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Editoriale
Prima Pagina
Allarme recessione
Vittorio Malagutti 12
I nostri salari bassi mangiati dall’inflazione Gloria Riva 16 Quella manovra senza identità Eugenio Occorsio 20 Regole nuove per salvare il mondo Jeremy Rifkin 24 L’ingiustizia climatica Diletta Bellotti 26 Ambiente, lost in transition Susanna Turco 28 Giovani cinesi e disoccupati Simone Pieranni 32 Roma e Pechino: di nuovo amici Carlo Tecce 36 Il risveglio degli Stati Matteo Scotto 42 Donald Trump colpisce ancora Manuela Cavalieri e Donatella Mulvoni 44 Lui è nel solco della violenza americana colloquio con Andres Serrano di Emanuele Coen 46 Elon Musk, il tecno liberista Federica Bianchi 50 Quei 50 metri di separazione Giulia Marchina 54 Tregua al bivio tra valori e Borse Gigi Riva 60 Diversamente russi Laura Silvia Battaglia 64 Fight Club Italia, la strada è un ring Antonio Fraschilla 68 Heil Hitler no vax Rosaria Capacchione 74 Sulla luna a tutti i costi Emilio Cozzi 78
Idee
Opinioni
Altan 3 Makkox 8 Manfellotto 31 Serra 41 Vicinanza 72 Cacciari 122
Rubriche
La parola 7 Taglio alto 15 Bookmarks 105 Ho visto cose 118 #musica 118 Scritti al buio 119 Noi e voi 120
COPERTINA Artwork di Alessio Melandri
Sull’isola delle origini
Matteo Nucci 82 Staffetta con il dolore colloquio con Andrea Bajani e Michele Bravi di Simone Alliva 88 Compagni allo specchio Fabio Ferzetti 92 Il killer è lo scrittore Aisha Cerami 95 Artisti della vita eterna colloquio con Christian Greco di Angiola Codacci-Pisanelli 96 Scambio d’energia Valeria Verbaro 101 La battaglia di Rosa colloquio con Isabella Ragonese di Francesca De Sanctis 102
Storie
Così le monarchie sorelle giocano al tavolo del calcio Marta Bellingreri 106 Aiuti e sostegno alle comunità, l’altra faccia dei rave Monica Pelliccia e Alice Pistolesi 110 Il design che discrimina non è più di moda Valeria Verbaro 114
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colore
Qual è il senso del colore? Che relazione c’è tra i colori e la vita, la mia? La domanda può apparire banale. Non si può, infatti, pensare una vita senza colori, senza sfumature; una vita, come si suol dire, «in bianco e nero». In re altà, anche il bianco e il nero sono colori. Dun que, una vita senza colori sarebbe impossibile: l’esistenza è sempre radicalmente colorata. Il colore è uno dei canali attraverso il quale il mondo ci raggiunge, ci viene incontro: è un potente canale di relazione, di comunicazio ne. Crea abbinamenti e atmosfere. Il colore contribuisce a fare della realtà un «ambien te». Ci si immerge nel colore, e così si conosce la realtà. Ma non c’è nulla di più fluido del colore, che genera una percezione differente in chi lo guarda sulla base della propria cultura e del la propria esperienza personale. Non tutti ve diamo allo stesso modo, infatti. Cioè non tut ti interpretiamo ciò che vediamo nella stessa maniera. Il colore va ben al di là della biolo gia. Qualcuno faceva notare che il porpora, che per l’italiano è un rosso, per l’inglese è un viola, ad esempio. Possiamo anche affermare che la stessa per cezione dei colori ha una sua evoluzione nel
tempo, non omogenea per Paesi e culture. Ogni colore ha, dunque, una sua storia, che è anche sociale e sentimentale. È anche persino teologica: basterebbe pensare ai colori delle liturgie per svelare l’evidenza che il colore è ambiente del sacro.
Una cosa è certa, comunque: i colori ci rag giungono da un «oltre», al di là di noi stessi. Un colore suggestivo caro a molti – da Giotto a Yves Klein, da Derek Jarman a Raymond Car ver – è il «blu oltremare», nel quale «l’oscurità diviene visibile» (Klein). In natura la compo sizione di questo pigmento la si trova nel lapislazzuli che veniva estratto principalmente in Oriente e arrivava in Europa dai porti del Vicino Oriente. Arrivava da Oltremare, dun que. Quel che mi sembra illuminante è il fatto che il colore arrivi da altrove. In realtà questo, simbolicamente, vale per tutti i colori. Quan do l’artista li usa, essi non sono semplicemente imitazione della natura, ma intuizione di qual cosa che lo ispira arrivando da un «oltre». Nel giungere a noi è come se arrivassero via mare, superando la possibilità di un naufra gio, quello che per noi farebbe andare a pic co il mondo.
Il 2023 metterà in crisi le economie e i governi
Recessione, inflazione, carenza energetica. Sta arrivando l’inverno più duro, e le scelte dell’esecutivo di Giorgia Meloni rischiano di allargare il divario tra chi sta meglio e i più svantaggiati
Il governo di Giorgia Meloni è parti to con la norma sui rave, il blocco dei migranti e la polemica con la Francia, il reintegro dei medici No Vax, lo stop al reddito di cittadinanza, l’aumen to del massimale del contante in aiuto ai pagamenti in nero, il saldo e stralcio delle cartelle esattoriali, oltre al “regalino” del la flat-tax per redditi sino a 85 mila euro. Guardando bene la manovra, vogliono fare cassa sui poveri e sui pensionati, per ché pare che una parte delle pensioni non verrà adeguata all’inflazione. Mentre si finanziano misure che allargano il divario di tassazione tra dipendenti e autonomi. E nulla si sa sugli stanziamenti per la sanità e la scuola.
È la stretta per un Paese che si avvia ver so un inverno gelido, con famiglie e lavora tori lasciati soli a fronteggiare il carovita. Si guarda nella direzione di autonomi a reddito elevato, di evasori fiscali e di ac cumulatori seriali di cartelle esattoriali. Tutti gli altri è come se non esistessero, an che se brancolano a causa dell’inflazione e della precarietà. E di politica industriale non si parla.
A Palazzo Chigi inizia a circolare una certa preoccupazione anche su alcuni obiettivi del Pnrr da raggiungere entro fi ne anno. Per questo si valuta un disegno di legge con la convinzione di riuscire a evi tare che eventuali problemi siano addebi tati a questo governo. È stata anche avvia ta una ricognizione sui fondi europei non utilizzati nella speranza di recuperare un tesoretto da usare per un decreto, dopo la chiusura della manovra.
Tutto questo mentre la coalizione conti nua in più occasioni a far registrare fibril lazioni interne.
Sarà il 2023 a dirci in cosa crede veramen
te Giorgia Meloni e quanto durerà il suo governo che mette insieme Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia, apertamente in disac cordo su una serie di questioni, dalla Rus sia alla politica di bilancio.
E per il prossimo anno ci sono alcune questioni che determineranno l’anda mento economico non solo dell’Italia: la Bce alza ulteriormente i tassi di interesse per combattere l’inflazione e quest’ultima danneggia gli acquirenti e i rivenditori. La crescita dell’e-commerce è destinata a rallentare. L’appetito asiatico per l’energia contribuisce a far aumentare la domanda globale di petrolio dell’uno e mezzo per cento, superando i livelli pre-pandemia.
I rischi di recessione e gli aumenti dei tassi non impediscono che la spesa tecno logica aumenti di poco mentre le vendite di dispositivi deludono, ma il mercato dell’intelligenza artificiale sale a 500 mi liardi di dollari.
Mentre lottano per ottenere nuovi ab bonati e affrontare i concorrenti, le so cietà di streaming continuano a investire pesantemente sui contenuti: diciassette miliardi di dollari, nel caso di Netflix. Le vendite globali di auto nuove crescono so lo dell’uno per cento, molto meglio vanno quelle di veicoli elettrici. L’America, il Pa ese che spende di più nel settore della di fesa, amplia le spese annuali a 800 miliar di di dollari, più di tre volte il livello della Cina. I viaggi aerei diventano redditizi poiché gli arrivi internazionali aumenta no del trenta per cento. Ma rimangono al di sotto dei livelli pre-pandemia; molti aspiranti viaggiatori d’affari scelgono in vece di incontrarsi da remoto. Il 2023 è destinato a far cambiare le tendenze eco nomiche e anche qualche governo.
esercito dei 250 mila inve stitori che 10 giorni fa si è precipitato a sottoscrivere 12 miliardi di euro di Btp cercava uno scudo contro l’inflazione che giorno do po giorno divora i rispar mi degli italiani. Affare fatto. Il nuovo tito lo di Stato, uno dei primi con il marchio del governo appena insediato, offrirà un rendimento superiore all’incremento del costo della vita fino alla scadenza di no vembre 2028. Questo significa che nell’ar co dei prossimi 12 mesi il Tesoro sarà co stretto a sborsare più di un miliardo per pagare gli interessi su questi nuovi Btp, nell’ipotesi che l’indice dei prezzi dovesse aumentare alla stessa velocità fatta segna re in ottobre. Non finisce qui, ovviamente. Anche nel futuro prossimo, per convincere i mercati a puntare ancora sull’Italia, il ne oministro dell’Economia, Giancarlo Gior getti non potrà fare a meno di tenere alta
l’asticella dei rendimenti, in linea con l’in flazione prevista. Già nel 2022, secondo i calcoli dell’ultimo aggiornamento del do cumento di economia e finanza (Nadef), la spesa per interessi salirà a 77 miliardi dai 62,9 miliardi del 2021. E per il 2023 è previ sto un nuovo aumento a 81,5 miliardi, nell’ipotesi, per nulla scontata, che la stretta monetaria decisa dalla Bce si esau risca entro dicembre.
In altre parole, l’anno prossimo il buco nero del debito assorbirà quasi 20 miliardi di euro in più ri spetto al 2021, risorse pre ziose che avrebbero potu to invece essere destinate a investimenti pubblici o ad aiuti per imprese e fa miglie in difficoltà. E così,
dopo anni con i tassi in discesa, adesso il governo si trova di nuovo a dover gestire un repentino aumento del costo del debi to pubblico. La svolta non poteva arrivare in un momento peggiore per l’esecutivo guidato da Giorgia Meloni. Dopo tre tri mestri in cui l’economia nazionale, nono stante la guerra e il boom dei prezzi dell’e nergia, ha dimostrato una tenuta per certi aspetti sorprendente, anche grazie alla rete dei sussidi pubblici, adesso le previ sioni unanimi degli analisti sono orienta te al ribasso.
La frenata si farà sentire già nell’ultimo scorcio del 2022 e per l’anno prossimo i pessimisti già vedono profilarsi all’oriz zonte una recessione o quantomeno un forte rallentamento della crescita. La Na def governativa stima una crescita dello 0,6 per cento, contro il 3,7 per cento con cui dovrebbe chiudersi l’anno in corso. Meno ottimista la Banca d’Italia, che nelle previsioni economiche diffuse a ottobre non andava oltre un incremento del Pil dello 0,3 per cento. C’è chi vede ancora più nero, però: secondo il Centro studi di Con findustria il 2023 sarà un anno a crescita zero, mentre gli analisti di Moody’s, la so cietà di rating, vedono addirittura un ri basso dell’1,3 per cento.
Se il motore della crescita dovesse arre starsi per davvero, l’aumento delle crisi aziendali potrebbe innescare un’ondata di licenziamenti, che a sua volta finirebbe per sovrapporsi con il caro bollette che già incide pesantemente sul reddito dei lavo ratori. Nella migliore delle ipotesi, infatti, i prezzi dell’energia, in parte rientrati dopo i massimi toccati in agosto, resteranno co
RISORSE ALTERNATIVE
Al lavoro nello stabilimento Versalis (gruppo Eni) di Crescentino, nel Vercellese: è specializzato nella produzione di biogas
munque elevati, quattro, cinque volte su periori rispetto ai valori pre-pandemia, quelli del 2019.
Con l’obiettivo prioritario di mantenere la pace sociale, Meloni deve quindi incam minarsi sulla stessa strada dei suoi prede cessori, Mario Draghi e Giuseppe Conte. Il valore totale delle cosiddette “misure di contrasto al caro energia” calcolato fino a metà novembre ammontava già a 57,6 mi liardi, il 3 per cento del Pil, a cui va aggiun ta un’altra manciata di miliardi per l’ulti mo mese dell’anno. Il flusso degli aiuti per famiglie e aziende è però destinato a pro seguire, come emerge dalla lettura della prima versione della manovra, faticosa mente licenziata dal consiglio dei Ministri nel cuore della notte lo scorso martedì 22 novembre e destinata al vaglio del Parla mento e della Commissione di Bruxelles, che ha già messo sotto osservazione il no stro Paese per gli squilibri eccessivi legati all’elevatissimo debito pubblico. Roma, però, non può fare a meno di varare un al tro round di aiuti che, almeno nelle inten zioni, serviranno da scudo in vista di mesi molto complicati per la tenuta economica del Paese. Per finanziare nuovi sussidi, si va dal taglio delle tasse su benzina e gaso lio all’azzeramento degli oneri di sistema sulle bollette, il governo ha fatto ricorso a deficit supplementare per 21 miliardi ri spetto a quanto previsto inizialmente da Draghi. La correzione di rotta più rile
TAGLIO ALTOMAURO BIANI
in arrivo
vante riguarda la diminuzione dello sconto sui carburanti, che per il mese di dicembre (poi si vedrà) viene ridimensio nato da 30,5 a 18,3 centesimi.
Com’era prevedibile, il governo ha inve ce fatto marcia indietro sul reddito di cit tadinanza. La misura di sostegno alla po vertà introdotta dall’esecutivo gialloverde nel gennaio di tre anni fa non è stata abo lita come promesso dalla coalizione di centrodestra in campagna elettorale. Se ne riparla nel 2024, intanto, per l’anno prossimo, il governo ha annunciato che il taglio riguarderà solo i cosiddetti occupa bili, cioè gli assistiti in grado di lavorare, che riceveranno il sussidio solo per otto mesi. Anche in questo caso la correzione di rotta è stata dettata dal timore che la cancellazione totale di un provvedimento a favore dei cittadini avrebbe potuto inne scare pericolose derive anche a livello di ordine pubblico.
Resta aperta la questione di fondo, però. Basteranno le risorse aggiuntive previste nella manovra a proteggere i più vulnera bili da nuovi possibili aumenti del costo della vita? Il futuro prossimo è appeso all’andamento dei prezzi dell’energia. Questa, a detta di tutti gli analisti, è l’inco gnita più importante sospesa sul sentiero della crescita economica. Come detto, le quotazioni del gas, e quindi anche dell’e nergia elettrica, sono diminuite di molto dopo i massimi toccati nel pieno dell’esta te scorsa. Il deficit della bolletta energeti ca resta però pesante. Basti pensare che nei primi nove mesi del 2022 il deficit com merciale prodotto dalle importazioni di combustibili ha toccato gli 85 miliardi e ha causato un buco di 31 miliardi nel saldo complessivo export-import del Paese.
Per capire le dimensioni del problema è sufficiente fare un confronto con il 2021. A settembre dell’anno scorso, quando peral tro già si registravano i primi rialzi nei prezzi internazionali del metano, l’Italia poteva ancora vantare una bilancia com merciale in attivo per 41 miliardi di euro e il deficit sul fronte dell’energia non rag giungeva i 3 miliardi di euro (2,7 miliardi) nell’arco dei primi trimestri.
Per i prossimi mesi si naviga a vista. Gli stoccaggi, al momento pieni al 96 per cen to circa della loro capacità, assicurano un certo margine di tranquillità, anche nel
SI SGONFIA LA CRESCITA
Tasso di crescita del Pil in percentuale - dati storici e dal 2022 previsioni del governo
IL PESO DEL DEBITO
I NOSTRI SALARI BASSI MANGIATI DALL’INFLAZIONE
DI GLORIA RIVA
«È iniziato tutto con qualche ora di cassa integrazione covid. L’abbiamo fatta tutti, a rotazione, per evitare che pesasse sul salario di qualche lavoratore in particolare. Poi sono arrivati i rincari delle materie prime e la crisi energetica. Le bollette sono schizzate in alto, così come il carrello della spesa. Non ce la facciamo più», a parlare è Michele Musano, fa l'operaio alla brianzola Capsulit, cento dipendenti, produce tappi per l'industria farmaceutica. È un rappresentante sindacale e raccoglie lo sfogo dei colleghi, tanti signor Cipputi che davvero non ce la fanno più: «la spesa la facciamo al discount, i vestiti possiamo permetterci di comprarli solo online. Per risparmiare qualcosa anche l'assicurazione auto viene accuratamente scelta confrontando le offerte sul web. C’è chi ha tagliato Netflix e Amazon Prime. Via l'abbonamento in palestra, addio viaggi nei weekend e al ristorante si va una volta
MALESSERE SOCIALE
La protesta dei sindacati di base davanti alla sede della Cassa Depositi e Prestiti, il 3 ottobre scorso a Roma, contro l’aumento del costo della vita, del gas e dell’elettricità. Ma anche contro le aziende che traggono profitti dalla crisi
caso in cui i flussi di gas provenienti dalla Russia dovessero continuare a diminuire come è successo finora. Molto dipenderà però dalle condizioni climatiche del pros simo inverno. Se tra dicembre e febbraio le temperature non saranno troppo rigide, la domanda di gas per i consumi domestici potrà essere soddisfatta senza pesare troppo sugli stoccaggi. Se invece ad aprile le riserve fossero vicine allo zero, per effet to dei consumi destinati a fronteggiare un freddo particolarmente intenso, la crea zione di nuove scorte in mancanza di
RIMANE IL DUBBIO SE LE MISURE PREVISTE NELLA MANOVRA SIANO SUFFICIENTI A PROTEGGERE I PIÙ VULNERABILI DALLA CONTINUA CRESCITA DEL COSTO DELLA VITA
al mese, quando va bene». Ma i sacrifici non bastano mai: «Si lavora otto ore o più al giorno per non riuscire ad arrivare a fine mese. La tensione è palpabile e una pressione così alta sulle rivendicazioni salariali non l'avevo mai percepita», racconta Musano. La sua è un'azienda solida, con buone relazioni industriali, figuriamoci come se la passano i dipendenti di imprese piccole e padronali, dove il singolo deve contrattare l'aumento direttamente con il proprietario. Il Forum Disuguaglianze e Diversità ha pubblicato il Rapporto Bassi Salari, che l'Espresso ha letto in anteprima, e racconta come oltre il 32 per cento dei dipendenti guadagna meno di mille euro al mese. Non stiamo parlando di precari, ma di persone con una busta paga mensile e un contratto regolare, che tuttavia non guadagnano abbastanza per stare al passo con il costo della vita. È povero il 38 per cento degli operai e il 18 per cento degli impiegati. La metà lavora in micro o piccole aziende. Nonostante l'evidente perdita di potere d'acquisto degli stipendi, il governatore della Banca d'Italia, Ignazio Visco, nei giorni scorsi è tornato a ripetere che «l'aumento dei prezzi non si elimina con salari più alti». Affermazioni difficili da comprendere se si legge l'ultimo report dell'Ocse sulla variazione dei salari medi tra il 1990 e il 2020: l’Italia è ultima ed è l'unico paese con un valore negativo, meno 2,9 per cento. Francia e Germania registrano più 31 e 33 per cento e l’Ungheria di Orban, nuova stella polare del governo in carica, segna aumenti del 72 per cento.
Da noi finché l’inflazione è rimasta prossima allo zero, il ceto medio ha tenuto botta, ma oggi, con le bollette più che raddoppiate e l’inflazione al 12 per cento, gli stipendi non tengono più il passo dei rincari, portando gli italiani dritti dritti verso austerità e recessione. «Visco, come molti economisti italiani, teme che un aumento dei salari provochi un deficit nella bilancia commerciale, ovvero un aumento delle importazioni e una contrazione dell’export», spiega Leonello Tronti, docente di Economia Politica del Lavoro all’Università Roma Tre, che continua: «È una teoria superata, che si rifà agli anni Ottanta, perché il grosso delle importazioni non è più di beni di consumo, bensì di prodotti per l’industria, beni intermedi e di investimento. Alcune proiezioni dimostrano che, al contrario, al crescere dei salari si ridurrebbero le importazioni, perché le nostre imprese tornerebbero ad avere un mercato interno in crescita, cosa che è assente da almeno trent’anni, ovvero da quando i salari hanno cominciato a restare fermi, se non ad arretrare. Riaccendere la domanda interna incentiverebbe le imprese a reinvestire i profitti in Italia, anziché cercare di farli espatriare per metterli al sicuro da un paese a crescita zero». Non solo i salari non crescono più, ma arretrano rispetto all’inflazione. Questo accade perché gli aumenti garantiti dalla contrattazione collettiva nazionale si basano sull’Ipca, un indice dei prezzi al consumo depurato dal prezzo dei beni energetici importati. Detto altrimenti: i sindacati non possono andare in trattativa e battere i pugni sul tavolo
forniture russe farebbe di nuovo lievita re i prezzi con conseguenze immediate per le bollette di famiglie e imprese.
Intanto, il mese di novembre sta per concludersi con un bilancio migliore del previsto. L’anomalo tepore delle scorse settimane conferma la tendenza al riscal damento globale in corso ormai da molti anni. D’altra parte, le temperature miti, in ottobre mai così elevate negli ultimi 56 an ni nella Penisola, hanno avuto come effet to immediato un forte calo del consumo di gas per riscaldare uffici, negozi e abitazio
ni. Risultato: in base alle statistiche più aggiornate il sistema Italia ha risparmiato ben 3 miliardi di metri cubi di gas, pari al 5 per cento circa del fabbisogno annuale del Paese. È un buon inizio, anche se nell’ulti ma decade di novembre il termometro si è riportato su valori più vicini alle medie stagionali.
Le prospettive restano quindi quantome no incerte con la minaccia incombente di ulteriori rincari dell’energia nei prossimi mesi, che avrebbero l’effetto di provocare nuovi rialzi dell’inflazione. A questo punto, proprio con l’obiettivo dichiarato di ripor tare sotto controllo la crescita dei prezzi, è ormai certo che la Banca centrale europea decida di intervenire ancora sul livello dei tassi d’interesse dopo i tre rialzi varati tra settembre e la fine di ottobre. I vertici dell’i stituzione di Francoforte hanno già annun ciato una nuova stretta per dicembre, «ma non sarà l’ultima», ha detto il capo econo mista della Bce, Philip Lane in una recente
perché la bolletta del gas è decuplicata, questo perché nel 2009 Confindustria, Cisl e Uil hanno deciso di comune accordo di lasciare fuori dalla porta del negoziato i rincari energetici. Ora succede che, ad esempio, i lavoratori del settore elettrico, che da qualche settimana hanno un nuovo contratto - che è fra i più generosi per le tute blu -, fra tre anni avranno una paga più alta del nove per cento: «Vuol dire che neppure loro hanno portato a casa un contratto al passo con l'inflazione corrente», dice Salvo Leonardi, esperto di relazioni industriali della Fondazione Di Vittorio. In generale è il modello della contrattazione che non funziona più, se si considera che ci vogliono 33 mesi per rinnovare i contratti scaduti e che in questo momento ci sono 6,3 milioni di lavoratori in attesa di un rinnovo. Fra questi i dipendenti del Commercio, che sono 2,5 milioni, e del Turismo, altri 800mila lavoratori, due categorie che già soffrono di paghe troppo basse rispetto alla media, e da oltre quattro anni stanno aspettando aumenti in busta paga. Anche dove i rinnovi contrattuali ci sono stati, le cifre concesse ai dipendenti sono troppo basse: «Il contratto di primo livello serve a preservare il potere d'acquisto delle retribuzioni a livelli minimi. Mentre, così come indicato nel protocollo Ciampi del 1993, che ha istituito le regole della contrattazione, si è deciso di affidare alla contrattazione di secondo livello, ovvero quella aziendale o territoriale, il compito di accrescere il potere d'acquisto dei salari. Il problema è che questo doppio sistema non ha funzionato»,
spiega il professor Tronti di UniRomaTre. Per questi motivi nei prossimi mesi il livello di tensione delle relazioni sindacali potrebbe surriscaldarsi al punto da provocare scioperi a raffica e manifestazioni di protesta proprio nelle regioni più produttive e ricche. Racconta Simone Vecchi della Fiom Cgil di Reggio Emilia, un territorio dove tre operai su quattro hanno la contrattazione di secondo livello (mentre la media nazionale si ferma al 20 per cento), che: «Negli ultimi cinque anni i profitti delle imprese reggiane sono cresciuti cinque volte di più del costo del lavoro. L'esplosione dell’inflazione sta creando una forbice gigantesca fra la miseria degli stipendi e la ricchezza delle aziende, una situazione così non si è mai vista nella storia del paese». La maggior parte delle imprese ha provveduto a scaricare sui clienti gli extra costi provocati dall'inflazione, aumentando i loro listini prezzi: più 15 per cento per la meccanica agricola, più 12 per cento nella componentistica meccanica, più 18 per i motori. E i clienti hanno accettato. «Così le imprese hanno riconosciuto aumenti ai fornitori, che altrimenti bloccano le consegne, e alle multiutility dell’energia, che altrimenti staccano la corrente. Mentre hanno problemi a remunerare il giusto la forza lavoro. A un certo punto, però, se gli operai e gli impiegati non vedono gli aumenti, si fermano», dice Vecchi, che esce da un rinnovo contrattuale alla Nexion di Correggio, una media azienda del settore automotive, costato cento ore di sciopero ai dipendenti. Le risorse degli operai
hanno raggiunto il limite e si preannuncia una stagione di conflitto che il governo non potrà certo tamponare con la detassazione di tremila euro sui fringe benefit. Tradizionalmente i fringe benefit sono sgravi per l’auto o il telefono aziendale, ad appannaggio dell’11 per cento dei lavoratori, per lo più quadri e dirigenti, come stima Sergio Scicchitano, economista di Inapp, che continua: «Solo il 3,5 per cento dei dipendenti ha ricevuto un sostegno per le spese correnti dalle imprese». E allora perché il governo favorisce la detassazione dei fringe benefit? «Chi lavora sui territori e nelle industrie sa bene in cosa si traduce quello sconto», risponde Simone Vecchi della Fiom, che spiega: «In un paese dove la stragrande maggioranza delle imprese è piccola o piccolissima e dove il lavoro nero è diffuso, significa nei fatti legalizzare la retribuzione in nero fino a tremila euro. È un condono, lontanissimo dalla proposta del governo tedesco di accollarsi il costo di contributi e tasse se i contratti collettivi nazionali e aziendali riconosceranno
intervista. L’inverno, quello della finanza, sembra quindi destinato a diventare anco ra più rigido. Con effetti pesanti sui conti pubblici e sull’intera economia. Il Tesoro, infatti, sarebbe costretto ad adeguare anco ra al rialzo i rendimenti dei Btp offerti agli investitori, facendo lievitare ancora la spe sa per interessi e anche un deficit pubblico già rivisto al rialzo per finanziare la mano vra appena varata. D’altra parte, divente rebbero più costosi anche mutui e prestiti bancari. A subirne le conseguenze sarebbe ro le aziende in cerca di nuovi finanziamen ti e le famiglie. Queste ultime, tra l’altro, ve drebbero calare ancora la propria capacità di spesa a causa dell’inflazione che erode il valore reale di salari e stipendi. In questa spirale perversa, prevede Bankitalia, i con sumi finirebbero per subire una netta con trazione nella prima metà dell’anno prossi mo. E a quel punto sarebbe davvero difficile evitare una nuova recessione.
La catena di assemblaggio delle automobili nello stabilimento Fca di Melfi
a tutti aumenti fino a tremila euro. Con le premesse di questo governo e le scelte conflittuali della Confindustria, sarà un inverno lungo e duro». Tanto più lo sarà perché la prima manovra finanziaria targata Giorgia Meloni è all'insegna del rigore. Nessuna misura di politica economica, nessuna iniziativa a favore della crescita dei consumi interni è stata prevista, se non la scelta di detassare i fringe benefit: «Che è grave perché crea ulteriore disuguaglianza, non solo perché solo alcune imprese lo offriranno ai propri dipendenti, ma soprattutto perché è una misura riservata al dieci per cento dei lavoratori e sarà pagata dalla collettività con le tasse di tutti», chiarisce Elena Granaglia, professoressa di Scienza delle Finanze all'Università di Roma Tre e membro del Forum Disuguaglianze e Diversità, che rilancia: «Le regole del mercato del lavoro vanno ripensate: l’abuso di contratti a tempo determinato e del part time involontario, l’eccessivo ricorso alle esternalizzazioni, i mancati rinnovi contrattuali e le difficoltà dei sindacati a contrattare aumenti a livello locale e aziendale tutto ci conferma che il modello è iniquo e non in grado di rispondere all'inflazione».
QUELLA MANOVRA
DI EUGENIO OCCORSIO
i identitario è rimasto il con dono per le piccole cartelle, la “pace fiscale” come la chiama Salvini (come se fos se in corso una guerra fra cit tadini e Stato sulle tasse) di cui non è facile stabilire i costi, ma che certa mente sarà un’operazione in negativo per lo Stato visto che le cartelle in questione valgo no più di 1000 miliardi e secondo l’Ufficio parlamentare di bilancio non si riuscirà a recuperarne con il condono più del 5-6%. Ma che fine ha fatto la flat-tax, che sarebbe co stata non meno di 55 miliardi secondo i cen tri studi più accreditati? E l’abbattimento della legge Fornero, 40 miliardi entro pochi anni? E il taglio del cuneo fiscale di cinque punti (16 miliardi)? Il costo totale delle pro messe elettorali che hanno fruttato al cen trodestra 12 milioni di voti e una maggioran
za schiacciante superava i 100 miliardi. La montagna, una volta acquisito il risultato elettorale, ha partorito il classico topolino: alla prima prova “dal vero”, la legge di Bilan cio varata nella notte del 21 novembre, dei provvedimenti bandiera del governo è rima sto poco. Alle elezioni hanno vinto quelli che l’hanno sparata più grossa, ma ora tirano a salve. Il grosso della manovra da 35 miliardi è stato assorbito dal rinnovo delle misure d’emergenza contro il ca ro-energia del governo pre cedente: i bonus di 200 euro a famiglia (la platea è stata allargata dall’Isee a 12mila a quello a 15mila), quelli edili zi (il 110% è stato sostituito da un 90% non più per tutti ma con un barrage a 25mila euro di reddito), il taglio de
SENZA IDENTITÀ
gli “oneri di sistema” e dell’Iva sul gas, e poi tutti gli altri interventi di sostegno fino ai crediti d’imposta per le imprese energivore. E i maxi-provvedimenti annunciati? Non c’è grande rivoluzione che non sia evocata ma poi attuata solo in minima parte: della flat tax si è salvato l’innalzamento da 65 a 85mi la euro della soglia del 15% per gli autonomi, per le pensioni è rimasta in vigore la legge Fornero tranne che per chi si trovi ad avere l’anno prossimo 62 anni di età e 41 di contri buti (peraltro solo questa piccola misura co sterà intorno al miliardo all’anno).
Ancora: per il taglio al cuneo fiscale (cioè la fiscalizzazione di un certo ammontare di contributi oggi in carico al lavoratore e/o all’azienda), si è passati dai due punti di ta glio già garantiti da Draghi a tre, meno dei 5 promessi e chiesti dalla Confindustria con toni sempre più ultimativi («vogliamo un in
tervento-shock», ha tuonato fino alla vigilia Carlo Bonomi come se gli fosse dovuto). Contributi che, summa iniuria, sono desti nati a finire tutti nelle tasche dei lavoratori, e questa da un governo di destra gli industriali davvero non se l’aspettavano. «Scusate, ba stava guardare la nota di integrazione alla Nadef che il ministro Giorgetti aveva predi sposto pochi giorni prima della manovra per accorgersi che erano già sparite le spese paz ze di cui si favoleggiava in campagna eletto rale», osserva Giampaolo Galli, docente alla Cattolica e direttore dell’Osservatorio sui conti pubblici. «Dopo un documento di base così “draghiano” è stata conseguente una legge di Bilancio restrittiva. Semplicemente, si è scesi sulla Terra. Speriamo che ci si resti e non si ricominci subito con le promesse ro boanti». Il problema vero, che sta animando le polemiche post-Finanziaria e che por
Il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti e la presidente del Consiglio Giorgia Meloni durante la conferenza stampa di presentazione della legge di bilancio
Un supermercato romano. Il grosso della manovra economica è stato impiegato per rinnovare i provvedimenti di contenimento dei costi dell’energia che incidono sull’intera catena dei prezzi al consumo
teranno il Pd a scendere in piazza il 17 dicembre con il Terzo Polo per una volta uni to nonché, pare, ai 5S di Giuseppe Conte, in velenito dai ritocchi al reddito di cittadinan za, è la mancanza assoluta di sviluppo: Dra ghi ci aveva insegnato che una legge Finan ziaria, come ancora a tanti piace chiamarla, può anche essere uno strumento di svilup po, persino in tempi difficili come questi scansiti dalla doppia emergenza pande mia-guerra. La legge di Bilancio per il 2022 conteneva per esempio 32 miliardi di opere pubbliche per il triennio, approvate dal Par lamento senza un graffio e aggiudicate nel corso dell’anno, integrate con altri 61 miliar di di infrastrutture finanziate dal Pnrr. Un contributo reale e coerente con lo sviluppo.
Nulla di tutto questo nella manovra per il 2023. Né provvedimenti di crescita, né misu re bandiera velleitarie e dannose. Cos’è acca duto? Un alert occulto da Bruxelles, una resi piscenza di paura, un mindwashing di reali smo finanziario? «È una manovra quasi in colore quanto a impatto delle scelte più
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simboliche ma questo non è detto che sia un male. Di certo, gli interventi sono molto lon tani da una visione complessiva e da un pro gramma di governo», commenta Serena Si leoni, docente all’università Suor Orsola Be nincasa di Napoli. «È la differenza tra fare politica e governare». Insomma, misure tan to epocali quanto accostate a caso di cui non si comprende il disegno di fondo. «Diciamo - dice Sileoni - che Giorgia Meloni sa di non avere molti margini di manovra e ha scelto, visto che vuole continuare a governare per i prossimi anni, di mantenere i piedi per terra. Già dall’opposizione invitava gli alleati a non fare promesse impossibili e arrivò a sostene re Draghi nel non volere scostamenti di bi lancio, sapendo che il maggior debito sareb be ricaduto sul suo governo. Tutto questo potrebbe essere interpretato come un segno di debolezza, a meno che il disegno politico
del governo e della premier non sia proprio quello di improntare la propria azione a un maggior realismo».
L’economista Nicola Rossi dell’Università di Roma 2 apre un po’ di credito: «La nostra destra era un unicum mondiale: ovunque, con la sola eccezione recentissima e già ri entrata della Gran Bretagna, i partiti di cen trodestra sono visti come i bastioni del con servatorismo e della solidità nell’economia, e al contrario sono le sinistre a sognare grandi interventi pubblici. Invece qui era la destra a proporre le misure più costose e av venturose. Sennonché ora è rientrata nei ranghi con un approccio che lascia poco spazio alla fantasia. Rimane l’amarezza per ché nei dieci anni precedenti non si è riusci ti a creare spazi fiscali più confortevoli e maggiori risorse cui accedere: non parlo so lo delle promesse più eclatanti ma di scuola, istruzione, sanità». Per ora i più piacevol mente sorpresi sono stati gli investitori stra nieri: «Bisogna chiedersi - dice Rossi - se questa manovra così prudente è stata fatta solo per tenere buoni i mercati o se invece la disciplina di bilancio è entrata nel Dna dell’esecutivo Meloni e potremo celebrare la nascita di una “normale” destra di governo, occidentale ed europea».
