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Prima Pagina
Gabriele Cruciata 14 “Boss delle triadi”, processo a rilento Sara Lucaroni 18 Intese sul denaro, mai sui diritti umani colloquio con Riccardo Noury di Antonio Fraschilla 20 La rivolta inconsapevole dei cinesi prigionieri in casa Federica Bianchi 23 Quei femminicidi invisibili Luana De Francisco 24 Una legge contro i clienti, i sex worker dicono no Simone Alliva 26 Nuovo cinema Meloni Susanna Turco 28 Calamita Cuffaro, vuol rifare la Dc Antonio Fraschilla 32 Contrordine, si torna al carbone Vittorio Malagutti 34 In lotta per risarcire le malattie da inquinamento Angiola Codacci Pisanelli 38 Le cure negate ai bimbi del Sud Marco Grieco 40 Con la riforma Calderoli, Sanità basata sull’iniquità Ivan Cavicchi 43 A mani nude contro i veleni Anna Dichiarante 44
L’Ilva fa gola. Se paga lo Stato Gloria Riva 48 Quelle lacrime inaccettabili Paolo Pileri 54 Abbiamo occupato la scuola rivendicando responsabilità Edoardo Graziuso 56 La finta resa dei Casalesi Rosaria Capacchione 58 Tre proposte per evitare l’Apocalisse nelle carceri Franco Corleone 61 Una premier contro Macron Camille Vigogne Le Coat 66 Crisi di coppia Frank Baasner 68 L’azzardo scozzese Luciana Grosso 70 Guantanamo non chiude mai Gloria Riva 72 Piegare Kiev per negoziare la tregua Sabato Angieri 76 In classe sull’attenti Giuseppe Agliastro 78 Porta aperta sul retro dell’Ue Elena Kaniadakis 80 Non c’è pace tra gli ulivi Stefano Lorusso 84
Idee
Noi, campi di battaglia colloquio con Agnieszka Graff di Wlodek Goldkorn 88 Oriente magico Marisa Ranieri Panetta 94 L’arte è top secret Paola Caridi 98 Giovani con la febbre a 41 colloquio con Valeria Bruni Tedeschi di Claudia Catalli 100 Crane sull’altare Marcello Fois 102 Casa è libertà Valeria Verbaro 104
Storie
Così l’astrofisica Díaz-Merced traduce in suoni l’universo Roberto Orlando 106 Nella “ballroom” italiana dove si esprime la propria identità Natasha Caragnano 110 Influencer e top model virtuali, i grandi marchi se le accaparrano Maurizio Di Fazio 114
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nostalgia
Un sentimento potente si va insi nuando nella confusione di una scena pubblica affollata di idee deboli e pro poste incerte: la nostalgia. È un senti mento che ha tante facce: nostalgia di casa per i milioni di persone che hanno lasciato la loro terra in cerca di una vi ta migliore; nostalgia di sicurezza per coloro che proprio da questi si sentono minacciati; nostalgia di un progresso economico che si immaginava garantito a tutti, ma anche, e forse soprattutto, nostalgia di una politica in cui credere e riconoscersi. Si sente crescere la fatica di vivere e si pensa che tornare indietro sarebbe il modo migliore per andare avanti. Ven gono rimpianti, così, uomini e idee di tempi conclusi: Moro, Berlinguer, persino Craxi e Andreotti, con l’utile dimenticanza di scandali e ombre per non compromettere apologie tardive. E si guardano i nuovi politici con la diffiden za che in verità si meritano, soprattutto quelli che, a lungo nostalgici di un’epo
ca tragica, cercano oggi di mostrarsi li beri dall’imprinting del fascismo. Eser cizio inutile, perché la nostalgia ai no stri giorni è un impulso scomposto che invade la comunicazione, inondando la Rete di parole pronunciate nel passato o anche strumento di personaggi come Trump che l’hanno sfruttata per vende re un passato mai esistito. È quindi un sollievo che la nostalgia sia centrale anche nelle arti, con grandi film del passato come “Nuovo Cinema Paradiso” o il recentissimo “Nostalgia” di Martone, e che si sia sottoposta per secoli al trattamento di poeti e scrittori, diventando rimembranza per Leopar di, spleen per Baudelaire, nostalgia del futuro per Musil. Tra il passato idealizzato e il futuro minaccioso manca, però, un protagonista centrale: il presente. Non piace a nessuno perché ha annientato il vecchio e l’ha sostituito con il peggio. Anche se forse è proprio quella del presente la nostalgia più dolorosa.
I rimpatri forzati in Cina e il silenzio dell’Italia
Com’è possibile che in Italia ci siano decine di uffici investigati vi cinesi camuffati da centri per i servizi che hanno lo scopo di rintracciare nel nostro Paese i dissidenti del regime e rimpatriarli? Formalmente gli uomini di Xi Jinping distribuiti in diverse città non “rapiscono” delle persone da loro “ricercate” che vogliono ri portare in Cina. Se queste avessero commesso un reato, con una regolare procedura di estradizione si potrebbe procedere al rimpatrio. Questo invece non viene fatto secondo le normali procedure giudiziarie e così i cinesi han no purtroppo perfezionato gli errori del passato commessi dagli occidentali nella lotta al terrorismo islamico, vedi la vicenda di Abu Omar. In questo ca so non si tratta di “extraordinary rendition”, ma dell’accompagnamento dall’Italia a Pechino o a Hong Kong del ricercato che è stato “convinto” con una serie di operazioni violente effettuate in patria, come minacce ai parenti e torture, a lasciare “volontariamente” il nostro Paese. Di queste persone è poi complicato conoscere che fine facciano una volta messo piede in Cina.
Tre anni fa in centinaia di migliaia sono scesi in piazza per protestare con tro una proposta di legge che consentiva l’estradizione di sospetti criminali nella Cina continentale, dove i tribunali sono controllati dal Partito Comuni sta. Ma tutto ciò non è bastato. Adesso un’inchiesta giornalistica internazio nale a cui ha partecipato L’Espresso con la Cnn e Le Monde, mette in luce quello che avviene anche nel nostro Paese.
I cinesi l’hanno chiamata operazione “caccia alla volpe”. Di tutti i fuggitivi che ri entrano in Cina, come svela Gabriele Cru ciata nelle pagine successive, solamente una percentuale compresa tra l’uno e il sette per cento usa vie ufficiali. Lo affermano i dati forniti dalla Commissione centrale per l’ispezione disciplinare, il più alto organi smo di indagine interno al Partito Comuni sta Cinese che gestisce la «campagna con tro la corruzione», utilizzata dal segretario Xi Jinping per le purghe sia interne al Partito sia a livello internazionale. Gli altri «fuggiti vi» sono stati illegalmente «persuasi a tor nare», per usare le parole delle stesse auto rità cinesi.
L’inchiesta spiega che la preferenza del regime per la “persuasione” è legata alla ri trosia dei Paesi occidentali a rimpatriare i ricercati per metterli nelle mani di Paesi in cui i diritti umani di cittadini ordinari e op positori politici sono sistematicamente cal pestati, come ha affermato di recente la Cor te europea per i diritti dell’uomo. Nei docu
menti pubblici, che pubblichiamo online a corredo dell’inchiesta giornalistica, per con cretizzare il desiderio di riportare i fuggitivi in Cina, si legge che l’operazione “Caccia alla volpe” ha avuto inizio nel 2014 e fino allo scorso mese le forze di polizia cinesi hanno condotto più di undicimila operazioni ri guardanti talvolta singoli individui e talvolta interi gruppi familiari. Decine di migliaia di persone fuggite nei Paesi occidentali e di cui si sono poi perse le tracce al rientro in Cina.
Visto che in Italia abbiamo scoperto sta zioni di polizia cinesi camuffate, ci si chiede se e come è possibile che questo accada, e come sia stato consentito a persone vicine al regime di Xi di lavorare indisturbate e senza autorizzazioni nel nostro Paese seguendo le indicazioni ufficiali della Ccdi (Commissio ne centrale per l’ispezione disciplinare) ap plicando la «persuasione al ritorno» (ritor sioni contro i familiari rimasti in Cina), di agenti sotto copertura, di spie, di sistemi di tortura e addirittura di rapimenti come «me todo legale» per convincere i fuggitivi a tor nare. Sono domande che abbiamo posto alla Farnesina e al Viminale, che però hanno pre ferito non rispondere.
In molti Paesi la questione finisce nelle in dagini delle Unità antiterrorismo o per la si curezza nazionale, mentre negli Stati Uniti il direttore dell’Fbi ha dichiarato dinanzi al Congresso di essere molto preoccupato per delle attività così gravi «che violano il princi pio di sovranità e aggirano gli standard in ternazionali di cooperazione tra forze di po lizia». Sul tema delle stazioni di polizia d’ol tremare e la repressione transnazionale, la Commissione speciale sulle interferenze straniere del Parlamento Europeo udirà l’8 dicembre la ong Safeguard defenders che si occupa di monitorare le sparizioni in Cina. Ci piacerebbe sapere come il nuovo governo di Giorgia Meloni vuole affrontare questa questione di diritti civili, ma soprattutto di incursioni di spie cinesi nel nostro Paese.
Uffici investigativi cinesi truccati da agenzie di servizi. Agiscono nel nostro Paese per “convincere” al ritorno chi è contro il regime con procedure illegali e violazioni dei diritti umani. Viminale e Farnesina tacciono
ITALIANI DI XI
Forze dell’ordine fuori dal Congresso Nazionale del Popolo, a Pechino
W. J. è un cittadino cinese giun to a Prato nel 2002. Arrivato il legalmente in Italia, per anni ha dovuto lavorare in nero con paghe intorno ai 700 euro men sili a fronte di turni massacran ti da 15 ore al giorno in fabbri ca. Pensava di essersi costruito una vita lon tana dal regime cinese. L’illusione è durata fino all’agosto del 2015, quando è stato con tattato dai suoi familiari rimasti in Cina, a loro volta contattati da ufficiali del regime.
Lo chiamavano per suggerirgli calda mente di ritornare in Cina e consegnarsi alle autorità cinesi, che da anni lo ricerca vano perché accusato di appropriazione indebita. Dopo solo una settimana W. J. è rientrato in Cina, e da quel momento di lui non si è più avuta notizia.
Le autorità del regime hanno preferito minacciare W. J. e i suoi familiari e convin cerlo a tornare in patria anziché usare le vie ufficiali, come ad esempio una richie sta di estradizione.
