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Diversificare: il menu della piccola pesca Angiola Codacci-Pisanelli 76 I nati carcerati del Malaspina Sabrina Pisu

TI CARCERATI DEL MALASPINA

eco di pugni che battono su porte di metallo e grida spezza il canto monotono delle cicale: è il suono dei giovani detenuti che raggiunge il giardino nel complesso che ospita il carcere minorile Malaspina di Palermo. E l’immagine racconta la frattura che divide, come una ferita, il dentro e il fuori. A fare strada è Clara Pangaro, da trent’anni al Malaspina, da educatrice e negli ultimi quattro da direttrice dell’Istituto penale minorile che è solo maschile e ospita ventisei ragazzi dai 14 ai 25 anni. Hanno commesso soprattutto reati contro il patrimonio, ( furti, rapine, spaccio di droga) e qualcuno anche omicidi. Nel lungo corridoio, i colori di disegni e murales non nascondono muffa e pareti scrostate. «Cerchiamo di organizzare tante attività affinché il tempo in carcere non sia sospeso, ma di lavoro e formazione, e revisione delle scelte, fatte a volte senza consapevolezza», spiega la direttrice.

Dopo minuziosi controlli, chiavi grandi quanto mani

aprono l’enorme cancello di sicurezza. A varcarlo doveva L’ esserci anche la celebre fotoreporter Letizia Battaglia, scomparsa il 13 aprile scorso. La figlia, e fotografa, Shobha stringe tra le mani, come un testimone, la macchina fotografica della madre: è la sua presenza qui. Quando si entra nell’area detentiva, la libertà è a un passo, ma inarrivabile. Quando la porta con sbarre di acciaio si apre, quelle mani strette nei pugni rivelano un volto. I ragazzi cercano i nostri occhi, si avvicinano, ridono e poi si allontanano restando uniti come uno sciame di api, hanno magliette firmate e tatuaggi che sono manifesti su carne di cose vissute o del credo con cui viverle. Alcuni hanno accettato l’incontro con L’Espresso e scelgono nomi di fantasia . «La mia testa se resto qui se la mangia il carcere»: Gabriele è seduto sulla finestra e guarda oltre le grate che miniaturizza-

Sabrina Pisu Giornalista

L’opera dei pupi antimafia, il progetto di Angelo Sicilia. Al centro, un detenuto alla finestra. A destra, la realizzazione dei pupi

no l’orizzonte, negli occhi si leggono le ombre e le luci che lo abitano. Ha 18 anni, viene dalla Sicilia nord-orientale, ed è da un anno al Malaspina per rapina aggravata: «Ero diventato una vittima del sistema di spaccio che dove vivo è gestito da alcune famiglie, io prendevo 50 euro, chi gestiva lo spaccio, e non era neanche il più grande, anche tremila al giorno. Facevo lo “scopino”, spacciavo e mi lasciavano fumare il crack tutto il giorno in una casa chiusa». La droga all’inizio era un gioco: «Non conoscevo i rischi, sentivo di avere potere, volevo essere come gli altri che grazie allo spaccio potevano comprarsi bei vestiti e tutto quello che desideravano. Chi aveva un lavoro onesto era visto male. Un’idea distorta, l’ ho compreso qui». La dipendenza psichica era dietro l’angolo: «Fermavo la gente per strada con un coltello per rapinarla, i soldi non mi bastavano mai, la droga mi ha fatto perdere le staffe». Gabriele è cresciuto con sua madre e i nonni, il padre non c’è mai stato: «La mia infanzia è diventata brutta a sette anni, quando i nonni sono morti per un tumore». A casa, quando uscirà, lo aspetta un figlio che è appena nato. Dovrà cercare, lui che è poco più che un bambino, di essere il padre che non ha avuto: «Sono cresciuto in mezzo alla strada senza una figura paterna che ti insegna a essere un uomo giorno dopo giorno. Ho spacciato perché non sapevo come guadagnare i soldi e nessuno mi dava un lavoro. Lo Stato ci lascia commettere reati, fino a quando arriva quello grave, perché non ci fermano e aiutano prima? Se mi ributtano per strada a 22 anni, senza aiuto, cosa farò? Chiedo la libertà vigilata, e, con un supporto psicologico fuori, la possibilità di dimostrare che sono cambiato, altrimenti impazzisco».