La partita non è chiusa. Gli interventi an
ti-crisi energetica hanno da cartellino una durata di tre mesi a partire da gennaio. Poi si vedrà, e chissà se per allora la guerra non sarà finita. Per le pensioni, è difficile che Salvini rinunci al ruolo di vessillifero del “mandare tutti in pensione al più presto” ovvero l’esatto contrario di quanto demo grafia e logica economica suggeriscono (ha già minacciato: «Nel 2024 cambia musi ca»). Identico destino per la flat-tax: diffici le che ci si accontenti di questo piccolo ri tocco. «A parte la sensazione di incompiu ta, a questo punto forse era meglio non fare nulla», argomenta Carlo Stagnaro, diretto re scientifico dell’Istituto Bruno Leoni. «Si perpetua un’iniquità per cui chi guadagna 51mila euro ha il 43% di tasse se paga l’Ir pef, il 15% se è autonomo, il 26% se il suo reddito deriva da investimenti finanziari, il 12,5% se ha Btp o buoni postali, il 21% di ce dolare secca se incassa un affitto».
La resa dei conti è rinviata all’anno prossi mo. Ma non sarà facile perché nel 2024 tor nerà in vigore il Patto di Stabilità europeo e i criteri saranno più rigidi: «La Commissione vuole istituire un quadro giuridico e operati vo che ridia credibilità e trasparenza al Patto - spiega l’economista Stefano Micossi della School of Government della Luiss - attraver so una nuova architettura di sorveglianza
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Il valore della manovra di novembre, assorbito quasi per intero dagli interventi di ristoro per l’emergenza bollette-gas
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Il fabbisogno nel 2023 dell’Italia, da coprire interamente con l’emissione di titoli ora che la Bce ha chiuso il “quantitative easing”
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L’evasione fiscale in Italia: basterebbe ridurla di un quarto per impostare decisive politiche di siviluppo. Invece il governo non ne ha fatto cenno
35macro-prudenziale per la riduzione dei de biti sovrani eccessivi, basata su una rigorosa analisi di sostenibilità». Roba da far tremare le vene ai polsi di un Paese che ha il 150% di debito/Pil e non potrà più contare sull’ap poggio della Bce: la presidente Christine La garde ha annunciato in questi giorni che non solo è finito il quantitative easing, l’ac quisto dei Btp accumulati, ma comincia la vendita dei titoli che Francoforte ha accu mulato. Per l’Italia è il 25% del debito. «In ogni caso, il segnale che si manda con questa legge di Bilancio all’Europa è di continuità della politica di bilancio che in un momento così delicato non può fare che bene», dice Micossi. E Federico Neri, ricercatore presso l’Ocpi, spiega: «Sarà comunque dura, in un contesto di tassi in aumento, finanziare per intero sul mercato il fabbisogno, che è di 420 miliardi nel 2023. Di questi, non più di 28,7 sono da ascrivere al Pnrr e quindi hanno tas si favorevoli, gli altri vanno collocati a prezzi di mercato».
La destra al governo comunque «deve fare ancora molta strada in direzione della de mocrazia economica», commenta Leonzio Rizzo, docente di Scienza della Finanze all’Università di Ferrara. «In una manovra così ricca di micro-misure ce n’è una che col pisce per la sua assenza, la lotta all’evasione fiscale. Eppure gli ultimi rapporti della com missione Santoro, che studia il problema presso il Mef, dicono che l’evasione degli au tonomi ha sfondato il tetto del 60%». Si fa l’esatto contrario, spiega Rizzo: «Si titillano gli evasori con il più che raddoppio del tetto sul contante da 2 a 5mila euro. Eppure, quando il tetto fu alzato da Renzi nel 2014 a 3000 euro (Monti l’aveva abbassato a mille dopo i fasti berlusconiani), la Banca d’Italia pubblicò uno studio che dimostrava in mo do incontrovertibile che più denaro liquido in tasca corrisponde a più economia nera, più riciclaggio, più evasione». Lo studio indi cava anche i costi: un punto di aumento del cash in circolazione, cioè ogni 1000 euro, si traduce in un incremento del sommerso fra gli 0,8 e gli 1,8 punti percentuali. I conti sono facili perché l’economia sommersa vale in Italia 200 miliardi, metà dei quali è evasione fiscale bella e buona. «Uno stretto controllo del contante è uno strumento efficace con tro l’evasione», concludeva Bankitalia. Che non è un covo di pericolosi bolscevichi.
REGOLE NUOVE PER SA
JEREMY RIFKINIvirus continuano ad arrivare, il clima si sta surri scaldando e la terra si sta rinaturalizzando. Stia mo cominciando a renderci conto che la razza umana non ha mai avuto davvero il dominio sul pianeta e che la natura è molto più potente di quanto pensassimo, mentre la nostra specie appa re molto più piccola e insignificante nel più ampio contesto della vita sulla Terra. Per molti di noi, questa rivelazione ha un effetto devastante e determina la più totale incertezza quanto alle contromisure da adottare nel nostro modo di vivere. Per liberarci da questa paralisi, avremo bisogno di un quadro di regole completamente nuovo.
Ciò che nessuno ha il coraggio di dire è che quello che ci ha portato sull'orlo dell’abisso è l’in sieme di credenze, supposizioni, politiche e com portamenti generati dall’Età del Progresso. Le nostre nozioni di tempo e spazio; le nostre idee sulla governance; la nostra gestione dell’econo mia; il nostro rapporto con la natura; il nostro approccio alla ricerca scientifica; i nostri metodi educativi; e persino la nostra idea di individuo sono la miscela tossica che ora sta avvelenando tutto il pianeta.
Non c’è da meravigliarsi se siamo paralizzati dalla paura, perché dobbiamo rivoluzionare il nostro modo di pensare e questo ci terrorizza. Ma la realtà comincia a emergere comunque e a sug gerirci che l’Età del Progresso, un tempo conside rata sacrosanta, sta tramontando mentre sorge una nuova più potente narrazione, quella dell’Età della Resilienza.
In libreria Jeremy Rifkin, “L’età della Resilienza”, Mondadori, 420 pagine, 24 euro Sopra: un parco fotovoltaico a Vaqueiros (Portogallo) A destra: Jeremy Rifkin
Durante l’Età del Progresso, l’efficienza è sta ta il parametro fondamentale per organizzare il tempo, costringendo la nostra specie a massimizzare l’espropria zione e il consumo delle ricchezze della Terra, a ritmi sempre maggiori e in tempi sempre più ristretti, con l’o biettivo di aumentare l’opulenza della società umana, an che al costo dell’esaurimento delle risorse naturali. La ri cerca dell’efficienza a tutti i costi comporta l’eliminazio ne di ridondanze e diversità per non rallentare l’ottimiz zazione delle attività economiche.
Invece, la Resilienza, almeno in natura, è fondata pro prio sulla ridondanza e la diversità. Meno diversificato è
l’ecosistema, tanto più vulnerabile esso diven ta alle perturbazioni e al collasso. Durante l’in tera Età del Progresso, lo spazio è diventato si nonimo di risorse naturali da saccheggiare e il ruolo principale del governo e dell’economia è stato quello di garantire che la natura fosse gestita come una proprietà.
La nostra specie è stata impegnata in una corsa incessante per estrarre, privatizzare, mercificare, consumare e ridurre a rifiuto inte re aree del mondo naturale. Questo approccio al tempo e allo spazio, per lungo tempo preva lente, ha reso l'umanità specie dominante sulla Terra ma ha portato alla rovina del mondo naturale.
È sconvolgente pensare che al 2005 l’Homo sapiens co stituiva meno dell’uno per cento della biomassa totale della Terra, ma consumava il 24 per cento della produzio ne primaria netta della fotosintesi e potrebbe arrivare al 44 per cento entro il 2050, lasciando solo il 56 per cento al resto della vita sulla Terra. Non è così che funzionano i sistemi biologici. Essi misurano la prestazione ottimale non sulla produttività ma sulla capacità di rigenerarsi, non sulla efficienza ma sulla adattabilità.
difica anche la nostra visione della governance: non più come strumento di sovranità sulle risorse naturali ma co me protezione degli ecosistemi regionali. Già cinque Stati del Nord Ovest americano e cinque province canadesi con finanti hanno dato vita alla Regione Economica del Pacifi co Nord Ovest (Repno) mentre otto Stati americani e due province canadesi della regione dei Grandi Laghi e di Saint Lawrence hanno dato vita a una “Conferenza di governato ri e premier” per tutelare e amministrare i loro ecosistemi comuni, al di là delle frontiere nazionali che li attraversano. Così, mentre crollano i muri fra civiltà e natura, la demo crazia rappresentativa comincia a essere percepita come inadeguata per far fronte ai monumentali impegni di pre parazione e adattamento ai sempre più virulenti disastri climatici, e nascono “assemblee cittadine paritarie”, in cui soprattutto le giovani generazioni assumono un ruolo attivo nella governance delle loro bioregioni.
Queste assemblee di cittadini sono selezionate per sor teggio dai governi locali o elette con votazioni informali di vicinato per affiancare il governo e prendere decisioni su questioni prioritarie a loro appositamente delegate, quali
Le nuove generazioni stanno così pas sando dal concetto di crescita a quello di prosperità, dal capitale finanziario al capi tale ecologico, dal Prodotto Interno Lordo (Pil) agli Indicatori della qualità della vita (Iqv), dal consumismo esasperato all’Eco gestione, dall’economia lineare all’econo mia circolare, dalla proprietà all’accesso, dal mercato alle reti fornitori-utenti, da economie di scala integrate verticalmente a quelle integrate lateralmente, da filiere centralizzate a filiere distribuite, da grandi gruppi multinazionali a pic cole e agili cooperative high-tech collegate fra loro in co munità fluide regolate da blockchain.
I diritti di proprietà intellettuale stanno lasciando spa zio alla conoscenza condivisa open source, in un mondo non più “global” ma “glocal” non più ispirato dalla geopo litica ma dalla politica della biosfera.
Stiamo appena iniziando a capire che le nostre vite e quelle dei nostri simili, sono estensioni delle sfere della Terra. Apparteniamo alla Terra con tutti noi stessi.
Il sé individualista dell’Era del Progresso sta cedendo il passo al sé ecologico dell’Era della Resilienza, in cui si mo
la determinazione delle priorità di bilancio, per la prepa razione ai disastri climatici, il soccorso e la ricostruzione, la realizzazione di infrastrutture resilienti e la gestione dei servizi ecosistemici locali. Oltre 3.000 assemblee di citta dini sono attualmente operative in tutto il mondo. Gli antropologi ci dicono che siamo tra le specie più capa ci di adattamento. Resta da vedere se useremo questo no stra particolare caratteristica per ritrovare il nostro posto nella natura con umiltà, consapevolezza e previdenza e riusciremo a consentire alla nostra specie e alla nostra fa miglia biologica allargata di sopravvivere e, magari, torna re a prosperare.
DI DILETTA BELLOTTI
a lotta per la giustizia climatica di novembre è stata inaugura ta ad Amsterdam con 600 attivisti che hanno occupato l’aero porto con l’obiettivo di sanzionare i voli dei jet privati. Qual che settimana dopo, lo stesso è successo nell’aeroporto di Milano Linate, da parte di Scientist Rebellion e Ultima Gene razione; poi a Roma Ciampino da parte della rete Roma Cli mate Strike; nel frattempo a Torino, il collettivo “SUVversivə” sgonfiava gli pneumatici di diversi Suv ispirandosi al movimento Tyre Extinguishers. In Francia, nel mese di agosto, diversi attivisti hanno coperto le buche dei campi da golf con il cemento, protestando contro l’esenzione dai divieti idrici, in un momento in cui il Paese affrontava la più grave siccità della
storia. Il sanzionamento al lusso, come vie ne chiamato, è un attacco allo spettacolo mercantile, nelle sue forme più appariscen ti. Sono azioni dirette che rigettano l’attesa dell’estinzione e la promessa di uno spetta colo di guerre e di morte. Chiedono di met tere da parte i sogni irrealizzabili di pace sociale e i compromessi fragili in un Paese nel quale ci si prepara all’inverno con un aumento previsto del 70 per cento delle bollette e in cui una persona su quattro è a rischio povertà. Con questo scenario futuro pare che du rante le vacanze di Natale toccherà ripassare cosa significa «guerra per le risorse».
Per raggiungere la Cop27 sono stati utilizzati 400 jet priva ti che hanno emesso una quantità di CO2 pari a 15.000 euro pei in un anno. In Europa, il 50 per cento delle emissioni di CO2 legata all’aviazione è emessa dall’1 per cento della popolazione. Un milionario qualunque decide di fare la tratta Milano-Torino ed emette 1,3 tonnella te di CO2 ovvero quanto inquina in 5 mesi di trasporti un europeo medio. Ci si chiede al lora: è davvero una scelta privata quella di viaggiare in jet? È una scelta privata investi re miliardi nell’industria del fossile? La defi
Diletta Bellotti Attivistanizione di cosa sia un diritto e cosa sia un privilegio va neces sariamente ridiscussa: l’acqua e l’aria pulita sono sicuramen te un diritto e non un privilegio, ma il consumo di carne? Lo spreco alimentare? Girare in Suv e in yacht? Per capirci me glio, iniziamo allora a scrivere nel seguente modo: jet «priva to», scelta «privata», perché di privato c’è ben poco. Ciò che è privato è ormai affar pubblico; è, anzi, come echeggiato a Ciampino, un «mal comune».
In Italia, con forti legami e assonanze con movimenti oltre confine, si rafforza la narrativa dell’alterità nella giustizia cli matica. Si ripassano i confini della colpa e le modalità di asso luzione. Di colpo la nuvola nera del collasso ecosistemico si fa più densa, ne escono forme chiare e precise con volti e stili di vita inaccessibili. L’1 per cento della popolazione mondiale ha reso invivibile il Pianeta Terra e non si ferma qui: perpetra
e rafforza feticci di cambiamenti reali, occupa tutto lo spazio mediatico, si arroga il diritto di dare una lezione sul come e sul quando. Nel frattempo, la realtà del collasso climatico non è più da immaginare, è qui. L’abbiamo visto pochi mesi fa con le alluvioni nelle Marche, con lo scioglimento di anno in anno più evidente del ghiacciaio della Marmolada, con il Po in secca. Le soluzioni reali non c’erano ad attutire il colpo: erano assenti le politiche di adattamento e di mitigazione, ovvero le due strategie da adottare, in maniera urgentissima e radicale, per salvare miliardi di vite umane e proteggere gli ecosistemi da cui queste necessariamente dipendono. Un’i stituzione che non sa garantire una vita dignitosa a tutte le persone che dipendono da essa non merita di sopravvivere, merita di essere rimessa in discussione, riformata o abolita.
Nelle scorse settimane Roma è stata tappezzata di manife sti con la scritta: «Vostro il lusso, nostro il collasso». Che si traduce in: il lusso è un furto al pianeta, alle sue risorse. La privatizzazione e l’accumulo sfrenato di queste ci stanno portando al collasso economico, sociale e politico. Contem poraneamente aumentano le temperature globali, gli eventi estremi, si procede con l’alienante passo di una civiltà mo rente, in cui ogni singolo è in uno stato di delirio quasi come fosse davvero l’ultimo sopravvissuto. Il prescelto per farcela. È sociologicamente affascinante notare come si identifichi no nell’1 per cento uno sproporzionato quantitativo di per
sone e protettori di status davvero convinte di poter ambire un giorno, tra un uragano e un’inondazione, al Suv e allo yacht sospinti dalla conclamata scalata sociale all’italiana. L’élite, si sa d’altronde, è fatta principalmente di illusi e tradi tori di classe. Quale sarà il loro ruolo nei prossimi anni è cru ciale per capire gli esiti. Se ci sentiamo alla soglia di un’apo calisse, sensatamente inizieremo a fare scorta di cibo in lat tina e acqua, tuttavia non c’è accumulazione ordinata e sfre nata che possa davvero salvare il singolo, solo le reti di cura lo faranno, i comitati di quartiere, gli orti urbani e la promes sa realizzata della fine della società dei consumi.
L’attacco alla ricchezza, anzi, l’attacco al lusso, incarna una doppia affermazione: voi non avete saputo redistribuire, mentre loro hanno solo accumulato; noi, allora, procediamo con il sanzionamento. Il gioco delle parti va appunto gioca to! In altre parole, non si può né si deve delegare l’impegno, da nessun lato ci si ritrovi ora. Pensare che ogni scontro con il sistema che ci destina al collasso andrà liscio è illusorio e pericoloso: ci sarà una crescente dose di frustrazione, rabbia e, perché no, vendetta. Il «nuovo mondo» si crea ascoltando ed accogliendo il conflitto. Si è chiamati a saper gestire la po licrisi che il collasso ecosistemico sta portando e l’Italia, da questo punto di vista, potrebbe fare da leader, attraversando da sempre un qualche tipo di crisi.
AMBIENTE LOST IN TRANSITION
DI SUSANNA TURCOome in certi leggendari incipit, l'impronta del primo giorno rischia di trascinare con sé tut to il resto. Così l'attività il mini stero dell'Ambiente e della si curezza energetica, ex Transi zione ecologica, dal vertice in Lussemburgo alla Cop 27 passando per le lotte su trivelle e rigassificatori, sembra sinora tutta impron tata a quello che Giorgia Meloni definì «un errore di trascrizione»: l'aver cioè scambiato, nel momento in cui lesse la lista dei ministri al Quirinale, il titolare dell'Ambiente con il titolare della pubblica amministrazione, Gil berto Pichetto Fratin con Paolo Zangrillo. Niente di strano, si trattava con rispetto par lando di due Carneade della politica, en trambi forzisti: l'uno con una lunga carriera nella penombra piemontese e un nome in stile Macario, l'altro fratello del più noto me
ALLA COP27 HA PORTATO UN’ITALIA A BASSO PROFILO E SENZA INGLESE. IN LUSSEMBURGO SI ERA FATTO SCORTARE DA CINGOLANI. ECCO I PRIMI PASSI DI PICHETTO FRATIN, IL MINISTRO-VIRGOLA
dico di Silvio Berlusconi, Alberto. In quel ve nerdì pomeriggio di fine ottobre, scandito dalla neopremier tra gli affreschi quirinalizi, Gilberto Pichetto Fratin ricoprì per un quar to d'ora un altro dicastero rispetto a quello che gli era stato assegnato: è da allora un mi nistro in transizione, e così il suo ministero.
Basti anche solo vedere come l'ex vice di Giorgetti al Mise è tornato dal secondo dei suoi impegni internazionali, la Cop27 di Sharm el Sheikh, parlando prudentissimo di «bilancio in chiaroscuro». Una sintesi la più neutra possibile, parole da fil di voce, di quel le che si dimenticano dopo un attimo: «Da un lato sono d'accordissimo sulla decisione di creare un fondo per danni e perdite, dall'altro questo stop ad approfondire il tema della mi tigazione non è un fatto positivo», ha aggiun to. Sintetizzando, in versione soft, i risultati della Cop27, dove l'accordo sul fondo «loss and damage» (perdite e danni, per Pichetto) è arrivato all'ultimo momento, a un passo dalla rottura, e ha evitato il fallimento totale della conferenza, che altrimenti sarebbe finita sen
za risultati. Secondo peraltro un rituale sem pre identico, quello dell’accordo al ribasso, in extremis. Una Cop che nel documento finale ha deluso gli Stati che volevano un aumento degli impegni di mitigazione, senza progressi rispetto a Glasgow26 sulla riduzione delle emissioni di gas serra. E dove l'Italia ha gioca to con un profilo molto basso, un ruolo che era abbastanza nelle premesse visto chi la portava al tavolo. «Un po' spaesato», l'hanno definito i colleghi che l'hanno visto aggirarsi per incontri, vertici, nei corridoi della Cop27. Lost in transition. Intendiamoci il compito è soverchio: affiorato in prima linea, il tema della transizione ecologica è stato risospinto indietro, nella lista delle priorità e soprattutto nei criteri di realizzabilità, dalle due emer genze di questi anni, la pandemia e la guerra. E visto il contesto i negoziati sono stati svolti in un clima tesissimo, tanto visibile alla lon tana che pure il ministro scambiato di Pichet to, Paolo Zangrillo, gli ha riconosciuto «la estrema difficoltà» di rivestire il ruolo. Per altri versi, il ministro in Egitto ha di nuovo colpito i presenti per quella che è parsa la sua lacuna, non si saprebbe dire se più gran de o più singolare. La non conoscenza dell'in glese o di qualsiasi altra lingua al di fuori dell'i taliano. Questa volta Pichetto si è rassegnato a bilaterali con il traduttore: il che, come ha raccontato il Domani, ha comportato un bila terale con John Kerry di un solo quarto d'ora di parlato, visto che la metà della mezz'ora concessa è servita appunto a tradurre. La vol ta scorsa nel suo debutto europeo in Lussem burgo Pichetto era praticamente muto: si li mitava a fare il segno di ok con la mano, tipo Fonzie. Bisogna fermarsi un attimo e immagi narsela, la scena, di un ministro che si presen ta a gesti ai suoi omologhi europei. Certo, il solo italiano è qualcosa che può anche andare bene in un governo dove l'autarchismo lingui stico si riflette in espressioni come «tassa piatta» al posto di «flat tax», ma di certo non funziona in questo ruolo. Essendo per di più il ministro un neofita dichiara to in materia di Ambiente, al punto da farsi dare ampie ri petizioni, prendere appunti sui dossier in lavorazione, ipotizzare almeno a inizio in carico di farsi sostituire dal suo predecessore, Roberto Cingolani, per evitare troppe gaffe nelle prime riunioni
(alla fine, per dire, in Lussemburgo sono andati insieme).
Neanche questa ignoranza è colpa sua, in fondo: commercialista e revisore contabile, repubblicano a vent'anni, poi forzista della prima ora, senatore, assessore e vice del go vernatore leghista Roberto Cota, Pichetto si è sempre occupato per lo più di numeri e bi lanci. Più di recente, viceministro di Giancar lo Giorgetti al Mise con Draghi, si è concen trato su automotive e concorrenza. Non pro priamente un curriculum da patito di ener gia e green economy.
E insomma il ministro scambiato, quello in transizione, rischia di somigliare alla filastroc ca di Gianni Rodari, alla «povera virgola che per colpa di uno scolaro disattento capitò al posto di un punto dopo l'ultima parola del componimento. La poverina, da sola, doveva reggere il peso di cento paroloni, alcuni perfi
ALLO STUDIO IL PRICE CAP PER LE RINNOVABILI. MENTRE SI ANNUNCIANO NUOVE PROTESTE SUI RIGASSIFICATORI E GUERRA SULLE TRIVELLE, UN FRONTE CHE SPACCA IN VERTICALE LEGA E FI
no con l'accento». Nello stesso modo della "Tragedia di una virgola" a Pichetto, da solo, tocca reggere l'eredità anche complessa dell'e ra Draghi- Cingolani, in cui la transizione eco logica aveva un altro sapore. Con sulle spalle un ministero tra i più carichi dei soldi del Pnrr: 35 miliardi, secondo solo alle Infrastrutture guidate da Matteo Salvini (40 miliardi).
Passate le primissime gaffe, come quando ribattezzò il mercato del gas di Amsterdam con l'inesistente acronimo «Tte», invece che «Ttf» - in fondo era solo una lettera, nel me dioevo anche il proverbio «stretta la soglia larga la via» divenne «stretta la foglia» per colpa a quanto pare anche lì di un errore di trascrizione - il titolare dell'Ambiente è ades so al lavoro per una misura che ha racconta to giusto alla vigilia del consiglio dei ministri che ultimato la manovra: un price cap nazio nale delle rinnovabili, con un meccanismo che prevede sì di aumentare la capacità delle fonti come eolico e fotovoltaico, ma anche di vendere l'energia prodotta a prezzo calmie rato (il tetto sarebbe 180 euro al megawatt/
COMMERCIALISTA
Il ministro dell’Ambiente e della sicurezza energetica Gilberto Pichetto Fratin, FI, commercialista, deputato ed ex senatore
ora, secondo le misure allo studio). Nulla di rivoluzionario: si tratta di una misura simile a quella introdotta dal governo Draghi a feb braio, che prevede un prelievo sugli extrapro fitti che scattano quando l’energia elettrica prodotta da rinnovabili è venduta a un prez zo superiore a 60 euro al megavatt/ora.
Quanto all'approvvigionamento energeti co, quest'inverno non sono previste criticità grazie appunto all'attività svolta nei mesi scorsi dal governo Draghi, ma per il 2023 sarà fondamentale avere il rigassificatore di Piombino. Ed ecco che si apre qui l'altro fron te per Pichetto. Quello che diciamo parla ita liano, ma si fa la guerra.
A Piombino, mentre il ministro continua a predicare in ogni uscita pubblica quanto il rigassificatore sia fondamentale (lì come a Ravenna), il fronte dei movimenti del No si è riunito giusto domenica scorsa, per dar vita alla "Rete No Rigass. No Gnl" e progettare una manifestazione a Roma per inizio 2023. E il sindaco Francesco Ferrari, di Fratelli d'I talia, ha promosso un ricorso al Tar contro l'infrastruttura, in aperta polemica con il go verno e il suo partito, a partire da Ignazio La Russa che l'ha sconfessato, ma non senza seguaci dentro FdI.
È ancora più pesante la spaccatura nell'al tro fronte italiano che è chiamato ad affron tare Pichetto: le trivelle, e l'opportunità di nuove perforazioni in mare. Qui non soltan to gli interessi del territorio sono opposti a quelli del governo centrale, ma la spaccatura taglia a metà, verticalmente, sia la Lega sia Forza Italia. Era così anche nella scorsa legi slatura, ma non si vedeva altrettanto clamo rosamente come in questi giorni nel braccio di ferro dei governatori, in testa il veneto Lu ca Zaia, con Roma e con Matteo Salvini. Di fatto, la norma per facilitare le trivelle che è contenuta nel decreto Aiuti appena licenzia to riprende un testo analogo a quello presen tato per la prima versione del decreto, sotto il governo Draghi. Allora la norma fu fermata dall'ex sindaco di Padova Massimo Bitonci, per conto di Zaia. A ispirarla era invece stata la leghista Vannia Gava, all'epoca sottosegre taria alla Transizione, ora viceministra di Pi chetto Fratin e secondo molti destinata a di ventare la vera titolare dell'Ambiente, essen do lost il ministro in transition. A testimo nianza che anche su questo fronte il caos è appena agli inizi.
di BRUNO MANFELLOTTO
Calderoli, la riforma anti Sud chiama in causa Mattarella
Acomandare l’“indietro tutta” è stato lo stesso mi nistro Roberto Calderoli, che pure dell’“autonomia differenziata” - la riforma che dà più soldi e poteri alle Regioni del Nord - è il massimo profeta e regista: «È solo una bozza, se ne riparlerà, vedremo». E va bene, evviva, ma perché tanta improvvisa prudenza?
Forse anche questa partita rientra nella strategia degli annunci cara al nuovo governo: si spara, poi si frena (“L’Espresso” n. 44); o magari è stata proprio Giorgia Meloni a intervenire temendo che il progetto Calderoli possa spaccare in due l’Italia, bandie ra che sventola nel nome del suo par tito; ma è possibile pure che un “cave at” sui rischi costituzionali del prov vedimento arrivi dal Quirinale. Come confermano i richiami di Mattarella, la scorsa settimana dinanzi ai sindaci d’Italia, alla «coesione nazionale», al «principio di uguaglianza», alla «ga ranzia dei diritti dei cittadini, al Nord come nel Mezzogiorno». Si parla di autonomia, senza mai citarla. Da qualche tempo il Presidente fa sen tire più spesso la sua voce, anche per ché gli scivoloni del governo si susse guono: i medici no vax e la stretta no rave, gli screzi con Macron e il tetto al contante, e i richiami sono ora per ra gioni di forma (l’inutile e poco orto dosso ricorso al decreto legge, gli sva rioni in un testo di legge), ora per ri chiamare il rispetto di un trattato in ternazionale (quello con la Francia firmato un anno fa) o per motivi di opportunità (no vax). Stavolta però la questioneèancorapiùdelicataperché sono in gioco fondamenti della Costi tuzione di cui il Presidente è garante.
Dal testo firmato Calderoli tracimano rischi, pasticci e trabocchetti. Sceglia mo fior da fiore. Si prevede che si svol ga tra Regioni e ministro, ignorando il ruolo del Parlamento, una sorta di trattativa privata su funzioni, soldi, e materie che lo Stato è disposto a dele gare: sono ventitré, dalla scuola ai tra sporti, dall’ambiente alla sanità, quasi tutto. I patti che ne deriveranno saran no di fatto blindati visto che sarà pos sibile modificarli solo con il consenso della Regione interessata, cioè mai, nemmeno se il governo si convincesse dell’opportunità di rivederli. Ma naturalmente la questione più de licata riguarda i soldi. Ci sono due cri teripertrasferirlidalcentroallaperife ria: uno è quello congegnato in modo da garantire a tutti i cosidetti “livelli essenziali delle prestazioni” (Lep); l’al tro è legato alla “spesa storica”, cioè a quanto le Regioni hanno destinato ne gli anni precedenti a scuola, sanità, trasporti. Il primo sistema aiuta le am ministrazioni più povere, l’altro favori sce le più opulente che già offrono, storicamente, servizi migliori e più co
stosi. La bozza Calderoli sceglie il se condo - c’è solo un anno di tempo per fissare i Lep prima del passaggio auto matico al criterio della spesa storica: troppo poco - riuscendo a spaccare in due il Paese prima ancora di diventare legge: a favore le regioni del Nord care allaLega,inrivoltaquelledelSud,siaa guida centro sinistra come Campania, Puglia e Basilicata, sia di centrodestra come Molise, Basilicata e Calabria.
Ora, la Costituzione già prevede un’autonomia differenziata (art. 116), ma in coerenza con i principi generali della Carta e fissando nel dettaglio tutte le competenze di Stato e Regio ni, e le “concorrenti”, cioè in condo minio, come istruzione, salute, prote zione civile, beni culturali, ambiente. Quella di Calderoli, invece, è una sor ta di autonomia “on demand” nella quale il più forte si accaparra tutto. Il contrario dell’unità della Repubblica, principio fissato nella prima parte della Costituzione. Che ogni tanto Meloni evoca. Ma che Mattarella per ufficio difende e garantisce.
Il potere a Pechino
oncluso il Ventesimo Con gresso del Partito comunista cinese, Xi Jinping ha ricomin ciato a mettere mano alla po litica estera del Paese. Senza mascherina e in vena di gran di strette di mano e abbracci (come nel caso dell’incontro con il suo omologo vietnami ta) Xi Jinping è sembrato più rilassato ri spetto ad altre occasioni diplomatiche: l’an no del Congresso è impegnativo, significa parare attacchi, preparare strategie e assi curarsi che alla fine tutto vada come doveva andare. Xi Jinping può ritenersi soddisfatto: il Partito comunista è sempre più nelle sue mani, formato nei livelli apicali da suoi fe delissimi e senza più fazioni o correnti a contendere un potere che a questo punto sembra ormai illimitato. Al G20 in Indone sia a metà novembre, Xi Jinping si è così pre sentato tirato a lucido e per prima cosa ha riportato all’interno di binari quanto meno di educazione i rapporti con gli Stati Uniti, interrotti questa estate dopo l’improvvido viaggio di Nancy Pelosi a Taiwan.
L’incontro con Joe Biden è stato salutato da tutti gli osservatori internazionali come un elemento positivo, considerando la si
tuazione attuale del mondo, stretto tra la guerra in Ucraina e una crisi economica internazionale che sembra non essere an cora arrivata al suo picco. E proprio quest’ultimo aspetto è quello che preoccu pa di più la dirigenza del Partito comunista cinese: per questo era necessario riportare un po’ di calma nell’ambito della diploma zia (anche per quanto riguarda i rapporti con alcuni Paesi, come ad esempio Fran cia, Canada, Giappone e Australia) così da
dedicarsi alla politica interna, piena di in sidie e di crisi tutte cinesi.
Intanto è bene precisare che alcune preoc cupazioni per Xi Jinping potrebbero arrivare proprio dalla sua tracotante vittoria all’ulti mo Congresso: Xi Jinping si è auto conferma to per un terzo mandato e ha sistemato nei gangli più rilevanti del Partito funzionari che al momento hanno per lo più dimostrato di essere fedeli al grande capo, prima ancora che essere efficienti e capaci di affrontare un momento delicato come quello che sta vivendo la Ci na. A questo proposito un grande osservatore del Pae se, Minxin Pei, su Foreign Af fairs, ha fatto un paragone che Xi Jinping farebbe bene a tenere a mente: «In alcuni modi importanti e intrigan ti, l’esito del Ventesimo Con
gresso del Partito comunista ricorda quello del Nono Congresso del Partito nell’aprile 1969. Lì, Mao Zedong raggiunse l’apice del suo potere. Proprio come avrebbe fatto Xi cinque decenni dopo, Mao usò il Congresso del Partito per riempire il Politburo e il suo Comitato Permanente di lealisti. Ma il predo minio di Mao rese il partito meno stabile, non di più: in assenza di un piano di succes sione, emerse una brutale rivalità tra i suoi seguaci, che formarono fazioni duellanti. Il risultato finale fu un disastro». Tre anni dopo la morte di Mao nel 1976, fa notare Minxin Pei, «la sua eredità era in rovina, un suo ex rivale dirigeva il partito e il Pcc aveva abbrac ciato riforme basate sul mercato che sareb bero state un anatema per Mao». Leggendo queste parole viene subito in mente un no me: Li Qiang, attuale numero due del Partito ed ex segretario del Partito di Shanghai. Li Qiang è candidato a essere nominato pre mier a marzo, quando in Cina si svolgeranno i lavori dell’Assemblea nazionale, ovvero a governare le manovre economiche del Paese. E questo fatto pone già un primo interrogati vo di natura economica: alla fine del Ventesi mo Congresso le azioni delle aziende tecno logiche sui mercati internazionali sono crol late. Questo è accaduto perché negli ultimi tempi Xi Jinping ha portato avanti una cam pagna violentissima contro le società priva te, con l’intento di riportarle all’interno dei desiderata della dirigenza del Pcc. Questa campagna di rettificazione ha creato un più generale clima di grande incertezza per tutte le aziende private che operano in Cina. Li Qiang è conosciuto per essere un fautore di riforme economiche capaci di tenere conto delle esigenze delle imprese private e la do manda che ci si pone è quanto questa sua caratteristica sarà più o meno confermata nel suo ruolo da premier, cioè alle dirette di pendenze di Xi Jinping, il cui marchio di fab brica è una chiara impronta statalista. Ma i problemi economici interni della Ci na sono diversi. Non a caso il primo atto del nuovo Partito è stato quello di portare un po’ di ossigeno a uno dei settori più in crisi del Paese, quello dell’immobiliare. Gli investi menti nel mattone sono stati da sempre una delle leve economiche della crescita cinese, ma i grandi gruppi immobiliari hanno finito per creare dei debiti mostruosi, portando il settore sull’orlo della bancarotta. All’inizio la politica del Partito è sembrata impronta
Prima Pagina Il potere a Pechino
ta a limitare i danni, cercando di sostene re soprattutto quei cittadini che avevano comprato case che non saranno mai costrui te. Poi altre contingenze, come ad esempio le continue chiusure a causa della politica del Covid zero, hanno portato a un sostegno più radicale a tutto il settore in modo da rimette re in piedi aziende sull’orlo del fallimento e riportare il comparto fuori dalla bolla nella quale sembrava essere sprofondato. Anche perché le stime di crescita della Cina non so no esattamente ottimiste; perfino la Banca centrale ha ipotizzato un 3,5% che costitui rebbe un brusco rallentamento per la noto ria crescita cinese. Gli aiuti al settore immo biliare (centinaia di miliardi di dollari) do vrebbero mettere in pausa la crisi in atto, ma non trasformare la quantità in qualità, come da tempo vorrebbe la leadership del Pcc.
