronto ad armargli una guerra a tutto campo chiedendo la loro testa e anche in fretta.
Non a caso, sapendo bene dell’incertezza dell’elettorato e dei sondaggi, comunque hanno giocato in difesa: provando a costruire i futuri gruppi parlamentari dei rispetti-
22 25 settembre 2022 Resa dei conti post-voto ACCERCHIATI, SI SONO BLINDATI DISPENSANDO SEGGI SICURI. LETTA, TAJANI-RONZULLI E SALVINI: GIOCO IDENTICO E MEDESIMO DESTINO. IN BILICO DI SIMONE ALLIVA E ANTONIO FRASCHILLA
DEI LEADER
vi partiti a loro immagine e somiglianza, così da arginare eventuali lotte intestine e richieste di congressi per nominare nuove segreterie. Sembra che si siano messi d’accordo, ma da Letta alla Ronzulli, da Tajani a Salvini, tutti in fondo hanno adottato la stessa strategia che ha, come elemento chiave, quello delle candidature blindate.
LA STRATEGIA LETTA
Il dem Letta su questo fronte è stato uno dei più spregiudicati. Il giorno dopo il voto, comunque vada, sa bene che un pezzo del partito potrebbe chiedere la chiamata di un congresso e c’è chi già parla da candidato segretario: ogni riferimento al governatore della
I leader in bilico: Enrico Letta segretario del Partito democratico. Il duo Licia RonzulliAntonio Tajani, con un pezzo di Forza Italia pronta a chiedere la loro testa a Silvio Berlusconi. Matteo Salvini, che deve vedersela con Massimiliamo Fedriga in pole per prendere il suo posto
Prima
Emilia Romagna Stefano Bonaccini non è puramente casuale. Il segretario dei dem, quindi, non avendo una sua corrente forte ha cercato di prendere fior da fiore dalle varie altre aree blindando alcuni nomi e lasciando autonomia ai segretari regionali, in modo da legarli a sé. Così ha candidato un pezzo di apparato: segretari di grandi città, come quella di Milano, Silvia Roggiani, il segretario regionale della Lombardia Vinicio Peluffo, il segretario del Veneto Andrea Martella, la segretaria della Toscana Simona Bonafé, il responsabile dell’Abruzzo Michele Fina, il riferimento della Calabria Nicola Irto, il segretario della Sicilia Anthony Barbagallo. Ma in lista ci sono anche uomini vicini ai sindaci Pd più in vista, cioè fedelissimi di Roberto Gualtieri, Dario Nardella e Matteo Ricci.
Per essere chiari: Matteo Renzi, quando ha stilato le liste dei dem nel 2018, si è guardato bene dal lasciare spazio ai dirigenti locali,
Foto: L. NariciAgf (2), N. Marfisi -
Agf,
Antonio Fraschilla Giornalista
Simone Alliva Giornalista
25 settembre 2022 23
Pagina
Resa dei conti post-voto
anzi ha provato a farli fuori quasi tutti. Letta ha fatto l’opposto: ad esempio ha lasciato spazio a scelte avallate da Barbagallo, come quella di candidare l’esterna Valentina Scialfa, stimata molto dal presidente del Coni Giovanni Malagò che nel 2018 le aveva suggerito di andare in Forza Italia, cosa che stava avvenendo salvo poi l’alzata di scudi di alcuni dirigenti forzisti come l’assessore regionale Marco Falcone. Adesso è capolista alla Camera nel collegio di Catania per i dem. Letta ha poi cercato di tenersi “amici” il governatore della Puglia Michele Emiliano, che ha candidato il suo capo di gabinetto Claudio Stefanazzi e il segretario regionale Marco Lacarra, e il governatore della Campania Vincenzo De Luca, che ha blindato la ricandidatura del figlio.
IL DUO RONZULLI-TAJANI ALLA PROVA
Sul fronte Forza Italia molti alti dirigenti messi alla porta, come Antonio Palmieri, Simone Baldelli e Renata Polverini, o fortemente ridimensionati nelle loro correnti, come Maurizio Gasparri, aspettano i risultati del voto per iniziare a chiedere a Silvio Berlusconi il passo indietro del duo Ronzulli-Tajani. Anche questi ultimi, pur non amandosi a vicenda, si sono spartiti un po’ di collegi sicuri per attorniarsi di fedelissimi: cosi Tajani ha lanciato il suo braccio destro Paolo Emilio Russo in Sicilia, la Ronzulli ha piazzato Stefania Craxi e la compagna del presidente-padrone forzista Marta Fascina, mentre anche uomini in orbita Mediaset come Giorgio Mulè sono stati più che garantiti. Basterà questa strategia?
IL CAPITANO TREMA
A proposito di test elettorali, anche il Capitano della Lega non dorme sonni tranquilli, lui che alle Europee del 2019 veleggiava intorno al 30 per cento. E per questo i tra leader è forse quello che rischia di più. La foto del giorno, quella da riprendere nel day-after delle elezioni, si sarebbe dovuta infatti scattare poco prima dell’intervento di Matteo Salvini sul palco di Pontida, nel dietro le quinte. Dopo quelli più apprezzati e applauditi di Massimiliano Fedriga, il governatore del Friuli-Venezia Giulia, del collega Luca Zaia, governatore del Veneto, e di Giancarlo Giorgetti. Dietro il palco Fedriga prende il Capitano e gli dà un abbraccio calorosissimo, di cui testimone più prossimo è Zaia che mima
Da sinistra, il presidente dell’Emilia Romagna Stefano Bonaccini, in campo per la guida del Pd. Licia Ronzulli, fedelissima di Silvio Berlusconi. Il governatore del Veneto Luca Zaia, riferimento dei leghisti della prima ora polemici con le scelte di Salvini
gioia. Segue una serie di baci di Giuda prima dell’intervento sui sei punti programmatici sui cui, Salvini invita tutta la Lega a impegnarsi: «Io ci credo e ci metto la firma», dice, su stop bollette e nucleare sicuro; autonomia regionale; flat tax al 15 per cento e pace fiscale; stop Fornero, sì Quota 41; stop sbarchi, sì decreti Salvini; giustizia giusta.
È una recita, un copione a favore di telecamere per smentire l’operazione-sganciamento-Salvini che da tempo agita il popolo verde e arriva ai vertici. «Ne riparleremo il 26 settembre», dicono a mezza bocca, quasi tutti. «Il giorno dopo le elezioni se sarà certificato il raddoppio di Fratelli d’Italia sulla Lega, arriverà il momento di convocare il congresso. E di rimettere a posto pesi, contrappesi, identità e anima. E certo il segretario», spiega a L’Espresso un dirigente, fedele anche nell’outfit al verde Lega Nord e non a un più diffuso azzurro salviniano. «I voti erano qui e non altrove. Li abbiamo regalati».
E non basta la smentita di Fedriga poco convinta, essendo lui in primis l’anti-Salvini più papabile: «Noi siamo un movimento che può ragionare come forse è abituato qualcuno a Roma, dove ci sono le soglie per far fuori uno o l'altro. Ricordo che in alcune Pontida la Lega aveva il 4 per cento».
Non basta aver blindato l'intera squadra che ha rappresentato il partito al governo uscente. Ministri, viceministri, sottosegretari: Giancarlo Giorgetti, Massimo Garavaglia
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e Erika Stefani, il viceministro Alessandro Morelli, i sottosegretari Lucia Borgonzoni, Gian Marco Centinaio, Federico Freni, Vannia Gava, Nicola Molteni, Tiziana Nisini, Stefania Pucciarelli, Rossano Sasso. I capigruppo Riccardo Molinari e Massimiliano Romeo e i vicesegretari Andrea Crippa e Lorenzo Fontana.
In Parlamento per i prossimi cinque anni ci saranno gli uomini della ciurma del capitano, fanno notare. Ma non basta e non serve: «Siamo fedeli al Carroccio non al leader».
Vince la lealtà, sulla fedeltà, fanno intendere. Insomma, una volta entrati in quei palazzi tutto può cambiare e anche velocemente perché la soglia di sbarramento di queste elezioni è psicologica e vincere perdendo a vantaggio dell’alleato Fratelli d’Italia è il punto di rottura, il via liberi tutti che farà partire la valanga dove ognuno di loro, i sommersi e i salvati alle urne, potrà dire quello che pensa del Capitano. Qualcuno si è portato avanti, come Cristian Invernizzi, deputato bergamasco uscente, ricandidato in posizione complicatissima ha più volte sottolineato: «Un congresso lo faremo». Altri restano più cauti ma per questioni tecniche. Solo Matteo Salvini e il consiglio federale possono convocare il Congresso. Al federale troviamo i vicesegretari Crippa, Giorgetti, Fontana, oltre ai segretari regionali che sono stati tutti nominati da Salvini, così come nominati sono i commissari e coordinatori
L’INIZIATIVA
Stefano Disegni firma sei vignette da completare sul tema disuguaglianze a sostegno della campagna di raccolta fondi “Insieme per la giustizia sociale e ambientale” del Forum Disuguaglianze e diversità su produzioni dal basso. La prima battuta vincitrice è di Riccardo Barbieri nella vignetta che pubblichiamo qui. Ogni settimana, per le prossime cinque settimane, una nuova vignetta di Stefano Disegni da riempire verrà pubblicata sul sito e sui canali social dell’Espresso del ForumDD. Per partecipare con la propria battuta, bisognerà essere già sostenitori e sostenitrici della campagna del ForumDD o decidere di diventarlo senza nessuna soglia minima o massima (la donazione alla campagna è assolutamente libera). Tutte le informazioni sull’iniziativa e le modalità per partecipare su www. forumdisuguaglianzediversita. org
regionali che gli hanno permesso di controllare direttamente un partito che è strutturalmente organizzato come una federazione. A quattro anni dalla sua nascita e a due dal commissariamento della Lega Nord, le regole interne restano nebulose. Proprio per questo da quel che resta della Lega Nord illustrano un obiettivo (non nuovo) - rompere il dominio salviniano uscendo allo scoperto. Un nome bene in vista (le ipotesi girano intorno a Zaia e Fedriga) che si alza in piedi, come accadde con Roberto Maroni, e dice: «Io ci sono. Contiamoci». Lo esclude Gianni Fava, che è stato l’ultimo sfidante di Salvini per la segreteria della Lega Nord, non iscritto alla Lega Salvini Premier: «Io ho una buona opinione di Fedriga però non credo che sia in grado di insidiare Salvini all’interno di quel partito che, ormai, ripeto, è un partito personale. O fanno una cosa nuova oppure non è possibile una scalata dentro il suo partito. È fantasia pure. Non c’è un organismo dirigente elettivo, sono tutte persone nominate da Salvini».
C’è da camminare lungo il crinale sottile che separa i malumori ormai plateali della base della Lega dai malumori dei vertici. Bisogna essere pazienti, dicono. L'importante è rispettare i tempi teatrali: perdita, pausa, lacrima, ringraziamenti, inchino, grazie di tutto, adieu. Forse.
25 settembre 2022 25 Foto: R. SerraIguana Press / GettyImages, N. MarfisiAgf, P. TreA3 Prima Pagina
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Satira Preventiva Michele Serra
Il fiume Puleggia minaccia la Valsempia
Il nuovo governo contro il dissesto idrogeologico adotterà le stesse misure dei predecessori: partecipare ai funerali delle vittime
Appena insediato, il nuovo governo dovrà occuparsi della crisi economica, del prezzo dei carburanti, dei rapporti con l’Europa, dello smaltimento di Salvini e di altre urgenti incombenze. Fiumi e crinali potranno così tornare indisturbati alla loro attività preferita, che è allagare e franare, sgretolare e travolgere, in applicazione di alcuni Decreti Legge della natura in vigore da un paio di miliardi di anni: per esempio la legge di gravità, i princìpi dell’idraulica, i fondamenti della geologia, eccetera.
La borsa Il nuovo presidente del Consiglio, al suo ingresso a Palazzo Chigi, inciamperà in una grossa borsa. Contiene, in contanti, i cento miliardi e rotti già stanziati in urgenti opere di messa in sicurezza del territorio, e mai spesi perché mancano la vidimazione del comitato di controllo, il protocollo di applicazione delle Regioni, l’approvazione del Gran Giurì delle Acque, il parere dell’Ispettorato Generale delle Ripe e delle Anse, il nulla osta del Comitato Europeo per il Controllo dei fondi non europei, l’ispezione dei sottosegretariati alle Ghiaie e alla Pesca (oggi accorpati nel Ministero degli Esteri per un disguido burocratico), infine una sentenza del Tar del Lazio. Il nuovo premier farà subito rimuovere la pesante borsa per evitare di inciamparci nuovamente all’uscita. Riposta in
un sotterraneo, la borsa tornerà a galla in occasione della Grande Alluvione di Roma, nel 2027.
L’emergenza Il torrente Pencolo, che bagna i borghi della Valminaccia, è stato deviato a metà Seicento dal conte Bruto Assai (degli Assai di Valminaccia) per ragioni estetiche: voleva che il fiume passasse nel suo giardino. Cento anni dopo, estinti gli Assai, il governo pontificio decise di far passare il Pencolo nel monastero di Santa Priscilla, per irrigare l’insalata delle suore, e ne deviò nuovamente il corso. Terza deviazione del 1950, quando il senatore Mutilo, per mantenere una promessa elettorale, fece passare il Pencolo dal suo collegio, sottraendolo al collegio del rivale, il senatore Pasciuto. Ultima deviazione cinque anni fa, per costruire il prestigioso outlet “Tutto per tutti”. In occasione della sua piena biennale, il Pencolo riprende il suo corso naturale travolgendo, nell’ordine, il giardino degli Assai, il monastero di Santa Priscilla, la casa natale del senatore Pasciuto e l’outlet “Tutto per tutti”.
Il caso limite Il fiume Puleggia, uno dei più suggestivi delle Prealpi, impediva la costruzione di nuovi capannoni in Valsempia.
Il sindaco leghista di Chiusa Valsempia, con l’appoggio entusiasta della popolazione, decise di invertire il corso del Puleggia con un’opera idraulica molto ingegnosa:
l’acqua, gonfia dei gas di scarico del vicino scarichificio, diventa così leggera che risale l’alveo anziché riscenderlo. Attualmente il Puleggia ha accumulato alla sorgente cento milioni di metri cubi d’acqua, che il gas mantiene sospesi sopra le pendici del monte Scivolo. Secondo i soliti ambientalisti menagramo, presto le acque del Puleggia precipiteranno a valle, una decina di città saranno rase al suolo e i capannoni saranno ritrovati, dopo qualche mese, al largo delle coste istriane, con il proprietario ancora alla guida del muletto. Ma le autorità locali smentiscono, e puntano molto sul turismo per valorizzare, nell’immediato, lo spettacolo del primo lago sospeso al mondo, e in futuro il suggestivo canyon che il fiume, tornato in discesa, avrà scavato lungo l’intera pianura padana.
Il nuovo governo Nei confronti del dissesto idrogeologico, adotterà le stesse misure eccezionali prese da tutti i governi precedenti: nel giorno dei funerali delle vittime si partecipa alle esequie. Il giorno prima e il giorno dopo, no. Probabile una Commissione parlamentare sulla crisi climatica. Trattandosi di un problema politico rilevante, si punta a un documento finale congiunto, dal titolo “Se oggi seren non è, doman seren sarà, se non sarà seren, si rasserenerà”.
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Illustrazione: Ivan Canu
Il Paese che verrà
REDDITI IN CALO. DISUGUAGLIANZE IN CRESCITA. GIOVANI IN FUGA. CROLLO DELLE NASCITE. L’ISTAT DISEGNA UN PAESE CON POCO FUTURO
SEMPRE PIÙ RICCHI SEMPRE PIÙ POVERI
Si nasce di meno, si muore di più. Si guadagna di meno, si spende di più. Si resta di meno, si parte di più. Le province si svuotano, le metropoli si affollano. Chi è povero ha molte probabilità di diventare più povero. Chi è ricco ha molte probabilità di diventare più ricco. Se l’Italia di oggi vi spaventa, forse, vi conforta sapere che domani sarà assai peggio.
Gian Carlo Blangiardo, il presidente di Istat, l’istituto nazionale di statistica, si pone all’incrocio dei venti fra le folate di ottimismo e di pessimismo che sferzano la società in attesa, neppure troppo curiosa, di scoprire le sembianze del prossimo governo: «La statistica ci offre l'opportunità di cogliere oggettivamente la realtà del presente, di valutare le dinamiche del passato e di anticiparne l'evoluzione nel futuro. L'atteggiamento ottimista o pessimista - premette Blangiardo all’Espresso - nasce dunque da una sintesi, adeguatamente argomentata sul piano dei dati, di quelle che sono state le esperienze precedenti - con i problemi a suo tempo affrontati e le relative soluzioni - unitamente alla estrapolazione in chiave di futuro di quelle che sono le tendenze in atto e gli scenari che ne derivano. Guardando gli eventi di questi ultimi tempi anni si è pessimisti se ci si sofferma sui duri colpi subiti e sui segni che essi hanno lasciato e che fatichiamo a smaltire, ma si diventa ottimisti se si riflette su come siamo anche stati capaci di reagire a quegli stessi colpi. I
siluri ci hanno colpito, ma non ci hanno affondato. Dobbiamo riparare i danni, e per questo serve che si attivi l'intero equipaggio».
La prima stima dei danni riguarda la demografia. Quanti siamo. Come siamo. All’inizio di gennaio i residenti erano 58,983 milioni. La decrescita avanza con cinica regolarità. Può rallentare. E può accelerare. Gli oltre 60 milioni di abitanti sono già passato. Le recenti previsioni Istat fissano la regressione sotto i 54 milioni al 2050. Non vuol dire che aumentano i parcheggi in città e gli ombrelloni al lido e si sfoltiscono le code in autostrada: non è un numero da trattare con pigrizia intellettuale, è il segnale che il modello italiano di società è in disfacimento. L’ha spiegato l’Istat in un suo recente studio: «Il rapporto tra giovani e anziani sarà di 1 a 3 nel 2050, mentre la popolazione in età lavorativa scenderà in 30 anni dal 63,8 per cento al 53 del totale.
Carlo Tecce Giornalista
DI CARLO TECCE
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La crisi demografica si riflette sul territorio: entro 10 anni l’81 per cento dei Comuni avrà subito un calo di popolazione, l’87 per cento nel caso di Comuni di zone rurali. Previsto in crescita il numero di famiglie, ma con un numero medio di componenti sempre più piccolo. Entro il 2040 una famiglia su quattro sarà composta da una coppia con figli, più di una su cinque non avrà figli».
I dettagli sono ancora più inquietanti. Nel 2011 il tasso di natalità (ogni 1.000 abitanti) era di 9,1 e quello di mortalità di 9,9, nel 2021 la situazione è precipitata con il tasso di natalità a 6,8 e quello di mortalità a 12 con la tendenza, in uno scenario neutro, di toccare 13,3 nel 2042. Nel 2011 l’età media degli italiani era di 43,6 anni, nel 2021 è già salita a 46,2, sfiorerà i 50 nel 2042. I pochi lavoratori dovranno mantenere i molti pensionati. Le comunità dovranno adeguarsi alle esigenze degli anziani.
L’anno scolastico si è aperto nelle scuole statali con la scomparsa di 230.000 studenti e 3.000 classi rispetto al biennio precedente. Non servono più penne, matite, qua-
derni. Il presidente Blangiardo fa un altro esempio: «Il cambiamento demografico procede lentamente, non genera cambiamenti traumatici in tempi brevi e quindi si tende a rinviare il problema perché non è una priorità. Salvo accorgersi che piccoli cambiamenti generano, cumulandosi, veri e propri terremoti e alterano equilibri importanti. Pensiamo alla sanità tra qualche decennio in un Paese che avrà oltre 2 milioni di ultranovantenni e quasi 150.000 ultracentenari. Come si garantirà una qualità di vita dignitosa a tanti vecchi?». Questo avviene in un lungo periodo di graduale declino del benessere sociale. Conquiste che l’Europa e perciò l’Italia davano ingenuamente (o con arroganza) per intangibili. «Abbiamo alcuni indicatori economici, l'inflazione per dirne uno sulla bocca di tutti, che ci fanno temere per la tenuta del tessuto economico e sociale», chiosa Blangiardo. Chi non ha rendite è penalizzato. Più dritta: i giovani sono penalizzati.
In valori assoluti, e cioè senza valutare l’inflazione, nel decennio 2010-2019 i giovani lavoratori fino a 35 anni
25 settembre 2022 29 Foto: Alessandro Serrano’ / AGF Prima Pagina
Il Paese che verrà
CRESCITA SOTTO ZERO
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sono l’unica categoria che ha subito una stagnazione o addirittura una perdita del reddito.
IN DIECI ANNI SONO TRIPLICATI
GLI ESPATRI DI CHI HA MENO DI QUARANTA ANNI. E ORA EMIGRANO
Tra l’ottimismo e il pessimismo si inserisce la rassegnazione. L’assenza della speranza. Si legge in una ricerca Istat sulla mobilità: «La classe sociale di origine influisce ancora in misura rilevante sulle opportunità degli individui nonostante il livello di ereditarietà complessiva in Italia - seguendo, sia pure con ritardo, l’esperienza di molti altri paesi europei - si sia progressivamente ridotto nel volgere delle generazioni. Per la generazione più giovane tale evoluzione non ha, però, portato effetti positivi in quanto è stata accompagnata da un contemporaneo declassamento della loro collocazione e, dunque, da una diminuzione delle probabilità di ascesa sociale». E pare zelante ripetere che al Sud ogni cosa brutta è ancora più brutta, sempre più brutta, irrimediabilmente brutta. Un paio di dati: «Il Mezzogiorno presenta un tasso di
disoccupazione tre volte superiore a quello del Nord-est e doppio rispetto al Centro, con una lunga durata che interessa oltre il 63 per cento dei disoccupati. Il ritardo del Mezzogiorno è evidente: sommando posti disponibili nei nidi e nei servizi integrativi, pubblici e privati, mediamente non si arriva a coprire il 15 per cento dei bambini fino a 3 anni di età. Un valore distante dal parametro del 33 per cento fissato nel 2002 in sede europea come obiettivo per il 2010 e superato in cinque regioni del Centro-Nord». Il presidente Blangiardo
Indicatori demografici. Dati in percentuale MortalitàNatalità Crescita naturale (Per mille abitanti)
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IN MASSA ANCHE CINQUANTENNI E SESSANTENNI
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offre una sintesi con strumenti di lettura non stereotipati: «Il Mezzogiorno ha cambiato orientamento ormai da parecchi anni.ÈBolzano,nonNapoli,laprovinciadovenascono(relativamente) più figli. Lo spopolamento interesserà in misura crescente le aree del Sud e delle Isole, così come i grandi fenomeni legati al cambiamento demografico: la caduta della natalità, l'invecchiamento della popolazione, la trasformazione delle strutture familiari».
Oggi non bisogna avere troppa paura perché domani ce ne vorrà il doppio. Ascensore sociale guasto da tempo. Diseguaglianze sempre più profonde fra i territori. Stipendi più bassi per i lavoratori giovani. Servizi decadenti e soprattutto scadenti. Maggiori risorse per la cura degli anziani. Minori investimenti per l’istruzione.
In questo contesto, come ripetono i bravi opinionisti televisivi, come reagiscono i giovani e non soltanto i giovani? Viaggiano. Emigrano. Scappano. Nel 2010 l’anagrafe ha registrato 33.126 trasferimenti di residenza verso l’estero fra i 18 e i 39 anni. Nel 2019 sono quasi triplicati:
94.457. Anche i residenti tra i 40 e i 64, che si presume abbiano esistenze più radicate, espatriano in massa: 18.125 nel 2010, 48.295 nel 2019.
Si può pensare supinamente che il saldo naturale negativo - la differenza tra nati e morti - e l’emigrazione siano compensate dall’immigrazione. Sbagliato. Anche qui c’è una riduzione delle nuove iscrizioni all’anagrafe di coloro che provengono dall’estero: 447.744 nel 2010, 332.778 nel 2019. La pandemia ha ovviamente frenato o sospeso i flussi. L’entrata di studenti, lavoratori, migranti economici, rifugiati politici è comunque timida. Questo infiacchisce ancora di più la forza produttiva del Paese. Nel breve termine rischia di non essere sufficiente a sostenere gli ingenti costi di una società anziana. Più nascite, più immigrati. Non ci sono altre soluzioni per rimettersi in equilibrio. La propaganda politica non aiuta. I pregiudizi neanche. Osservarsi allo specchio osservando l’Italia di domani è un esercizio fastidioso. Di certo non ingannevole.
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i sono ritrovati sott’acqua poche ore dopo aver ricevuto il messaggio con cui il direttore dell’ufficio scolastico regionale delle Marche, Marco Ugo Filisetti, invitava «all’adempimento del dovere con fede, onore, e disciplina». Sono gli studenti di Cantiano, Ostra, Barbara, Trecastelli, Castellone di Suasa, delle aree intorno a Senigallia e a Sassoferrato. Mentre acqua e fango scorrevano e travolgevano e uccidevano, l’assessore regionale alla Protezione Civile Stefano Aguzzi era a un dibattito elettorale a parlare, sembra, di Putin. Poco prima, Michele Bomprezzi, bibliotecario e operatore culturale, rientrava nella sua casa di Arcevia dopo aver chiuso le porte della Biblioteca comunale di Cupramontana. È uno degli undici morti accertati.
32 25 settembre 2022 MARCHE
ALLE RADICI DEL DISASTRO
Si piange, certo. Ci si indigna, certissimo. Si dimenticherà fra una settimana, tranne coloro che hanno perso una persona amata, la casa, una prospettiva di serenità. Sarebbe importante, però, capire che la catastrofe del 15 settembre non è soltanto la storia di un’alluvione non prevista o non prevedibile, non è solo la spia dell’urgenza della questione climatica che è rimasta quasi sempre sullo sfondo in campagna elettorale. È, invece, una delle storie che dimostrano cosa sta accadendo alle Marche, la terra che, come diceva la scrittrice Dolores Prato, non han labbra per narrarsi: e le labbra che narrano non vengono ascoltate. È una storia di abbandono, del desiderio di sbarazzarsi rapidamente di un modello di cultura e di sviluppo in favore di un altro, perseguito da questa amministrazione e anche da quelle precedenti: divertimento, fabbriche, turismo e meno
Territori in abbandono
I PROGETTI FERMI E LA BUROCRAZIA. E POI UN’IDEA DI DIVERTIMENTIFICIO CHE SI AGGIUNGE ALLE CATASTROFI
DI LOREDANA LIPPERINI
abitanti ci sono meglio è. Vediamo perché.
Sappiamo già, a questo punto, che l’alluvione di Senigallia aveva avuto un precedente solo otto anni fa, nel maggio del 2014, quando lo stesso fiume, il Misa, esondò uccidendo tre persone, ingoiando centinaia di case e provocando 180 milioni di euro di danni. Vengono indagati in otto, compresi due ex sindaci di Senigallia, Maurizio Mangialardi e Luana Angeloni. Da allora, la messa in sicurezza del bacino del Misa non è stata attuata: la cassa di espansione (o le casse: i progetti ne prevedevano diverse) non ci sono. C’è in compenso un nuovo ponte a Senigallia, dedicato al 2 giugno e inaugurato due anni fa: campata unica, parapetto massiccio e senza fessurazioni. Un nuovo muro su cui l’acqua si infrange ed esce e si sparge.
I progetti c’erano, dicono tutti. Ce n’erano tantissimi, di-
cono ancora, che rimbalzavano da Ancona a Roma e si perdevano nel nulla. Burocrazia, dice l’ex governatore Ceriscioli (Pd), che era alla guida della Regione durante il terremoto del 2016 e che, a nostra memoria, ha usato l’identica parola per giustificare lo spaventoso rallentamento non solo della ricostruzione, ma dell’assegnazione delle Sae e della rimozione delle macerie. E se qualcosa è stato fatto, è da quando Giovanni Legnini è diventato commissario per la ricostruzione: da poco più di due anni.
Ma ne sono passati sei. Sei anni in cui i terremotati sono stati non forniti di container nel luogo dove sorgevano le loro case per non disperdere le comunità, come è avvenuto nell’altra grande scossa marchigiana, il 1997, ma deportati sulle coste, dove i vecchi sedevano sulle panchine dando le spalle al mare, per poter guardare le loro montagne. Sei
Le immagini dei soccorsi e dei danni provocati dall’esondazione del fiumeMisa nell’area di Senigallia
25 settembre 2022 33 Foto: Alessandro Serrano’ / AGF (7), Agf, Prima Pagina
anni in cui molti sono morti, di malanni, certo, ma anche di nostalgia. Sei anni in cui molti sono andati via. Sei anni in cui la Sae, le soluzioni abitative provvisorie, sono state assegnate con enorme lentezza, e in molti casi marce e muffite. Quando si ruppero i boiler installati a Visso e Arquata del Tronto, dalla Regione Marche arrivò il commento: «Qui ogni volta che si rompe un tubo sembra si sia rotta una centrale nucleare». L’inverno era arrivato, era il dicembre 2017, e come si conviene nelle Marche montanare, era gelido.
Funziona così. Dopo le visite di rito e le commemorazioni annuali, dopo i primi Natali post-sisma, si dimentica. Si dimentica o si ignora che Visso e Camerino saranno restituite alla vita tra non meno di vent’anni. Perché il terremoto, nella memoria collettiva, si lega alle immagini cui tutti siamo stati abituati: le case sventrate, la quotidianità di un armadio o di un letto o di un cesso esibita, il dettaglio che stringe il cuore (il giocattolo fra le macerie, la fotografia nella cornice infranta, una scarpa, se va bene un velo da sposa). Ecco, il terremoto non è solo questo. Può essere, per esempio, paesi che mentre ti avvicini sembrano intatti sotto un cielo d’autunno senza nuvole, con le roverelle che frusciano al vento, e foglie che arrossano dolcemente, e vi porta a chiedere: ehi, ma non è successo niente, qui? Cosa posso vedere? Dove sta, questo terremoto? Il terremoto sta in tutti i paesi che non fanno notizia perché non sono rasi al suolo, ma inagibili sì, e continuano a esserlo ancora.
Ecco, per le alluvioni succede qualcosa di simile. Si dimentica. Perché se è vero che la burocrazia impantana i progetti, va anche detto che chi vorrebbe trasformare le Marche in un villaggio vacanze è invece velocissimo. Ed ecco che nel dicembre scorso arriva, per esempio, l’ordine di esproprio per gli abitanti di Rubbiano, frazione di Montefortino in provincia di Fermo: via i pollai, le case, i terreni in favore di un progetto da 7 milioni di euro: lo chiamano «sviluppo dell’offerta ricettiva». In altre parole, un resort per i turisti che vogliono visitare le (meravigliose) Gole dell’Infernaccio. Non è il solo. Qualche mese fa, Mario Di Vito scorreva sbigottito su Il Manifesto i progetti presentati dalla Regione Marche per accedere al Fondo complementare Pnrr Sisma 2009-2016: «Due tronconi da 53 e da 50 milioni di euro che prevedono l’installazione nel cratere di
quattro impianti sciistici di risalita, un centro termale, un “parco intergenerazionale solidale”, piste ciclabili, valorizzazioni varie, hub multimediali e “recuperi a destinazione servizi turistici culturali intercomunali”». Il 21 aprile scorso, l’attuale presidente Acquaroli presenta in pompa magna il progetto “Sibillini Mountain Experience”: 36 milioni di euro (29 milioni di euro dal Pnrr, 7 milioni di euro dal privato) nel comune di Sarnano, alle porte del Parco dei Sibillini. Per realizzare: una pista sintetica in Neveplast, nuovi bacini di accumulo idrico per gli impianti di innevamento artificiale, uno zoo (attraversabile in auto come in un safari), tapis roulant, una nuova cabinovia funicolare a terra, una pista per i “gommoni da neve”, una teleferica “a volo d’Angelo”. Solo recentemente il progetto ha ricevuto (su una piccola parte) parere negativo da Legnini.
Queste storie, e la mancata realizzazione dei piani per contenere il Misa, sono la dimostrazione di una lunga storia di disattenzione, mancanza di progettualità, indifferenza, voracità nell’immaginare il tutto e subito: il turismo mordi e fuggi, la svendita dei terreni alle multinazionali per le coltivazioni intensive di noccioleti, il land grabbing dei pascoli sottratti agli allevatori, il culto della grande opera. Leonardo Animali, uno degli attivisti marchigiani che da anni prova a dire che occorre un’altra idea di sviluppo, ha postato una fotografia: è il disastro dell’onda di piena dell’Esino. Ma dove oggi vediamo i detriti lasciati dall’acqua, ricorda, passeranno tra qualche anno i binari del raddoppio della ferrovia Falconara-Orte, lotto 2, esecutivo, finanziato Pnrr, avvio cantieri gennaio 2023. Dopo la Quadrilatero Umbria-Marche, ultimata parzialmente nel 2016 nel tratto Foligno-Civitanova Marche, dopo anni di promesse ai sindaci su famigerati piani di area vasta mai realizzati, e le ruspe sono già al lavoro nel tratto Fabriano-Muccia, continuando a mettere in crisi il territorio a livello ambientale, paesaggistico e sociale.