MESSO A
LA CACCIA ALLA VOLPE
Di tutti i cosiddetti fuggitivi che rientrano in Cina solamente una percentuale compresa tra l’1 e il 7 per cento lo fa usando vie ufficiali. Lo affermano i dati forniti dallo stesso Ccdi (Commissione centrale per l’ispezione disci plinare), il più alto organismo di indagine in terno al Partito comunista cinese che gesti sce la «campagna contro la corruzione», uti lizzata dal segretario Xi Jinping per le purghe sia interne al Partito che a li vello internazionale. Gli altri «fuggitivi» sono stati illegal mente «persuasi a tornare», per usare le parole delle stes se autorità cinesi.
Cruciata GiornalistaLa preferenza del regime per la persuasione è legata alla ritrosia dei Paesi occi dentali a che dei ricercati
possano tornare in un territorio in cui i diritti umani di cittadini ordinari e oppositori politi ci sono sistematicamente calpestati, come anche affermato di recente dalla Corte euro pea per i diritti dell’uomo.
Come si legge in alcuni documenti pubblici, per concretizzare il desiderio di riportare i fuggitivi in Cina, nel 2014 Pechino ha lanciato l’operazione “Fox Hunt” - Caccia alla volpecon cui da inizio 2014 a ottobre 2022 le forze di polizia cinesi hanno condotto con successo più di 11mila operazioni riguardanti talvolta singoli individui e talvolta interi gruppi fami liari. Decine di migliaia di persone fuggite nei Paesi occidentali e di cui si sono poi perse le tracce al rientro in Cina. Alcune di queste so no state trovate in Italia e da qui fatte rientra re forzatamente in Cina usando mezzi come la ritorsione sui familiari e la tortura.
LE STAZIONI DI POLIZIA OLTREOCEANO
Per superare il grande limite della distanza fisica, in tempi più recenti alcune strutture provinciali della polizia cinese hanno avvia to operazioni in stretta collaborazione con il Dipartimento del fronte unito (Ufwd) e la sua rete internazionale di associazioni, tutte im pegnate in operazioni di influenza politica. L’obiettivo delle operazioni era aprire stazio ni di polizia camuffate da uffici di servizi in
IL SISTEMA
PUNTO PER LA PRIMA VOLTA QUI DA NOI NON HA TROVATO OSTACOLI. ED È STATO POI SPERIMENTATO IN ALTRI STATI. EPPURE
territorio straniero. Le attività erano supervi sionate dal Ministero nazionale della Pubbli ca sicurezza (Mps).
Queste stazioni sono state aperte in molti Paesi occidentali tra cui l’Italia, e hanno consentito a persone vicine al regime di la vorare indisturbate e senza autorizzazioni sul suolo straniero seguendo le indicazioni ufficiali del Ccdi sulla «persuasione al ritor
IL RITORNO
Il presidente Xi Jinping all'Assemblea nazionale del popolo.A sinistra, il manager accusato di corruzione Ren Biao, sbarca da un aereo sotto la scorta della polizia a Pechino
no», che includono anche l’impiego di fami liari rimasti in Cina, di agenti sotto copertu ra, di spie, di sistemi di tortura e addirittura di rapimenti come «metodo legale» per convincere i fuggitivi a tornare.
Formalmente gli uffici rinnovano patenti, passaporti e altri documenti cinesi e funzio nano come dei Caf pensati per aiutare la co munità cinese a esplicare pratiche a di
TAGLIO ALTOMAURO BIANI
stanza nel proprio Paese d’origine. Inoltre agirebbero come uffici consolari paralleli. E questo in violazione della Convenzione di Vienna sulle relazioni consolari. Essa prevede che tali strutture siano indicate come tali alle autorità ospitanti. In realtà, però, lo stesso go verno cinese definisce gli uffici come «stazio ni di polizia d’oltreoceano» in cui il personale lavora affinché la comunità cinese locale ven ga monitorata e vengano intercettati even tuali fuggitivi, come confermano decine di storie personali verificate da L’Espresso.
L’esistenza di queste stazioni era già stata denunciatadaunreportpubblicatoasettem bre da Safeguard defenders, Ong spagnola dedita alla difesa dei diritti umani, e ripreso da alcuni articoli di giornale apparsi in Italia soprattuttosuIlFoglio.MaL’Espressooraèin grado di rivelare in esclusiva nazionale detta gli nuovi che dimostrano il ruolo cruciale gio cato dall’Italia nelle attività transfrontaliere del regime cinese.
LA PORTA D’INGRESSO
In un nuovo report di Safeguard defenders pubblicato domenica 4 dicembre e che L’E spresso ha visionato in anteprima viene mappata una situazione ben più grave di quella iniziale. Le stazioni di polizia cinese d’oltreoceano in Italia non sarebbero più
“BOSS DELLE TRIADI” PROCESSO A RILENTO
DI SARA LUCARONI
Due giovani cinesi fatti a pezzi in un ristorante, un regolamento di conti con un machete come arma. Era il 2010 e da quel duplice omicidio partì “China Truck”, l’inchiesta che secondo la Dda di Firenze e la Squadra mobile di Prato, non solo smantella una delle principali organizzazioni mafiose cinesi in Europa la cui base era nella cittadina toscana, ma ne svela forse per la prima volta meccanismi, peso, caratteristiche. E soprattutto nomi, come quello del «capo dei capi», Zhang Naizhong, «l’uomo nero», artefice di una pax fra bande criminali la cui guerra aveva già fatto una quarantina di morti, e ritenuto la mente di quel sodalizio. Se questo sia stato di «stampo mafioso», lo decideranno i giudici di Prato, in un processo che però non riesce a partire per cavilli legali, difficoltà di traduzioni, reperibilità degli imputati: lo scorso 11 novembre, per difetti di notifica ad alcuni di loro, per la terza
IL BLITZ
Agenti della polizia impegnati nell’operazione contro la mafia cinese denominata “China Truck” a Prato. A sinistra, il pattugliamento congiunto di agenti cinesi con la polizia italiana
quattro come affermato inizialmente, ma al meno dieci. Oltre a Prato, Firenze, Milano e Roma, ora spuntano anche nuove aree tra cui Bolzano, Venezia e la Sicilia.
A questo punto l’Italia è il Paese con la più alta presenza al mondo di stazioni di polizia d’oltreoceano. Ma c’è di più. In alcuni docu menti delle autorità cinesi, che L’Espresso ha messo a disposizione dei lettori online sulla piattaforma Pinpoint, accessibile dal sito le spresso.it, si parla delle stazioni di Milano e Roma come di «progetti pilota». Cioè la Cina avrebbe utilizzato l’Italia come esperimento per capire come aprire stazioni di polizia
CONTROLLO DEI CONNAZIONALI FUORI DAI CONFINI, LOCALIZZAZIONE DI PERSONAGGI RITENUTI OSTILI. TRA LE ARMI USATE ANCHE MINACCE AI PARENTI, RAPIMENTI E TORTURE
volta l’udienza è stata rinviata. In quella del 23 settembre invece non si trovavano i 56 faldoni che costituiscono il fascicolo penale, mentre il 16 febbraio, data di inizio del processo, il rinvio era dipeso dall’accoglimento delle istanze di impedimento presentate da alcuni difensori. Le indagini nel gennaio 2018 culminarono con 70 indagati e 33 arresti, tra cui Naizhong, ritenuto il boss delle triadi in Italia con l’accusa di controllare la logistica merci delle aziende cinesi pratesi e di altre città italiane da e verso mezza Europa imponendo le ditte di trasporto. Attività corroborata da estorsione, usura, riciclaggio, sfruttamento della prostituzione, spaccio, gioco d’azzardo, reati ora contestati a vario titolo a 55 imputati. Tutto rimandato al 10 marzo 2023, col rischio concreto che molti reati finiscano in prescrizione. L’aggravante mafiosa, contestata a 38 di loro tra cui il presunto boss, è il cuore del colossale lavoro di indagine della Squadra mobile di Prato, allora diretta da Francesco Nannucci, ora capo centro della Dia di Firenze: «Chi comanda a Prato, comanda in Europa», spiegò dopo gli arresti, annullati venti giorni dopo dal Tribunale del Riesame di Firenze che non rilevò «gravi indizi» di colpevolezza tali da contestare l’esistenza di un sodalizio mafioso. Sentenza che la Cassazione confermò in due pronunciamenti, fino alla decisione nel 2021 del Gup di Firenze di portare invece alla sbarra per la prima volta proprio la «mafia cinese». Le 5.000 pagine di informativa ricostruiscono circostanze, metodi, potenza economica, timori
e omertà non sul territorio ma dentro le comunità, i legami verticistici in Cina, e l’ascesa e gli affari milionari di Naizhong. Per il 62enne originario del Zhejiang, il 19 settembre è però arrivata la prima assoluzione, sempre a Prato, nel processo stralcio di “China Truck”. Erano a giudizio sei dei 55 imputati, quelli ancora destinatari della misura cautelare, non per l’aggravante mafiosa ma per i soli reati satellite: due sono stati condannati a otto e sei anni di reclusione. Naizhong, accusato di un episodio di usura risalente al 2011, è stato assolto perché «il fatto non sussiste». L’uomo che nelle intercettazioni si autoproclama «boss dei boss» ufficialmente è un imprenditore nel settore logistico. Stando alle carte, le società risultano affidate a prestanome e sempre lui sarebbe beneficiario finale dei proventi di sale da gioco illegali, estorsioni, droga, prostituzione e riciclaggio. Giri milionari: nei camion dell’organizzazione, oltre alle merci, viaggiavano anche scatole di banconote da 500 euro. Residente a Roma, ma temuto e riverito nelle più grandi comunità cinesi italiane ed europee, a Prato la polizia lo riprende mentre all’interno un ristorante riceve «l’inchino» di decine di connazionali arrivati in auto di lusso per omaggiarlo. Lusso che sfoggia anche al matrimonio del figlio nel 2013: all’hotel Hilton di Roma gli invitati li aveva fatti arrivare a bordo di Ferrari e Lamborghini noleggiate, 500 gli ospiti giunti anche da Francia e Cina, 80 mila euro di conto saldato in contanti.
INTESE SUL DENARO, MAI SUI DIRITTI UMANI
COLLOQUIO CON RICCARDO NOURY DI ANTONIO FRASCHILLA
Secondo il portavoce di Amnesty international in Italia Riccardo Noury le autorità della Cina hanno spesso ten tato di fare pressioni su componenti delle loro comunità all’estero e con metodi che vanno contro il rispetto del diritto internazionale. «Sugli uiguri abbiamo segnalato un caso anche in Italia. Ma il vero tema, che le nostre istituzioni non considerano, è che dietro accordi com merciali con la Cina si chiudono gli occhi sulla richiesta del rispetto dei diritti umani nei Paesi occidentali come nel territorio cinese».