I problemi sono però troppi per soffermarsi su questi dettagli: uno dei motivi del rallenta mento economico è dovuto proprio alla poli tica “Zero Covid”, che Xi Jinping si è intestato. A causa dei lockdown improvvisi i problemi per Pechino sono diventati di due tipi: da un lato c’è quello economico, dall’altro c’è quello di natura sociale. Per quanto riguarda il pri mo aspetto, la chiusura di fabbriche ha pro vocato gravi intoppi alla supply chain globale, portando molte aziende a produrre fuori dal la Cina. Il caso più eclatante è quello di Apple, che porta con sé un altro dilemma per Pechi no. A novembre Apple ha annunciato l’uscita del primo iPhone 14 prodotto interamente in India: come ha sottolineato il Guardian «è la prima volta che Apple ha prodotto un nuovo iPhone al di fuori della Cina nello stesso anno in cui è stato rilasciato. È anche un passo im
NUMERO DUE
Li Qiang, numero due del Partito Comunista Cinese e probabile futuro premier Sopra: lavoratori assemblano monitor nella fabbrica Tcl di Huizhou, nella provincia di Guangdong
portante in uno dei processi più delicati di Apple: separare le sue fortune da quelle delle relazioni sino-americane». Apple sospetta che la guerra tecnologica tra Cina e Usa possa stritolare anche le grandi aziende e quindi ha deciso di cominciare a diversificare. Allo stes so modo però, per non sbagliarsi, continua ad accettare le richieste del governo di Pechino quando c’è da censurare qualcosa, come è ac caduto di recente con AirDrop, le cui funzio nalità sono state cambiate solo per il mercato cinese perché il Pcc teme che attraverso il servizio di scambio di file girino informazioni sulle proteste contro il Pcc. E qui arriviamo al secondo punto saliente causato dai lock down, ovvero le manifestazioni di grande in sofferenza della popolazione delle città chiu se all’improvviso. Quindi, vanno via le azien de, cala il mercato interno e aumenta il ri schio di instabilità sociale. A questo si aggiunge un altro elemento, di cui si parla molto poco: la disoccupazione giovanile. Co me riportato da Caixin, prestigiosa rivista economica cinese, «Quasi un giovane cittadi no cinese su cinque era disoccupato a luglio, un record da quando i dati hanno iniziato a essere pubblicati all’inizio del 2018. Le loro possibilità di trovare un lavoro sono state col pite da una tempesta perfetta di perturbazio ne economica e incertezze. I blocchi del Co vid-19 hanno costretto milioni di aziende a chiudere i battenti, mentre le restrizioni nor mative sui settori della tecnologia e del tuto raggio privato hanno provocato massicce ondate di licenziamenti». Si tratta di un feno meno assolutamente sotto traccia, masche rato dal nazionalismo che Xi Jinping ha fo mentato negli ultimi tempi, e tenuto distante dal dibattito pubblico dai media controllati dal Partito. Ma il problema esiste e comincia a essere preoccupante: secondo Caixin, men tre il tasso di disoccupazione ufficiale rileva to tra giugno e settembre 2022 per i lavoratori urbani era del 5,4% (numero considerato nel la media), la disoccupazione tra chi ha dai 16 ai 24 anni «era più del triplo, il 19%». E se i più giovani sono quelli che più di tutti soffrono il lockdown e hanno già dimostrato di saper contestare i ritmi forsennati di molte aziende cinesi, questi dati rendono ancora più chiaro chi potrebbe mettere in difficoltà, socialmen te, il dominio di Xi Jinping: quei giovani poco irretibili dai mantra preferiti di Xi Jinping: la stabilità e l’ordine sociale.
ROMA E PECHINO:
DOPO UNA CAMPAGNA ELETTORALE ANTICINESE GIORGIA MELONI SI È SUBITO CONVERTITA ALLA REALPOLITIK. I RAPPORTI ECONOMICI PREVALGONO SUI DIRITTI UMANI
DI CARLO TECCE
La politica estera italiana è an cora incastrata nella campa gna elettorale. Ogni tanto ac cade qualcosa che ne fa scorge re un lembo e allora c’è un fre mito di stupore. Come per il bilaterale che “l’imperatore” cinese Xi Jin ping, appena confermato per l’inusuale terzo mandato, ha concesso alla presiden te Giorgia Meloni durante il G20 nella capi tale indonesiana di Bali. Un evento perfet tamente aderente alla realtà, semmai sconvolgente per la politica, anzi per il rac conto della politica affezionato alle bagat telle quotidiane.
Non c’è bisogno di un dotto e perlopiù noioso sermone per decifrare o esporre la politica estera italiana di un governo di “destracentro” rappattumato con molta convenienza e poca convinzione. La politi ca estera di Fratelli d’Italia è racchiusa in un motto/dogma di facile comprensione: noi stiamo con gli americani (anche perché gli altri non ci vogliono stare con noi, vedi francesi e tedeschi). Questo vuol dire ar miamo con entusiasmo la resistenza ucrai
DI NUOVO AMICI
na; sosteniamo con afflato cingolato l’alle anza atlantica Nato; ci addentriamo sol tanto in mercati contigui alla geopolitica Usa. E soprattutto: se i cinesi per loro sono nemici, per noi lo sono di più. Per davvero. Mica chiacchiere. Meloni ne ha dato atto, prova, e l’ha fatto con granitica fermezza. Tra gli ultimi gesti di campagna elettorale, proprio alla vigilia dei comizi finali, la can didata Meloni ha rilasciato una roboante intervista a Central news agency, un media di Taiwan, suscitando la scontata e piccata reazione della diplomazia pechinese a Ro ma. Ha definito «inaccettabile» e da «con dannare» il comportamento dei cinesi nei confronti dell’isola ribelle (che tra l’altro l’Italia e il mondo non riconoscono): «È certo che Taiwan con un governo di cen trodestra sarà una questione fondamenta le per l’Italia. Ho seguito da vicino con di sagio quello che sta succedendo». Meloni ha tranciato, in quella circostanza, qualsi asi legame strategico con Pechino: «L’ab braccio italiano alla “Belt and Road”, la nuova Via della Seta, è stato un grosso er rore. Se mi trovassi a dover firmare il rin novo domani mattina, difficilmente vedrei le condizioni politiche per farlo. Spero che il tempo serva a Pechino per ammorbidire i suoi toni e fare qualcosa di concreto verso il rispetto della democrazia, dei diritti umani e della legalità internazionale». Nei comunicati ufficiali, com’è ovvio, dopo l’incontro fra Meloni e Xi Jinping e dopo la telefonata fra il ministro Antonio Tajani (Esteri) e il collega Wang Yi, non viene mai menzionato né il «tempo» ammorbidente né il «ri spetto» della democrazia e i «diritti umani» trovano riparo in un inciso di scar so significato: «Il presiden te Meloni (il maschile è di Palazzo Chigi, ndr) ha rile vato l’importanza che ri prendano tutti i canali
Politica estera e affari
di dialogo, incluso quello in materia di diritti umani». Nessuno ha mutato posi zione. Meloni non ha abbandonato gli americani con un bilaterale di qualche mi nuto. Pechino non ha risolto le sue ambi guità sulla guerra russa in Ucraina. Sem plicemente è intervenuta la politica col suo famoso interesse nazionale e la campagna elettorale italiana s’è spenta pure su Pechi no. Ciò prelude a una riconferma del me morandum per la cosiddetta nuova via del la Seta - un progetto egemonico che riguar da infrastrutture per il commercio e la tecnologia - che fu sottoscritto nel marzo 2019 dal governo gialloverde di Giuseppe Conte e che scadrà tra circa un anno? No, per gli americani è intollerabile, e lo esclu de la Meloni e lo escludono i ministri Guido Crosetto (Difesa) e Adolfo Urso (Industria). Quella che si è riattivata fra l’Italia e la Ci na, ma sarebbe opportuno, e meno ombeli cale, dire quella che si è riattivata fra l’Eu ropa e la Cina con il nullaosta degli Stati Uniti, è una relazione commerciale. Non è una banale coincidenza che il bilaterale sia stato anticipato dalle trattative, non è un accordo siglato, per una commessa cinese di 250 aerei Atr prodotti a Pomigliano d’Arco da un consorzio italiano e francese con Leonardo e Airbus.
Lo scambio di prodotti di Italia e Cina vale 74 miliardi di dollari. E i dettagli, nelle frequenti interviste, li fornisce l’ambascia ta cinese con l’incaricata d’affari Zheng Xuan: «Dallo scoppio della pandemia, le relazioni economiche e commerciali si no-italiane sono in controtendenza, dai 54 miliardi di dollari del 2020 sono salite ai quasi 74 miliardi dell’anno scorso, con un aumento del 34,1 per cento, mentre le esportazioni italiane in Cina sono aumen tate del 36,3 per cento, realizzando in en trambi i casi record storici. Nei primi 9 me si di quest’anno, il volume di commercio sino-italiano ha toccato i 60,58 miliardi di dollari, con un aumento del 13,3 per cento su base annua, e si prevede che la cifra an nuale supererà quella dell’anno scorso».
Se l’Europa e l’Italia non si intromettono nel caso di Taiwan, la linea rossa «invalica bile», il concetto di una «sola Cina», al mo mento Pechino — che ha un’economia in allarmante frenata — offre agli occidentali la sua capacità di muovere le merci nel mondo, in uscita e anche in ingresso. La
PROFESSORE
Matteo Salvini. Sopra: il professor Michele Geraci, docente alla New York University di Shangai e sottosegretario allo Sviluppo Economico nel governo Conte I indicato dalla Lega
pandemia ha spinto la Cina a ritrarre i suoi tentacoli. Non c’è più la disinvoltura di quattro o cinque anni fa quando la sfida globale agli Stati Uniti era ostentata.
Roma era accogliente per i cinesi. Il go verno gialloverde Conte I, con la debolezza dei giudizi sommari e però con diversi in dizi, si può definire l’esecutivo più dialo gante di sempre con il regime comunista. Il viaggio italiano di Xi Jinping (marzo 2019) fu la visita di un imperatore che va a officiare il percorso di annessione di una nuova provincia. In quel periodo le impre se Huawei e il gruppo Zte erano coinvolte nel delicato sviluppo della tecnologia di internet veloce di quinta generazione (5G), poi gli Usa le hanno messe al bando per motivi di sicurezza nazionale e i governi italiani che sono succeduti al Conte I, dun que Conte II e Draghi, hanno imposto vin
SI TRATTA PER UNA COMMESSA DI 250 AEREI ATR. DOPO QUELLE TEDESCA
E FRANCESE ANCHE UNA DELEGAZIONE DI INDUSTRIALI ITALIANI ANDRÀ IN CINA
CON LA PRESIDENTE DEL CONSIGLIO
coli stringenti. Gli esecutivi Conte II e Dra ghi hanno esteso l’utilizzo dei poteri spe ciali — “golden power” — per impedire alle aziende straniere, quasi unicamente cine si, di compiere in Italia operazioni o acqui sizioni in settori di rilevanza nazionale.
Il professore Michele Geraci, che inse gna Finanza alla New York University di Shangai («una istituzione americana», precisa), fu sottosegretario allo Sviluppo Economico nel Conte I su indicazione le ghista. Era la guida di Matteo Salvini nel fantastico sistema cinese. Finché Salvini, scottato dalle scampagnate moscovite, si è esibito contro la Cina per recuperare vana mente credito presso gli americani. Qual che settimana fa, appena incardinata la legislatura, il prof. Geraci, che conserva intatte le sue simpatie cinesi, era alla Ca mera a salutare i vecchi compagni politici.
Il ministro degli esteri cinese Wang Yi, e il vicepresidente del Consiglio italiano Luigi Di Maio, alla firma nel marzo 2019 dell’iniziativa Belt and Road, conosciuta anche come Via della Seta
Non è che qui si torna al passato. Geraci la spiega così: «Per la ripresa dell’economia italiana è imprescindibile avere rapporti cordiali con la Cina e dunque rapporti commerciali perché Pechino traina la va sta popolazione asiatica e africana. Chi si mette contro la Cina, in particolare un so vranista, non fa gli interessi degli italiani. Questo governo ha la fortuna di essere pro tetto nelle sue interlocuzioni con i cinesi dai principali alleati europei che già hanno riallacciato i contatti». A proposito. La tra sferta pechinese del cancelliere Olaf Scholz, con un aereo carico di imprendito ri di multinazionali tedesche e una stiva zeppa di contratti da firmare, ha ingolosito e ingelosito gli altri europei. Emmanuel Macron presto ci porterà i francesi. E l’an no prossimo, in ordine di grandezza, sarà il turno degli italiani con Meloni. Gli indu striali del Nord Est, quelli che hanno confe rito a Fdi in prestito i loro voti perché delu si da Matteo Salvini e non più obnubilati da Silvio Berlusconi, guardano con mag giore attenzione ai risultati commerciali di Scholz che ai sussulti indipendentisti di Taipei. Meloni non sveste la divisa ameri cana a stelle e strisce ma, in un perimetro ben marcato, può interagire con i cinesi per favorire l’Italia. È utile annotare che il diplomatico Luca Ferrari, ambasciatore italiano a Pechino da quasi tre anni, è il consulente di Palazzo Chigi nei consessi internazionali in formato G7 e G20.
I disegni egemonici, le persecuzioni de gli uiguri, il crescente autoritarismo del regime,ilfuturodiHongKongediTaiwan, signori, sono argomenti che possono aspettare. Basta fingere. Non citarli per non farli esistere. Eludere. Sorvolare. Ignorare. E concentrarsi su vantaggi ma teriali e immediati. «Più imprese italiane sono invitate a investire e fare affari in Ci na. Spero che l’Italia — si legge nella nota del ministro degli Esteri di Pechino che riassume la telefonata con Tajani — conti nui a fornire un ambiente imprenditoriale equo, trasparente e non discriminatorio alle imprese cinesi in Italia. La Cina so stiene l’Italia per le prossime Olimpiadi invernali ed è pronta ad aumentare i voli tra i due Paesi per facilitare il flusso di persone». Un paio di diretti senza scali, e non se ne parli più.
La destra italiana spiegata con i quanti
Dieci giorni fa è comparso nei telegiornali italiani Silvio Berlusconi, pettinato come cinquant’anni fa, che propone va “un milione di posti di lavoro”, come cinquant’anni fa. In un primo momento si è pensato a una interferenza con le teche Rai, poi ci si è resi conto che le immagini, incredi bilmente, erano del giorno stesso. Per molti è stato uno shock. «È stato come scoprire che il colonnello Bernacca è vivo e conduce ogni sera il meteo. O che Bartali si sta allenando per il prossimo Tour», ha dichia rato all’Ansa il presidente dell’Unione Psicologi, Sabino Favaroux. «È il tipico fenomeno di spaesamento temporale che sempre più spesso turba le giornate di milioni di italiani».
Altri episodi L’idea di assegnare un bo nus statale alle giovani coppie che si spo sano in chiesa era già presente nelle grida spagnole del Seicento (se ne fa cenno nei Promessi Sposi, quando il Conte Zio dice «ma sei scemo?» al giovane sacrestano che avanza la proposta). Come è possi bile, dunque, che una proposta identica sia stata firmata da cinque deputati del la Lega in questa legislatura? E i rotoli di banconote che il governo italiano in tende riesumare, possibilmente raccolti da un elastico (azzurro per i maschietti, rosa per le femminucce), sono gli stessi descritti nei Malavoglia per pagare i lupi ni? Gli stessi accumulati dal turpe Fagin nella Londra di Dickens? I fenomeni di azzeramento del tempo si moltiplicano, come se gli anni non fossero mai passati.
La quantistica È una delle poche disci pline che sta tentando di dare una spiega zione razionale del fenomeno. Partendo dalla teoria della relatività di Einstein, ovvero dall’idea che il tempo non sia una dimensione lineare, ma solo una conven zione sociale per facilitare la scadenza dei farmaci, gli appuntamenti di lavoro, il calendario dei campionati di calcio. «Non si spiegherebbe altrimenti - sostie ne il fisico quantistico Giorgio Levi-Pum pkin - il fatto che nel 2022 esistono sotto segretari del governo italiano che si sono messi in posa con l’uniforme nazista. Ci
Sottosegretari in divisa nazista, soldi a chi si sposa in chiesa, raduni a Predappio, Berlusconi. Questo eterno ritorno di un passato lontano è comprensibile solamente attraverso le più avanzate teorie dell’astrofisica
sono delle smagliature spaziotemporali attraverso le quali, soprattutto se il pro prio cervello non si frappone come osta colo, si può viaggiare attraverso i secoli. Come spiegare altrimenti il fatto che la Russia invada l’Ucraina per tornare ai confini del 1300? E secondo voi i tempi congressuali del Pd, hanno a che fare con la cosiddetta realtà oppure sono regolati su orologi astrali dei quali nemmeno co nosciamo l’esistenza?».
Predappio A Predappio, ogni anno, le teorie della fisica quantistica trovano un’impressionante conferma. In quella che è una specie di Stonehenge latina, si radunano i fedeli di un culto misterio so, consacrato a un omone dalla grossa mascella, ridicolo già somaticamente, dunque già alla vista, ancora prima che aprisse bocca. Costui avrebbe potuto avere molta fortuna in un circo e per que sto diventò, conseguenzialmente, capo degli italiani. La permanenza del culto non è spiegabile razionalmente. Secondo qualcuno il mascellone è apparentabile ai capoccioni dell’Isola di Pasqua, il cui profilo quasi coincide con quello dell’i cona di Predappio. Secondo altri sono gli abitanti di Pasqua ad avere imitato, dieci secoli fa, il profilo dell’omaccione nostra no. Come sia, è evidente che la percezione del tempo ne esce sgretolata.
Il rap Infine. Il rap. Ecco la prova defini tiva che il tempo si è fermato per sempre, o non è mai esistito. Ci sono rapper ses santenni, con il cappellino e lo spillone nell’orecchio, che fanno gli stessi gesti di rapper ventenni, con il cappellino e lo spillone nell’orecchio. La distin zione dei rapper, difficilissima, è diventata una vera e propria profes sione, come il sessaggio dei pulcini. Come assegnare un’età ai rapper? E un’identità precisa? Il tempo è un cerchio che tutti ci racchiude e ci confonde. Tra cinquant’anni Berlusconi annuncerà a Predappio un milione di posti di lavoro.
Da tempo in Europa assistia mo a un ritrovato protago nismo degli Stati nei proces si decisionali che regolano l’Unione Europea. Leggiamo tutti i giorni di confronti an che molto accesi tra Paesi o gruppi di Paesi per il difficile raggiungimento di compro messi a livello europeo. Si pensi, ad esem pio, alla recente disputa tra Italia e Francia sui migranti, alla contrapposizione tra i Pa esi del Nord e del Sud Europa sulle politi che monetarie e fiscali o, ancora, al com plesso rapporto dell’Unione con alcuni Pa esi dell’Europa centro-orientale in materia di diritti. Tale dinamica ha riportato alla luce categorie politiche a lungo rimaste cu stodite nei soli manuali di politologia: po pulismo, sovranismo, nazionalismo. Ognu no di questi termini è oggi recuperato e utilizzato nelle accezioni più diverse, a tratti confuse e distanti dalle definizioni originarie. Eppure, al di là del naturale ria dattamento dei loro significati agli attuali contesti politici e sociali, nel quadro dell’Ue il richiamo al sovranismo o al nazionali smo rimanda spesso al tentativo di uno Stato membro d’anteporre deliberatamen te, almeno sulla carta, i propri interessi na zionali al più nobile e comune interesse europeo. In una rappresentazione fuor viante e semplicistica della democrazia in Europa, pare che gli Stati si siano d’improv viso risvegliati da un lungo sonno, dopo es sere stati amabilmente cullati da un’entità terza – l’Unione Europea, unica in grado di tenerne a bada gli istinti irrefrenabili.
La causa del “risveglio nazionale” è quasi sempre imputata alla comparsa di movi menti politici radicali, i quali, da destra o da sinistra, si rivelano recalcitranti a una certa idea di unità in Europa. Buona parte del racconto mediatico sul nuovo governo italiano, specie in alcuni Paesi europei, non ha rappresentato in tal senso un’eccezione. Tuttavia, se da una parte è dedicato ampio spazio all’analisi dei cosiddetti populismi o sovranismi in relazione al nuovo protago nismo degli Stati in Europa, dall’altra trop po poco ci si interroga su come l’apparte nenza all’Unione Europea stia mutando profondamente la natura dello Stato nazio nale in quanto tale. Una trasformazione che porta necessariamente con sé conse guenze profonde e imprevedibili. Ciò non
IL RISVEGLIO DEGLI STATI
Nonostante la generale riluttanza verso un’ulteriore cessione di sovranità nei confronti dell’Ue, crescono i contatti tra Paesi a livello politico e ministeriale
DI MATTEO SCOTTO
L’AUTORE
Matteo Scotto è direttore del dipartimento ricerca e progetti presso Villa Vigoni, Centro italo-tedesco per il dialogo europeo. È autore del libro “Fragile Orders. Understanding Intergovernmentalism in Context of EU Crises and Reform Process” (Villa Vigoni Editore/ Verlag, 2022).
significa ascrivere all’integrazione europea la responsabilità dei populismi, bensì ma turare una maggior consapevolezza della complessità di un processo che, da più di sessant’anni, contribuisce significativa mente all’armonizzazione della vita politi ca e sociale delle democrazie europee. Non è un caso se già a metà anni ’60 Stanley Hof fmann, uno dei padri fondatori della teoria dell’integrazione europea, sottolineava co me, per quanto riguarda aree di fondamen tale importanza per l’interesse nazionale, gli Stati membri avrebbero preferito la cer tezza (o incertezza) dell’autonomia nazio nale rispetto alla cessione esclusiva di com petenze a istituzioni comunitarie. In effetti, se si osservano con attenzione gli sviluppi dell’integrazione europea, in particolare quelli degli ultimi trent’anni, il politologo austriaco non aveva tutti i torti.
Quella che conosciamo oggi come Unio ne Europea non è nata, fin dai suoi primi passi nel secondo dopoguerra, come comu nità strettamente politica, e ciò a causa del mancato accordo tra gli allora Paesi fonda tori: Francia, Italia, Germania dell’Ovest, Belgio, Lussemburgo e Olanda. I progetti per una Comunità politica europea (Cpe) e di difesa (Ced) fallirono già a metà anni ’50,
in quanto le proposte non superarono l’im prescindibile passaggio dell’unanimità ne cessaria alla cessione di sovranità a livello europeo di pilastri costitutivi dello Stato nazionale. Primo fra tutti, richiamando Weber, il monopolio dell’uso legittimo del la forza fisica all’interno di un determinato territorio. Le due Comunità istituite dai Trattati di Roma nel 1957 rappresentarono il tentativo, in buona parte riuscito, di ri lanciare l’integrazione a partire dalla ge stione condivisa di settori circoscritti alla sfera economica e energetica, inclusi car bone e acciaio, materie prime all’epoca in dispensabili all’industria bellica. L’impian to economico dell’Ue si è così sviluppato nel corso dei decenni in parte consistente attraverso un metodo comunitario di inte grazione che implica, da un lato, la cessio ne volontaria di competenze da parte degli Stati alle istituzioni sovranazionali, dall’al tro, decisioni prese a maggioranza. Per competenze correlate a poteri statuali fon damentali come la politica estera, la difesa, la giustizia e gli affari interni, gli Stati dell’Ue hanno da sempre preferito optare per metodi di integrazione intergovernati vi fondati sul coordinamento delle politi che nazionali, il coinvolgimento diretto dei
IL TEMA
Negli ultimi anni, stiamo assistendo ad un “risveglio nazionale” in Europa, strettamente legato a movimenti politici radicali da destra e da sinistra. Per comprendere meglio questi fenomeni, bisogna maturare consapevolezza su quanto il processo di integrazione europea stia mutando profondamente la natura dello Stato nazionale.
governi e decisioni prese all’unanimità: principi, questi, confermati in occasione di diversi Trattati istitutivi dell’Unione, a par tire da quello di Maastricht del 1992 fino al Trattato di Lisbona del 2007. Anche la man cata ratifica della Costituzione europea nel 2005 può essere interpretata come ennesi ma disapprovazione da parte degli Stati europei, o almeno di parte di essi, di un mo dello che vorrebbe l’Unione europea più si mile a una federazione di Stati, sulla falsa riga degli Stati Uniti d’America. Quel fallimento, paradossalmente, non ha tuttavia condotto a un completo stallo del processo di integrazione europea, la quale ha comunque seguito il proprio cor so, delicato e tortuoso, verso la cooperazio ne continentale in Europa. Anche gli ultimi dieci anni del processo d’integrazione, che hanno visto l’Ue affrontare sfide inedite, a partire da quella finanziaria sino alle re centi crisi pandemica e energetica, non hanno mutato tali equilibri. Specialmente in sede di Consiglio europeo, i governi na zionali hanno reagito a queste crisi con un coordinamento a livello europeo sempre più frequente in ambiti fondamentali quali salute, difesa, migrazione e energia: certo, con difficoltà e insuccessi, e ciononostante col raggiungimento di risultati rilevanti co me il Next Generation EU. Al di là di ogni giudizio di merito, in Europa assistiamo anno dopo anno a un accrescimento co stante e sostanziale dei contatti tra Paesi a livello sia politico sia ministeriale, nono stante la generale riluttanza verso un’ulte riore cessione di sovranità nei confronti dell’Ue. Appare dunque evidente come un maggiore e diretto dialogo tra governi eu ropei su tematiche particolarmente sensi bili comporti necessariamente una dialet tica democratica costruttiva, di cui fanno naturalmente parte divergenze più o meno marcate tra Paesi. Il ritrovato protagoni smo degli Stati non andrebbe letto in una prospettiva esclusivamente negativa ri spetto all’integrazione europea. Esso pone sì il progetto europeo dinanzi a limiti deci sionali, specie entro un’Unione a 27, e tutta via testimonia al contempo l’accresciuta consapevolezza degli Stati di come la coo perazione europea, specie nell’attuale con testo di disordine globale, rappresenti l’u nica strada possibile.
DONALD TRUMP COLPISCE ANCORA
LA CANDIDATURA DELL’EX PRESIDENTE CON LE INDAGINI CONTRO DI LUI ANCORA APERTE APRE SCENARI INEDITI PER GLI STATI UNITI.
CONFLITTO TRA ISTITUZIONI SENZA PRECEDENTI CHE METTE A RISCHIO LA DEMOCRAZIA
DI MANUELA CAVALIERI E DONATELLA MULVONI DA WASHINGTON
li Stati Uniti potrebbero in criminare per la prima vol ta un ex presidente e possi bile front runner del parti to repubblicano (se doves se vincere le primarie). Uno scenario dieci volte più folle di quanto si possa immaginare!». Il futuro degli equili bri politici americani tracciato da Alan Rozenshtein, professore di diritto dell’U niversità del Minnesota, ha tinte fosche ora che Donald Trump si lancia spedito nella terza corsa alla Casa Bianca.
A settantasei anni, “The Donald is back!”. Due impeachment e un pulviscolo di procediementi legali a carico non sono bastati a metterlo all’angolo. «L’ultimo presidente accusato di un crimine era stato Ulysses Grant, nel 1872, arrestato per eccesso di velocità alla guida della sua carrozza», dice sardonico l’esperto, a cui chiediamo lumi per capire a cosa an dranno incontro gli Usa nei prossimi due anni. Quelli in cui Trump farà campagna elettorale mentre è indagato.
L’annuncio della candidatura arriva martedì scorso, dalla residenza-club di Mar-a-Lago in Florida. Un’ora di discorso, in cui snocciola i successi personali e quelli dell’amministrazione, oltre alle hit migranti e criminalità. Tra la folla ci sono lealisti come Mike Lindell, patron di My Pillow, e Roger Stone. Ma a scrutarla be ne, mancano tanti amici della prim’ora, pochi i membri del Congresso. Dà forfait anche Ivanka, la fi glia prediletta.
Il vento non soffia più in poppa, pare. L’establish ment del Gop è insofferen te. I grandi finanziatori cambiano cavallo, dopo gli
scarni risultati delle midterm, ovvero la vittoria democratica in Senato e la scon fitta di tanti candidati trumpiani. Il mi liardario Stephen Schwarzman del fondo Blackstone, sosterrà la “nuova generazio ne” di repubblicani; lo stesso farà Ken neth Griffin di Citadel, che punta su Ron DeSantis, governatore della Florida fre sco di trionfo elettorale. Anche i media di casa Murdoch, un tempo adoranti, ora traballano: tiepida Fox News, al vetriolo il New York Post. “Un uomo della Florida fa un annuncio” titola beffardo il tabloid. Mentre ribattezza DeSantis, “DeFuture”, nonostante lui non abbia ufficializzato la candidatura.
Scaricano Trump, ma forse anche le sue guerre culturali. Sintetizza il Washin gton Post: «Ha alterato profondamente la vita pubblica americana, infrangendo gli standard di decoro e di civiltà». Il riferi mento è agli insulti ad avversari e giorna listi, ai commenti razzisti contro mino ranze e disabili, nonché alle vanterie sulle aggressioni sessuali; fino agli ammicca menti ai suprematisti bianchi e ai rivolto si del 6 gennaio.
I magistrati, intanto, alitano sul collo del tycoon. E difatti non è solo il rovello di una rivincita a nutrire l’obiettivo 2024. È la speranza che la campagna elettorale e una vittoria allentino la morsa delle ro gne legali. «Si tratta di una costellazione complicata. In primis, due indagini federali sui docu menti top secret trovati a Mar-a-Lago e sull’assalto al Campidoglio. Ma ci so no anche quelle statali, a New York e in Georgia», ci spiega il professor Alan Rozenshtein.
L’indagine sui docu
menti classificati era iniziata in prima vera. Ad agosto, a seguito di una retata dell’Fbi nella residenza in Florida, ne fu rono recuperati oltre 300, tra cui 103 ri servati e 18 top secret. L’altra indagine fe derale è quella dedicata al 6 gennaio 2021, ovvero il tentativo di sovvertire la certifi cazione del voto del Collegio Elettorale da parte del Congresso, dopo le elezioni presidenziali. Al setaccio non solo le isti gazioni di Trump che precedettero la san guinosa presa di Capitol Hill, ma anche le azioni dei collaboratori e le pressioni sul vicepresidente per rovesciare i risultati delle elezioni.
Sul fronte statale, invece, a New York la procuratrice generale Letitia James ha in tentato una causa civile contro Trump e la Trump Organization. L’accusa è di aver gonfiato il patrimonio per ottenere tassi di interesse agevolati sui prestiti. In ag giunta, il procuratore distrettuale di
LUI È NEL SOLCO DELLA VIOLENZA AMERICANA
COLLOQUIO CON ANDRES SERRANO DI EMANUELE COEN
La devastazione, lo sciamano con le corna, la morte in diretta. Il giorno dell’apocalisse per la democrazia americana. Pensavamo di aver letto e visto tutto dell’assalto a Capitol Hill, il 6 gennaio 2021 a Washington. Dai video virali sui social all’accusa di tentato golpe per Donald Trump. Credevamo di aver visto tutto e invece Andres Serrano, 72 anni, artista e fotografo newyorkese, adesso mette altra carne al fuoco con “Insurrection”, il suo film d’esordio prodotto dall’organizzazione no profit londinese a/political, quasi un’ora e mezzo di immagini dal vivo estrapolate dai social media e intrecciate con filmati d’archivio. L’insurrezione da una prospettiva inusuale, quella dei rivoltosi, che ha attirato su di lui pesanti critiche di filotrumpismo. Al punto che di recente una sala cinematografica, a Londra, ha cancellato la proiezione. Noto per le sue provocazioni, Serrano è bersaglio di contestazioni fin dai tempi di “Piss Christ” (1987), la foto di un crocifisso immerso nell’urina dello stesso artista, opera che lo rese famoso e ora sta per diventare un Nft. Ciuffo riccio ribelle, completo nero e camicia bianca, Serrano ci accoglie
nel cinema La Compagnia a Firenze, in occasione della prima italiana, per il festival “Lo schermo dell’arte”.
Centinaia di smartphone e telecamere hanno mostrato tutto dell’assalto al Congresso degli Stati Uniti. Perché tornare sull’argomento con un film?
«Ho voluto realizzare un’esperienza immersiva per mostrare i fatti a chi non era fisicamente a Washington. A partire dai discorsi di Donald Trump per istigare la folla. È stata una manifestazione che affonda le radici nel fascismo e in altre forme estreme di governo che abbiamo visto in passato. Trump ha detto ai suoi: “Andate lì e prendete il palazzo del Campidoglio” e loro lo hanno fatto. All’inizio i rivoltosi sembravano felici come se stessero andando al circo. Poi, durante la marcia verso Capitol Hill, c’è stata l’escalation, la gente aveva un solo obiettivo: sovvertire il risultato delle elezioni. Davanti a tutte quelle immagini riprese con gli iPhone, circa 200 video, mi sono sentito come Leni Riefenstahl con “Il trionfo della volontà” (celebre film di propaganda nazista del 1935, ndr). Aveva intorno a sé
Un
Manhattan, Alvin Bragg, accusa la com pagnia di frode fiscale.
In Georgia, poi, si indaga sugli sforzi dell’ex presidente di ribaltare i risultati delle elezioni del 2020. Nel mirino non solo le false affermazioni sui brogli, ma anche una telefonata al locale Segretario di Stato con la richiesta di trovare gli oltre undici mila voti necessari per battere Biden.
La candidatura di Trump alla Casa Bianca ha spinto il ministro della Giusti zia Merrick Garland a nominare un pro
SE FOSSE ELETTO DA CONDANNATO
curatore speciale a capo delle indagini federali. «Non c’è conflitto di interessi», ha detto, «ma le circostanze straordina rie lo richiedono». Questo perché, oltre a Trump, anche Biden valuta la ricandida tura. Occorreva, dunque, una figura au tonoma, sganciata dalla politica. Il nuo vo titolare è Jack Smith, magistrato di carriera, registrato come indipendente. Negli ultimi anni ha lavorato presso la Corte dell’Aia, indagando sui crimini di guerra in Kosovo.