Mentre alluvioni e terremoti spopolano, prende forma un’idea del territorio che produce divertimento e reddito. Magari col ritorno di Dustin Hoffman che recita, sbagliando, l’Infinito, come nello spot della Regione Marche del 2009.
Case inondate da acqua e fango e cumuli di rifiuti a Pianello di Ostra, Ancona
34 25 settembre 2022 Prima Pagina Foto: Alessandro Serrano’ / AGF (2)
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36 25 settembre 2022 Mosca e i suoi amici UNA RETE DI RAPPORTI E FINANZIAMENTI CON PARTITI DI DESTRA. PER CAMBIARE GLI EQUILIBRI IN EUROPA. IL RUOLO DI BERLUSCONI E DELLA LEGA L’ALLEANZA PER FAVORIRE PUTIN DI CATHERINE BELTON La giornalista britannica Catherine Belton nel suo libro “Gli uomini di Putin” ha ricostruito l'azione di Vladimir Putin per estendere l’influenza russa in Occidente. Pubblichiamo un brano che riguarda l’Italia Catherine Belton, giornalista investigativa, è stata corrispondente del Financial Times da Mosca
a parecchio ormai Mosca si era assicurata sostenitori in tutta Europa. In Germania, Putin aveva un fedele alleato nell’ex cancelliere Gerhard Schröder, che è stato riccamente ricompensato per il suo impegno nel difendere le azioni di Putin in Ucraina e in Siria, e per la sua repressione della democrazia in patria. Insieme a Matthias Warnig, Schröder era nel Consiglio di amministrazione del consorzio per il gasdotto Nord Stream, un progetto da 14,8 miliardi di euro a guida russa per esportare gas direttamente dalla Russia sotto il mar Baltico, bypassando l’Ucraina. In Italia, Putin poteva contare sull’amicizia di lunga data con Silvio Berlusconi. I due uomini andavano in vacanza insieme in Sardegna, e Berlusconi è stato spesso ospite nella residenza di Putin a Soci. Berlusconi è anche membro di una rete finanziaria e di influenza che risale all’epoca sovietica. Alla fine degli anni ottanta la sua casa editrice Fininvest ottenne dalla televisione di stato sovietica uno spazio per trasmettere film italiani. Berlusconi ha poi lavorato a stretto contatto con il banchiere Antonio Fallico, che conosceva intimamente le operazioni di finanziamento all’estero del Partito comunista, e la cui Banca Intesa continuava a essere uno dei principali finanziatori del Kgb capitalista di Putin. Quando il parlamento italiano scoprì che un intermediario collegato alla Gazprom aveva tentato, o così sembrava quantomeno, di far arrivare dei soldi a Berlusconi, i membri sia del Popolo delle Libertà che dell’opposizione dissero all’ambasciatore Usa a Roma che non credevano si trattasse di un episodio isolato.
Questi rapporti erano noti da tempo, ora però le attività della Russia in Occidente stavano chiaramente entrando in una fase molto più attiva. In tutta Europa, Malofeev stava promuovendo un programma populista di destra, una ribellione contro l’establishment liberale. Nel giugno 2014 ha ospitato a Vienna una conferenza per le forze sovraniste in cui la nipote di Marine le Pen, Marion, si è trovata insieme ai leader del Partito della libertà austriaco e del partito di estrema destra bulgaro Ataka, nonché con Serge de Pahlen. Malo-
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Mosca e i suoi amici
feev ha sempre ripetuto che, in quanto sostenitore e protettore di cristiani, il suo appoggio andava a una causa religiosa, non politica.
Ma le tracce dei suoi alleati erano ovunque anche nell’ascesa di Syriza, il partito di sinistra radicale salito al potere in Grecia
A sinistra: Gianluca Savoini all’Hotel Metropol di Mosca. A destra: Silvio Berlusconi e Vladimir Putin. Sotto: Matteo Salvini e Savoini sulla Piazza Rossa
nel gennaio 2015: alcune e-mail trapelate hanno rivelato che l’eurasianista Aleksandr Dugin, che lavorava con Malofeev, lo aveva assistito nell’elaborazione di una strategia e nelle pubbliche relazioni. Malofeev ha anche coltivato rapporti con il partito di destra dei Greci Indipendenti, guidato da Panos Kammenos, un infiammato nazionalista diventato ministro della Difesa. Kammenos era stato un assiduo frequentatore di Mosca ed era diventato amico con Malofeev, mentre il suo Istituto di studi geopolitici di Atene aveva firmato un “memorandum d’intesa” per la cooperazione con l’Istituto russo di studi strategici, che lavorava anche a stretto contatto con Natalja Narocnickaja a Parigi ed era essenzialmente un braccio dell’intelligen-
“Gli uomini di Putin” di Catherine Belton, La nave di Teseo, 780 pagine, 17 euro
ce internazionale russa.
Nessuna di queste attività si è fermata quando gli Stati Uniti e l’Europa hanno imposto sanzioni contro la Russia nel marzo 2014. Al contrario, la Russia ha solo accelerato e intensificato i suoi sforzi per dividere l’Occidente. Le alleanze sono state rinforzate in Italia, per esempio, dove un altro socio di Malofeev ha lavorato insieme a Gianluca Savoini, collaboratore del leader della Lega Nord, Matteo Salvini. Insieme i due hanno creato l’Associazione culturale Lombardia-Russia, che ha cominciato a
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L’ACCORDO TRATTATO DA SAVOINI RICALCAVA LO SCHEMA USATO AI TEMPI DEL PCUS PER FINANZIARE I PARTITI FRATELLI, SPIEGA UN EX UFFICIALE DEL KGB
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promuovere le posizioni di destra favorevoli al Cremlino e ha poi puntato a «cambiare completamente l’Europa».
Lungo il percorso, Savoini ha esplorato le trattative petrolifere legate al Cremlino per finanziare la campagna elettorale della Lega, prima discutendo le vendite attraverso una compagnia petrolifera poco conosciuta, Avangard, che, secondo un’indagine della rivista italiana L’Espresso, aveva casualmente lo stesso indirizzo dell’ufficio di Malofeev nel centro di Mosca. Poi Savoini ha discusso un accordo
per trasferire decine di milioni di euro al partito attraverso il petrolio venduto dalla Rosneft all’Eni. (L’accordo è stato raccontato per la prima volta dai giornalisti de L’Espresso. Ha fatto seguito BuzzFeed, pubblicando una registrazione della conversazione di Savoini nell’ottobre del 2018, in cui parlava dell’accordo, nda). Questi accordi dovevano essere strutturati come i vecchi accordi di finanziamento al Partito comunista organizzati dal Kgb. Il petrolio veniva venduto tramite un intermediario a un prezzo scontato, permettendogli così di trattenere la differenza e di trasferire il ricavato (circa 65 milioni di dollari nel corso di un anno) nelle casse della Lega, ha riferito Buzz Feed. «È proprio come gli accordi di finanziamento che facevamo con le aziende amiche», ha detto un ex ufficiale del Kgb coinvolto in operazioni di compravendita del petrolio dell’era sovietica. Salvini ha negato che la trattativa sia mai andata avanti. Ma secondo una trascrizione delle discussioni, il suo collaboratore Savoini aveva chiarito che l’alleanza nata a seguito dell’accordo proposto doveva diventare il fulcro di una coalizione filorussa in tutta Europa. «La nuova Europa deve essere vicina alla Russia perché vogliamo avere la nostra sovranità», ha detto. «Non dobbiamo dipendere dalle decisioni prese dagli Illuminati di Bruxelles o negli Stati Uniti. Salvini è il primo uomo che vuole cambiare completamente l’Europa... insieme ai nostri alleati», ha continuato, elencando altri partiti di estrema destra filorussi come il Partito della Libertà in Austria, Alternative für Deutschland in Germania e il Rassemblement National di Marine le Pen in Francia. «Vogliamo davvero stabilire una grande alleanza con questi partiti filorussi».
Invece di tentare di rimuovere le sanzioni adeguandosi al sistema liberale occidentale e alle sue regole, la Russia di Putin stava cercando di comprarsi una scappatoia. Ma l’obiettivo era anche molto più ambizioso. Gli uomini di Putin miravano a formare il proprio blocco all’interno dell’Europa e a sovvertire il panorama politico dell’intero continente. E i politici di molti gruppi di estrema destra erano fin troppo ben disposti nel ricevere i fondi neri e soggiacere alle ingerenze del Cremlino. Q
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pagine 34-35: J. BeunardeuHans Lucas / Contrasto, pagine 35-36: IBLShutterstock, V. KorotayevAnsa, S. CavicchiLaPresse
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Politica
TASSISTI E BALNEARI DIFESI DALLA
DESTRA
FRATELLI D’ITALIA E LEGA VOGLIONO BLOCCARE LE GARE
PREVISTE DAL GOVERNO SULLA CONCORRENZA. E METTONO COSÌ
A RISCHIO I FONDI DEL PNRR
DI GIANFRANCESCO TURANO
Se il governo Meloni evocato dai sondaggi sarà la falla decisiva sotto la linea di galleggiamento dell’Ue, si vedrà presto. E non da improbabili fughe fra le braccia della Russia ma dai particolari della vita governativa poco seguiti da pubblico e cronisti. Il governo Draghi sta correndo per portare a casa entro la legislatura i decreti attuativi della legge 118 sulla concorrenza. La norma è stata approvata il 5 agosto ed è entrata in vigore il 27 agosto dopo mesi di battaglia contro categorie protette di varia estrazione come tassisti, balneari, gestori di impianti idroelettrici, aziende di smaltimento rifiuti e concessionari portuali. In nome dell’antiquata direttiva Bolkestein sulla concorrenza approvata da Bruxelles nel 2006, l’Ue pretende le liberalizzazioni della 118 come una delle undici condizioni imposte all’Italia per sbloccare i fondi del Pnrr. Ma il tempo è tiranno e i vincitori designati delle elezioni politiche hanno aperto le ostilità già da prima del consiglio dei ministri del 16 settembre che ha approvato due decreti. Secondo le tre componenti della destra (Lega, Fdi e Fi), non spetta all’esecutivo uscente decidere come si faranno le nuove gare sulle licenze, previste entro la fine del 2024. Il mini-
stro leghista del Turismo Massimo Garavaglia ha minacciato le dimissioni, non proprio un terremoto per un governo che si è già dimesso, salvo l’ordinaria amministrazione. I meloniani sono i più accaniti. Il candidato al Senato Antonio Balboni, avvocato ferrarese cresciuto nel Msi, ha dichiarato che in caso di vittoria le gare sulle concessioni balneari saranno sospese. Il messaggio è stato rilanciato da Riccardo Zucconi, capogruppo Fdi nella commissione attività produttive della Camera, ricandidato il 25 settembre. «La nostra richiesta è perentoria. Il governo non approvi i decreti attuativi sulle concessioni balneari e consenta all’esecutivo che verrà di verificare se e quali possibilità ci sono di preservare la continuità di un settore tanto fondamentale per il nostro turismo». Il parlamentare ricandidato Galeazzo Bignami, fotografato anni fa con un bracciale nazista a una festicciola di addio al celibato, dal sito “La voce del patriota” tuona contro la legge sulla concorrenza: «Non saremo complici di questo scempio». Scempio che prevede la novità del Siconbep, la nuova banca dati
Gianfrancesco Turano Giornalista
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e affari
del Ministero dell’Economia che raccoglierà ogni informazione sulle concessioni di beni pubblici.
Lo spauracchio delle spiagge italiane occupate dalle multinazionali e la rovina dei tassinari a opera di Uber sono carte vincenti del consenso a destra. Ma le rendite di posizione con rinnovo automatico generazione dopo generazione hanno estimatori anche nello schieramento opposto. Mercoledì 14 settembre a Cervia (Ravenna) il convegno organizzato da Mondo balneare, la piattaforma web dei gestori di lidi, ha invitato esponenti dell’intero quadro parlamentare. Oltre a Bignami e a Massimo Mallegni, senatore forzista e parte in causa come imprenditore turistico versiliese, a Cervia c’erano la democrat Manuela Rontini, consigliera regionale dell’Emilia-Romagna candidata all’uninominale al Senato, il senatore grillino uscente Marco Roatti, ricandidato da Giuseppe Conte, e Giovanni Paglia, capolista alla Camera nel plurinominale in Romagna per l’alleanza Verdi-Sinistra. Anche chi non deve andare a caccia di voti come Stefano Fassina, deputato di Leu in questa legislatura, ha pubblicato un libro a fine luglio (“Il mestiere della sinistra”) dove, in polemica con la Bolkestein, si rivaluta il protezionismo applicato
Prima
alle categorie deboli, colpite dalla concorrenza asimmetrica delle piattaforme digitali. Quello che per Fassina è convinzione, per altre forze in calo di gradimento è la solita corsa a chiudere le stalle quando il parco buoi elettorale è già scappato.
Nel caos concorrenziale i paradossi abbondano. Non ci si aspetterebbe di trovare la categoria degli Ncc in polemica con la destra. Eppure un comunicato delle associazioni italiani di noleggio con conducente replica a muso duro ai deputati della Lega di Matteo Salvini. «Le multinazionali non c’entrano niente col Ddl Concorrenza, come dichiarato da loro», si legge nel testo datato 8 agosto. «Qui hanno accontentato la lobby dei taxi, garantendo loro dei diritti che ormai hanno da trent’anni. In questo modo hanno privilegiato un comparto all’interno della stessa legge a danno e a scapito dell’altro comparto, quello degli Ncc».
Sul piano dei numeri l’appoggio dei conducenti privati è una magra consolazione per il centrosinistra visto che a Roma sono registrate 1035 licenze Ncc contro 7800 taxi mentre a Milano il rapporto è 255 Ncc contro 6300 tassisti e a Napoli 153 Ncc a fronte dei 2.370 taxi.
Il caos ideologico-elettorale offre la replica nel caso delle centrali idroelettriche, già colpite dalla siccità. Qui le regioni governate dal centrodestra, soprattutto quelle dell’arco alpino dove si concentra la maggior parte del potenziale energetico del settore, vogliono mantenere il controllo da parte di enti locali a guida salviniana sbandierando l’italianità e proponendo l’allungamento delle concessioni contro la Bolkestein e contro il parere dell’autorità sulla concorrenza (Agcm) che si è opposta sia al rinnovo automatico sia alle gare costruite su misura per avvantaggiare il gestore uscente. Quattro anni prima della legge sulla concorrenza, nel 2018 Matteo Salvini vicepremier aveva regionalizzato le dighe con il Decreto semplificazioni per rafforzare i capisaldi di un consenso che oggi sembra in netto calo rispetto all’avanzata dell’alleata-rivale Meloni. In questo campo il caos è assoluto. Alcuni chiedono l’allungamento del periodo di concessione da 15-30 anni a 60-90 in nome di una strategicità cresciuta con la crisi energetica della guerra. Altri pensano che, in un mercato globalizzato come quello dell’energia, l’italiana Enel o la francese Edf pari sono.
Al di là delle posizioni di principio e della caccia al voto, per rendere pienamente operativa la 118 sono necessari provvedimenti che vanno ben oltre la fine della legislatura. Per i meccanismi della macchina burocratico-legislativa è la tempesta perfetta: crisi di governo, ferie estive, amministrazione ordinaria e quinte colonne sparse. Non a caso la pietra tombale sulla fretta di Draghi l’ha messa il viceministro allo sviluppo economico, il forzista Gilberto Pichetto, capolista alla Camera a Torino. «Spetterà al prossimo governo ultimare l’iter con eventuali correzioni di indirizzo». Non c’è motivo di accelerare quando si esce da un governo con ottime probabilità di entrare nel successivo.
Una manifestazione di tassisti a Roma
25 settembre 2022 41 Foto: Francesco Fotia / AGF
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42 25 settembre 2022 Economia DI VITTORIO MALAGUTTI C’È L’INFLAZIONE E LA BANCA GODE
TASSI IN SALITA, MUTUI E PRESTITI PIÙ CARI. GLI ISTITUTI DI CREDITO
GUADAGNANO E VOLANO IN BORSA. MA SFIDUCIA NEL DEBITO PUBBLICO E CRISI
AZIENDALI SONO IN AGGUATO
Recessione? Quale recessione? Vista dai posti di comando delle grandi banche, la nuova crisi economica che minaccia l’Europa assomiglia molto a un’illusione ottica. Le aziende soffrono, le famiglie tagliano i consumi spaventate dall’inflazione, ma in Borsa gli istituti di credito tengono botta mentre il resto del listino naviga in ribasso. Gli investitori viaggiano al traino dei report positivi degli analisti che raccontano di conti in grande spolvero per i big della finanza nostrana. Lo scenario è cambiato in piena estate, quando la Bce ha invertito la rotta della politica monetaria. Per la prima volta dopo 11 anni, Francoforte ha corretto al rialzo i tassi d’interesse. Al ritocco di mezzo punto deciso il 21 luglio, ne è seguito un altro di 75 centesimi lo scorso 8 settembre. E così, nell’arco di due mesi, l’indice azionario del settore bancario ha recuperato quasi il 20 per cento, mentre la Borsa nel suo complesso, tra alti e bassi, è cresciuta cinque volte di meno, all’incirca il 4 per cento. In generale, i mercati riflettono il rallentamento complessivo dell’economia e la possibilità sempre più concreta che nel primo trimestre dell’anno prossimo Stati Uniti ed Europa scivolino verso la recessione. Per la finanza, invece, il discorso è diverso, perché l’aumento dei tassi d’interesse, almeno nel breve termine, si traduce in maggiori profitti per i banchieri.
«Si è aperta una fase del tutto nuova», riassume Andrea Resti, professore all’Università Bocconi ed esperto di mercato del credito. «I recenti interventi della Bce - spiega Resti - ci hanno riportato in un ecosistema che ha garantito a lungo utili abbondanti per il sistema bancario». In sostanza, nell’ultimo decennio, un decennio di denaro facile e di grande liquidità sui mercati, con il costo del denaro prossimo allo zero, gli istituti hanno
visto crollare i proventi di quella che era considerata la loro attività principale, cioè prendere denaro, sotto forma di depositi, e darlo in prestito. La remunerazione dei conti correnti si è avvicinata sempre di più allo zero e, d’altra parte, sono di molto diminuiti anche i cosiddetti interessi attivi, cioè i ricavi legati all’attività di finanziamento alle famiglie e al sistema produttivo. Il saldo tra gli oneri per la raccolta e i proventi degli impieghi viene indicato nei bilanci alla voce “margine di interesse”. Una voce che negli ultimi anni ha perso peso nel conto economico delle banche a vantaggio delle commissioni da altri servizi, come la gestione di patrimoni e la vendita di prodotti finanziari.
Adesso però la musica è cambiata, si torna all’antico. Approfittando del doppio intervento estivo della Bce, le banche hanno corretto al rialzo i listini. Mutui e nuovi finanziamenti aziendali costano già di più rispetto al giugno scorso. L’Euribor a tre mesi, che è il tasso di riferimento per i prestiti a tasso variabile, ha superato a metà settembre quota 1 per cento, mentre a luglio era ancora intorno allo zero. A queste cifre va poi aggiunto il cosiddetto spread, variabile da banca e banca. Si ottiene così il tasso applicato al finanziamento. Considerando i costi accessori, per un mutuo di 150 mila euro standard a tasso variabile rimborsabile in 20 anni per l’acquisto della prima casa è difficile spuntare meno del 2 per cento l’anno, mentre per il mutuo a rata fissa si arriva oltre il 3 per cento. Le condizioni del finanziamento possono ovviamente variare in base alla durata del prestito e alla quota del valore dell’immobile che viene coperta dal fido bancario.
Vittorio Malagutti Giornalista
Questa è la fotografia del mercato a fine settem-
25 settembre 2022 43 Foto: Alessia Pierdomenico / Bloomberg via Getty Images Prima Pagina
CONTI CORRENTI Uno sportello automatico per prelievi e versamenti. Sempre più numerosi gli italiani che tengono i soldi nei conti correnti, nonostante la remunerazione bassissima o nulla
Economia
bre, ma nelle prossime settimane i numeri andranno di sicuro aggiornati al rialzo. Sulla scia della Fed statunitense che, come previsto, mercoledì 21 settembre ha dato una nuova stretta alla politica monetaria con l’obiettivo di arginare l’aumento dell’inflazione, è molto probabile che in ottobre anche la Bce decida un ulteriore aumento dei tassi. Nelle attese degli analisti, Francoforte potrebbe varare un incremento di 75 centesimi, pari a quello di settembre. Il tasso principale, riferimento per l’intero sistema del credito, arriverebbe così al 2 per cento per la prima volta dal 2009. Facile prevedere, quindi, che gli istituti di credito torneranno a ritoccare verso l’alto i prezzi dei propri prodotti di finanziamento e vedranno di conseguenza aumentare di molto i ricavi nell’ultimo scorcio dell’anno.
Per i banchieri questo è il migliore dei mondi possibili. Secondo una recente ricerca dell’ufficio studi di Citi, a un aumento di mezzo punto percentuale del costo del denaro corrisponde in media l’8 per cento di profitti in più per i maggiori gruppi creditizi europei. I tassi in rialzo, infatti, garantiscono maggiori introiti. I costi, invece, restano pressoché invariati visto che la quasi totalità dei depositi della clientela non viene remunerata e quasi certamente non lo sarà neppure nell’immediato futuro. E d’altronde perché mai le banche dovrebbero pagare per il denaro che ricevono se milioni di italiani sono disposti a parcheggiare gran parte dei loro risparmi su conti correnti che rendono zero? I depositi della clientela residente ammontano in totale a circa 1.800 miliardi, oltre 200 miliardi in più rispetto al febbraio del 2020, prima dello scoppio della pandemia. E anche se da qualche mese le statistiche segnalano un rallentamento del tasso di crescita dei depositi, le banche non hanno davvero problemi sul fronte della raccolta, che a giugno del 2022, ultimo dato disponibile, era aumentata di un altro 3,3 per cento rispetto all’anno precedente. Il funding gap, cioè la differenza tra i prestiti erogati e l’ammontare dei depositi della clientela, resta negativo per circa 200 miliardi, il massimo dal 2019 calcolato sull’intera platea delle aziende creditizie nazionali.
Non c’è inflazione che tenga, allora. Il denaro fermo in banca a tasso zero perde valore di mese in mese, ma questo non basta a scoraggiare la maggior parte dei correntisti. Ecco perché quest’anno il sistema bancario nel suo complesso si prepara a iscrivere a bi-
lancio centinaia di milioni di ricavi in più rispetto al 2021. A dire il vero, gli istituti hanno visto crescere il margine d’interesse già tra gennaio e giugno di quest’anno, un periodo segnato dai primi movimenti al rialzo dei tassi. L’aumento è stato del 7 per cento circa per i sette gruppi più grandi, con Intesa, il leader di mercato, che ha chiuso il semestre con 4,04 miliardi di interessi netti, il 2,5 per cento in più rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, mentre per Unicredit l’incremento è stato di oltre il 9 per cento.
La crescita dei profitti sembra destinata ad accelerare nell’ultimo trimestre dell’anno, ma nel medio termine non mancano le incognite. La prima è strettamente legata ai prossimi sviluppi politici. Le banche italiane custodiscono oltre 250 miliardi di Btp, un tesoro destinato comunque a perdere di valore se le misure di finanza pubblica del nuovo governo dovessero portare a un aumento del
SE I PREZZI AUMENTANO,AIUTIAMO I PIÙ POVERI
colloquio con Daniel Cohen di Anna Bonalume
Presidente e cofondatore con Thomas Piketty della Paris School of Economics, l’economista francese Daniel Cohen, autore in Francia di “Homo numericus” (Albin Michel), analizza le prossime sfide economiche dell’Europa. L’inflazione è tornata dopo un’assenza di circa 15 anni. È la tassa più ingiusta perché colpisce maggiormente le fasce di reddito più basse. È preoccupato per il probabile aumento delle disuguaglianze nelle nostre società? Cosa si può fare?
«Sono ovviamente preoccupato per l’inflazione in quanto tale, ma ancor più per il modo in cui viene affrontata. Negli anni ’80, sotto la politica monetaria di Paul Volcker negli Stati Uniti, furono messe in atto misure molto restrittive per interrompere la spirale inflazionistica che si era verificata negli anni ’70. Ciò ha prodotto una grave recessione e ha causato una grave crisi finanziaria in America Latina. Spero che questa volta si possa fare meglio». In questo contesto, i governi dovrebbero proteggere a tutti i costi le famiglie dalla perdita di potere d’acquisto?
«L’idea prevalente è quella di ridurre l’inflazione attraverso la politica monetaria, riducendo la liquidità. Il professor Francesco Giavazzi, consigliere economico di Mario Draghi,
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ha tenuto una conferenza molto interessante a Parigi in cui ha spiegato che dobbiamo cambiare il nostro modo di pensare. Dobbiamo affidarci maggiormente alla politica fiscale per affrontare l’inflazione, congelando alcuni prezzi e compensando i segmenti più vulnerabili della popolazione con trasferimenti ben mirati. L’aumento dei prezzi dell’energia colpisce le famiglie in modo molto diseguale ed è questa la preoccupazione che possiamo nutrire per la crescita delle disuguaglianze. Sono le classi lavoratrici le più colpite dall’inflazione, poiché sono quelle che dipendono maggiormente dall’energia, spesso vivono lontano dai centri urbani e dipendono dall’automobile, e più spesso l’isolamento termico degli edifici delle classi lavoratrici è molto scarso. Il modo migliore per rispondere a questa inflazione è quindi quello che stiamo cercando di fare in Francia e in altri Paesi in modo non abbastanza sistematico, con una politica di bilancio volta a sostenere le famiglie più vulnerabili». C’è qualcosa in comune tra la crisi del 2008 e quella che stiamo affrontando oggi?
«La crisi che più assomiglia a quella che stiamo vivendo oggi è quella degli anni ’70, all’epoca dello shock petrolifero. Il contesto è molto diverso, ma quello shock ci ha fatto capire quanto la nostra società fosse dipendente dal petrolio. Lo shock petrolifero è avvenuto subito dopo quelli che chiamiamo i trent’anni gloriosi, un periodo di straordinaria prosperità economica, subito dopo la guerra, che ha interessato la maggior parte dei Paesi occidentali come la Francia, dove la crescita media è stata del 5%, o l’Italia, la Germania, gli Stati Uniti. Dopo varie crisi, a partire da quella dei subprime, la pandemia
ha avuto un effetto paradossale: nel 2021, finiti i vari confinamenti, c’è stata una sorta di euforia, il sollievo che i vaccini avrebbero permesso di superare la pandemia. Negli Stati Uniti, questa situazione ha dato origine al fenomeno noto come “great resignation”, le persone non volevano tornare ai loro lavori precari prima della pandemia, e in Francia, gli studenti hanno finalmente potuto lasciare le loro piccole stanze. Rispetto agli anni ’70, la crisi attuale non si verifica quindi dopo 30 anni di abbondanza, ma piuttosto dopo un solo anno di euforia..».
È particolarmente preoccupato per il pesante debito italiano?
«Credo che tutto il mondo sia preoccupato per il debito italiano. Non è tanto il livello del debito a preoccuparci, che attualmente è del 150% del Pil in Italia e del 115% in Francia, quanto piuttosto l’aumento dei tassi per combattere l’inflazione. In Italia stanno aumentando più che in Francia, ad esempio, vicino al 4%, sono raddoppiati rispetto a due anni fa. Questo crea il rischio di panico, di sfiducia da parte dei debitori, che potrebbe innescare una situazione esplosiva. Tuttavia, dobbiamo fare attenzione all’inflazione quando calcoliamo il costo del debito. Se vi do 10 in interessi, non è la stessa cosa con l’inflazione al 10% o al 5%. Il costo del debito si riduce a causa dell’inflazione. La Banca Centrale Europea è preoccupata, ha annunciato che sta monitorando l’aumento dello spread, il differenziale dei tassi di interesse tra Italia e Germania. La situazione non è ancora esplosiva».
La bolletta energetica europea, ai prezzi attuali, è aumentata di oltre 1.000 miliardi di euro rispetto al periodo precedente al conflitto russo-ucraino. Questo rappresenta un
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SE IL TASSO PRENDE IL VOLO (andamento del tasso Euribor a tre mesi, indice di riferimento per i mutui a tasso variabile)
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Foto: Daniel Roland / AFP / Getty Images
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Economia
rapporto debito-Pil e quindi a un allargamento dello spread. Senza contare che il rialzo dei tassi, destinato a proseguire ancora per mesi, non può che provocare un ulteriore calo delle quotazioni dei bond già in circolazione sul mercato. Eventuali svalutazioni dei titoli di stato in portafoglio potranno essere in parte riassorbite senza pesare sul conto economico. Nel futuro prossimo, però, il rischio Btp non potrà non condizionare il futuro delle banche nostrane, che comunque, nei prossimi mesi, saranno chiamate ad affrontare un ulteriore rallentamento dell’economia.
Nello scenario peggiore, il moltiplicarsi delle crisi aziendali potrebbe causare un aumento delle perdite legate a crediti difficili o impossibili da recuperare, proprio come è successo di recente ai tempi del Covid. Durante la pandemia, lo Stato si è fatto carico delle difficoltà del sistema produttivo, aprendo l’ombrello delle garanzie pubbliche per le
BANCHIERE
Carlo Messina, amministratore delegato di Intesa San Paolo
imprese che non erano più in grado di far fronte agli oneri (interessi e capitale) dei prestiti bancari. Adesso che si è chiusa l’emergenza, Roma rischia di dover onorare fideiussioni per svariati miliardi di euro a favore di aziende che non sono in grado di restituire i finanziamenti a suo tempo ricevuti. Per evitare gli effetti negativi di questa bomba finanziaria, il governo ha preparato un piano che punta a spalmare nel tempo il rischio trasferendo i crediti a rischio dalle banche a un gestore controllato dal Tesoro, la società Amco. Per chiudere la partita serviranno anni, ma intanto si profilano già le nubi di una nuova recessione. Sarà lo Stato, con il denaro dei contribuenti, a proteggere un’altra volta le aziende a suon di bonus e garanzie? In caso contrario si moltiplicheranno i crediti a rischio. E allora la festa sarà davvero finita anche per i banchieri.
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impoverimento molto rilevante dell’economia europea e un ulteriore aumento del debito pubblico dei nostri Paesi. Teme le conseguenze della perdita di competitività del nostro sistema economico rispetto a Stati Uniti e Cina? «Per il momento, dato che i tassi d’interesse non stanno aumentando più velocemente dell’inflazione, non c’è alcun rischio di panico. Potrebbe esserci un rischio reale per la competitività se l’Europa, a causa della guerra in Ucraina, diventasse una regione energeticamente più costosa rispetto ad altri Paesi come gli Stati Uniti o la Cina. La soluzione a questo rischio è accelerare la transizione verso fonti di energia alternative e rinnovabili, oppure cercare di importare gas da altri Paesi, come Draghi si è affrettato a fare quest’anno aumentando le importazioni di gas dall’Algeria. Ursula Von der Leyen ha già annunciato di voler portare al 50% l’obiettivo del 35% di energie rinnovabili entro il 2030».
Gli obiettivi di riduzione della CO2 possono compromettere la crescita?
«Quest’anno in Italia c’è stata una crescita significativa del 3%, ma l’anno prossimo sarà pari a zero come negli Stati Uniti. La Cina, che una volta aveva salvato la Germania dalla recessione con una rapida crescita, questa volta è impantanata nei suoi stessi problemi, tra cui una grave crisi immobiliare e una catastrofica politica zero covid. La Germania è il Paese più vulnerabile d’Europa, poiché ha basato il suo modello di crescita sull’importazione di gas dalla Russia per produrre automobili che vengono poi vendute in Cina. Essendo la Germania la più grande economia europea, tutto questo creerà pressioni recessive.
Dobbiamo chiederci cosa significhi oggi crescita, cioè come misurare il benessere, se con il Pil e quindi con il numero di automobili che escono dalla fabbrica o con il criterio di una migliore vita urbana, di una scuola di qualità, di un buon sistema sanitario».
Dopo la pandemia e il conflitto in Ucraina, gli Stati Uniti hanno inaugurato una nuova forma di protezionismo: i piani di investimento pubblico stanno tornando prepotentemente in auge, così come i piani di rilocalizzazione di attività industriali critiche sul territorio nazionale. Stiamo assistendo a un ritorno del protezionismo economico su scala globale?
