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Dove il mondo è a casa Sabina Minardi

on diventare mai N una vedova lugubre... Per amore di Grisha. Per passione per l’arte. Per gusto della letteratura,

Beatrice Monti della Corte, vedova dello scrittore Gregor von Rezzori, ha mantenuto la promessa.

«Ho la stessa età della regina», esordisce appena ci incontriamo, e come la sovrana è circondata dai suoi cani. Da regina assoluta si muove a Santa Maddalena, la dimora in

Toscana che ha trasformato in residenza d’artista. Una culla di estro e di bellezza che stordisce il visitatore: non per sfarzo, ma per il lusso di quell’eleganza antica e intramontabile fatta di cura, storia, armonia, profumo di edera e di rose: che qui crescono arrampicate in mezzo agli ulivi. Soprattutto, è l’ombra di tante presenze ad accogliere chi arriva: ricordi di viaggio, tracce di amici, frasi e risate sospese nell’aria, e un’atmosfera dove libri, quadri, piastrelle bianche e verdi, letti siciliani, mobili viennesi del primo Novecento e ritratti di famiglia, sembrano sul punto di animarsi, e raccontare: di un nonno italiano, in foto con la giacca da tennis a righe bianche e blu; di un avo armeno con il tradizionale fez. Di un cane più amato di altri. Di una madre bellissima, persa troppo presto.

«Mia nonna era inglese, mia madre armena, morì a 25 anni di tifo, io ero piccolissima. A dieci anni andai a vivere a Capri con mio padre. Ma prima eravamo stati in Etiopia, lui era a capo dell’ufficio studi delle rovine di Lalibela e Gondar. È lì che ho conosciuto Curzio Malaparte, amico di una vita», racconta, mostrando una foto che li ritrae in Africa insieme. Tra ceramiche di Iznik, calligrafie coraniche, tavolini intarsiati in madreperla, manufatti sopravvissuti a pagine terribili della storia, la baronessa riprende a parlare: «Vivo nel mio organizzato disordine. Fino a qualche anno fa trascorrevo l’inverno a New York. Da sinistra: Villa Viaggiavo, poi tornaMaddalena, vo qui». a Donnini, a Qui è Valdarno, una ventina terra dei Guicciardidi chilometri ni, un susseguirsi di da Firenze; lo studio di Gregor colline alle spalle di von Rezzori; Firenze alle quali si Beatrice Monti giunge, una ventina della Corte con di chilometri dopo, il marito dalla stazione di Sant’Ellero, poi via verso Donnini. «Io e Grisha arrivammo la prima volta qui nel 1967. Fu amore a prima vista. Mio marito era di origine austriaca, la sua famiglia si era trapiantata in Romania. Da quando aveva lasciato la sua terra aveva sempre vissuto da nomade. In questo luogo sentì di poter mettere le radici. Abbiamo comprato il vecchio rudere, ci siamo rimboccati le maniche». «Quando la rilevammo la casa era quasi completamente distrutta, circondata da erba alta fino al ginocchio sotto una pioggia di fiori d’acacia», scrive lo scrittore Gregor von Rezzori nel memoir “L’attesa è magnifica” (Guanda): «Le rondini sembravano aver preso possesso di tutto. Quando finimmo di sistemarla i nidi erano stati distrutti e le rondini se ne erano andate, lasciandoci con un dedalo di stalle locali corridoi e stanze». È a quel punto che

interviene la capacità di immaginare di un grande architetto amico della coppia, Marco Zanuso, che ridà vita ad aie, cortili, granai, a una torre del Trecento. «Ogni fine settimana partivo da Milano, per cercare di riportare alla luce quella casa. Arredare è una parola che non mi piace molto. A me sembra che si crei complicità tra chi occupa una casa e la casa stessa, con le sue pareti, i suoi spazi. E alla fine è la casa a dirci di che cosa ha bisogno», ricorda Beatrice Monti nel libro pubblicato da La nave di Teseo, “I miei scrittori e altri animali”, con le foto di François Halard e i contributi di tanti amici. «A Milano avevo la mia galleria, L’Ariete, erano anni di grande effervescenza. Li ho esposti tutti: Francis Bacon, Joan Miró, David Hockney, Antoni Tàpies, Robert Rauschenberg. Ma non volevo vivere lontano da mio marito. Lasciai la città. Il mio amico Leo Castelli si infuriò: “Ma come, molli proprio ora? Tra sei mesi saremo miliardari”». L’arte contemporanea sbuca ovunque a Santa Maddalena, tra cuscini di Tangeri, tappeti di Kabul, figure indiane, pitture secente-

sche di cortigiane veneziane: una scultura di Pietro Cascella, due donne nude che ballano in salotto opera di Michelangelo Pistoletto, due enormi dipinti bianchi di Enrico Castellani: minimalismo assoluto, che trasmette purezza e presenza.