Noury, avete segnalato casi di interferenze delle autorità cinesi nei Paesi esteri e in particolare in Europa?
«Sì, ci siamo occupati più volte a livello internazionale della mano lunga delle istituzioni diplomatiche cinesi all’estero. In particolare in relazione alla questione delle famiglie di esuli uiguri, la popolazione che vive nel nord-
su territorio straniero che sono state poi effettivamente impiantate in numerosi Paesi occidentali.
Ma perché il regime di Pechino ha trova to nell’Italia la porta d’ingresso al mondo occidentale? Secondo l’agenzia di stampa ufficiale cinese Xinhua, le stazioni di poli zia d’oltreoceano sono «una delle impor tanti realizzazioni dei pattugliamenti con giunti di polizia sino-italiani». Il 27 aprile del 2015 infatti l’allora ministro degli Esteri Paolo Gentiloni firma un accordo con cui si dà il via a delle operazioni congiunte di pat tugliamento del territorio tra forze dell’or dine italiane e cinesi. La prima stazione «pilota» viene aperta a Milano nel 2016 proprio durante lo svolgimento dei pattu gliamenti congiunti.
Ma non finisce qui: il 24 luglio 2017 l’allo ra viceministro dell’Interno Filippo Bubbi co firma un accordo per rafforzare i pattu gliamenti congiunti. I contenuti dell’accor do rimangono tuttora ignoti, ma è noto che in occasione del rinnovo il ministero della Pubblica sicurezza cinese affida le missioni in quattro città italiane al Dipartimento provinciale di Pubblica sicurezza dello Zhejiang, lo stesso a cui sono legate le sta zioni dello Qingtian presenti a Roma, Mila no e Firenze, aperte nel 2018.
ovest della Cina, nella regione autonoma dello Xinjiang. Queste comunità sono in diversi Paesi esteri sotto ricatto dalla polizia cinese e dalle autorità di Xi Jinping». In che modo sono sotto ricatto, e quali metodi utilizzano le autorità cinesi per farli tornare in patria?
«Cercano in ogni modo di riportarli in Cina con la scusa di dover rinnovare un documento, per esempio, oppure avvisandoli che ci sono problemi con le loro famiglie rimaste nella madrepatria. Sappiamo per certo che, accolta la richiesta delle autorità e ritornati in Cina, moltissimi finiscono nei campi di rieducazione. Ma c’è di più: chi inizialmente si rifiuta di tornare in patria, e mantiene magari rapporti epistolari con la famiglia, mette a rischio i componenti di quest’ultima, che vengono magari arrestati. Si spezzano così sentimenti e rapporti familiari in maniera profonda e drammatica.
Ma la situazione più grave di tutti, e che denunciamo a livello internazionale, è quella dei campi di rieducazione dove sono finite oltre un milione di persone. E oggi preoccupa non solo la situazione a Pechino o nell’area della Xinjiang , ma anche quello che si sta vivendo ad Hong Kong: qui è stata appena chiusa anche la sede di Amnesty international». Avete segnalato casi di pressioni da parte di esponenti del governo o dello stato cinese avvenute nelle comunità in Ita lia alle nostre autorità? E che risposta avete ricevuto? «In Italia abbiamo seguito una storia di ricongiungimento familiare. I genitori vivono in Italia ma non riescono a far arrivare dalla Cina i loro tre figli. Dobbiamo dire che in questo caso le autorità italiane ci stanno aiutando, con tutte le difficoltà del caso. Comunque anche da parte nostra è difficile ricevere segnalazioni dall’interno di queste comunità, che sono spesso molto chiuse. In generale ci scontriamo con un Paese che non considera il rispetto dei diritti umani come un elemento fondante dello Stato. In Cina inoltre c’è una continua repressione
del dissenso, soprattutto di avvocati che hanno provato a chiedere riforme e che invece vengono perseguiti: in diverse centinaia sono così finiti in carcere con l’accusa di aver seminato disordine e malcontento».
I governi italiani negli ultimi anni hanno fatto diversi accordi commerciali con la Cina. Che risposte avete ricevuto sull’inserimento del rispetto dei diritti umani, in entrambi i Paesi, per la comunità cinese?
«Nessuna. E abbiamo sempre sollevato questo tema: in ogni accordo che viene preso con le autorità cinesi non c’è nulla sul rispetto dei diritti umani. A esempio sulla famosa intesa della “Via della seta”: questi accordi, al contrario, sono basati sullo sfruttamento del lavoro in grandi aree della Cina. E non parliamo solo dei marchi del lusso, dove ci sono decine di denunce. I rapporti tra Cina e Occidente, inclusi i rapporti tra Cina e Italia, sono basati evidentemente sul denaro e non sul rispetto dei diritti».
UNDICIMILA OPERAZIONI CONDOTTE TRA IL 2014 E IL 2022. CON I CANALI DI ESTRADIZIONE UFFICIALI CONCESSA LA CONSEGNA DI UNA QUOTA COMPRESA TRA L’1 E IL 7 PER CENTO DEI RICERCATI
LA COMUNITÀ
Un’imprenditrice sventola la bandiera cinese nei giorni del festeggiamento del capodanno cinese nella zona industriale di Prato.
In alto Riccardo Noury portavoce di Amnesty international in Italia.
Esistono inoltre delle fotografie e dei video riportate su Formiche che immortalano l’i naugurazione della stazione di polizia d’oltre oceano all’Esquilino, storicamente punto ne vralgico della comunità cinese nella capitale. All’inaugurazione, tenutasi nel luglio del 2018, è presente Giuseppe Moschitta, in quel momento capo del Commissariato Esquilino. Presenti anche Feng Sibo, alto rappresentan te della polizia cinese, e il console cinese. L’Espresso ha interpellato il ministero dell’Interno e Giuseppe Moschitta per capi re cosa sapessero le autorità italiane in quel momento e la Farnesina per capire com’è possibile che l’ambasciata italiana a Pechino - all’epoca retta da Ettore France sco Sequi - fosse all’oscuro del fatto che questi accordi venivano presi con l’Mps, ministero cinese ben noto per le attività di repressione condotte a danno dei dissi
denti e delle minoranze etniche-religio se nel Paese. Anche perché i documenti in questione consultati da L’Espresso erano e sono tuttora pubblici.
Dopo più di una settimana né la Farnesina né il Viminale hanno mai risposto.
LA REAZIONE MANCANTE
Tra le storie personali verificate da L’Espres so spicca quella di Z., in Italia per 17 anni e persuaso al ritorno in soli sette giorni dopo che le autorità cinesi avevano trovato la sua figlia minore ad Hangzhou. Secondo Laura Harth, campaign director di Safeguard de fenders, «non solo operazioni e storie indivi duali simili hanno riguardato cittadini cinesi in almeno 120 Paesi del mondo, ma ci sono le prove dirette dalle stesse autorità cinesi che le stazioni di polizia d’oltremare sono coin volte nelle operazioni».
In molti Paesi la questione viene investiga ta dalle Unità antiterrorismo o per la sicurez za nazionale, mentre negli Stati Uniti il diret toredell’FbihadichiaratodinanzialCongres so di essere molto preoccupato per delle atti vità così gravi «che violano il principio di sovranità e aggirano gli standard internazio nali di cooperazione tra forze di polizia». Sul tema delle stazioni di polizia d’oltremare e la repressione transnazionale, la Commissione speciale sulle interferenze straniere del Parla
DI MIGLIAIA DI PERSONE CHE AVEVANO CERCATO RIPARO ALL’ESTERO SI SONO POI PERSE LE TRACCE DOPO IL RITORNO. IN AZIONE LA RETE INTERNAZIONALE DEL DIPARTIMENTO DEL FRONTE UNITO
CHINATOWN
Una donna si avvia verso l'ingresso del centro culturale cinese in via Sarpi, la Chinatown di Milano
mento Europeo udirà Safeguard defenders il prossimo 8 dicembre.
«L’Italia è l’unico Paese europeo in cui la reazione alla nostra indagine è stata molto fredda», ha detto Laura Harth citando in par ticolare l’ex ministra degli Interni Luciana Lamorgese (all’epoca della pubblicazione a fine mandato), che parlando della stazione di polizia di Prato disse al Foglio che «non de stava particolare preoccupazione» e che nel complesso si trattava solo di uffici ammini strativi che niente avevano a che fare con atti vità di polizia.
«Sarebbe il caso che il nuovo governo ita liano mostrasse la ferma volontà di cambiare passo e investigare seriamente la questione, ivi inclusa l’esposizione complessiva del Pae se alle interferenze di Pechino, visto che è proprio dall’Italia che è partito tutto», con clude Harth.
di FEDERICA BIANCHI
La rivolta inconsapevole dei cinesi prigionieri in casa
Èstata la protesta del foglio bianco. Bianco come la tuta degli uomini che da due an ni impediscono ai cittadini di uscire di casa per contenere l’epi demia del Covid-19. Bianco come il vuoto pneumatico in cui finisce ogni richiesta. Bianco come il lenzuolo in cui sono ricoperti i cadaveri dei pro testanti torturati a morte. Il bianco in Cina equivale al nostro nero: è il colo re della morte. Fisica e civile.
La scintilla è stato l’incendio scop piato in una palazzina di Urumqi, capitale della martoriata regione dello Xinjiang, dove a una decina di persone in fuga le barricate poste per arginare il Covid-19 hanno tolto la vita. Ma, a differenza delle decine di proteste locali, le fiamme respon sabili di quelle morti hanno attraver sato valli e colline, lambendo le città della costa orientale, Pechino, Shan ghai, Hong Kong e l’ormai mitica Wuhan, epicentro dell’epidemia. E hanno riattizzato profondi e nasco sti rancori, dolori, rimostranze per cui non c’è più nessuno spazio nella Cina sterilizzata e iper-controllata di Xi Jinping. Dopo 32 anni, anche se solo per qualche giorno, le proteste di pochi sono diventate quelle di tanti, in tutto il Paese, unendo con tadini, impiegati e studenti. Un’even tualità ritenuta impensabile in uno Stato dove i cittadini sono scrupolo
samente sorvegliati, ma chiaro indi ce del malessere diffuso da tempo, almeno da quando Xi Jinping ha pre so il potere dieci anni fa, trasforman dolo da oligarchia in monarchia as soluta. Un potere che non lascia spa zio nemmeno alla concertazione in terna tra i membri del Politburo, come esemplificato dalla brutale cacciata pubblica dell’ex presidente Hu Jintao, critico di Xi, durante la quinquennale riunione del Congres so del Partito lo scorso ottobre. Un potere che anziché allentare i lac ciuoli della dittatura, come stava av venendo nei primi anni del nuovo millennio, li ha stretti sempre più forte, coadiuvato dalle moderne tec nologie e da una propaganda radica le che ha culturalmente isolato la popolazione dal resto del mondo e ora rischia di toglierle il respiro.