«Senza dubbio. Tutto è iniziato con la creazione da parte di Trump di tasse sulle importazioni europee e cinesi. Con la pandemia abbiamo scoperto che le catene del valore erano molto fragili. La globalizzazione iniziata con la caduta del Muro si sta ora riducendo e siamo entrati in una fase di progressiva demondializzazione. Quando nel 2008 si è verificata la crisi dei subprime, gli economisti hanno messo in guardia dal rischio di scatenare guerre commerciali come quelle degli anni ’30. Nel 2009 Barack Obama e ha risposto alla crisi dei subprime in modo molto cooperativo, attraverso il G20. Dieci anni dopo, con Donald Trump al potere, la tentazione protezionistica è tornata molto forte. Se Putin si è permesso il conflitto in Ucraina, è stato anche perché ha osservato una tensione molto forte tra Cina e Stati Uniti che gli ha fatto pensare di andare nella direzione della storia provocando l’Occidente».
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Dobbiamo tornare al testo. La dichiarazione Schuman del 9 maggio 1950 offriva un’enorme speranza che, concretizzandosi nell’integrazione europea, ha contribuito alla pace e alla prosperità del continente all’indomani della Seconda guerra mondiale. Cosa ha proposto Robert Schuman? Una “solidarietà di fatto”.
La costruzione dell’Europa è stata innanzitutto un’opera di riscatto dopo il suicidio collettivo delle due guerre mondiali e un atto di sublimazione delle rivalità politiche nazionali attraverso il rifiuto della logica del potere, che ha portato alla stabilizzazione e alla pacificazione del continente. In questo processo di unificazione, l’economia ha svolto un ruolo importante e inizialmente strumentale: nel progetto dei padri fondatori, le “solidarietà di fatto” create dal mercato interno dovevano creare interessi economici comuni scoraggiando l’atteggiamento “ognuno per sé” e rendendo possibile il superamento dei nazionalismi. Sotto l’ombrello della Nato, il discorso europeo avrebbe anche potuto giocare sul ruolo mobilitante della minaccia sovietica e sul “senso della storia”, quello della riunificazione del continente. Un secondo periodo corrisponde all’iniziativa di Jacques Delors, sostenuta da Mitterrand e Kohl: dopo la pace e l’unificazione, l’idea era che la prosperità e la solidarietà dovessero guidare l’adesione degli europei al progetto della Grande Europa.
Il susseguirsi di crisi negli ultimi quindici anni ha mostrato la fragilità dell’integrazione europea, ma anche la sua capacità di resilienza. La solidarietà europea è stata messa a dura prova dalle crisi che hanno colpito gli europei: la crisi del debito sovrano, la crisi migratoria, la crisi sanitaria e ora la crisi energetica. In generale, l’aumento dell’eurodiffidenza in alcuni Paesi negli ultimi anni può essere spiegato al Sud con la percezione di una solidarietà insufficiente di fronte alle crisi: il costo, percepito come sproporzionato, dell’aggiustamento economico e di bilancio richiesto in cambio del sostegno finanziario europeo (Grecia, Portogallo), ma anche l’incapacità dell’Ue di regolare i flussi migratori (Italia). Nei Paesi del centro, del nord e dell’est dell’Ue, invece, è il rifiuto di un’eccessiva solidarietà che ha alimentato l’euroscetticismo di parte della popolazione, insieme ad alcune politiche governative, sia su questioni finanziarie
SALVI SOLO SE SOLIDALI
La crisi finanziaria aveva messo Nord contro Sud. Pandemia e guerra dimostrano che difendere i singoli Paesi significa difendere l’Unione
DI THIERRY CHOPIN
(Germania, Finlandia) sia sulla questione dei rifugiati (gruppo di Visegrad). In alcuni casi, gli stessi Paesi che chiedono solidarietà in un’area la rifiutano in un’altra. Il sovranismo si accompagna anche all’emergere di populismi nazionalisti autoritari e “illiberali” in alcuni Stati (in Ungheria e Polonia, ma anche ad Ovest e a Sud, come in Francia e in Italia).
L’AUTORE
Thierry Chopin è un politologo specializzato nell’Ue. Insegna all’Università di Lille e al Collège d’Europe di Bruges, e in precedenza a Sciences Po.
Thierry Chopin è consulente speciale dell’Istituto Jacques Delors
Più recentemente, la crisi sanitaria del Covid-19 ha inizialmente rivelato il riemergere di un divario Nord-Sud come durante la crisi greca. Tuttavia, la situazione di allora era molto diversa: nel 2010, la crisi aveva evidenziato il fallimento di alcuni Stati membri ed era una crisi asimmetrica; nel 2020 invece, nessuno Stato membro era responsabile di una crisi sanitaria che, in quanto globale, ha colpito tutti (crisi simmetrica). Le contrapposizioni iniziali tra gli Stati e le opinioni pubbliche che chiedevano solidarietà da un lato e quelli che la rifiutavano dall’altro hanno avuto conseguenze molto negative, in particolar modo hanno causato il deterioramento delle relazioni tra i capi di Stato e di governo, che non poteva che produrre risentimento e rancore. Da questo punto di vista, l’evento più importante dell’anno 2020 a livello di Ue è stata l’adozione del piano di rilancio europeo (Next Generation Eu), il cui accordo sul prin-
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Europa Oggi
cipio dell’indebitamento comune ha implicazioni fondamentali in termini di politica, sovranità e solidarietà. Dal punto di vista dell’Ue, si tratta di un potente simbolo di unione politica e di un forte impegno per il futuro a ripagare insieme in modo solidale. Questa decisione ha posto le basi per la creazione di un Tesoro europeo - la Commissione europea ha iniziato a svolgere questo ruolo - e la possibilità di un’emissione comune di debito sovrano servirà come protezione europea per i debiti nazionali. Tuttavia, la domanda chiave è: questa decisione è temporanea ed eccezionale? Oppure si deciderà di radicare l’impegno preso e rendere permanente un cambiamento di natura così fondamentale?
Oggi, nel contesto della guerra in Ucraina, gli europei stanno affrontando la più grave crisi energetica dalla fine della Seconda guerra mondiale. Questa crisi mette in gioco la capacità degli europei di essere uniti e solidali nel far fronte alle circostanze eccezionali che devono affrontare. Tuttavia, ad oggi, questa unità e solidarietà non sono evidenti e, al contrario, forti tensioni politiche potrebbero minacciare la coesione dell’Unione Europea in un contesto in cui la strategia di Putin consiste nell’utilizzare il gas come arma di ricatto energetico per dividere gli europei.
Prima Pagina
IL TEMA
Fin dalle origini dell’Unione Europea dopo la Seconda Guerra Mondiale, la “solidarietà di fatto” prometteva prosperità e pacificazione del continente.
Le crisi susseguenti degli ultimi anni hanno evidenziato la fragilità dell’integrazione europea. L’unica soluzione alle minacce esterne (e interne), allora come oggi, è il rafforzamento della solidarietà tra gli Stati membri. In caso contrario, l’apertura europea cederà inevitabilmente il passo al ripiegamento nazionalista
Inoltre, questo rischio di frattura è aumentato dall’esposizione eterogenea degli Stati membri al gas russo. La solidarietà energetica europea e la coesione politica sono necessarie. È essenziale riconoscere che la risposta deve essere europea e che, proteggendo i Paesi che negli ultimi anni hanno commesso gravi errori nella loro strategia energetica, si protegge l’Europa. Il rischio di dislocazione energetica deve essere superato a tutti i costi e noi dobbiamo essere uniti.
Se non si organizza la solidarietà tra gli Stati membri dell’Ue, l’apertura europea cederà inevitabilmente il passo al ripiegamento nazionalista. Tuttavia, questo non può di per sé fornire una soluzione a una crisi che trascende chiaramente le nazioni europee, come nel caso dell’attuale crisi energetica. Non prendere sul serio la richiesta di solidarietà europea equivarrebbe a tornare all’Europa “del passato” e a riprendere il filo di una storia di divisioni politiche che la costruzione europea non ha fatto sparire, ma che è riuscita a circondare di garanzie. Soddisfare questa richiesta di solidarietà è nell’interesse nazionale di tutti gli Stati membri e nell’interesse comune dell’Unione. Q
Traduzione: Amélie Baasner e Amanda Morelli
Ursula von der Leyen e Mario Draghi presentano il piano Next Generation Eu
25 settembre 2022 49 Foto: Getty Images
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E SEMPRE
VACCINI
COLLOQUIO CON GIUSEPPE REMUZZI DI GLORIA RIVA
er mesi è stata l’oggetto indispensabile da portare sempre con sé. La mascherina. Oggi è quasi difficile trovare una fra la folla. Il crollo di attenzione verso il Covid viene certificato dai dati della campagna vaccinale: solo un over sessantenne su cinque è corso a fare il richiamo vaccinale, come gli è stato consigliato. Giuseppe Remuzzi, direttore scientifico dell’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri e professore per chiara fama all’Università degli Studi di Milano, hanno ragione gli italiani a cantare vittoria? Siamo fuori dalla pandemia? La variante B.5 è stata l’ultima?
«La fine dell’epidemia da Sars-coV-2 è legata a due cose. La prima è che, come per la poliomielite, se non vacciniamo almeno
il 90 per cento della popolazione mondiale non possiamo dire di aver sconfitto il Covid perché il virus potrebbe diffondersi e mutare facilmente nei paesi poveri, dove moltissimi non sono vaccinati, e riproporsi in forme anche più aggressive, specie per i bambini. La seconda è che il mondo dei sanitari e dei medici deve iniziare a dialogare con matematici, ingegneri, veterinari, agronomi e più in generale con esperti della salute degli animali, degli insetti e delle piante per arginare il salto di specie del virus. Ad esempio il Covid è passato ai cervi negli Stati Uniti e quando il virus si diffonde agli animali selvatici l’evoluzione del vi-
Gloria Riva Giornalista
50 25 settembre 2022 Covid e sanità
ANCORA LA CAMPAGNA D’AUTUNNO VA A RILENTO. MA BISOGNA FARE LA QUARTA DOSE. E TORNARE ALLE MASCHERINE NEI LUOGHI AFFOLLATI. PARLA UNO DEI MASSIMI ESPERTI P
rus diventa molto difficile da controllare e ci si deve preoccupare parecchio. Entrambi questi fattori non si sono verificati, quindi è probabile che continueremo a sentir parlare di Covid». Nelle scorse settimane l’Fda e l’Ema, ovvero l’agenzia regolatoria americana e quella europea per i medicinali, hanno approvato i vaccini bivalenti di Pfizer BioNTech e quello di Moderna che coprono la variante originaria di Wuhan e la variante Omicron B.1. Entro fine mese, in seguito a un’analoga approvazione dei due enti, sarà sul mercato europeo anche il vaccino bivalente che offre una copertura per la variante Omicron B.4 e B.5, ovvero le ultime in circolazione. Cosa devono fare gli italiani? Correre a vaccinarsi o attendere l’arrivo delle nuove fiale?
Prima
Al lavoro per la produzione del vaccino Biontech Pfizer nei laboratori tedeschi Allergopharma a Reinbek, nei pressi di Amburgo.
In alto, a destra: Giuseppe Remuzzi
«Quello che sappiamo è che i nuovi vaccini (sia quello che copre per la variante originaria di Wuhan e B1, sia quello per B.4 e B.5) offrono sostanzialmente una protezione simile a quella precedente e non garantiscono una super protezione rispetto al booster che abbiamo utilizzato fino a poco tempo fa. I test di efficacia avevano dimostrato che i vecchi vaccini riducevano il rischio della malattia di più del 90 percento. Questi studi sono stati fatti su migliaia di pazienti che hanno ricevuto o un vaccino o un placebo per osservare chi si infettava e chi no. Di norma ci vogliono anni per compiere questi studi, ma nel caso del vaccino contro il Covid, grazie a Stati Uniti ed Europa che hanno investito miliardi per concludere velocemente la fase di studio, è stato possibile ottenere i risultati in meno di dodici mesi. I nuovi vaccini bivalenti, invece, sono stati testati in piccoli gruppi perché non era più etico dare a metà dei candidati il placebo e vedere se si infettassero o meno, dopo tutto quello che abbiamo scoperto sul Covid e sulla capacità del vaccino di risparmiare 20 milioni di morti fra Europa e Stati Uniti (e se l’avessimo distribuito anche al resto del mondo il conto sarebbe stato di gran lunga superiore). Quindi si è deciso di considerare la risposta immune dei partecipanti al trial scientifico, in particolare di calcolare la presenza di anticorpi neutralizzanti nel sangue e compararla agli anticorpi presenti in persone che avevano ricevuto il vaccino convenzionale, cioè quello precedente. È stato dimostrato che chi ha ri-
25 settembre 2022 51 Foto: C. CharisiusPoolAfp / GettyImages, S. AgazziFotogramma
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Covid e sanità
cevuto il nuovo vaccino bivalente ha solo una volta e mezzo più di anticorpi immunizzanti rispetto a chi ha avuto quello precedente».
Quindi è meglio attendere il nuovo vaccino?
«Alcuni studi dicono che un dosaggio maggiore di anticorpi immunizzanti nel sangue equivale a una migliore protezione nei confronti del Covid. Di quanto migliore, però, non lo sappiamo e comunque l’aumento di una volta e mezza degli anticorpi non è un dato impressionante. Facciamo un esempio. Immaginiamo una popolazione dove la metà delle persone è già protetta contro l’infezione perché è stata vaccinata o ha preso il Covid. Se diamo il nuovo vaccino bivalente alla restante parte della popolazione arriviamo al 90 per cento di protezione dai sintomi. Se invece diamo una dose del vaccino più tradizionale arriviamo a 86 per cento. A livello individuale, secondo un recente studio pubblicato da Nature, la probabilità di contrarre la malattia severa se si assume il
A destra: ancora i laboratori di Reinbek
UN CENTRO EUROPEO PER PAGARE MENO I FARMACI
Quindici euro a dose. È il costo medio di ogni vaccino pagato nel 2021 dall’Unione Europea (e quindi dagli Stati che ne fanno parte) per immunizzare l’80 per cento della popolazione del vecchio continente nel 2021. A stabilirlo è l’indagine condotta dalla Corte dei Conti Europea sul primo anno di campagna vaccinale contro il Covid, secondo cui a fine novembre dello scorso anno la Commissione aveva stipulato contratti per un valore di 71 miliardi di euro per acquistare fino a 4,6 milioni di dosi di vaccino contro il Covid. Una cifra enorme se si considera che studi indipendenti dell’Imperial College e del Journal of the Royal Society of Medicine stimano il costo di una dose di vaccino a massimo tre dollari l’una. L’Unione Europea ha poi ricevuto 952 milioni di dosi, per lo più del vaccino di Pfizer BioNTech. E per il 2022? I dati non sono ancora disponibili, anche se la Corte dei Conti fa notare che la fornitura vaccinale per l’anno in corso e per il 2023 è frutto di una mediazione diretta fra i vertici della casa farmaceutica americana Pfizer e la presidente della Commissione Europea, Ursula Von Der Leyen, per ottenere 900 milioni di dosi. Il costo e i dettagli di tale operazione
non sono stati resi noti, nonostante le insistenti richieste di trasparenza sugli accordi siglati da parte della società civile. Di fatto molte delle dosi ordinate restano inutilizzate nei magazzini di mezza Europa perché l’attenzione verso il Covid si è molto ridimensionata. Succede anche in Italia, dove ci sono oltre cinque milioni di dosi scadute o prossime a scadere entro fine settembre. E altre 40 milioni scadranno entro fine anno, se la campagna vaccinale continuerà ad essere così sotto tono: dei 17,1 milioni di italiani a cui viene raccomandata la quarta dose, solo tre milioni - cioè meno di un quinto - si è già immunizzato. Neppure l’arrivo dei nuovi vaccini bivalenti, quelli che contengono il ceppo B.1, ha di fatto convinto gli italiani a immunizzarsi. Nel frattempo l’Europa sta predisponendo un piano di risposta in caso una nuova pandemia e di future emergenze sanitarie, finanziando con un miliardo di euro l’anno Hera, Health Emergency Preparedness and Response Authority, che sta diventando una centrale di acquisto di farmaci e vaccini, e fra qualche giorno sapremo se l’Europa ha anche intenzione di creare un proprio centro di ricerca biomedica per lo studio e la realizzazione di nuovi farmaci e vaccini
DOSI L’arrivo delle prime dosi di vaccino all’aeroporto di Pratica di Mare.
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Prima
vecchio vaccino o quello nuovo è praticamente la stessa, con una variazione dell’uno per cento fra l’uno e l’altro antidoto. A livello di protezione collettiva, il report su “Nature” dice che, su mille persone che partecipano alla campagna vaccinale basata sul nuovo antidoto bivalente si verificano in media otto ospedalizzazioni in meno rispetto a un’identica campagna vaccinale basata sulla fiala tradizionale. L’avere meno ospedalizzazioni e malattie severe sarebbero da sole un buon motivo per raccomandare una vaccinazione a tutti coloro che hanno più di 12 anni».
E se l’autunno dovesse portare con sé
una nuova variante e quindi un nuovo picco di infezioni?
«Di fronte a uno scenario del genere i vaccini basati sulla variante Omicron, quindi i nuovi antidoti da poco approvati, potrebbero dare una protezione maggiore rispetto a quelli basati solo sul ceppo originario di Wuhan».
Quindi cosa consiglia agli italiani?
«Il vaccino più importante è quello che si riesce ad avere. A chi ha più di cinquant’anni e ai fragili, alle persone che per qualche motivo hanno il sistema immunitario compromesso o che hanno una malattia autoimmune, ai trapiantati e ai malati di tumore, il booster va fatto subito, con il primo vaccino disponibile».
In realtà la campagna vaccinale in corso è pesantemente sotto tono. Le persone candidate a riceverla sono 17,1 milioni, ma al momento solo tremila persone l’hanno ricevuta. La verità è che del Covid non si parla più e c’è molta meno paura di contrarre la malattia. «C’è meno attenzione, è vero. Ma fare la
innovativi, con l’obiettivo di rendersi più autonoma dalle case farmaceutiche americane, che possono contare sugli studi pubblicati dall’americano Nih, National Institute of Health, finanziato con 41 miliardi l’anno di investimenti pubblici. La proposta, lanciata dal Forum Disuguaglianze e Diversità e poi sviluppata dal professore Massimo Florio della Statale di Milano su richiesta dello Science and Technology Panel del Parlamento Europeo, è stata sostenuta da decine di scienziati, fra cui Giuseppe Remuzzi, Giorgio Parisi, premio Nobel per la Fisica e Silvio Garattini, presidente dell’Istituto di Ricerche Farmacologiche. Il prossimo 28 settembre si svolgerà al parlamento europeo di Bruxelles un’audizione per stabilire se un centro di ricerca pubblica europea con un bilancio annuo di circa sette miliardi di euro, simile a quello dell’Agenzia Spaziale Europea, potrebbe evitare gli errori commessi dall’Europa nell’approvvigionamento di
vaccini, in termini di costi, di logistica e priorità. All’audizione, a cui prenderanno parte esponenti della Commissione europea che dovranno soprattutto valutare la sostenibilità economica del progetto, parteciperanno membri dell’americana Nih, dell’European Molecular Biology Laboratory e la federazione europea dell’industria farmaceutica per entrare nel dettaglio della fattibilità di un simile progetto. «La creazione di un centro di ricerca europea per lo studio di nuovi vaccini e farmaci rappresenta uno snodo importante per rendersi autonomi dalla predominanza delle multinazionali del farmaco che si trovano per lo più negli Stati Uniti. Va ricordato che le due società americane, Pfizer e Moderna, sono riuscite a creare un vaccino prima degli altri perché hanno potuto contare sui risultati delle ricerche compiute dal National Institute of Health americano», spiega il professor Massimo Florio, che conclude: «A differenza del Nih, il futuro polo europeo avrebbe la caratteristica di mantenere la proprietà e il controllo sulle scoperte scientifiche senza cedere il brevetto alle case farmaceutiche», un’azione che consentirebbe di contenere fortemente i costi finali di messa in commercio dei futuri medicinali.
G.R. Q
25 settembre 2022 53 Foto: Ansa, X. HeinlPhototek / GettyImages
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quarta dose è fondamentale perché a distanza di due mesi dall’ultima iniezione del ciclo vaccinale completo, composto da tre dosi, gli anticorpi cominciano a diminuire per poi ridursi drasticamente a distanza di quattro mesi. Certo, restano in circolazione le cellule T e B della memoria, ma non esistono sufficienti studi e certezze tali da assicurarci che siano in grado di riprodurre gli anticorpi necessari. Inoltre la quarta dose, l’abbiamo osservato da studi sulla popolazione di Israele e pubblicati su riviste scientifiche, fa risalire gli anticorpi a livelli di un mese dopo la terza dose. C’è quindi un’indicazione per i pazienti fragili a farla subito, mentre gli altri possono certamente attendere qualche settimana in più». All’opposto le istituzioni e il servizio sanitario stanno continuando a concentrarsi molto sul Covid.
«Per diverse ragioni c’è un’attenzione spropositata sulle morti da Covid. Nel mio ospedale, il Papa Giovanni XXIII di Bergamo, la terapia intensiva diretta da Luca Lorini ha 80 letti e tra il primo di giugno e il 31 agosto in questo reparto sono deceduti 60 pazienti. Di questi, tre sono morti per Covid altre 24 persone sono decedute per motivi che non sono neanche stati ag-
e sanità
gravati dal Covid (per esempio incidenti stradali, infezioni o emorragie cerebrali) ma con tampone positivo. Quindi ufficialmente il conto dei pazienti morti di Covid è di 27 persone su 60, ma in realtà sono solo tre i morti per Covid. In questo momento l’enfasi sul Covid sottrae attenzione e risorse alla cura di altre malattie e alla prevenzione da altri virus. Questo non significa che possiamo dimenticarci del SarsCoV-2, che è un patogeno in grado di mutare tantissimo e potrebbe presto presentarsi una nuova variante, magari anche più aggressiva delle precedenti. Il Covid è una malattia sulla quale non è possibile fare previsioni e se qualcuno ha delle certezze su questo virus non credeteci». Nei trasporti è indicata la mascherina, suggerirebbe di indossarla altrove? «Anche all’aperto quando ci sono aggregazioni di tante persone che festeggiano o parlano ad alta voce». Come dobbiamo comportarci nei confronti dei bambini, per loro c’è qualche rischio in più?
LA FINE DELLA PANDEMIA NON È
VICINA. BISOGNA IMMUNIZZARE ANCHE CHI VIVE NEI PAESI
POVERI. FINO AL 90 PER CENTO DELLA POPOLAZIONE MONDIALE
RICERCA
Un ricercatore in laboratorio esamina materiale prelevato con i tamponi per isolare porzioni del virus SarsCov-2
«I bambini vanno vaccinati, perché possono ammalarsi, e vanno usate regole di buon senso perché è vero che vanno tenuti al riparo dalla malattia ma la vita in società e l’educazione è parte importante del loro sviluppo. La scuola deve poter restare aperta e per questo è importante l’areazione delle aule, visto che il virus si diffonde attraverso l’aria. Come? Aprendo le finestre o installando sistemi di areazione per liberare l’aria dal virus. Altri paesi europei, Germania in testa, hanno già dotato gli istituti scolastici dei sistemi di areazione, mentre in Italia siamo ancora indietro. Ma è in questa direzione che bisogna andare, possibilmente prima dell’arrivo dell’inverno».
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Foto: S. CondreaGettyImages
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Non c’è un abisso tra la salute psicologica e chi soffre di disturbi mentali. Ma una linea retta che unisce due poli che sono opposti solo alle estremità. «Parliamo di un continuum, indicare dove finisce lo stato di benessere e inizia il malessere non è semplice e dipende dalla storia di ogni persona», spiega lo psichiatra Massimo Cozza, direttore del dipartimento di salute mentale dell’Asl Roma 2, il più grande di Italia per bacino di utenza, circa un milione e 300mila persone. «Perché il disturbo mentale è bio-psico-sociale. Cioè determinato da più fattori: le problematiche di na-
tura biologica, in particolare genetica e biochimica, si combinano con il percorso psicologico dell’individuo e con la componente sociale che ha una funzione fondamentale. Dall’istruzione all’inclusione, alle relazioni che la persona instaura con il contesto e con gli altri. Questi fattori messi insieme sono la causa dei disturbi mentali a cui noi dobbiamo rispondere. Come specialisti abbiamo il compito di avviare i percorsi psicoterapici e psico-farmacologici di riabilitazione. Ma tanto sta anche alla capacità di inclusione della società. Servirebbero maggiori risorse per i servizi pubblici per la salute mentale».
Anche perché l’Italia da oltre vent’anni
DI
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PIÙ DI 4 MILIONI DI PERSONE SOFFRONO DI DISTURBI MENTALI. MENO DI UN QUARTO TROVA ASSISTENZA PUBBLICA. COLPA DI UN BUDGET RISICATO. CHE DIMENTICA GIOVANI E SCUOLE PSICO DRAMMA
CHIARA SGRECCIA
Prima
Chiara Sgreccia Giornalista
non investe una quota adeguata del suo budget sanitario per tutelare la salute mentale dei cittadini. Nel 2001 i presidenti delle Regioni si erano impegnati a destinarle il 5 per cento dei fondi sanitari regionali ma quell’obiettivo non è mai stato raggiunto: la media nazionale è intorno al 3 per cento. Eppure, ancora di più dopo la pandemia di Covid-19, sarebbe necessario. Come chiarisce Cozza si stimano 4 milioni di persone nel Paese che soffrono di disturbi psichici ma sono soltanto tra 800 e 900 mila quelle assistite
Un paziente del Centro Siipac, Società italiana di intervento sulle patologie compulsive, guidata da Cesare Guerreschi a Bolzano
nei dipartimenti di salute mentale pubblici. Questo non significa che le altre rimangano con certezza senza cura. «Una parte viene seguita dai medici di base, per i disturbi più lievi, e un’altra si rivolge direttamente al privato. Ma di questi non abbiamo dati. Anche il bonus psicologo si muove nella stessa direzione privatistica: uno strumento sbagliato che risponde a un’esigenza reale dei cittadini. Ai primi di settembre erano arrivate più di 210 mila richieste. Che continueranno a aumentare fino alla scadenza del prossimo 24 ottobre».
Come emerge, infatti, dall’indagine nazionale sulla salute mentale, promossa
Foto: Simona Ghizzoni
Contrasto
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Il diritto alla salute
da Massimo Cozza e realizzata dalla società Bva Doxa, in occasione del Festival Ro.Mens per l’inclusione sociale e il pregiudizio, che si terrà a Roma dal 26 settembre al 2 ottobre 2022, la società contemporanea è largamente pervasa dalla sofferenza psichica. L’80 per cento degli intervistati afferma di essersi relazionato con persone che hanno disturbi mentali, più o meno gravi. Secondo la maggior parte della popolazione, questi non hanno un’intelligenza meno brillante o desideri, obiettivi, aspirazioni diversi da quelli di chiunque altro. Per circa tre quarti degli intervistati, infatti, andare dallo psicologo o dallo psichiatra non è più un tabù, sebbene chi soffre di disturbi psichici abbia scarsa propensione a parlarne: il 78 per cento si confiderebbe solo con la famiglia. Il 22 per cento dice che non ne parlerebbe con nessuno per la vergogna.
Secondo la ricerca che sarà presentata al Campidoglio martedì 27 settembre, non è, invece, molto alta la fiducia nella possibilità di guarire dal disturbo mentale, solo il 66 per cento degli intervistati ritiene sia possibile. La maggior parte crede che la
IL DISAGIO CRESCE
POCHI GLI SPECIALISTI
di Marialaura Iazzetti
Durante la pandemia le richieste d’aiuto per i disturbi d’ansia sono aumentate dell’83 per cento, per i disturbi dell’umore del 72 per cento. Sempre più persone, non solo giovani, cercano un supporto. Ma il Servizio sanitario non può reggere un numero così elevato di richieste: mancano strutture e professionisti. La maggior parte delle risorse viene investita nei servizi di psichiatria, mentre gli psicologi continuano a diminuire. Per questo motivo, se non si soffre di patologie estremamente gravi, bisogna affidarsi al privato. Chi non può permetterselo rinuncia: secondo una ricerca del Consiglio nazionale dell’Ordine degli psicologi (Cnop) quasi 3 pazienti su 10 non hanno mai iniziato un trattamento per problemi economici.
cura debba avvenire nella collettività, non in luoghi isolati o privi del contatto con le persone. «È interessare rilevare che circa la metà della popolazione pensa che chi soffre di disturbi psichici sia pericoloso per gli altri, con la possibilità di diventare facilmente aggressivo e violento, non rispettoso delle regole sociali condivise, non in grado di lavorare con un buon livello di autonomia. Ma secondo le evidenze scientifiche non è vero che chi ha disturbi mentali è più pericoloso degli altri. La probabilità di comportamenti violenti è identica, con diversi determinanti legati alle storie personali. Una maggiore incidenza sta-
Il governo Draghi ha stanziato 25 milioni per l’erogazione di un contributo economico a favore di chi intende intraprendere un percorso psicoterapeutico. Il 9 agosto le richieste erano già più di 200mila e non tutte potranno essere accolte. Il bonus varia in base all’Isee, in qualsiasi caso però non si riceveranno più di 600 euro. È un inizio, ma senza interventi strutturali servirà a ben poco. Gli psicologi, oltre a essere presenti negli ospedali e nelle realtà che si occupano di disabilità o malattie croniche, dovrebbero garantire assistenza anche negli ambulatori, nei consultori o nei servizi specialistici attraverso i Dipartimenti per la salute mentale. Almeno al livello teorico, la sanità pubblica dovrebbe garantire sia sostegni psichiatrici sia interventi di psicoterapia effettuati da medici o psicologi specializzati. Il divario di prestazioni è evidente guardando ai servizi territoriali. Nel 2019, su 11 milioni di prestazioni erogate nei Dipartimenti di salute mentale, solo il 6 per cento riguardava la psicoterapia. Nei consultori la situazione non è migliore, visto che spesso manca la figura dello psicologo e non sempre queste strutture riescono a coprire i bisogni del territorio (in media c’è un consultorio ogni 35.000 abitanti).
«In Italia gli psicologi assunti dal Servizio sanitario nazionale sono circa cinquemila: lo 0,7 per cento dei dipendenti pubblici», spiega David Lazzari, presidente del Consiglio nazionale dell’Ordine degli psicologi (Cnop). A questi si aggiunge qualche migliaio inserito nel sistema attraverso rapporti di consulenza e contratti a partita Iva. I numeri sono in calo da anni: nel 2019, secondo i dati raccolti
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LA RADIOGRAFIA DI UN PAESE SULL’ORLO DI UNA CRISI DI NERVI NEL REPORT NAZIONALE DELL’ASL ROMA 2. DUBBI SULL’IMPATTO DEL BONUS
dal ministero della Salute, 2009 psicologi lavoravano nei Dipartimenti di salute mentale; tre anni prima erano 2.115. La situazione è destinata a peggiorare: l’età media degli assunti è di 59 anni.