Inizia una stagione nuova per la coppia. Scrittura, amicizie, viaggi: dal Rio delle Amazzoni all’Afghanistan: «Sono andata due volte da sola, non c’era pericolo. Il mondo era più scomodo ma molto più sicuro di oggi». E la casa si apre a scrittori e intellettuali. «Ho sempre vissuto tra libri di tutte le lingue, ma nessuno mi ha mai detto cosa leggere: ho avuto un’educazione un po’ sgangherata. Scelgo quello che mi piace. Mi colpisce un libro, scrivo all’autore, lo invito».

E gli scrittori accorrono: per settimane, mesi, ogni anno, avvolti da una grande, cosmopolita, famiglia allargata: «Ecco il mio trisnonno Pasquale Stanislao Mancini: abolì la pena di morte in Italia un secolo e mezzo prima del resto d’Europa». E lo zio, ultimo governatore del Libano. Uomini in uniforme, donne a cavallo, burattini turchi, locandine di mitici toreri.

«Come abbino gli ospiti? Metto insieme persone molto simili o molto diverse: così nascono belle sorprese». A tavola specialmente, racconta l’habitué Edmund White: «All’ora di cena, col vino nel decanter, i candelabri d’argento e una cena toscana, ci si incontra. Gli scrittori hanno l’aspetto stralunato e quasi extraterrestre dei guerrieri in lotta con gli angeli. Dopo qualche bicchiere di vino partono a raccontare di infanzie in Alabama o in Lettonia».

Ralph Fiennes arriva qui nel 1995, con Michael Ondaatje, Antony Minghella e Kristin Scott Thomas. Isabella Rossellini è amica di lunga data. Da Colm Tóibín a Emanuele Carrère, da John Banville a Michael Cunningham («un amico vero: adora giocare a scacchi cinesi. L’ultima volta però è scivolato in cantina», dice ridendo) è un andirivieni continuo. Come conferma il libro degli ospiti: Andrew Sean Greer, Gary Shteyngart, Adam Thirlwell, Tash Aw, Dany Laferrière, Hisham Matar. A ognuno di loro, «rigorosamente non accompagnati», Santa Maddalena offre una camera e uno studio. E la possibilità di frugare tra i pensieri di chi è passato prima: lettere, appunti, cartoli-

“Cos’è la solitudine? Una benedizione! Sono sempre circondata da così tanta gente. E l’ironia è indispensabile alla sopravvivenza”

Da sinistra: la stanza in cui amava soggiornare Bruce Chatwin; la scrittrice Maylis De Kerangal; Michael Cunningham e Andrew Sean Greer; Zadie Smith; Beatrice Monti della Corte con la Nobel Annie Ernaux

“I miei scrittori e altri animali” di Beatrice Monti della Corte con François Halar e Michael Cunningham (La nave di Teseo)

ne, i libri allineati da Cunningham, mentre scriveva “Giorni memorabili” nella stanza che fu di Bruce Chatwin: «Dormo nella sua ex camera in cima alla torre di avvistamento. Il suo spirito impalpabile abita ancora in questa stanza, qui sono io il fantasma». Di Santa Maddalena Chatwin diceva: «è il posto migliore al mondo in cui scrivere». Cunningham prosegue: «Una stanza piuttosto femminile, con le pareti a righe bianche e rosa e figure indiane ingioiellate che suonano il flauto. Una via di mezzo tra la cameretta di un’eccentrica ragazzina e un serraglio».

