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Uniamoci al grido delle nostre figlie Kader Abdolah
from L'Espresso 41
by BFCMedia
UNIAMOCI AL GRIDO D ELLE
DI KADER ABDOLAH
contro ogni nostro desiderio, contro ogni
Enostra volontà, siamo arrivati al punto di mandare le nostre figlie nelle strade a combattere contro gli ayatollah.
È uno degli eventi più dolorosi che siano mai accaduti nell’antica storia dei persiani.
È stato tutto invano, non è servito a niente e la lotta dei nostri uomini non ha portato a nulla. Dovevano quindi compiere un altro grande sacrificio per salvare il nostro Paese, la nostra cultura e il nostro onore; e questo sacrificio era il bene più prezioso delle nostre famiglie: le nostre giovani figlie.
Gli ayatollah hanno mirato a loro fin dall’inizio, per farne delle serve di Allah.
Ma non ci sono riusciti e non ci riusciranno mai.
Quando i religiosi sono saliti al potere, hanno subito inchiodato le porte del cinema.
Trovavano che il cinema fosse un’invenzione peccaminosa, sporca dell’umanità, soprattutto perché le attrici recitavano a capo scoperto e mostravano spudoratamente la loro bellezza.
C’è voluta una battaglia ventennale perché finalmente gli ayatollah capissero che il cinema era un miracolo divino, e che poteva essere addirittura un miracolo divino islamico.
Dopo un po’ fu di nuovo permessa perfino la proiezione di film stranieri, ma, ruolo dopo ruolo, i giovani imam disegnarono con un pennarello nero un velo sulla testa di Meryl Streep, di Angelina Jolie, di Jane Fonda e di Nicole Kidman, e, ad esempio, coprirono con un tratto di pennarello nero tutte le belle parti femminili di Elizabeth Taylor.
I registi iraniani hanno inventato tutte le sceneggiature possibili perché le donne potessero continuare ad apparire a capo scoperto nei cinema iraniani.
Nel film “Ten”, il grande regista Abbas Kiarostami mostrò improvvisamente una donna senza il velo: l’attrice si era rasata i capelli a zero. Un’immagine scioccante, ma un forte grido delle donne iraniane in difesa della loro libertà. In un altro film, in una bella scena d’amore, si vedono un giovane uomo e una giovane che, a bordo di un’auto, si fermano, con una
Kader certa angoscia nel cuore, sotto un albero
Abdolah lungo da strada. Come spettatore pensi:
Scrittore wow, cosa succede adesso qui? Succede una
Manifestazione di protesta contro il regime islamico a Colonia in Germania
cosa che secondo gli ayatollah non deve succedere: l’uomo chiede con trepidazione alla sua amata: «Posso vedere una ciocca dei tuoi capelli?».
Sullo schermo non si vedono i capelli della donna, ma si vede lei che con le sue mani scioglie il nodo del foulard.
E altre centinaia di scene simili.
Ci volle parecchio, ma a poco a poco gli ayatollah capirono che neanche Allah era in grado di impedire a una donna di mostrare la propria bellezza. È l’essenza della vita: una donna deve potersi mostrare.
Gli ayatollah lo sapevano, ma questo era in contrasto con il diritto di esistenza della Repubblica popolare islamica. Le due cose non potevano andare d’accordo.
Comunque, per tenere insieme il regime, hanno pensato a un comitato denominato: Comitato dei guardiani dello hijab per vegliare sull’onore femminile.
E hanno radunato centinaia di donne malate, psicologicamente traumatizzate, le hanno istruite, coperte di nero dalla testa ai piedi e mandate per le strade armate di bastoni come polizia del buon costume. Non erano donne normali, ma bestioni di donne. Afferravano per i capelli le ragazze che portavano il foulard un po’ allentato e le trascinavano verso dei pulmini per poi portarle in carcere. Se loro si ribellavano le
Prima Pagina O D ELLE NOSTRE FIGLIE
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Kader Abdolah è tra i più grandi scrittori iraniani. Rifugiato politico in Olanda, È pubblicato da Iperborea. Sopra:“Il faraone d’Olanda”
prendevano a bastonate in testa. E così è stata uccisa Masha Amini, e così sono state uccise centinaia di altre donne.