Quando don Carlo Cianciabella, parroco al Malaspina da un anno e per sua richiesta, arriva e apre la piccola cappella, Gabriele lo segue, lo abbraccia e, seduto, tiene a lungo la testa appoggiata sul suo braccio. Si stringono al cappellano anche molti altri, dopo essersi fatti il segno della croce e aver baciato la statua della Madonna all’ingresso.

Li segue l’educatrice Maria Mercadante: «Avere la loro fiducia è la cosa più difficile. In passato sono stati traditi e cercano relazioni autentiche, coerenza e regole mai avute, anche se poi le rigettano, per provocare».

Qui dentro giudizi e certezze si azzerano ogni istante. «Non sono mostri, è la società che a volte è un mostro e crea ghetti senza Stato e istituzioni», dice don Carlo Cianciabella. «Sono solo ragazzi, spesso più maturi di quelli della loro età perché arrivano da contesti disagiati in cui hanno imparato a difendersi, meritano attenzione perché se sono qui, non è solo colpa loro. È come se fossero nati

“LO STATO CI LASCIA COMMETTERE penitenziaria. «Cerchiamo di far comprendere il valore delle regole a ragazzi cresciuti REATI, FINO A QUANDO ARRIVA QUELLO in contesti senza legalità e spesso di abbandono familiare», spiega Francesco Cerami, GRAVE, PERCHÉ NON CI AIUTANO dirigente della Penitenziaria. La maggior PRIMA?”. “HO CONOSCIUTO MIO PADRE parte di questi giovani, alcuni a 17 anni, riceve in carcere, per la prima volta cure meDIETRO LE SBARRE. NON È UN ESEMPIO” diche e dentistiche. «Non possiamo fare miracoli, i ragazzi quando escono ritornano in zone in cui lo Stato manca ed è sosticarcerati e la parte sana della società ha un debito nei loro tuito dal potere criminale. È anche una scelta politica». confronti». Le giornate sono descritte senza fine, con due ore d’aria

«Nati carcerati», sono in molti ad aver conosciuto il pa- la mattina e due il pomeriggio, e il diritto a sei colloqui al dre in prigione. Un destino che si ripete anche per Carlo, mese con la famiglia: «Sono grato delle attività che ci fanche scrive il nome di suo figlio, che ha appena sei mesi, su no fare, ma alcuni giorni nella stanza restiamo anche venti un foglio di carta e lo scarabocchia con dei cuori. Ha 23 ore, giochiamo a calcio solamente una volta a settimana», anni, viene dal quartiere Zen di Palermo dove «i bambini racconta Messak, 19 anni, che sogna, o sognava, di fare il devono saper sopravvivere nella strada». Nel futuro si vede calciatore, e dice di essere bravo: «Ma quando uscirò avrò un buon padre, lui che il suo lo ha visto solo dietro le sbar- trent’anni, non sarà più possibile». Anche lui ha conosciure: «Ora mia moglie mi porta mio figlio ma non voglio che to suo padre in galera: «Sono cresciuto nei colloqui del lui faccia la stessa fine». Ha sei anni e otto mesi davanti per carcere. Lo vedevo come un idolo, mi vantavo con gli altri una rapina commessa a 14 anni: «Del reato sono solamen- amici che avevano anche loro i padri in prigione. Non do la te io il responsabile, ho fatto quello che ho visto fare in al- colpa a lui per i reati che ho commesso, però se uno ti dice cuni film. Non ho avuto paura perché chi rapina è visto di non fare una cosa e poi la fa, non è un esempio». Messak come uno tosto e volevo esserlo anche io e fare molti soldi, viene da Pesaro dov’è nato da una famiglia di origine macome gli altri». È stato facile reperire l’arma: «Dove vivo rocchina e spera di diventare cittadino italiano. È passato basta pagare. Al massimo 400 euro». in nove istituti prima di arrivare a Palermo, alle spalle ha