L’ultima caccia alle streghe, ha tuonato l’ex inquilino della Casa Bianca. In realtà, anche la sua avversaria Hillary Clinton nel 2016, era stata indagata in corsa. L’in dagine dell’Fbi sull’uso di un server priva to per email governative era proseguita per tutta la durata delle primarie, chiusa poco prima della convention democrati ca e riaperta a undici giorni dal voto.
Quanto la nomina di Smith o un
sradicando i nativi con ferocia. I colonizzatori bianchi lo chiamarono “destino manifesto”, come se avessero il diritto di impossessarsi dell’America in nome del progresso e della civiltà».
In passato si era già occupato dell’ex presidente Usa. Con “The Game: All Things Trump” (2018-2019), la mostra in cui ha esposto mille memorabilia dell’ex tycoon, tra cui la sua torta nuziale in miniatura e la falsa banconota da un dollaro che mostra Hillary Clinton dietro le sbarre. Qual era lo scopo della retrospettiva?
centinaia di persone, ore e ore di filmati a cui attingere». Il paragone con il nazismo non le sembra esagerato? «Si tratta di un gruppo di fascisti che cerca di prendere il potere, ora come allora. Tutti sappiamo che Trump è il leader della rivolta e aspira a diventare un dittatore». “Insurrection” ripercorre gli ultimi 150 anni della storia americana attraverso episodi di violenza e tensione sociale. Dalle rivolte durante la Grande Depressione a Malcolm X e Fidel Castro. Fino all’assalto a Capitol Hill. È la ferocia il filo rosso che collega passato e presente negli Usa?
«L’America è nata dalla violenza. Quando i coloni europei sbarcarono nel Nuovo Mondo conquistarono quella terra
«Per mettere insieme tutti quegli oggetti ho speso 200mila dollari su eBay! A un certo punto mi sono reso conto che Trump era diventato un argomento fondamentale, così ho deciso di farne un ritratto. Lo scopo della mostra non era solo mostrare il suo ego ma anche il suo raggio d’azione: sono talmente tanti i brand che hanno collaborato con lui».
Alle elezioni di midterm Donald Trump è stato sconfitto. La sua era sembra finita, anche se ha annunciato la candidatura alle presidenziali del 2024.
«Il suo futuro come presidente potrebbe essere finito, ma il trumpismo no. Il movimento che ha creato è ancora presente, Trump ha insegnato a molti repubblicani a mentire, essere corrotti, egoisti e cercare di distruggere i democratici».
eventuale processo possano nuocere non è prevedibile. D’altro canto Trump è già sopravvissuto a un procuratore spe ciale, Robert Mueller, che aveva indagato per quasi due anni sulle interferenze del Cremlino nella campagna presidenziale del 2016. Il Russiagate aveva comprovato il ruolo di Mosca nelle elezioni, senza da re un giudizio definitivo su una possibile collusione.
C’è chi è pronto a scommettere che la copertura mediatica potrebbe far gioco. «Trump ritiene che una campagna attiva per una carica pubblica renderà più diffi cile un’incriminazione, perché esporreb be il Ministero della Giustizia a critiche», riflette Rozenshtein.
L’ordinamento americano non preve de eccezioni. «Nella Costituzione, infatti, non si parla di immunità. Pertanto, do vremmo presumere che anche il presi dente sia vincolato alla legge come tutti gli altri; c’è tuttavia chi sostiene che dati i poteri che la Carta gli conferisce, questi non dovrebbe essere soggetti a procedi menti penali in modo che operi efficace mente».
Tecnicamente, se vincesse, Trump sa rebbe comunque in grado di «concedersi la grazia, cosa che probabilmente tenterà di fare», spiega ancora il professore. Po trebbe intervenire la Corte Suprema, ma
in questo caso un conflitto tra Saggi e pre sidente provocherebbe una «crisi costitu zionale senza precedenti». E aggiunge: «Non è mai successo, ma se venisse eletto mentre si trova in carcere, ad esempio, credo che la pena sarebbe sospesa per la durata della presidenza».
Al di là del fanta-scenario, Claire Fin kelstein, docente di legge all’Università della Pennsylvania, è preoccupata per il rischio di violenze e subbugli. «Ma sareb be sbagliato se cominciassimo a stabilire chi incriminare in base alle reazioni che ci aspettiamo da parte dei suoi sostenito ri - mette in guardia - Il governo dovrà prepararsi a questa eventualità».
Per la professoressa la rielezione rap presenterebbe una catastrofe per la de mocrazia. «Mi sento rassicurata dalle mi dterm, in quanto i candidati che, ad esempio, negano i risultati delle elezioni, non sono andati molto bene. Questo sug
NELLE ELEZIONI DI MIDTERM I “SUOI” CANDIDATI SONO ANDATI MALE. MA IL MOVIMENTO NEL PAESE RIMANE FORTE E I FINANZIAMENTI PER LA CAMPAGNA ELETTORALE NON MANCANO
MAR-A-LAGO
Sostenitori di Trump davanti alla sua residenza di Mar-a-Lago in Florida
gerisce che il Paese potrebbe iniziare a vedere oltre questa retorica. Ma credo sia troppo presto per dirlo».
Anche perché il Trump che è tornato in campo continua a essere l’underdog, lo sfavorito ingombrante come nel 2016. È il ruolo in cui gioca meglio. A non tradirlo saranno i fedelissimi Maga, con cui ha mantenuto un filo diretto sul suo social Truth, dopo il bando dell’account Twitter (ora riattivato da Elon Musk). Un’umanità variegata che comprende lavoratori, gen te comune della classe media, ma anche estremisti, complottisti di QAnon per cui il Messia ha ancora il volto del tycoon. Quanto vasta sia la base oggi, è ancora da capire. Il suo Pac Save America, comun que, può già contare su un tesoretto da cento milioni di dollari, capace di diffon dere il verbo. Donald non è debole come molti sentenziano. O sperano.
E-SPANSIVA
italiane
Capitalismo senza regole
L’imprenditoreIL TECNO LIBERISTA
lon Musk, l’uomo più ricco e più spregiudicato del mondo, porterà davvero il suo uccellino blu a volare secondo le regole dell’Unione Eu ropea? La sfida, che partirà dall’anno prossi mo, quando Bruxelles avrà il potere di commi nare multe salate alle società che non rimuo vono contenuti illegali o che diffondono notizie false, è di quelle epocali. O meglio, esistenziali. Lo è per la credibilità dell’Europa che, priva di unicorni e ricca di regole, si è im posta come il gendarme digitale dell’Occidente. E lo è per Musk, l’imprenditore tutto genio e sregolatezza, che dovrà dimostrare, a se stesso innanzitutto, di stare lavorando non solo per un’astratta idea di umanità, come ha più volte ripe tuto nel suo mezzo secolo di vita, ma soprattutto per il be nessere degli umani.
Non sarà facile. L’Europa – e i suoi valori a tutela dei più deboli – è quanto più distante esista sul pianeta Terra dall’etica di un imprenditore che, cresciuto in Sudafrica al tempo dell’apartheid, tra il mito della superiorità di pochi su molti e l’esaltazione di quella che oggi chiameremmo maschilità tossica, ha scelto gli Stati Uniti come la nazione dove potere realizzare i sogni più arditi. A qualunque costo. Il licenziamento ultrara pido di oltre la metà della forza lavoro di Twitter a pochi giorni dal suo acquisto al prezzo folle di 44 miliardi di dollari (rispet to ai 5 di fatturato) non deve sorprendere. E non solo perché l’acquisto si è concluso all’inizio di uno dei periodi di “sboom” che il settore tecnologico americano sperimen ta periodicamente dopo fasi di ascensione stellare – anche Meta e Google stanno li cenziando migliaia di dipendenti dopo avere esagerato con le assunzioni nel periodo della pandemia. Ma soprattutto perché non c’è stata azienda dove Musk non sia stato cac ciato (all’inizio della sua carriera) o non abbia cacciato. Nella sua visione del lavoro, non è importante l’uomo ma la missione, considerata salvifica, a vantaggio di una popola zione intrinsecamente deficiente ma perfettibile con l’ausi lio della tecnologia. Come ha sottolineato il filosofo france se Eric Sadin, Musk impersonifica all’estremo l’ideologia tecno-liberista che in Europa abbiamo da tempo rifiutato. Chi non abbraccia visione, modi e ritmi (sempre irrealisti ci) del capo deve abbandonare. Come lui stesso scrisse ai dipendenti di Tesla, la prima azienda a costruire auto elet triche, che oggi in borsa vale tre volte Toyota nonostante produca una frazione delle vetture: «O mi scrivete un email dicendo dove sto sbagliando, o mi chiedete chiarimenti o fate quello che vi dico. Altrimenti ve ne andate».
accanto al sito di lancio, aveva reso possibile la realizzazio ne dell’idea di Musk: una “low-cost dello spazio” il cui obiet tivo era produrre, con una piccola squadra di ingegneri, razzi (più semplici) e viaggi spaziali (meno ambiziosi) a una frazione dei costi sostenuti dalla Nasa. Naturale dun que che veda il lavoro a distanza, esploso durante il biennio pandemico e privilegiato dagli informatici, come fumo ne gli occhi: lo permette ai suoi dipendenti solo dopo le 40 ore di lavoro canonico in ufficio. Lui, che lavora 80 ore a setti mana su una scrivania vicina alle altre, che considera le va canze una iattura e che all’inizio di ogni nuova impresa ha dormito per giorni su un grande cuscino sotto la scrivania, si attende dai dipendenti un impegno e una dedizione simi le. Non a caso le aziende di Musk prediligono giovani ambi ziosi appena usciti dall’università con il massimo dei voti o ex-militari abituati all’obbedienza. In Europa definiremmo questi comportamenti anti-sindacali: nella filiale francese di Twitter in questi giorni c’è una vera e propria levata di scudi contro il nuovo boss, con tanto di dipartita dell’am ministratore delegato francese. Per non parlare delle inge gnere: in tante hanno tentato di lavorare in questa cultura
MODI DA DESPOTA, PRETENDE CIECA OBBEDIENZA. LICENZIA SENZA REMORE, TOLLERA SESSISMO E MOLESTIE. ODIA LO SMART WORKING. MA L’UE POTREBBE ESSERE L’INCUBO DI ELON MUSK
machista in cui le molestie sessuali sono tollerate, per poi scappare a gambe levate. Inevitabile che dopo avere creato le sue prime aziende tra Silicon Valley e Los Angeles, nella California progressista, Musk abbia finito per traslocare in Texas, dove una politica di stampo repubblicano e tasse più basse gli sono più congeniali.
Ma molto spesso contraddire Musk equivaleva, ed equi vale, ad essere licenziati in tronco, indipendentemente dal merito. La riconoscenza non è uno dei suoi doni. In seguito al fallimento del primo lancio del razzo di SpaceX, la sua società spaziale, riuscì perfino a insultare pubblicamente l’ingegnere Tom Mueller che, vivendo per mesi in un garage
Eppure la dimensione delle sue ambizioni, l’infinita tolle ranza per il rischio, ricompensata con guadagni miliardari, e la radicalità dei suoi comportamenti, ne hanno fatto una leg genda negli Stati Uniti, al punto di influenzare la scrittura di uno dei più famosi supereroi dell’universo Marvel: l’invento re miliardario Tony Stark. Idolo dal cuore digitale di milioni di ragazzini innamorati della tecnologia e incantati dalla sua lotta contro i mostri dell’umanità, Stark è nei film aiutato dalla rossa Pepper Potts, l’e quivalente di una moderna badante. Nella realtà, Musk è stato affiancato per 12 anni dalla leggendaria segretaria tuttofare Mary Beth Brown, conosciuta come MB. Una nota di colore: Musk adora sostituire i nomi con delle lettere, al punto che un paio dei suoi nove figli, avuti da quattro donne diverse, so no chiamati X e Y. E così anche due delle
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sue creazioni aziendali: X.com e SpaceX. L’imprenditore geniale non è diventato il personaggio impossibile e controverso di oggi solo grazie a una mente scientifica, una memoria prodigiosa e una smisurata fiducia in se stesso. L’arma nascosta è stata la sua famiglia, soprattutto il nonno Joshua Halde man. Ricco e folle medico-imprenditore ca nadese, lasciò il Canada accusando il gover no di eccessiva interferenza nella vita dei cittadini e ricostruì in Sudafrica, sfruttando i benefici dell’a partheid, un impero industriale. Prese a girare il Continente guidando un aereo senza strumenti, seguendo a volte solo una mappa topografica, accompagnato dalla moglie e dai tre figli, che trascinava in improbabili avventure fino al gior no in cui a 72 anni morì in un incidente aereo. La sua filosofia genitoriale è stata trasmessa a Musk: i figli non hanno biso gno di supervisione perché sono capaci di qualsiasi cosa, basta che prendano la decisione di farla. Sarebbe stato orgo glioso del nipote. Dopo un’infanzia passata sui libri (“Il si gnore degli anelli” e “Guida galattica per autostoppisti” tra i preferiti), in giochi di ruolo con il fratello e, più tardi, sul Commodore 64, non ancora diciottenne, Musk userà proprio il Canada per farsi strada verso gli Usa e concretizzare il suo perenne sogno di sbarcare su Marte. Dopo i primi anni alla Queen’s University, Musk approda prima in Pennsylvania do ve studia fisica e finanza, e poi a Stanford, che, nella tradizio ne degli imprenditori high-tech dell’epoca, lascia dopo pochi mesi per fondare, con il fratello, Zip2, la sua prima start-up. Gli darà i milioni necessari per fondere la sua prima impresa di servizi finanziari, X.com, nella PayPal del collega Peter Thiel. Ne verrà estromesso — un’umiliazione che non ha di menticato — ma ne uscirà miliardario, con i mezzi per get
AMBIZIOSO E SPREGIUDICATO INTENDE TRASFORMARE TWITTER IN UN IMPERO DELLA COMUNICAZIONE DIGITALE MONDIALE. INTANTO CINGUETTA SU TUTTO DALL’UCRAINA A TAIWAN
tarsi nell’avventura spaziale e nelle auto del futuro. Grazie alle imprese spaziali, che lo hanno portato a colla borare direttamente con il governo americano, è riuscito a inviare in orbita quell’insieme di satelliti, Starlink, che da quasi un anno permettono agli ucraini di comunicare du rante l’invasione russa e a lui di mettere bocca nella politi ca internazionale. Un obiettivo, almeno al momento, più a portata di mano della creazione della vita su Marte. I risul tati non sono quelli sperati. Nel giro di mezzo autunno Mu sk ha offerto un piano di pace per l’Ucraina e ha offeso gli ucraini; ha postato un tweet sull’accesso a Internet degli iraniani che ha messo in pericolo i protestanti e ha suggeri to un accordo tra Taiwan e la Cina che prevedeva la cessio ne parziale di potere di Taiwan a Pechino. Dimostrando, ancora una volta, una totale assenza di empatia per le sorti degli uomini e delle donne del pianeta in cui vive. Che sarà ora di Twitter, la piazza più grande dell’intellighenzia mon diale? Musk ha fatto sapere in un tweet che è solo «un’acce lerazione per creare X (ndr: l’ennesima), l’applicazione di tutto»: un connettore di tutti i social, un impero della co municazione digitale mondiale. Sempre a patto di guardar si le spalle e di non fare la fine di Tony Stark.
Con creatività e passione dimostriamo ogni giorno che moda, etica e sostenibilità possono incontrarsi in prodotti fashion, realizzati con materiali cruelty-free di nuova generazione: performanti, bio-based, riciclati ed a basso impatto ambientale. Perché una borsa dalle mele, dal mais, dal cactus e dai funghi è pura innovazione al passo con i tempi.
Miomojo. Dove L’Etica incontra l’Estetica.Una donna con la figlia in braccio cammina sui binari della ferrovia a Ventimiglia
L’
alba è il momento cruciale per Ventimiglia: quando il Sole si affaccia timido all’o rizzonte, si avvia il pingpong dei respingimenti dei migranti alla frontiera con la Francia. Con picchi di 200 al giorno, co me racconta il monitoraggio compiuto dal le ong che operano sul posto. Sono circa 50 metri quelli che separano i due caseggiati della polizia ai due confini. Lungo il percor so, una rete metallica, comparsa nelle ulti me settimane, serve come deterrente per chi vorrebbe scappare imboccando strade alternative, spesso letali. I migranti arriva no in gruppetti, a piedi, trainando valigie, portando fagotti di vestiti, effetti personali, quel poco che basta per ricominciare altro ve. Tutto da capo. Passano gli ultimi centi metri di suolo italiano e vengono fermati dalla Gendarmerie francese. Che li prende, li mette in attesa per decine di minuti in piccoli container e li riporta in Italia con le auto, 50 metri più in là. «Vous ne pouvez pas passer. Vous n’êtes pas en règle avec les documents!», urlano gli agenti. Così per in tere mattine, da anni. Quella di Ventimiglia non è un’emergenza, ma la bieca normalità. Ma dopo che l’11 novembre scorso la nave Ocean Viking di Sos Méditerranée è sbarca ta a Tolone anziché in un porto italiano, in nescando tensioni con il governo francese, i controlli d’Oltralpe si sono fatti più serrati. La Francia ha disposto l’utilizzo di 500 uo mini in più nei pressi della frontiera. La do gana è disseminata di camionette. La poli zia apre le macchine, si inerpica per con trollare i cassoni dei camion. Nessuno può dileguarsi. Attraversare la terra di confine, per i migranti, è diventato un biglietto for tunato della lotteria. Se prima esisteva un margine di tolleranza, ora non più. C’è chi ci prova anche tre, quattro volte in un gior no solo, sperando di non essere beccato. La Francia, però, non è l’eldorado d’Euro pa. Sara Turconi per anni ha lavorato a Parigi nei centri d’accoglienza per migranti e ora si occupa di Ventimiglia con la Fondazione Somaschi, diretta da Alessandro Volpi. «Spesso l’accoglienza è con finata in vecchi capannoni dove le condizioni di vita, a iniziare da quelle igieni
che, sono al limite del tollerabile», spie ga. E non si diventa cittadini francesi in un battito di ciglia: «Appena arrivato, finisci nella “procedura Dublino” e sei in stand by. Per il governo francese, rimandarti da dove sei venuto è meglio. Altrimenti ottieni un permesso di soggiorno che si rinnova ogni sei mesi. Ma non hai diritto a lavorare, ad avere una vita sociale. Vivi in un limbo. Puoi integrarti solo se hai documenti, se ot tieni lo stato di rifugiato. Allora vai a scuola, ti aiutano a cercare lavoro, un appartamen to. Ti insegnano a essere cittadino francese. Però, prima di quella fase, no». D’altro can to, la situazione a Ventimiglia «è in emer genza costante», dice Giulia Berberi, refe rente delle attività sanitarie di Medici del Mondo. Le risorse economiche sono poche, il flusso migratorio è costante con picchi in
AL CONFINE
Qui sopra, l’accampamento dei migranti in transito nei pressi del cimitero di Ventimiglia. Le ong denunciano le pessime condizioni in cui si trovano a vivere
alcuni periodi dell’anno. «Il Comune è stato commissariato a giugno, quindi, se già pri ma la vecchia giunta si occupava poco della questione, ora ancora meno», dice Jacopo Colomba di WeWorld, onlus presente sul territorio. Il parroco che si occupava di ac cogliere in comunità i migranti, don Rito Alvarez, è stato messo da parte. «Il vescovo ha preferito spostarmi in un paesino sper duto. Una volta ho proprio ricevuto una te lefonata in cui mi veniva fatto notare che avevo stancato con la mia idea di acco glienza», ha detto. La cittadinanza, oltre che satura, sembra essere insofferente a chi si aggira in città in cerca di una nuova vita. Come i conducenti dei bus che, con la scusa del biglietto non pagato, non si fermano per far salire i migranti che chiedono di essere trasportati dalla frontiera fin giù in città. Sui treni che partono da questa città ligu re e che fermano a Mentone-Garavan (roc caforte del Rassemblement National di Ma rine Le Pen, ora nelle mani del neopresiden te Jordan Bardella) i rastrellamenti delle carrozze non lasciano scampo. Le ispezioni partono dalle sedute, alcuni agenti restano fuori e controllano il retro dei mezzi, la ca bina del macchinista. Aprono gli sportelli delle centraline elettriche e dei comandi ge
nerali per vedere se ci sono bambini stipati dentro. Alcuni migranti si arrampicano sul tetto. A decine hanno cercato di scappare restando aggrappati alla sommità dei treni. Senza sapere che il voltaggio della linea fer roviaria, tra Italia e Francia, subisce un in nalzamento d’intensità. In diversi sono ar rivati dall’altra parte carbonizzati: una volta scoperti, il riconoscimento è quasi sempre impossibile. Chi viene sorpreso a scappare in Francia, viene fatto scendere, prelevato e riportato in Italia. Non sempre, però.
«Ce l’hanno fatta! Sono passati, sono passati!». Al telefono c’è Lori, moglie di Fi lippo. Sta dicendo al marito che le persone che avevano accudito in casa fino a poco prima hanno oltrepassato il confine. La coppia vive in una villetta a strapiombo su Ventimiglia. Sono i disturbatori del norma le fluire delle cose. Lui, barba e capelli lun ghi e bianchi, ogni mattina monta sull’Ape rossa e va alla stazione per rovinare la piaz za ai passeur. Cioè ex migranti, ora stanzia li, che in cambio di centinaia o a volte an che un migliaio di euro assicurano un pas saggio al di là della frontiera alle persone in transito. La dinamica, il più delle volte, si rivela una truffa. Nessun passaggio, nessun biglietto vincente della lotteria. Un mecca
NASCOSTI
Un gruppo di migranti tenta di entrare in Francia, dall’Italia, attraverso il sentiero montano “Passo della Morte”. A sinistra, i controlli della polizia francese per trovare migranti nascosti sui mezzi che passano la frontiera a Ponte San Ludovico
nismo di business ben oliato. Con il passag gio alle frontiere tenuto a freno, il numero di questi “intermediari d’affari” è aumenta to. «Coglione, levati di mezzo!», sbraita Fi lippo. Sta cercando di farsi carico di una famiglia di curdi in trattativa con un pas seur. Li carica sul furgoncino e parte. Lo fa gratuitamente, come privato cittadino, non chiede nulla in cambio. Racconta che «nel giro» ci sono anche i tassisti. «Prendono una percentuale dai passeur per far arrivare alla frontiera i migranti. Così questi manco fanno il lavoro sporco». E dove li portano? «Chi lo sa». A casa la coppia ha attrezzato il sottoscala come dispensa con le provviste per chi arriva. «Pasta al sugo, tonno in sca tola, legumi, qualche vestito, scarpe per tutti, tutte uguali», spiega lui che usa anche donazioni di privati cittadini. Sneaker bian che e nere, come quelle che indossa lui. Lori dà il benvenuto alla famiglia: «Filippo, que sti, così conciati, non passeranno mai». Si guardano, sorridono, parte il piano d’emer genza. «Dovete sembrare come noi», dico no. Al capofamiglia curdo fanno radere la barba e tagliare i capelli. Cambio del guar daroba: via i vecchi vestiti, addosso un completo che fu elegante. Alla moglie chie dono di togliere il velo, «solo per il tempo
del viaggio», assicurano. Dopo le prime resistenze, accetta. I capelli sono troppo ri conoscibili. Le fanno indossare una parruc ca. Per lei un vestito a fiori per sembrare una turista di ritorno dall’Italia. Ai tre figli, dei peluche in braccio per le femmine, il modellino di un treno per il maschio. «Dob biamo fare in tempo per il treno delle 15: è quello con più francesi a bordo, che torna no a casa dopo il mercato». La famiglia ce l’ha poi fatta e dovrebbe già essere in viag gio per Parigi.
L’arrivo al confine è interrotto da una stradina in salita che conduce al “Passo del la morte”, l’alternativa per gli uomini, spe cie se giovani. Si tratta di un sentiero sulle montagne rocciose che si snodano lungo la costa ventimigliese e che arrivano in Costa
Il cimetière du Trabuquet, a Mentone, ospita il sacrario dove sono sepolti i militari provenienti dalle colonie africane caduti durante la Prima guerra mondiale
Azzurra. Il suo utilizzo non risale alla crisi migratoria, ma ha origini più antiche. È la strada che gli ebrei imboccavano come via di fuga durante la Seconda guerra mondia le. Lassù vive “l’eremita”: Enzo Barnabà, si ciliano, 78 anni, ex professore universitario di Lingua e letteratura francese. Vive in montagna, è il massimo esperto di quel passo: è lui a indicare le vie più praticabili ai migranti che passano da quei luoghi. E che sul cammino gettano abiti e scarpe, come briciole di Pollicino, rischiarando il passag gio a chi verrà dopo di loro. Quella strada è, finora, la più sicura — dal punto di vista statistico — per ritrovarsi in Francia: è l’u nica che, curiosamente, non è ancora pat tugliata. Termina sopra il cimitero di Men tone, Cimetière du Trabuquet. Proprio ac canto alle tombe che contengono le spoglie di migliaia di soldati che combatterono per la Francia nelle trincee delle Prima guerra mondiale: marocchini, algerini, tunisini, senegalesi provenienti dalle colonie dell’Impero. Un secolo dopo, i loro discen denti attraversano come fantasmi indesi derati quel lembo di terra che onora la glo ria dei morti «pour la patrie francaise».
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TREGUA AL BIVIO TRA
DI GIGI RIVA
Astar dietro alle parole sembra che la guerra in Ucraina non debba finire mai o finire do podomani tanto sono ondivaghe le dichia razioni sui due fronti persino a distanza di pochi minuti. Escludendo l’umoralità che non è concessa ai leader di Paesi bellige ranti e dovendo per forza trovare un profilo razionale, sembrano piuttosto prese di posizioni funzionali a man dare messaggi. Ad uso interno o a uso esterno, agli alleati per rassicurarli o spaventarli, al nemico per studiarne le reazioni, alle proprie truppe per rincuorarle. Una gamma infinita e contraddittoria in cui è difficile raccapezzarsi. E
poi c’è chi fa il poliziotto buono e chi il poliziotto cattivo all’interno della stessa amministrazione, secondo un ca novaccio che abbiamo imparato a conoscere. Insomma una gamma di sfumature in cui è difficile raccapezzarsi. Se non tenendo ferma la barra di un percorso comunque de lineato e che disegna una trattativa ormai più o meno sot terraneamente iniziata per arrivare finalmente a una tre gua. Dove il «finalmente» è l’avverbio delle nostre speran ze: le guerre hanno di solito una durata molto più lunga dei nove mesi che conta questa in atto.
Prendiamo per cominciare Volodymir Zelenskyi, 44 an ni, presidente dell’Ucraina ed ex attore comico. Volle igno rare, a febbraio, gli allarmi provenienti da Washington che gli segnalavano l’imminente invasione dei russi (e gli viene ancora rimproverato). Quando tutti gli consigliarono di fuggire da Kiev, oppose fieramente una frase diventata storica: «Ho bisogno di armi non di un passaggio». Gliele hanno fornite, e ha condotto la resistenza in maglioni e t-shirt militari. Gli americani hanno guidato i Paesi occi dentali nel desiderio di bilanciare le forze in campo e di fermare le mire imperiali di Vladimir Putin. Qualcosa ha iniziato a incrinarsi con Joe Biden, il presidente america no, nel mese di giugno quando, subito dopo l’ennesimo fi nanziamento di un miliardo di dollari, ha chiesto di più ed è stato bollato come in grato. Le incomprensioni sono durate tut ta l’estate e si sono accentuate in autunno. A conferma che sponsor e protetto non hanno più la stessa visione circa le pro spettive del conflitto. Agli americani sem bra bastare l’aver fermato l’offensiva al Dnipro e pazienza per quel venti per cento di territorio nelle mani di Mosca. Gli evi
Riva GiornalistaUn edificio dopo la nevicata a Borodianka, dopo il ritiro russo nel distretto di Kiev
denti successi sul campo di battaglia delle truppe ucraine hanno invece convinto Zelenskyi ad alzare la posta, indi care la riconquista totale di ciò che era ucraino fino al 2014 (dunque compresa la Crimea presa dai russi otto an ni fa) come obiettivo. L’inerzia del conflitto sta dalla sua parte e non riuscirebbe a spiegare al suo popolo il sacrifi cio di centomila morti, i massacri, le angherie, i disagi, le sofferenze sopportate con grande disciplina in nome della difesa comune della patria. Li tradisse accettando un compromesso proprio adesso metterebbe a repentaglio la credibilità e il suo futuro politico, ammesso che ne possa avere uno: salvando i paragoni, nemmeno Churchill fu uo mo della guerra e del dopoguerra. Eppure sa, Zelenskyi, che senza gli Stati Uniti non può vincere, non può sconfig gere da solo il nemico. E dunque deve digerire le bacchet tate sulle dita diplomatiche, le sconfessioni. Come quando le agenzie di intelligence americane hanno indicato il go verno ucraino come l’organizzatore dell’attentato a Mo sca, il 20 agosto, in cui è morta Darya Dugina, la figlia dell’ideologo ultranazionalista Alexander Dugin, proba bilmente il vero bersaglio della bomba. O, più recente mente, come quando Washington si è affrettata a smentire
TRA VALORI E BORSE
re l’esercito nemico oltre la frontiera. Putin, sul fronte op posto, ha capito da mesi che non può pendersi tutta l’U craina come era nel suo piano iniziale. E per poter comun que contrabbandare una sconfitta per una vittoria (anche lui ha lasciato sul terreno centomila militari) ha bisogno di tenere ciò che ha già, dire al suo popolo che i fratelli se parati sono stati liberati dal giogo nazista ucraino e ha an nesso i territori dove abitano alla madre patria. Così spin ge per una soluzione negoziale. E se qualcuno si illude che rovesciandolo chi viene dopo scenderebbe a più miti con sigli manda in avanscoperta il suo tirapiedi Dmitrij Med vedev, già presidente della Federazione russa incaricato di tenergli in caldo il posto quando la Costituzione gli impe diva un terzo mandato consecutivo, perché mostri la fac cia truce in modo da apparire, lui, un “moderato”. Ha scrit to Medvedev: «Kiev è solo una città russa in cui si è sempre pensato e parlato russo. Vogliono che gli riconsegniamo la Crimea? Sono loro a doverci riconsegnare Kiev».
Dunque la trattativa corre su un crinale sottile dovendo prevedere due scenari che paiono inconciliabili: salvare il soldato Zelensky e salvare il soldato Putin. Impedire che uno dei due perda la faccia pena il naufragio di qualunque accordo. Sullo sfondo ma non troppo il resto del mondo che vorrebbe riprendere a fare affari senza il freno tirato di
che fosse russo il missile che ha ucciso due contadini polacchi ripiegando su un errore della contraerea ucraina. C’era da evitare un conflitto diretto Mosca-Nato e nello stesso tempo cercare di usare l’inciampo per spingere il riottoso Volodymir a un ta volo negoziale. I dieci punti della sua pro posta inviata al G-20 di Bali ne contengono uno irricevibile per Putin, quello sul ripri stino delle frontiere internazionalmente riconosciute. Davanti alla prevedibile furibonda reazione americana ha però scelto il suo consigliere politico princi pale, Mykhailo Podolyak, per sfumare i toni seppur solo parzialmente: «Ci può essere una pace anche prima della liberazione di tutti i territori». Ma poi il corollario: «Per ché se conquistassimo una città importante nel Donbass inizierebbero processi irreversibili nelle élite politiche russe e la guerra potrebbe finire prima di liberare tutto con mezzi militari».
È l’auspicio di un golpe a Mosca come alternativa al con flitto permanente. Auspicio o illusione? Il capo di stato maggiore Usa Mark Milley esclude che Kiev possa espelle
una guerra che affossa gli indici di Borsa, impedisce tra embarghi e difficoltà logistiche il libero commercio, fa au mentare il prezzo di diverse materie prime. La Cina, l’India manifestano segni di insofferenza. Erdogan non vede l’ora di fare da mediatore. Il Vaticano si è messo a disposizione. Solita assente nel grande gioco, l’Europa delle finanziarie emergenziali aspetta che altri tolgano le castagne dal fuo co. Il bivio è chiaro: il sostegno all’Ucraina fino in fondo salva i principi e affonda le economie. L’accettazione della realtà del campo di battaglia salva le economie e affonda i principi. Prego, scegliere.