E poi è arrivata la fine per la violenza di stato: le ragazze sono scese nelle strade e hanno dato fuoco allo hijab.
La loro protesta è uno dei più grandi movimenti femministi del mondo. Una pura rivolta di donne basata sui loro storici bisogni.
Questa generazione di giovani donne combatte a mani nude e con la consapevolezza di poter essere ammazzate.
Questo puro movimento di donne lascerà un’impronta profonda sul mondo femminile del Medio Oriente.
La mia generazione ha cercato di rovesciare il regime con le armi. Migliaia di noi sono stati uccisi, migliaia sono stati rinchiusi in prigione per anni, milioni sono fuggiti, ma la nostra voce non è quasi arrivata al mondo, ed è stata soffocata dal regime con ogni forma di violenza.
Ma questa giovane generazione di donne è andata alla battaglia contro gli ayatollah a mani nude e il mondo intero ha sentito la loro voce.
Di fatto è avvenuto un miracolo: tutti parlano della loro
rivolta. In tutte le case italiane si parla di loro. Ma devo anche riconoscere un’altra dolorosa realtà: le nostre figlie hanno iniziato una grande guerra contro il regime. Ma non hanno gli strumenti necessari per vincere questa battaglia di strada. Non c’è un partito politico, un’opposizione, un leader che incarni la loro rivolta. Il regime iraniano è in completa bancarotta. Vive solo dei proventi della vendita di petrolio e gas, che spartisce tra i propri fanatici sostenitori. Non c’è traccia dell’umanità, della misericordia e della giustizia dell’islam in questo regime. Ma gli ayatollah resteranno attaccati con tutta la violenza possibile a due aspetti, alla loro barba e al velo per le donne. Per loro il velo delle donne è come il Muro di Berlino per l’ex Germania dell’Est. Se cedono e abbattono il muro, dovranno cedere su tutto e di loro non resterà più niente. Non lo faranno e per questo saranno disposti a scatenare una guerra civile. Ma Kader Abdolah crede anche in un miracolo. Può avvenire un miracolo e le nostre figlie potranno entrare per sempre nella storia come una generazione potente, che senza usare la violenza ha rimosso e abbattuto una brutta dittatura confessionale. Kader Abdolah è triste, ma anche se non si può, anche se è LA MIA GENERAZIONE HA CERCATO DI ROVESCIARE IL REGIME CON LE ARMI. NON C’È RIUSCITA. QUESTE DONNE SONO ANDATE ALLA BATTAGLIA A MANI NUDE. E POSSONO CAMBIARE LA STORIA fuori luogo, è segretamente contento per quello che sta succedendo. Il regime dell’Iran vuole vederci addolorati e in lutto. Noi piangiamo le nostre figlie che sono state uccise, i nostri ragazzi che sono stati uccisi. Ma piangiamo ridendo per il loro coraggio, per il colpo storico che hanno inferto a una pericolosa istituzione che voleva governare in nome di Allah. Le donne hanno compiuto il primo, grande, giusto passo verso l’abbattimento dell’impero degli ayatollah. Segretamente è in corso una grande festa di gioia in patria, anche se tra le lacrime e il dolore. Salam. Traduzione di Elisabetta Svaluto Moreolo
Assalto al Campidoglio I L FA L LITO GOL P E D ’ A M E R I C A
DI LUCIANA GROSSO
ochi giorni fa, a Washington, si P è aperto il processo a cinque esponenti del gruppo di estrema destra americana Oath Keepers: Stewart Rhodes ( fondatore del gruppo nel 2009 e suo leader indiscusso), Kelly Meggs e Kenneth Harrelson (responsabili del “capitolo” della Florida), Jessica Watkins (responsabile del “capitolo” dell’Ohio) e Thomas Caldwell (responsabile di aver pianificato la «forza di reazione rapida», del gruppo). Tutti loro sono coinvolti (a vario titolo) nella rivolta del 6 gennaio 2021. L’accusa per loro è pesantissima «cospirazione sediziosa». In buona sostanza li si accusa di aver pianificato e progettato il sovvertimento violento delle leggi del Paese e del governo. Se verranno ritenuti colpevoli la condanna potrebbe essere a vent’anni. Ma oltre al loro destino i giurati del tribunale di Washington dovranno decidere un’altra cosa: il modo in cui i libri di storia dovranno considerare i fatti del 6 gennaio 2021.