A chiudere e aprire i cancelli, della «gabbia», come i ra- 49 reati commessi da minorenne: «L’ ho fatto per rabbia, gazzi chiamano questo posto , ci sono gli agenti di Polizia sofferenza, per necessità di soldi per me e la mia fami-

glia». La violenza come abitudine: «Picchiavo qualcuno e non avevo più emozioni, paura. Ora ho capito, mi addormento con il senso di colpa». Qui ha la possibilità di studiare: «Prima nelle scuole ci andavo solo per spacciare».

La scuola dentro il Malaspina cerca di farsi inchiostro per storie nuove. «Le classi sono miste, i ragazzi hanno un diverso livello, alcuni imparano qui, a 14 anni, a leggere e scrivere. Si vergognano per questo», racconta l’insegnante d’italiano Valeria Pirrone, arrivata nel 2012. «La didattica tradizionale resta fuori, qui serve amore. Quando i ragazzi non venivano in aula li andavo a prendere nelle stanze», aggiunge Tiziana Basile, per tutti la “maestra Tiziana” che al Malaspina ha insegnato per trent’anni: «Sono ragazzi con una sensibilità incredibile, nessuno crede al bello che hanno dentro». È lei che ha dipinto con i giovani tutto il carcere, rifatto il murale di Banksy con la bambina e il palloncino rosso a cuore, trasformato le pareti in lavagne permanenti per parlare di educazione civica, Europa e legalità, e che nell’aula ricreativa ha fatto scrivere sui muri quali sono i doveri e i diritti.

I diritti, come quello all’infanzia negato a molti di loro. Ora vorrebbero muovere con una diversa consapevolezza i fili della loro esistenza, come muovono quelli dei pupi siciliani, le marionette antimafia del laboratorio iniziato nel 2018. «Sono fragili e con una voglia di fare e un talento incredibile», dice l’ideatore Angelo Sicilia. «Il progetto prevede che alcuni ragazzi, una volta usciti lavorino con noi, purtroppo qualcuno è tornato qui, non riusciamo a fare concorrenza economica al welfare mafioso».

Ragazzi con un’energia difficile da contenere, che vorrebbero fare più sport, nuotare o imparare a farlo nella piscina del Malaspina, che però non è agibile. «Non riusciamo da alcuni anni ad avviare i lavori a causa della pandemia e della difficile e costosa manutenzione che richiede una piscina di questo tipo», dice la direttrice Clara Pangaro. Messak indica la vasca: «È abbandonata. Sono disponibile come volontario per rimetterla a posto». «Anche io», dice Silver, 22 anni, di Mazara del Vallo. Lui ha già scontato una condanna di dieci anni: «Una bravata a 15 anni, un incidente con l’auto in cui è morta una persona», racconta. «Bisogna togliere la droga dalla strada. Quella sintetica è ovunque, con cinque euro un bambino compra una dose di crack. Noi abbiamo sbagliato ma questo non si può accettare».

Per don Carlo Cianciabella è necessario «rompere i muri» e concepire un carcere con le porte aperte: «Serve uno scambio maggiore tra dentro e fuori. Il muro alto fa sentire