«Nel 2013, su 100 mila abitanti, gli psicologi disponibili erano 9,5. Nel 2018 sono diventati 8,5», aggiunge Daniela Rebecchi che per 18 anni ha coordinato i servizi di psicologia dell’Ausl di Modena ed è ora al tavolo ministeriale sulla salute mentale. «Con l’aggiornamento dei Lea (i livelli essenziali di assistenza), nel 2017 la psicologia è diventata un servizio territoriale», continua Rebecchi. Il ministero ha fornito indicazioni generali, ma come prevede la Costituzione ha lasciato l’organizzazione in mano alle Regioni: questo ha contribuito a creare un’offerta poco omogenea. Un problema che si aggiunge al deficit di personale: ci sono territori in cui le liste di attesa superano i sei mesi. Se, come sottolinea Rebecchi, nel pubblico «gli psicologi fanno quello che possono» il risultato è una selezione dei casi. I disagi meno gravi non vengono presi in considerazione, perché le ore a disposizione sono poche. Chi rimane fuori può rivolgersi ai privati, spendendo anche 80 euro a seduta. «Negli ultimi anni gli organici hanno iniziato a diminuire sempre di più: chi va in pensione non sempre viene sostituito». A parlare è Daniele Audisio, responsabile del Centro di salute mentale (Csm) di via Procaccini 14, a Milano, e supervisore del servizio per lo sviluppo dell’autonomia socio lavorativa di “Progetto Itaca”, un’associazione che promuove programmi di informazione e riabilitazione. I Csm sono i servizi per l’assistenza diurna dei Dipartimenti territoriali dedicati alla salute mentale. Dovrebbero essere il punto di riferimento per il disagio psichico: realtà in cui trovare psicologi, psichiatri, infermieri e assistenti sociali. Spesso non è così, visto che per mancanza di personale anche qui sono presi in carico i casi più complessi. La struttura di via Procaccini è una delle poche
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sul territorio metropolitano in cui viene garantita la presenza di uno specialista che svolga il servizio di psicoterapia. «Di solito negli altri centri in cui ho lavorato c’erano soltanto psicologi part-time per qualche ora alla settimana. Da noi invece c’è una psicologa assunta che insieme ad altri quattro consulenti gestisce un gruppo terapeutico». Nonostante il centro di via Procaccini sia tra i più forniti, secondo Audisio, è comunque in sofferenza. Nei servizi territoriali gran parte del lavoro viene svolto dagli specializzandi. «Senza di noi il sistema crollerebbe». Selene Amici è all’ultimo anno di specializzazione, il quarto. Sta svolgendo il tirocinio in psicoterapia dell’età evolutiva in un ambulatorio di Torino dedicato alla neuropsichiatria infantile. Gli specializzandi in psicoterapia, a differenza dei medici, non ricevono alcun compenso durante gli anni di apprendistato. Si è parlato più volte di prevedere anche per loro uno stipendio, ma per adesso nulla è cambiato. Amici, insieme alla sua tutor, ha visitato tre ambulatori in quattro anni: gli specialisti vengono mandati dove c’è bisogno. «I casi più pesanti te li porti dietro, ma non puoi farlo sempre». Spesso quando c’è un trasferimento, si rischia di dover abbandonare i propri pazienti. Anche per questo motivo, secondo Amici, nelle strutture pubbliche è impossibile portare avanti percorsi di psicoterapia ma solo sostegni sporadici. Nella gestione delle liste d’attesa ai terapeuti viene chiesto di chiudere i casi il più in fretta possibile. Ed è per questo motivo che alla fine sono gli stessi psicoterapeuti a consigliare di ricorre al privato. Secondo il presidente del Cnop David Lazzari il nodo non sono i finanziamenti ma il modo in cui sono gestiti: «Il governo spende più di tre miliardi all’anno per i servizi di salute mentale, ma queste risorse vengono usate soprattutto per l’assistenza psichiatrica e per i casi più gravi». Bisognerebbe iniziare a immaginare un’assistenza psicoterapeutica di prossimità. Lazzari aveva proposto al ministro della Salute Roberto Speranza di sviluppare i consultori. Ora tutto dipende dai risultati del 25 settembre. Intanto le Regioni si stanno muovendo autonomamente: la Lombardia, replicando il modello campano, ha preparato un progetto di legge per istituire lo psicologo di base, che effettui consulenze gratuite. Chiarisce Lazzari: «La gente non è sana o malata: ha delle difficoltà da risolvere. Anche sulla salute mentale deve essere fatta opera di prevenzione».
Il ritorno a scuola al liceo Mamiani di Roma
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Foto: Cristiano Minichiello / AGF
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tisticamente significativa è stata rilevata solo in associazione all’abuso di sostanze. Chi soffre di disturbi mentali è più probabile che sia vittima e non attore di violenza. Questo vale, ad esempio, per le donne che hanno subito abusi sessuali», chiarisce Cozza.
Alla domanda: «Secondo te quale categoria di persone è più incline ad avere disturbi mentali in questo periodo storico?» Gli uomini pensano che siano gli uomini, le donne che siano loro i soggetti che ne soffrono di più. «Un dato contrastante che può nascere dalla convinzione per entrambi di svolgere una vita più stressante rispetto all’altro, con conseguente aumento della probabilità di soffrire di disturbi mentali, nonostante nei casi ci sia un sostanziale equilibrio», commenta Cozza. Ma la percezione degli intervistati converge con la realtà dei fatti quando affermano che sono i giovani tra i 18 e i 24 anni i più inclini allo sviluppo dei disturbi mentali. Soprattutto dopo il Covid-19, come certificano il grido di allarme dei pronto soccorso e tante altre ricerche redatte negli ultimi mesi. Tra cui il Rapporto sul benessere equo e sostenibile di Istat, di aprile 2022, secondo cui è raddoppiata la percentuale di adolescenti insoddisfatti e con un basso punteggio di salute mentale. O l’indagine “Chiedimi come sto? Gli studenti al tempo della pandemia”, condotta da Rete degli studenti medi, Unione degli universitari e Spi-Cgil, elaborata da Ires, l’Istituto ricerche economiche e sociali dell’Emilia Romagna. Un’indagine a cui hanno partecipato oltre 30 mila studenti, evidenziando la volontà dei giovani di essere coinvolti e raccontare il proprio vissuto, da cui emerge il ritratto di una generazione che per prima ha sperimentato la didattica a distanza. «Spoiler: stiamo male», dicono gli studenti. Il 60,3 per cento è molto preoccupato della propria salute mentale. Il 28 per cento ha disturbi del comportamento alimentare, il 14,5 di autolesionismo, il 24 per cento ha pensato di lasciare gli studi. Il 60 vede il futuro come precario e critico. Il 90 per cento vorrebbe un supporto psicologico a scuola. Che, anche quando c’è, non è detto che sia efficace.
Come spiega, infatti, Luca Ianniello, rappresentante nazionale della Rete degli studenti medi: «il primo passo è l’acquisizione della consapevolezza di avere un disturbo
L’INDAGINE
Massimo Cozza guida il dipartimento di salute mentale dell’Asl Roma 2 che ha promosso lo studio nazionale. Sotto, Camilla Piredda dell’Udu
Il diritto alla salute
STUDENTI
Luca Ianniello, rappresentante nazionale della Rete degli studenti medi. I giovani reclamano servizi psicologici nelle scuole
psichico. Subito dopo dovrebbe arrivare il supporto ma manca uno spazio dentro la scuola in cui gli studenti possano chiedere aiuto. O se esiste non funziona. Ad esempio resta aperto solo per due ore un giorno a settimana diventando di fatto inutilizzabile visto l’alto numero di studenti. Oppure succede che chi lo gestisce non sia abbastanza formato e competente. A volte sono gli stessi insegnanti della scuola. E questo causa un evidente problema di coinvolgimento. Anche perché capita che gli studenti vogliano parlare proprio del loro rapporto con i docenti. Il punto è che manca una strutturazione a livello nazionale e un piano di investimenti. Non c’è una normativa uniforme che garantisca a uno studente di Caltanissetta e a una studentessa di Udine di avere accesso allo stesso sistema di ascolto e di aiuto. L’unico riferimento è il Dpr n. 309 del 1990 che istituisce i centri di formazione e consulenza, i Cic, in seno al testo sulla tossicodipendenza. Ma non li norma. E nessuno si è più impegnato nel loro sviluppo». Mentre, come scrivono gli studenti nel manifesto “Cento idee per il futuro del Paese” che raccoglie le proposte per il governo che verrà, andrebbero aboliti Cic e istituiti degli Sportelli di assistenza psicologica e counseling nelle scuole. Oltre che dei veri e propri percorsi di educazione all’emotività e all’affettività.
Concorda anche Camilla Piredda, dell’Unione degli universitari: «Tra le università ci sono casi virtuosi. Gli atenei di Bari, Bologna e Padova hanno dei veri e propri sportelli di assistenza psicologica, sebbene anche altri abbiano costruito dei propri sistemi di supporto. Il problema, però, sta nella mancanza di fondi che compromette il servizio. Ci sono attese che vanno dai 6 ai 9 mesi solo per il primo colloquio conoscitivo. Altrettanto lunghi i tempi per l’inizio del percorso. Con la pandemia le richieste sono aumentate esponenzialmente. Fondamentale sarebbe una collaborazione con le Asl, sia per abbattere i costi e i tempi, sia per il supporto di specialisti». Come per gli studenti anche per Cozza è fondamentale rafforzare la rete dei servizi pubblici. Magari investendo quei due miliardi di euro che dal 2001 invalidano la promessa dei presidenti delle Regioni di impiegare il 5 per cento dei fondi sanitari per la tutela della salute mentale.
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IL PRISMA DELLE
Ludovico Bessegato ed io abitiamo a pochi chilometri di distanza nella città disgraziata che è Roma, ci incontriamo su una terrazza di Porta Venezia a Milano che è la sua città natale. Un aperitivo a base di snack giapponesi: patatine al sapore di spiedini arrosto e fragole disidratate, presi per sua curiosità in via Paolo Sarpi. È una delle persone più bambine e allo stesso tempo adulte che io conosca, sensibilissimo e tremendamente cinico. Nel suo spettro ci si perde e poi ritrova con nuove domande. Ci conosciamo da quando sono entrato nel cast di Skam Italia, di cui lui è regista e autore ma soprattutto showrunner. Di Skam Italia è appena uscita la quinta stagione su Netflix, ma ho incontrato Ludovico per dialogare sul suo nuovo progetto seriale, del quale avevo letto la prima stesura per una consulenza: Prisma, disponibile su Prime Vi-
deo dal 21 settembre. La produzione è sempre Cross Productions, che sta confermando di essere la più attenta alla contemporaneità. Ludovico: «Ricorderai il momento in cui è nata Prisma perché lo abbiamo vissuto insieme: non si sapeva se Skam sarebbe andato avanti ed eravamo appesi, anche tu. Sulla quarta stagione avevo puntato tutto, rifiutato lavori, fatto tanta ricerca. Mi sembrava di essere rimasto con nulla in mano e non riuscivo a immaginare da dove ripartire. Li mi è venuta in soccorso Alice Urciuolo, che stava lavorando a questo nuovo progetto». Al centro due liceali, i gemelli Andrea e Marco (Mattia Carrano). Nuotatori, belli e misteriosi, alla ricerca della propria identità e del proprio spazio nel mondo: quel mondo che per adesso è Latina. Andrea è un ragazzo che sta indagando la propria identità di genere, mettendo in discussione gli stereotipi della mascolinità. In effetti anche Marco si scontra
COLLOQUIO CON LUDOVICO BESSEGATO DI PIETRO TURANO
Il cast della serie Prisma, disponibile sulla piattaforma di Prime Video
62 25 settembre 2022 L’universo giovanile
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su tanti piani diversi. C’è stata una binarietà, non solo rispetto ai generi, di una società divisa su due poli: destra e sinistra, lavoro a tempo determinato e indeterminato, single o sposato, maschio o femmina. Sempre due percorsi contrapposti, vite incasellate. Credo che stiamo assistendo ad una destrutturazione della società. Riguarda tutti, ma i più giovani nascono dentro questa condizione e spesso non sentono più le identità così disegnate, la strada segnata. Vanno in crisi, e ogni personaggio di Prisma procede in questa direzione, non solo Andrea. Marco è un campione di nuoto e allo stesso tempo è fragilissimo, ma anche aggressivo, per certi versi insicuro e per altri assertivo: sfugge ad una singola definizione e non riesce a orientarsi. Carola, rispetto a una lettura classica della disabilità, ci aspettiamo che sia insicura rispetto al proprio corpo. Invece la vediamo perfettamente consapevole e forse più di ogni amica è desiderosa del potere del suo corpo, in senso positivo e non deteriore. Anche lei si pone degli interrogativi rispetto alla sua identità e non necessariamente legati a questo aspetto. Io sento dire che siamo in crisi da quando ho cognizione di me, forse è una condizione ineluttabile».
Sembra quasi uno strumento di ricatto, di terrore.
«Se siamo sempre in crisi forse la verità è che non esiste un momento alternativo. Forse è la condizione dell’essere vivente in costante
più o meno consapevolmente con i ruoli e le aspettative della società. Intorno a loro si intrecciano i percorsi di Nina, Carola, Daniele e una comunità di persone che a ben vedere si stanno tutte confrontando con dei canoni che sembrano non bastare. Non sono freak ma adolescenti qualsiasi, in crisi. Il percorso di Andrea, che mette in crisi un modello a cui sente di non appartenere, in realtà mette in luce il prisma di tutti i personaggi. Con le dovute differenze vivono la prima radicale crisi identitaria. Ci hanno sempre raccontato la crisi come il primo passo dentro il regno della morte, principio di fallimento. Prisma sembra parlare di crisi come opportunità, questo è queer. «Prisma è una serie corale che vuole dire la stessa cosa
dialettica con l’alternativo da sé che è la morte, la sparizione. La crisi è movimento e le persone sono sempre in movimento. Penso che accettare la complessità permetta di fare ciò che vogliamo: se non sappiamo dove andare possiamo andare ovunque».
Dal tuo racconto sembra che Prisma sia nata nello spazio aperto da una crisi. Anche in questo senso la crisi ha rappre-
Pietro Turano
Attore e attivista
25 settembre 2022 63 Foto: F. FotiaAgf
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IDENTITÀ IL REGISTA DI SKAM ITALIA LANCIA LA NUOVA SERIE INCENTRATA SU DUE GEMELLI ALLA RICERCA DEL PROPRIO SPAZIO OLTRE GLI STEREOTIPI
L’universo giovanile
sentato un’opportunità creativa.
«È una bella metafora. L’esigenza era quella di riprendere i principi ereditati da Skam, ma con alcune differenze. Ci interessava provare a sviluppare soluzioni narrativamente più complesse. Quando all’interno del caos riesci a trovare un senso, la soddisfazione è enorme».
Anche di Andrea raccontate più le domande che le risposte.
«Inizialmente doveva avere un’identità più chiara e consapevole, più binaria verso il femminile. Alla fine abbiamo scelto una condizione di non binarietà, più fluida, perché forse ancora non sa dove atterrerà e in questa fase sta discutendo con ciò che prima dava semplicemente per scontato».
C’è un argomento di cui noi parliamo spesso: l’importanza della rappresenta-
zione e della rappresentanza. Ovvero non solo l’urgenza di rappresentare pezzi di mondo narrativamente marginalizzati o peggio sviliti, ma anche di dare dignità professionale alle persone che abitano quei pezzi di mondo. Ha a che fare con la visibilità, con i corpi, con l’espressione di sé. Tutti temi che hanno a che fare anche con Prisma. Che valore ha avuto questo discorso nei vostri casting?
«Ci sono due istanze entrambe valide che vanno bilanciate: da una parte c’è quella dell’attrice o attore che rivendica il diritto di poter essere messo alla prova con ruoli lontani da sé. Dall’altra ci sono attori e attrici che appartengono a delle minoranze e che legittimamente si lamentano quando constatano di non essere considerate su ruoli apparentemente lontani da loro, scavalcate da persone che invece potrebbero fare qualsiasi ruolo e che si trasformano per quei ruoli senza che lo stesso discorso valga per loro. Io non sono stato sempre così consapevole e forse in pas-
sato ho fatto errori, ma in Prisma ci abbiamo riflettuto molto. Nel caso di Andrea era complicato perché avremmo raccontato un personaggio che lungo la serie viveva un enorme cambiamento: se fosse stata una ragazza trans sarebbe stato più semplice e corretto cercare attrici trans. Andrea è molto lontano da quella dimensione e difficilmente una ragazza trans avrebbe potuto o voluto portare in scena quella storia, sarebbe stato doloroso o faticoso “tornare indietro” su un percorso simile. Noi non stiamo fotografando una condizione ma stiamo cercando di osservare cose che non possiamo prevedere, per questo la scelta è ricaduta su chi in quel momento potesse aderire meglio al punto di partenza che per ora conosciamo. Anche il fatto di dover interpretare il proprio gemello aggiungeva complessità. Con Andrea volevamo indagare la condizione di chi davvero non trova le parole, non si trova nei termini e nei modelli conosciuti, che si sente a disagio. In altri casi e per altri ruoli è stato diverso e abbiamo voluto testimoniare percorsi e momenti diversi dello spettro transgender e non solo, coinvolgendo persone trans o con disabilità».
Penso a Crialese che a Venezia ha fatto coming out come persona transgender presentando il film “L’immensità”, sulla storia di un bambino transgender. La scrittrice Camilla Vivian ha raccontato che Crialese le chiese aiuto per cercare un bambino transgender che interpretasse il protagonista. Durante la ricerca Crialese capì però che le vite delle giovani persone
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C’È STATA IMPOSTA UNA BINARIETÀ, NON SOLO RISPETTO AI GENERI, UNA SOCIETÀ DIVISA SU DUE POLI. STIAMO ASSISTENDO ALLA SUA DESTRUTTURAZIONE
trans erano già troppo delicate per coinvolgerne una in quell’esperienza. Voglio dire che da un lato esiste la dimensione politica, ma non per questo possiamo appiattire la complessità della realtà. Mi ha fatto riflettere.
«Io cerco di non essere prepotente, di ascoltare le persone e avere attenzione».
Rispetto alla serialità trovo una dicotomia, fra l’estrema semplificazione e polarizzazione generale delle cose (che poi è binarietà) e l’impressionante sviluppo del formato, che invece permette grande approfondimento. In questo universo frenetico, guardare una serie in una notte come se fosse un film di sei ore, non è rettilineo rispetto a una norma. Senza farne una questione gerarchica, in questo senso trovo la serialità un po’ queer rispetto alla cinematografia tradizionale. In effetti appartiene molto, per quanto mainstream, alla popolazione più giovane.
«La serie si trasforma e la verità è che tu la
IL REGISTA
Il regista Ludovico Bessegato. In alto a sinistra, Mattia Carrano. A destra, Mattia con Chiara Bordi
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inizi e non sai come finirà. Un film lo concepisci tutto insieme, lo finisci, lo metti su uno scaffale e quello è il risultato del lavoro. Se Prisma continuerà, cambierà con me e con la società: questo rende la narrazione più fluida. Forse anche questo piace ai ragazzi». Quasi un’interdipendenza. Però questo contatto diretto, questa possibilità di approfondire e influire, a volte prende una deriva per cui il pubblico si aspetta dei manifesti, dei manuali, dei testi didattici. «Il mio mestiere non è scrivere una piattaforma politica o programmatica ideale. Nel momento in cui parlo di Martino, Filippo, Elia, Andrea, non voglio parlare di diritti Lgbt+, islam o di micropene, ma di personaggi che riflettono delle condizioni. Condivido quello che ha detto Bazzi recentemente: è sbagliato pretendere che gli autori offrano modelli di comportamento. Raccontiamo storie, che possono indirettamente trasferire lo spirito del nostro tempo. Poi nello scegliere quale società raccontare è evidente che passi una visione politica e una responsabilità sociale. Vorrei solo aiutare a vedere quello che abbiamo intorno: questo è politico ma non ideologico. Il lavoro grosso, e lo sai meglio di me, è abituarci a vedere che le persone esistono e meritano spazio. Prima da essere umano e poi da narratore, a muovermi è la curiosità: quando scopro un angolo che mi colpisce, sono ansioso e curioso di farlo vedere anche agli altri. Ora assaggia questi biscotti al biancospino».
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La violenza in divisa
inquantaquattro lesioni, due manganelli rotti e un cuore schiacciato. La domenica mattina del 25 settembre 2005 Federico Aldrovandi, un ragazzo di soli diciotto anni, moriva a Ferrara durante un controllo di polizia. L’iter processuale di questa vicenda è terminato dieci anni fa, il 21 giugno 2012, con la condanna in via definitiva degli agenti Paolo Forlani, Monica Segatto, Enzo Pontani e Luca Pollastri. Nella requisitoria davanti alla quarta sezione penale della Cassazione, il sostituto procuratore generale Gabriele Mazzotta, riferendosi agli imputati, parlò di «schegge impazzite». I quattro furono riconosciuti colpevoli di eccesso colposo in omicidio colposo, con una pena detentiva di 3 anni e 6 mesi, poi ridotta a 6 mesi per via dell’indulto. Nessuno sconto invece per i familiari di Federico – il padre Lino, il fratello Stefano e la madre Patrizia Moretti – obbligati a convivere da diciassette anni con il dolore di una morte insensata. Una sofferenza acuita dal ritorno in servizio nel gennaio del 2014 di tre dei quattro agenti, con uno solo rimasto a casa per curare una «nevrosi reattiva». Scelta, quella di non togliere la divisa ai responsabili dell’omicidio di Federico, contestata duramente dalla famiglia Aldrovandi. Ma quest’episodio è tutt’altro che isolato.
In Italia quando si parla di abusi in divisa bisogna fare i conti con «un elenco lunghissimo di persone che sono morte nelle mani o in custodia di forze di polizia», dice Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia. Se conosciamo i nomi di Federico Aldrovandi, Stefano Cucchi, Gabriele Sandri, Riccardo Magherini e Giuseppe Uva, il merito è innanzitutto delle estenuanti battaglie giudiziarie e me-
Adil Mauro Giornalista
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DI ADIL MAURO ALDROVANDI, LA DICIASSETTE ANNI FA A FERRARA L’UCCISIONE DI FEDERICO. VITTIMA DI UNA LUNGA SCIA DI ABUSI DI STATO. MENTRE LA LEGGE SULLA TORTURA È MONCA C
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MORTE RIMOSSA
diatiche affrontate dai loro familiari. «È importante infatti sottolineare come le famiglie delle vittime siano state costrette a mettersi in gioco perché se non lo avessero fatto la verità e la giustizia non sarebbero mai arrivate. E a volte non sono arrivate comunque», ricorda Noury.
In Italia un punto di riferimento per i familiari di chi non c’è più e le vittime sopravvissute è l’Associazione contro gli abusi in divisa (Acad), realtà che da anni si occupa dei soprusi commessi dalle forze dell’ordine, offrendo supporto legale e svolgendo controinformazione. Una delle campagne più conosciute dell’associazione riguarda proprio Federico Aldrovandi (#FedericoOvunque) ed è la risposta ai fatti del 1° dicembre 2017 quando, in occasione della partita tra Roma e Spal, ai tifosi ferraresi venne negata la possibilità di portare dentro lo stadio Olimpico una bandiera con il suo volto: «Questa cosa non è accaduta solo a Roma. Episodi analoghi si sono verificati a Genova, Napoli e hanno coinvolto i sostenitori della Spal e di molte altre squadre», precisa Daniele Vecchi, giornalista e autore di “Federico Ovunque” (Red Star Press, 2020). Nei mesi successivi a Roma-Spal molte tifoserie sono state denunciate o multate per aver introdotto negli stadi l’immagine di Federico, un «contenuto provocatorio nei confronti delle forze dell’ordine», come si legge nel comunicato di un giudice sportivo. Il movimento ultras, spesso descritto in maniera superficiale, ha preso subito a cuore la storia di Federico, come spiega Lino Aldrovandi: «Quel 25 settembre 2005, nel pomeriggio, allo stadio Paolo Mazza di Ferrara c’era l’incontro Spal- Ancona e qualcuno in seguito mi disse che all’interno, nella Curva Ovest (il tifo organizzato della Spal, ndr), non si faceva altro che parlare di quello che era successo la mattina in via Ippodromo. Nelle domeniche successive senza che li avessi mai contattati, ovunque andassero, cominciarono a chiedere verità e giustizia». Per Aldrovandi le magliette e gli stri-
scioni dedicati al figlio rappresentano «gesti puliti, semplici e rispettosi, che non inneggiano alla morte e a cui dovrebbero per assurdo unirsi anche gli stessi poliziotti, per un percorso di maturità che non si riesce ancora a intravedere». Gesti che di provocatorio hanno ben poco, soprattutto se paragonati a iniziative che hanno scosso l’opinione pubblica come il lungo applauso al congresso nazionale di un sindacato di polizia per gli agenti condannati per l’uccisione di Federico o il sit-in, sempre a favore dei quattro, organizzato da un’altra associazione di categoria sotto il luogo di lavoro di Patrizia Moretti. La madre di Federico, oggi come sette anni fa quando decise di ritirare le querele contro chi offese lei e suo figlio, non vuole più saperne di queste persone. «Rispetto a diciassette anni fa vedo che tanti occhi si sono aperti, ma c’è chi continua a incolpare Federico», segnala Moretti. «Sto pensando ai vari politici che prendevano posizione su casi come il mio, accusando le vittime di essere responsabili in qualche modo della loro morte. Non so se prendano certe posizioni per crearsi un personaggio o perché ci credono veramente, ma resta il fatto che quel tipo di atteggiamento non cambia neanche di fronte all’evidenza schiacciante. Per questo non voglio più parlare e mi sono sottratta al confronto con questa gente che voleva litigare con me. È tempo perso e serve solo a loro per farsi vedere, però lo fanno sulla pelle di mio figlio».
Secondo Noury il dibattito sulla condotta di chi ha il compito di tutelare la sicurezza della collettività deve tenere in considerazione alcuni fattori. «Abbiamo atteso 29 anni prima di avere nel 2017 una legge contro la tortura e stiamo ancora aspettando che vengano introdotti i codici identificativi per le forze di polizia in servizio di ordine pubblico. Siamo rimasti uno degli ultimi quattro Stati dell’Unione Europea a non averli. Quando le leggi non ci sono, questo produce comportamenti che possono violare i diritti umani. Va segnalato inoltre il fatto che per anni, in
Patrizia Moretti in strada con l’immagine del figlio Federico
Aldrovandi
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Foto: Ansa
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alcuni casi, si sia depistato e insabbiato, alimentando un clima di impunità». Nel manifesto in dieci punti che Amnesty International Italia ha presentato ai leader e alle leader che competeranno alle prossime elezioni uno dei punti riguarda l’adeguamento dell’operato delle forze di polizia gli standard internazionali, dal rispetto delle norme sull’uso della forza alla cosiddetta «accountability», cioè rendere conto pubblicamente delle proprie azioni in maniera aperta e trasparente. Su questi temi per il portavoce di Amnesty non si torna indietro eppure, constata, «vediamo che ci sono programmi elettorali in cui ad esempio si vuole rimettere mano a una legge sulla tortura che già è tutto meno che perfetta». Patrizia Moretti, commentando su Twitter le recenti condanne per i depistaggi nel caso di Stefano Cucchi, ha affermato che in molti casi non è stata nemmeno sfiorata una “pienezza” di giustizia. «No, nel mio caso assolutamente no», ribadisce: «Perché comunque c’era una chiusura a riccio di molte persone che si trovavano in posizioni di potere». Alla domanda sul processo bis per i depistaggi e le omissioni sull’omicidio di Federico, conclusosi con la condanna in Cassazione di un solo poliziotto sui quattro coinvolti, Lino Aldrovandi risponde con un laconico «lasciamo perdere».
Le travagliate vicende giudiziarie e un’instancabile ricerca di giustizia hanno avvicinato le famiglie Aldrovandi e Cucchi. «Ilaria è molto simile a Patrizia, nel carattere e nella forza, specialmente nel non arrendersi alle ingiustizie», dice Lino. «In un certo senso si sono date sostegno. Federico e Stefano in loro hanno trovato una mamma e una sorella
La violenza in divisa
immense, anche se non avrebbero voluto esserlo». Tra le persone che hanno aiutato la famiglia Aldrovandi va citata Anne Marie Tsagueu, una donna originaria del Camerun con il permesso di soggiorno in scadenza che trovò la forza di fare la cosa giusta. «Diverse persone dicevano di aver visto o sentito qualcosa quella mattina, ma nel momento in cui si chiedeva loro di rendere una testimonianza ufficiale si tiravano indietro», ricorda Patrizia Moretti. «Anne Marie Tsagueu, dopo aver parlato con il suo prete e un avvocato, è andata avanti in maniera decisa e io non ho visto nessun italiano che abita in quella zona comportarsi allo stesso modo. E pensare che mi ha chiesto anche scusa molte volte dicendo “se fossi intervenuta forse avrei potuto salvare Federico”, ma non poteva immaginare che l’esito di quel pestaggio sarebbe stato così drammatico. Era veramente terrorizzata e per questo motivo la sua testimonianza è stata molto importante. Nessuno ha avuto il coraggio della signora Anne Marie».
Quest’anno l’anniversario della morte di Federico Aldrovandi coinciderà con le elezioni politiche. «Credo che si siano perse molte occasioni per evitare che tragedie di questo tipo possano ripetersi, a partire da una legge sulla tortura parziale e insufficiente», spiega Patrizia Moretti. «Non so che cosa sperare per il futuro, visto che in questi diciassette anni si sono avvicendati tutti i colori politici e purtroppo non è cambiato granché. Alla fine, il vero senso di giustizia che sentiamo e ci consola arriva dalla vicinanza delle persone che spesso sono migliori delle istituzioni che dovrebbero rappresentarle».
Lino e Patrizia Aldrovandi. In alto, Federico e, a destra, i supporter della Spal con le bandiere in onore del diciottenne rimasto vittima del pestaggio degli agenti durante un controllo
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Su Hasib giù dalla finestra il silenzio puzza di omertà
Il volo dalla finestra della sua abitazione di Hasib Omerovic il 25 luglio in pieno giorno a Primavalle, quartiere storico di Roma, presenta degli aspetti sconvolgenti che obbligano a considerazioni di vario segno, culturale, sociale, politico e istituzionale. Colpisce il silenzio assoluto che è stato riservato a una tragedia, perché di questo si tratta, visto che il giovane, così viene definito anche se compirà il mese prossimo 37 anni, è stato a lungo in coma e ancora oggi giace in un letto del Policlinico Gemelli in gravi condizioni.
Infatti non si è trattata di una caduta accidentale ma avvenuta in stretta relazione con la presenza in casa di almeno quattro poliziotti per una perquisizione senza mandato e la risibile richiesta di documenti. Pare che la telefonata al 118 per chiamare una ambulanza sia stata effettuata da uno dei poliziotti ma ancora non si conosce il contenuto, neppure che cosa è stato detto agli infermieri e neanche come è stato registrato il ricovero. Pare che tutto il quartiere fosse mobilitato per dare una lezione a un presunto molestatore di ragazze ed è davvero incomprensibile che nessuna reazione - su Facebook o su altri mezzi di comunicazione o nelle chiacchiere al bar il cui proprietario è stato intervistato da un importante quotidiano e sentito il 25 agosto nel commissariato coinvolto - si sia manifestata.
In Sicilia si definirebbe omertà. Sembra che la soddisfazione popolare per la solerzia della polizia si esprima con le bocche cucite. D’altronde la congiura è fondata su tanti elementi: l’emarginazione, l’integrazione difficile dei diversi e dei rom in particolare, lo stigma, il disprezzo per l’handicap. Hasib, rom e sordomuto, aveva assunto le sembianze del nemico perfetto.
Il pm Stefano Luciani è orientato a procedere per tentato omicidio ma anche per falso. Questa accusa, sostanzialmente di depistaggio, richiama alla memoria la vicenda Cucchi e quella di Federico Aldrovandi del quale proprio il 25 settembre ricorre l’anniversario della morte in seguito a un pestaggio immotivato, se non per l’odio verso un giovane (in questo caso davvero, aveva diciotto anni) etichettato come drogato. Anche in quella occasione la gestione della questura di Ferrara fu
tutt’altro che limpida, ma ricca di ombre. Più emergono squarci di luce più lo scenario si fa torbido. Domande inquietanti: perché Hasib non è stato chiamato in commissariato in condizioni efficaci per trasmettere un monito relativo alle sollecitazioni di alcune donne? È vero che uno dei poliziotti, animato da rabbia perché Hasib avrebbe molestato una sua nipote, si sarebbe distinto per farsi giustizia, una giustizia sommaria?
Giustamente il magistrato della procura di Roma si appresta a nominare un perito per cercare di scoprire le modalità della caduta: spinta da parte dei poliziotti, tentativo di fuga per paura o caduta per effetto di una dura colluttazione.
Purtroppo è passato molto tempo e alcuni elementi sono inquinati. C’è da augurarsi solo che non venga riesumata la formula del malore attivo, usata per spiegare la defenestrazione di Pino Pinelli, anarchico, dai locali della questura di Milano. L’omertà è stata rotta per merito del deputato Riccardo Magi con una interrogazione alla ministra dell’Interno Luciana Lamorgese, finora senza risposta. Un silenzio inquietante perché il Parlamento esiste e va rispettato. La società civile non può tollerare una collusione o una protezione dei violenti.
Carlo Stasolla, Fatima Omerovic e Riccardo Magi alla Camera
70 25 settembre 2022 Prima Pagina L’intervento di FRANCO CORLEONE
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IL WATERGATE SPIATI
Kyriakos Mitsotakis, leader del partito Nuova Democrazia governa la Grecia che entro la primavera potrebbe tornare al voto
Politica a colpi bassi
GRECO 72 25 settembre 2022
I
INTERCETTANO IL LEADER SOCIALISTA E UN GIORNALISTA.
E
RIVELA GLI AFFARI TRA
L’AZIENDA CHE UTILIZZA IL MALWARE PREDATOR E I PIANI ALTI DEL GOVERNO
La tragedia greca è di ritorno. Proprio nell’estate in cui, dopo 12 anni terribili, Atene esce dalla supervisione economica dell’Unione europea, il fato colpisce ancora. E non è solo l’imprevista crisi energetica che sconquassa qualsiasi piano di virtuosità fiscale e riporta lo spettro della povertà tra le fila di una classe media che aveva appena cominciato a credere nella riscossa. A fare malevolo capolino è l’antico vizio delle grandi dinastie politiche greche: lo spionaggio degli avversari politici, alimentato da un’effervescente collusione con il settore privato, che spesso sfocia in corruzione, per consolidare il potere conquistato nelle urne.
Kyriakos Mitsotakis è il premier che aveva promesso di abolire i vizi del passato come nepotismo e corruzione e che ha finito invece per dare loro nuova vita. La pietra dello scandalo è stata il tentativo di hackeraggio con un software illecito del telefonino dell’europarlamentare e leader del partito socialista Nikos Androulakis, spiato per settimane da parte dei servizi segreti greci. Uno spionaggio dietro cui si annidano una serie di accordi, favori e relazioni improprie tra governo e imprenditori privati che potrebbero portare la Grecia ad elezioni anticipate entro la primavera.