A quasi due anni da quelle ore surreali e drammatiche (morirono 5 persone), infatti, nessuno ha ancora capito con precisione cosa sia successo. I fatti sono noti, trasmessi in diretta in tutto il mondo: tutti abbiamo visto i rivoltosi scalare le pareti del Parlamento, sfondare porte e finestre, invadere, saccheggiare e vandalizzare i corridoi, gli uffici e l’aula del Campidoglio, tutti abbiamo visto le
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CINQUE MILITANTI DELL’ULTRADESTRA DI OATH KEEPERS A PROCESSO PER COSPIRAZIONE. SECONDO L’ACCUSA, IL 6 GENNAIO 2021 SI SFIORÒ UN COLPO DI STATO PIANIFICATO DA DUE MESI
bandiere confederate entrare lì dove non erano mai entrate. Quello che è successo si sa. Quello che non si sa, però, è come maneggiare questa informazione. Cosa sono state quelle ore di delirio? La mattana di una folla che si era lasciata prendere la mano? Un’ordalia di esaltati? Oppure un vero tentativo di colpo di stato, organizzato, preparato, pianificato?
La risposta a questa domanda passa anche dal processo ai cinque Oath Keepers (letteralmente i «custodi del giuramento», dove per «giuramento» si intende quello di difendere la Costituzione).
Se i cinque saranno condannati per «cospirazione sediziosa», allora, automaticamente, vorrà dire che una pianificazione c’è stata e che quello era, nei fatti, un tentato golpe, fallito solo per ragioni di scarsa orga-
Prima Pagina GOL P E D ’ A M E R I C A
nizzazione. Se, invece, i cinque saranno mandati assolti, di fatto, a essere assolta sarà l’intera rivolta, che automaticamente sarà derubricata a colossale incidente.
In questi primi giorni di processo (la cui fine è prevista per dicembre/gennaio prossimi) l’accusa, guidata dal sostituto procuratore Jeffrey S. Nestler, ha portato alcune prime prove del fatto che da almeno due mesi, cioè praticamente dal giorno dopo le elezioni, quando si stava ancora contando ma la direzione del vento a favore di Joe Biden era chiara, il gruppo degli Oath Keepers aveva iniziato a disegnare strade armate per impedire l’insediamento del nuovo Presidente.