Don Carlo Cianciabella con uno dei ragazzi del Malaspina IL PARROCO: “ARRIVANO DA CONTESTI IN CUI HANNO IMPARATO A DIFENDERSI, SE SONO QUI, NON È SOLO COLPA LORO. E LA PARTE SANA DELLA SOCIETÀ HA UN DEBITO CON LORO” al sicuro chi non si sente responsabile, chi guarda dall’alto in basso questi ragazzi che si incattiviscono perché si sentono messi ancora ai margini. Ci sono percentuali alte di suicidi o tentati suicidi negli istituti minorili. Il sistema giudiziario si dovrebbe interrogare molto a livello nazionale». «Serve una trasformazione del sistema e della società, e questo richiede un cambio culturale», sottolinea il vicedirettore del Malaspina, Salvatore Pennino. «Servono ingenti investimenti nel sociale per toglierli dalla strada e più risorse per offrire opportunità adeguate una volta usciti», aggiunge Clara Pangaro, «qui piantiamo semi, sperando che nascano fiori». «Fiori dal nulla», «diamanti chiusi in una vetrina»: sono stati i giovani detenuti a definirsi così in una canzone scritta in un progetto per mettere in musica le loro urla. Messak appoggia la testa al cancello, guarda degli adolescenti in cortile nell’ora d’aria: «Le carceri minorili devono esistere?», si chiede. «I minorenni non devono arrivare a fare reati, ci sono tanti bambini abbandonati là fuori, come lo ero io. Noi siamo considerati gli ultimi, siamo invisibili. Ma noi vogliamo essere visti, vogliamo esistere».

L

uigi Pirandello, seminascosto, osserva gli attori di una compagnia amatoriale durante le prove di uno spettacolo. Spia gesti, parole, la vita che scorre davanti ai suoi occhi. E da quel meraviglioso caos trova l'ispirazione per scrivere “Sei personaggi in cerca di autore”. Quegli attimi di spaesamento e nello stesso tempo di illuminazione sono momenti centrali del film dedicato allo scrittore siciliano: “La stranezza”, regia di Roberto Andò, con Toni Servillo nel ruolo di Luigi Pirandello, Salvo Ficarra e Valentino Picone nei panni di Onofrio e Sebastiano (due becchini che per diletto fanno teatro), e con tanti altri attori di spessore anche nei piccoli ruoli (da Renato Carpentieri a Luigi Lo Cascio, da Galatea Ranzi a Donatella Finocchiaro e Fausto Russo Ale-

si). Il film è riuscito a mettere d'accordo – pensate! - Medusa e Rai e arriverà nelle sale il prossimo 27 ottobre dopo l'anteprima alla Festa del Cinema di Roma il 20 ottobre. Ci immergiamo anche noi nella fantasia creativa di Pirandello dialogando con Roberto Andò, Toni Servillo, Salvo Ficarra e Valentino Picone. “La stranezza” è un film che nasce da un desiderio antico, ma come si può raccontare un gigante del teatro? Roberto Andò: «Era un desiderio che ci eravamo promessi di esaudire da tempo con Valentino e Salvo. A questa avventura si è aggiunto un amico, Toni Servillo, con cui tante volte avevamo parlato di Pirandello. E poi c'è un episodio della mia gioventù che mi piace ricordare. Un giorno, a Palermo, ero in macchina con Leonardo Sciascia che ad un certo punto mi disse: “Ferma, ferma la macchina”. Ci fermammo davanti alla libreria Utet. Lui entrò. Poi uscì e mi diede la biografia di Pirandello scritta da Gaspare Giudici. Quindi per me è un cerchio che si chiude. Volevo sottrarre Pirandello alla monumentalità. Ecco, con

Una cosa unisce Napoli alla Sicilia : la capacità di costruire identità alternative a quelle reali. I napoletani la declinano in commedia, i siciliani in tragedia

Massimo Gaudioso e Ugo Chiti abbiamo cercato di costruire una storia che raccontasse l'universo pirandelliano nel suo intreccio di vita e di arte, nel suo mescolare persona e personaggio, fra comicità e dramma». Salvo, Valentino, che rapporto avete voi con Pirandello? Salvo Ficarra: «Io non lo sento da anni, ho perso il numero, cambiando i telefoni succede… Forse lui, Valentino, lo sente ancora. Vi messaggiate, vero?». Valentino Picone: «Il rapporto con Pirandello è quello che comincia a scuola quando si studia. In quegli anni ho avuto la fortuna di assistere a “Sei personaggi in cerca di autore” al Teatro Biondo. La regia era di Zeffirelli, con la compagnia di Enrico Maria Salerno. Quell'opera è stata una rivoluzione nel mondo teatrale». Tutti i personaggi sono immersi nella sicilianità, a partire dal dialetto. Pirandello però – interpretato da Toni Servillo, unico non siciliano fra voi - si esprime per lo più in italiano. Toni Servillo: «Il film racconta il momento in cui Pirandello, per varie ragioni, è ri-