DIVERSAMENTE RUSSI
Nikita ha poco più di vent’anni e una nostal gia canaglia della pioggia a San Pietrobur go. Nemmeno i primi temporali a Tbilisi, dopo un’estate più secca e più lunga del so lito, riescono a ridargli le sembianze del giovane che è e non del soldato russo che sarebbe stato, se avesse davvero voluto. Sorride poco e sghembo, specie quando gli si chiede perché frequenta le manifestazioni dei rifugiati ucraini in piazza Libertà, come quella di un lunedì sera di ottobre, dopo l’ennesimo bombar damento russo su Kiev in cui ha bruciato il suo passaporto. «Non ricordo esatta mente come avessi trascorso le ore prece denti: di sicuro avevo ricevuto ancora al tre notizie su ciò che sta accadendo in Ucraina e ciò che la Federazione Russa sta facendo. Non ne ero sorpreso ma quel giorno l’attacco massiccio sulle città e con tutto questo costante retroscena di violenza mi è sem brato ancora più mostruoso, insopportabile. E visto che vivo adesso in un altro Paese e ho qui il privilegio di poter esprimere le mie posizioni politiche in libertà e in sicu rezza, ho pensato che avrei dovuto fare qualcosa». Dopo questa azione eclatante, Nikita per ventiquattro ore è diventato il più famoso tra i residenti russi in Ucraina: il suo volto magro e austero campeggiava su tutti i notiziari e le prime pagine, ovunque sui social la sua azione era ri presa e replicata. Puntuali sono arrivate le critiche e i giu dizi. «Non mi interessa piacere a tutti. Qualcuno ha detto che non ho bruciato il mio vero passaporto, altri dicono che faccio gli interessi della Russia, facendo parlare di me durante una manifestazione organizzata in favore delle vittime ucraine. Pensino quel che vogliono: non sono un codardo dell’ultima ora. Non ero un fan di Putin già da un paio di anni e quando in Russia la misura è stata colma,
sono andato via: prima in Armenia. Ora sono in Georgia da due mesi». Nikita è solo uno dei 100 mila russi, stimati dall’ufficio immigrazione georgiano, entrati nel Paese in nove mesi di guerra. Qui li chiamano “generazione Eltsin”. Sono millennials cresciuti a pane e sogni di libertà, ma non solo. Adesso sono riparati in Georgia e, per farsi ac cettare meglio, da ucraini e georgiani, partecipano alle manifestazioni, si dichiarano contro Putin, fanno gesti
eclatanti. Ma non tutti approvano: soprattutto chi si è conquistato la piazza con il sangue versato dalle proprie famiglie in Ucraina. Medea Tasguria, vent’anni, è georgia na per via materna e ucraina per via paterna. Nella sua storia e sul suo volto perfetto, tradito dalle mani nervose che lo visitano meccanicamente, è concentrata tutta la rabbia delle genti confinanti, dei destinati all’eterna con quista dell’imperialismo russo. Sul cartel lo che espone sempre in piazza c’è scritto: «I miei genitori hanno pagato due volte». «Non credo a tutti questi attivisti russi che invadono il nostro spazio di azione. Dico no di essere oppositori? Di volere sostene re l’Ucraina? Se lo fossero davvero, per di mostrarlo, allora dovrebbero mandare soldi all’esercito ucraino. Perché più soldi si spendono in armi, meno soldi si
Laura Silvia Battaglia GiornalistaNikita a una manifestazione pro Ucraina. Sotto, uno dei pub di Tbilisi gestiti da russi
spendono per sostenere i rifugiati ucraini qui e più in fretta si butta giù Putin dal Cremlino. Ma nessuno di loro lo fa. Non credo affatto nelle loro buone inten zioni». La sua rabbia di attivista a Tbilisi è condivisa da molti georgiani, critici nei confronti dell’atteggiamento morbido del governo locale verso Mosca. Nina Naka shidze, sessantenne manager di Mtavari, la televisione meno filo-governativa del Paese, lo ribadisce non appena ne ha l’occasione, parlan do con i media stranieri dello stato sempre più critico del la libertà di stampa in Georgia dal 2018 in poi: «C’è un elefante nella stanza da queste parti: è la pressione di Mo sca sui Paesi confinanti che hanno scelto l’Europa, una pressione che si esprime nella penetrazione nei media e nelle istituzioni. Qui ne sappiamo qualcosa. Per questo, l’azione, anche la più meritevole, di questi giovani russi all’opposizione, non diminuisce la mentalità imperialista del Paese. Qui non dimentichiamo le aggressioni su Osse zia e Abkazia. Qui non ci fidiamo non solo di Putin, ma anche dei russi di buona volontà». Il solco di separazione tracciato nel passato lavora anche adesso, nonostante i georgiani non neghino l’accoglienza a nessuno. Così si creano catene migratorie virtuose e i russi che entrano in Georgia con l’unico visto possibile –il turistico, che ha validità massima di un anno – si orga
nizzano come possono. Vladymir Dubovskij è il più noto dissidente russo a Tbilisi. Il suo piccolo appartamento in affitto – una casa storica nel centro – è il porto di mare della prima accoglienza: due piccole stanze e molti più letti e materassi. Sorride mentre scansa le luci per il ma ke-up della sua ragazza, russa come lui, dissidente come lui. «Qui cerchiamo di fare del nostro meglio». Vladymir, in Russia, era il responsabile dell’organizzazio ne delle manifestazioni di Alexey Navalny: «Non sono uno importante ma sono conosciuto. Se non fossi andato via, sarei stato arrestato di certo. Ho avuto la fortuna di capire in tempo che il cerchio si stava stringendo anche intorno a me». Gli chiediamo se non ha timore di essere scovato dai servizi russi fuori patria. «Certamente. Peral tro c’è anche da chiedersi se la Georgia non sia immune da queste infiltrazioni, come invece ha denunciato di re cente il Kazakistan. Non ho dubbi che da qui siano passa
FUGGONO DALL’ARRUOLAMENTO FORZATO E SCONTANO LA DIFFIDENZA DEI RESIDENTI MA ANCHE DEI CONNAZIONALI STABILITISI QUI DA MOLTO TEMPO. E TEMONO GLI INFILTRATI DI MOSCA
ti e passino ancora. Proprio per questo voglio sfidare il governo georgiano che ha rigettato la mia richiesta di asilo politico. Questa terra deve dare posto ai dissidenti russi, non ai sostenitori di Putin». Se Vladymir non ha ti more di esporsi, molti altri si guardano bene dal mettere i manifesti. Tanti chiedono di non essere fotografati: han no timore per i familiari o per le fidanzate, alla ricerca ancora di una via di fuga da Mosca. Sono soprattutto uomini, giovani e giovanissimi e vivono in rifugi fatiscenti e sotterranei nella città vecchia di Tbi lisi, riadattati per sopravviverci dentro senza tanti comfort. Le distrazioni sono poche ma sufficienti: musi ca, letteratura, internet e birra, parecchia birra. Kostya Skobar e Alexei sono amici, entrambi musicisti. Hanno messo su uno spettacolo che replicano quasi ogni sera nel Centro per migranti del cuore della città vecchia di Tbilisi. Il tentativo è quello di farsi accettare per ciò che si è ma non è facile. «Sto cercando di imparare il georgiano – dice Koysta – vorrei fare capire che sì, sono orgoglioso della mia nazione e della mia cultura ma che mi sento anche come un figliastro. Vorrei fare capire che noi sof friamo e che, grazie anche alla rete e all’apertura verso l’Occidente del nostro Paese negli anni di Gorbaciov, molti di noi hanno sognato un Paese diverso, hanno spe rato di essere come tutti gli altri giovani del mondo». La rete, il disgelo, la globalizzazione: sono questi gli anel li della catena intellettuale e storica che accomunano
tutti i giovani della generazione Eltsin. Olga Samulik, che a San Pietroburgo faceva l’estetista e qui si barcamena come madre e moglie lo ripete fino allo sfinimento, men tre tiene tra le braccia la figlia di cinque anni. Con il ma rito, hanno trovato da un mese un appartamento più de cente dello shelter in periferia. «Qui però non ci sono russi e certe volte mi trovo in imbarazzo – dice, dinocco lando le sue lunghe gambe – l’altro giorno dalla parruc chiera le vicine parlavano male delle donne russe. Io mi sono fatta piccola piccola. Avrei dovuto raccontare loro la mia storia. Ancora non ho il coraggio». Olga ha confezionato in casa una bandiera russa a due co lori. Ha tolto il rosso. «Noi dissidenti la consideriamo sim bolica del sangue che il nostro regime fa versare ai civili innocenti. Se vedete uno di noi con questa indosso, alle manifestazioni o su internet sapete esattamente chi sia mo e come la pensiamo». Olga ha una collezione di selfie con questa bandiera in tutte le pose. «Ho deciso, mio ma rito è d’accordo – sorride, regalandogli uno sguardo com plice domani posto queste foto su Instagram».
Violenza metropolitana
FIGHT CLUB ITALIA,
RISSE,
RIONI OSTAGGIO
SCORRIBANDE GIOVANILI. CENSITI COME RAID
DI BABY-GANG, NASCONDONO IN REALTÀ
UNA GAMMA DI VIOLENZE, SPIEGANO GLI ESPERTI. UN DISAGIO SPESSO ANTICAMERA DI REATI
DI ANTONIO FRASCHILLA
La morte di Cristian Martinelli a Casale Monferrato per un insulto e un paio di occhiali. Il centro commerciale di Mari no preso di mira ogni fine set timana, tanto da costringere i proprietari a vietare l’ingresso ai minori non accompagnati. A Roma il quattordi cenne della scuola Armellini che si presen ta in classe con una pistola a pallini e la punta al compagno che lo infastidiva. E poi l’ennesima faida milanese con sparatoria tra cantati trap nel centralissimo corso Co mo e, ancora, la banda di giovanissimi che in centro a Palermo seminava il terrore la sera con atti di pura violenza. Sono scene di un’Italia che ogni giorno si sveglia con una notizia di cronaca su minorenni vio lenti con il seguito di aggressioni, rapine e piccoli reati. Eventi tutti classificati sotto la definizione di “baby gang”. Secondo uno studio dell’Università Cattolica nei primi mesi dell’anno sono apparsi quasi duemila articoli su violenze legate a baby gang, in tutto il 2017 erano stati solo 217. Cosa sta accadendo in Italia allora? È solo una mag giore attenzione mediatica a certi fenome ni oppure davvero alcuni reati sono in au mento? E, soprattutto, sono tutte baby gang o il problema della violenza minorile recente è qualcosa di può profondo e diffi cilmente catalogabile?
Negli ultimi mesi sono apparse su molti giornali le “mappe” delle baby gang. Grup
pi criminali censiti, che hanno spesso una organizzazione e un capo, una sigla e dei riferimenti culturali ben precisi: a Milano, per esempio, ci sono i Ripamonti M5 ai giardini di via Fra Pampuri, il gruppo Z4 di corso Lodi, la K.O del quartiere Adriano, la gang Duomo alle Colonne di San Lorenzo e poi un’altra mezza dozzina di bande gio vanili da Corvetto a Bicocca. A Palermo c’è la gang di via Maqueda, composta in gran parte da figli di immigrati, e gruppetti che si rifanno ai loro quartieri, dallo Zen al Cep; a Roma c’è la Anundo gang’s La18 o La17, protagoniste anche di aggressioni a disabili o di revenge porn nei confronti di coetanee minorenni. E poi i latinos in Lombardia, i magrebini a Torino. A Pado va sono state identificate alcune gang che ripetutamente organizzavano risse tra lo ro con tanto di appuntamento con orari e indirizzi definiti. Sono tutti gruppi censiti, questi, e noti alle forze dell’ordine. Ma il fenomeno che raccontano ogni giorno le cronache è legato a questa tipologia di gruppi? Ascoltando chi vi ve la strada la risposta è no, non tutto è assimilabile al le gang.
Gemma Tuccillo, capo di partimento per la Giustizia minorile e di comunità, commentando i dati dell’os servatorio Trascrime-Uni versità Cattolica è chia
A STRADA È UN RING
Violenza metropolitana
ra: «Crescono i reati di gruppo, ma ciò che ha segnato una differenza e un’evolu zione nell’ultimo decennio, rispetto ai reati commessi dagli adolescenti - sia da soli sia in gruppo - è il carattere di crescente effera tezza, violenza gratuita ed apparente insen satezza di alcune condotte, riconducibili spesso a gruppi agglomerati in maniera fortuita e contingente». Il rapporto, pre sentato qualche settimana fa, analizzando i dati delle forze dell’ordine e delle procure registra «come le gang giovanili siano pre senti nella maggior parte delle regioni ita liane e la loro presenza sia indicata come in aumento in diverse aree del Paese. I cri mini più spesso attribuiti alle gang giova nili sono reati violenti (come risse, percos se e lesioni), atti di bullismo, disturbo della quiete pubblica e atti vandalici». Secondo i dati dei carabinieri, in un sondaggio svolto tra i comandi provinciali, il 47 per cento dei reati che hanno a che fare con il bulli smo sono commessi da gruppi di minori, e lo stesso vale per il 65 per cento di reati per «risse» e per il 56 per cento per reati che hanno a che fare con il disturbo della quie te pubblica.
Ed è questo un elemento chiave e nuovo rispetto al passato. Come spiega il prefetto Francesco Messina, direttore centrale an ticrimine della Polizia: «Dobbiamo stare molto attenti alla terminologia e ad ana lizzare quello che stiamo registrando nei mesi del dopo pandemia. Quando facevo il capo della squadra mobile a Milano, intor no ai primi anni Duemila, per la prima vol ta ci siamo trovati di fronte il fenomeno delle “pandillas”, legato all’immigrazione dal Sud America: lì avevamo una struttura criminale con capi e riti di affiliazione. E questo fenomeno si è poi esteso anche al resto del Paese. Ma oggi riscontriamo an che un altro fenomeno, parallelo a quello delle baby gang che conosciamo: quello della devianza minorile, aggravata dal post pandemia che ha visto i nostri ragaz zi per due anni chiusi a casa senza fre quentare la scuola se non in modo virtua le. In questi due anni i ragazzi hanno accu mulato stress e una volta tornati a un con testo “normale” vediamo che spesso non sanno gestire le emozioni o alcune situa zioni in momenti di aggregazione. Atten zione, questo malessere non ha nulla a che fare con lo status sociale delle famiglie di
LE BANDE
Piazza Selinunte nel quartiere San Siro di Milano, teatro dell’operazione di polizia seguita allo scontro tra due trapper. A destra, altri controlli a Roma
provenienza. È molto più trasversale e spesso lo si lega, anche qui sbagliando, a semplice violenza e malamovida. Ma non è questo il tema, quello che stiamo veden do è più profondo: sono aumentate le ris se, è aumentato il consumo di alcol e dro ghe. Su questo abbiamo dati evidenti: pri ma della pandemia questi fenomeni c’era no ma non erano così appariscenti». Secondo il prefetto Messina, di fronte a questo fenomeno nuovo la risposta è stata quella di vedere il tutto come un problema di polizia e ordine pubblico: «Un approc cio sbagliato. Qui dobbiamo affrontare il problema non più come una questione di polizia e di repressione: siamo di fronte a contesti fluidi, dove non c’è un program ma criminale. C’è un problema nelle agen zie sociali».
Il procuratore del tribunale dei minori di Milano, Ciro Cascone, da tempo chiede maggiore attenzione su quello che si sta muovendo nel sottosuolo del mondo giova nile: «Voglio essere chiaro, anche io ho caval cato nei primi anni Duemila il modello “baby gang”, ma l’ho fatto da Milano per at tirare l’attenzione sul fenomeno delle bande sudamericane. Oggi invece ci troviamo di fronte sempre più spesso a gruppi fluidi e non strutturati, che cambiano ogni giorno e che sono composti sia da italiani sia da stra nieri. L’aggregazione giovanile è un fenome no normale: serve a creare identità e svilup po della personalità. Ma oggi la novità è che abbiamo aggregazioni non strutturate che
in comune hanno solo un inizio di devianza. Dalla mia esperienza vedo che spesso questi ragazzi sono soli, non sono seguiti, spesso vivono in famiglie con genitori che non arri vano da contesti criminali ma sono impe gnati, per lavoro o per assistere anziani, e la sera non parlano con i figli. E c’è dell’altro che stiamo notando: molti giovani non san no gestire la rabbia, non hanno un pensiero critico che media. Scattano così le esplosioni di violenza: e quando rompi certe barriere vai avanti e iniziano le aggressioni fini a se stesse che non hanno motivi economici e in tenti predatori, poi magari avviene la rapina ma è secondaria. In generale questi gruppi non sanno dove andare, non hanno progetti e sono imprevedibili. Sento parlare di ridu zione dell’età penalmente perseguibile: una follia, non abbiamo capito nulla se prendia mo questa strada. Dobbiamo invece pensare che oggi i giovani e gli adolescenti vivono una totale assenza di progetti e iniziative: dobbiamo tenerli impegnati e invece venia mo da decenni di tagli alla scuola, al sociale, allo sport, ai centri di aggregazione».
Ma in contesti sociali poveri, è chiaro che il fenomeno della violenza giovanile si lega a doppio filo con la difficoltà di vivere in certi ambienti: e allora scatta qualcosa di identitario. Come racconta Massimo Russo, magistrato della procura minorile di Palermo, che ha lavorato anche a Napoli: «In alcuni casi il gruppo giovanile chiede spesso riconoscimento di identità attra verso aggressioni e atti violenti, e non ha
uno scopo criminale. Anche se vivono in un brodo di coltura che enfatizza il denaro facile frutto non del lavoro ma di altro. A Palermo, come a Napoli, si fa molta anti mafia di facciata, ma ci sono interi quartie ri abbandonati dove questi ragazzi cresco no volendo comprare abiti firmati. Da qui la violenza in centro, il furto di orologi e vestiti ai coetanei. Stiamo attenti: la mafia coglie questo consenso e poi pesca da que sti gruppi i “migliori”, come in una sorta di talent scout criminale . E li recluta». Proprio a Palermo si è assistito a un al tro fenomeno che lega violenza giovanile e percorso identitario. Racconta Marco Ba sile, capo della squadra mobile: «La scorsa estate, nelle vie del triangolo del centro storico tra via Maqueda e corso Vittorio Emanuele tutte le sere si registravano epi
sodi di violenza e furti ai danni di minori, ma anche di adulti, da parte di un gruppo di ragazzi. In due episodi sono stati coin volti anche dei nostri poliziotti fuori servi zio che erano con le loro famiglie e torna vano a casa da una cena in pizzeria. Ab biamo iniziato a indagare e abbiamo sco perto che si trattava di un gruppo di palermitani figli di immigrati di origine Tamil ma che sono nati e cresciuti in Sici lia. Sui social si chiamavano “Arab zone” e rivendicavano le loro azioni violente, i loro furti. In una sorta di rivendicazione della loro identità in un contesto dove però era no integrati perché qui sono cresciuti. Vo levano rivendicare per sé un pezzo della città e le strade dove vivono. Un fenomeno per noi del tutto nuovo e molto delicato». Resta il tema che chi vive la strada registra negli ultimi mesi un aumento della violen za. Un elemento che rischia di diventare il vero fenomeno preoccupante dei prossimi anni. E che non ha a che fare solo con le baby gang organizzate.
“QUI
di LUIGI VICINANZA
La politica s’è dimenticata della lotta alla camorra
Politici: zero. Istituzioni: assenti. Soli con la lo ro paura e il loro coraggio. Si sono organizzati spontaneamente per protestare contro la ca morra. Studenti delle superiori e qualche ge nitore. Perché non è normale che davanti a una scuo la elementare avvenga una sparatoria in pieno giorno, all’orario di uscita dalle lezioni. Ponticelli, periferia orientale di Napoli. Un tempo polo industriale circon dato da laboriose masserie agricole. Oggi piazza di spac cio contesa tra nuovi e vecchi clan partenopei. Bombe, ferimenti, “stese” per affermare il potere criminale su una comunità di 50 mila abitanti. Non è facile sfilare in corteo contro i clan, metterci la faccia. Ci sono riusciti, erano quasi duemila l’11 novembre nelle vie di Ponticel li. Nessun parlamentare: non sapevano, si sono giustifi cati. I due assessori inviati dal sindaco Gaetano Manfre di in rappresentanza del Comune di Napoli, Emanuela Ferrante e Antonio De Iesu, sono arrivati goffamente in ritardo. A corteo già terminato.
Scena simile il giorno dopo ad Acerra, un grosso centro del Napoletano dove in anni passati fu vescovo don Antonio Ri boldi, del quale, il prossimo 16 gennaio, cade il centenario della nascita. Rappre sentanze politiche invisibili nel corteo an ticamorra promosso dagli studenti del li ceo cittadino. Unica eccezione il sindaco Tito d’Errico, eletto lo scorso giugno da un’aggregazione civica di centrosinistra nata in contrapposizione all’alleanza Pd-M5S. I ragazzi di oggi di Acerra con la loro manifestazione avrebbero voluto rendere omaggio anche ai ragazzi di ieri, quelli che giusto 40 anni fa, in uno slancio di lucida follia, det tero vita al più grande movimento anticamorra mai vi sto a Napoli e in Campania.
È il 17 dicembre 1982, una mattina piovigginosa di fi ne autunno. A Ottaviano sta per accadere qualcosa di clamoroso. Il paese è tristemente famoso in tutta Italia perché è il feudo di un criminale cinico e sanguinario, Raffaele Cutolo, capo della Nco, la nuova camorra orga nizzata, un’accozzaglia di malfattori di campagna tra sformata in un esercito pronto a sostituire l’autorità del lo Stato: 284 omicidi in dodici mesi, nell’impotenza dei
poteri pubblici. Ottaviano viene invasa da un corteo di 100 mila studenti scortati dai delegati sindacali delle grandi fabbriche metalmeccaniche della vicina Pomi gliano d’Arco. Alla loro testa marcia un insolito gruppo di leader. Ci sono due vescovi, il ribelle Antonio Riboldi, giunto dalla Sicilia alla guida della diocesi di Acerra, e il colto biblista Giuseppe Costanzo, da Nola. C’è il cari smatico segretario nazionale della Cgil, Luciano Lama. E due dirigenti politici, Antonio Bassolino e Raffaele Tecce, uno segretario regionale del Pci e l’altro del picco lo PdUp, formazione a sinistra dei comunisti. Evento di rompente in quegli anni di sangue e di piombo. Lama sottolinea di trovarsi per la prima volta in vita sua su un palco insieme a due vescovi. Per don Riboldi quel giorno «è una data storica; è il nostro 25 aprile. Qui da noi il fa scismo si chiama camorra. Questa è la nostra guerra di Liberazione». Lungo tutto il percorso del corteo e nella piazza del comizio vigilano dai tetti i cecchini di polizia
e carabinieri, affinché eventuali killer del clan non spari no sui manifestanti. Dice il comunista Bassolino: «Mafia e camorra sono il terrorismo del Mezzogiorno».
Il terrorismo mafioso in quell’anno 1982 esegue a Pa lermo due delitti eccellenti: il 30 aprile cade il comunista Pio La Torre, il 3 settembre il generale Carlo Alberto dal la Chiesa. La camorra invece viene sottovalutata; nei palazzi romani gode di un’inquietante disattenzione no nostante una catena di omicidi politici stia insangui nando l’area napoletana. Assassinati sindaci, consiglieri comunali, servitori dello Stato. Un’escalation di violenza culminata nel grumo oscuro di scambi di favore tra ter roristi, clan e servizi segreti per favorire la liberazione di Ciro Cirillo, l’assessore regionale rapito dalle Brigate ros
se nel 1981. Seguì l’esecuzione di un super-poliziotto, Antonio Ammaturo. Delitto firmato Br, utile alla camor ra. Era il 15 luglio 1982, i giorni esaltanti del Mondiale in Spagna. Solo dopo il caso Cirillo, Sandro Pertini inter viene dal Quirinale ordinando il trasferimento del boss Cutolo nel supercarcere dell’Asinara.
«Gli anni Ottanta sono quelli del coraggio», scrive Pietro Perone nel suo appassionato libro “Don Riboldi, 1923-2023. Il coraggio tradito” (edizioni San Paolo, pagg. 224, 18 euro). Perone, oggi giornalista del “Mattino” di Napoli, è il ragazzo che quel 17 dicembre di 40 anni fa parlò dal palco di Ottaviano al fianco dei due vescovi e del segretario della Cgil. Ricostruisce nel dettaglio la nascita e il declino del movimento anticamorra; le spe ranze e le successive delusioni. Furono ricevuti, quegli studenti coraggiosi, da Enrico Berlinguer a Botteghe Oscure, il 27 maggio dell’anno successivo, poco prima delle elezioni politiche, quelle del «non moriremo de mocristiani», con il Pci appena tre punti sotto la Dc. Ma fu un fallimento la manifestazione nazionale organizza ta a Roma il 5 maggio 1984, pensata dopo l’incontro con il segretario del Pci: dai 100 mila di Ottaviano ai 10 mila della Capitale. Segnò la fine.
La lotta alla camorra — nella strategia del Pci — era
anche lotta alla Democrazia cristiana. Così, collassata la prima Repubblica, le formazioni derivate dal partito di Berlinguer hanno smesso di considerare una priorità il contrasto alla criminalità organizzata. Distrazione au mentata quando hanno raggiunto posizioni di governo, sia su scala nazionale che locale. «L’errore che avrebbe depotenziato il valore di quella rivolta purtroppo viene commesso», sostiene Perone, cioè «il collateralismo tra partito e movimento».
Il rischio di diventare collaterali a qualche partito di oggi non esiste per gli studenti di 40 anni dopo. Invisibili agli occhi di una politica senza più legami con la realtà, senza radici nei territori. La denuncia dei soprusi com piuti dai clan non crea consenso sociale, ammette Fran cesco Borrelli, neodeputato dei Verdi, aggredito sotto casa a Napoli per le sue campagne a favore della legalità. Nel corso dell’anno due grossi Comuni del Napoletano sono stati sciolti per infiltrazioni di camorra, Castellam mare di Stabia e Torre Annunziata. Sindaco forzista il primo, dem il secondo. Collusioni bipartisan. Nel 1982 entrambe le città furono al centro del movimento anti camorra. Oggi, dopo lo shock dello scioglimento, non è accaduto nulla. Solo disincanto e rassegnazione.
Estrema destra
na gita fuori porta, una scampagnata con mamma e papà. La raccontavano così a pa renti e amici, così ne parlavano anche in ca sa, perché - non si sa mai - poteva pure esser ci qualche orecchio indiscreto pronto ad ascoltare pure le più intime conversazioni familiari. Colpa degli sbirri, del 5G, di quella società meticcia e rammollita figlia della neppure tanto strisciante sostituzio ne etnica. Chissà, forse anche dei vaccini anti-Covid. Ed è così che Gianpiero Testa da Marigliano, 25 anni e un passato in Forza Nuova, la mattina del 29 ottobre scorso, due settimane prima di essere arrestato, parte in gran segreto alla volta di Predappio, accompagnato dai genitori. Padre e madre che, qualche mese prima, commentavano preoccupati i deliri stragisti e autodistruttivi del figlio, ma che pure lo avevano aiutato a disfarsi di scritti e foto che lo collocavano inequivo cabilmente nella galassia dell’ultradestra radicale e terrori sta. Alloggiano nell’agriturismo “La Barroccia”, a Galeata, e all’indomani vanno a commemorare il centenario della mar cia su Roma. Il programma, seguito alla lette ra, prevedeva il comizio al cimitero di San Cassiano, dove è sepolto Benito Mussolini, e poi la visita alla “Cripta del Duce”, con tanto di saluto romano, gagliardetti e inni fascisti.
La trasferta è stata annotata e fotografata dagli uomini della Digos di Napoli, che su Testa stavano indagando da un paio di anni. Su di lui e sul suo gruppo neonazista, riunito sotto la sigla “Ordine di Hagal”, associazio ne con sede a San Nicola la Strada, alle porte di Caserta, strumento della propaganda razzista e suprema tista. Uomini e donne che credono nelle divinità celtiche e nel mito di Wotan, che mangiano come si mangiava a Spar ta (maiale e sangue di maiale, per esempio), che dormono poche ore e in letti scomodi per essere sempre pronti alla battaglia, che si nutrono di qualunque teoria negazionista e
complottista. Detta così farebbe anche ridere, ma sono gli stessi uomini e le stesse donne, attivi in varie parti d’Italia, che fino a pochi mesi fa erano collegati in rete attraverso canali Telegram, sulla piattaforma Vkontakte, cioè il social più popolare in Russia, e su Facebook. Profili cancellati do po un’operazione antiterrorismo a Savona, indagine che
coinvolgeva componenti della stessa rete. Uomini e donne che disponevano di armi, proiettili, abbigliamento tattico. Capaci di confezionare bombe. Addestrati in campi parami litari in Polonia e in Ucraina. Collegati con esponenti del Battaglione Azov, organizzazione neonazista trasformata in reggimento al comando di Kiev.
L’Ordine di Hagal, come documentato da Digos (diretta da Antonio Bocelli) e Procura antiterrorismo (i pm Antonello Ardituro e Claudio Onorati) di Napoli s’ispirava, appun to, a organizzazioni terroristiche antisemite e neonaziste. Arrivando a progettare attenta ti alla caserma dei carabinieri di Marigliano e al centro commerciale “Il vulcano buono”, in provincia di Napoli. A costo d’immolare la propria vita, in azioni kamikaze. Il materiale
sequestrato agli indagati è estremamente significativo: opu scoli e libri che promuovono l’odio verso le minoranze, l’ultra nazionalismo, il razzismo, la xenofobia, l’omofobia, l’antise mitismo, l’anticomunismo, l’anticapitalismo, I’antifemmini smo; ovviamente, la negazione della Shoah, l’incorporazione dei simboli della Germania nazista e l’apologia di Adolf Hitler, con l’obiettivo di creare un Quarto Reich. I seguaci di Hagal sono gli illuminati, contrapposti ai “nemici” impuri e inferio ri, come gli ebrei e gli stranieri in genere, da combattere a co sto di «morire per la causa». Un gruppo paramilitare adde strato ad azioni violente, all’uso delle armi, all’isolamento in sopravvivenza (esercitazioni sono state svolte in vari boschi della Campania) e disponibile a partecipare ad azioni di guer ra in Ucraina e Donbass.
Cinque gli arrestati per associazione sovversiva, istigazio ne all’odio razziale, porto e detenzione di armi; obbligo di
Saluto romano e folla fuori dal cimitero dov’è sepolto Mussolini, a Predappio. Un raduno a cui, il 30 ottobre scorso, ha partecipato anche Gianpiero Testa con la madre (a fianco)
dimora per un altro adepto; una trentina di indagati in tut ta Italia. L’inchiesta, nata nel 2019, quando il capo della Pro cura di Napoli era Giovanni Melillo, attuale procuratore na zionale antimafia e antiterrorismo, era partita dal monito raggio di alcuni profili social, tra i quali quelli riconducibili a Testa e ai suoi amici, persone prevalentemente conosciute nella libreria di Avellino gestita da Franco Freda. A capo del gruppo, Maurizio Ammendola, 43 anni, da Maddaloni, leader dell’Ordine di Hagal che aveva fondato alcuni anni fa.
Sono le restrizioni imposte dalla pande mia a fare da innesco ai suoi progetti terrori stici. Contrario ai vaccini, Ammendola ne parla diffusamente con la madre: «Se diven tassero obbligatori, mi metterò addosso una bomba e li farò saltare, facendo una cosa uti le per l’umanità». Un progetto di cui accenna anche a un suo collaboratore: «Ne parleran no in tutto il mondo». Con lui, in una sorta di direzione stra tegica, Michele Rinaldi e Massimiliano Mariano; poi gli “ope rativi” Gianpiero Testa e Anton Radomskyy, un ucraino che fa la spola tra Ternopil e Marigliano, dove vive il padre, membro del Battaglione Azov. Testa e Ammendola sono grandi esperti in materia di armi, diplomati in Polonia presso l’Esa (Europe an Security Academy), i cui programmi di addestramento ri calcano quelli previsti per le forze speciali militari: guida ope rativa, tiro tattico o dinamico mediante l’impiego di armi sia corte che lunghe, tecniche di autodifesa. I due hanno anche seguito il corso avanzato di Krav Maga (arte marziale e tecni che di autodifesa delle forze speciali israeliane) e di “combi nated firearms”. È in quel contesto che Testa ha fatto amicizia con alcuni istruttori, sottufficiali della Marina militare con esperienze nei reparti speciali, e con l’ultranazionalista Ra domskyy, con il quale ha condiviso fino alla data dell’arresto il progetto di attentato alla caserma dei carabinieri. Anche Te
NEL GRUPPO, PERSONE ADDESTRATE NEI CAMPI PARAMILITARI IN UCRAINA E POLONIA. PRONTE A IMMOLARSI IN NOME DI RAZZISMO, OMOFOBIA, ANTISEMITISMO E ANTICOMUNISMO
sta è contrario ai vaccini e, più in generale, a qualunque restri zione prevista dalla legge. Parlando con la madre, il 9 gennaio del 2021, raccontava: «Io mi voglio difendere dallo Stato. Di certo, se a me i carabinieri mi scocciano io se riesco a levare la vita a loro poi se li piangono a casa». E il rischio di essere arre stato? È allora che preannuncia la sua idea di immolarsi per la causa: «Se io muoio…lo sai come mi devi mettere, la mime tica». E spiega le sue deliranti ragioni: «Purtroppo a me, il go verno, gli ebrei, i comunisti mi hanno tolto la possibilità, io purtroppo non sono nato in una famiglia ricca, sono una po vera persona anonima che non ha nemmeno tranquillità in casa sua, a me purtroppo fino a quando uno riesce a resistere, a vivere così altrimenti io vado in un mondo migliore, non tengo niente a che vedere».
I suoi idoli sono tutti i suprematisti stragisti del mondo, i suoi modelli gli attentati di Oklahoma City, di Oslo e Utoya, di Christchurch. Ma prima di neri, islamici, comunisti ed ebrei, vengono gli sbirri oppressori: «Io uccido a chiunque mi viene a dire qualcosa che sia poliziotto o non poliziotto. Farei una strage come l’ha fatta quello in Neozelanda, però non andrei dai neri...andrei alla caserma a Marigliano. Come Tarrant Tu TuTuTuTuTuTu… Nella caserma di Marigliano… Boom, bo om, boom. Li uccidevo a tutti quanti».
Mentre leggete queste righe, la nuova astro nave Orion della Nasa viaggia vicino alla Luna. È previsto che nelle prossime setti mane le orbiti attorno, si spinga fino al punto più lontano mai raggiunto da un veicolo spaziale per il trasporto umano, 450 mila chilometri dalla Terra, quindi torni sul nostro pianeta per tuffarsi al largo di San Diego, la mattina dell’11 dicembre.
A quel punto, dopo un viaggio di oltre due milioni di chilo metri, si concluderà Artemis 1, la missione inaugurale del programma chiamato come la divina gemella di Apollo, Ar temide, e destinato a portare, oltre al prossimo uomo, la pri ma donna sulla Luna. Succederà non prima del 2025 e con Artemis 3, la terza missione in calendario.
Artemis 1, infatti, non trasporta astronauti, se si escludo no il pupazzo Shaun the Sheep dell’Agenzia spaziale euro pea, due torsi femminili e un manichino per il rilevamento delle vibrazioni e dei raggi cosmici sul corpo umano. Decol lata, dopo tre rinvii, la mattina del 16 novembre (alle 7:47) dal Kennedy Space Center, in Florida, ha l’obiettivo di quali ficare tutti i sistemi coinvolti, cioè verificarne il corretto fun zionamento oltre l’atmosfera. Sistemi come il nuovo Space Launch System, o Sls, un razzo vettore di 98 metri e 2.608 tonnellate al decollo; con lui, la capsula Orion per il (futuro) trasporto di quattro persone e lo European Service Module, una delle novità più significative di Artemis rispetto alla cor sa lunare degli anni ’60: pur a guida statunitense, infatti, il nuovo programma si basa su un’ampia collaborazione inter nazionale, soprattutto con l’Agenzia spaziale europea (Esa), quella canadese (Csa) e quella giapponese (Jaxa).
Coordinata dall’Agenzia spaziale italiana, la nostra industria ha un ruolo rilevante nella missione e nell’avventura lunare tutta: imprese piccole e medie – Cbl Electronics, Aviotec, Alfa Meccanica, Criotec e Dtm Technologies – insieme con grandi realtà come Leonardo e Thales Alenia Space hanno contribui to alla realizzazione del modulo di servizio, che fornisce pro pellente ed elettricità alla Orion e che dalla seconda missione, prevista entro fine 2024, permetterà la sopravvivenza dell’e quipaggio garantendogli acqua e aria. La torinese Argotec ha invece costruito l’unico satellite europeo di Artemis 1: grosso quanto una scatola di scarpe, ArgoMoon si è sganciato da Sls a 40 mila chilometri di quota e ha filmato la separazione degli altri satelliti scientifici a bordo (dieci in tutto), testimoniando una fase in cui i sistemi principali non potevano collegarsi a Terra. Artemis 1 è un passo atteso dall’ultimo allunaggio uma no, avvenuto mezzo secolo fa, nel dicembre del 1972. Sarebbe, però, opportuno chiedersi perché tornare sulla Luna adesso. A quale co sto e con quali benefici?
Il 28 agosto scorso la risposta dell’Econo mist è stata impietosa: secondo il settimanale britannico, l’utilizzo dello Space Launch Sy stem — successore dello Space Shuttle ed ere de del Saturno V, il razzo che portò 12 uomini sulla Luna fra il 1969 e il 1972 — sarebbe
Corsa allo spazio
«un colossale spreco di denaro pubblico». O un «gigante sco spreco di risorse» per chi preferisse la definizione del Wa shington Post (4 settembre). Sopravvissuto al programma Constellation, approvato nel 2005 da George W. Bush con l’o biettivo di tornare sulla Luna entro il 2020 e cancellato da Ba rack Obama cinque anni dopo per l’eccessivo incremento dei costi, Sls costituirebbe «un inarrestabile slancio dello status quo, creato per garantire che i contratti del defunto program ma continuassero».