A dimostrarlo ci sono svariati messaggi chat inviati dal leader e fondatore Rhodes ai suoi collaboratori con parole esplicite come «Non ce la faremo senza una guerra civile». Il 7 novembre, il giorno nel quale i conteggi sono finiti e Cnn ha proclamato Biden vincitore, Rhodes ha inivato un messaggio a Roger Stone, amico e confidente di Donald Trump, col quale gli chiede: «Qual è il piano? Dobbiamo partire al più presto». A quel messaggio non è chiaro (ma è oggetto di indagine) se Stone abbia mai risposto e come, ma sta di fatto che da quel momento in poi un piano ha iniziato a esistere. Se Trump e altri della sua cerchia ristretta ne fossero a conoscenza o in qualche modo coinvolti, ancora, è cosa che non si sa e, se mai dovesse sapersi, sarà questione da dibattere in altri processi e altre aule. Per ora si dibatte di quel che si sa (e che la stessa difesa degli imputati non ha cercato nè di negare nè di ritrattare) cioè cosa hanno fatto Rhodes e i suoi dal 7 novembre al 6 gennaio. Decine di messaggi chat sono stati trasmessi sui loro canali, con toni e temi uguali al primo. Messaggi che parlavano esplicitamente della necessità e della inevitabilità di una rivolta armata. Altri che parlavano del fatto che Trump avrebbe di certo invocato l’Insurrection Act, una legge speciale che il Presidente può attivare per dispiegare l’esercito nel caso in cui ritenga che la Costituzione sia in pericolo. Solo che, è agli atti, Trump non ha mai invocato nessun Insurrection Act, e man mano che i giorni passavano e i suoi sostenitori-adepti vedevano che il loro presidente-beniamino non agiva, l’idea divenne di comportarsi come se il Presidente lo avesse fatto o stesse per farlo. Da qui la necessità di avere un piano. Un piano che è effettivamente esistito e le cui prime fasi sono consistite in numerosi viaggi dei leader dei
Luciana “Custodi” a Washington, per studiare il peri-
Grosso metro del Parlamento, le possibili vie di acGiornalista cesso e fuga dal “mall” (il lunghissimo
I manifestanti proTrump davanti al Campidoglio degli Stati Uniti il 6 gennaio 2021 a Washington, DC. I sostenitori di Trump si sono radunati nella capitale per protestare contro la ratifica della vittoria del collegio elettorale del presidente eletto Joe Biden sul presidente Trump nelle elezioni del 2020
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Il presidente Joe Biden parla ai media mentre lascia la Casa Bianca per un viaggio nel New Jersey e New York lo scorso 6 ottobre
corridoio alberato che conduce al Campidoglio), per appuntarsene possibili fragilità e vulnerabilità. Non solo, sempre in quelle prime settimane sembra che un ingente quantitativo di armi sia stato portato via acqua, attraverso il fiume Potomac, così da evitare controlli, nei pressi della capitale e depositato nella camera di un Comfort Inn in Virginia, Stato che ha leggi più favorevoli al possesso delle armi, di quelle di Washington, ma il cui confine è a pochi minuti di macchina dal centro della Capitale. Mentre tutto questo veniva pianificato, secondo l’accusa, Rhodes e i suoi organizzavano incontri e riunioni con le quali incoraggiare il gruppo alla rivolta e esortarlo a tenersi pronto. A una di queste riunioni era presente anche un sincero sostenitore del gruppo, Abdullah Rasheed, un veterano del Corpo dei Marines che da tempo aveva aderito al “capitolo” del West Virginia. Rasheed ha lasciato gli Oath Keepers dopo quella riunione ed è ricomparso in aula in veste di testimone dell’accusa. Nel suo racconto, Rasheed ha detto di aver preso parte alla riunione in video convocata per il 9 novembre e che, circa un quarto d’ora dopo l’inizio dell’incontro, quello che stava sentendo lo ha così turbato da pensare di registrarlo di nascosto e di avvertire le autorità (che però hanno ignorato per mesi la sua segnalazione, ricontattandolo solo nella primavera del 2021). «Quello che dicevano era quello che mi aspettavo di sentire», ha raccontato Rasheed in aula: «Le solite cose: Biden cattivo, Trump buono. Ok. Ma più ascoltavo più sembrava che stessimo andando in guerra contro il governo degli Stati Uniti. Cose come “Prenderemo la Casa Bianca”, “Portate le armi”, “Usate tubi di piombo come bastoni reggi bandiera”». Una testimonianza dello stesso tenore è arrivata da John Zimmerman, del “capitolo” della Carolina del Nord che, come Rasheed, dopo quelle riunioni di pianificazione, ha lasciato il gruppo, ritenendolo troppo (e troppo inutilmente) violento, intenzionato com’era a provocare i sostenitori di Biden così da essere legittimati a reagire.