Servillo: «C'è un tratto che accomuna Napoli e la Sicilia. Negli anni Settanta, a Napoli ci imbattiamo nel fenomeno della sceneggiata, dove pubblico e platea si mescolavano. Ma un'altra cosa unisce Napoli con la Sicilia: la capacità di costruirsi un'identità alternativa a quella reale. I napoletani la costruiscono declinandola più sul versante di armonia da commedia, i siciliani sul versante più tragico, ma tutte e due coltivano un senso del comportamento sociale recitato, che vuol dire sperimentare una vita alternativa per sopportarla la vita». Quando Onofrio e Sebastiano vogliono invitare Pirandello alla prima del loro spettacolo, Onofrio (Valentino) pronuncia questa frase: “Non è paura, è dignità”. Vi appartengono queste parole? Ficarra: «Paura, specie all'inizio, no». Picone: «Variare è il divertimento». Ficarra: «La consapevolezza che recitare potesse diventare un lavoro è arrivata solo quando abbiamo superato l'età per il concorso pubblico. Perché il nostro sogno era avere un posto fisso alla Regione. Alla fine ci siamo dovuti accontentare». Recitare è un ripiego, insomma? Ficarra: «Eh sì, purtroppo non tutti riescono a realizzare i propri sogni». Picone: «La paura invece ti prende quando un maestro come Andò ti propone un film con Toni Servillo». Andò: «Io posso dire che per loro, come per Toni, vale la parola dignità. Nel senso che sono tre attori che hanno la capacità di tenere alta l'asticella, la dignità di dire no, difendendo il territorio che nobilita l'arte dell'attore». Toni Servillo: «A proposito della paura, mi viene in mente una frase che Louis Jouvet - a cui ho dedicato uno spettacolo teatrale, “Elvira” - rivolge a un ragazzo della scuola prima del saggio. Gli chiede: “Hai paura di affrontare il pubblico?” E il ragazzo risponde: “No”. Jouvet replica: “Arriverà con il talento”. Questo è un insegnamento di vita». “La stranezza” è un film sul senso della vita? Andò: «Io penso di si. Da una parte c'è l'ispirazione: il viaggio fantastico di uno scrittore che sta covando un grande capolavoro. Dall'altra però Pirandello ci fornisce anche una chiave proprio sul senso della vita, l'ossessione di essere persona ma anche personaggio. Quando una platea di un teatrino di provincia diventa un unico personaggio, protagonista di un atto teatrale, quello è un momento vitale, in cui Pirandello mette a fuoco la visione che ha del teatro, anche contestandolo». Come dimostra la scena al Teatro Valle dopo la prima dei “Sei personaggi” in cui lui viene definito un “buffone”... Andò: «Il pubblico lo mortifica, lo chiama impostore. Queste cose sono vere. Ci furono risse alla prima romana. Pirandello con la figlia Lietta uscì dal teatro e passò fra la folla, contrariamente alle sue abitudini. Io l'ho immaginato con quella smorfia beffarda di un uomo toccato da quello che stava accadendo, ma che nello stesso tempo non poteva rimproverarsi nulla». Salvo Ficarra: «Una cosa che mi ha affascinato di questo film è riscoprire l'anima popolare di Pirandello». Roberto Andò: «Questo è importantissimo perché vederlo sollecitare dal popolo è l'aspetto che restituisce nella sua unità Pirandello. L'atto creativo ha a che fare con la redenzione. Per questo mi auguro che questo film possa essere una festa».

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