Le nuove generazioni di cinesi, cre sciute in questa realtà sotto vuotosenza accesso a nessuno strumento non cinese di informazione - non hanno memoria di nulla: non solo del massacro di piazza Tiananmen del 1989 ma nemmeno della rivoluzione tibetana del marzo 2008, delle prote ste pro democrazia del 2011, della ri volta del 2013, della rivoluzione di Hong Kong, dei paladini della giusti zia sociale come Liu Xiaobo, premio Nobel per la pace, ucciso in prigione. Non sanno che ogni anno sono in au
mento le sommosse locali. Non san no che sono metodicamente e violen temente represse proprio da quel go verno che ha per obiettivo «servire il popolo», come recita la scritta fuori dai palazzi del potere. Ed è forse per questo che tanti giovani sono scesi inconsapevoli in strada con i loro car telli inneggianti sia alla fine dei lock down sia alla fine di Xi. «Non avranno il coraggio di farci del male», gridava no i leader, increduli quando sono stati brutalmente sbattuti nelle auto e portati via. C’è chi è però riuscito a gridare, prima di scomparire, «liber tà o morte». Con un coraggio pari alla sua ingenuità. Frutto della sterilizza zione della conoscenza voluta da Xi.
Il Covid-19 è stato per questo novel lo Mao la prima grande sfida ai suoi metodi di dominio. Pensava di risol verla con vaccini “nazionalisti”, poi risultati inefficaci, e con la chiusura della popolazione in casa per mesi, poi anni, sottoponendola ad ogni ti po di obbligo. A sorpresa, la resilienza della pandemia ha puntato il faro sui limiti di un governo antidemocratico e ultranazionalista. Che ora, per sal varsi, utilizzerà una combinazione di bastone e carota, eliminando i capi delle rivolte e allentando alcune re strizioni pandemiche.
Ma la corazza del dittatore Xi è or mai scalfita in tutto il Paese: chissà se, per distrarre il pathos comune, non cercherà di indirizzarlo veloce mente al di fuori dei confini, contro un nemico esterno. Taiwan è ancora una volta avvertita.
La resilienza della pandemia ha puntato il faro sui limiti di un governo antidemocratico e ultranazionalista che per salvarsi le tenterà tutte
QUEI FEMMINIC
SONO DECINE LE PROSTITUTE UCCISE OGNI ANNO. UNA STRAGE CHE RIMANE LONTANA
DAI RIFLETTORI DELL’OPINIONE PUBBLICA. SCHIAVIZZATE IN VITA, LE VITTIME SONO CONDANNATE A RIMANERE “NON PERSONE”
DI LUANA DE FRANCISCO
Ci sono stati periodi in cui la percentuale delle pro stitute vittime di omicidio ha rappresentato quasi un quarto del totale delle donne uccise. Eppure, di quella porzione di delitti, laddove ne sia stato dato conto, si è parlato in termini e con enfasi diversi dai toni usati per il resto dei femminicidi. Quasi si trattasse di un segmento dell’universo femminile confi nato ai margini di una società che, nel ri fiutarle, ha scelto anche di ignorarne i di ritti e le sorti. Compresa la morte per ma no violenta. È uno spaccato che trova conferma ogni volta in cui la cronaca nera faccia irruzione nelle vite anonime delle sex workers quello che il Numero verde nazionale antitratta descrive nelle map pature che semestralmente aggiorna con i dati raccolti dalle unità di contatto e di strada attive in tutta Italia. Una fotografia tornata di estrema attualità anche dopo i fatti di Roma e che rispecchia l’analisi condotta dal suo coordinatore, Gianfran co Della Valle, e da Paola Degani, dell’uni versità di Padova, nel primo e finora unico studio espressamente dedicato ai femmi nicidi di prostitute.
Un numero su tutti: dal 1970 a oggi, i ca si sono stati 897. Un’autentica strage, che ha cancellato dall’anagrafe - sempre che vi fossero registrate - 765 donne e 132
transessuali (tutte mtf, ossia male to fe male). L’anno nero si ebbe nel 1998, quan do le prostitute trucidate furono 37. Ma poco cambia se, come nel 1992 e nel 1996, le vittime furono 34, o se negli anni Set tanta si era rimasti in un range compreso tra 10 e 19, o se, ancora, nel terzo millen nio si è toccato il picco nel 2000, con quo ta 29. Restano comunque dati sconcer tanti e, probabilmente, impensati anche in Lombardia, che svetta con 202 casi. Fanno storia a sé regioni più piccole come il Friuli Venezia Giulia, pure nella parte alta della classifica, visto che almeno 13 dei 27 femminicidi sono attribuiti all’i gnota mano del “mostro di Udine”, e il Trentino Alto Adige, dove fu invece il “mo stro di Bolzano”, pure rimasto senza no me, a colpire 5 delle 10 prostitute com plessivamente ammazzate sul territorio. Il periodo approfondito nel report è più ristretto: si va dal 1988 al 2018, perché è a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta che la prostituzione di strada cambia volto, passando da prevalentemente autocto na a prevalentemente mi grante. Oggi - si legge - me no del 3% delle donne che lavora in strada è italiana. Al sorpasso, tuttavia, non ha corrisposto un maggio re riparo ai rischi del
INICIDI INVISIBILI
La tratta
mestiere: con 421 vittime, la nazionali tà più penalizzata è proprio quella italia na. Seguita dalle altre due nel frattempo imposte sul mercato del sesso a pagamen to dalle rispettive tribù criminali: quella nigeriana (90) e quella albanese (66). «Donne - ricordano gli studiosi - accomu nate da debolezza individuale e sociale e da scarsa autodeterminazione del loro progetto migratorio». E che «pagano con la propria vita le faide legate a logiche di accaparramento del profitto».
Il triplice femminicidio di Roma, con la montagna di stereotipi sfoderati per rele garlo nella categoria dei delitti a sfondo sessuale, peraltro per mano di un presun to folle, ha dimostrato ancora una volta quanto poco interesse ci sia a sollevare la tendina su un mondo criminale che di quelle e altre violenze rappresenta la cor nice. Elemento, questo dello sfruttamento e delle vessazioni quotidiane subite dalle sex workers, che non a caso lo studio evi denzia, osservando tuttavia come siano le condizioni stesse dell’attività svolta a di sincentivare qualsiasi forma di denuncia. Vittime due volte, quindi: in quanto «schiacciate tra organizzazioni criminali tra loro rivali e la patologica affermazione di potere dei clienti» e in quanto “prive di regolari titoli di soggiorno e spaventate tanto all’idea di non essere credute, quan to dalla certezza delle ritorsioni” che chi le controlla farà loro patire.
Da qui, la preziosità del lavoro svolto dagli operatori e dai mediatori linguistici e culturali. Tanto più in questi ultimi anni di profondo mutamento delle modalità di prostituzione, con il progressivo calo del le presenze in strada, in atto dal 2017 - già prima, quindi, dei divieti e delle restrizio ni imposti dalla pandemia da Covid 19 -, anche quale conseguenza delle ordinanze emesse da questo o quel Comune per que stioni di “decoro pubblico”, e il parallelo incremento dell’offerta indoor. Una tran sizione tutt’altro che vantaggiosa, a senti re gli esperti, e non soltanto per la mag giore difficoltà di mapparne il variegato universo. «Il rischio, ora più che mai, è rappresentato dall’invisibilità - spiega Della Valle -. A differenza della prostitu zione autonoma e negoziata, che negli ap partamenti può trovare situazioni di mag giore comfort, chi vive sotto lo scacco del
lo sfruttamento e dell’assoggettamento vede aggravata la propria posizione di vulnerabilità». E torniamo all’esempio di Roma: quanto tempo c’è voluto per risali re all’identità delle due vittime cinesi? Es sere ostaggi di quattro mura equivale a non esistere agli occhi del mondo che le circonda. «Finché sono in strada, le pro stitute possono essere avvicinate dai no stri operatori e, pur con tutte le paure e resistenze che comprensibilmente mani festano, cominciare ad aprirsi - continua -. Tutto sta a conquistarne la fiducia: oggi sorseggiando una tazza di tè caldo insie me, domani chiacchierando in una pausa dal lavoro». La tutela sanitaria, che è l’o biettivo primario del Numero verde con tro la tratta, si costruisce così. «Il mecca nismo di prevenzione, con la distribuzio ne di preservativi e l’accompagnamento alle visite mediche - ricorda il suo coordi natore -, è rivolto a chi si prostituisce, ma vale poi anche per i clienti e per i loro par
UNA LEGGE CONTRO I CLIENTI
I SEX WORKER DICONO NO
di Simone AllivaFoto:F. Fotia / Agf
Sommerso da stratificazioni del costume, della morale e della legalità il dibattito pubblico sulla prostituzione da sempre oscilla tra proibizionismo e legalizzazione. Sull’opportunità di legalizzare o meno il lavoro sessuale la società è divisa, così come i movimenti femministi, tra chi considera la prostituzione una forma di oppressione e chi, come “Non una di meno”, chiede invece di «attuare sforzi culturali per distinguere sex worker e prostituzione forzata, denunciando e combattendo lo stigma nel primo caso e la violenza patriarcale nel secondo» e di riconoscere i diritti di questi lavoratori. Incerta è la politica che aveva fatto riemergere il tema nel mese di giugno, a 64 anni di distanza dall’approvazione della legge Merlin che nel 1958 decretò l’abolizione della regolamentazione della prostituzione e quindi anche delle cosiddette “case chiuse”. La miccia che ha innescato per mesi discussioni tra le associazioni per i diritti civili è stata il disegno di legge presentato a Palazzo Madama dalla senatrice Cinquestelle Alessandra Maiorino, che puntava a criminalizzare i clienti
tner, presenti o futuri». Non meno centra le la necessità di favorire, attraverso il filo diretto con le unità di contatto, l’emersio ne dei risvolti criminali del fenomeno. A differenziare gli omicidi di prostitute da gli altri, cosiddetti, di genere, oltre all’età media più bassa delle vittime (35,8 anni le italiane, 26 le nigeriane e 24,3 le albanesi), è proprio la frequenza con cui non si per viene all’identificazione del colpevole. «Si tratta di donne “disumanizzate”, di cui si minimizza anche la morte - scrivono gli autori -. Le prostitute risultano spesso “di sperse mancanti”: persone scomparse mai segnalate alle forze dell’ordine. Inda gare non è facile quando mancano inte resse pubblico e testimoni credibili, colle ghe e clienti si dimostrano riluttanti a col laborare e le stesse prove del Dna appaio no confuse e riferibili a più soggetti. Lo stile di vita e l’assenza di relazioni inter personali, inoltre, rendono improbabile che familiari e amici conoscano gli spo
delle prostitute, seguendo l’approccio «neo-abolizionista» introdotto in Svezia nel 1999 e oggi in vigore anche in Francia. Modello, afferma la prima firmataria, riconfermata al Senato con le ultime elezioni, che ha portato ad una diminuzione del fenomeno del 65 per cento. Oggi quel ddl torna, sulla scia del dibattito scatenatosi sui delitti di Roma. «La scintilla iniziale- spiega la senatrice a L’Espresso - era scattata già a marzo 2019. Sui giornali Salvini chiedeva di riaprire le case chiuse. Ho approfondito la questione, avviato un’indagine conoscitiva di due anni. Il mio disegno di legge non colpisce chi è in prostituzione ma chi, utilizzando il denaro, pensa di poter comprare l’accesso al corpo di un altro essere umano. Senza sapere che quel gesto mette in moto tutto il sistema di tratta». Va ricordato che nell’ordinamento attuale, non è vietata la prostituzione in sé e per sé, ma solo l’intermediazione di terzi, sia in termini di promozione sia di sfruttamento. La novità introdotta dal ddl Maiorino sarebbe la possibilità di perseguire legalmente i clienti, tramite sanzioni pecuniarie e, in casi estremi, anche pene detentive. Lo scopo è colpire la domanda. La legge potrebbe convincere Fratelli d’Italia, già nel 2018 la leader Giorgia Meloni e attuale Presidente del Consiglio dichiarava: «Non ha senso colpire le prostitute che sono solo delle vittime. Probabilmente la via che può portare a dei risultati più efficaci è quella adottata dalle nazioni del nord Europa che punta a disincentivare la domanda. Un tentativo che vale la pena fare».