Cifre alla mano, è difficile dissentire: agli americani lo svilup po del nuovo sistema di lancio è costato 40 miliardi di dollari negli ultimi dieci anni (fonte: New York Times). Nello stesso periodo l’imprenditoria spaziale privata – si pensi anche solo a SpaceX di Elon Musk – ha rivoluzionato il settore con la digita lizzazione dei processi, la riutilizzabilità e la miniaturizzazio ne delle tecnologie. Il nuovo approccio, oggi implicito nel con cetto di “new space economy”, ha permesso una drastica ridu zione dei costi. Non quelli del programma lunare: secondo l’Ufficio dell’Ispettore generale Nasa (Oig), il volo di Sls costerà 2,2 miliardi di dollari, mentre Artemis 1 arriverà a 4,1 miliardi. Riportare l’umanità fra i crateri lunari entro il 2025 preleverà dalle tasche dei contribuenti 95 miliardi in tutto. E non è da escludere, suggerisce l’Oig in un rapporto pubblicato a giugno, che da Artemis 4 in poi, cioè quando si dovrà stabilire una pre
senza umana permanente sulla Luna, l’incremento dei costi accelererà. A fronte degli investimenti nel programma Apollo rivalutati in termini odierni — circa 280 miliardi di dollari, sti ma la Planetary Society — non è azzardato suggerire che mez zo secolo di innovazioni abbia prodotto ben poco in quanto a risparmi.
Il giudizio, però, sarebbe affrettato. E, in fondo, scorretto.
Non solo perché fra gli obiettivi di Artemis 1 c’è la riduzione dei costi sulla base dei dati ottenuti per Sls e Orion, o per il fatto che la Nasa stia cambiando la filosofia degli appalti e adottando la formula dei contratti a prezzo fisso. Cose queste che, a onor del vero, potrebbero anche interessare poco da questa parte dell’oceano.
Sono gli obiettivi diversi dal programma Apollo a fare di Ar temis una novità, pensata per rispondere a necessità emergen ti: 60 anni fa la prima “space race” declinava oltre l’atmosfera la guerra fredda, diventando anche una valvola di sfogo della contrapposizione fra Usa e Urss. Oggi Artemis punta a una pre senza umana stabile sul suolo lunare, alla luce della sua impor tanza tecnico-scientifica e, nondimeno, economica. «Tornia mo per restarci», proclama la Nasa da anni. Beninteso, sarebbe ingenuo pensare il traguardo come avulso da risvolti geopoliti ci, tanto significativi che ci si tornerà a breve, ma non è da quel li che scaturisce il rinnovato anelito lunare.
Artemis richiede scienza e ricerca innovative, reclama infrastrutture da sviluppare, promette scoperte a beneficio collettivo. Non ultimo, la Lu na custodisce un eldorado di metalli preziosi e acqua ghiacciata: “il petrolio dello spazio”. Ma an che, o soprattutto, di elio-3 e terre rare. Mentre il primo, se disponessimo della fusione nucleare, aprirebbe le porte del nirvana energetico, le terre rare rischiano di diventare oggetto di appetiti non così futuribili: trattasi di 17 elementi chimici già
Il pubblico presente al lancio di Orion, il 16 novembre scorso (nel dettaglio a destra). A sinistra, Shaun the Sheep testa la microgravità
oggi essenziali per l’industria elettronica e tecnologica, “verde” compresa, e, a dispetto del nome, non esigui sulla Terra, ma costosi da estrarre e per la maggior parte controllati dalla Ci na, che ne detiene circa il 37% delle riserve. Secondo un rap porto del 2017 della Banca mondiale, la loro richiesta non farà che crescere nei prossimi decenni.
«È certo che ci siano anche ragioni economiche alla base di un programma così ambizioso, ma in questa fase è importante non evidenziarle oltre il necessario», commenta Massimo Comparini, amministratore delegato di Thales Alenia Space, che oltre al contributo sul modulo di servizio di Orion è coin volta pure nella realizzazione del Gateway, la stazione in orbita lunare che si prevede di costruire fra qualche anno e che sup porterà le attività extraterrestri.
«Torniamo sulla Luna con due obiettivi principali: anzitutto perché qualsiasi cosa apprenderemo, per esempio sulla co struzione di infrastrutture, sarà la base per approntare esplo razioni nello spazio profondo, in primis su Marte. Poi, certo, lavorare sulla Luna significherà sfruttarne le risorse. Occorre ricordare comunque quanto questo potrà esserci utile sulla Terra. Non si sottovalutino gli aspetti tecnico-scientifici e i be nefici comuni che quest’avventura porterà nei prossimi anni».
Vero, come il fatto che negli anni recenti la maggiore acces sibilità al settore abbia portato con sé una platea di attori non endogeni pronti a svilupparne i servizi. Lo ha dimostrato il mercato satellitare: non serve disporre di una sonda propria per commercializzarne le applicazioni o per inventarne di nuove. Detto altrimenti: proprio come le orbite più prossime alla Terra sono ambito di crescenti interessi commerciali, la Luna potrebbe ampliare il numero degli stakeholder. Lo dimo strano già oggi piani lunari per la produzione e la distribuzione energetica di Enel, o progetti per le comunicazioni e la naviga zione, come quello su cui verte l’accordo siglato a luglio fra In marsat, gestore britannico di servizi per le telecomunicazioni
mobili, e l’italiana Telespazio, leader dei servizi satellitari, di geoinformazione e navigazione in Rete.
«Stabilire una presenza umana permanente sulla Luna è un progetto ambizioso, ma possibile», conferma Luigi Pa squali, coordinatore delle attività spaziali del gruppo Leonar do e ad di Telespazio: «Abbiamo dimostrato di avere tutte le competenze necessarie per poter supportare le missioni delle agenzie europee e mondiali, oltre allo sviluppo di una “lunar economy” sostenibile».
Che le nuove prospettive economiche stimolino anche ap petiti geopolitici è l’altro lato della medaglia: sarebbe una vi sione parziale quella che ignorasse l’esclusione da Artemis di Cina e Russia, due Paesi che nel frattempo hanno già annun ciato di voler installare, insieme ed entro il 2036, la Internatio nal Lunar Research Station, una base lunare per operazioni robotiche.
Pur ambizioso, l’obiettivo è verosimile, visto che la Cina, se conda potenza spaziale dopo gli Usa, sulla Luna ha già ottenu to risultati unici: a inizio 2019 appoggiò il lander Chang’e 4 e poi manovrò il rover Yutu-2 sul lato nascosto del nostro satelli te. Traguardo mai raggiunto da altri. Anche l’India, che vuole ripetersi, e un’organizzazione no profit israeliana hanno invia to lander nel 2019, sebbene entrambi si siano schiantati. Un orbiter sudcoreano è in arrivo.
Se si considera che Artemis 3, per allunare, sfrutterà la nuo va astronave Starship di SpaceX e che fra le 13 aree individuate dalla Nasa per appoggiarsi sulla Luna alcune coincidono con quelle annunciate dalla Cina, è evidente quanto sia composito il ventaglio di motivi per ripartire adesso: lì convergono scien za, tecnologia, interessi privati e pubblico prestigio. Sarebbe il caso d’interrogarsi, allora, sul come comporre gli appetiti af finché, senza sprechi, banchettino in tanti. Magari tutti.
Mentre orbita attorno alla Luna, Orion fa riflettere.
Sull’isola delle origini
Il filosofo Sergio Givone ha da anni messo radici in una località segreta dell’Egeo. Dove il pensiero incontra la natura e i miti sembrano reali. Uno scrittore che conosce a fondo il mondo antico è andato a trovarlo
Una cappella tra gli ulivi, su un’isola greca. A destra: il filosofo e docente di Estetica
Fino a dieci anni fa, Sergio Givone è stato uno dei più noti accademici italiani. Docente di estetica alle Università di Peru gia, Torino e Firenze, autore di romanzi e saggi molto apprezzati e premiati, è stato anche Assessore alla Cultura a Firenze. Nel 2012 però per lui molte cose sono cambia te. E non perché abbia abbandonato i suoi interessi, ma perché è stato in quell’anno magico che con sua moglie Cristina Lori mer, acquarellista e psicoterapeuta, ha sco
perto la Grecia. Ora, la scoperta della Gre cia è fenomeno molto raro in tempi di turi smo di massa, ma quando avviene può as sumere i tratti del rapimento estatico. Lo sa bene chi è colpito da questa specie di ma lattia che si presenta innanzitutto attraver so la luce dell’Egeo e che poi si spande at traverso i quattro elementi nel loro stato puro: il vento che tutto porta via, il mare color del vino, la terra riarsa, il fuoco peri colo costante. Per un filosofo, però, questa scoperta può assumere aspetti iperbolici. E chi per tutta una vita ha fatto i conti con pensatori come Parmenide, Eraclito e Pla tone, in Grecia può anche lasciarci l’anima, o meglio: può lasciare che l’anima prenda il volo e s’impossessi definitivamente di tutto quello che prima aveva sempre soltanto av vicinato per mezzo del pensiero.
Givone sono venuto a trovarlo nella sua isola. Come se fosse la Delos delle origini, galleggiante sull’Egeo e senza nome, la scerò che abbia le sembianze del luogo ma gico e anonimo che ognuno di noi vuole sognare. Non è una fantasia, però, la terra rocciosa in cui ci incontriamo. Qui del resto Givone ha messo radici, ha comprato casa e ha fatto i conti con una consapevolezza nuova. Me ne parla con la gentilezza e la di screzione che sono suoi tratti caratteristici, mentre scendiamo verso l’antico porto gre co dell’isola, una lunga passeggiata fra ce spugli di timo e di lentisco, con il meltemi che soffia teso e il mare spumeggiante all’o rizzonte.
È appena uscito il suo ultimo libro, “I pre socratici. Ritorno alle origini” (il Mulino, pp. 141, euro 13). Una intensa ricognizione sulle origini del pensiero che – dice – «non avrei mai potuto scrivere senza l’incontro con la Grecia. Tutto quel che conoscevo ha preso una nuova forma. Prima di arrivare qui, credevo che il respiro antico si fosse perduto. Immaginavo che fosse ormai sol tanto una meta di vacanze. E invece il paese delle origini non è un’ Atlantide, si sente an cora vibrare. E molte cose adesso me le
“Prima di arrivare qui credevo che il respiro originario si fosse perduto. E invece no, si sente vibrare ancora. Nella natura è il senso del nostro abitare il mondo”Sergio Givone
A SPASSO CON TALETE
spiego diversamente. Pensa a questa natu ra in cui siamo immersi, per esempio. Nel libro ho cercato di raccontare il rapporto che legò i primi pensatori alla natura. Non è molto semplice farsene un’idea perché sia mo ormai abituati a una lettura che vede nei presocratici dei pre-scienziati. Le cose invece stanno in maniera molto diversa. Al le domande decisive – da dove veniamo? che ci stiamo a fare? dove andiamo? - la scienza oggi risponde con disincanto: sia mo figli del caso; transitiamo in questa vita senza ragione; moriamo. Be’ no, alle origini non sono certo queste le risposte. La natura con cui si confrontano i primi pensatori è una natura in cui ne va di noi stessi, di cui noi facciamo parte, è natura che è costante generazione, e in essa sta il senso del nostro abitare questo mondo».
Abitare questo mondo. Chi ha una mini ma consuetudine con letture filosofiche non si ferma più a riflettere su espressioni come quelle che Givone usa. Forse neppure lui lo faceva con la stessa intensità prima di arrivare qui e trovare le antiche case cicla diche in rovina che ha comprato e restaura to, scoprendo in esse segreti antichissimi. «Mi sono ribellato a chi pretende di buttare
Un viaggio tra uomini che hanno cominciato a domandare, e tra quei pensatori che hanno inaugurato la filosofia. È “I presocratici. Ritorno alle origini” (il Mulino, pp. 141, € 13) l’ultimo libro di Sergio Givone.
giù e ricostruire, ovviamente. Ma anche a chi ritiene che si debbano sostituire alcuni elementi di case che sono state abbandona te da anni. La verità è che la casa cicladica restituisce un tipo di abitazione che è dura to per tre millenni. Semplicità assoluta: grandi pietre, una tessitura di rami di ulivo – ginepro o cedro che con il tempo diventa no duri come l’acciaio –, altre pietre e pietra pomice. Luce, temperatura, spazi. Questa soluzione abitativa è rimasta immutata fi no al terremoto che distrusse Santorini a metà Novecento. E stiamo parlando di una vera e propria filosofia dell’abitare. Perché la casa non è solo riparo. È disegnare lo spa zio, la propria vita, dare forma alle cose. Ve di, per i presocratici la domanda è: che cosa significa abitare il mondo? cosa ha da dirci la natura sul nostro essere al mondo? A noi moderni la natura non dice più niente e non resta che costruirci un mondo artifi ciale a nostra immagine e somiglianza, purtroppo. Perciò abbiamo ancora molto da imparare dai presocratici, specialmente ora che la natura dimenticata e violata rea gisce rendendo il mondo inabitabile».
La discesa si fa ripida. Ci fermiamo all’ombra di un grande fico, albero che
Givone ama sopra ogni altro. L’ho sco perto dopo aver visitato le sue case in cui la luce sembra che s’immerga nelle mura e nei letti che in quelle mura sono incassati. L’ho scoperto perché sul tetto della casa mi so no trovato davanti a file di fichi che ha di sposto per l’essiccazione e sua moglie mi ha raccontato che è famoso qui per quella che alcuni considerano quasi un’ossessione. Gi vone infatti conosce ogni pianta dell’isola, sa quando andare a raccoglierne i frutti che con religiosità (la religiosità degli antichi, priva di dogmi e piena di divino) prepara per l’inverno in barattoli di marmellata o in confezioni di fichi secchi.
«Sono un raccoglitore», dice ridendo: «Ma anche questo ha il suo senso. Prendia mo Anassimandro. Rovelli lo indica come precursore in quel suo libro di successo in titolato “Che cos’è la scienza?”. Ma stanno così le cose? Leggiamo il famoso frammento: «Principio dei viventi è l’infinito... là do ve i viventi hanno la loro origine, là trovano la loro dissoluzione necessariamente: essi infatti pagano il dovuto gli uni agli altri ed espiano l’ingiustizia secondo il tempo». Ora, cosa ci dice qui Anassimandro? Innan zitutto che il nostro transito in questa vita
non è insensato. Veniamo dall’infinito e lì torniamo. Eppoi che per vivere dobbiamo pagare un debito. Il debito acquisito per quel tanto di essere sottratto agli altri. Os sia, la vita che abbiamo preso per noi e che con la morte restituiremo. Be’, mi dici tu: cosa c’entra con i fichi? Ecco, sai benissimo che dietro a questo frammento, come die tro a ogni riflessione greca c’è l’idea ciclica del tempo. Noi moderni siamo legati alla li nea retta dal passato al futuro. Per gli anti chi era diverso. Ma non c’è in loro soltanto l’idea di un ritorno costante delle stagioni. C’è qualcosa in più. Scendiamo ancora. Te lo mostro in un gesto».
Il sentiero ci spinge verso un imbuto om broso dove il terreno è bagnato e Givone indica una vite solitaria. Allunga il braccio, stacca un grappolo e me lo passa. Mi rac conta che una volta incontrò un tipo che era sbarcato da un gommone in quel golfo deserto perché soffriva di mal di mare. Sen za nulla con sé, era salito lungo il sentiero assolato e adesso tremava, aveva sete, non si sentiva bene. Allora, lui e sua moglie lo accompagnarono a questa vite, lo spinsero a mangiare, finché quello riprese le forze per salire in cima fino al paese. «Sto diva
traddici. E io rispondo: ma cosa facevano invece questi poeti e pensatori antichi? Non usavano strumenti ermeneutici per ri flettere sulle parole oracolari e sulle oscuri tà degli enigmi? E quel mondo di racconti e di miti con cui si confrontavano non è forse il mondo di racconti con cui ci confrontia mo noi leggendo i romanzi ottocenteschi?». Quando arriviamo all’antico porto solita rio nel mare che si frange spumoso, Givone tace e si siede. Io invece scendo verso i resti
gando. Però vedi, quel che importa qui è il gesto. Questo gesto che adesso compio prendendo il grappolo. È un istante che si ripete nell’eternità, ma, a prescindere dalla sua ripetizione, esso stesso ora si fa eterno. Il tempo non consuma tutte le cose, non di vora l’essere. Le cose sono nell’istante, per sempre. Quando Eraclito dice che panta rei, tutto scorre, be’ noi dobbiamo mettere l’ac cento su panta, su tutto. Tutto sempre è, anche se scorre, anche se è attraversato dal la morte e dallo smarrimento».
Il sentiero si fa ripido. Penso al proemio del poema di Parmenide, alle cavalle che trainano il carro e al rumore delle pietre che il cosiddetto “filosofo dell’essere” de scrive riproducendone lo stridio per incan tare il lettore, avvolgerlo di suoni, e spinger lo a vivere una dimensione nuova. «Parme nide racconta il percorso di un iniziato. Sono riflessioni in versi, in poesia. Non pos siamo trattarle come le parole di un filosofo contemporaneo. Quei pensatori segnano l’inizio ma anche una fine, perché hanno a che fare con il mito. Ma il mito è racconto. E noi possiamo avvicinarci a loro con i nostri strumenti ermeneutici. Mi dicono: ma l’er meneutica è dei nostri tempi, così ti con
antichi mentre lui si raccomanda di fare at tenzione. «Non vorrai mica farti il bagno? Ti può sembrar semplice tornare su dall’acqua ma non lo è». Lo rassicuro. Voglio semplice mente vedere quel che resta dell’antico ap prodo. Poi mi rendo conto che in fondo è inutile. Lo so da quando vengo qui. Lo so come tutti quelli che hanno fatto la grande scoperta, si sono ammalati di Grecia e sono stati rapiti. So che l’antichità non sta nelle pietre, nei resti, nei magnifici siti. L’antichità sta in tutto ciò che ancora è qui, in ogni istante. Nella forma del golfo stretto in cui il vento s’introduce assieme alla luce che ta glia l’ombra buia. Nell’odore di iodio e di ter ra. In quella sensazione eterna che un poeta come Seferis scandì in un verso definitivo: “Ovunque io viaggi, la Grecia mi ferisce”.
“Noi moderni siamo legati alla linea retta, dal passato al futuro. Per i greci c’è un’idea ciclica del tempo. Veniamo dall’infinito e lì torniamo”
Staffetta col dolore
Uno scrittore e un cantante. Uno nato nel 1975, l’altro nel 1994. All’apparenza così diver si e invece a ben guardare complementari, speculari, in sieme perfetti.
Non è questo un dialogo fra generazioni a confronto. Ma tra persone che si incontrano lì dove tutto «è rotto» e innominabile. Rac contano il dolore, o forse meglio la vita, così com’è. Fatta di stanze senza luce, di intimità, voli e passi incerti su sentieri a precipizio. Questo dialogo è un viaggio in un labirinto dove il filo ha la forma di “Un bene al mondo” di Andrea Bajani, che Feltrinelli ripubblica a distanza di sette anni e che Michele Bravi ha inserito nel suo tour “La geografia del buio” (dall’album certificato Disco d’oro) e letto in audiolibro su Storytel. «Ci siamo incontrati sul silenzio», dirà Baja ni durante questo colloquio che somiglia più a un minuetto di frasi a metà, pause, pensieri lunghi. Un concerto a due voci do ve la risposta di uno chiude con la frase dell’altro, difficile da interrompere. Quello che colpisce in entrambi è lo sguardo. Chi ha provato un grande dolore nella propria vita lo riconosce. È come uno strappo negli occhi: l’orgoglio e la fatica di averlo affronta to, spesso la vergogna di non volerlo esibire. «Accarezzare il dolore», come fa il bambino nella storia di Bajani è un modo per attra versarlo, «togliersi la vergogna». Lasciarsi portare dove la vita ti porta per prendere fi nalmente «possesso del proprio nome».
“Un bene al mondo” viene ripubblicato. Cosa rappresenta questo libro per voi? Andrea Bajani: «Non sapevo quello che fa
Hanno raccontato la vergogna, la solitudine, la sofferenza. Nei libri e con la musica. Poi si sono incontrati. E qui spiegano il potere della condivisione
cevo quando lo scrivevo, questo è già un indi zio. Pensiamo sempre che “dobbiamo saper fare le cose” e poi ci rendiamo conto che, for se, nell’arte, meno sai fare meglio è. Meno hai il controllo e più sarai sbalordito di quello che hai trovato. Questo libro è nato da un fal limento. Da tempo provavo a dire di me, a scrivermi. Sono venute fuori delle poesie. Le avevo mandate all’editore che si aspettava un romanzo e in coda alla mail avevo scritto: non so esattamente cosa sono queste cose che vi mando, forse sono solo il tentativo di far alzare il culo dalla sedia al mio dolore. È stato come spalancare una porta magica. Su bito dopo ho iniziato a scrivere. Su questo li bro ho pianto ogni singola riga, credo che sia il più bagnato di lacrime che abbia scritto. Oggi mi rendo conto che grazie a questo libro mi sono tolto la vergogna. Togliersi la vergo gna vuol dire uscire fuori e dire: sapete che c’è? Ho un dolore e ci faccio di tutto. Se non mi fossi tolto la vergogna -cosa che augu
Scritture incrociate
ro a tutto il mondo- non avrei mai potuto più scrivere una riga e soprattutto non avrei mai potuto prendere possesso del mio nome. E poi questo libro cade in un’epoca diversa. Nel 2016 la confidenza pubblica con il dolore era una faccenda privata. All’epoca il dolore era come un alieno. Non si accettava. Oggi c’è stata un’esplosione di dolore devastante tra pandemia e guerra. Vivo negli Usa dove i campus sono pieni di studenti sotto antide pressivi, il dolore ha esondato. È fuori». Michele Bravi: «“Un bene al mondo” ha la forza che solo le favole possono avere. La fa vola ha il pregio di farti percepire i mondi sottili, quelli che stanno sotto le superfici, ben nascosti. Per me è difficile pensare che quella è la storia di Andrea, quando la leggo è anche la mia storia. È stato fatto quel passag gio interiore per cui una cosa così particolare e specifica è diventata universale. E quando questo avviene con il linguaggio della favola, il racconto del mondo sottile è ancora più esatto: l’immagine di un dolore che si porta a spasso come un cane al guinzaglio. Per me, questo libro è stato uno spunto enorme quando scrivevo “La geografia del buio”. Rac conta esattamente che cosa vuol dire trovare una geografia nelle cose. Il dolore ti aspetta sempre in un punto preciso. Ha un posto, una concretezza geografica e l’astrazione che viene fatta per me è di una poesia altissima. È una metafora talmente tanto grande, pro fonda che è letteratura: quando si riesce a lavorare ai bordi di una cicatrice e trasforma re in poesia una cosa che altrimenti rimar rebbe indicibile. Infatti, ho legato questo li bro anche alla mia produzione musicale. In volontariamente, parla di me».
A. B.: «Togliersi la vergogna riconnette al genere umano. Il mio non era solo un pianto personale. Era un pianto originario. È un po’ come se fosse una staffetta con passaggio di testimone. Come se ognuno avesse una pic cola bandierina del dolore: se uno casca, l’al tro la riprende e la porta avanti. Un po’ come ha fatto Michele con un gesto di grande umanità. È il canto dell’uomo che prova a dire quanto è difficile a volte vivere e quanto per questa stessa ragione è così bello, così spaventoso, così affascinante». La scrittura è anche relazione. Per voi cosa altro rappresenta? M.B.: «Premetto che quando ho iniziato a scrivere “La geografia del buio” per concre tizzare una parentesi umana difficilissima,
ricevetti un messaggio di Bajani: la musica non salva da niente, però ti permette di dise gnare il labirinto. È stata una svolta nel mo do di vivere la scrittura, nel mio caso musica le. Un atto di traduzione del reale. Non è più la vita vera, sono parole, sono inchiostro che si posano sulla pagina, quella cosa lì crea una mappa, io l’ho chiamata “La geografia del buio”. Questa mappa racconta un labi rinto che non per forza porta alla via d’uscita però mette in evidenza e analizza un percor so. Per me questo vuol dire scrivere: dare un posto alle cose. C’è un libro stupendo che si chiama “Diario di un dolore” di C. S. Lewis, dove lui racconta quanto impatta la morte della moglie nella sua vita. Scrive cosa suc cede quando si elabora un lutto. E lui chiude il libro dicendo: «Con questo libro speravo di creare una mappa dell’afflizione». Leggen dolo mi sono reso conto che quando si parla di dolore non si può raccontare uno stato, si deve raccontare un processo. Bisogna rac contare una storia. È questa la consapevo lezza della scrittura: cristallizzare un mo mento per disegnare il labirinto».
A. B.: «Pensiamo sempre che il labirinto è il posto dove sta il Minotauro. Poi ci sono Te seo, Arianna, il filo. Ma forse bisogna capo volgere la prospettiva. Forse bisogna lascia re uscire fuori il Minotauro e non considera re tutto ciò che non conosciamo o fa paura come nemico. Scrivere vuol dire anche dise gnare il labirinto per il Minotauro. Quando scrivo e rileggo quello che ho scritto riman go sempre un po’ sbalordito. Come se fosse ro le parole a dire a te che cosa stavi provan do. La scrittura ha questa cosa magica: co me se tu avessi qualcosa di liquido dentro e lei ti offrisse dei contenitori per vederlo, fi nalmente. Pensi di aver finito e invece qual cosa riprende a grattare dentro, quindi devi continuare a scrivere».
M.B.: «Tu, Andrea, mi avevi consigliato di leg gere “Fisica della malinconia” di Georgi Go spodinov, che sfrutta la figura del Minotauro
“Il mio non era solo un pianto personale. Era come un passaggio di testimone: se uno casca, l’altro lo riprende e fa un passo più avanti”
per far capire un po’ che cosa vuol dire “essere” scrittore, non “fare” lo scrittore. Una metafora stupenda sul Minotauro che riflette quanto effettivamente l’astrazione del reale sia più umana del reale stesso, perché serve una figu ra bestiale per raccontare l’umanità. Cioè se condo lui il Minotauro è la figura più umana mai nata dalla mente dell’uomo perché non è solo umano ma anche bestia. Chi scrive è co me un Minotauro perché entra nel labirinto, chiama le altre persone, cattura le altre storie, le restituisce agli altri. No?»
A.B.: «Totalmente. Avevo suggerito a Mi chele questo libro perché parla di questa solitudine del Minotauro profonda. Cibarsi di umanità ma anche essere umanità. Pen siamo di sapere cosa vuol dire essere umani e invece siamo anche animali». Ascoltandovi percepisco un filo rosso che vi unisce. Eppure, appartenete a due ge nerazioni differenti. Tu Michele hai 24 anni, tu Andrea ne hai 47, però entrate subi to in sintonia, quando parlate vi ritrovate sempre su un punto, avanzate e arretrate all’unisono. Vi siete mai chiesti perché? A.B.: «Come in “Un bene al mondo”, a un certo punto le persone mettono in comune qualcosa di importante e non hanno paura. Io e Michele ci siamo trovati subito. Intorno
Sopra: Michele Bravi. A sinistra: Andrea Bajani. Feltrinelli ne ripubblica, a sette anni di distanza, il romanzo “Un bene al mondo”. Il musicista lo ha inserito nel suo tour
a un tavolo ci siamo detti cose senza doverle dire a voce. Ci siamo incontrati lì dove c’era qualcosa di rotto. È stato come dirsi: incon triamoci dove c’è quella apertura di fragilità. Non importa l’età. C’è un termine negli Stati Uniti, “candor”. In Italia si traduce “candore” e viene declinato come un qualcosa di puro, ingenuo. In America invece è una via di mez zo tra la verità e l’essere schietti su sé stessi. C’è una poesia di Anne Carson intitolata “Candor”, parla del dire la verità su sé stessi. Il che non vuol dire la verità, però avere quell’atteggiamento di onestà sulle cose, ci siamo incontrati su quell’atteggiamento».
M.B.: «Lo diceva benissimo anche Wisława Szymborska: c’è solo una cosa che è uguale in tutte le lingue del mondo, ed è il silenzio. Ecco quando due artisti riescono a stare in silenzio insieme, allora è facilissimo scrive re, trasformare e poi rompere quel silenzio con le parole. Quando non si riesce a stare in silenzio insieme è impossibile».
A. B.: «Ci siamo incontrati sul silenzio. Ec co, io l’ho pensato e Michele l’ha declinato con la voce».
Abitiamo, arrediamo, spesso condivi diamo le stanze delle nostre sofferenze. Attraversare il dolore costruisce anche la nostra identità?
M.B.: «“Lo straniero” di Albert Camus chiu de con una riflessione sull’odio potentissi ma: “Perché tutto fosse consumato, perché mi sentissi meno solo, dovevo solo augu rarmi che ci fossero molti spettatori il gior no della mia esecuzione, e che mi acco gliessero con grida di odio”. Il dolore ti fa fare una domanda e tu accetti di non poter dare una risposta. Per me quelle parole hanno sempre avuto un significato perso nale e chiarificatore».
A.B.: «Il dolore, a differenza della cosiddetta felicità, ti fa aprire una domanda. Non ti chiedi perché sono così felice. Invece il dolo re è quella porta d’accesso per chiederti le cose. Solo gli ottusi non provano dolore. Il dolore è quella cosa che ti fa pensare che è tutto più complicato, anche nominarsi. È la cosa fondamentale per chiederti: che cosa vuoi? Il punto di “Un bene al mondo” è che serve mettere in comune il dolore. Quando è solo tuo ti ammazza. Per questo uno si de ve togliere la vergogna perché è enorme. Il dolore se crea comunità salva dalla condan na alla solitudine».
Compagni allo specchio
Novembre 1976. Un gruppo di femministe si impossessa del se condo Congresso na zionale di Lotta Conti nua e scrive a sorpresa la parola fine per il gruppo più vasto, influente, contraddittorio e in definiti va fecondo della sinistra extraparla mentare. Inattese, incontenibili, le donne non solo contestano a dirigenti e militanti scarsa sensibilità alla que stione femminile, ma sciorinano sen za riguardi abitudini e miserie intime dei compagni. Infischiandosene sere namente anche dell’allora intoccabile “centralità operaia”.
Noto ormai solo a specialisti e testi moni, quel gesto davvero rivoluziona rio non è inciso come dovrebbe nella memoria collettiva, anche perché il secondo Congresso di LC si svolse praticamente a porte chiuse. Eppure ebbe un effetto dirompente e a suo modo provvidenziale, sostiene l’allora super-militante Paolo Liguori nell’in calzante e sfaccettato documentario di Tony Saccucci sul gruppo diretto da Adriano Sofri (“Lotta Continua”, il 2 dicembre al 40esimo Torino Film Fe stival prima di andare su Raiplay co me docu-serie dal 4 dicembre e su Rai
L’epopea di Lotta Continua. E la tragica parabola di Carlo Rivolta, cronista di Repubblica che indagava sull’eroina.
Due documentari al Torino Film Festival
di Fabio Ferzettitre in prima serata il 12 gennaio).
«Sofri capì perfettamente il conflit to tra uomini e donne che lacerava il gruppo», argomenta Liguori: «Ma col se anche al volo l’occasione. Bisogna va trovare una soluzione onorevole per chiudere un’esperienza sempre più in crisi e “Il femminismo scioglie Lotta Continua” era un bel titolo. “Lot ta Continua si spacca sul sostegno alla lotta armata” era senz’altro peggiore».
Purtroppo, spiega il regista, di quel congresso restano ben poche immagi ni. Chi c’era però ricorda bene il clima. «Le donne salirono sul palco insultan do i maschi e accusandoli di non saper fare l’amore», dice Giampiero Mughini nel film di Saccucci. Il malumore del resto covava da tempo. Nel dicembre
1975 il servizio d’ordine di LC, guidato dal futuro scrittore Erri De Luca, ave va disperso in modo non proprio gar bato il gruppo di sole donne che mar ciava dietro le insegne di Lotta Conti nua in coda a un’imponente manife stazione femminista, come ricorda nel documentario Vicky Franzinetti (nel ‘73 anche protagonista del do cu-fiction di Ettore Scola “Trevico-To rino, viaggio nel Fiat-Nam”, boicottato da censura, distribuzioni, ministero e da Agnelli in persona). Quasi una pro vocazione, per un gruppo che appena un anno prima, con incredibile mio pia, aveva bollato il referendum sul divorzio come «un diversivo destinato a distrarre gli operai dalla dimensione salariale della lotta». E la conferma
che il gruppo di “duri” guidato da De Luca tendeva a costituirsi in corpo speciale al di sopra delle regole, anche se nel documentario lo scrittore napo letano minimizza.
La questione della violenza natural mente si affaccia di continuo nel film di Saccucci, storico prima che regista, che essendo nato nel ‘72 con quegli anni e quelle lotte non ha legami diret ti. Non solo per l’assassinio del com missario Calabresi, per le molte vitti me del decennio, o perché da una co stola di LC nacque Prima Linea, ma per l’ambiguità che il gruppo manten ne al riguardo, come riconoscono tut ti gli intervistati («Ci furono degene razioni militariste, sarebbe ipocrita negarlo», sintetizza Gad Lerner). An
che se la prospettiva resta giustamen te individuale più che giudiziaria, sen timentale ancor prima che politica («Eravamo dominati da arroganza e speranza, tutto sembrava possibile», ricorda Franzinetti). Come già nel li bro di Aldo Cazzullo da cui è partito Saccucci, “I ragazzi che volevano fare la rivoluzione”.
Peccato semmai che le travolgenti immagini d’archivio («un’onda che sale dall’inconscio» dice il regista), ol tre a illustrare l’epoca non vengano decostruite e interrogate come acca deva nel film di Mark Cousins “Mar cia su Roma”, scritto sempre da Sac cucci. Ma forse è presto per un’opera zione simile, la storia contemporanea si scrive con altri mezzi. E la parabola di Lotta Continua, con tutti i suoi vi coli ciechi, resta una delle più interes
puntamenti fatali dell’epoca. Il lavoro come missione, l’assenza di confini tra vita personale e professionale, il mito della libertà assoluta, la ricerca di un Padre (che per qualche anno Ri volta trova in Scalfari), l’illusione di poter restare integri e indipendenti in un mondo sempre più lacerato e vio lento. Fino a restare stritolato, duran te il rapimento Moro, in una morsa micidiale.
santi di quegli anni. Come prova an che un altro documentario che si ve drà a Torino prima di uscire in sala a gennaio, “La generazione perduta” di Marco Turco, dedicato a una figura così emblematica che in un Paese me no spaventato dalla memoria avrebbe ispirato un vero film.