Ad accendere la miccia di quello che è ormai definito il “Watergate greco” è stato il giornalista finanziario Thanasis Koukakis, collaboratore del Financial Times e della versione greca di Cnn, noto per le sue indagini su potenti banchieri. Nel giugno del 2020 i servi-
zi segreti lo hanno posto sotto sorveglianza in quanto «minaccia alla sicurezza nazionale». «Mi sono reso conto di essere intercettato perché la batteria del mio telefonino finiva troppo presto e perché ogni volta che chiamavo la persona rispondeva direttamente senza che il telefono squillasse», ha raccontato in un’audizione davanti al Parlamento europeo a fine agosto. Così ha immediatamente chiesto all’Authority per la privacy se fosse monitorato. Le intercettazioni cessano nel giorno della denuncia. Intanto l’agenzia pubblica ha un anno per rispondergli ma nel marzo 2021 il governo cambia la legge, vigente da 26 anni, proibendole di informare Koukakis sulle sue intercettazioni. In quegli stessi giorni lui riceve un’email che chiede «conosci questa storia?» e poi un link su cui cliccare. Siccome si trattava di una notizia finanziaria di cui non sapeva nulla clicca e, nel giro di pochi minuti, entra in azione Predator, un software per l’estrazione dei dati condannato dalla Ue che invia le informazioni a Intellexa, un’azienda cipriota basata ad Atene.
Koukakis non è il solo. Almeno altre 48 persone ricevono lo stesso link. Tra questi il leader dei socialisti Nikos Androulakis, che però non lo apre. Scoprirà il tentativo di compromissione dei suoi dati solo qualche settimana dopo, quando il Parlamento europeo controlla i telefoni di tutti i deputati dopo le rivelazioni di utilizzo di software impropri come Pegasus e Predator in almeno altri tre Paesi europei. «Non mi sarei mai aspettato di essere sotto sorveglianza», ha detto Androulakis prima di rivolgersi alla magistratura e di chiedere una commissione d’inchiesta nel Parlamento greco e anche nell’Eurocamera.
DI FEDERICA BIANCHI
Federica Bianchi Giornalista
Prima Pagina
SERVIZI
LO SCANDALO
Foto: Xinhua News Agency / eyevine / Contrasto 25 settembre 2022 73
Politica a colpi bassi
Ma lo spionaggio tra famiglie politiche greche ha radici lontane. Tra il 1988 e il 1991 Konstantinos Mitsotakis, padre di Kyriakos, diventato primo ministro nel 1990, e la figlia Dora Bakogianni, sorella di Kyriakos Mitsotakis, hanno intercettato centinaia di telefoni tra cui quello dell’allora leader dell’opposizione Andreas Papandreou. «Nel 1989 il giorno prima dell’elezione, Mitsotakis aveva rubato il programma di governo di Papandreou ed è così che ha messo insieme il suo governo», racconta l’europarlamentare di Syriza Stelios Kouloglou: «Poi nel 1994 Mitsotakis avrebbe dovuto essere processato da un tribunale speciale ma Papandreou (anche lui grande utilizzatore di intercettazioni contro gli avversari politici) lo perdonò». Con il passare degli anni sono cambiati gli strumenti ma non le abitudini: la differenza è che, con l’irruzione di Syriza, la politica greca non è più solo una faccenda tra poche famiglie.
«Mitsotakis ha cominciato a controllare le attività dei dirigenti del Pasok quando è iniziata la battaglia per la leadership del partito socialista», spiega Stelios Kouloglou: «L’obiettivo era quello di influenzare la scelta a favore di figure più vicine a Nuova democrazia, screditando invece il leader designato, su cui circolavano pettegolezzi di un cattivo comportamento nei confronti della moglie. Lo spionaggio è poi finito due o tre giorni dopo la sua elezione». «Non fosse stato per Androulakis probabilmente lo scandalo non sarebbe mai uscito», ha sottolineato Koukakis: «Sarebbe rimasta una notizia locale».
Il premier greco si è detto estraneo ai fatti ma le sue azioni lo contraddicono. Subito dopo la sua elezione, nel luglio del 2019, nomina l’avvocato e uomo d’affari Grigoris Dimitriatis, figlio della sorella Do-
DINASTY
L'ex primo ministro greco Konstantinos Mitsotakis, padre di Kyriakos. In alto, Nikos Androulakis, presidente del partito Pasok-Kinal
ra Bakogiannis, ex sindaca di Atene durante le Olimpiadi ed ex-ministra degli Esteri tra il 2006 e il 2009 nel governo Karamanlis, a capo del suo staff. Da quella posizione, Dimitriatis è in grado di controllare tutte le decisioni politiche dello zio e di negoziare per lui. Nelle stesse settimane, forte della sua maggioranza in Parlamento, Mitsotakis cambia la legge così da porre i servizi segreti direttamente sotto il controllo del suo ufficio, sottraendoli al ministero degli Interni, e ci mette a capo Panagiotis Kontoleon, un uomo di affari nel settore della sicurezza privata, con nessun precedente incarico pubblico.
Da quel momento il numero dei telefoni intercettati esplode: 42 al giorno per una media di 15mila telefoni sotto sorveglianza in ogni momento. E sebbene le intercettazioni siano legali in molte istanze ben presto si aggiunge agli strumenti utilizzati dai servizi segreti anche il software Predator. Il suo utilizzo improprio da parte dello Stato sarebbe stato orchestrato dal nipote, che si è dimesso insieme a Kontoleon lo scorso luglio, appena è scoppiato lo scandalo, mediante una serie di accordi e scambi di favori con imprenditori privati. «La sorveglianza di Koukakis non era necessaria al governo ma agli uomini di affari di cui si serve per usare Predator», un software che costa ufficial-
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IL SOFTWARE PER L’ESTRAZIONE DEI DATI CONDANNATO DALLA UE INVIAVA LE INFORMAZIONI A INTELLEXA, UN’AZIENDA CIPRIOTA BASATA AD ATENEFoto: Ansa, Getty Images 25 settembre 2022 75
mente 8 milioni di euro, denuncia Kouloglou: «Si tratta di un inedito mondiale: un governo che addirittura lavora per il settore privato!».
I giornalisti del consorzio greco “Reporters United” hanno ricostruito il meccanismo di scatole cinesi con cui Dimitriatis potrebbe essere arrivato a fare avere ai servizi il software in questione una volta insediatosi nell’ufficio del primo ministro.
Nel dicembre del 2019 Dimitriatis acquista Eledyn, una società che si occupa di energia alternativa, investendo privatamente 50mila euro e ponendo la sede sociale allo stesso indirizzo in cui ha il suo ufficio legale, a Kolonaki, i Parioli di Atene. Tra gli scopi sociali di Eledyn, che verrà poi dismessa nel novembre del 2021, c’è la possibilità di partecipare ad aste pubbliche e, più in generale, a transazioni con il settore pubblico, nonostante per legge il segretario generale del primo ministro non dovrebbe esercitare nessun’altra attività professionale.
Il 10 gennaio 2020 Eledyn acquisisce per mille euro Canalis, una società che opera nell’ambito della produzione di elettricità: nel maggio 2021 la rivende per 166mila euro a B&F, una società di abbigliamento che fa capo a Vassilis Bitharas e il cui figlio Giorgos ne diventa amministratore. Poi, il 14 luglio 2021, B&F acquista a sua volta la
a
società Ventus per mille euro. Ventus ha una particolarità: il venditore è Panagiotis Bitzios, ovvero il fratello di quel Felix Biggiou che tra il marzo e il giugno 2021 è amministratore di Intellexia, la società che distribuisce il software Predator in Grecia.
Ma le connessioni tra il governo, i servizi segreti e il settore privato non sono finite. Bitharas è anche partner a metà della Delphi Line e il suo socio è Krikel, la società che vende il software utilizzato dall’intelligence greca per le normali intercettazioni telefoniche.
«Il governo greco nega di avere comprato spyware ma allo stesso tempo non ha fatto nessuna indagine negli uffici di Intellexa permettendole di distruggere le prove con calma», denuncia Sophie In’t Veld, l’europarlamentare membro della Commissione che indaga sull’uso di Pegasus e degli altri sistemi equivalenti di sorveglianza che sta redigendo un rapporto sulla situazione dello spionaggio di Stato in Grecia, Polonia, Ungheria e Spagna: «Tra l’altro i mandanti sono membri del Consiglio europeo», denuncia dalla Polonia, dove si trova per indagare sull’utilizzo del malware Pegasus.
«Il governo greco ha agito tramite dei prestanome: d’altronde la prima cosa che ha fatto Mitsotakis salendo al governo è stata quella di scongelare i beni dei suoi compagni di affari, come Bitzios, che erano stati messi sotto sequestro per corruzione». Il premier conservatore non aveva mai fatto mistero di volere rilanciare il grande business e l’economia liberale per attrarre quegli investimenti esteri di cui la Grecia ha estremo bisogno. Ha semplicemente omesso di specificare quali sono le (a quanto pare) intramontabili regole del gioco ellenico.
L’ex capo dell'intelligence greca Panagiotis Kontoleon
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colpi bassi Foto: Getty Images
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IL PREMIER KYRIAKOS MITSOTAKIS AVEVA PROMESSO DI ABOLIRE NEPOTISMO E CORRUZIONE MA HA FINITO INVECE PER ALIMENTARLI 76 25 settembre 2022
IZYUM
LA SCOPERTA DELL’ORRORE
CENTINAIA DI CORPI NELLE FOSSE COMUNI. ESECUZIONI SOMMARIE, TORTURE, BRUTALITÀ. DOPO LA RICONQUISTA UCRAINA, I RACCONTI DEI SOPRAVVISSUTI
DI LORENZO TONDO DA IZYUM
FOTO DI ALESSIO MAMO
Le strade che conducono a Izyum, nel sud-est dell’Ucraina, sono un cumulo di detriti di guerra e brandelli di carne.Carcasse di decine di carri armati russi e veicoli militari carbonizzati campeggiano ai bordi dell’asfalto, punteggiato da profondi crateri aperti dalle bombe esplose durante la controffensiva ucraina per la riconquista della città, una delle più strategiche per Mosca, che l’ha occupata per quasi 6 mesi. Il cadavere di un soldato russo ucciso in battaglia inizia a decomporsi tra i cespugli a ridosso della strada. Frammenti di gambe e braccia penzolano dagli alberi. Più ci si avvicina alla città, più cresce il sospetto che il peggio debba ancora arrivare. Decine di edifici sventrati dalle incursioni aeree svettano dalle colline come gli scheletri di una città fantasma. Sotto quelle macerie, giacciono ancora i corpi di un numero imprecisato di civili seppelliti vivi dai bombardamenti russi a metà marzo. Centinaia di
altri corpi iniziano ad affiorare dalla terra umida dei boschi attorno a Izyum dove la polizia ha rinvenuto le salme dei primi 445 civili uccisi, sepolti senza nome. Chi è sopravvissuto ai missili, alle torture e all’occupazione, attende il proprio turno in fila per la distribuzione di cibo, indumenti e acqua, mentre in lontananza riecheggiano i colpi dell’artiglieria russa, spinta indietro a otto chilometri da qui. Considerata per secoli la porta del Donbass e cerniera tra la Russia e il Mar d’Azov, Izyum oggi sembra la porta di un inferno.
Lorenzo Tondo Giornalista del Guardian, scrive per L’Espresso
«Anche se provassi a spiegarti quello che abbiamo vissuto, non lo capiresti, perché se non lo hai vissuto, non lo puoi comprendere», dice Olga, 44 anni. «Siamo rimasti così a lungo in casa che abbiamo imparato a riconoscere le bombe ascoltando il rumore
78 25 settembre 2022 La guerra di Putin
degli aerei russi. Se dal suono il velivolo sembrava piccolo, sapevamo che avrebbe sganciato due bombe. Se il frastuono proveniente dai cieli era più fragoroso, ne avrebbe sganciate sei. Contavamo le esplosioni una alla volta, prima di tirare un sospiro di sollievo, senza sapere però quanti altri amici e parenti erano morti nel frattempo».
Dalle città liberate dall’esercito ucraino nella regione di Kharkiv, emergono gli orrori dell’occupazione russa. I residenti sopravvissuti raccontano di come Mosca abbia ridotto i loro villaggi all’osso, sventrando case e palazzi, lasciando morire gli infermi, torturando i ribelli e affamando la popolazione. A Izyum, Balakleya e Kupiansk, non c’è tempo per festeggiare la vittoria di Kiev. Ci sono amici e parenti da disseppellire dopo che erano stati sepolti in fretta e furia durante i bombardamenti. Ci sono funerali da celebrare e cumuli di legna da preparare in vista di un in inverno freddo e tetro. Ci sono fratelli, sorelle, madri e padri da cercare, spa-
Jriti nei primi giorni dell’occupazione e di cui ad oggi si sono perse le tracce. Della guerra che imperversava nel resto del Paese, gli abitanti delle aree occupate dai russi sapevano poco o nulla. Mosca era stata ben attenta a non far trapelare gli orrori che le sue truppe avevano commesso a nord di Kiev. Per 6 lunghi mesi, decine di migliaia di ucraini, sono stati tagliati fuori dal mondo, dal tempo e dallo spazio.
«Una volta entrati in città i russi trasferirono i loro cingolati nelle vie del centro», dice Vitaliy Ivanovych, un ex ingegnere elettronico di 64 anni di Izyum, che indossa stracci sporchi e polverosi. «Da quel momento nessuno di noi avrebbe più potuto lasciare il paese».
Ivanovych spiega che le torri telefoniche e le centrali elettriche erano state distrutte durante i primi bombardamenti russi a marzo. La mancanza di rete telefonica, significava niente più contatti con il mondo esterno. La mancanza di elettricità significava anche mancanza di acqua. Rara-
Un carro armato abbandonato dai russi in una strada di Izyum
25 settembre 2022 79 Prima Pagina
La guerra di Putin
mente, nel corso dei 6 mesi, i residenti erano stati in grado di lavare se stessi o i propri vestiti.
Poi fu la volta dei rastrellamenti. Una volta rimpiazzati gli amministratori ucraini, commissari di polizia e giudici con ufficiali del Cremlino, iniziarono i raid nelle case dei residenti. Mosca aveva ricevuto da decine di collaboratori russi gli elenchi dei poliziotti ucraini, dei militari e dei veterani che avevano combattuto contro la Russia nel Donbass.
«Sapevano esattamente dove cercarli, conoscevano i loro indirizzi e una notte bussarono alle loro porte», dice Serhiy Shtanko, 33 anni, rimasto a Izyum per tutta la durata dell’occupazione. «Li caricarono sui loro veicoli e di loro non si seppe più nulla».
Serhiy Bolvinov, capo del dipartimento investigativo della polizia della regione di Kharkiv, ha affermato che gli investigatori avrebbero scoperto a Balakleya una vera e propria “stanza delle torture” in cui decine di persone sarebbero state detenute nel seminterrato del commissariato della città.
Le dichiarazioni di Bolvinov coincidono con i racconti raccolti da L’Espresso tra la popolazione civile in altri villaggi liberati a Kharkiv e dai quali sembra emergere un vero e proprio manuale russo dell’occupazione che prevedeva, appunto, la trasformazione dei comandi di polizia locali in veri e propri campi di prigionia, dove i detenuti venivano seviziati per estorcere loro informazioni sui movimenti e piani dell’esercito ucraino.
La maggioranza dei testimoni ha descritto la gestione russa dei territori occupati come un vero e proprio stato di polizia, in cui le autorità non tolleravano il minimo accenno di dissenso. Il prezzo da pagare era l’arresto, o peggio, la morte.
«Due soldati russi, all’inizio dell’occupazione, rubarono l’auto di un mio amico», dice Eduard, 30 anni, di Izyum.
«Quello quasi d’istinto protestò. Lo uccisero davanti ai miei occhi a sangue freddo, insieme al suo cane».
Secondo i procuratori ucraini, nei boschi di Kharkiv si celano i corpi di centinaia di persone uccise dai soldati di Mosca. Molte di queste aree sono però ancora irraggiungibili dagli investigatori a causa dei colpi incessanti dell’artiglieria che in alcune città, come Kupiansk, proseguono nonostante la liberazione.
Altre di queste, invece, sono già una gigantesca scena del crimine.
L’esalazione di decine di corpi in decomposizione disseppelliti dalla fossa comune scoperta a Izyum, avvelena l’aria del bosco. Uomini e donne, con indosso camici, guanti e mascherine, scavano da ore nel terreno polveroso. I cadaveri brutalizzati dai bombardamenti e dalle esecuzioni sommarie, che erano stati seppelliti individualmente e senza nome, così come avevano ordinato i russi, riaffiorano dalla terra bagnata dalle piogge. La prima salma riesumata, ha una corda attorno al collo. Ne seguiranno altre.
Tamara Volodymyrovna, a capo di un’impresa di pompe funebri di Izyum, che ha detto di essere stata incaricata dalle forze di occupazione russe di stilare una lista dei morti,
80 25 settembre 2022
ADESSO COMINCIA LA CACCIA
A CHI HA COLLABORATO CON L’ESERCITO DI MOSCA. MOLTI SONO GIÀ RIUSCITI A PASSARE
IL CONFINE CON LA RUSSIA
spiega che la maggior parte delle vittime avrebbe perso la vita la scorsa primavera, durante l’assalto di Mosca a Izyum e che tra di essi ci sarebbero almeno 20 bambini.
«Non avevano fatto in tempo a raggiungere i rifugi antiaerei», dice Tamara. «Poi ci sono gli anziani e gli infermi, morti di stenti o mancanze di cure».
Nel piccolo ospedale di Balakleya, la sala operatoria è illuminata dalla luce fioca di una candela. Per sei mesi, medici e infermieri hanno continuato a lavorare senza acqua corrente né elettricità.
Intanto, a Kharkiv, è iniziata la caccia ai cittadini accusati di aver collaborato con i russi durante l’occupazione. Serhii Smak 44, di Balakleya, dice che la maggioranza dei residenti che avevano collaborato con Mosca, temendo le ritorsioni del governo ucraino, sarebbero scappati in Russia. Kiev ha confermato la presenza di lunghe file di auto ai valichi di frontiera russi e stando a quanto raccontato da alcuni testimoni, molti dei presunti collaboratori avrebbero già raggiunto la città di Belgorod.
Liudmyla Voloshyna, residente a Balakleya, dice che gli ufficiali di Mosca avevano persino annunciato l’imminente rilascio di passaporti alla popolazione: «La nuova Re-
La popolazione di Izyum riceve cibo e aiuti dalla Coce Rossa. Al centro: le squadre ucraine di emergenza scavano nel terreno delle fosse comuni fuori Izyum. A sinistra: soldati ucraini sfilano nel centro della città
pubblica popolare di Kharkiv è vicina, ci dicevano», ha raccontato Liudmyla. «Poi un giorno, iniziammo a sentire i colpi dell’artiglieria. Non ci dissero che era l’esercito ucraino che avanzava, ma non fu difficile intuirlo».
Pochi giorni prima dell’arrivo delle truppe di Kiev, Natasha, una commerciante di mezza età di Izyum, ha riferito che i russi avevano decretato un lockdown di dieci giorni per impedire alla gente di lasciare la città con l’avvicinarsi dell’esercito ucraino. Il sabato successivo, però, intorno alle due del mattino, la donna udì il rumore di alcuni camion che lasciavano Izyum, dirigendosi a sud.
«Il giorno dopo, uscii dalla porta di casa e vidi che il posto di blocco russo davanti alla nostra abitazione era deserto», dice Natasha. «Aspettammo ancora un po’ e infine constatammo che se ne erano andati».
Nel giro di poche ore, i primi battaglioni ucraini entravano nelle città di Izyum, Kupiansk e Balakleya, cogliendo di sorpresa non solo Mosca, ma gran parte degli osservatori internazionali. La liberazione della regione di Kharkiv avveniva in uno dei momenti più difficili per Kiev, messa con le spalle al muro dalla Russia nel Donbass.
I residenti dei territori occupati non credevano ai loro occhi. Alcuni avevano vissuto sotto l’occupazione russa sin dai primi di marzo, e, non avendo da allora avuto alcun contatto con il mondo esterno, in tanti erano convinti che Kiev fosse stata conquistata dai russi e che l’intero comando militare ucraino orientale fosse stato sconfitto.
Vedendo delle truppe avvicinarsi, sventolando le bandiere giallo-blu, Olga pensò addirittura ad una trappola, che i militari russi si fossero travestiti da soldati ucraini per inscenare chissà quale inganno.
La donna, in preda all’emozione, decise di tentare la sorte, urlando in direzione di quei soldati che si avvicinavano il celebre motto ucraino, diffuso già prima della guerra ma diventato dall’inizio dell’invasione lo slogan patriottico di un’intera nazione.
«Gloria all’Ucraina!», gridò Olga, con tutta la forza che aveva in corpo.
«Gloria agli eroi!», risposero in coro i soldati.
Il resto è già storia.
25 settembre 2022 81 Prima Pagina
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e prossime elezioni di metà mandato più che un referendum su Biden, saranno una scelta sul tipo di società in cui vogliamo vivere». John Podesta, padre nobile del partito democratico statunitense, prende una pausa dagli impegni istituzionali per riflettere con L’Espresso sulle insidie alla democrazia e sulla posta in gioco nella tornata elettorale di novembre, quando il Paese sarà chiamato a rinnovare la Camera e un terzo del Senato. A lui Joe Biden ha appena affidato il compito di traghettare gli Usa nella nuova era dell’energia pulita. Podesta supervisionerà, infatti, l’imponente investimento da 370 miliardi di dollari per le politiche ambientali incluso nell’Inflation Reduction Act. La legislazione sul clima più incisiva mai approvata. Previsti crediti d’imposta e incentivi alle industrie che sviluppano energia eolica e solare, ma anche agli americani che installano pannelli solari o acquistano pompe di calore e veicoli elettrici.
Un successo che ha finalmente premiato il presidente nei
82 25 settembre 2022 Verso Midterm LA SCONFITTA ANNUNCIATA NEL VOTO DI NOVEMBRE È DIVENTATA UN TESTA A TESTA. PARLA L’UOMO DELLA SVOLTA GREEN
USA COLLOQUIO CON JOHN PODESTA DI MANUELA CAVALIERI E DONATELLA MULVONI DA WASHINGTON L PERCHÉ BIDEN PUÒ FARCELA
DEMOCRATICO
John Podesta, responsabile del programma di investimenti per l’ambiente. Ha lavorato con Bill Clinton e Barack Obama.
A sinistra: Joe Biden davanti alla Casa Bianca
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sondaggi, dopo mesi bui segnati da un indice di popolarità ai minimi; e che ora il partito cercherà di giocarsi al meglio alle elezioni di metà mandato. Tappa fondamentale, questa, anche per capire quale direzione prenderà la corsa verso la Casa Bianca del 2024. «I democratici hanno dimostrato di essere in grado di ridurre inflazione e deficit, di contenere i costi della sanità, dell’energia. Due mesi fa si prevedeva che sarebbero stati sostanzialmente massacrati alle elezioni di novembre. Invece sarà un testa a testa».
Classe 1949, John Podesta cammina sicuro nei corridoi del Palazzo sin dalla fine degli anni Sessanta. La politica come professione, prima al Congresso, poi alla Casa Bianca. Bill Clinton lo ha voluto come capo gabinetto della sua amministrazione; per Barack Obama, invece, ha coordinato le politiche ambientali. A lui nel 2016 Hillary Clinton aveva affidato il timone della campagna elettorale presidenziale. Il suo mezzo secolo di esperienze politiche e amministrative è incapsulato nel Center for American Progress, il pensatoio li-
beral che ha fondato a Washington, tra i più influenti think tank in circolazione.
«Ho iniziato a lavorare in politica nel ’68, sono piuttosto anziano», dice ridendo, quando lo raggiungiamo via Zoom nella sua residenza californiana. E sembra venire davvero da un’altra epoca, tanto da ricordare quando ancora tra repubblicani e democratici esisteva un “terreno comune” d’intesa. Niente a che vedere con il “tribalismo” di oggi.
Persino una legge come quella sul clima è stata votata senza cooperazione repubblicana. L’obiettivo dell’Inflation Reduction Act è la lotta al cambiamento climatico, ma anche la riduzione dell’inflazione. Quando i primi risultati? Gli americani sapranno pazientare?
«Lo scopriremo tra meno di due mesi. Credo che la gente sostenga questo piano; però, come in Europa, è preoccupata per l’aumento dei costi, soprattutto del carburante. Ma sa che è un passo avanti. Non risolverà il problema dell’inflazione da un giorno all’altro, ma nel corso di un decennio ad esempio farà risparmiare un migliaio di dollari all’anno alle famiglie sul prezzo dell’energia. Ci sarà più stabilità, mentre ora ci siamo trovati davanti a una fluttuazione selvaggia, innescata dall’invasione russa dell’Ucraina».
Può funzionare da modello per l’Europa che cerca di sganciarsi dalla dipendenza russa?
«Prima che passasse questa legge, l’Europa era più avanti degli Stati Uniti con il pacchetto “Pronti per il 55%”. A questo proposito vorrei ricordare la memoria di Mauro Petriccione, direttore generale del Dipartimento per l’Azione Climatica della Commissione Europea, un attore cruciale. La domanda che ci dobbiamo porre è se sarà possibile rimanere sulla giusta strada, viste le pressioni sul sistema energetico a seguito della guerra e dell’uso, da parte di Putin, di petrolio e gas come armi. Il cambiamento climatico è una questione critica per la sicurezza ed è importantissimo che l’Europa si attenga al programma».
Il pacchetto sul clima, il successo in politica estera con l’uccisione del capo di Al Qaeda al-Zawahiri, ma anche l’apprensione degli elettori liberal per i diritti civili, sembra stiano dando nuova linfa al partito democratico. Non solo i successi personali del presidente, quindi: alle elezioni di metà mandato quanto peseranno le ultime decisioni della Corte Suprema, estremamente sbilanciata a destra?
Manuela Cavalieri Giornalista
Donatella Mulvoni Giornalista
«La prossima tornata elettorale smetterà di essere solo un referendum sull’operato di Biden. E poi appunto, il ribaltamento della sentenza Roe vs. Wade, con cui la Corte ha abolito il diritto federale all’aborto; ma anche i pronunciamenti sulle armi che aumentano la difficoltà per gli Stati a regolamentarne l’uso; e poi la posizione presa nel caso West Virginia contro Epa che ostacola la capacità dell’agenzia federale di proteggere
25 settembre 2022 83 Foto: Elizabeth Frantz for The Washington Post via Getty Images, Getty Images
Prima
Midterm
l’ambiente, ha reso evidente all’opinione pubblica che questa spinta verso destra del partito repubblicano ha avuto come risultato la produzione di candidati estremi, i cosiddetti “Maga” (dallo slogan coniato nel 2016, Make America great again”), seguaci di Donald Trump, che ancora negano i risultati delle elezioni del 2020 e suggeriscono che non li rispetteranno in futuro».
Se le midterm dovessero andare meglio del previsto, questo ottimismo potrebbe convincere Biden a correre per un secondo mandato?
«Dipende da lui. Ci sono tante speculazioni su una possibile ricandidatura, sull’età, sugli eventuali sfidanti alle primarie. Credo che la sua presidenza sia stata fino a ora importante, a partire dalla legge bipartisan sulle infrastrutture approvata la scorsa estate. Si tratta del più grande investimento infrastrutturale dai tempi in cui Eisenhower creò il sistema autostradale. Poi c’è stata la recente legislazione sul clima. Se si candiderà, nessun democratico proverà a sfidarlo. Se deciderà di non ripresentarsi, allora sì, assisteremo a una vigorosa competizione per chi gli succederà».
Il partito lo spingerà a ricandidarsi?
«Resta forte la sensazione che sia lui l’uomo che ha battuto Donald Trump, una minaccia per l’America e per il mondo. E che quindi lui potrebbe essere ancora la persona migliore a fermarne il ritorno. A influenzare decisivamente la scelta di Biden, sarà la possibilità che Trump corra per i repubblicani».
Quanto è credibile una ricandidatura di Trump, anche alla luce delle ultime indagini che lo vedono coinvolto? Dai documenti riservati sequestrati dall’Fbi nella tenuta di Mar-a-Lago, all’accusa di ostruzione della giusti-
zia, alle indagini per l’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021, fino a quelle per presunti reati finanziari. «Abbiamo esempi in tutto il mondo di amministratori che cercano di rimanere in carica o tornarci per evitare di essere perseguiti. E lui non fa eccezione. Penso che in questa fase non sia in grado di dominare in una campagna nazionale, ma il nucleo centrale del partito repubblicano lo teme ancora. Trump mantiene il sostegno della base, in particolare tra l’estrema destra. Bisogna prenderlo sul serio».
Tra le donne spiccano due nomi. Liz Cheney, la repubblicana che ha pagato con un seggio al Congresso la decisione di votare a favore dell’impeachment di Trump; e la vice presidente Kamala Harris, che però sembra non brillare. Che possibilità reali avrebbero?
«Non credo che Cheney avrebbe reali possibilità. Harris, invece, ha una grande forza politica, nonostante la gente pensi che sia stata all’ombra nella Casa Bianca di Biden. Se il presidente decidesse di non ricandidarsi, potrebbe essere una candidata formidabile».
Attraverso il suo think tank ha avvertito che la democrazia è sotto attacco. Il segretario di Stato Antony Blinken ha detto che bisogna agire con “umiltà e sicurezza”. «Da un decennio gli Stati Uniti sono sotto una pressione che non avevo mai visto in vita mia. Non credo che tutto sia cominciato con Trump, bisogna andare indietro nel tempo. Avevamo avuto prima Newt Gingrich, l’avanzata della destra oltranzista al Congresso. Ma solo in tempi recenti abbiamo visto quanto siamo stati pericolosamente vicini a un fallimento del processo democratico delle elezioni. La minaccia è seria. Ci sono legislature statali che stanno cercando di limitare il diritto di voto. Credo che sia fondamentale che le persone in buona fede, repubblicani e democratici, si battano per il principio di elezioni eque». Anche l’Italia si appresta ad elezioni importanti. In un editoriale, il New York Times ha sollevato preoccupazione per l’ipotesi di un governo guidato da Giorgia Meloni. Cosa ne pensa?
«Il popolo dovrà scegliere in quale direzione vuole che vada l’Italia. Vogliono che resti integrata con l’Europa, che mantenga lo slancio democratico, che continui con un programma economico basato sulla prosperità condivisa? Oppure preferiscono una sterzata a destra?».
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Pagina Verso
Q © RIPRODUZIONE RISERVATA “TRUMP VUOLE TORNARE IN CARICA PER NON ESSERE PROCESSATO, COME HANNO FATTO ALTRI NEL MONDO. MA NON CI RIUSCIRÀ” Pannelli solari nei campi della Virginia Foto: Drew Angerer / Getty Images
Il piacere di leggere
di Paolo Di Paolo
illustrazione di Fernando Cobelo
Idee quel Calvino noia,
Tempo che manca. Pigrizia. Populismo culturale. L’intolleranza ai libri complessi è sempre più frequente e sbandierata. E anche il lettore forte è indebolito 25 settembre 2022 87
om’era quella battuta? Javier Marías è morto, e anch’io non mi sento molto bene. Il grande scrittore spagnolo appena scomparso era uno dei rappresentanti più nobili di un’idea di letteratura che coincide integralmente con la parola “stile”. Una voce, un timbro, un tono, un giro di frase che –basta una pagina – diventa subito riconoscibile. Puoi togliere dalla copertina il nome di Marías: se cominci a leggerlo, lo riconosci. Può conquistarti o respingerti, ma anche una eventuale idiosincrasia è in fondo l’effetto di una scelta letteraria molto precisa: inventare uno stile prima che una trama, come ha osservato all’indomani della scomparsa Manuel Vilas su “El País”. Nei romanzi di Marías è quasi più importante la sintassi – «una sintassi spagnola portata al suo estremo» – della storia in sé. Questo richiede, da parte del lettore, non voglio dire uno sforzo, ma di sicuro un’ampia disponibilità. E sì, anche un po’ di pazienza. Perciò ha tutto il diritto il lettore che, su Anobii, un social (già un po’ invecchiato) per lettori “forti”, lo definisce rozzamente «una palla mostruosa». Ma d’altra parte – ha fatto notare il critico Massimo Onofri – nel tempo in cui l’urlo, allora liberatorio, di Fantozzi sulla “Corazzata Potëmkin” è diventato moneta corrente, anche chi usa definirsi gran bibliofilo, vantandosi di esserlo, rivendica certe insofferenze senza vergognarsene.