Un tentativo che stona con le uscite del leader della Lega
stamenti quotidiani della vittima». Condotte con il contributo di 65 tra enti (soprattutto Comuni) e associazioni, le ri levazioni rappresentano una bussola di come, dove e quanto la criminalità orga nizzata punti sul business della prostitu zione. L’ultima, aggiornata al 20 ottobre scorso, attesta un’ulteriore inversione di marcia, con il gruppo africano (quasi sol tanto nigeriane) al 19,7% delle presenze, molte di meno rispetto al passato e al 70,8 del gruppo europeo, rappresentato per ol tre il 45% da rumene, quasi il 30 da alba nesi e il 5 da bulgare. In termini assoluti, le prostitute osservate sono state 1.440: con la prima mappatura nazionale, nel 2017, se ne erano contate 3.709. Allora co me oggi, si tratta comunque di numeri per difetto: istantanea delle presenze com plessive in una determinata sera e, poche o tante che siano, anche dello schiavismo dell’epoca contemporanea.
Matteo Salvini da anni favorevole alla riapertura delle case chiuse. «Oggi in Italia questo mercato lo gestisce la criminalità. E riguarda 80 mila persone. In Austria, Svizzera, Germania si mettono le regole, si danno garanzie. È un lavoro come un altro che si fa per scelta ed è sanitariamente tutelato e tassato. Io al governo voglio un Paese con delle regole».
E il Pd? Naviga a vista. «Non ne abbiamo ancora discusso», fanno sapere. Tuttavia, per la senatrice Valeria Valente «potrebbe esserci una maggioranza del partito favorevole a una legge che punisca i clienti».
Dentro questo dibattito muta sembra la voce delle e dei sex worker. «Cavalcando le notizie delle terribili uccisioni di sex worker a Roma si propone ancora il modello abolizionista nordico osteggiato dalle e dai sex worker la cui vita è resa più fragile proprio dalla criminalizzazione dei loro clienti», sottolinea Pia Covre, presidente del Comitato per i diritti civili delle prostitute.
La politica sul tema semplifica la complessità, dimentica che la realtà è fatta di pieghe e non di linee rette, fanno sapere da Ombre Rosse collettivo femminista di sex worker e attivisti: «Togliere il reddito alle lavoratrici vuol dire cancellare la complessità delle loro vite. Il cliente per non farsi multare potrebbe attirare le lavoratrici fuori da uno spazio sicuro. La maggior parte del lavoro sessuale è indoor, esistono dei meccanismi tra lavoratrici di mutua tutela. Il ddl aggrava e non risolve».
NUOVO CINEMA MELONI
L’INVENTORE DELLA COMMEDIA ALL’ITALIANA, AGE. SUA SORELLA, L’ATTRICE ZOE INCROCCI CHE SPOSÒ UN REGISTA CON LO STESSO COGNOME DELLA PREMIER. IL TEATRO NEL SANGUE
Adesso la verve teatrale è ap pena appena soffocata dalla veste istituzionale, cova sot to la cenere e sale a galla non appena si presenti l’oc casione. Ma certo Giorgia Meloni, anche da premier, sul punto non è cambiata: «Siete stati così coraggiosi in al tre situazioni», ha sibilato sottovoce, sarca stica, con gli occhi all’orizzonte e come par lando tra sé e sé, quando in sala stampa a Palazzo Chigi i giornalisti le contestavano avesse lasciato troppo poco spazio alle do mande sulla manovra. Vestita di rosso, quel la volta. Anche se non più urlante come nei comizi di Vox. Una Giovanna d’Arco social, come sostiene sulla rete chi gioca sulla data di nascita forse coincidente della pulzella d’Orleans, una politica subito capace di sta re al centro dell’agone, del teatro della poli tica. Come quella volta a Milano, conferen za programmatica di Fratelli d’Italia, in cui stette in silenzio sul palco per ben 54 secon di - in quel contesto è un’eternità - per signi ficare quanto fosse assurdo che le si chie desse ancora conto della maglietta nera piuttosto che delle sue proposte. Una tea
tralità spiccata, naturale, che ai militanti di FdI ricorda Giorgio Almirante: «Da Giorgio a Giorgia», c’è chi ha sospirato quella volta a Milano. Si sa che Almirante veniva da una famiglia di artisti e teatranti girovaghi: il pa dre Mario era regista e doppiatore, gli zii Er nesto, Giacomo e Luigi erano attori.
Ma a chi risale la presenza scenica melo niana? Qualche giorno fa, su Repubblica, Filippo Ceccarelli nel cercare un modello espressivo primigenio ha azzardato un pa ragone tra Giorgia Meloni e una grandissi ma del passato, Bice Valori. Compagna di Paolo Panelli, attrice versatile da teatro alto e rivista, doppiaggio, musicarelli e intratte nimento tv. Molto in comune con Meloni: «Stessa statura da piccoletta, stessa verve femminile, ironica e popo laresca, stessa risposta pronta e schietta, stessa ri sata allegra o, se necessario, sprezzante. Impressionante è la voce che nel crescendo acquista una inconfondibi le cadenza romanesca».
C’è un’altra attrice, con caratteristiche analoghe,
cui Meloni somiglia ancora di più. Il suo no me è Zoe Incrocci. Caratterista romana, una delle più note negli anni Cinquanta, attrice di teatro, cinema , televisione. Ha recitato in “Totò cerca moglie”, in “Brutti sporchi e cat tivi” di Ettore Scola. Tanto doppiaggio: era la voce stridula di Lina Lamont (Jean Hagen) in “Cantando sotto la pioggia”, della servetta lamentosa Prissy (Butterfly McQueen) in “Via col vento”, di Marilyn Monroe in “Eva contro Eva”, di nonna Salice in “Pocahon tas”. Tanti ruoli in televisione, da “Piccole donne”, “La cittadella”, fino a “Don Matteo”, “Il maresciallo Rocca” e “La dottoressa Giò”. Nel 1991 Incrocci vinse il David di Donatello, attrice non protagonista, per “Verso sera” di Francesca Archibugi. La somiglianza con Giorgia Meloni è spiccata. Impressionante. Quasi vertiginosa. Cosa c’entra Giorgia Meloni?
Un link è spuntato tra fine settembre e inizio ottobre. Quando i media spagnoli hanno cominciato a scrivere della vita cana ria di Francesco Meloni detto Franco, il pa dre di Giorgia Meloni (che se ne andò di casa quando lei aveva un paio d’anni, e che lei non ha mai più visto dal 1988), una vita da film tra isole, trasferimenti in barca, un ri storante chiamato Marques de Oristano probabilmente ispirandosi alle origini sar de, la condanna a nove anni di galera per narcotraffico e due candidature alle elezio ni locali: ebbene i giornali come El Mundo, ma anche nella Gazzetta ufficiale Spagnola (Boe) lo hanno indicato come Francesco Meloni Incrocci. In Spagna si utilizza nei documenti ufficiali anche il nome della ma dre - riforma che per ironia della sorte in Italia non ha mai attecchito, fra l’altro con l’argomento (maschilista) che avrebbe rovi nato gli alberi genealogici.
Ecco dunque spuntare un altro ramo: In crocci. Nel 1937, Zoe Incrocci, appena ven tenne, sposò a Roma Giovanni Meloni detto Nino, nato a Ghilarza in provincia di Orista no, vent’anni più di lei, personaggio di pri missimo piano nel mondo dello spettacolo di quegli anni. All’epoca lui dirigeva il teatro universitario di Roma dei Guf, avrebbe avu to un ruolo sempre più importante dal do poguerra in poi. Regista radiofonico,
Album di famiglia
punto di riferimento per prosa, rivista e teatro in radio. Premiatissimo, cercatissi mo, ebbe la Maschera d’argento nel 1954 (nello stesso giorno Gina Lollobrigida pre sentava “La Romana” alla Mostra del cine ma di Venezia) lavorava con Garinei e Gio vannini e altri pezzi grossi, perfettamente inserito nell’universo favoloso e intercon nesso che si stendeva tra via Veneto e Cine città, passando per la Rai-Eiar.