Parliamo di Carlo Rivolta, valente giornalista romano, a Repubblica fin dalla fondazione, che nel 1982 muore a soli 32 anni cadendo da una finestra in crisi di astinenza. Un destino para dossale per chi con le sue inchieste aveva fatto luce come nessun altro sul mercato nascente dell’eroina, fino a precipitarvi in prima persona. Al cul mine di un percorso che riassume con atroce limpidezza tutti i nodi e gli ap
Inviso al Pci per aver criticato il ser vizio d’ordine dei sindacati durante il famoso comizio di Luciano Lama all’Università di Roma nel 1977, mi nacciato da Autonomia Operaia per aver denunciato le loro violenze, poi dalle Brigate Rosse quando con po chissimi altri (Mario Scialoja, Enrico Deaglio) dà notizia della rottura fra Morucci e Faranda e il nucleo storico delle Br, ma soprattutto esautorato da Scalfari per la sua posizione filo-trat tative durante il caso Moro, Rivolta scende tutti i gradini della tossicoma nia. Dai primi “tiri” fatti per capire meglio (Scalfari gli diede i soldi per acquistare dosi di eroina in diversi quartieri di Roma e analizzarne la composizione), all’illusione di gover nare la droga, fino a perdere il control lo e andarsene da Repubblica per ap prodare al quotidiano Lotta Continua. Dove, come dice nel documentario l’allora direttore Enrico Deaglio, «non avevamo soldi da offrire ma una co munità». Comunità in cui magari Ri volta non era l’unico a “bucarsi”. Ma esisteva anche chi era capace di pub blicare una vera e propria “guida” agli spacciatori di Milano, con foto e indi rizzi, pagando con la vita quello sgar ro, come Fausto e Iaio, al secolo Fau sto Tinelli e Lorenzo Iannucci, i due giovanissimi attivisti del Leoncavallo autori di quel “Dossier eroina” che nel film compare fugacemente nelle mani di Deaglio. Uccisi (a due giorni dal ra pimento Moro) da ignoti rimasti tali. «Non è stata colpa dell’eroina. Ero già morto», scrive Rivolta in una pagina sconvolgente dei diari, letti nel film per la prima volta. Si sbagliava. Forse è ancora vivo.
Il Mostro di Firenze colpiva nel buio. Alessandro Ceccherini scava nell’oscurità.
E il risultato
è un grande romanzo che guarda in faccia il male “I
di Aisha Cerami
Il killer è lo scrittore
l mostro” di Alessandro Ceccherini è un audace romanzo naturalista che non si limita a forni re un’interpretazione dei famigerati otto duplici omicidi av venuti nella provincia di Firenze tra il 1968 e il 1985, ma ci trascina insieme ai carnefici, unici veri protagonisti, nei luoghi più bui dell’essere umano. Luo ghi malati, angoscianti e spaventosi, dove si muove, libera, la patologia più crudele del mondo: l’anaffettività. Cin quecento pagine debordanti, perfette, che hanno la forza di condurre nel ma le. Un male che osserviamo con la len te d’ingrandimento, fino a finire con i piedi nel sangue.
Alessandro Ceccherini conosce be ne ogni tesi del caso giudiziario e non ne sceglie nessuna. Le usa tutte, le in treccia, le manipola con sapienza, ag giunge ai personaggi reali compagnie fittizie, con un’abilità non comune, e costruisce una cattedrale incrollabile. E non importa quale sia la verità, al meno non importa a noi che leggiamo, a noi interessa solo stare insieme alle
anime traviate, nella loro fogna, e con le loro mani uccidere, e con i loro occhi guardare la morte.
Le dinamiche degli omicidi, segna lati con una croce accanto al titolo del capitolo, sono raccontate con precisio ne chirurgica. Forse perché sono l’uni ca inconfutabile verità. Quei ragazzi sono stati uccisi proprio com’è scritto. Non ci sono dubbi, o lacune.
Quei ragazzi sono stati umiliati, tor turati, uccisi, fatti a pezzi esattamente in quel modo. E Ceccherini non ci ri sparmia nulla. Meticoloso, ossessivo, feroce, usa i dettagli come le note di un requiem. E con quelle note, crea una melodia in minore, straziante. Un compositore che fa della sua opera una critica spietata a un’Italia corrotta e immorale. E il tutto è narrato in ma niera esemplare.
I personaggi, quelli veri e quelli in ventati, sono accuratamente tratteg giati in ogni loro manifestazione ver bale (ottimi i dialoghi, di cui molti in dialetto toscano), fisica, emotiva, sen za lasciare spazio alla fantasia.
Ecco, la fantasia. Questo romanzo
non ci chiede fantasia. È tutto spiega to, tutto rivelato in ogni più piccolo dettaglio. Come nei film, in fondo. Quando si guarda un film, lo spetta tore si affida a ciò che vede. Leggere questo romanzo vuol dire affidarsi. Accettare. Guardare. E si osservano uomini poverissimi, ignoranti, arcai ci. Uomini ricchi, colti, disturbati. Uomini viziosi, affamati di potere, criminali.
Il bene non esiste, ma il vero male è nel ceto sociale più alto. Quello dove il benessere non basta mai. Dove la sa pienza dei borghesi approfitta, con la minaccia e la superbia, dell’ignoranza dei disagiati. Dove il proletario è sfrut tato, mercificato. Dove i più deboli so no burattini da governare.
“Il mostro” (pubblicato da Notte tempo) è anche un grande romanzo politico e Alessandro Ceccherini è, lo dico senza temere di esagerare, uno scrittore di talento straordinario che deve continuare a scrivere, e lo deve fare per noi, che abbiamo bisogno di grandi romanzi da leggere.
Artisti della vita eterna
Scribi. Scultori. E costruttori di quel metaverso che garantiva l’esistenza nell’aldilà. In mostra a Vicenza i creatori delle tombe della Valle dei Re
colloquio con Christian Greco di Angiola Codacci-Pisanelli
La Valle dei Re, nel cuore dell’Egitto, è uno dei siti archeologici più famosi al mondo. Le tombe sca vate nella roccia e ma gnificamente affrescate sono capolavo ri senza tempo. A realizzarle però non furono artisti famosi ma generazioni di artigiani. Che abitarono per secoli in un unico villaggio posto tra la cit tà di Luxor e il labirinto di canyon che avrebbe dovuto ga rantire ai faraoni un sonno in disturbato. Le voci di quel vil laggio, chiamato Deir el-Medi na, tornano a parlarci grazie a una mostra in programma dal 22 dicembre al 7 maggio dell’anno prossimo nella Basi lica Palladiana di Vicenza (ca talogo Marsilio Arte). Si intito la “I creatori dell'Egitto eterno. Scribi, artigiani e operai al ser vizio del faraone” e racconta attraverso oggetti quotidiani e gioielli, papiri e sculture ma an che installazioni multimediali e riproduzioni in 3d la vita di artigiani che, come spiega Christian Greco, direttore del Museo Egizio di Torino (che ne è curatore insieme a Corinna Rossi, Cédric Gobeil e Paolo Marini)avevanouncom pito fondamentale: ga
rantire la vita eterna del faraone e con essa l’equilibrio dell’intera società. Al centro di questa mostra c’è un vil laggio: uno tra i mille della storia dell’Antico Egitto, ma con un’impor tanza particolare… «Deir el-Medina occupa un posto uni co nello sviluppo della storia egiziana. Nasce all’inizio della diciottesima di nastia, quindi intorno al 1550 a.C., e continua ad essere abitato fino al 1070. Viene fondato per volontà del faraone Ahmose I e della regina Ahmose Nefer tari, ed è il posto in cui vivono gli artisti, gli artigiani e tutti quello che lavorava no alla costruzione delle tombe nella Valle dei Re e nella Valle delle Regine. Ecco perché noi li abbiamo chiamati “creatori dell'Egitto eterno”: perché so no le persone che, per usare una meta fora contemporanea, creavano il meta verso che permetteva al faraone di so pravvivere. I contemporanei li chiama vano “servitori del luogo della verità”, avevano il compito di creare per il so vrano una tomba nella quale valgono regole spazio temporali completamen te diverse da quelle esterne. Dobbiamo immaginare che al momento della se poltura le decorazioni delle pareti di ventano molto più di un semplice ab bellimento. Esse costituiscono un nuo vo spazio che per gli egizi aveva consi stenza reale: il faraone è trasfigurato e pronto per nuova, eterna vita. Aspira
Oggetti in mostra a Vicenza per “I creatori dell'Egitto eterno”. Da destra: le dea serpente Meretseger; Pyramidion dello scriba Ramose; decorazione di un mobile; cassetta dipinta; sarcofago. In basso: la dea Tauret, protettrice delle gravidanze
ad essere accolto nella barca solare che gli permetterà di viaggiare assieme agli altri dei, e di compiere continuamente, e per sempre, il periplo attorno alla Ter ra. Il “metaverso” disegnato sulle pareti della tomba è il luogo in cui ogni notte si volge la lotta cosmogonica fra bene e il male che è fondamentale non solo per il faraone ma per la continuità stes sa dell’Egitto. Finché il bene sconfigge il male e sopravvive, non solo il faraone ma l’intero Paese e tutti i suoi abitanti sono al sicuro».
Cosa sappiamo di questi artigiani?
«Al Museo Egizio abbiamo una fortuna incredibile, perché gli scavi al villaggio furono diretti da Ernesto Schiaparelli nel 1903, quindi abbiamo negli archivi le foto che documentano il momento dello scavo. Nel catalogo abbiamo ar ricchito la storia con il racconto degli scavi diretti dai francesi di Bernard Bruyère che subentrarono a Schiapa relli. Inoltre uno dei curatori della mo stra, Cédric Gobeil, è stato recentemen te direttore degli scavi di Deir el-Medi na. Quindi abbiamo con noi le fonti
migliori per poter comprendere come funzionava il villaggio: come le persone vivevano, come era la loro vita quoti diana, cosa studiavano a scuola, come imparavano la lingua. Questo è partico larmente importante perché gli scribi che lavoravano per le tombe dovevano imparare non solo i segni ma anche la morfologia e la sintassi di una lingua che già non veniva più parlata, il medio egiziano, la lingua rituale che dovevano utilizzare per decorare le pareti». Ma com’era la loro vita quotidiana? «Abbiamo testimonianze precise su al cuni aspetti: per esempio le dispute te stamentarie. Queste ci permettono di capire quali fossero i rapporti tra le fa miglie, e anche come veniva organizza to il lavoro. Per esempio sappiamo che nell'anno 29 del regno di Ramses III gli scribi si rifiutarono di andare a lavora re perché da due mesi non ricevevano lo stipendio, che era fatto di olio, un guenti, indumenti e cibo. Quindi disse ro al faraone che sarebbero tornati a lavorare solo dopo essere stati pagati. Con questa mostra noi vogliamo inda gare la dualità della vita di chi abitava in questo villaggio: da una parte ci so no i problemi quotidiani, dall’altra la costruzione dell'Egitto eterno».
Erano quindi comuni mortali a far sì che il faraone vivesse eternamente tra gli dei…
«E il fatto che si trattasse di persone
come noi è un punto fondamentale di questa mostra. Metteremo in mostra una mummia ma lo faremo sottoline ando le questioni etiche poste dalla no stra scelta. Come ha scritto Kathlyn Cooney in un bellissimo libro, “The cost of death”, gli egizi impiegavano tempo ed energia per fare in modo che la loro vita continuasse dopo la morte, che la morte non costituisse una cesu ra. Era anzi la morte considerata la “mesut”, la nuova nascita. Per mostra re rispetto per queste persone noi pri ma di tutto cerchiamo di dare loro un nome. E ricordiamo che il capitolo 151 del “Libro dei morti” spiega perché il corpo doveva essere conservato: solo se il corpo rimane intatto il defunto po trà avere la vita dopo la morte. Va in questo senso anche una esposizione molto significativa che è in corso in questo momento al Museo Egizio». Di cosa si tratta?
«È una installazione dell'artista egizia na Sara Sallam ispirata al centenario della scoperta tomba di Tutankhamon. Tutte le celebrazioni lo celebrano ricor dando l’oro, i gioielli, la maschera. Ma dimenticano che la sua mummia era ancora nella tomba, e che rimase incol lata al sarcofago interno a causa degli unguenti che vi erano stati versati so pra. Per riuscire ad estrarla, la mummia fu fatta a pezzi. Sara Sallam si identifica in Tutankhamon che sente avvicinarsi
Howard Carter: sente i colpi dello scal pello, poi i coltelli scaldati dalla fiamma ossidrica che tentano di entrare all'in terno del sarcofago per staccare il cor po. A quel punto Tutankhamon comin cia a pregare per cercare di fermare lo scempio della sua mummia: e prega ci tando le frasi rituali che sono scritte all'interno della sua maschera. Questa interpretazione artistica rovescia il punto di vista più comune rispetto alla scoperta, e ci fa riflettere su come a vol te con leggerezza consideriamo le mummie come un qualsiasi oggetto. E ci dimentichiamo che il loro valore na sce dal fatto che sono resti umani, che sono persone come noi».
Il centenario di Tutankhamon ha fatto passare in secondo piano un anniversario altrettanto importan te: sono duecento anni dalla deci frazione dei geroglifici da parte di Jean François Champollion. Una scoperta che ci riporta agli scribi di Deir el-Medina.
«Nella mostra noi li facciamo parlare, i
L’Egitto dei faraoni
geroglifici. L’esposizione è scandita da pannelli che iniziano con un testo anti co, proveniente dai testi cosmografici del Nuovo Regno e dal “Racconto del naufrago”. In effetti la decifrazione di 200 anni orsono è stata un evento fon damentale: ha squarciato un velo, e ci ha fatto rientrare in contatto con gli antichi egizi. Per 1500 anni si era tenta to di trovare la chiave: grazie a Cham pollion i geroglifici non sono più una decorazione silente ma parlano. E sve lano qual è il mondo che hanno alle spalle».
Finora abbiamo parlato delle decorazioni delle tombe scavate nella roccia.Mafinchéifaraonisonostati sepolti nelle piramidi come si rea lizzava il metaverso?
«In effetti, fino alla quarta dinastia le piramidi non erano decorate, poi a par tire dalla piramide di Unas nella came ra sepolcrale si trovano i cosiddetti “te sti delle piramidi”. La letteratura fune raria egizia a grandi linee si divide tra i testi delle piramidi dell’antico Regno, i testi dei sarcofagi nel medio Regno, e nel Nuovo Regno i testi cosmografici dell’oltretomba, quelli della nostra mo stra. I testi delle piramidi sono formule magiche che riguardano l'arrivo del so vrano nell’aldilà, il suo ascendere al cie lo e il suo partecipare all’ordine cosmi co. Le camere sepolcrali sono comple tamente iscritte con i testi che vengono incisi nella roccia delle pareti. Il soffitto invece è dipinto con un cielo stellato; quasi a voler ribadire che nonostante l'imponenza di quelle montagne artifi ciali che sono le piramidi, il faraone non sente la pesantezza della pietra perché sopra di sé vede soltanto il cielo, con le stelle dipinte su quel meraviglio so colore che è il blu egizio».
«Gli scavi di Deir el-Medina mostrano la dualità della vita di chi abitava nel villaggio: da una parte i problemi quotidiani, dall’altra l’immortalità»Christian Greco, direttore del Museo Egizio di Torino. Ha curato la mostra alla Basilica Palladiana insieme a Corinna Rossi, Cédric Gobeil e Paolo Marini
Fotografia
Scambio d’energia
Due acrobati che si affidano l’uno
di Valeria Verbaro
La guida e la trasmissione dell’energia sono prima di tutto un fatto umano. Così la giuria del “Premio Driving Energy 2022 – Fotografia Contemporanea” di Terna motiva la vittoria di Paolo Ventura del “Cameras on Driving Energy”, prima edizione del concorso che ha ricevuto la Meda glia del Presidente della Repubblica. Ventura vince la categoria Senior con l’opera “I Ginestra”. Una coppia di acrobati che conta uno sull’energia dell’altra. Intorno, un mondo metafisi co che ricorda la pittura di maestri no vecenteschi e che in effetti ingloba le tecniche pittoriche partendo da una base fotografica. È un linguaggio spe rimentale e autoriale, quello di Ventu ra, che trasfigura luoghi della realtà trasportandoli su un piano di favola.
“I Ginestra” è una storia d’amore, raccontata attraverso tre immagini, il ritratto della straordinaria energia che viene a crearsi tra due persone. Così l’artista la descrive a L’Espresso: «Ho trovato in un mercatino un archi vio fotografico di una coppia che negli anni Venti e Trenta si esibiva per stra da a Milano. Erano sempre loro due che si tenevano in sospensione, con questa energia molto bella fra loro.
“I Ginestra”, l’opera che ha vinto il Driving Energy 2022 – Fotografia Contemporanea di Terna
Così ho utilizzato le foto e le ho reinse rite in un mondo immaginario di car tone che ho costruito io intorno alle immagini vere di loro due, ridipinte».
Paolo Ventura «dà così un’interpre tazione originale, sottile e allo stesso tempo ricca di implicazioni e riman di», come affermano il curatore e pre sidente del PalaExpo Marco Delogu e la Giuria composta da Salvatore Set tis, Lorenza Bravetta, Elisa Medde, Emanuele Trevi, Jasmine Trinca, e Massimiliano Paolucci e supportata dal Comitato di Presidenza del Pre mio, Valentina Bosetti e Stefano Don narumma.
Insieme a Ventura, Gaia Renis, 23 anni, conquista il Premio Giovani con l’opera “Stereocaulon vesuvianum”. Un lavoro che prova a fotografare l’in visibile e immortalare l’energia micro scopica. Le tre fotografie rappresenta no l’ecosistema del lichene vesuviano,
la vita nei luoghi più impervi. Tre Menzioni speciali sono state assegna te ad Andrea Botto con “Onda d’urto”, Mohamed Keita con “Camminare e camminare…” e a Eva Frapiccini con “La porta di luce”. I cinque lavori pre miati, insieme agli altri 35 finalisti scelti fra circa 1.300 partecipanti, ri marranno al Palazzo delle Esposizioni fino al 27 novembre. La mostra è a in gresso gratuito, col patrocinio del Mi nistero degli Affari esteri e della coo perazione internazionale, del ministe ro della Cultura, dell’Ambiente, della Regione Lazio e di Roma Capitale.
Le quaranta opere selezionate sono pubblicate nella terza edizione del volume “Driving Energy” e visitabili nel Metaverso attraverso una versio ne 3D. E anche questa è espressione di massima coincidenza fra arte ed energia, fotografia ed elettricità.
La battaglia di Rosa
Come si fa a raccontare la voce di una donna che non hai mai conosciuto, ma che frequenti da sempre? Come si evoca no i fantasmi? I fanta smi dei luoghi e delle persone lontane? Forse immaginandoli, chiamandoli, perdendoti». Sono pensieri e parole di Isabella Ragonese, attrice molto ama ta e con un lungo elenco di registi per i quali ha lavorato: Paolo Virzì, Mario Martone, Marco Tullio Giordana, Pupi Avati, Emanuele Crialese, Roberto An dò, Daniele Luchetti, Sergio Rubini, Valerio Mieli... Stavolta però la regista è lei, anche se forse sarebbe più giusto chiamarla “direttrice d’orchestra” per la sua capacità di mettere insieme di versi “strumenti” che intonano un’uni ca melodia, pronta a risuonare in ma niera forte e chiara a ogni suo cenno. Che cosa vuole raccontarci? L’anima folk di Rosa Balistreri (Licata 21/03/1927 – Palermo 20/09/1990), cantastorie dalla voce inconfondibile, donna battagliera che ha vissuto una vita rocambolesca, femminista incon sapevole e sempre dalla parte dei più deboli. Isabella Ragonese si mette in cammino per seguire le sue tracce e costruisce così un racconto persona lissimo, svincolato dal classico ritratto documentaristico, ma che ci restitui sce Rosa nelle parole e nei volti delle donne che incontriamo fra le strade di Palermo. Il risultato di questa ricerca è “Rosa. Il canto delle sirene”, una pro duzione Sky Arte, realizzata da Quoiat Films e presentata, fuori concorso, al Torino Film Festival il 27 novembre, che andrà poi in onda su Sky Arte il 4 dicembre.
Isabella, possiamo definirlo il suo esordio alla regia? Ci racconti co me è nato il progetto. «In realtà è un progetto talmente
L’attrice siciliana debutta come regista con un film sulla cantastorie e femminista Balistreri. Donna coraggiosa, sempre dalla parte dei più deboli
colloquio con Isabella Ragonese di Francesca De Sanctis
particolare che non sono neanche certa di poter parlare di regia. Tutto è partito dall’idea di voler raccontare Palermo, la città in cui sono nata, e dunque ho pensato alla storia di Ro sa Balistreri, che è stata per molti un punto di riferimento. E accompagnò anche Dario Fo sui palchi d’Italia. Ma come potevo? Non volevo fare il clas sico documentario che raccontasse chi era e cosa ha fatto Rosa, quelle sono informazioni che si possono ri cavare consultando Wikipedia. Io volevo trovare un modo tutto mio per raccontarla, per esempio cercan do le tracce che ha lasciato. Cosa re sta degli artisti del passato? È possi bile raccontarli attraverso altre per sone? E così ho fatto una sorta di “ca sting emotivo”, in cui attraverso amici di amici ho coinvolto non per sone che hanno conosciuto Rosa, ma persone che hanno qualcosa della sua anima. È stato un modo per par lare del folk, della canzone popolare, che non è di chi la scrive, ma appar tiene a tutti, come quelle storie che ti vengono raccontate e ogni volta che le racconti a tua volta cambi una pa
rola, un particolare, e alla fine diven tano di tutti».
Il modo in cui ha scelto di racconta re la storia di Rosa ricorda molto il lavoro che ogni attore fa sul perso naggio. È come se avesse reso pub blico il backstage dandogli però una forma, anche poetica...
«Infatti questo lavoro ha molto a che fare con me e con il modo in cui io co struisco i miei personaggi: le letture, gli appunti, le improvvisazioni, le as sociazioni mentali stavolta sono espo ste, condivise. Il filmato procede su due binari: da una parte ci sono le pro ve in sala, dall’altra ci sono i testi che sono di fantasia, ma che raccontano qualcosa di Rosa».
E poi ci sono diverse persone coin volte, ciascuna con la propria sto ria. In ognuno di loro c’è qualcosa di Rosa. Dana, per esempio, che ha deciso di cambiare sesso, dice più o meno questo: a un certo punto bi sogna scegliere fra l’essere e il fare. Si è trovata anche lei di fronte a questo bivio?
«La storia di Rosa ci dice anche que sto: siamo di fronte a una donna che
ha avuto la forza di partire — ha la sciato la Sicilia per trasferirsi per un periodo in To scana — un mira colo che ha com piuto da sola e nella Sicilia di allo ra non era facile. In questo mi ricono sco molto: andare avanti da sola, con le proprie forze, e lascia re l’isola per cercare un posto nel mondo. E an che Dana voleva la stessa cosa, cioè uscire dalla pro
E affermare la propria identità che è sempre in movimento, come diceancheMassimoMilani,fondato re dell’Arcigay di Palermo, perché, aggiunge, non si tratta di una questione minoritaria, ma riguarda tutti
«Nelle canzoni di Rosa il genere non è importante e la stessa cosa vale per Massimo, che odia categorizzare. La sua e le altre storie ci parlano di Rosa a modo loro, da Verdiana, sollevatrice di pesi, a Gaia che dalla Toscana si è trasferita in Sicilia per ricostruire le barche. Sono tutte delle sopravvissu te, come Rosa».
E poi c’è il grande tema della vio lenza sulle donne. Rosa andò in carcere perché tentò di ammazzare suo marito, violento come suo pa dre. E molte delle donne che parla no nel filmato hanno vissuto storie simili.
«Questo è un tema che mi sta molto a cuore. Basta aprire il giornale, ogni giorno c’è una storia di violenza. E purtroppo il numero di donne che su biscono maltrattamenti è molto più alto rispetto a quello che conoscia mo. Nel nostro caso le storie, come quella di Enza e Concetta del La boratorio Zen Insieme, sono ve nute fuori in maniera sponta nea e con una tale forza che siamo rimasti tutti – io e la troupe – senza parole».
Dalle immagini girate nel Laboratorio Zen Insieme si intravedono anche delle bambole di pezza. E spunta una testa dai capelli rosa: è Letizia Battaglia.
«Sì, lei è l’altra figura per me fonda mentale. A differenza di Rosa, Letizia l’ho conosciuta. E ovviamente inter pretarla in “Solo per passione” di Ro bero Andò è stato meraviglioso, un re galo grandissimo».
È stato difficile mettere in ordine tutto il materiale raccolto per “Ro sa”?
«Infase dimontaggionon èstato sem plice. Però il percorso è stato chiaro, anche se forse un po’ disordinato. Ho iniziato a lavorare a questo progetto durante la pandemia. E in quel perio do ho scritto una specie di “Diario di Rosa” in cui appuntavo frasi, foto, so prattutto registravo pensieri, ho lavo rato molto sul sonoro. E poi ho inizia to a girare. A Palermo sono andata nei luoghi che conoscevo; la palestra in cui sono stata, per esempio, era la stessa in cui facevo le mie prime prove teatrali...».
Ecco, a proposito di teatro, sta ri prendendo la tournée dello spetta colo “Da lontano – Chiusa sul rim pianto”, scritto da Lucia Calamaro (fra le prossime date: Napoli, al Te atro Nuovo il 4 e il 5 marzo, e Roma, al Teatro India dal 7 al 12 marzo). Scommetto che non vede l’ora... «Sì, io amo il teatro. E amo molto la scrittura di Lucia Calamaro, trovo che sia una delle più interessanti drammaturghe che abbiamo in Italia. “Da lontano” è una storia intima che mette in dialogo una figlia adulta con una madre che ha la stessa sua età. Uno spettacolo che ogni volta mi emoziona e che Lucia ha scritto su misura per me».
Insomma, nonostante i film di successo, il teatro resta il suo grande amore...
«Recitare fa parte di me, ho iniziato a 16 anni. Vengo dal teatro e mi piace tornarci. Il cinema e il teatro si ali mentano a vicenda, perciò cerco sem pre di trovare il giusto equilibrio».
A CURA DI SABINA MINARDI
SETTE ANNI IN AMAZZONIA
Ferracuti e Marrozzini risalgono il “fiume mondo”. Tra sciamani e fazendeiros, incanti e devastazioni
DI LAURA PUGNO
Nell’agosto del 2021 Giovanni Marrozzini e Angelo Fer racuti, rispettivamente fotografo e scrittore-reporter, volano in Amazzonia per salire a bordo dell’Amalas sunta, un cabinato leggero contrattato a caro prezzo che, con un equipaggio vagamente picaresco, risalirà le inquiete e rischiose acque dei mille affluenti del Rio delle Amazzoni, il “fiume mondo” che dà il titolo al libro, per poi convertirsi in una scuola e biblioteca galleggiante a beneficio dell’associa zione Piccolo Nazareno di Manaus. “Viaggio sul fiume mon do. Amazzonia” compendia sette anni di viaggi della coppia artistica Ferracuti-Marrozzini, in Bolivia sulle ultime tracce di Ernesto Che Guevara o in Brasile, a Boa Vista, quasi al confine con il Venezuela, all’incontro dello sciamano e lea der indigeno Yanomami Davi Kopenawa. Le vicende narrate terminano subito prima della recente, soffertissima vittoria di Luiz Inácio Lula da Silva, già Presidente del Brasile a inizio anni Duemila e candidato per il Partito dei Lavoratori (PT), sull’uscente Jair Bolsonaro, l’esponente della destra ormai simbolo internazionale della devastazione ecologica dell’A mazzonia. Il libro rientra non solo nella tradizione del repor tage narrativo, autobiografico, in cui l’io di chi guarda con
Una biografia letteraria, scandita da cinque figure di donna “Amatissime”: Elsa Morante, da sempre incorniciata in una foto di casa come fosse una zia; Beatrice Masini, che col suo memoir intrecciato a un guardaroba (“Album di vestiti”) riconcilia con la nostra parte più briosa; Natalia Ginzburg, il cui approdo a Roma parla all’andirivieni verso la Capitale dell’autrice. E Laudomia Bonanni, Livia De Stefani, in omaggio a donne, sorelle eccezionali.
“AMATISSIME”
Giulia Caminito
Giulio Perrone editore, pp. 171, € 15
fluisce per quanto può nel paesaggio osservato e ne è parte integrante, anzi inevitabile rilievo in primo piano; ma anche in quella che potremmo comin ciare a delineare come una tradizione italiana contempo ranea di racconto dell’Amazzonia come ultimo e penultimo Altrove, a partire dal bellissimo “In Amazzonia” (Feltrinelli 2006) di Azzurra Carpo, e forse ancor prima da “Amazzo nia. Viaggio dall’altra parte del mare” di Yurij Castelfranchi (Laterza 2004). Un luogo dove il tempo sembra scorrere im mobile attraverso una ferita storica che non riesce a rimar ginarsi, una conquista eternamente messa in scena di cui ogni visitatore dall’Occidente, il luogo dove muore il Sole, è sempre in parte, inevitabilmente – e anche quando animato dalle migliori intenzioni – di nuovo attore.
Torna la voce critica della femminista e ambientalista californiana, in un bellissimo saggio narrativo che cuce insieme botanica e politica. E trova nelle rose coltivate da Orwell le radici del suo antitotalitarismo: una visione opposta a chi coltivava limoni, come Stalin. Le rose, l’attenzione e la cura che richiedono, la capacità di gustarne la dolcezza e la poesia sono spie di una visione del mondo costruttiva e capace di investire nella giustizia e nei diritti umani.
“LE
ROSE DI ORWELL”
Rebecca Solnit (trad. Laura De Tomasi) Ponte alle Grazie, pp. 339, € 20
Un libro che nasce davanti agli occhi dello scrittore. E un personaggio che ne attiva la memoria, l’immaginazione. E il disprezzo, persino: come chi vede nell’altro un gorgo di passioni indicibili. È nel dialogo con lui che la coscienza si rianima, gli incontri riprendono vita e le miserie umane rappresentate diventano preziose. Scritto nel 1939, interamente in un fine settimana in cui aveva deciso di smettere di fumare, è il romanzo d’esordio del grande autore latinoamericano.
“IL POZZO”
Juan Carlos Onetti (trad. Ilide Carmignani) Sur, pp. 78, € 10
Un enorme pallone da calcio in rame spicca in mezzo a lampade di Aladino, teiere di tutte le dimensioni, brick di caffè, souvenir di cammelli, e altri oggetti in ottone. Nonostante qualche cianfrusaglia di plastica, che non cela la provenienza Made in China, tutto è molto ordinato, pulito, al proprio posto. Ogni pezzo è stato messo bene per abbellire l’angolo espositivo e ven dere al meglio. Come qualsiasi cosa nei ricchissimi Paesi del Golfo.
«La palla da calcio è per i Mondia li», dice subito fiero il commerciante, di origini iraniane, in piedi di fronte al suo bazar, al mercato Suq al-Mutrah della capitale omanita, Mascate.
«Tutto il Golfo partecipa all’evento del Qatar», aggiunge, mentre il suo sorriso si è già perso in mezzo agli in censi, nei corridoi del suq.
Pochi chilometri oltre, in una delle spiagge pubbliche il cui ingresso non è stato riservato ai clienti di grandi ho tel e resort a cinque stelle, diversi gruppi di persone, giovanissimi e me no, hanno delimitato sulla sabbia i confini di un ipotetico campo di cal cio. La luce del tramonto del Golfo Persico e del Mare Arabico li accarez za mentre giocano, le maglie sportive imbevute di sudore fino all’ultima let tera della scritta Qatar 2022. È quella che la maggior parte di loro indossa.
Domenica scorsa sono iniziati i
Mondiali di calcio maschile, l’evento sportivo più seguito sulla terra, con il paradosso che per la prima volta si svolgono in uno dei Paesi più piccoli esistenti, il Qatar. Una monarchia co stituzionale in mano alla famiglia al-Thani, che domina il Paese, nato nel 1971 come Stato indipendente, da 150 anni. Vicini di casa – e di Golfo - di al trettante monarchie: il Kuwait e il Bahrein, anch’esse costituzionali, la monarchia federale degli Emirati Ara bi Uniti, e l’Arabia Saudita e l’Oman, monarchie assolute. Insieme formano il Consiglio di cooperazione del Golfo. Dalla penisola arabica è escluso solo lo Yemen, al contrario tra i più poveri al mondo. La metà della popolazione che vive nei Paesi del Golfo è di origi ne straniera, con delle punte in Qatar e negli Emirati in cui meno del 15 per cento della popolazione è formata da cittadini arabi locali.
È la prima volta che la manifesta zione sportiva avviene in un paese del Medio Oriente, un paese arabo. Questo è motivo di orgoglio e felicità per milioni di persone che vogliono che la loro area geografica abbia un peso diverso e restituisca un’immagi ne migliore da quella stereotipata sul mondo musulmano. Alla vigilia del campionato mondiale, una sfilata di bandiere palestinesi sono state sven tolate nella Corniche della capitale Doha da tifosi tunisini, marocchini, qatarioti in festa, che dicono di non dimenticare la causa di quel popolo. Sanno però che questo avviene nel Golfo per un solo motivo: a lanciare la loro immagine sono i soldi del gas e del petrolio, non il pallone. E il po tere di negoziazione che ne deriva per restare in campo: palla sempre al centro, da molto prima che fischiasse il calcio d’inizio.
Quel fischio risuona in tutto il Golfo e non riguarda solo lo sport più amato da sempre. Dal 18 al 20 novembre in concomitanza con l’inizio dei Mon diali sfrecciavano nella vicina Abu Dhabi le macchine del gran premio di Formula 1. Nella capitale degli Emira ti Arabi Uniti, un parco di divertimen to della Ferrari ricopre un’area di
100.000 chilometri quadrati e il lo go sul tetto del noto marchio automo bilistico è il più grande al mondo (65 metri per 49). L’Arabia Saudita si è ag giudicata la partita per le Olimpiadi invernali del 2029, celebre com’è per le sue dune di ghiaccio. Non sarà un pri mato saudita poter sciare sulla neve artificiale: è appena successo in Cina, nelle Olimpiadi scorse, a febbraio. Ma quello di sfidare il clima, anziché la crisi climatica, è una delle tante pre rogative del Golfo. L’importante è fare credere tutto il contrario: il prossimo anno, tra record di torri più alte dei cieli, sarà Dubai ad accogliere la Cop28, la conferenza delle Nazioni
Unite per i cambiamenti climatici. È appena terminata quella in Egitto, stretto alleato degli Emirati, e oppres sore delle libertà, con 65.000 prigio nieri di coscienza nelle sue carceri. Il Paese delle piramidi sa a chi passare la palla nel Golfo.
Sarebbe troppo facile risponde re alle critiche e al boicottaggio in corso dei Mondiali di calcio in Qatar dicendo che del resto nel 1934 si sono svolti in Italia e nel 1978 in Argentina. Ma nessuno nei Paesi del Golfo ha interesse a farlo: sa rebbe come ammettere che le monar chie del Golfo sono dei regimi quasi
assoluti così come erano delle ditta ture allora i due Paesi citati. Ma nean che quell’etichetta in fondo importa. Più vicino temporalmente l’esempio della Russia: solo nel 2014 ospitava le Olimpiadi invernali, quasi in conco mitanza con l’inizio dell’occupazione della Crimea, e nel 2018 ha accolto gli stessi Mondiali di calcio. Quello che è successo dopo lo abbiamo ancora drammaticamente sotto gli occhi. Quantomeno si potrebbe dire che non porta bene.
Dopo il caso della Russia, criticata nel 2018 per il razzismo negli ambienti sportivi, il trattamento discriminato rio verso le persone Lgbtq, e record
negativo su diritti umani, libertà di espressione e sfruttamento dei lavora tori, il Qatar si sarebbe già fatto l’auto gol: ha attratto l’attenzione di tutto il mondo per farsi dire che lo skyline sul deserto non ne fa una nazione all’a vanguardia. Non sarà la mancanza di una birra guardando la partita il pro blema, ma lo sono i container da den tro cui i migranti asiatici che hanno costruito gli stadi megagalattici reste ranno a guardare. I riflettori occiden tali sono accesi verso questa fetta di popolazione, la maggioranza.