Onofri faceva l’esempio di una partecipante a un gruppo di lettura chiamato “Noi che i libri ce li mangiamo” che candidamente ammetteva di avere trovato «un pochino noioso» il romanzo di Virginia Woolf “Al faro”, capolavoro assoluto della letteratura universale. La signora potrebbe appellarsi ai diritti del lettore sanciti a suo tempo da Pennac; e in effetti – almeno in linea di principio – non si può rimproverare a nessuno di non apprezzare questa o quell’opera. Una questione di gusto, di sensibilità, di sintonia emotiva e linguistica.
Tuttavia, non credo sia inopportuno chiedersi perché si rilevi con sempre maggiore frequenza, proprio fra coloro che i libri “se li mangiano”, uno scarsissimo allenamento alla complessità. Una intolleranza – più o meno garbata, più o meno stizzosa, in ogni caso esibita – al libro “difficile”. Talvolta perfino al grande intramontabile classico; e qui confesso che secondo me la tizia che, ancora su Anobii, ha il coraggio di mettere nero su bianco che
Il piacere di leggere
Né snob pretenziosi, né naïf presuntuosi. Perché il punto non è stabilire gerarchie, ma preservare alternative in un paesaggio fin troppo uniforme 88 25 settembre 2022
I libri letti in un anno da chi viene definito “un lettore forte”
liquidare tutto ciò che non si legge, come si diceva una volta, sotto l’ombrellone, un po’ c’è da preoccuparsi.
E poi chi l’ha detto che Proust non si legge sotto l’ombrellone? Quest’estate in spiaggia ho visto almeno due bagnanti trafficare con i tomoni della “Recherche”. E basterebbe chiedere ad Alessandro Piperno quanto piacere, estetico e non solo, si possa cavare dall’impresa che per antonomasia è rubricata come la più impervia per un lettore. Ma va’: Piperno – nelle pagine avvolgenti di “Proust senza tempo”, appena uscito per Mondadori – equipara l’effetto della lettura della “Recherche” a un processo ipnotico: «La fitta pagina proustiana mi ondeggiava davanti agli occhi come un pendolo, provocando una specie di trance». Vale la pena provare, senza pregiudizi e senza paura delle salite. Ma come? Siamo tutti fissati con la palestra, con la corsetta, e lasciamo atrofizzare i muscoli dell’immaginazione.
“Madame Bovary” «è di una noia impressionante e la storia non ha consistenza» andrebbe almeno multata. Per abuso di libertà d’opinione.
Scherzo, ma fino a un certo punto. Gli snob pretenziosi sono insopportabili tanto quanto i naïf presuntuosi: si può (si deve) storcere il naso davanti a quello che dice «io non leggo i contemporanei, mi fermo a Proust», ma se una scrittrice da classifica come Valérie Perrin (“Cambiare l’acqua ai fiori”) va al Salone del Libro di Torino a dire che per lei Proust è una rottura di scatole, be’, forse è più grave. Voglio dire: mica deve piacerti per forza, ma perché ti fai prendere la mano da una specie di populismo culturale in cerca di applausi facili? Applausi che puntualmente arrivano, anche al Salone del Libro: ed è forse questo che mi sconcerta. Non dico che non mi faccia dormire la notte, ma quasi: se pure nel pubblico dei lettori forti – quelli che vanno ai festival, quelli che fanno la coda per entrare nel tempio dei libri – circola questa smania di
La percentuale degli italiani tra i 15 e i 75 anni che legge almeno un libro l’anno
La percentuale dei libri acquistata dai lettori forti
«Te ne sei accorto sì / che parti per scalare le montagne / e poi ti fermi al primo ristorante / E non ci pensi più», canta Brunori. Ma insistiamo a pensarci, perché si tratta anche di una questione di bibliodiversità, come qualcuno l’ha chiamata. Non di gerarchie alto-basso, ma della necessità ecologica di preservare le alternative in un paesaggio fin troppo uniforme. Anche, più semplicemente, dell’utilità di non cedere senza condizioni alla pigrizia culturale – i cui segni (bisogna essere sinceri) leggiamo anche in noi stessi quando, arrivati a sera, preferiamo Netflix al volume che ci scruta dal comodino. C’è da sentirsi in colpa? No. Purché non assecondiamo la deriva del «che palle! che palle!» (copyright Arbasino) applicato a tutto ciò che richiede un minimo impegno. Che mattonata. Che pesantezza. Che tortura. Che ho fatto di male. No, cari lettori davvero “forti”: se ci siete, battete un colpo! Dimostrate di esistere ancora, al di là delle indagini demoscopiche che vi definiscono come quelli che leggono un libro al mese. E se non siete solo forti ma addirittura fortissimi (quelli da tre quattro cinque dieci libri al mese), ditemi che si può ancora provare a chiedere a un romanzo qualcosa in più, o meglio, qualcosa di diverso da una pura trama.
Nel piccolo, densissimo saggio intitolato “La Via della Narrazione” (Feltrinelli),
Il Salone del libro di Torino
È la media dei libri letti dai lettori forti italiani, secondo dati Aie 2021
Foto: D. PulettoGettyImages Idee
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di leggere
Alessandro Baricco è netto sulla questione: storia e trama senza stile dimorano, dice, «in un mondo parallelo a cui si è trovato un nome preciso: intrattenimento». Un mondo parallelo che può essere bellissimo, e necessario. Sarebbe pericoloso, però, che diventasse l’unico.
Se smettiamo di allenarci per scalare anche solo qualche collinetta, avremo il fiato corto anche in pianura. Se dimentichiamo l’orgoglio e la soddisfazione con cui si guarda giù da una qualche cima, ci condanniamo a vivere rasoterra. Se smettiamo di assaggiare pietanze diverse, finiremo per avere una lingua anestetizzata. E il circolo è vizioso: il lettore forte indebolito si lascia indebolire ulteriormente dall’editore che resta forte indebolendo le ambizioni degli autori.
L’ultimo romanzo di Joshua Cohen, “I Netanyahu”, che poi si è aggiudicato il Pulitzer (da noi l’ha pubblicato Codice), pare sia stato rifiutato da diversi editori americani, rimasti perplessi di fronte all’eccesso di “letterarietà”. Il collega italiano Francesco Pacifico, commentando la vicenda, si è giustamente chiesto se «c’è ancora modo per leggere libri difficili che non vanno giù tutto d’un fiato». Espressione, in effetti, fastidiosa e abusata: perché dovremmo leggere sempre «tutto d’un fiato»? Chi l’ha detto?
Sta ai lettori forti e soprattutto ai fortissimi difendere lo spazio in cui gli scrittori e
le scrittrici di oggi e di domani possano compiere qualche azzardo. Possano permettersi cioè di non essere “facili”. E non si tratta – come qualcuno a questo punto potrebbe pensare – di opacità fine a sé stessa, di sperimentalismo impenetrabile e masturbatorio. Si tratta, molto più semplicemente, di pensare a un romanzo come a
Il canone letterario che non c’è
di Wlodek Goldkorn
Sheherezade raccontava le sue storie - che le salvarono la vita - a voce alta così come a voce alta venivano recitati i versi di Omero. E si potrebbe continuare con un elenco di autori inventati e realmente esistiti parlando dei poeti russi contemporanei che, sebbene fanno stampare le loro opere, considerano la vera poesia solo la lettura - quasi un canto - a voce alta e in pubblico. Il punto è questo: l’abitudine di leggere i libri, fra romanzi, poesie, saggi, in solitudine e in silenzio è piuttosto recente ed è diventata costume borghese e poi anche popolare nel corso dell’Ottocento, con la diffusione dei romanzi sotto forma dei feuilleton (storia a puntate come le odierne serie cinematografiche) sui quotidiani, poi con la crescita delle biblioteche pubbliche
Da sinistra: Valérie Perrin, Joshua Cohen, Javier Marías, Alessandro Piperno
Il piacere
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lettura: «dieci nuovi inizi, tutte le volte interrotti». Lo trovo divertente e paradossale: quello di Calvino è sicuramente un romanzo complesso e cervellotico, ma la lettrice non sembra avere colto le intenzioni dell’autore. La sfida conoscitiva che intendeva proporre. L’utente somiglia alla lettrice che, nel romanzo di Calvino, accetta di essere «saldata alla poltrona per i polsi» da libri lanciati sul mercato solo dopo la verifica dell’estrema leggibilità: «Se l’attenzione di lettura raggiunge certi valori con una certa continuità, il prodotto è valido»... Tant’è. Bisogna aggiungere, per completezza di informazione, che “Se una notte d’inverno un viaggiatore”, nel luglio del 1979, complesso e cervellotico com’era, risultava primo nella classifica dei bestseller.
un’esperienza conoscitiva condivisa. A un tratto di strada che si fa almeno in due –autore e lettore, alleati nella stessa scommessa sul senso e sul linguaggio.
Una utente del solito Anobii che si firma Filodiarianna – commentando “Se una notte d’inverno un viaggiatore” – dice che la sua salute mentale è uscita a pezzi dalla
e infine con la notevole riduzione dei prezzi dei libri nella seconda metà del Novecento che ha permesso, a sua volta, la prassi di comprarsi i volumi da leggere e tenerli in bella vista in casa. Non è quindi detto che fra non moltissimi anni, continueremo a leggere in silenzio parole e frasi in nero su bianco (su carta o sullo schermo) a esibire i volumi acquistati nei salotti o studi, e forse neanche gli autori metteranno in pagina le loro idee, fantasie, sentimenti, con la scrittura. Con lo smartphone, computer e altri dispositivi digitali è possibile trasformare qualunque testo scritto in un messaggio o racconto vocale. E del resto, è quello il meccanismo degli audio-libri, in notevole crescita di mercato. E per fare un solo esempio: le letture dei “Promessi sposi”, fatte recentemente a RadioTre, rendevano il capolavoro di Manzoni ancora più bello che non letto in silenzio. E anche gli autori possono oggi, dettare i loro testi parlando direttamente al supporto digitale. Sarà davvero prassi comune, stare chini sulla pagina (seppur virtuale) per scrivere e per leggere? Ma c’è di più. La lettura e le abitudini dei lettori e forse pure degli scrittori, stanno cambiando anche
perché è venuto a mancare quello che viene chiamato il “canone letterario”, un insieme di testi che caratterizza il dibattito e che nel recentissimo passato una qualunque persona che volesse apparire colta e informata era obbligata a leggere. Immaginiamoci una sala, gremita dal pubblico, con pochi e scelti oratori che parlano da due o tre palchi. E da quei palchi enunciano i titoli dei libri da leggere, spiegano per quale motivo sono belli e buoni e quali sono invece meno importanti o da stroncare. Ecco, quel mondo non c’è più. Oggi invece, per continuare con la metafora, i palchi sono infiniti, fra social media, riviste on-line, podcast e via elencando. Il pubblico è frammentato: ognuno sceglie l’oratore di riferimento e lo cambia spesso. I titoli offerti dal mercato italiano nel 2021 erano più di ottantacinque mila. E in fondo, hanno ragione tutti. Quanto sopra non è un richiamo nostalgico alla severa auctoritas del critico letterario ma una constatazione, una fotografia di una situazione in cui il lettore si sente, giustamente, smarrito. I rimedi? Continuare il dibattito, parlare, guardare il futuro, senza paura.
Se smettiamo di allenarci per scalare anche solo qualche collinetta, avremo il fiato corto anche in pianura.
E ci condanniamo a vivere rasoterra
Idee
Q ©RIPRODUZIONE RISERVATA
Q © RIPRODUZIONE RISERVATA
Foto: M. ValicchiaNurphoto / GettyImages, R. BianchiRosebud2, E. ParraGettyImages, L. CendamoGettyImages 25 settembre 2022 91
La meraviglia del minuscolo. La bellezza dell’imprevedibile. E persino il nostro senso di fragilità. Una grande poetessa invita a riscoprire il magico intorno a noi Sua Maestà
lo stupore
Nel gioco dei bambini, lo straordinario emerge dall’ordinario, il magico sbuca dal quotidiano: l’insignificante diventa improvvisamente centro di gravità di meravigliose fantasie. Ricordando le sue esperienze fantastiche di quand’era piccola, Chandra Candiani ci invita a non abbandonare lo stupore che accompagna lo sguardo, accogliente sebbene un po’ spaventato, dei bambini. Nella raccolta di fiabe “Sogni del fiume” (Einaudi), incontriamo personaggi che, volgendo gli occhi attorno a noi, guardando dalla finestra, ripercorrendo l’itinerario che ogni giorno seguiamo, non faticheremmo a incontrare; ma nelle fiabe di Candiani, questi personaggi si riscoprono magici, magnifici nella loro semplicità. Da ogni istante del presente, sembra poter far ingresso nella nostra storia qualcosa di meraviglioso, perfino di salvifico. Qual è la disposizione d’a-
colloquio con Chandra Livia Candiani di Carlo Crosato illustrazione di Alice Iuri
Poesia
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Idee 25 settembre 2022 93
nimo più giusta per accorgerci e accogliere lo straordinario nelle nostre vite?
«Probabilmente ci sono tante vie che conducono alla meraviglia e dunque a quegli occhi privi di preconcetti che permettono di vedere nella polvere la luccicanza, negli insignificanti la maestà del minuscolo. Per me è non avere un pensiero antropocentrico, sentirmi minima in un paesaggio di tante immensità, cosmiche e microscopiche. Le fiabe insegnano proprio questo spostamento di sguardo e di senso: la salvezza viene quasi sempre da piccole creature che nel pericolo si fanno vive. Il pensiero razionale, discorsivo, strettamente logico, non permette il respiro della magia, dell’“impossibile possibile”, della “variegatezza” di mondi e di linguaggi. Credersi importanti uccide il mistero, il sussurro del mondo, dei mondi. Credere di sapere fa vedere le cose sempre identiche, fa vedere i concetti, non le cose. Per vedere il flusso costante occorre tuffarsi, saper galleggiare e anche rischiare il naufragio. Sviluppare una vista periferica fa vedere le creature fuggitive, le nuvole sottili, i pulviscoli, si aprono infiniti mondi pallidi». C’è qualcosa di sacro in tutto questo.
«Credo di sì. Quando cammino nel bosco o quando guardo con la maschera i pesci del mare o le luci sotto l’acqua del lago, quando mi perdo nel cielo o mi tengo stretta a un albero, sento che si schiude qualcosa, sento che il silenzio è potente quanto una parola vera. È un sacro che fa tremare le gambe, ma non per il timore bensì come di fronte all’apertura di un varco. Non è una sacralità vincolata alle religioni, e tutto ciò che la separa dal vivere ordinario è solo il velo del no-
stro pensiero divisivo. Ci si spaventa da morire quando si sente di scivolare fuori dalla realtà; quando invece arriva la magia si è presi per mano e lo sguardo cambia e viene da ridere della nostra pochezza».
Si tratta di frequentare la capacità di meravigliarsi. Qualcosa che spesso non ci riesce per trascuratezza o perché non sopportiamo di sentirci indifesi.
«Abbiamo una gran paura della fragilità, della nostra friabilità. E a ragione: questo mondo è sempre più dei forti, dei prepotenti. Ma essere indifesi è un ingrediente della meraviglia. Il conforto del pensiero ripetitivo, dei concetti indiscutibili, delle convenzioni condivise rassicura, ma non permette il mutamento, lascia indietro rispetto alla corrente degli attimi che si rincorrono e in mezzo ai quali c’è l’acqua profonda di tutto quello che non sappiamo ma intuiamo e temiamo. La morte è una grande maestra di meraviglia, ci interroga. E non saper rispondere è una possibilità di andare oltre le strettoie del pensiero abituale. Lasciarsi far male dalla vita apre porticine segrete, proteggersi troppo chiude in una casa senza finestre».
Il mondo è dei potenti. La forma narrativa della fiaba può ridare voce a chi non ce l’ha?
«La fiaba è la salvezza dei poveri, il paese dei delicati, la terra madre dei solitari. Nelle fiabe il mondo e i valori sono capovolti: chi perde viene visto e raccolto; non viene portato in trionfo, ma fatto entrare in un pozzo o in una tana, in un cunicolo verso un altro mondo. Le fiabe sono scritte per i bambini quando ancora non erano il centro dell’attenzione adulta come regine e principi che appena aprono bocca vengono applauditi. Erano per i
bambini soli, non visti, per gli infanti che non parlano e quindi, secondo gli adulti, non hanno pensiero. I bambini si incantano e le fiabe raccolgono questa tradizione e questo linguaggio di incanti. Ora i bambini in certi mondi vengono massacrati e in altri idolatrati. Sono i bambini incapaci, inciampanti che hanno bisogno delle fiabe, ma anche gli altri, gli adorati, che pagheranno il prezzo durissimo di doversi spogliare delle aspettative, di doversi strappare dalla norma, conoscere il rischio del mondo grande, spaccare il guscio delle illusioni e rincorrere la franchezza della solitudine per poter ascoltare il verso di una civetta nella notte, il proprio respiro, il pensiero notturno».
Viviamo in un mondo iperconnesso, eppure questo non ci salva dalla solitudine. È un tema che torna frequente nelle sue fiabe: la solitudine non solo come condanna, ma anche come maestra.
«Per me senza solitudine non c’è arte, non c’è pensiero, non c’è gioia della conoscenza, il profondo sentire “niente” che fa scrivere, dipingere, suonare, scolpire. C’è una solitudine che fa ma-
“Senza solitudine non c’è arte, non c’è pensiero, non c’è gioia della conoscenza, quel profondo sentire “niente” che fa scrivere, dipingere, suonare”
Poesia
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“Sogni del fiume” di Chandra Candiani, illustrato da Rossana Bossù (Einaudi, pp. 128, € 14). Sotto: un ritratto fotografico della poetessa
tragedie. Come si può accogliere l’inaccettabile?
le perché isola e schiaccia: è estraneità, emarginazione, esilio. E c’è la solitudine che fa bene: è la stessa solitudine, ma la si sceglie, la si indossa con grazia; accogliendola ci si tesse un mantello che protegge e permette di guardarsi intorno e notare altri solitari, altri non importanti; certe volte ci si riconosce, altre volte basta sapere che gli altri ci sono. La solitudine è una condizione necessaria, ma non dovrebbe diventare orgogliosa o arrogante. Dovrebbe restare delicata, malinconica, continuare a guardarsi intorno e ammirare altre solitudini e altri insiemi. Nel bosco sono tutti soli eppure sono un insieme. Il picchio verde avverte che qualcuno sta arrivando, la lucertola scappa ma ti sbircia, lo scoiattolo rompe le nocciole e fa un fracasso piccolo, il rospo canta l’amore e sembra una motosega: tutti soli nelle loro faccende, tutti insieme a fare orchestra di suoni e di vite precarie». Un’altra protagonista delle sue fia-
be è la natura, che insegna pazienza, umiltà, cura, accettazione. E però noi sembriamo non imparare: non pazientiamo ma forziamo gli eventi, non ci prendiamo cura della natura ma anzi la distruggiamo. «Ci comportiamo da predatori. È così triste vedere quanta paura facciamo agli altri esseri. Addomesticare un animale, imparare ad ascoltare una pianta o un albero, sono addestramenti ad abitare il mondo con più cura, sentendo che tutto è vivo. Ma per moltissimi la natura è fondo a cui attingere e sfondo contro cui apparire, brillare. Non c’è senso di interconnessione, ma la stiamo pagando cara, no? Alla fine, questo non voler mai fermarsi, fare ritorno, posarsi e riposarsi ci distruggerà. La natura sa rinascere senza di noi». Uno dei valori che traspaiono nei suoi scritti è l’accoglienza. Sono anni che, a torto o a ragione, ci sentiamo perseguitati da
«Allenandosi. Quando ascolto un rumore non mi precipito a discriminare se mi piace o non mi piace: lo lascio entrare e sento se mi fa bene o mi fa male, e assaporo entrambi. Smettiamo di scartare lo scomodo! Assaporando man mano tutte le sensazioni e investigandone la natura vuota, il loro non permanere, il loro trasformarsi e sparire, si arriva ad assaporare anche il tragico. E non fa piacere, fa soffrire; ma si assapora la sofferenza, in pieno corpo, e allora qualcosa di nuovo nasce. Non è un addestramento alla passività, ma anzi all’arrivo di un’azione vera, che nasce dall’accoglienza e non fa accettare l’inaccettabile: lo fa sentire, percepire e poi si agisce, ci si ribella magari ma con piena conoscenza di quello che sta accadendo. La centralità egoica del vittimismo è un modo per descriversi e non essere, non vivere il male, lasciando il vero tragico agli altri, ai fragili per condizione o per vocazione. Decentrandosi dalla scena si impara tanto: si comprende che la fissazione all’intensità è solo la confessione di non saper più sentire il sottile, il tenue».
Queste fiabe sono state scritte quando era più giovane. Come è mutato il suo percorso?
«Ero giovane e sperduta, tornata da anni di Oriente e di vita comunitaria mal sopportata. Rivedendole, ho tolto enfasi, retorica, ma ho lasciato la percezione dolorosa della giovinezza di quando si sente che un io separato sta nascendo e non si può farci niente, è una fase necessaria ed è il preludio a un’unità vera. La solitudine è per me meno acuminata ora. Le mie poesie, i miei scritti, sono al mondo, sono arrivati dopo tanti anni di clandestinità, mi dà gioia, sento che quello che era un appassionato lavoro solitario ora è anche un destino, ma può finire da un momento all’altro, è precario, e quindi studio il formarsi delle illusioni e le lascio libere, non le trattengo. Sento che quella che chiamavo solitudine ora si chiama serenità».
Foto: oversnapGettyImages, L. CendamoGettyImages Idee
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La vita
non sa raccontarsi
Servono i raccontatori: a parole, immagini, visioni o suoni. A loro spetta il compito di perpetuare la civiltà. Uno scrittore di fronte alla sfida del suo libro sullo schermo
di Daniele Mencarelli
Da vita a romanzo. Da romanzo a serie televisiva. Linguaggi diversi che manipolano, adattano, naturalmente tradiscono, sì, perché la realtà è una soltanto e non conosce doppi, ma racconti più o meno riusciti, memorabili.
Da far tremare i polsi? Sì. Come giusto che sia.
Perché un gesto espressivo è sempre salto, equilibrio da ritrovare passo dopo passo. È sempre stato così e lo sarà per sempre, anche se oggi gli artisti prendono le distanze da questa visione radicale del loro gesto, che pretende tutto, anche l’offerta di un vissuto, della propria carne. Perché l’arte è sempre totale, basta guardare ai maestri del Novecento e via indietro nel tempo.
Si parte sempre da un dato di fatto: la vita da sola non sa raccontarsi. Servono, serviamo noi: i raccontatori. Che sia parola o immagine, visione o suono, non importa.
La sfida è sempre la stessa, prendere un dato, non importa la sua provenienza, se biografico o immaginifico, aneddotico od onirico, e attraverso il proprio lavoro di artigiani perpetuarlo all’infinito per le generazioni che verranno. La
nostra civiltà si fonda su questo passaggio di memorie storiche e affettive.
In moltissimi hanno ritrovato nel mio romanzo, “Tutto chiede salvezza”, qualcosa di loro. Hanno vissuto un luogo, delle vite, ne hanno fatto qualcosa di molto simile a un’esperienza propria.
La mia soddisfazione, la gioia, non hanno mai superato una preoccupazione che vive tuttora. Un artista è un grido unanime, è un uomo che si autoproclama portabandiera di mondi ed esperienze. Assume su di sé il compito più gravoso, arrivo a dire maledetto: farsi tramite tra umano e umano, tra generazioni diverse, gente che non avrebbe mai saputo dell’altro se non attraverso di lui e del suo gesto artistico. Raccontare la vita di chi non si può raccontare. Come tanti dei personaggi dei miei libri.
Da far tremare i polsi? Sì. Con la vita degli altri non si scherza.
“Tutto chiede salvezza” entra in una storia vecchia quanto l’uomo, che trova ieri come oggi mille modi per esistere e confliggere. La cosiddetta normalità, quindi l’obbedienza alle abitudini, le norme, il vivere almeno apparentemente in pace, e dall’altra la malattia mentale, la sofferenza, per arrivare alla follia.
La malattia mentale vera e propria, la
illustrazione di Wieslaw Rosocha
96 25 settembre 2022 Le forme delle storie
Lo scrittore Daniele Mencarelli, 48 anni
psicosi. L’incapacità dell’individuo di scindere il mondo reale, materiale, dal suo mondo interiore. Non essere più in grado di controllarsi.
Ma, la follia è umana, tanto quanto la normalità.
“Io ho detto che non so che cosa sia la follia. Può essere tutto o niente. È una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia.” Franco Basaglia, Conferenze brasiliane, 1979.
Queste parole di Basaglia, uomo, scienziato, medico, che in altre parti del mondo sarebbe considerato e trattato come un eroe del progresso, dicono tutto in poco.
La follia è umana quanto la ragione.
Ma ci terrorizza ammetterlo.
Arriviamo al nuovo salto.
Da romanzo a serie televisiva
Da una storia, prima vissuta, poi scritta, a un processo creativo che prevede la compartecipazione di linguaggi diversi e complessi. Dalla scrittura delle sceneggiature alla ricerca delle location più adatte, parallelamente la costituzione del cast, ovvero la scelta di quei volti che diventeranno oggettivamente i personaggi che nel mio libro erano lasciati all’immaginario dei lettori. Come sempre, meravigliosamente, succede con la letteratura. Poi le riprese. La visione del regista, coadiuvato dal direttore della fotografia, che costruisce la dinamica di una scena partendo dalla sua esperienza individuale, di lettore prima e di artista poi. Ma nulla sarebbe la sua opera senza la bravura degli attori, ai quali impartisce, seducendoli, maieuticamente, quello che vuole da loro, e che loro sanno restituirgli grazie al talento che possiedono. Una volta chiuso il set, tutti gli altri linguaggi che lavoreranno alla finalizzazione della serie. Dal montaggio, fondamentale, alla color correction, poi il musicista che
Illustrazione di Wieslaw Rosocha, particolare del poster realizzato per “Satyrycon” (1996)
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comporrà i temi che diventeranno parte del DNA finale a uso e consumo del pubblico. Perché la musica è linguaggio essenziale tanto nei film, Morricone docet, quanto nelle serie che negli anni hanno preso il sopravvento.
Mi fermo ai ruoli salienti, ma di artisti, artigiani, che concorrono alla realizzazione di una serie televisiva ce ne sarebbero da citare ancora parecchi. E alla fine?
Il passaggio da romanzo a serie, come definirlo? Giudicarlo?
Un piccolo aneddoto.
Avendo firmato la sceneggiatura della serie assieme a Francesco Bruni, Daniela Gambaro e Francesco Cenni, ho avuto la fortuna di vederla in anteprima. Ho guardato la seconda puntata su un Frecciarossa Milano-Roma. In molti avranno sentito un mezzo matto, mai fatto fatica a sentirmi parte di questa categoria, piangere e ridere di continuo.
C’è una cosa che posso sapere solo io. Tutti gli altri, intendo i lettori, hanno del mio romanzo, come di ogni altro, una storia che viene messa in scena dalla loro fantasia, per ognuno una storia diversa. Le parole sono significanti, è chi le finisce, proprio i lettori, a mettere un significato. Ovvero un’immagine.
Lo scrivente, nel caso specifico, non ha attinto dalla sua fantasia, ma dalla memoria, i ricordi.
Quello che mi ha colpito della serie è
Le
Dalla pagina alla sala
Viola Ardone e Gigi Riva vincono il premio “Un libro un film”
di Valeria Verbaro
“Oliva Denaro”, il romanzo di Viola Ardone pubblicato da Einaudi, vince, per la sezione “Un libro per il cinema”, il Premio Segafredo Zanetti Città di Asolo “Un libro un film”.
Il premio “Un libro per la serie tv” va invece al giornalista de L’Espresso Gigi Riva, che con “Il più crudele dei mesi” (Mondadori) ha ripercorso le storie di 188 vittime della pandemia, a Nembro. La giuria, che includeva anche Daniele Mencarelli, già vincitore nel 2020 con “Tutto chiede salvezza” (dal 14 ottobre su Netflix in sette episodi), ha assegnato i premi alle due opere, ritenute di rilevante potenziale cinematografico e televisivo, scegliendo da una cinquina che includeva anche i romanzi “Mordi e fuggi” di Alessandro Bertante (Baldini+Castoldi), “Il nostro meglio” di Alessio Forgione (La Nave di Teseo) e “Solo la pioggia” (Sellerio) di Andrej Longo.
L’evento, cuore del Festival del Viaggiatore, conferma il sempre più forte legame fra l’editoria, il cinema e la tv, una tendenza in atto già da qualche tempo: “Hollywood ha divorato i diritti sui libri durante la pandemia”, titolava il Los Angeles Times, segnalando l’interesse per la narrativa delle case di produzione, dettata anche dai picchi di vendita dell’editoria durante lockdown. Nella solitudine forzata si è riscoperto il piacere della lettura - fino a farne i trend su TikTok - e il fascino delle possibili trasposizioni. Nel 2021 il trionfo di “Drive My Car”, tratto da un racconto di Murakami, ha segnato il momento più alto del rinnovato incontro fra pagine e immagini.
Nella prima stagione cinematografica di vera ripresa dal Covid-19 è ancora più evidente che questo sarà l’anno degli adattamenti, come già anticipato da alcuni titoli di punta della Mostra del cinema di Venezia: “Bones and All”, “Blonde”, “White Noise”, “The Hanging Sun”, “Ti mangio il cuore”, “The Whale”, “The Son”, rispettivamente tratti dai romanzi di Camille DeAngelis, Joyce Carol Oates, Don DeLillo, Jo Nesbø, dall’inchiesta di Carlo Bonini e Giuliano Foschini e dai testi teatrali di Samuel D. Hunter e Florian Zeller. Q
la ricostruzione, incredibilmente, mi verrebbe da dire fottutamente, simile alla realtà che fu. A partire dai luoghi.
La stanza che vedrete è sorella gemella della mia, mia del Trattamento sanitario obbligatorio a cui fui sottoposto, dove ho vissuto quello che tanti anni dopo avrei raccontato in un romanzo.
E dopo la stanza decine, centinaia di altri momenti che hanno confuso, sino a fonderlo, ciò che è accaduto da ciò che è stato prima scritto e poi girato, Immagine e ricostruzione si sono anda-
ti a sovrapporre al millimetro nella mia memoria, sino a creare qualcosa di stordente: un ricordo nuovo. Un ricordo che si è alimentato di vita, poi di parole, infine di immagini.
Quello che è successo, e metto dentro i due editori: Mondadori prima e Netflix poi, è stata una fusione di vite, e ancora più consanguineo, profondo, il desiderio da cui tutto prende vita.
Che ci sia da qualche parte, una briciola di salvezza per tutti.
Roba da far tremare i polsi. Q
Foto pagina 965: M. Moratti -
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Vincenzo Crea e Federico Cesari nella serie “Tutto chiede salvezza”
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forme delle storieIdee
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25 settembre 2022 99 Idee Foto: Xxxxx Xxxxxx
e letteratura
di Stefano Vastano
SLa fuga dalla Bosnia, il vicino di casa che diventa carnefice, le umiliazioni in Germania. Ora il pericolo Putin. Parla lo scrittore tedesco-bosniaco Saša Stanišiü aša Stanišiü, leggera barba brizzolata, occhi sorridenti e neri come la pece, non è affatto d’accordo con la nota sentenza di Ovidio: «Omne solum forti patria est», ogni terra è patria del forte. «Ovidio ci dice che la patria è privilegio di chi ha abbastanza risorse e potere per assicurarsene una e rivendicarne il possesso. Peccato che non siano mai i ricchi a lasciare le terre in cui sono nati», attacca il 45enne scrittore tedesco-bosniaco. Stanišiü è nato nel 1978 in quel di Visegrad, la città della Drina e del Nobel Ivo Andric. Sua madre è bosniaca, il padre serbo e a 14 anni si è trovato a fuggire da una ex-Jugoslavia fatta a pezzi dall’odio razziale e dalla guerra. Per ritrovarsi all’improvviso, e senza parlare una parola di tedesco, in un liceo di Heidelberg.
«Sì, ero un ragazzo dei Balcani», racconta di quei momenti traumatici: «L’infanzia l’ho trascorsa con mia nonna, che per me rappresenta un’idea di
casa, di sicurezza e di felicità». Tutto questo diventa il tema a cui ha dedicato “Herkunft”, “Origini” come s’intitola il suo furioso bestseller tradotto in 26 lingue (e in Italia pubblicato dalle edizioni Keller). Un racconto in cui, nel suo stile surreale, Stanišiü ricostruisce non solo la fuga dalla Bosnia e il duro impatto con la Germania e il tedesco, ma anche il declino della nonna che, malata di Alzheimer, perde lentamente le sue radici, la lingua e l’identità, mentre suo nipote prova a reinventarsene una a Heidelberg.