Un personaggio che ne metteva in contat to altri, da questo punto di vista somigliante aVittorioVeltroni.MelonieVeltroni,entram bi premiati con il Microfono d’argento in que gli anni, si conoscevano peraltro abbastanza bene. Alighiero Noschese raccontando i pro pri esordi, avrebbe spiegato che era stato proprio il padre di Walter Veltroni, all’epoca direttore del giornale radio, a dirottarlo sullo spettacolo: da redattore della radio, infatti, ogni volta che tornava dalle assemblee parla mentari dilettava i colleghi, più che con le cronache, con le imitazioni di De Gasperi, Togliatti, Nenni, Parri. Raccontò Noschese al Corriere d’Informazione, il 3 marzo del 1978: «Un giorno Veltroni mi consigliò a un regista radiofonico, Nino Meloni. “Sei più tagliato perfarelarivistacheilgiornalista”,midisse».
Intuizione corretta: Noschese finì nella com media “Caccia al Tesoro” di Garinei e Giovan nini e non tornò più indietro.
Nino Meloni, per suo conto, è personaggio chiave di tante carriere. Anche Nino Manfre di, nel 1987, avrebbe raccontato che nei pri mi anni di carriera, tra gli stenti, aveva svol tato così: «Grazie a Nino Meloni scoprii la radio, via Asiago. E il doppiaggio. Se no, co me andavo avanti? Il cinema non mi voleva».
Era la stagione in cui l’Italia, dall’elenco mussoliniano scolpito all’Eur sul Colosseo Quadrato che la descriveva come un «popo lo di poeti, artisti, eroi, di santi, pensatori, scienziati, navigatori, di trasmigratori» di ventava anche un popolo rutilante e ru spante di arricchiti, di cinematografari, di attori, di scrittori, di cialtroni. Di inventori di mondi. Il popolo insomma della comme dia all’italiana, magnificamente messo in scena, in quegli anni, da una coppia regale di sceneggiatori: Age e Scarpelli. Gli autori di cosette come “I soliti ignoti”, “L’armata Brancaleone”, “La grande guerra”, “I mo stri”, “C’eravamo tanto amati”, “La terraz za”, “Romanzo popolare”, “In nome del po polo italiano”, “Straziami ma di baci sazia
NONNO E NIPOTE
Il leader di Azione Carlo Calenda. Sopra, il nonno Luigi Comencini nel 1987 a New York
mi” e di almeno un altro centinaio di pelli cole fondamentali nella storia del cinema italiano. Che c’entrano i due? Age era Age nore Incrocci, fratello minore di Zoe, che era nata a Roma due anni prima di lui.
Una vita non sempre fortunatissima, quella di Zoe. Sarebbe rimasta vedova nel 1960, il marito Meloni stroncato da un in farto mentre leggeva un copione coi suoi collaboratori in casa, proprio nel giorno in cui Fanfani inaugurava il tratto Firen ze-Bologna dell’Autostrada del Sole. «Zoe Incrocci ferita in un incidente d’auto», ri portano le cronache nell’agosto di quell’an no: era in vacanza in Spagna, con quattro dei suoi figli. Ma madre alla fine di sette: «Gemma, Paolo, Franco, Mario, Guido, Lel lina e Raffaele», così come compaiono in sieme con «le nuore e tutti i nipoti» su La Repubblica, nel necrologio che il 7 novem bre 2003 ne annunciava il funerale nella chiesa di Santa Chiara a piazza dei Giuochi Delfici, la parrocchia della Camilluccia do ve Giorgia Meloni ha passato i suoi primis simi anni di vita. Prima di trasferirsi, dopo l’incendio della casa a Roma nord che ha più volte raccontato, nel quartiere della Garbatella con la madre e la sorella. E di rompere con tutto il mondo della famiglia paterna, a un punto che si fatica persino a immaginarli parenti.
Zoe Incrocci avrebbe continuato tutta la vita a recitare: ha una parte iconica anche in “Pinocchio”, dove recita Lumachina, accanto alla fata Turchina Gina Lollobrigida, zia di quarto grado di Francesco Lollobrigida, oggi ministro della Sovranità alimentare nel go vernoMeloni.RegistadiquellaserieeraLuigi Comencini, che con Age e Scarpelli aveva fat to “Tutti a casa” e “La donna della domenica”, e che come si sa è il nonno di Carlo Calenda.
PARENTI OMONIMI
Francesco Lollobrigida, ministro dell'Agricoltura e della sovranità alimentare. In alto, la zia di quarto grado Gina Lollobrigida nel 1965
Martedì scorso, dopo due ore di collo quio con la premier, uscendo da Palazzo Chigi il leader di Azione ha raccontato alla Stampa: «Sento il fascino della storia di Giorgia Meloni. È quella che lei ha raccon tato più volte: una donna che nasce in una famiglia non privilegiata, con una vita diffi cile e che ce la fa da sola. La chiami “chimica” se vuole». La storia di una «underdog», come Meloni ama definirsi. Con mezza sto ria del cinema italiano ad aleggiare fanta smaticamente sulla testa, però. Un po’ di chimica è il minimo, in effetti.
Foto: M. Mencarini –Rosebud2, A. Serranò –Agf, Keystone France –Gamma Rapho / GettyImages, C. Minichiello –Agfdi BRUNO MANFELLOTTO
Perché Renzi e Calenda fanno da stampella a Meloni
Dicono i loro fan: sono i soli a fare ancora politi ca. Con molta spregiudi catezza. A cominciare dalla temerarietà con la quale si dividono sulla scena. Qui si parla, l’avrete capito, di Calenda & Renzi, profeti del Grande Centro che forse verrà, e del loro fitto dialogo con il governo Meloni che già fa gridareLetta indignato di qua, Berlusconi preoccupato di là - a nuove mag gioranze, a generose stampelle, ad aiuti parlamentari e nomine con cordate. Del resto c’è l’illustre pre cedente dell’ascesa di Ignazio La Russa, no? E sì, ma andiamo con ordine.
I due, così diversi tra loro ma noti entrambi per essersi rumorosa mente disfatti del Pd, incuriosisco no la destra da tempo. Marcello Pera, per esempio, ex berlusconia no di ferro ora senatore di Fratelli d’Italia, si appellò un anno fa a Me loni perché lanciasse Calenda nella corsa a sindaco di Roma: «È una candidatura d’eccellenza». In quanto a Renzi, l’ex Cavaliere lo considera un figlioccio. Poi è arri vato il ciclone Giorgia e le cose a destra si sono complicate.
Il primo passo l’ha fatto Renzi, sempre il più svelto di tutti, che si è
offerto come presidente di una commissione d’inchiesta su Co vid-19 e lockdown. E come dimen ticare l’elogio della premier - «Am mazza, bravo!» - mentre al Senato lo ascolta condannare «il no a pre scindere su presidenzialismo, giu stizia e rigassificatori» e dichiarar si «lealmente contro, lealmente pronto a dare una mano». Dopo un po’ ecco anche Calenda, compren sivo: «La manovra economica non funziona e la premier è nuova: va aiutata, non solo contestata». Po verina.
I due sono bravi a dividersi i ruo li. Mentre Calenda si fa ricevere a Palazzo Chigi per parlare di mano vra e del contestatissimo Mes, il meccanismo europeo nato per da re assistenza ai Paesi in difficoltà finanziarie, Renzi va a rassicurare Berlusconi su abuso d’ufficio e tv. Meloni assiste con interesse: un aiuto potrebbe servire, al Senato la maggioranza è stretta e Forza Italia fa mille obiezioni su pensioni, su perbonus, reddito di cittadinanza. Il Cav. invece è molto agitato per l’intrusione. Commenta il fedelissi mo Giorgio Mulè: «Ho il sospetto che i due si muovano come un ca vallo di Troia per fare breccia nella maggioranza e scombinare gli equilibri».
Rosicchiare elettori a Forza Italia e Pd in vista delle Europee. Chiedere posti al prossimo giro di nomine. Una tattica spregiudicata che però apre grandi spazi a sinistra
È proprio così? E perché? Intanto al Terzo Polo, all’asciutto nel giro grosso delle nomine, serve un po’ di concreta gestione del potere: hanno trattato su Copasir, vigilanza Rai, commissione Covid-19; poi verran no Eni, Enel, Poste, Leonardo… Ma dietroc’èancheunprogettopiùam pio. Calenda continua ad agitarsi nella speranza di strappare al Pd militanti e consensi; Renzi sonda Berlusconi convinto che questi, in caso di difficoltà con Meloni, non si affiderebbe certo a Salvini, ma a lui. E Calenda e Renzi insieme scom mettono che alle Europee del ’24 (è vicina un’altra campagna elettora le!) conquisteranno un pacchetto di votiadoppiacifra«parlandoailibe ralinonsovranistieairiformistiche non vogliono morire populisti». E i giochi si riaprirebbero.
Alcuni sondaggisti dicono che questi progetti danno più fastidio al Pd che alla destra, e tutto sembra confermarlo, dall’alleanza per le politiche annunciata e poi cancel lata, a quelle per Lombardia e La zio fino al dialogo in corso. I terzo polisti pensano che spingere il Pd verso Conte aprirebbe praterie per le loro scorrerie. Ora però la stam pella di Renzi e Calenda a Meloni cambia le cose e forse sposta il di battito dentro il Pd: la questione non è più scegliere tra Calenda e Conte, ma valutare quanto sia op portuno dialogare con il M5S e a quali condizioni. Scombinare gli equilibri, non subirli. E magari ri flettere sulla propria identità.
CALAMITA CUFFARO VUOL RIFARE LA DC
DI ANTONIO FRASCHILLA
Il grande salto è pronto e a chi lo guarda con scetticismo e un po’ di puzza sotto il naso per i suoi atteggiamenti folcloristici rimasti immutati, si consiglia caldamente di «non sottovalutarlo». L’ex governatore siciliano Salvatore Cuffaro, dopo il ritorno in politica nella sua Sicilia con le insegne della nuova Democrazia Cristiana, e fresco di riabilitazione dalla condanna per favoreggiamento, sta tessendo una rete nazionale per rilanciare lo scudocrociato e tornare in giro e in televisione. I volti sui quali Totò sta puntando sono due: l’ex governatore della Lombardia Roberto Formigoni, e l’esuberante eurode putata no vax Francesca Donato. Ma non solo: nella rete di Totò saranno coinvolti nomi noti della Dc dei tempi che fu. Ma andiamo per ordine.
Cuffaro e il progetto di rilanciare la Democrazia Cristiana in salsa sici liana non sono stati minimamente scalfiti dalle polemiche per aver lan ciato, assieme a Marcello Dell’Utri, altro condannato, per concorso esterno, e tentato dal ritorno in politica, la candidatura a sindaco di Pa lermo dell’ex rettore Roberto Lagalla e per aver sostenuto la candidatura
di Renato Schifani a presidente della Regione.