Colori, incontri, viste spettacolari: di genius loci, saggio e selvaggio, ha parlato Maylis de Kerangal. Di casa qui è Zadie Smith: «Una figlia adottiva, l’ho conosciuta a 25 anni quando aveva pubblicato “Denti bianchi”, due milioni e mezzo di copie: era sconvolta dal successo. Le ho scritto, è rimasta tre mesi. Spero diventi lei la presidente della Fondazione Santa Maddalena», che promuove il premio von Rezzori al miglior libro straniero tradotto in italiano: nel 2022 è stato assegnato a Javier Marìas: «Siamo stati molto amici. Un mese prima di morire mi ha detto: “Bisognerà pensare a un altro re per Redonda”, il regno di fantasia sulla sua isola nelle Antille. Non è mai venuto, temeva di non stare bene con gli altri. “E cosa faccio, se li odio tutti?”, rideva». Sarà pur capitato: «Pochissime volte. Ricordo una scrittrice cinese che si pacificava solo facendo incetta di prodotti in farmacia. E mi dispiacque quella volta che un’imp or t ant e scrittrice fu cattiva con la giovane Elif Batuman. Se sono nati amori? Tendo a non saperlo. Di certo, molte amicizie». Di qui sono passati Olga Tokarczuk. E Annie Ernaux, premiata nel 2019, racconta la padrona di casa, seduta nello studio del marito, tra enciclopedie e curiosità: come una copertina del New Yorker che ritrae Tomboy, il suo primo carlino, nel disegno di Barry Flanagan. «Ho ospitato tanti traduttori: fanno da ponte tra mondi, fondamentali. Avrei voluto conoscere più botanici, per scoprire meglio la natura». E quel coltivare, così centrale nella sua vita: relazioni, bellezza. E talento: «Amo i giovani. Ogni tanto li segnalo a Edwin Frank della New York Review of Books. L’ho fatto con Bernardo Zannoni. E vi dico un altro nome da tenere d’occhio, un georgiano, Leo Vardiashvili». Un nuovo ospite arriva mentre la salutiamo: è Mateo Garcia Elizondo, nipote di Gabriel García Marquez. «La solitudine? È una benedizione, sono sempre piena di gente. E l’ironia è indispensabile alla sopravvivenza».

Ar t e / 25 anni di Gu g gen h eim Bilbao, cielo e acciaio

l modo migliore per accedere a I Bilbao è percorrere la strada che dall’aeroporto arriva fino al ponte La Salve, così chiamato perché fu costruito nell’ansa dell’estuario del fiume Nervión dove i marinai che rientravano in porto vedevano per la prima volta la Basilica de

Nuestra Señora de Begoña, pregando il

Salve Regina alla Vergine. Superato l’Arcos Rojos di Daniel Buren, il Museo

Guggenheim vi apparirà davanti avendo la meglio su tutto: sguardi e ambiente, paesaggio e sensazioni. Fu Frank

Gehry a progettarlo e a volerlo in quella parte settentrionale della città dopo aver osservato il panorama dal monte

Artxanda. È lì dal 1997 e da allora qualcosa è cambiato. Per la città, per la gente di Bilbao e non solo.

«Il progetto del Museo è basato sul porto che era in passato Bilbao e la città che è oggi», ha spiegato l’archistar nordamericano, oggi 93enne. Il Guggenheim è l’elemento centrale dell’incredibile processo di trasformazione di cui è stata protagonista la città basca alla fine del secolo scorso in risposta alla crisi industriale ed economica che stava attraversando. Nel 1988 era una città in crisi, ingombra dei resti del porto fluviale, inquinata e degradata. C’è un articolo di giornale a cui si fa sempre riferimento che titolava: “O ci si dà una mossa, o si muore”. La mossa c’è stata eccome. Alcune reminiscenze del cosiddetto periodo di acciaio sono racchiuse in questo tempio dell’arte contemporanea che oggi – 25 anni dopo - è in perfetta sintonia con il nuovo tracciato urbano di Bilbao e con il verde

Paseo de Abandoibarra come sua porta d’accesso. Il museo abbraccia il pon-

La meraviglia di Frank Gehry ha trasformato un’oscura città industriale in una capitale mondiale del turismo e dell’arte. Un modello di rigenerazione urbana che fa scuola

di Giuseppe Fantasia

te dal basso e nel suo insieme è una scultura su grande scala che, a seconda del punto di osservazione e immaginazione dell’osservatore, può assomigliare a un fiore, a una nave o a un pesce senza pinne, mantenendo un dialogo con il fiume che scorre accanto. Offre sempre qualcosa di nuovo e di inaspettato e il suo colore cambia a seconda delle luci del giorno e della notte, grazie a lamine in metallo che alludono al passato industriale e portuale della zona. Durante questi 25 anni, il museo ha arricchito significativamente Bilbao con il suo apporto di valore estetico e patrimoniale e l’ha potenziata con un formidabile dinamismo culturale ed artistico, facilitando l’accessibilità e la divulgazione dell’arte. «Ci sentiamo artefici della radicale innovazione che negli ultimi decenni ha avuto luogo nella Biscaglia nell’ambito socioculturale, in particolare per quanto riguarda la creazione e la diffusione delle conoscenze, il fomento del talento, l’integrazione e il riconoscimento di tutte le persone, così come la valorizzazione dello sforzo del lavoro di squadra», ci hanno spiegato all’unisono, durante la visita, il direttore generale Juan Ignacio Vidarte e Xabier Sagredo, Presidente di BBK che dà il patrocinio alla mostra commemorativa “Sezioni/Intersezioni”. Un vero e proprio “effetto Guggenheim” su Bilbao che ha portato a tante e ad altre costruzioni: dal nuovo