«La ma vita e le mie origini sono un mosaico complesso di tutte queste persone e situazioni e coincidenze casuali», così Stanišiü sintetizza la sua idea di patria. E non un fatto di sangue, terra o clan tribale. Già con il suo romanzo d’esordio, “La storia del soldato che riparò il grammofono” (Frassinelli, 2007), tradotto in 30 lingue, era riuscito ad incantare con la sua vena affabulatoria. Ma anche oggi che vive ad Amburgo ed è un noto scrittore, gli orrori nei Balcani de-
100 25 settembre 2022 Identità è lappaceatriaLa mia
gli anni Novanta lacerano la sua coscienza. «Sai, la guerra più terribile è quella dai volti familiari. Quando sono i vicini della porta accanto a minacciarti in mimetica e il mitra in mano. È la peggiore metamorfosi dell’uomo capace di sfilarsi anni di amicizie ed ogni forma di civiltà come una camicia», spiega nel suo colorito tedesco. È un attimo quindi, e le tossine del razzismo, le mitologie del nazionalismo trasformano l’ex compagno di scuola in una bestia feroce. Sì certo, Stanišiü l’ha appreso al volo il tedesco, e nel frattempo ha accumulato i più ambiti riconoscimenti (dal premio von Chamisso all’Alfred-Döblin Preis sino al prestigioso Deutscher Buchpreis). Ma i suoi genitori, la madre, ex politologa; il padre, un ingegnere, si sono sbattuti per anni nelle lavanderie o nei cantieri edili negli anni di Kohl e della riunificazione tedesca. « I primi tempi in Germania mi sentivo una merda», così ricorda quel mare di umiliazioni: «La mancanza di documenti era solo uno dei mille stress, insieme alla
Sopra: lo scrittore tedescobosniaco Sasa Stanisic. A lato: riservisti dell’esercito jugoslavo prima di entrare nella città bosniaca di Visegrad, nel 1992
mancanza di soldi, all’alienazione linguistica, alle paure. Eravamo vittime di una guerra, non volevamo esserlo anche delle circostanze». Anche per questo oggi ce l’ha a morte con quei cupi profeti del sovranismo che predicano i veleni del nazionalismo e della xenofobia, e stanno incendiando non solo l’Europa dell’Est. «I partiti dell’odio sono in tutti i parlamenti europei, fomentano le fobie della gente con i loro truci modelli fascisti e un’identificazione asfittica con la patria». Nei suoi libri invece lui ne racconta tutta un’altra di idea di patria e di famiglia, di appartenenza ai luoghi o a una cultura.
«La mia utopia è che ognuno riesca a guardarsi allo specchio e a non vedervi prima di tutto il profilo nazionale, ma una vita fatta di incontri e influenze varie, talenti e sogni, capacità e pigrizie. Lo ammetto, siamo ancora lontani oggi in Europa da questa serenità». Il bello è che nel suo precedente romanzo, “Vor dem Fest”, “Prima della festa”, non ancora tradotto in italiano, ha
raccontato la noiosissima vita in un paesino del Brandeburgo. Uno di quelli in cui di solito sono le bande di naziskin a farla da padroni, e la “AfD” prende il 30 per cento dei voti.
«Ma basta con queste astrazioni e categorie tipo “noi tedeschi”, “noi italiani” o “noi bosniaci”», sbotta lui: «La realtà come ho raccontato in quel romanzo è che ogni roccia, ogni lago e ogni tomba possiamo trasformarli in piccole “patrie”. E va benissimo così. A condizione che queste patrie non diventino “Noi” contro gli “Altri”, uno strumento aggressivo cioè di esclusione politica». Uno “strumento” che rischia di nuovo di spaccare l’Ue, e ritrasformarla in un’accozzaglia di nazioni in lotta fra loro. In questa regressione alle ideologie tribali proprio il linguaggio può rivelarsi un’arma a doppio taglio.
«Non appena arrivato in Germania mi ripetevano: “Per prima cosa impara il tedesco!”», ricorda: «Ciò spesso è un verdetto di non apparte-
nenza da parte di chi crede che la sua lingua sia sigillo di bontà, esclusiva di un popolo o di una persona». Un errore fatale, visto che non esiste una lingua migliore dell’altra, più profonda o persino più filosofica dell’altra. Per questo Stanišiü rifiuta quella tradizione tedesca che, da Johann Georg Hamann fino a Martin Heidegger, crede davvero che la lingua, in particolare quella di Lutero e Goethe, sia “la casa dell’essere”, per scomodare la famosa definizione di Heidegger. «Si tratta di una completa assurdità, il linguaggio è un veicolo fondamentale nella nostra vita, un’opportunità per alcuni, ma anche un peso per altri destini», ribatte lui: «E la presunta “casa dell’essere” può anche essere l’amore o la natura, la pace». Oppure, chiosa ironico, «mangiarsi una pizza a Napoli una serata di luglio». Già, ma al di là di tutte le patrie e lingue, cosa può fare uno scrittore davanti agli orrori della guerra in Ucraina? «La letteratura non potrà mai prevenire le guerre né fermare le catastrofi. È già una fortuna se muove i pochi che ancora leggono a vedere un problema in modo diverso dai luoghi comuni». Neanche uno scrittore sardonico e col doppio passaporto come Stanišiü riuscirà mai con i suoi romanzi a fermare i panzer di Putin in Ucraina o la nuova febbre di nazionalismo che agita la Serbia e i Balcani. «La Russia di Putin si trova in una storica spirale di disprezzo della democrazia, manie di grandezza ed è succuba di teorici della forza e delle repressioni di popoli e minoranze. Prima in Crimea e in Siria, ora in Ucraina la politica di Putin si è rivelata irrispettosa di ogni vita e ha finanziato i movimenti di destra e sovranisti di mezza Europa». A tutti i “filo-putinisti” che ancora provano a “comprendere” gli arcana della mente dello Zar di Mosca, Stanišiü consiglia caldamente «di non cercare di capire la mente di un criminale che scaglia missili contro civili e indifesi, ma di fermarlo prima che provochi altre sofferenze». La letteratura purtroppo, per quanto bella e profonda, non arriva a tanto.
25 settembre 2022 101 Idee Foto: SovfotoUIG / GettyImages, C. Charisiuspicture alliance / GettyImages
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Protagonisti
Suo nonno Rudolf von Urban era uno psicoanalista autorevole che collaborava con Sigmund Freud e scrisse libri sull’inconscio, il sesso e l’importanza dell’autostima. Deve averli presi alla lettera Christoph Waltz, credendoci talmente tanto da riuscire, dopo ben trentacinque anni di carriera, a farsi notare da Hollywood. Aveva 53 anni quando Quentin Tarantino lo provinò e poi lo scelse per il ruolo del gerarca nazista Hans Landa in “Bastardi senza gloria”. Interpretazione memorabile che gli valse una pioggia di premi (una trentina tra Oscar, Bafta, Golden Globe e Gran Prix a Cannes e altri), spianandogli la strada non solo per il secondo Oscar (per “Django Unchained”, sempre di Tarantino), ma anche per una serie di ruoli da antagonista, da “Spectre” a “The Legend of Tarzan”, perché «il cattivo ha sempre piùpossibilitàesfumature».Lacontropartita richiesta sta nel sospendere ogni giudizio e imparare a maneggiare bene ciò che ammette di odiare di più. «Le armi non le sopporto, nella vita reale non ne sono mai stato un sostenitore». Eppure a guardarlo in “Dead for a dollar”, western diretto da Walter Hill appena presentato alla Mostra del Cinema di Venezia con Willem Dafoe, sembra aver maneggiato pistole per una vita intera.
Come riesce ad essere convincente nei ruoli più assurdi?
«Sono sempre i dettagli che fanno la differenza, ecco perché nello studio dei particolari sono maniacale. Non posso manovrare “genericamente” un’arma per essere credibile. Devo studiarla a fondo in ogni suo aspetto per risultare convincente quando mi vedete premere il grilletto».
Si pone mai problemi morali rispetto ai personaggi che interpreta?
«Di quale morale parliamo? Della mia no, perché non interpreto me stesso per fortuna. Di quella dei personaggi neanche, perché ognuno di loro condivide con me il corpo, non i suoi pensieri».
Come si regola allora, prende una vacanza da se stesso per ospitare un
armiOdio le
La mania dei dettagli, la passione per Vittorio De Sica e il cinema di Tarantino. Un grande attore europeo a Hollywood.
colloquio con Christoph Waltz di Claudia Catalli
Perché quando il feedback che ricevi è positivo hai la tendenza a ripeterti. Sin da bambini abbiamo imparato a non fare quello che la mamma ci ammoniva a non fare, o ascoltare la nonna quando ci diceva “bravissimo” indicandoci la strada da percorrere. I complimenti sono una vera trappola per un attore, rischiano di fermarti lì dove sei».
personaggio?
«Dipende dal personaggio. Non sono il tipo di attore che ama saltare da un progetto all’altro. Non lo faccio per chissà quale nobile motivo artistico, non credo ai metodi tradizionali di recitazione, tanto meno al fatto che questo mestiere possa ridursi a uscire e entrare dai personaggi. C’è molto altro».
È nella rosa degli attori più stimati del mondo. Che effetto le fanno premi e complimenti?
«I premi sono riconoscimenti, i complimenti un pericolo ad alto rischio.
Dove sente di essere oggi, lei che è un europeo “insider” a Hollywood? «Sento di avere una prospettiva abbastanza privilegiata, ho fatto esperienza di entrambi i cinema, europeo e americano, sia da dentro che da fuori. È utile e interessante l’esercizio di cambiare punto di vista e prospettiva di continuo».
Che cosa le ha insegnato questo continuo sguardo dentro/fuori?
«Mi ha fatto capire che senz’altro le differenze culturali sussistono, ma il cinema europeo a volte rischia di emulare senza un motivo quello americano. È un gran peccato. Le faccio un esempio: direcentehovistotuttiifilmdiVittorio De Sica. Ho amato tutto, le storie, i personaggi, l’atmosfera, la disperazioneelagioia,quellalucidaosservazione
“Sergio Leone? È più western dei western”
L’attore Christoph Waltz in una scena del film “Dead for a dollar”
102 25 settembre 2022
L’attore Christoph Waltz, 65 anni
di tutto ciò che era profondamente sbagliato nella società di allora – tutto è unico nei suoi film. Si può fare qualcosa di meglio al cinema? Non credo. Prendiamo invece i film italiani contemporanei. Ho visto “Gomorra”. L’ho trovato interessante, anche la storia mi è parsa buona, ma esteticamente e tematicamente era davvero così distante da un film americano dello stesso genere? Non credo. Ed è un peccato, emulando i film americani perdiamo la nostra unicità. In questo sono più “svegli” loro, non ci provano neanche a imitare i film europei».
Com’è, da europeo, trovarsi a interpretare un western?
«È curioso, si fa un gran dibattito sull’appropriazione culturale, eppure
il maestro dei western per noi europei resta Sergio Leone, lo consideriamo più western dei western. È chiaro che il modo in cui giudichiamo questo genere è diverso dal vederli sotto una lente prospettica americana. In America il western fa parte del Dna culturale e storico, mentre per gli europei la conquista del West non è mai stata la priorità – anche perché per noi austriaci sarebbe stata la Svizzera, si figuri. Mio nonno emigrò davvero in America ai tempi, andò in un certo senso nel suo West, in California, ma è un’altra storia».
Abbiamo attraversato anni difficili. Quanto ha impattato su di lei la pandemia?
«So di appartenere a una categoria
privilegiata, non devo alzarmi ogni mattina per timbrare il cartellino. Durante il lockdown me la sono passata piuttosto bene, ho avuto modo di ascoltare molta musica e avuto il lusso di rileggere i grandi libri che mi ero ripromesso di affrontare quando ne avrei avuto il tempo».
Qualche titolo?
«Il “Doctor Faustus” di Thomas Mann e i libri di Heimito von Doderer».
Ha accennato al suo amore per la musica: come si è trovato a dirigere l’opera lirica “Il cavaliere della rosa” di Strauss e il “Falstaff” di Verdi?
«Così bene che riporterò con entusiasmo “Il cavaliere della rosa” il prossimo anno a Ginevra. È grandioso avere una seconda chance, a teatro ogni replica lo è, al cinema invece hai una sola possibilità, quando mi riguardo poi sullo schermo ogni tanto mi dico: “Accidenti, potevo farlo meglio”, ma ormai è andata».
Sarà Billy Wilder nel film di Stephen Frears tratto dal romanzo di Jonathan Coe “Billy Wilder & Me”. So che non può ancora parlarne, può dire però in base a che cosa sceglie oggi di accettare o no un ruolo?
«Non ho una regola, ci sono periodi in cui voglio lavorare e scelgo secondo quel criterio, altre volte mi interessa la discussione che si innesca attorno a una storia, altre ancora scelgo in base alle persone con cui mi piacerebbe ritrovarmi sul set. Altre ancora, come per Wilder, mi offrono ruoli che per me sono un sogno».
Non deve essere un attore facile da dirigere lei…
«Amo essere diretto da registi specifici, capaci di darmi indicazioni esatte, perché solo stringendo al massimo il campo, al microscopio, riesci a cogliere l’essenza di quello che stai raccontando. Per questo non sono un attore che improvvisa, rispetto troppo gli sceneggiatori e amo i cineasti con una visione precisa, come Tarantino che scrive i film di suo pugno. Il mio obiettivo non è riscrivere un film, ma imparare la mia parte così bene che sembri l’abbia scritta io».
25 settembre 2022 103 Idee Foto: A. DupeuxRedux / Contrasto
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Bookmarks/i libri
DOLORI DEL GIOVANE NABOKOV
La storia di un primo amore, nel romanzo d’esordio dell’autore di “Lolita”
SANDRA PETRIGNANI
C’è la nostalgia di una Russia boscosa e incantata e la follia appassionata del primo amore in “Mašen’ka”, esordio narrativo di un Vladimir Nabokov ventisettenne che aveva scritto fin lì solo poesie. In libreria dal 27 settembre, viene riproposto da Adelphi in una nuova traduzione di Franca Pece (la precedente, di Ettore Capriolo, risale a 50 anni fa per Mondadori), entrambe dall’inglese, non dal russo, perché quella in inglese è ritenuta la versione definitiva dati gli aggiustamenti, sia pur minimi, che l’autore vi aveva apportato. Nel 1926, quando “Mašen’ka” esce per una casa editrice dell’emigrazione russa a Berlino, Nabokov è sposato da un anno con Vera Slonim ed è a lei che dedica il romanzo: storia di un vecchio amore che non la riguarda, eppure la riguarda, perché – mettendo una pietra sopra al passato - il protagonista Ganin sarà pronto ad affrontare il futuro, una nuova esistenza lontano dalla patria e dai suoi dolorosi ricordi. È davvero giovane il Nabokov di “Mašen’ka”, ma ha già idee letterarie chiarissime e le mette tutte in campo. Come dirà anni dopo in un’intervista, quando sarà già
l’autore idolatrato di “Lolita”, “Fuoco pallido”, “Ada”: «La parte migliore della biografia di uno scrittore non è il catalogo delle sue avventure, ma la storia del suo stile». E qui, pur attingendo a fatti personali (li ritroviamo quasi identici nell’autobiografia “Parla, ricordo”) è già attento a narrare - persino esagerando - in quel suo modo unico, attraverso i giochi di luce, i riflessi negli specchi o nell’acqua, i cambiamenti minimi di colore e la precisa evocazione dei nomi della natura: farfalle come alberi, fiori e fili d’erba. Per sottrarsi alla noia della sua quotidianità di emigrato fra altri esausti emigrati in un’umile pensioncina berlinese, Ganin si rifugia nella nostalgia della Russia prerivoluzionaria da cui è fuggito e nella mitizzazione della prima ragazza di cui si è innamorato, Mašen’ka. Salvo capire d’un tratto, proprio nell’ultima pagina, il vero senso della vita. Q
“MAŠEN’KA ” Vladimir Nabokov Adelphi, pp. 150, € 18
Da uno scrittore che vive tra Buenos Aires e Cienfuegos, dove il romanzo è in parte ambientato, l’emozionante storia di un ragazzino amante dei libri e dell’epica classica, che in una Cuba ostile e machista, tra gli anni Settanta e Ottanta, coltiva l’immaginazione come via di fuga. Al punto da ritenersi la reincarnazione della profetessa Cassandra, dotata da Apollo di preveggenza. E mentre tutto si fa nitido, Rauli va incontro a braccia aperte al destino di essere sé stesso.
“CHIAMATEMI CASSANDRA”
Marcial Gala (trad. G. Zavagna)
Sellerio, pp. 226, € 16
Scrittrice, modella, fotografa, corrispondente di guerra, viaggiatrice, cultrice assoluta della libertà. Alla straordinaria esistenza di Lee Miller, ai suoi dolori e passioni, alla voracità di vita e al gran talento, è dedicata questa biografia fotografica scritta dal figlio, direttore del Lee Miller Archive. Un viaggio tra gli incontri, gli spostamenti, gli amori di una testimone di un tempo denso e di una donna miracolosamente indipendente.
“LE MOLTE VITE DI LEE MILLER”
Antony Penrose (trad. De Rossi-Baiocchi) Contrasto, pp. 295, € 21,90
Dalla firma della BBC, lo scrittore irlandese che ha già esplorato esistenze memorabili come quelle dello Zar Nicola II e di John Fitzgerald Kennedy, “le vite segrete di Marilyn Monroe”, libro da cui è stata tratta la docuserie Netflix “The Mystery of Marilyn Monroe: The Unheard Tapes”. A partire dalla morte della celebrità, chiacchiere, controversie, inchieste, e una domanda: chi era davvero la donna che trasformò sé stessa in un fenomeno senza tempo.
“DEA” Anthony Summers (trad. Amato-Battaglia) La nave di Teseo, pp. 630, € 22
A cura di Sabina Minardi
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106 25 settembre 2022 Corsa a ostacoli per i diritti LA RISCOSSA DEGLI AZZURRI Dalia, Yeman, Zaynab e gli altri I nuovi italiani senza cittadinanza che cambiano il volto dello sport Kaddari, Crippa, Dosso. Giovani donne e uomini di seconda generazione, nati o cresciuti nel nostro Paese, che fanno il pieno di medaglie nei campionati di atletica leggera. Ma devono ancora vincere la battaglia più dura di Marco Grieco
Il nuovo volto dello sport è sul feed Instagram di Pietro Riva che per celebrare il quinto posto dell’Italia nei 10mila metri ai recenti campionati europei di atletica, ha scelto la foto dell’abbraccio con Yeman Crippa, l’azzurro che all’Italia ha regalato l’oro, oltre al bronzo nei 5mila metri: «Danke Schön Munich» scrive Riva in calce al suo post: è un ringraziamento che apre un nuovo capitolo dello sport europeo, proprio mentre oltreatlantico si chiude quello di Serena Williams, la regina del tennis uscita dal ghetto nero di Compton per rivoluzionare uno sport bianco per tradizione. È grazie ad atleti come lei se, dalla sua prima vittoria agli Open del ’99, le rivendicazioni per i diritti sono diventati l’altro lato dello sport, un epiderma sensibile sui campi di gara, in fondo una nuo-
va missione, come oggi confessa chi è stato ispirato dal suo esempio.
Lo si vede bene nell’atletica leggera, che ha cambiato il volto della Nazionale, abbattuto stereotipi. Nella disciplina dove la fuga verso la vittoria sta nel tempo, possono essere sufficienti pochi secondi per trasformare tutto. Come quelli gloriosi di Marcell Jacobs, all’alba dell’agosto 2021. Con un tempo di 9”80 non solo ha segnato un nuovo record europeo, ma ha scatenato una reazione a catena travolgente: a settembre 2021 i corsi di atletica hanno registrato il 40 per cento di iscritti in più rispetto al 2019.
Una grande rivoluzione che ha per protagonisti gli italiani di seconda generazione. L’ultima l’ha fatta in questo agosto, altrettanto magico, Yeman Crippa, con l’oro europeo nei 10mila
metri: «Quando ci penso, mi batte ancora forte il cuore» confessa Yeman, nato in Etiopia ma col cuore in Trentino, dove ha iniziato con le gare a scuola e le prime corse campestri: «Il punto di partenza è la scuola, perché lì prendi confidenza con l’atletica e scopri se hai questo sport nel Dna. Se i grandi ci indirizzano e supportano, ci si avvicina a questa disciplina», dice. Risale al 2017 l’ultima volta che è stato in Etiopia, dove è cresciuto prima di essere adottato all’età di cinque anni: «Sono affezionato alla mia terra, ma ho pochi rapporti. Per questo, a chi oggi si trova in una situazione difficile, dico di non mollare, perché a ciascuno di noi è offerta una seconda occasione». Per Crippa e gli altri non c’è medaglia che compensi un esordio difficile, e lo sport dà un grande insegna-
25 settembre 2022 107 Zaynab Dosso ai Mondiali indoor di Belgrado, 2022. Nell’altra pagina: corsa 3mila metri a ostacoli ai Giochi di Tokyo
Storie Foto: Andrej Isakovic / AFP / Getty Images (2)
Corsa a ostacoli per i diritti
mento: «Nell’atletica riesci a trovare persone uguali a te, è sempre un modo in più per conoscere l’altro».
Per Zaynab Dosso, emiliana nata in Costa d’Avorio, i primi passi in un campo di atletica sono stati una lotta per emanciparsi dalle resistenze in famiglia e dai pregiudizi sociali: «In casa facevamo molti sacrifici per andare avanti, per questo aiutavo mia madre con le pulizie in un centro giovani. Spesso andavo ad allenarmi di nascosto dai miei». A marzo scorso a Belgrado, ottenendo il nuovo record italiano nei 60 metri piani, ha diluito gli esordi difficili nella rivincita anche in famiglia: «A Belgrado mia madre mi ha telefonato dicendo che era fiera di me. Era la prima volta che la sentivo piangere per la commozione», ammette emozionata. Perché nell’atletica alla prestazione in corsia si aggiunge tutto ciò che sconfina da quella riga tracciata su pista, che dagli spalti non si vede, le relazioni umane: «Devo tanto alla mia allenatrice Loredana, che mi pagava i libri di scuola perché continuassi a studiare. Per questo, oggi a chi si trova in difficoltà, dico di continuare ad avere fede: i ragazzi devono dimostrare a loro stessi, all’Italia che ce la possono fare, ma il mio invito va anche agli adulti, perché li supportino sempre nei loro sogni». A Monaco il sogno di Zaynab si unisce a quello di Dalia Kaddari, Anna Bongiorni e Alessia Pavese, che hanno portato l’Italia sul podio con un bronzo nella 4x100 femminile dopo 70 anni: «Attraverso tanti sacrifici, toccare questo traguardo per me significa molto, mi dico spesso che ce l’ho fatta, e mi emoziona poterlo dire indossando finalmente la maglia azzurra», ammette. Le fa eco la sua compagna di staffetta, Dalia Kaddari, padre marocchino e mamma sarda, che vede nello sport una lezione di vita e riscatto, anche femminile: «Noi tutte stiamo facendo qualcosa di grande in una disciplina che per anni è stata prevalentemente maschile. Oggi non è più così, e il merito è dello stesso sport, che ti permette di superare le difficoltà quando le incontri: nell’atletica, sono infatti i momenti bui che ti fanno andare avanti, ti danno la spinta per superare le sconfit-
te». Uno sport come la staffetta incarna bene la forza che viene dall’andare uniti verso un traguardo comune, anche quando si tratta di una sfida di genere: «Nell’atletica corri contro il tempo: è lui l’unico avversario e non ci sono altre differenze» spiega Dalia.
DaoltredieciannilaFederazione italiana di atletica leggera promuove l’integrazione di atleti in attesa di ricevere la cittadinanza. Sono i cosiddetti “equiparati”: giovanissimi nati o cresciuti in Italia ma senza cittadinanza, tesserati per società affiliate alla Fidal che possono concorrere all’assegnazione del titolo di categoria e assoluto ai campionati italiani, regionali e provinciali individuali: «Nella sola categoria ragazzi, la Fidal conta una fascia di oltre 600 atleti equi-
parati che concorrono a un titolo. È un numero grosso e, se scendiamo nella fascia degli esordienti, la fascia è ancora più ampia», spiega Antonio Andreozzi, vice-direttore tecnico per l’attività giovanile. «Il punto è che, se non hanno la cittadinanza, non possono essere chiamati in Nazionale. Ma noi li teniamo stretti, perché sono italiani e formati in Italia». Per loro, la corsa contro il tempo è anche fuori dalla pista. Come Judy Ekeh, la velocista italo-nigeriana che ha ottenuto la cittadinanza una manciata di giorni prima dei campionati del mondo juniores di Barcellona nel 2012: «Oggi abbiamo tre casi eclatanti: Great Nnachi, Mifri Veso e Alexandrina Mihai», sottolinea Andreozzi. «Hanno conseguito importanti risultati, noi li stiamo supportando, poi il resto è competenza del ministero».
Ahmed Abdelwahed e Osama Zoghlami. Sotto: la campionessa di salto con l’asta Great Nnachi
108 25 settembre 2022
Ma è nei palazzetti dello sport che la norma lascia il posto alle occasioni di riscatto. Ala Zoghlami, settimo nei 3mila siepi, ha trovato una nuova vita a Palermo, a una manciata di chilometri dalla sua Valderice dove è cresciuto con il fratello gemello Osama, che ai 3mila siepi è arrivato terzo: «Da piccolino non ero mai andato oltre Valderice e Trapani, quando mi sono trasferito sono entrato in un mondo bellissimo, dove ho scoperto gente che mi ha voluto bene fin dall’inizio». Così, nella città che divora i suoi e nutre gli stranieri, i gemelli nati a Tunisi hanno imparato, grazie all’atletica, il potere di assottigliare i confini: «Molti pensano che noi corriamo soltanto, ma questo sport è molto di più. Per esempio, ho nel cuore i campionati
italiani di Rovereto, dove ho toccato con mano l’affetto delle persone che mi vogliono bene: porto con me ancora gli applausi e il loro tifo, perché lì ho ricevuto tutto l’affetto di cui avevo bisogno». Molti di questi volti sono promossi dalle Fiamme Oro che, attraverso 32 sezioni giovanili nate in aree geografiche difficili, avvicinano allo sport molti giovani, insegnando loro un altro modo di vivere. Attualmente, sono circa 3mila i giovanissimi atleti iscritti ai gruppi sportivi Fiamme Oro. Complessivamente gli atleti cremisi hanno portato al medagliere azzurro 56 medaglie, 24 d’oro, 18 d’argento e 14 di bronzo delle complessive 117 medaglie vinte dall’Italia: «Per me l’atletica è un mondo di opportunità che mi permette di conoscere persone nuove e comprendere il linguaggio
universale dello sport», spiega Ayomide Folorunso, primatista azzurra nata in Nigeria. «Quando sei alla linea di partenza non ti senti mai veramente sola, perché essere lì è frutto di un grande lavoro di squadra. Anche l’avversario smette di esserlo quando condividi i suoi stessi sacrifici. Il tuo competitor resta il cronometro, anche chi compete con te va ringraziato, perché ti dà quella pressione che condiziona la tua prestazione» aggiunge. L’atletica è una lezione di vita per Ahmed Abdelwahed, argento europeo a Monaco nei 3mila siepi con un tempo record: «Lo sport per me è lo specchio della vita, mi dà conforto sapere che dalle difficoltà posso sempre imparare qualcosa, posso crescere come essere umano».
Itempi in cui lavorava alle bancarelle del mercato di Ostia per sbarcare il lunario sono lontani, non come un ricordo ingombrante, ma piuttosto come parte di un percorso a ostacoli ormai alle spalle, come in una delle sue gare: «L’atletica va in parallelo alla mia vita: più cresco sportivamente, più acquisisco maturità anche a livello di relazioni interpersonali e cooperazione con il prossimo. Perché se il primo stimolo dello sport è quello del riscatto, poi quel riscatto va trasformato in passione, perché sennò si entra in un circolo vizioso in cui lo sport diventa la più grande paura che devi sconfiggere per riprendere nelle mani la tua vita. Ma l’atletica, per tutti noi, non è mai ossessione. È vita». Oggi, guardando il tricolore sulle loro spalle, riconosciamo a tutti loro il merito di aver trasformato una disciplina individuale in uno sport collettivo: «Can we share a gold?», chiedeva Gianmarco Tamberi prima di travolgere con l’abbraccio il qatariota Mutaz Essa Barshim, anch’egli al primo posto nel salto in alto alle Olimpiadi di Tokyo 2020. Forse il più grande messaggio dell’atletica è questo: arrivare a condividere l’oro, che è una vittoria di tutti, senza eroi né figli di un dio minore. Q
Yemaneberhan Crippa, oro nei 10mila metri agli Europei di atletica. Sotto: Ayomide Folorunso
25 settembre 2022 109 Storie Foto: Getty Images (3), eyevine / Contrasto
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di Marta Bellingreri foto di Alessio Mamo
110 25 settembre 2022 La violenza di genere negli anni del conflitto è aumentata in modo esponenziale. Ora le giovani si ritrovano in “spazi sicuri” che offrono sessioni di sensibilizzazione, sostegno psicosociale, solidarietà femminile NEI CAMPI PROFUGHI Matrimoni forzati, stupri coniugali In Siria la protezione delle donne "è necessaria come il cibo e l’acqua”
La guerra infinita
Shaima ha avuto la sua quarta bambina all’età di 27 anni. Era felice, ma anche stanca e sopraffatta. La brutta sorpresa è arrivata poche settimane più tardi, quando il marito ha insistito per avere un altro figlio. Dopo quattro femmine, voleva un maschio. La loro vita nella cittadina di Kisre, sotto il controllo dell’Amministrazione Autonoma del Nord-Est della Siria, era già estenuante così. Non riusciva a immaginare una quinta gravidanza, ma il marito le impediva di prendere la pillola anticoncezionale. Qualche settimana dopo, una vicina le ha parlato di uno spazio sicuro per donne e ragazze nella loro cittadina. Non capiva bene cosa significasse “spazio sicu-
ro”, ma «avevo solo bisogno di parlare con qualcuno», racconta. È stato dopo aver bussato a quella porta, all’inizio un po’ timorosa, che ha trovato sollievo: «I fiori, i quadri e le fontane nel cortile di questo spazio protetto mi hanno rilassato e Aseel era lì ad accogliermi. C’era una stanza persino per far giocare i miei figli».
Assistente sociale della Casa delle donne e ragazze di Kisre, Aseel non ha mai usato la parola “stupro coniugale”. «Ci sono questioni delicate che non possiamo affrontare direttamente o che necessitano dell’approvazione del nostro team di sicurezza», spiega a L’Espresso, seduta alla sua scrivania: «La società è ancora molto conservatrice e la guerra l’ha profon-
damente segnata». Sessione dopo sessione, dopo averla ascoltata, Aseel ha invitato Shaima a riflettere sui diversi tipi di pressione psicologica e di violenza domestica. «A un certo punto, Shaima ha avuto un’opportunità di lavoro e i maltrattamenti da parte del marito sono aumentati. Le ho dato il numero di telefono di emergenza nel caso in cui non potesse venire e volesse chiamare un’assistente sociale che andasse a trovarla a casa». La Casa delle donne dispone anche di unità mobili in paesini difficili da raggiungere e presso gli ospedali.
Secondo diversi rapporti di organizzazioni umanitarie, la violenza di genere in Siria è aumentata drammaticamente durante il decennale conflitto, dove circa 13 milioni di persone hanno bisogno di assistenza umanitaria e il 90 per cento della popolazione vive sotto la soglia di povertà. Tra questi, le donne e le ragazze in tutte le regioni sono le più colpite da violenze fisiche, psicologiche, sessuali, economiche e sociali, come matrimoni forzati e precoci, negazione dell’istruzione e sfruttamento sul lavoro. Una crisi economica profonda, unita alla pandemia di Covid-19, ha aggravato la situazione negli ultimi due anni.
Quando Hanan si riunisce a fine giornata con il suo team di donne che lavorano negli spazi sicuri per donne e ragazze nel nord-est della Siria, sa che la solidarietà tra donne è uno dei buoni ingredienti per ottenere un cambiamento, anche se questi sono meno visibili o misurabili rispetto agli interventi umanitari. «Alcune Ong forniscono tende, cibo, servizi sanitari e alcune sostengono anche l’istruzione non formale. Ma dobbiamo concentrarci sulla salute mentale delle ragazze e delle donne durante la guerra: sono le più vulnerabili», dice Hanan, seduta sul muro della fontana del cortile. «Penso che la protezione delle donne in Siria sia necessaria come il cibo e l’acqua. A volte ascoltarne la sofferenza è già un inizio». La Casa delle donne, sostenuta da Learn, consorzio di quattro Ong internazionali sotto la guida di Solidarités Internatio-
Un gruppo di donne all'uscita del corso nello spazio sicuro, Casa delle donne a Al Hol, Siria
25 settembre 2022 111
Storie
La guerra infinita
nal, offre sessioni di sensibilizzazione su temi quali il matrimonio precoce, l’importanza dell’istruzione femminile e dei diritti delle donne, nonché lo sviluppo di competenze. Yaqut, 24 anni, è una delle partecipanti. «Prima facevo pulizie nelle case, ma quando mio figlio è nato disabile ho dovuto smettere per prendermi cura di lui. Mio marito, che è anche mio cugino, non ha accettato nostro figlio e ci ha lasciati», dice con calma, seduta in una stanza della Casa. «Ora ho il sogno di imparare a cucire e di avviare un progetto a casa mia, in modo che mio figlio stia sempre con me e io possa guadagnarmi da vivere. Mi sentirei davvero sollevata». Yaqut è molto soddisfatta dei corsi di cucito, ma la cosa più importante è avere qualcuno con cui parlare. «Quando sei arrabbiata, stanca e psicologicamente distrutta, vieni qua. Siamo protette dalle pressioni della società, e non costrette ad ascoltare ciò che la gente dice».