Totò, senza fare molto clamore, ha nel frattempo incas sato il ritorno di potere che voleva con queste due opera zioni. Piazzando assessori nella giunta comunale e so prattutto in quella regionale, e sempre in ruoli chiave e in storiche camere del consenso. Al Comune di Palermo in quota Dc è entrato in giunta Giuliano Forzinetti, figlio d’arte appena trentenne, che ha preso la delega impor tante alle Attività produttive: uno dei ruoli più ambiti in giunta, perché significa avere a che fare con tutte le atti vità commerciali della città e anche con i lasciapassare per aprire nuovi negozi.
Ma è nella giunta regionale di Schifani che Cuffaro è tornato in grande stile, prendendo anche qui deleghe pesanti per la sua Democrazia Cristiana: la delega al la Famiglia e al lavoro per l’ex medico le gale Nuccia Albano, forte di un bacino di consensi radicato soprattutto in provin cia di Palermo, e la delega agli Enti locali per Dario Messina, politico conosciuto
L’ex governatore della Sicilia Salvatore Cuffaro impegnato in un incontro durante la campagna elettorale per le regionali
alle falde dell’Etna. Per essere chiari: su queste deleghe nella storia della politica siciliana sono state lanciate carriere formidabili. Tanto per citare alcuni nomi: Raffa ele Lombardo giovane democristiano negli anni Ottanta le ha avute, come le hanno avute ras del voto di Forza Italia negli anni d’oro berlusconiani come mister venti mila voti Francesco Scoma. Non c’è sindaco o ammini stratore siciliano che non debba avere a che fare con l’as sessorato alle Autonomie locali, non c’è famiglia indi gente o precario nella regione tra le più povere d’Europa che invece non abbia mai bussato alle porte dell’assesso rato alla Famiglia e al lavoro: tanto che Albano ha appe na ricevuto una delegazione di percettori del reddito di cittadinanza che temono di perdere l’assegno per le scel te del governo Meloni.
Cuffaro però guarda avanti. E lavora a una proiezione na zionale, anche perché è fresco di riabilitazione dalle con danne subite in carriera. Il tribunale di sorveglianza di Pa lermo il mese scorso gli ha concesso la riabilitazione dalle due condanne rimediate: una negli anni Novanta, per diffa
mazione nei confronti di un magistrato, Francesco Taurisano, l’altra per favoreggia mento aggravato per aver agevolato Cosa nostra. Cuffaro puntava anche all’elimina zione dell’interdizione dai pubblici uffici, che di fatto non gli consente di candidarsi alle elezioni. I giudici hanno applicato una norma della legge spazzacorrotti che impe disce al leader della nuova Dc di scendere in campo in prima persona.
Lui comunque lavora alacremente a rilanciare adesso sul territorio nazionale la sua Dc. Il primo contatto che ha avuto per trovare sponde al Nord è stato quello di Ro berto Formigoni. L’ex governatore della Lombardia scal pita per tornare sulle scena politica, scontata la condan na per corruzione: «Lasciando il Senato ho detto che non mi sarei ricandidato, ma ho detto che avrei continuato a occuparmi di politica scegliendo il ruolo di insegnante», ha assicurato in una intervista al sito online Open. Ma adesso Cuffaro lo tenta, in virtù di una vecchia amicizia
che li lega fin dai tempi dei giovani della Dc e poi nella rampante Udc di Pier Ferdinando Casini. Cuffaro e For migoni hanno poi altre reti, diciamo così, in comune: co me quelle della sanità privata, che a entrambi sono costa te care in termini di guai giudiziari. Ma i rapporti e le amicizie restano, come quella con Angelino Alfano, oggi alla guida di un colosso della sanità come il gruppo San Donato (appena sbarcato in Sicilia con una convenzione d’oro per creare un mini-reparto di cardiochirurgia pe diatrica all’ospedale Civico di Palermo).
In ogni caso la rete degli ex Dc si sta muovendo per sa lire sul carro cuffariano. Due i nomi sul taccuino dell’ex governatore siciliano: Luigi Baruffi, ex componente di spicco della Dc milanese nella corrente andreottiana e Renzo Gubert, ex parlamentare del Cdu, oggi leader di una formazione autonomista in Trentino. Ma anche Ma rio Tassone, già calamita del voto in Calabria, è un nome presente sull’agenda di Cuffaro.
Il colpo mediatico vero è però quello che a breve incas serà con l’adesione ufficiale alla Dc dell’eurodeputata Francesca Donato. Il marito si è già candidato alle Regio nali nella lista con lo scudocrociato, ma Totò vuole lei, la moglie che negli anni della pandemia è stata quasi ogni giorno in televisione, spesso con tesi a dir poco discutibi li sui vaccini e sulle restrizioni imposte dal Covid-19: ma si sa, i volti conosciuti nel bene o nel male attirano atten zione e la Dc, se vuole fare il salto nazionale, ha bisogno dei riflettori addosso.
Cuffaro vuole utilizzare questi anni per provare a schie rare la sua Dc alle prossime elezioni politiche e, perché no, se le cose vanno bene, anche subito; al Nord, magari alle Regionali in programma tra qualche mese in Lombardia, o alle prossime Europee, come lui ha annunciato a un sito locale molto vicino alla destra dell’isola: «Vogliamo rico
minciare a tessere la tela dei moderati interrotta da Giorgia Meloni. La Dc non è di Cuffaro ma è degli elettori e di chi ci crede. Mi impegno da dirigente politico in Sicilia ma stia mo prendendo contatti e lavorando in questo senso anche in altre regioni come Lombardia, Piemonte, Veneto, Sarde gna, Campania. Sono il tessitore di questa idea e chissà se ancora una volta, dalla Sicilia, la Democrazia Cristiana, ri sorgerà ancora». Amici e detrattori confermano: mai sotto valutare Totò.
CONTRORDINE SI TORNA AL CARBONE
Il deposito di carbone della centrale elettrica Torrevaldaliga Nord a Civitavecchia, di proprietà dell’Enel
DI VITTORIO MALAGUTTI
Non è il gas, e neppure il petro lio, la minaccia più grave per il clima. Se il mondo vuole mettere un freno alle emis sioni di CO2, e quindi anche al riscaldamento globale, de ve liberarsi in fretta del carbone, la fonte di energia di gran lunga più dannosa per l’ambiente. È questo l’obiettivo da anni al centro delle discussioni di scienziati e po litici, ma come dimostra l’esito deludente dell’ultima conferenza dell’Onu sul clima, la Cop 27 chiusa due settimane fa a Sharm el-Sheikh, il traguardo appare ancora mol to lontano. L’ultimo allarme sugli effetti nefasti del carbone arriva da un rapporto appena pubblicato dalla Iea, l’Agenzia In ternazionale dell’Energia. L’uso del più in quinante tra i combustibili fossili dovrà essere ridotto del 90 per cento entro il 2050 per rispettare la tabella di marcia che permetterebbe di limitare l’aumento della temperatura globale intorno a 1,5 gradi entro la fine del secolo, come fissato dall’Accordo di Parigi del 2015. Questa, in sintesi, la conclusione dell’Agenzia. Diffi cile negare che, alla luce della situazione attuale, l’obiettivo di decarbonizzazione fissato nel report sembra a dir poco irrea listico. Per mettere un freno al surriscalda mento del pianeta, entro il 2040 dovrebbe ro essere infatti dismesse le 9 mila centrali a carbone ora in funzione in tutto il mon do, per due terzi situate in Cina e in Paesi via di sviluppo dell’Africa e dell’Asia.
Il rapporto traccia un quadro per nulla rassicurante della situazione. Secondo gli analisti dell’Agenzia, è probabile che nel 2022 la produzione di energia con il carbo ne toccherà il suo massimo storico. A trai nare la crescita sarà l’India, che vale il 12,5 per cento del consumo globale. Più di metà del minerale estratto nel mondo vie
ne invece assorbito dalla Cina, dove però il rallentamento della crescita economica previsto per quest’anno dovrebbe finire per stabilizzare anche il ricorso al carbone come fonte di energia. Bastano questi dati per intuire come mai i due giganti asiatici, anche nella recente Cop 27, abbiano preso solo impegni generici sulla riduzione delle emissioni da combustibili fossili. Il gover no di Nuova Delhi, in particolare, avrebbe voluto che la dichiarazione finale della conferenza non citasse espressamente il carbone, ma la richiesta è stata respinta. Nel testo però si parla di graduale riduzio ne (“phase down”) e non di eliminazione (”phase out”).
D’altra parte, va considerato che per Pa esi come India e Cina il carbone è di gran lunga la fonte più importante per la pro duzione di energia elettrica: vale tra il 60 e il 70 per cento del totale. Una quota dieci volte superiore rispetto all’Unione Euro pea, dove le miniere locali (soprattutto Po lonia e Germania) insieme all’import da altri continenti, forniscono materia prima per meno del 6 per cento dell’energia. Quest’anno, però, il taglio delle forniture di gas da parte della Russia ha spinto i go verni a rimettere in funzione decine di centrali con combustibili ben più inqui nanti del metano.