In senso orario: Fuente de Fuego, Yves Klein; Arcos Rojos, Daniel Buren; L’uomo di Napoli, Basquiat; Tulipani, Koons; The Matter of Time, Richard Serra; Cápsula flamenco, J. Rosenquist

terminal aeroportuale realizzato nel 2000 da Santiago Calatrava al gigantesco Puppy di Jeff Koons all’esterno del museo, che con i suoi quasi 13 metri di altezza riempiti da piante e fiori, ha avuto la meglio sui container arrugginiti che soffocavano il quartiere Indautxu. E la nuova piscina di Philippe Starck, il nuovo stadio San Mamés di César Azcárate e il futuro quartiere nella penisola di Zorrozaurre che ha lasciato nei suoi progetti Zaha Hadid, area industriale di 600mila metri quadrati a est della città il cui masterplan ne prevede la trasformazione in un quartiere urbano con 15mila residenze, uffici e laboratori per 6mila persone. Le stesse abitazioni saranno costruite a 4,7 metri sul livello dell’acqua per prevenire le alluvioni, un modello esemplare che piace perché persegue la sostenibilità offrendo una qualità della vita (secondo una classifica di Ocu, Organisation of Consumers and Users) superiore a quella di Madrid e Barcellona. Qui ogni cosa parla di riconversione ecologica e di rigenerazione urbana e se si è arrivati a ciò è per la forte volontà politica e per l’orgoglio dei cittadini. Da un lato la creazione di Bilbao Ria 2000 - società pubblica finanziata al 50 per cento dal governo centrale e per il resto dalle autorità basche - dall’altro quella di Bilbao Metropoli 30 – associazione di università, organizzazioni, enti pubblici, banche e fondazioni. Il Guggenheim – poco amato inizialmente dagli artisti, contenitore che attrae e disorienta più delle opere stesse - ha fatto il suo. Il progetto ha convinto negli anni tanti architetti, tra cui Norman Foster. È stato lui - il “creatore” dei londinesi St. Mary Axe (The Gherkin) e Millenium Bridge, del Reichstag a Berlino e di molti altri lavori - ad aprire le porte al Guggenheim e stravolgere Bilbao, progettando nel 1995 la scenografica metropolitana cittadina. Lo incontrammo ad aprile, all’inaugurazione della mostra “Motion: autos art architecture”; lo abbiamo ritrovato per questo compleanno speciale, festeggiato con una mostra che espone per la prima volta la collezione intera del Guggenheim. I curatori, Lekha Hileman Waitoller, Manuel Cirauqui, Geaninne Gutiérrez - Guimarães, Lucia Agirre e Maite Borjabad, l’hanno concepita come un trittico espositivo nei tre piani dell’edificio, dedicati ad accogliere opere iconiche. L’enorme labirinto in ferro di Richard Serra (“The Matter of time”) è in pole position, così come le grandi tele di Rothko e Basquiat, le sculture di Louise Bourgeois, Anish Kapoor e Chillida, l’ipnotico paesaggio marino di Gerhard Richter e “Installation for Bilbao” - le nove colonne a luci Led di Jenny Holzer su cui vengono proiettate frasi che sembrano raggiungere il cielo - poco distante da “Sonnenschiff ”, la scultura con cui Anselm Kiefer ha raffigurato i devastanti effetti dei bombardamenti aerei della Seconda Guerra Mondiale sulla campagna tedesca. C’è “L’albero dei desideri per Bilbao” di Yoko Ono, “La grande Antropometria blu” di Klein, “L’uomo di Napoli” di Basquiat, l’ipnotico disegno di LeWitt, poco distante dalla stanza con la serigrafia della Monroe di Warhol, dal mondo colorato di Gilbert&George e dai Tulipani di Jeff Koons. Sarà un piacere entrare nella White Bubble di Ernesto Neto o nella scenografica Stanza degli specchi di Yayoi Kusama, “infiniti” come le possibilità di cambiamento e di miglioramento che ha offerto e continuerà a offrire. Perché, ripete Gehry, «l’acciaio non somiglia al cielo di Bilbao».

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