Ad Al-Hol, uno dei più grandi campi del nord-est della Siria, circa 50mila persone hanno trovato rifugio nel pieno della battaglia contro l’Isis. Sostenute dagli attacchi aerei della coalizione a guida americana, le Forze Democratiche Siriane (Sdf), che comprendono arabi, curdi e assiri, guidata dai curdi, hanno sconfitto l’Isis nella loro ultima roccaforte di Baghouz, nella provincia di Deir Ezzor, nel 2019. Gli sfollati siriani e iracheni costituiscono la grande maggioranza della popolazione di questo campo, dove sono anche donne e bambini di diverse nazionalità europee che molto raramente e lentamente vengono rimpatriate nei paesi d’origine.
All’interno della “tenda di protezione” del campo, Soman siede in cerchio con cinque donne a cui chiede di condividere i loro sentimenti e pensieri. «La maggior parte di queste donne ha attraversato momenti molto difficili. Anche la vita nel campo è impegnativa: vivono in un clima desertico in una tenda», spiega Soman, descrivendo poi le sessioni di sostegno psicosocia-
le. «Parliamo del fiume come simbolo di vita: rappresenta gli eventi che abbiamo vissuto. In ogni fiume si trovano fiori, rocce, alghe. Cerchiamo di confrontare le nostre vite e dividiamo il fiume in diverse fasi dell’esistenza. Cerchiamo di ricordare anche gli eventi positivi; a causa della loro sofferenza, tendono a dimenticare i momenti belli che hanno vissuto».
Soman lavora come assistente al sostegno psicosociale ma a volte non è possibile entrare nel campo per motivi di sicurezza. Negli anni scorsi, e soprattutto negli ultimi mesi, gli operatori umanitari sono stati presi di mira dai membri dell’Isis che vivono nel campo. All’in-
terno e all’esterno dei campi, gli attacchi di gruppi come l’Isis sono aumentati e le Sdf hanno condotto incursioni per arrestare i membri delle cellule dormienti.
Oltre a usare il fiume come metafora della vita, Soman usa altri metodi per sostenere le donne. «Facciamo delle sessioni di disegno e una delle attività consiste nel disegnare una scala, classificando gli obiettivi che abbiamo in mente. Ci sono obiettivi a breve termine che possiamo raggiungere subito e sogni a lungo termine che vogliamo coltivare». Hiba ha partecipato a queste sessioni e ha disegnato la scala pensando ai suoi obiettivi: «Voglio imparare a cucire e frequentare un corso di alfabetizzazione,
Sopra: alcune donne vicino allo spazio sicuro a Kisre, in Siria. Sotto: donne nel Centro di protezione nel campo profughi di Al Hol. A destra: una donna nello spazio sicuro a Kisre
112 25 settembre 2022
mentre altre donne vogliono memorizzare il Corano. Disegnando la scala, ho messo una stella in cima: questo è l’obiettivo finale. L’unico modo per raggiungere la cima della scala è procedere passo dopo passo». Il primo passo di Hiba sulla scala è stato quello di recarsi allo Spazio sicuro e chiedere informazioni sui corsi. Ha partecipato a sessioni di sensibilizzazione. Originaria di Hasake, Hiba, il marito e i figli si sono spostati da un posto all’altro per sfuggire ai combattimenti durante l’occupazione dell’Isis. Lui era un cuoco e un giorno è stato ucciso da un attacco aereo che ha preso di mira l’area del suo ristorante. «Come donna, all’epoca non era facile muoversi da sola, così ho preso i miei figli e mi sono
unita a un gruppo di altre donne fino a raggiungere Baghouz». Da lì sono state trasferite in questo campo dove vivono ora - in un limbo, senza sapere se saranno trasferite altrove o se potranno tornare ai loro luoghi di origine e alle loro famiglie.
Come ha sottolineato Soman, molte donne all’interno del campo si sentono obbligate a vestire il niqab come ai tempi dell’Isis a causa delle minacce di altre donne ancora fedeli ai principi del cosiddetto Califfato. Ma alle assistenti sociali del campo non importa chiedere se queste donne hanno veramente creduto o appartenuto alle fila dei miliziani vestiti di nero. A loro
interessa che adesso stiano bene per poter costruire il proprio futuro. «Ci sono pochissimi spazi nel campo dove le donne possono sentirsi libere. Nella tenda di protezione possono parlare e riposare, almeno non devono coprirsi il volto, sapendo che manterremo la loro privacy e riservatezza». È per questo che Hiba continua ad andare. «Vengo ogni giorno in questa tenda: cerco di dimenticare che siamo all’interno di un campo e di godermi il tempo qui con le altre donne», dice. «Oltre alle attività, pratichiamo anche alcuni esercizi di respirazione per alleviare lo stress. Ho imparato a farli e ora li faccio anche da sola, quando sono nella mia tenda. Ne ho davvero bisogno».
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Le stanze del dottore
RIONERO IN
Viaggio nel tempo della cura In Lucania rivive come museo la memoria di un medico di famiglia
Lo studio e la sala d’attesa, gli strumenti e l’immane archivio delle riviste per aprire gli occhi su un mondo di consapevolezze e ritrovati scientifici. Gli oggetti d’arte e la poesia di una professione fondata sull’ascolto
testo e foto di Valerio Millefoglie
Sul portone in legno al civico 59 bis di via Nazario Sauro, a Rionero in Vulture, provincia di Potenza, c’è una targhetta rettangolare su cui si legge: “Dott. Rosati”. Il dottore non c’è. Ha esercitato la professione di medico di famiglia in questo studio dal 1961 al 1998 ed è venuto a mancare nel 2008, eppure molto è rimasto di lui: gli strumenti chirurgici riposti in un mobiletto di metallo bianco, sotto le due ante aveva applicato due nastri adesivi su cui aveva scritto a macchina “Cuore e Ipertensione”, come se aprendole, vi si spalancassero l’organo e la patologia; e poi impianto radiologico di marca Gilardoni per le radiografie - un monoblocco avveniristico per l’epoca, a cui il paziente si appigliava per farsi guardare dentro - un apparecchio per la Marconiterapia con fasce a onde elettromagnetiche indicato per le artrosi e una centrifuga dalle linee spaziali per le analisi del sangue. La lampadaCobradisegnatadaElioMartinelli nel 1968 illumina una scrivania progettata dallo studio Pfr di Gio Ponti, Antonio Fornaroli e Alberto Rosselli, su cui è disposto un tesoro: alcune delle quattromila riviste ricevute in abbonamento postale da parte di case farmaceutiche, un po’ anche case editrici, che chiamavano a raccolta grandi scrittori, fotografi, illustratori e importanti studi grafici dell’epoca. Un
orologio a pendolo continua a segnare l’ora dal primo anno di servizio del dottore. La sensazione è che tutto sia ancora presente, dottore compreso.
Angela Rosati, architetto, fotografa e figlia del dottor Rosati, racconta: «Salendo queste scale accediamo ad età diverse, dove gli anni ’50 e ’60 sono ancora in corso». Dallo scorso luglio infatti lo studio ha riaperto, una nuova targa accanto al portone indica: Spazio Tam Tempo Arte Medicina Archivio medico Antonio Rosati. «Tempo, arte e medicina sono connesse e io penso che custodire il tempo sia la pratica che ci leghi alle persone. Mio padre non ha mai voluto che lo studio andasse ad un altro medico perché qui c’era la sua vita. Anche dopo la pensione ha sempre utilizzato lo spazio per sé. Nel 2017 ho pensato che tutto ciò che era qui, dagli apparecchi tuttora funzionanti ai libri e alla sua collezione di riviste, non poteva essere disperso, ma anzi poteva essere materiale di conoscenza per raccontare come un tempo si svolgeva questa professione. Il medico di base lavorava sette giorni su sette, di giorno e con chiamate notturne. Presidiava il territorio perché non esisteva ancora la pratica del recarsi al Pronto soccorso. Si instaurava così un rapporto quasi di famiglia, il medi-
co era un confidente. Il visitatore che viene qui si rende conto che questo non è uno spazio solo del medico Antonio Rosati, ma è uno spazio sensibile: qui vi si trova la storia di una comunità. Sto incontrando e registrando le memorie di alcuni ex assistiti di mio padre e tanti mi raccontano le loro situazioni familiari di quel periodo, si accumulano storie», spiega Angela Rosati. Indica lo stetoscopio del padre e aggiunge: «Era appassionato dell’orecchio. Gli piaceva come organo e questo a me piace molto, perché lui era un grande ascoltatore e in questo ci vedo una grande apertura, verso gli altri e verso la musica. E l’archivio è basato anche su riviste d’arte». L’allora sala d’aspetto oggi è una sala espositiva. La prima mostra, visitabile fino al 12 ottobre, si intitola Con-Tatto e vede opere realizzate dall’artista visiva Chiara Arturo e disegni di alunni delle scuole medie lucane in dialogo con il materiale d’archivio esposto nei vari ambienti, in questo caso una selezione di articoli che trattano il tema dell’epidermide, della mano e la sfera del tatto. «L’archivio è privato e la sua tutela e valorizzazione avverranno attraverso iniziative di studio e pubblicazioni. Organizzeremo degli incontri di medicina partecipata, con un taglio divulgativo su tematiche utili alle persone. Sarebbe bello far tornare quei giovani medici originari di
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VULTURE
La stanza delle visite dello studio medico di Antonio Rosati. In basso, Angela Rosati, figlia di Antonio e fondatrice di Spazio Tam. A sinistra, l’armadietto originale del dottore
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Le stanze del dottore
Rionero che dopo la laurea sono andati a lavorare all’estero, così da farci raccontare le loro esperienze»», precisa Angela Rosati. Su una scrivania degli anni ’50, in quella che era la sala delle terapie, c’è una foto scattata nel 2001 all’istituto di ricovero e cura a carattere scientifico Crob di Rionero in Vulture durante una cerimonia in onore dei quattro medici di famiglia storici della città. Al centro c’è Antonio Rosati, che è anche al centro del ricordo che ne fa per noi Franco Pietrafesa, fra gli assistiti dal dottore e a sua volta medico otorinolaringoiatra. Lo incontriamo a casa sua, poco lontano dallo studio, «In famiglia quando si diceva il dottore, si intendeva Antonio Rosati. Per noi non esisteva altra persona che avesse questo nome, il dottore. E per noi quello che diceva era Vangelo. Quando qualcuno di noi stava poco bene allora si andava allo studio, si salivano le scale e si vedeva il dottore, che era sempre dietro alla
scrivania ad accoglierci. “Dottore” si diceva, “non mi sento bene, sto così e così”. E lui: “Non tieni niente”. Era categorico nelle cose, ci faceva veramente togliere il pensiero cattivo. Poi un giorno sono andato nel suo studio e gli ho detto “Dottore, io mi sento formicolii dappertutto”. Allora per la prima volta non disse “Non tieni niente”. Mi disse “Questa volta dobbiamo indagare” e mi indirizzò ad un neurologo. Quando tornai gli dissi “Dottore, tengo la sclerosi multipla”. Il dottore quasi si metteva a piangere, ci rimase proprio male. Mi guardò, non aveva parole da aggiungere». Pietrafesa ci congeda con un ultimo ricordo: «Molte volte scorgevo dalla strada la porta dello studio aperta a tarda sera, salivo e mi meravigliavo nel vederlo in un angolo, vicino al lavandino, a leggere». Torniamo in studio e Angela Rosati apre uno degli armadi in cui è custodita parte della collezione di riviste. Sono tutte impilate e cata-
logate cronologicamente, dal primo all’ultimo numero, così come le aveva lasciate il dottore. Anche l’ordine è ereditato. «Io sono emozionata, perché io sprofondo in queste letture». Sfogliamo Tempo Medico, rivista di attualità e di cultura per il medico italiano, la prima rivista italiana ad adottare il formato tabloid del Time. A progettarla fu Giuseppe Trevisani, giornalista e grafico che collaborò al Politecnico di Elio Vittorini e che ideò l’impaginazione per il manifesto.
Sulla copertina del numero 21 del gennaio 1963 è illustrato l’otorinolaringoiatra Michele Arslan, alle sue spalle un vortice cinematografico di occhi, membrane acustiche e una sedia girevole rotante. L’autore è Guido Crepax, che realizzerà 206 copertine della rivista, oltre a illustrare 360 puntate della rubrica Circuito Interno, detta anche le Clinicommedie. Leggiamo l’introduzione:
Il primo impianto monoblocco per le radiografie. In alto, Antonio Rosati. In basso, due copertine di Tempo Medico
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«In questa rubrica un importante clinico e il suo aiuto discutano i casi più singolari in uno studio collegato con un circuito televisivo interno alla saletta degli assistenti. Ogni caso è di regola diviso in tre parti: alla fine di ciascuna, il lettore attento potrà tentare la propria diagnosi confrontandola poi con quella esatta, riportata alla fine del test. Una diagnosi esatta alla fine della prima parte significa molto acume (e un po’ di fortuna); alla fine della seconda significa avere notevole perspicacia; alla fine della terza, buon discernimento clinico». Sul numero 47 dell’ottobre 1966 scopriamo che «un juke-box a cuffia, che emette suoni analgesici, fa parte integrante dell’attrezzatura professionale di moltissimi dentisti americani», in quanto il paziente non sentendo il rumore del trapano prova una minore suggestione psicologica del dolore. Due pupille sgranate emergono da una pagina nera, dove il titolo di una pubblicità
di un sonnifero si chiede: «Dormirò stanotte, dottore?». Qualche pagina dopo seguiamo un reportage su Angelo Zanaboni, primario di provincia e di frontiera all’ospedale di Tradate. Le riviste, «da cui affiora un’incredibile gentilezza», commenta Angela Rosati, riportano al presente un mondo che sa parlare di letteratura e di poesia, di ricerca scientifica e ricerca di sé, di dipinti antichi e di futuri immaginati; il tutto a poche pagine di distanza e con tirature che arrivavano anche alle 80 mila copie a numero. Ecco Documenta Geigy, formato quotidiano, che racconta L’avvenire del pedone e La megalopoli e le sue pattumiere.
Un elegante cartoncino a tre ante svela il periodico bimestrale Bracco 3, ogni singola uscita era composta da tre fascicoli separati: per il medico, per la casa, per la sala d’aspetto; vi si scriveva di poligamia, di canti d’a-
more dell’antica Cina e di farmaci per l’addormentamento e il riaddormentamento. «Anche una città nel suo clamore disperato può regalare un vicolo improvviso di silenzio», recita il pezzo di apertura de La Lettura del Medico, «E in quei pochi passi solitari puoi riascoltare le favole che, per tanti giorni affannati il cuore aveva messo in disparte. Sei un ingegnere, uno spazzino, una maestra, un vigile, uno scolaro. E te ne vai rassegnato, sempre a quel punto della tua giornata d’uomo nel 1968. Mentre cammini ascoltati dentro». Angela Rosati ha ricomposto la luce di quegli anni. Ci mostra la lampada da tavolo Lesbo di Angelo Mangiarotti del ‘67 e dice: «Durante il terremoto del 1980 cadde rovinosamente. Mio padre raccolse i cocci di vetro in una scatola. Li ho trovati e fatti riassemblare. Per me è un simbolo di ricostruzione e di rinascita». Infine, l’accende.
La scrivania utilizzata dal dottor Rosati fra gli anni ’50 e ’60, oggi è un tavolo di esposizione di memorabilia legate alla sua vita e carriera
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Ho visto cose/tv
WANNA MARCHI, SCIOGLIPANCIA DEL PAESE
La serie Netflix e la campagna elettorale, le due facce della televendita
BEATRICE DONDI
«Non serve dimostrare per vendere. L’importante è suggestionare». Che detta così sembra un’estrema sintesi della campagna elettorale che se Dio vuole possiamo considerare archiviata ma in realtà è sempre una sintesi seppur suprema del Wanna Marchi pensiero, firmata all’epoca dalla mirabile penna di Beniamino Placido. La televenditrice che per oltre un decennio è stata capace di diventare personaggio a suon di urla mentre prendeva a pesci in faccia i suoi clienti, brutti, grassi e creduloni, bisognosi di buttare al vento anni e anni di accumuli addominali, ciccioni impenitenti che potevano essere salvati dalle sue alghe scioglipancia e dal suo urlo contadino, è tornata protagonista ancora una volta, in questo Paese dalla memoria labile e che permette i corsi ma anche i ricorsi con la stessa leggerezza di un velo di crema. Così Wanna, dopo il Tapiro salato, la condanna, il carcere, il passaggio al biondo platino, l’Albania e ottanta candeline si ritrova, con la figlia siamese, al centro della docu-serie (Netflix) che porta il suo nome. E, consapevole e sfrontata, viene di nuovo eletta per un’ennesima vita televisiva, che incredibilmente le regala la promozione, questa volta di se stessa. Lei, cattiva per sempre in favore di telecamera, la donna che era riuscita a mettere un prez-
#musica
Concerti rock, passione a caro prezzo
A voi sembra normale comprare oggi un biglietto per un concerto che ci sarà nell’estate del 2023? A me non tanto, è una tendenza cresciuta a dismisura negli ultimi anni con punte di distanza tra acquisto ed evento che superano i dodici mesi. È diventata la norma, cioè è diventato normale decidere oggi cosa faremo una certa sera di luglio o di settembre dell’anno prossimo. Ma siamo sicuri che quel giorno potremo, che avremo ancora
zo persino alla fortuna e a cui quella fortuna ha girato improvvisamente le spalle in un’aula di tribunale, aveva capito sin dagli esordi che tutta la pubblicità è indimostrabile. Esattamente come la propaganda elettorale, che può promettere, senza tema di smentite, coperture economiche inesistenti, interventi miracolosi, dentiere e flat tax neanche fossero i numeri del lotto del maestro di vita do Nascimiento. Perché come scriveva Placido: «La pubblicità ci dice che, comprando quella tale automobile, conquisteremo i favori di quella bella ragazza, che ci sorride sullo sfondo. Oppure, che indossando quel tale tipo di giacca da manager faremo una miracolosa, velocissima carriera in ufficio. Come si può dimostrare che è vero? Come si può dimostrare che non è vero?». Non si può infatti e d’altronde nessuno avrebbe interesse a farlo, né i cartelloni elettorali con i sorrisi smaglianti, né uno schermo piccolo piccolo. E neppure “Wanna” la serie, che preferisce a suo modo restare in superficie, senza distribuire colpe legittime. D'altronde l'incredibile storia di un'Italietta che si è lasciata sedurre dal nulla senza imparare niente, è sempre quella, che va avanti a forza di slogan. Basta saperla vendere. D’accordo? Q
GINO CASTALDO
voglia di andare a quel concerto? E che avremo ancora voglia di andarci con la stessa persona con cui oggi abbiamo acquistato il biglietto? La verità è che questo meccanismo va a toccare la passionalità dei fan, che pur di assicurarsi un posto al concerto della star adorata sono disposti a ipotecare il futuro e a organizzarsi di conseguenza. E c’è una scappatoia. Molti pensano: intanto lo compro, poi se proprio ho un impegno irrinunciabile, lo rivendo on line, e magari ci guadagno anche qualcosa perché a quel punto i biglietti saranno ancora più appetibili. Questo è il
meccanismo che alimenta il cosiddetto “secondary ticketing” che fa alzare ulteriormente i prezzi, e qui tocchiamo l’altro tasto dolente della situazione. Parte del mercato della musica sta diventando un affare troppo costoso. I concerti di massa, quelli che richiamano grandi folle, rischiano di diventare se non proprio un evento per ricchi, sicuramente un appuntamento su cui riflettere per chi non ha soldi in avanzo o ha difficoltà a far quadrare i conti a fine mese. Vediamo qualche numero. Guardando le tabelle di Ticketone, per vedere Roger Waters a marzo 2023 al Forum di Assago ci
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Scritti al buio/cinema
IL MISTERO DI CLAIRE, CASO IRRISOLTO
Una ragazza bruciata viva in un paesino francese. Dalla cronaca un film inquieto
FABIO FERZETTI
Nella notte del 12 ottobre 2016, in un paesino della Savoia, una ragazza di 21 anni viene bruciata viva da un uomo mascherato mentre rincasa da una serata passata con le amiche. Vendetta, ritorsione, gelosia?
La polizia giudiziaria di Grenoble manda sul posto i suoi uomini migliori per catturare l’assassino. Ma dopo lunghe e estenuanti ricerche, avverte un cartello in apertura, il caso di Clara va ad alzare la spaventosa percentuale di delitti che restano irrisolti ogni anno in Francia.
Da questo caso di cronaca, uno dei tanti evocati nel libro-inchiesta “18.3, une année à la PJ” di Pauline Guéna (Denoel), parte il franco-tedesco Dominik Moll, sempre molto abile nel piegare il cinema di genere a esigenze nuove. Tanto da abbandonare ben presto l’ambiente della ragazza uccisa per concentrarsi sui poliziotti, sul loro lavoro, fatto anche di routine e frustrazione, sulle loro emozioni. Ovvero sul loro personale e problematico rapporto con le donne, rimesso in causa - spesso drammaticamente - dalle indagini e da ciò che ogni volta credono di scoprire scavando tra le frequentazioni (soprattutto maschili) dell’uccisa. Chi era Claire, come viveva, a chi voleva bene, perché aveva relazioni con uomini così diversi e così diversamente de-
vogliono 149,50 euro. Per vedere i Coldplay alla stadio Maradona sono stati sborsati 103,50 euro per il prato e 172,50 per il primo settore numerato. Per vedere Springsteen al Circo Massimo di Roma a maggio 2023 ci vogliono 105,50 euro. E non stiamo parlando di teatri con poltrone comode e distanze ravvicinate dal palco, stiamo parlando di stadi, arene enormi che sono da una parte luoghi ad alto tasso di esaltazione, è vero, ma che andrebbero valutati per quello che sono, luoghi dove oltretutto si accumulano decine di migliaia di persone e quindi sicuramente i guadagni per gli artisti sarebbero abbondantemente assicurati anche a prezzi lievemente più contenuti.
ludenti, per non dire di peggio? Ma soprattutto, cosa vedevano in lei tutti quei maschi incapaci di avere una relazione degna di questo nome, il mitomane, il rapper, lo sbandato, il “trombamico”, il violento già condannato per percosse anche se la compagna attuale se lo tiene stretto e copre tutte le sue menzogne?
Se l’impianto è felicemente corale, su questo gruppo dolente di “flic” in crisi si stagliano due figure complementari. Yohan (Bastien Bouillon), giovane taciturno e ciclista instancabile, costretto a girare in tondo sulla pista come le indagini. E il maturo Marceau (Bouli Lanners), in piena crisi coniugale, più incline a citare Verlaine che a mantenere il controllo. Mentre un ruolo defilato ma decisivo spetta alle rare donne in campo: la migliore amica di Claire (Pauline Serieys), la poliziotta appena trasferita (Mouna Soualem), la giudice che riapre il caso (Anouk Grinberg). Co-protagoniste quasi inconsapevoli di questo “polar” maschile ma accuratamente devirilizzato, più inquieto che rabbioso, a misura di un mondo sempre più cupo e smarrito. In sala dal 29. Q
© RIPRODUZIONE RISERVATA “LA NOTTE DEL 12” di Dominik Moll Francia, 115’
Per non dire che i soldi glieli stiamo dando con un anno di anticipo. Diranno che gli allestimenti sono costosissimi, diranno che la richiesta c’è ed è una normale dinamica di mercato, diranno che dopo le difficoltà della pandemia il settore ha bisogno di riprendersi (e su questo niente da dire), diranno che i prezzi sono allineati al resto del mondo. Tutto vero, ma la questione rimane: i biglietti cominciano a essere davvero troppo cari per un mondo di musiche nate e cresciute con una vocazione popolare, che sono vicine alla gente comune, e forse almeno su questo una riflessione sarebbe particolarmente gradita.
I Coldplay
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QUEL MASCHILISMO INNOCENTE
RISPONDE STEFANIA ROSSINI
Cara Rossini, mi permetta di scrivere una lettera aperta a tutti i maschi del mondo. Carissimi maschi, in nome della verità e della giustizia vi chiedo di inginocchiarvi e baciare i piedi a tutte le donne del mondo e di ogni tempo, per implorare il loro perdono per le brutture, in primis i femminicidi, che noi uomini abbiamo fatto, e continuiamo a perpetrare contro di loro. È arrivata l’ora di prendere coscienza che dai primordi ai nostri giorni, il genere maschile non ha fatto altro che compiere, attraverso l’uso della sua forza fisica, tutte le più spaventose scelleratezze contro il genere femminile. L’elenco delle atrocità che gli uomini di ogni tempo hanno commesso contro le donne di ogni condizione ed età, è infinito. Infatti è impossibile catalogare le sevizie, le torture, i maltrattamenti, le crudeltà, le brutalizzazioni, le schiavizzazioni, gli sfruttamenti, gli stupri e gli omicidi provocati dagli uomini contro l’intero mondo femminile. Alla luce di questa intollerabile realtà, l’unica cosa che noi “uomini nuovi” possiamo fare è quella di vergognarci profondamente di ciò che siamo stati, e siamo, promettendo che d’ora in poi cercheremo di smettere di comportarci come degli animali feroci che, abusando della propria struttura muscolare, aggrediscono, sottomettono, sfruttano e uccidono le donne di ogni età e nazionalità di questo pianeta (si pensi soltanto ai talebani). Quindi basta con la violenza contro le donne, basta con il considerarle come una nostra proprietà. Basta con gli uomini che agiscono contro di loro come torturatori e carnefici durante ogni guerra. Le donne, come tutti gli esseri umani, devono essere considerate sacre, intoccabili e inviolabili. Questa si chiama civiltà umanitaria. Una realtà che spesso viene ignorata e nascosta dalla nostra società.
Carlo De Lucia, Bari
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Non è raro osservare come le più enfatiche manifestazioni di solidarietà maschile nei confronti delle donne, possano nascondere, in modo inconscio ma non per questo meno significativo, un radicato maschilismo. È un maschilismo di stampo antico, quasi innocente, che sottolinea le differenze tra i due sessi, insiste sulla fragilità femminile, si fa portavoce di una richiesta collettiva di perdono per le vessazioni a loro inferte. E non si accorge di perpetrare così una posizione di superiorità. Non si offenda il signor De Lucia, ma le donne non hanno bisogno dell’appoggio degli uomini per non sentirsi di loro proprietà. Quelle occidentali, dopo decenni di lotte, vivono il nostro tempo in una quasi sostanziale parità, e non è da escludere che la recrudescenza dei femminicidi (125 nell’ultimo anno soltanto in Italia) siano motivati anche dalla rabbia per donne capaci di decidere, scegliere, abbandonare. È anche vero però che gli stereotipi di genere, che ancora sono dominanti perché cento anni di emancipazione non cancellano millenni, impediscono agli uomini stessi di piangere invece di arrabbiarsi, di implorare invece di aggredire. Ed è compito di entrambi i sessi analizzare questi stereotipi e allearsi per abbatterli.
120 25 settembre 2022 L’ESPRESSO VIA IN LUCINA, 17 - 00186 ROMA LETTEREALDIRETTORE@ESPRESSOEDIT.IT PRECISOCHE@ESPRESSOEDIT.IT - ALTRE LETTERE E COMMENTI SU LESPRESSO.IT
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Dentro e fuoriBernardo Valli
Thomas Mann e la famiglia difficile
Tutto comincia a Lubecca, nello Schleswig-Holstein. Là nasce il futuro scrittore, nella famiglia Mann, da un padre negoziante e senatore, e da una madre nata in Brasile ed esule dall’infanzia, approdata sulle sponde nebbiose del Baltico. Questi sono i primi punti fermi, universalmente conosciuti nel mondo dei fedeli lettori di Thomas Mann, citati nell’appassionante libro “The Magician”, edizioni Viking, 2021 (atteso nella traduzione italiana nel prossimo gennaio, “Il mago”, pubblicato da Einaudi). L’autore è l’irlandese Colm Tóibín, critico letterario e scrittore di fama, che con la libertà del romanziere e la serietà del critico ha scritto i diciotto capitoli che partono dalla Lubecca del Diciannovesimo secolo e arrivano alla Svizzera del Ventesimo. Colm Tóibín, che in un altro libro ha già affrontato parte della vita di Henry James, con Thomas Mann punta molto in alto. Ripercorre, ricostruisce la sua vita (1875-1955) facendo seguire il testo da un’estesa e solida bibliografia.
L’erudizione e l’immaginazione si sposano nelle pagine di “The Magician” offrendo una lettura che arriva sull’orlo della vita di Mann, agli anni consumati a Kilchberg, sul lago di Zurigo, in una villa bagnata da una moribonda luce alpina. È là che incontrai per la seconda volta, nel novembre 1988, il figlio Golo quando il padre era già morto da un pezzo, ma la sua presenza era ancora palpabile muoven-
do lo sguardo nelle stanze dove aveva scritto le ultime pagine, il saggio su Schiller e, in solitudine, aveva ripercorso col pensiero la lunga esistenza. Ricordo i dialoghi con Golo Mann. Dalle rievocazioni di Thomas Mann emergevano sentimenti contraddittori e comprensibili: un insieme di devozione e di insofferenza. Ricordi irrinunciabili e insopportabili. La tormentata nostalgia del padre e della famiglia gli faceva considerare una reliquia la fotografia presa il 6 giugno del 1925, quando nel tepore quasi estivo della Baviera i Mann si erano raccolti sui gradini dell’ingresso di casa per uno scatto riuscito male. Il volto di Thomas era scuro, quello di Katia, la moglie, era sfuocato. La faccia della figlia Erika era invece chiara, luminosa, e toglieva la luce alla sorella Monika, che diverrà moglie, in seguito, di un pescatore di Capri. Un altro figlio, Klaus, aveva la testa china, si nascondeva dietro lo zio Heinrich. Golo, adolescente, era alla sinistra del padre. Non ricordo se ci fosse anche Elisabeth, che allora aveva sette anni e che avrebbe poi sposato lo scrittore Giuseppe Antonio Borgese, molto più anziano di lei. La famiglia Mann era ancora felice. Quattro anni dopo Thomas avrebbe ricevuto il Premio Nobel. I tempi sono mutati presto.
Lui stesso omosessuale, Colm Tóibín, tratta con variabile delicatezza, evidenziandone le tracce nelle opere e nella vita, l’omosessualità di Thomas Mann. Essa è presente anche in altri membri della famiglia. Nella
quale non mancano i suicidi. Attorno al genio avvengono sciagure e successi. Eccezionali qualità letterarie non distinguono soltanto Thomas, ma anche il fratello Heinrich e il figlio Klaus, ottimi scrittori. Dalle tragedie e dalle virtù di coloro che lo circondano, come dalle sue inclinazioni a lungo segrete, trae ispirazione “The Magician”. La famiglia Mann, secondo Tóibín, potrebbe essere i Buddenbrook. Lo stesso Mann sembra presente nel suo “La Morte a Venezia”, racconto in cui un autore cinquantenne di successo muore di passione per Tadzio, l’adolescente polacco incontrato sulla spiaggia del Lido.
Tóibín, ripercorre, arricchendola di particolari da romanziere, la vita di Mann. La quale diventa scomoda con l’avvento del nazismo, anche perché la moglie Katia ha origini ebraiche. Lo scrittore deve imparare come difendere la famiglia e le sue idee antifasciste, e proteggere il suo lavoro dai tormenti di quel maledetto decennio. Il segreto e la fuga ritmeranno la sua esistenza, incalzata dal nazismo e dall’antisemitismo. La sua opera è minacciata e lo è anche la sua vita e quella dell’intera famiglia. Ovunque si trovi, negli Stati Uniti per sfuggire a Hitler, o nell’Europa prima e dopo la guerra, lo scrittore ha sempre bisogno di uno studio solitario separato dai familiari dove fare riemergere i ricordi e riversarli, trasformati, nei romanzi. Ed è anche questo che Tóibín racconta.
Nei miei incontri con il figlio Golo emergevano ricordi irrinunciabili e insopportabili. Ora un libro di Tóibín racconta la vita del grande scrittore
122 25 settembre 2022
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Illustrazione: Ivan Canu