E proprio sulla parola «reagire» si regge, almeno fin qui, l’intero impianto della difesa degli Oath Keepers. Secondo i difensori, quel giorno, gli imputati non hanno avuto un ruolo diverso da quello delle altre migliaia di persone che hanno fatto irruzione al Campidoglio e, dunque, non possono essere accusati di altro che di distruzione di beni federali o di generici disordini. Niente altro. E a dimostrarlo, secondo gli avvocati, ci sarebbe il fatto che, alla fine dei conti, niente altro è successo. Secondo il collegio di difesa il fatto che una delle imputate avesse scritto poco prima di entrare nei corridoi del Parlamento «Pelosi sarà la prima» o che un altro imputato avesse mandato un messaggio nel quale diceva «se avessi avuto un fucile avrei ucciso almeno 100 deputati», non siano altro che parole al vento, dal momento che niente di tutto questo si è effettivamente verificato. E quanto alle armi, anche la loro rilevanza sarebbe minima, dal momento che non sono mai uscite dalla camera d’hotel dove erano state stipate. Gli Oath Keepers, in buona sostanza, secondo la difesa, non avevano nessuna intenzione di agire e attaccare, ma solo di rispondere e reagire se le cose si fossero messe male (o se Trump si fosse deciso a dargli retta e a promulgare l’Insurrection Act). A dimostrarlo ci sarebbe l’acronimo stesso della loro operazione a Washington Qrf “Quick reaction force”: «Reazione, non azione», ha tuonato in aula uno dei loro avvocati. Così da quello che i giurati risponderanno alla domanda «si preparavano alla reazione o all’azione?» passa anche la risposta all’altra e più importante domanda: «Scampagnata finita male o tentato golpe?».
GIOCO DI SPETTRI SULLA
asta allontanarsi di pochi passi B dagli edifici del governo della Republika Srpska, una delle due entità in cui è divisa la Bosnia Erzegovina, nella città di Banja Luka, per imbattersi nel murales di Ratko Mladić. Accanto al disegno del generale condannato per crimini di guerra una scritta recita: «L’unificazione è iniziata e non può essere fermata». Tre milioni di cittadini sono stati chiamati alle urne per rinnovare le istituzioni della Bosnia Erzegovina a inizio ottobre. Nonostante il Paese, candidato ufficialmente a entrare nella Ue, abbia lanciato dei segnali di cambiamento premiando alcune forze civiche, più di un episodio ha contribuito a offuscare la festa democratica della popolazione, ostaggio della peggiore crisi politica dalla fine della guerra del 1992-95. Nella Republika Srpska è stato annunciato il riconteggio dei voti per il sospetto di brogli elettorali che avrebbero favorito al governo il nazionalista Milorad Dodik, contro la rivale Jelena Trivić del Partito del progresso democratico. Sostenitore di una Republika Srpska indipendente dalla Bosnia, Dodik è il punto di riferimento di Putin e Orbán in quella che, a distanza di quasi 110 anni dal fatidico sparo a Sarajevo, rimane l’area geopolitica più instabile d’Europa. Una firma apposta nella base militare americana di Dayton, in Ohio, nel 1995, aveva messo la parola fine a una guerra civile costata oltre 100mila vittime, combattuta tra la popolazione di etnia serba, croata e bosgnacca. Un accordo necessario per interrompere i combattimenti, ma inadatto a favorire lo sviluppo del Paese in tempo di pace. L’amministrazione dello Stato della Bosnia Erzegovina, suddiviso in due entità, la Republika Srpska, abitata in prevalenza da cittadini di etnia serba, e la Federazione di Bosnia ed Erzegovina, popolata da croati e boElena sgnacchi (bosniaci musulKaniadakis mani), si basa su un sistema Giornalista fortemente decentrato, la
BOSNIA
ACCUSE DI BROGLI NEL PAESE CANDIDATO ALL’INGRESSO NELLA UE CHE SI DIBATTE TRA SPINTE ETNICHE E MINACCE SECESSIONISTE SERBE. CON UN CALO DEMOGRAFICO DA RECORD DI ELENA KANIADAKIS DA BANJA LUKA
IL PRESIDENTE
Aleksandar Vućić, presidente della Serbia parla ai media in una conferenza stampa dopo il vertice della Comunità politica europea a Praga del 6 ottobre cui presidenza è composta da tre membri, a rappresentanza dei tre popoli costitutivi del Paese; ognuna delle due entità ha poi un proprio governo.