Ma dietro sport e clima, e dunque sportwashing e greenwashing, con una presunta visione green del futuro
energetico che farà fatica a smarcarsi da petrolio, resort e i loro business, c’è anche la partita geopolitica dei Paesi del Golfo. Basti pensare al Qatar an cora una volta: alleato forte della Na to, con la base militare americana di al-Udeid, strategica per tutto il Medio Oriente, ha offerto per primo una se de politica ai Talebani afghani per una mediazione con Stati Uniti. Nego ziati durati anni, ma la fine è stata più veloce dell’inizio.
Nella macchina di soldi che produ ce un Mondiale, il Qatar ha speso 220 miliardi di dollari, soprattutto per le infrastrutture (alberghi, rete stradale e costruzione del sistema ferroviario),
un costo superiore ai ricavi generati nel mese del torneo. E la vendita delle merci con i marchi partner della Fifa non contribuisce al gettito fiscale del Paese ospitante. I salari dei lavoratori nonostante i leggeri miglioramenti non saliranno e chi faceva soldi prima ne farà di più, ma non con ricadute su un benessere più ampio. Il turista non interessato ai Mondiali ci starà per al meno due mesi alla larga. Almeno a breve termine, non ha senso dal pun to di vista finanziario ospitare una Coppa del mondo di calcio. Ma alcune cose sono più importanti del denaro. Ospitare una Coppa del mondo è un esercizio di proiezione di soft power. Offre al mondo una finestra su tutto il Golfo, un buon posto in cui investire o fare affari. I Paesi vicini come Emirati e Oman sono diventati Paesi satelliti del torneo: l’Oman, che spera di ospi tare almeno un 1 per cento di tifosi previsti, sta offrendo voli shuttle in corrispondenza delle partite. È il vici no politicamente neutrale nel Golfo che pure cerca di farsi notare. Il Qatar accoglie oltre un milione di visitatori, le previsioni dei fratelli del Golfo sono rimaste incerte.
Ed è proprio tra vicini che per poco non scoppiava una lite: dal giugno 2017 al gennaio 2021 il Qatar è stato isolato con un embargo da parte di Arabia Saudita, Emirati Arabi, Bahrein ed Egitto che lo accusavano di sostene re il terrorismo e aver troppi legami con Iran e Turchia. Quest’ultimi due non l’hanno mollato nella crisi diplo matica, da cui è uscito più forte che mai. Il 20 novembre il giovane prin cipe Mohammed Bin Salman, il più autoritario e controverso dei principi del Golfo, è volato a Doha per la ce rimonia di apertura dei Mondiali. Tri sta quella casa dove non entran mai vicini. Del resto le partite di calcio si guardano sempre insieme.
Una cosa è certa: anche dopo un autogol, i paesi del Golfo non reste ranno di certo in panchina. Sono pronti per la prossima partita.
Il party del 2019 organizzato da Shine Cambodia, che offre istruzione gratuita ai bambini
SBALLO E NON SOLO
Cooperazione, aiuti sostegno alle comunità L’altra faccia dei rave
In Colombia, in Cambogia o in Tanzania: i raduni techno a impatto solidale. Espressione di una controcultura da conoscere
Un camion carico di cibo, ve stiti, giocattoli e medicine viaggiava dall’Inghilterra verso Sarajevo tra le strade ghiacciate, dopo la firma del cessate il fuoco della guerra nei Balcani. Era l’in verno del 1995, alla guida si alternava no tre artisti del gruppo Desert Storm che in carovana con altri amici intra presero un’avventura di solidarietà, che ispirerà tanti altri gruppi della sce na dei free party (comunemente chia mati rave) in diverse parti del mondo. Feste di musica elettronica organizza te a scopo benefico per regalare mate riali scolastici, fornire accesso a risor se idriche e portare altri aiuti alle po polazioni in zone di conflitto o in aree remote.
tino possa risultare pericolosa», ag giunge.
Foto: Luc Leijtens
In Italia, i rave sono tornati sotto i ri flettori dopo il primo decreto legge ap provato dal governo Meloni lo scorso 31 ottobre che, tra le altre cose, intro duce un nuovo reato contro chi li orga nizza e vi partecipa. Le persone che trasgrediscono rischiano di essere pu nite con pene da tre a sei anni di reclu sione, anche se la parola rave non com pare mai nel testo. «La norma potreb be essere teoricamente applicabile a qualunque raduno che l’autorità pub blica reputi a suo giudizio pericoloso», spiega la giurista Vitalba Azzollini. «Giudizio del tutto discrezionale, per ché il testo non fornisce criteri. Potrà dunque essere sgomberata qualunque occupazione non autorizzata se repu
Quel decreto legge ha riportato l’at tenzione sul mondo dei free party, em blema di una controcultura nella quale trova spazio anche la beneficenza. «In Europa sono poche le persone che as sociano i rave alla solidarietà. Non si conoscono i progetti sociali che finan ziamo con le feste organizzate dalla nostra associazione Syndrom Aktif e le persone si sorprendono quando li rac contiamo», spiega uno dei volontari che vive in Colombia da oltre un decen nio, dove gestisce un campeggio a Mendihuaca, vicino alla Sierra Nevada di Santa Marta. Lui, come gli altri inter vistati, ha chiesto l’anonimato per moti vi di riservatezza e per dare valore al la voro di gruppo. «Con l’autorizzazione delle comunità locali organizziamo un paio di volte all’anno feste di musica elettronica da circa 600 persone, grazie alle quali finanziamo progetti in due comunità dove viviamo e in altre quat tro nel deserto della Guajira, quasi al confine con il Venezuela», aggiunge.
L’aspetto solidale che può esserci in alcune tipologie di feste elettroniche, quindi, spesso non viene rilevato. «I ra ve sono l’espressione di un movimento culturale sia inclusivo e sia esclusivo, perché per accedervi bisogna aderire a specifici valori. La festa techno rappre senta una “manifestazione”, che non avviene scendendo in piazza, ma attra verso la riappropriazione tempora
musica
nea di spazi, delineando tendenze di partecipazione e di innovazione so ciale, e di opposizione ad un possibile riconoscimento mainstream. Non si analizza mai questo aspetto, perché si tende a riconoscere solo la condotta deviante», spiega a L’Espresso Raffael la Monia Calia, sociologa e assegnista di ricerca all’Università di Foggia. Si tratta, secondo la sociologa che segue questo movimento fin dagli esordi, di un’espressione culturale che non può essere gestita con la repressione. «I ra ve palesano uno scenario complesso di rischi e di opportunità e presuppongo no livelli di azione e di scelta, da eserci tare consapevolmente. Solo così pos sono rappresentare dei validi strumen ti di socializzazione, di esercitazione identitaria e di sperimentazione, ovve ro una valvola di sfogo che il sistema sociale dovrebbe concedere».
Un’espressione di controcul tura che porta con sé an che un lato solidale, come l’esperienza di aiuto alle comunità della Colombia. «Con l’ul timo festival, chiamato Tropical Wa ve 2020, abbiamo guadagnato circa 5.000 euro. Tutto l’anno finanziamo i rifornimenti di acqua per le comunità locali: 10mila litri ogni due mesi per le comunità nel deserto, che hanno a di sposizione solo pozzi abbandonati e i pochi funzionanti tirano su solo ac qua contaminata», continua uno de gli organizzatori. «Con i soldi restan ti sistemiamo le scuole, consegniamo kit scolastici e facciamo attività con bambini e bambine: quello che ci mo tiva è il legame con loro e con i pro fessori. Ogni volta che torniamo ci aspettano per condividere momenti e raccontarci i loro problemi, così da capire come possiamo aiutarli».
Dall’America Latina all’Asia, le feste elettroniche diventano così anche un’occasione di scambio con la popola zione locale. «Per il festival del 2019 in Cambogia abbiamo realizzato struttu re in bambù e yuta. In altre occasioni ci siamo occupati anche della creazione dei bagni secchi e di compostiere per la comunità locale. Cerchiamo sempre di
creare un rapporto di scambio recipro co: noi apprendiamo da loro modalità nuove per realizzare biocostruzioni, di cui poi la popolazione stessa benefi cerà», racconta una biocostruttrice del Biomimesis Project.
L’esperienza nel sud-est asiatico è stata un altro esempio di festival a scopo umanitario. Il progetto Travel to Cambogia 2019 ha unito quattro crew italiane provenienti dalla cultura rave e dei free party.
Da non sottovalutare poi l’aspetto collegato alla raccolta dei rifiuti. «In Cambogia – prosegue – così come in tutti i rave e le feste che organizziamo l’attenzione è massima, soprattutto nei Paesi in cui non esistono impianti di smaltimento. Abbiamo utilizzato ma teriali non inquinanti e biodegradabili. Nei festival canonici la gente è abituata che c’è qualcuno che pulisce dopo, mentre noi sappiamo che l’attenzione
deve essere innanzitutto nostra».
«Quello in Cambogia non è stato un vero e proprio rave, perché l’ingresso, per i non autoctoni, era a pagamento. Questo perché l’obiettivo era raccoglie re fondi. Inoltre, realizzare una festa sull’isola di Koh Rong non ha lo stesso senso di organizzarla in Europa, dove andiamo ad occupare spazi abbando nati a cui si cerca di dare una nuova vi ta, anche se per pochi giorni. In quell’occasione non volevamo essere gli occidentali che vanno ad occupare un’isola, ma desideravamo che fosse un momento di festa per tutti. Il party è infatti quello che più ci rappresenta, è il modo in cui riusciamo meglio ad atti vare il contatto e la condivisione dei nostri valori», spiega una delle ideatrici del progetto umanitario.
Quello cambogiano era incentrato sulla scuola. «Dopo diversi studi abbia mo individuato un’associazione au
straliana, Shine Cambodia, che offre istruzione gratuita a Sihanoukville per bambini e bambine che si trovano in difficoltà estrema. Abbiamo trascorso giorni insieme, organizzando attività e realizzando le decorazioni poi esposte nei giorni del festival. Alla fine della fe sta siamo riusciti a consegnare mate riale scolastico per far studiare oltre 200 alunni per un intero anno e le zan zariere per le aule».
Finanziamenti per le scuole ma anche un’attenzione alle risorse che scarseggiano in aree rurali. Nel giugno 2022, altre crew della scena italiana ed eu ropea hanno organizzato Expedition Tanzania. I giorni di festival a Baga moyo (a 70 km dalla capitale) e la rac colta fondi partita mesi prima, han no permesso di costruire due pozzi, donare due serbatoi per l’acqua e di
consegnare 500 chili di materiale (ve stiti, quaderni, matite), oltre a 4.000 preservativi in centri di sensibilizza zione e prevenzione, anche all’uso di sostanze stupefacenti.
L’attenzione legata al consumo di droghe è forte nel mondo dei raver, sia in Italia che all’estero. “Nelle nostre feste non esiste giudizio e pregiudizio e le sostanze vengono assunte in li bertà, non nel bagno di una discoteca o nella solitudine della propria casa. Questo consente a chi fa uso di dro ghe di farlo in un contesto protetto. Molto spesso, infatti, i sanitari non sanno come trattare chi ha assunto sostanze, mentre in quasi tutti i rave sono presenti professionisti della “ri duzione del danno”, che sono in grado di capire cosa la persona ha consuma to e aiutarla se in difficoltà», spiega una delle organizzatrici. Dalla benefi cenza alla riduzione del danno del
consumo delle droghe, attorno ai sound system si crea un nuovo model lo sociale che sfugge a modelli preco stituiti. «Nella festa si costruisce, an che se temporaneamente, un tipo di società in cui ci si riconosce, lascian dosi alle spalle un sistema che viene interpretato come repressivo. Il rave resta quindi un’opzione dissidente di resistenza simbolica alla pressione normativa percepita, continua la so ciologa Calia. Che riguardo alla com ponente solidale di alcune feste elet troniche spiega: «Ad oggi si fa fatica a riconoscere, istituzionalmente, la ten denza partecipativa insita anche in condotte giovanili dissidenti: solo ade guati strumenti di decodifica culturale saranno in grado di farci comprendere il valore sociale di alcune attività espressive, a forte caratterizzazione estetica e rituale, come i rave».
SERVIZI PER TUTTI
Dalla smart tv ai giochi Il design che discrimina non è più di moda
Oggetti e tecnologie fruibili anche da chi soffre di disturbi psicofisici. Specialmente dai bambini. È il nuovo orizzonte della progettazione
di Valeria Verbaro
Colori troppo brillanti o suoni forti e improvvisi in un film, in un gioco, fra le app della nostra smart tv sono piccoli elementi di una strisciante discrimina zione. Oggetti e servizi che escludono più persone di quante riusciamo a im maginare da azioni semplici e quoti diane, perché modellati sulle esigenze di un solo gruppo di persone fin dalle origini del processo creativo. Fram menti di una tecnologia a cui non deve più bastare il farsi accessibile, ma che ha bisogno di diventare inclusiva, am pliandosi prima di tutto agli utenti con disturbi psicofisici e del neurosvilup po. È questo l’obiettivo che si pongono i designer di oggi, mentre pensano a come progettare l’interfaccia di Netflix sui televisori delle nostre case affinché l’uso sia semplificato per chiunque, a come disegnare i protagonisti dei cartoni animati Rai o a quali materia li usare per nuovi giocattoli adatti alle esigenze di bambini con disturbi dello spettro autistico.
«Il concetto di design inclusivo è molto ampio, dentro ci possono essere applicazioni diverse che vanno dal di gitale e dall’interazione con la tecnolo gia fino all’esperienza nello spazio fisi co e nella relazione con gli altri. È così che progettiamo per fare in modo che non ci siano discriminazioni», afferma Roberta Tassi, designer e fondatrice dello studio Oblo: «Applicare il concet to di inclusione significa adattare l’e
sperienza e il servizio a vari livelli di di versità già dalla progettazione. Quan do un servizio nasce con un’attenzione verso una determinata categoria di utenti, sicuramente può diventare uti lizzabile per loro ma anche migliorare la fruizione per tutti gli altri».
Sempre più progetti “inclusive by de sign”, concepiti con l’idea di non creare discriminazione e d’interrogarsi su quali sono i possibili utilizzi e le conse guenze nei confronti di una varietà di utenti, sono anche indice di un’atten zione crescente verso il tema da parte delle aziende e delle istituzioni.
Così le necessità di un sempre più ampio gruppo di persone — che non coincide più con il gruppo “prescritti vo” (bianco, cis, etero e normodotato) — stanno erodendo il grande potere dell’esclusione, scambiata per norma lità. Pur con qualche resistenza. Se condo Tassi, tutto sta nel «cambiare un servizio in modo che non ci sia bi sogno di stigmatizzare o di isolare de terminate comunità di persone». È ciò che accade, per esempio, nella proget tazione di prodotti per persone con neurodivergenze come l’autismo: non solo interfacce digitali per il Web e le smart tv, di cui si è occupata Tassi, ma anche oggetti quotidiani, giocattoli e prodotti audiovisivi.
Laura Fornaroli, designer formatasi presso l’Accademia Naba di Milano, nel 2015 realizza Willi, un prototipo sviluppato nel laboratorio di tesi della
direttrice del dipartimento di Design, Vered Zaykovsky, e pertanto mai mes so in produzione o distribuito. Willi è un giocattolo sociale «che parte dallo studio di una diversità, ma che si risol ve nel concetto di eguaglianza e inte grazione», afferma Fornaroli. Si tratta
di undici sassolini colorati dalle forme concave e convesse che, incastrandosi, funzionano anche come costruzioni. Sono accompagnati da un panno per contenerli o nasconderli e da una serie di figure da riprodurre seguendo le istruzioni. Operazione, questa, non
sempre automaticamente comprensi bile per soggetti nello spettro e quindi fondamentale per il loro apprendi mento del concetto astratto di spazio.
«Willi può essere utilizzato per inse gnare ai più piccoli concetti semplici come contare, riconoscere i colori e la
consistenza, migliorare la memoria, l’imitazione e l’immaginazione. Vole vo progettare un gioco adatto soprat tutto ai bambini e sono stati proprio due bambini a darmi l’ispirazione giu sta», ricorda la designer, raccontando che la sua idea è nata mentre osser
vava un paio di ragazzi intenti a gio care con i ciottoli di un fiume. «Volevo mettermi alla prova, disegnare un pro dotto che fosse in grado di fare davvero la differenza per qualcuno», continua, aggiungendo di aver trascorso l’intero periodo della progettazione con bam bini autistici e con le loro famiglie, stu diandone difficoltà e bisogni. Tutto, dai colori tenui alle forme dei pezzi, è pensato per non creare disagio nei bambini con disturbi autistici, ma al tempo stesso Willi rimane adatto per qualsiasi altro bambino. È un amplia
mento di possibilità, non una sostitu zione a quelle preesistenti: eccola, la definizione di inclusione. Allo stesso modo è pensato anche il nuovo pro dotto Rai dal titolo “Il mondo di Leo”, una serie animata nata da un’idea di Eleonora Vittoni e della produttrice Emanuela Cavazzini. È proprio lei, contattata da L’Espresso, a spiegare che “Il mondo di Leo” «nasce dall’esi genza effettiva di una madre, Eleono ra, che vive le difficoltà quotidiane e dalla mancanza di cartoni animati concepiti per essere fruiti in prima
persona da bambini autistici».
Cartoni animati che parlano dell’au tismo in maniera tecnica e didattica, infatti, esistono già, ma si rivolgono all’esterno, a chi non è coinvolto. Una lacuna sottolineata anche dal regista e art director Dario Piana: «L’idea era quella di un cartone di puro intratteni mento in cui, sì, il protagonista è auti stico, ma lo si dichiara in modo sottile, nei gesti e nei movimenti. Non è un bambino isolato, perché è inserito in dinamiche inclusive. Senza trasforma re la serie in un trattato medico, abbia mo carpito i punti importanti da af frontare, temi comuni anche a bambi ni non autistici, arrivando a una de scrizione delicata dei problemi della vita di ogni giorno».
Come si costruisce, però, nel concreto un prodotto del ge nere? Con la consulenza cli nica, prima di tutto. In questo caso, quella del professor Paolo Mode rato e della dottoressa Francesca Per golizzi. «Abbiamo lavorato con il pro fessore che ci ha spiegato cosa piace ai bambini autistici, ci ha spiegato come farlo. Abbiamo evitato la complessità dell’inquadratura e siamo rimasti su un cartone bidimensionale, anche se molto colorato», continua Piana. «Il rapporto con l’esperto ci ha aiutato a identificare la linea artistica che po tesse essere meglio accolta da bam bini e ragazzi per i quali è necessario uno studio grafico comprensibile, che non crei fastidi, a partire dalla roton dità della fisionomia dei personaggi e dai colori degli ambienti. Tutto è stato studiato, condiviso e scelto dai bambi ni seguiti dal professore», aggiunge la produttrice Cavazzini.
La serie animata, disponibile su Rai Yoyo e RaiPlay dalla fine di novembre, dimostra ulteriormente quanto un prodotto consapevole sia fattibile. E incarna quel principio del «risolvi per uno, estendi a tanti» su cui il design inclusivo, per definizione, si deve ba sare e a cui si deve ispirare per conti nuare a svilupparsi in ogni ambito del la quotidianità.
BEATRICE DONDI
NON C’È PIÙ
RELIGIONE
Altro che incentivo ai matrimoni in chiesa: ci si sposa più in tv che davanti all’altare. E a volte si divorzia
Se il senatore Furgiuele avesse dato un’occhiata a quanto pas sa il convento, più che proporre il bonus per i matrimoni in chiesa avrebbe potuto dirottare il suo “in centivo wedding” sui programmi dedicati alle nozze, risparmiandosi probabilmente le critiche piovute da
manca e persino da destra. Perché in un Paese ormai specchio della tv ci si sposa più nel piccolo schermo che davanti all’altare. Matrimoni talmen te laici ai limiti dell'irriverenza, dove non solo ti conosci a pochi secondi dalla fede al dito ma addirittura, ed è il caso di quest'ultima edizione di “Matrimonio a prima vista”, a tenere in piedi il gioco non ci provi nemme no. Così in un capolavoro di quadra ture del cerchio una delle tre coppie, dopo una manciata di puntate, ha mostrato una tale insofferenza reci proca da mollare la presa e salutare la produzione con tanto di pubblica sgridata, intercettazione di una ri chiesta di accordo e cacciata dal pro gramma in grande stile. Insomma, una disfatta plateale dei cosiddetti
esperti al punto che il programma in onda ora su Real Time meriterebbe di essere ribattezzato divorzio al pri mo sguardo. Senza contare poi che si è appena concluso “Quattro matri moni,” in cui le spose in barba al ro manticismo duellano con le colleghe per portarsi a casa il viaggio premio sotto lo sguardo critico del conduttore costret to per contratto a fare le pulci alle torte mul tipiano. Intanto mentre i contadini cercavano mogli e le suocere sce glievano gli abiti bian chi, si è arrivati all’ar dire di proporre una se conda stagione dell'in sostenibile “Chi vuole sposare mia mamma”, quel progettino capita nato da Caterina Balivo che in uno slancio di modernità ha aggiunto in corsa anche i padri in cerca di compagnia, con la complicità di altrettanto in sostenibili figli. Sino a che nel Paese delle nozze infrante da telecomando, che ha cavalcato neanche fosse un Palio il naufragio Totti-Blasi, persino Suor Cristina ha divorziato, niente meno che da Gesù. Dopo quindici an ni di amore altissimo, intervallato dai microfoni di “The Voice” e dai ritmi di “Ballando con le stelle”, la vita con le Orsoline aveva fatto il suo tempo. E rigorosamente in uno studio, l’ex re ligiosa ha dichiarato di aver gettato il velo alle ortiche, pronta a ricomin ciare una nuova vita, possibilmente in diretta. Perché no, le nozze reli giose non pagano. E sì, se il senatore leghista avesse guardato la tv se ne sarebbe accorto subito.
Con Venezi al potere non passa lo straniero
Non certo per caso, di questi tempi risuona spesso il concetto di autarchia. Anche il neonominato consigliere per la musica al ministero della Cultura, Beatrice Venezi, ha espresso preoccupazioni analoghe parlando di un eccesso di esterofilia nel nostro Paese. Lo straniero va fermato, anche in musica, ma si dà il caso che, almeno da questo punto di vista, la destra sia arrivata al governo troppo tardi, nel momento meno propizio della storia. Ci sono stati in passato momenti in cui questo stile di propaganda anti-straniero sarebbe stato più efficace. In passato la musica italiana è stata talvolta mortificata da un eccesso di offerta anlgosassone. Ma oggi siamo in un’era completamente diversa, la musica italiana domina, è presente ovunque, la televisione utilizza canzoni e canzonette dalla mattina alla sera, le classifiche discografiche, gli streaming, sono strapieni di musica italiana, verrebbe quasi da invocare il contrario: proteggiamo le buone vecchie star inglesi e americane di una volta che oggi fanno fatica a combattere contro Blanco e i Pinguini Tattici Nucleari. Tra un po’ agli stranieri non concederanno neanche più gli stadi, perché già tutti occupati fino al 2025 da artisti italiani. La musica italiana è florida, il mercato è forte, e in espansione. A dover essere difese sono casomai le musiche più raffinate, meno facili, quelle che generano e definiscono la cultura musicale di un Paese e che oggi sono in difficoltà di fronte a un mercato molto aggressivo. Di questo dovrebbe occuparsi un ministero. Per ragioni analoghe sarebbe folle anche dare seguito alla corbelleria sulla quota minima radiofonica che
di tanto in tanto riappare a destra. Ci si immagina di poter imporre alle radio nazionali di programmare almeno il 40 per cento di canzoni italiane. Al di là del fatto che ciò renderebbe immediatamente odiose le suddette canzoni perché imposte dalla legge, l’eventuale provvedimento si scontrerebbe con la realtà, con effetti vicini alla comicità. Quelli che invocano la quota minima sono del tutto disinformati, non si sono accorti che la musica italiana è già molto presente nelle radio, per cui potrebbe addirittura diventare un autogol clamoroso. Se si decidesse di imporre il 40 per cento di musica italiana nelle radio, questo porterebbe a ridurne la presenza che invece spontaneamente, e senza imposizioni di legge, arriva anche alla metà. Basta controllare una piattaforma che si chiama EarOne e scoprire che tra i primi dieci pezzi più trasmessi dalle radio ci sono ben sei pezzi italici. Ma c’è un altro passaggio significativo nelle dichiarazioni del consigliere Beatrice Venezi. Suggerisce la creazione di un albo per critici musicali, misura non solo preoccupante ma anche irrealizzabile per il semplice motivo che i “critici” un albo professionale già ce l’hanno ed è quello dei giornalisti, professione alla quale si onorano di appartenere.
NOUR NEL PARADISO DELLA LIRICA
Un adolescente con una madre in coma e tre fratelli maggiori ingestibili. Il bell’esordio di Yohan Manca
Il piccolo Nour è un adolescente ma sembra un bambino. Ha una madre (araba) in coma farmacologico e tre fratelli maggiori diversamente in gestibili e palestrati. Il padre (italiano) è morto da anni e nella loro casa po polare, da qualche parte in Francia sul Mediterraneo, il tempo sembra essersi fermato. In realtà però tutto si muove veloce mente e ogni fratello maggiore ha il suo mo do - non sempre legale - di affrontare la vita e portare qualche soldo a casa.
Così Nour, che deve fare la sua parte, tace, cerca di evitare le botte del primogenito, il più fragile e il più forzuto, ma soprattutto guarda. Guarda e vede tutto, sempre cercando di non farsi vedere troppo. Co me capita ai ragazzini a cui nessuno sembra fare caso, ma che hanno un mondo dentro. Per Nour quel mondo è la musica, anzi la lirica. Un’eredità del padre, murato re italiano che cantava alla moglie fa mose arie d’opera, riprese da Nour con voce flebile ma intonatissima. Come un giorno scopre per caso Sarah (Judi th Chemla, già in “Una vita” di Brizé), un’insegnante di canto che se lo tro va nascosto dietro la porta a cantare “Una furtiva lagrima”. E lo trascina in quel paradiso pieno di note e di ragaz ze, ignara dei rischi corsi da Nour ogni volta che se la svigna per entrare in quel microcosmo così lontano dal suo. Anche se non è questa la chiave del bell’esordio di Yohan Manca, teatran te italo-ispano-francese cresciuto nelle banlieue parigine ma deciso a non piegarsi all’immagine dominante
delle periferie multietniche per guar dare piuttosto alla grande commedia all’italiana. Quindi luce e colori caldi (la pellicola in 16 mm. fa ancora me raviglie), fantastiche partite a pallone in spiaggia, personaggi sempre sopra le righe, scatti di rabbia o di orgoglio autodistruttivo che minano la sicu
rezza di tutta la famiglia (per fortuna il secondogenito, il portentoso Sofian Khammes, conosce l’arte del sorriso permanente che usa anche per fare allegramente marchette). Mentre la madre giace nella sua stanza attacca ta alle flebo e il film si avvia verso un epilogo pasticciato e fin troppo fiabe sco che però non cancella la tenerez za e la grazia di quel piccolo cantante ostinato. Di Nour, delle sue timidezze, del suo sguardo sul mondo - e del suo prodigioso interprete Maël Rouin-Ber randou - non ci dimenticheremo così in fretta.
“UNA
108’
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ABORTO, QUANDO IL CONSULTORIO FUNZIONA BENE
Cara Rossini, mi trovavo in ospedale, nel reparto di ginecologia, per as sistere mia madre ricoverata per un piccolo intervento. Mi invitano ad uscire dalla camera perché le ricoverate devono essere medicate. Nel cor ridoio trovo una panca vicino a una vetrina con la porta chiusa. Mi siedo e mi metto a leggere il libro che avevo portato per ammazzare il tempo. Mentre sono assorto nella lettura arriva una barella, occupata da una gio vane ragazza, spinta da una infermiera. «Vedrai che andrà tutto bene», di ce l’infermiera alla ragazza: «Devo andare a prendere l’altra paziente, mi raccomando di stare tranquilla. Ti lascio con questo “signore” che ti farà compagnia». Mi ero seduto all’ingresso della sala operatoria del reparto e il “signore” dovevo essere io visto che non c’erano altre persone. Vole vo sottrarmi a tale responsabilità ma l’infermiera si era già allontanata. Guardo la giovane ragazza che ricambia con un sorriso, probabilmente ride per il mio imbarazzo. «Cosa devi fare?», le chiedo. «Devo abortire». È giovanissima: «Ma quanti anni hai?» «Quindici!». «Quindici anni! E vieni da sola ad abortire?» «Mia madre non sa niente». Vede il mio sguardo in credulo: «Guarda che ho fatto tutte le cose in regola. Ho fatto il colloquio e oggi mi fanno abortire». La guardo, potrebbe essere mia figlia. «Mi aveva promesso che sarebbe venuto... ma ancora non si è visto», dice. «Chi? Il tuo ragazzo?». Annuisce e allunga la testa per vedere la porta d’ingresso in fondo al corridoio. Una porta che rimarrà sempre chiusa. Intanto arri va l’altra paziente. Una signora accompagnata dal marito e dalla madre. Come è ingiusto il mondo: una signora super-assistita e una ragazza che si deve accontentare di un imbranato come me. Si apre la porta della sala operatoria e le due pazienti vengono fatte entrare. La ragazza mi guarda: «Grazie». «Grazie di cosa?». «Della compagnia». L’infermiera che le ha ac compagnate sorride: «Per oggi hai fatto la tua buona azione» e con Vasco rispondo «Eh... già!». Non è la fine del mondo se una ragazza di quindici anni abortisce. Eh... già. Non c’è niente di male se un vigliacco diserta la sua responsabilità. Eh… già. Può avere la rabbia nel cuore un uomo di mezza età? Eh… già.
Vincenzo Salciccia, Corridonia (Mc)
In poche righe l’autore di questa lettera, che sembra il testo di una pièce teatrale, ci dimostra che in Italia la legge sull’interruzione di gravidanza funziona, e funziona bene. Un’adolescente, lasciata sola dal vigliacchetto di turno, può decidere di abortire all’insaputa dei genitori grazie a un consultorio che ha saputo fare il proprio lavoro. Una donna sposata si circonda dei suoi cari per affrontare una scelta meditata e condivisa. Sono due casi di una pratica medica che viene comunque affrontata con angoscia e sofferenza ma talvolta, bisogna ammetterlo, anche con l’indifferenza seriale di donne che vivono l’a borto come un anticoncezionale. Donne lasciate sole spesso nel de grado e nell’ignoranza. A loro dovrebbe andare, come vuole anche la legge, attenzione psicologica e aiuto materiale, senza le tentazioni, per ora soltanto ventilate, di mettere le mani su questa grande con quista di civiltà.
L’ambiente pulito Un diritto universale
Esistonodiritti“naturali”? Il diritto è sempre una costruzione artificiale. Tuttavia noi vorremmo che questa costruzione si dimostrasse conforme alla “natura” del nostro essere, e cioè fosse “umana”. I “diritti umani” presuppongono, dunque, il co noscere ciò che caratterizza innegabilmente l’“essere umani”. Possiamo definirlo? In senso lato sì: noi siamo quella specie animale che è dotata di logos, capace cioè di parlare, di ragionare, e di credere, alme no, libero il proprio agire. I “diritti umani” stabiliscono che i membri di questa specie non possono perciò essere trattati da animali senza logos, alogoi, costretti a obbedienza passiva, o da schiavi. Questo è però sem plicemente il fondamento “naturalistico” dei “diritti umani”. Da qui in poi tutto viene a essere artificiale. I diritti hanno una storia, si evolvono, danno vita a ordinamenti giuridici sempre più complessi. Il sistema di diritti che ha elaborato l’Occidente può affermarsi globalmente? È quello di cui parla anche la nostra Costituzione. Po niamo la domanda in modo più drastico: l’Occidente vuole davvero operare perché il sistema di diritti che appare oggi ele mento essenziale della sua cultura diventi universale? Lo dovrebbe, poiché quel si stema nasce universale nella sua essenza. E ciò significa trans-nazionale, trans-sta tuale. Se la politica dei Paesi dell’Occiden te non si colloca in questa prospettiva, essa semplicemente tradisce i principi che predica. Pretende di affermare come principi-guida, egemoni, per la vita di tut ti i popoli ciò che per prima rende, e forse sa, irrealizzabile.
Vivere in un ambiente sano, non re spirare veleni è un “diritto umano”? Lo è diventato, certamente. Un diritto fonda mentale per la nostra “civitas”, un “dirit to civile”. Ma non può affermarsi che su scala globale. Può esservi un diritto alla scuola o alla cura in una parte del mondo, anche se in tante altre viene calpestato. Ma se un Paese inquina, il suo prossimo non dispone di vaccini per difendersi. In questo campo nessuno è immune. Non si tratta della salvezza del pianeta, della ga lassia, del cosmo, come una certa retori ca ecologista sembra a volte suggerire. Il pianeta ci sopravviverà senza grande fa
è possibile pensare alle questioni ecologiche
tica qualsiasi gesto suicida decidessimo. Le nostre pratiche mettono in discussio ne soltanto la nostra esistenza, insieme a quella di qualche altro vivente. Ma, ben prima, mettono in drammatica evidenza la contraddizione che ho già indicato: i “diritti umani” costituiscono una grandio sa costruzione intellettuale che può reg gersi soltanto se affermata e praticata nel senso della sua universalità. Dettato della retta ragione, conforme alla nostra natura razionale, dunque, per dirla con Grozio, è che ogni uomo goda di istruzione e di cu ra, che ogni uomo possa vivere libero - e si è liberi soltanto quando il bisogno non opprime, non soffoca -, e infine anche in una biosfera respirabile. Come procedere secondo tale retta ragione? Vi è una sola strada: conferire ai Paesi che oggi nep pure lontanamente dispongono di mezzi economici e tecnologici adeguati tutte le risorse necessarie per avviare la riconver sione eco-sostenibile dei propri sistemi. Un piano di aiuti autentico, non un im pegno vago da comunicato finale di un vertice. Fino a quando una tale decisione non verrà realmente presa dall’insieme dei Paesi del democratico Occidente, e i loro sforzi si limiteranno (e quanto limita ti ancora!) alla revisione dei propri interni piani energetici, la crisi ambientale si ag graverà fino a imprevedibili esiti.
Qui si rivela ancora una volta la contraddizione che caratterizza la fase storica in cui viviamo: se principi che sono “naturalmente” globali non si traducono in decisioni e norme positivamente assunte non po tranno trovare attuazione, resteranno pure idee. Se non esiste una Auto rità in grado di tradurli in diritto positivo e di sanzionare chi lo trasgre disce, la loro efficacia non sarà molto diversa da quella di una predica. Un Tribunale internazionale dell’ambiente ci vorrebbe, sulla base di un vincolante trattato tra i diversi Stati. Ma questo a sua volta presuppone un massiccio piano di aiuti ai Paesi che non possono con le loro forze affrontare una radicale riconversione del proprio modello di sviluppo. Per il momento sembra però che spese per armi e guerre costituiscano la nostra priorità.
Non
se non in termini globali. E l’Occidente deve mostrarsi pronto ad aiutare subito i Paesi più poveri