Per la prima volta, due su tre dei presidenti eletti appartengono a partiti progressisti di stampo civico e non etno-nazionalista, ma a livello parlamentare si sono imposti i tre partiti tradizionali che da tempo monopolizzano l’agenda del Paese proponendosi come gli unici garanti degli interessi etnici.
Con le sue bandiere serbe a ornamento dei palazzi e la monumentale chiesa ortodossa in costruzione dedicata alla dinastia Romanov, in omaggio all’amicizia con il popolo russo, Banja Luka è considerata il cuore del nazionalismo serbo nella Bosnia Erzegovina. Il suo leader, Milorad Dodik, cresciuto a nord della città, iniziato alla politica durante il tramonto della Repubblica socialista jugoslava, e conosciuto oggi per affermazioni come «sono un serbo, la Bosnia è solo il posto dove ho il mio impiego di lavoro» domina da più di dieci anni la scena politica. Nel genna-
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io scorso il suo annuncio di voler dare vita a istituzioni indipendenti dalla Bosnia, come un esercito e un’Autorità del farmaco, in preparazione di una possibile secessione, ha destato l’allarme dell’Alto rappresentante internazionale Christian Schmidt, incaricato di vigilare da Sarajevo sull’osservanza degli accordi di Dayton. Poi, dopo lo scoppio della guerra in Ucraina, il Parlamento della Republika Srpska ha approvato la sospensione del progetto, per evitare di complicare la «posizione geopolitica».
«Negli ultimi mesi Dodik è stato più cauto nell’evocare la secessione», spiega l’analista politico Srecko Latal, convinto di come lo stop al processo sia stato favorito dal governo dello Stato serbo, impegnato a non scontentare Mosca e l’Unione europea allo stesso tempo. Le sorti di Banja Luka sono infatti legate a doppio filo con quelle di Belgrado: ad unire Dodik al presidente dello Stato serbo Aleksandar Vučić, oltre all’ideale di un popolo serbo riunito sotto un’unica bandiera, è la storica amicizia con la Russia. Nel suo ultimo incontro con Putin a Mosca, il 20 setLEADER SERBO
Il leader serbo-bosniaco Milorad Dodik partecipa a una manifestazione politica del partito nazionalista serbo al governo tembre scorso, Dodik ha espresso il proprio sostegno ai referendum separatisti in Ucraina e ha ottenuto il gas a prezzi di favore, ma si è anche speso per avere l’appoggio russo, nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, al prolungamento in Bosnia della missione di peacekeeping Eufor, guidata dall’Unione europea. «L’ipotesi di una secessione rimane valida, ma non è l’unico problema della Bosnia. I blocchi etnici nel loro insieme hanno rispolverato la retorica guerrafondaia e alimentano la crisi politica», sostiene Latal. L’estate scorsa, nella città di Mostar, capitale de facto dei croati bosniaci, il cimitero dedicato ai partigiani jugoslavi della Seconda guerra mondiale è stato devastato. In una notte le 600 steli a guardia di una nazione fondata sul multiculturalismo sono state ridotte in frantumi da ignoti nostalgici degli Ustascia, il movimento fascista croato.
Poi, nella notte elettorale del 2 ottobre, i seggi erano stati appena chiusi quando l’Alto rappresentante Schmidt ha imposto una modifica della legge elettorale. Una misura invocata per garantire maggiore stabili-
tà al Paese, ma criticata da ampia parte della società bosniaca, che accusa Schmidt di avere ceduto alle pressioni dei nazionalisti per garantire ai bosniaci croati (numericamente inferiori ai bosgnacchi) maggiore rappresentanza. Il governo della Republika Srpska invece non riconosce la figura dell’Alto rappresentante, previsto dagli accordi di Dayton e, secondo Dodik, espressione di un’ingerenza che ha fatto della Bosnia «l’ultima colonia d’Europa».
Al termine della guerra civile, molti nomi delle strade di Banja Luka sono stati modificati per affermare l’identità serba. I minareti delle sedici moschee, distrutte durante il conflitto, sono tornati invece a puntellare il cielo sopra la città. «I politici evocano lo spettro della secessione per fare propaganda, ma qui serbi e bosgnacchi vivono in pace», racconta Muamer Okanović, imam della moschea Ferhadija, risalente al sedicesimo secolo, fatta saltare in aria con l’esplosivo e rinata oggi grazie ai finanziamenti della Turchia. Okanović, nato nel ’92, appartiene alla generazione di bosniaci che della guerra non ha ricordi, pur avendone ereditato i
traumi. «I miei coetanei si sentono imprigionati in uno Stato immobile, e sono i più inclini a subire il fascino dei nazionalismi, perché non ne hanno vissuto gli orrori». Ciò che invece sembra immune dalle divisioni etniche è la corruzione che stritola il Paese. «Molti partiti considerano le casse statali come un salvadanaio privato», racconta Ivana Korajlić della Ong Transparency International, con sede a Banja Luka. «Per Dodik creare delle istituzioni indipendenti significa avere un controllo più diretto su quelle risorse». Piazza Krajina, la più importante di Banja Luka, nel 2018 ospitò l’ultima grande ondata di proteste contro il governo giudicato corrotto e colluso con le mafie locali: da allora tanti manifestanti sono emigrati, in fuga da un Paese «in perenne shock post-traumatico», come lo definisce Vesna Malesević, attivista che con i membri del centro culturale Unsa Geto, in una ex fabbrica di carta a Banja Luka, ha organizzato eventi per esortare i giovani al voto. «La narrazione del governo è che siamo protetti dall’amicizia con la Russia, ma la realtà è molto diversa: l’inflazione ha toccato il 17 per cento e la disoccupazione giovanile è tra le più alte d’Europa».
Il saccheggio delle risorse pubbliche e l’immobilismo politico rischiano di trasformare il Paese in un luogo senza futuro. Secondo un rapporto delle Nazioni Unite, la Bosnia Erzegovina è il Paese con il calo demografico più netto al mondo: dal 2013 a oggi, mezzo milione di cittadini ha comprato un biglietto di sola andata per mete come la Germania e la Slovenia. Il dibattito degli ultimi mesi è stato incentrato sul rischio di un nuovo conflitto e non sembra destinato a cambiare, anche se Dodik venisse sconfitto. La sua rivale Jelena Trivić si è distinta per posizioni altrettanto nazionaliste e il murales che a Banja Luka inneggia alla secessione, per ora, rimane nitido sotto alla pioggia.
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IL LEADER NAZIONALISTA MILORAD DODIK È PUNTO DI RIFERIMENTO DEL PRESIDENTE UNGHERESE ORBÁN NELL’AREA GEOPOLITICA PIÙ INSTABILE D’EUROPA. E HA UN CANALE PRIVILEGIATO CON PUTIN
IN PIAZZA
Manifestazione di piazza a sostegno dei partiti di opposizione nella Republika Srpska dopo il primo esito del voto del 2 ottobre