«Si va a carbone con le centrali che sono ancora operative, per un periodo transito rio che serve per rispar miare, mentre sostituiamo il gas russo con il gas nuo vo», ha minimizzato nel giugno scorso l’allora mini stro della Transizione energetica, Roberto Cingo lani. A settembre, lo stesso Cingolani ha firmato un atto di indirizzo che
Energia e ambiente
EMISSIONI IN RIMONTA
Andamento emissioni di CO2 in milioni di tonnellate nella Ue per la produzione di energia e altri impianti fortemente inquinanti, come acciaierie, raffinerie, cementifici
L’ALTALENA DEI PREZZI
consente alle centrali a carbone italia ne di riprendere a marciare a pieno regi me. Il provvedimento riguarda in massima parte Enel, che possiede quattro dei cin que impianti ancora attivi nel nostro Pae se. Il più grande è a Brindisi, gli altri tre a Civitavecchia, a Fusina (vicino a Venezia) e nel Sulcis, in Sardegna. Una seconda centrale sarda si trova nel nord dell’isola ed è controllata dal gruppo Eph del miliar dario ceco Daniel Křetínský, azionista, tra l’altro, del quotidiano parigino Le Monde. Già nel marzo scorso, pochi giorni dopo l’attacco russo all’Ucraina, il governo Dra ghi aveva dato luce verde al ritorno al car bone. Il piano di risparmi concordato da Roma con la Ue per far fronte allo stop del le forniture di gas da Mosca prevede da agosto un taglio dei consumi fino a 8 mi liardi di metri cubi (su 74 miliardi com plessivi all’anno) da raggiungere entro il marzo prossimo. Secondo Cingolani, un contributo complessivo di 1,8 miliardi po trebbe arrivare dai vecchi impianti dell’E nel e da quello targato Eph. Indietro tutta, quindi. Le centrali del gruppo pubblico, tutte in via di smantellamento o di ricon versione a gas, hanno di nuovo riacceso i motori al massimo. «L’impatto ambientale
IL FENOMENO SI VERIFICA SU SCALA MONDIALE. INDIA E CINA SONO I MAGGIORI UTILIZZATORI E NON HANNO INTENZIONE DI RINUNCIARE. COSÌ LA TRANSIZIONE GREEN SI ALLONTANA
POLONIA
Nella prima foto da sinistra: l’impianto a carbone di Belchatow, in Polonia. Al centro: la miniera carbonifera nella stessa località. A destra: la miniera di lignite di Piniowek, sempre in Polonia, uno dei Paesi europei che fa maggiore ricorso al carbone
sarà piccolissimo - ha garantito il ministro - largamente compensato dalla crescita molto forte delle rinnovabili».
È ancora presto per fare un bilancio dell’anno, ma i dati relativi a questi ultimi mesi sembrano smentire le previsioni ras sicuranti di Cingolani. Già nel primo tri mestre del 2022, con il prezzo del gas vola to ai massimi storici, le emissioni sono au mentate dell’8 per cento sullo stesso perio do del 2021 per effetto del «maggior consumo di fonti fossili concentrato su carbone e petrolio», come rilevato a suo tempo dall’Enea, l’Agenzia pubblica per l’e nergia e lo sviluppo sostenibile. Tra set tembre e ottobre, segnalano le stime più recenti, il tasso di crescita della CO2 in at mosfera è un po’ calato, ma la buona noti zia si spiega più che altro con il rallenta
mento del sistema industriale accompa gnato da un clima insolitamente mite nelle prime settimane d’autunno. Di conseguen za, insieme alla domanda di energia per le aziende e per il riscaldamento, sono dimi nuite anche le emissioni. A ottobre, per di re, l’Italia ha consumato il 6,6 per cento di elettricità in meno rispetto allo stesso me se del 2021. Il trend, però, potrebbe inver tirsi quanto prima, con l’arrivo dell’inverno e il calo delle temperature.
E le rinnovabili? Qui le previsioni di Cin golani non hanno retto alla prova dei fatti, almeno finora. Abbiamo consumato più carbone, certo, ma anche meno energia da fonti pulite, perché nei primi dieci mesi dell’anno il sistema ha dovuto fare i conti il crollo della produzione idroelettrica, me no 37,6 per cento, dovuto a un’eccezionale
siccità che prosegue ormai da più di un anno. A conti fatti, quindi, la crescita di fo tovoltaico (circa 2 mila gigawattora in più) e quella, molto più ridotta, dell’eolico (cir ca 500 gigawattora) non hanno affatto compensato l’aumento dell’energia elettri ca prodotta nelle centrali a carbone, pari a circa 7 mila gigawattora in più rispetto ai primi dieci mesi del 2021, un incremento del 71 per cento. Secondo le rilevazioni di Terna, l’elettricità prodotta grazie al car bone ha così raggiunto il 6,7 per cento del totale, quasi il doppio del 3,7 per cento fat to segnare tra gennaio e ottobre del 2021. Le emissioni di CO2 sono aumentate di conseguenza, come segnala Enel. Le cen trali gestite dal gruppo pubblico hanno prodotto nel primo semestre dell’anno 237 grammi di CO2 per kilowattora contro i 207 grammi registrati nello stesso periodo del 2021, un dato che nei documenti uffi ciali dell’azienda viene spiegato con «l’au mento della produzione termoelettrica a carbone».
Il riavvio delle quattro centrali che da tempo funzionavano a mezzo servizio ha costretto Enel a fare scorta di minerale proprio mentre i prezzi si impennavano al rialzo. Da gennaio a luglio le quotazioni
Energia e ambiente
del carbone sui mercati internazionali sono più che raddoppiate e il calo estivo ha ridimensionato solo in parte il rialzo dei mesi precedenti. Come se non bastas se, la società italiana, al pari degli altri concorrenti europei, ha dovuto fare a me no anche della materia prima proveniente da un importante fornitore come la Rus sia, colpita dalle sanzioni occidentali. Adesso Enel importa carbone soprattutto da Sudafrica, Indonesia e Colombia. Tutto combustibile che serve a compensare al meno in parte il taglio del gas di Mosca.
Il risparmio, però, ha un costo in termini di maggiori emissioni di CO2. Senza contare che la ripartenza delle centrali più inqui nanti ha interrotto un processo virtuoso di decarbonizzazione che avrebbe dovuto portare alla chiusura o alla riconversione di tutti gli impianti a carbone entro il 2025. È questo, infatti, l’obiettivo dichiarato dal Pia no nazionale integrato per energia e clima (Pniec) varato dal secondo governo Conte nel dicembre 2019. A tre anni di distanza, le buone intenzioni devono fare i conti con la più grave crisi energetica di sempre, inne scata dall’attacco russo all’Ucraina. Le rin novabili, per quanto in forte crescita, per molto tempo ancora non saranno in grado di prendere il posto del gas naturale come principale fonte energetica del Paese.
Difficile fare previsioni per il futuro prossimo. L’Europa corre il rischio di arri vare alla prossima primavera con gli stoc caggi di metano ridotti a zero e la corsa a riempirli in vista della successiva stagione invernale farebbe ripartire la corsa dei prezzi. Rinunciare al carbone diventa quindi molto difficile. Le centrali italiane continueranno a marciare a pieno ritmo e le emissioni di CO2 sono quindi destinate ad aumentare, come anche le polveri sotti li nelle zone circostanti gli impianti, che pure sono dotati di filtri di ultima genera zione per ridurre l’inquinamento. Certo l’Italia non è la Polonia dove gli impianti a carbone soddisfano il 70 per cento del fab bisogno di elettricità, mentre in Germania siamo al 25 per cento circa. Enel conferma che i suoi piani non cambiano: dal 2025 so lo rinnovabili e centrali a gas naturale. Un impegno solenne che si perde in un oriz zonte più incerto che mai, oscurato dalla guerra e dalla crisi climatica.
IN LOTTA PER RISARCIRE LE MALATTIE DA INQUINAMENTO
DI ANGIOLA CODACCI PISANELLI
È un anniversario che nessuno vuole ricordare. Il 5 dicembre di settant’anni fa il cielo di Londra fu oscurato da una nuvola di smog più velenosa del solito. Quando si diradò, cinque giorni più tardi, aveva provocato tra cinquemila e 12 mila morti. La forbice tra queste due cifre mostra quanto sia difficile attribuire malattie e decessi all’inquinamento atmosferico. In Italia, secondo i dati più recenti, ogni anno muoiono per colpa dell’aria inquinata 53 mila persone. O forse 80 mila. Il problema è che legare all’inquinamento il singolo caso è praticamente impossibile. Può sembrare un paradosso, visto che da sempre i medici consigliano “aria buona” a chi ha malattie respiratorie: «Ma non lo è», risponde Roberto Romizi, presidente dell’associazione Medici per l’Ambiente. «Il rapporto causa-effetto tra inquinamento e aumento della frequenza di numerose malattie respiratorie è stato ampiamente dimostrato. Quello che non si riesce a fare è imputare il singolo caso (attacco di asma, bronchite, tumore del polmone...) accaduto tra le persone esposte all'inquinamento, perché ve ne sono (seppure con frequenza inferiore) anche tra i non esposti». Si spiega così che solo una volta una richiesta di danni in questo senso è stata accettata da un tribunale. È successo a Londra nel 2020, quando i genitori di una bambina morta di asma hanno ottenuto un risarcimento che ha fatto storia. Sperano di scrivere un pezzo di storia anche i due torinesi, appoggiati dagli ambientalisti di Torino Respira e di ClientEarth, che hanno deciso di portare in tribunale la Regione Piemonte perché il loro figlio di sei anni soffre di bronchite cronica. Per colpa dell’aria avvelenata che ha respirato quasi ogni giorno della sua vita, e quindi della Regione, che non ha fatto rispettare i limiti di legge sull’inquinamento atmosferico. In effetti dall’inizio di quest’anno, ha calcolato MeteoExpert, i cittadini di Torino, Milano e Venezia hanno respirato per due mesi interi aria inquinata (soprattutto dalle polveri sottili, le famigerate PM10 e PM2,5). E non è un problema solo delle metropoli: all’inizio del 2021, secondo fonti dello Health Effects Institute di Boston e della rivista Lancet, la Pianura Padana era il luogo in Europa in cui si moriva di più di inquinamento. In particolare, tra le venti città a più alta concentrazione di MP2,5 si contavano Brescia, Bergamo, Vicenza, Saronno, Verona, Treviso, Milano, Padova, Como, Cremona, Busto Arsizio… Al ventunesimo posto c’era Pavia, poco oltre Torino.
Gli allarmi si ripetono, le misure d’emergenza scandiscono gli inverni. Chi cerca le previsioni del tempo si vede segnalare per prima cosa la qualità dell’aria: molte città della Pianura Padana collezionano una quantità di “inquinata”, “mediocre”, “scadente” (e ci si chiede a che serve saperlo: se piove prendo l’ombrello ma se l’aria è sporca che faccio, respiro di meno?). Un numero crescente di cittadini sceglie comportamenti virtuosi: i ciclisti aumentano anche se i medici sconsigliano lo sport all’aperto, i trasporti pubblici svuotati dal Covid-19 sono di nuovo affollati, l’aumento dei vegani mira a ridurre gli allevamenti, il caro-gas si allea con l’ecologia per far abbassare i riscaldamenti. Ma la buona volontà dei singoli non basta. Quando L’Economist ha pubblicato una piantina dell’Europa che sanciva il record negativo della Pianura Padana, le cause erano attribuite ad «agricultural waste, factory emissions and car exhausts». Allevamenti, fabbriche e motori: la seconda voce però compare a stento nel dibattito sulle misure per ripulire l’aria. Come se tutti avessero introiettato in anticipo la filosofia del nostro presidente del Consiglio: «Non disturbare chi produce». Romizi (che è di Arezzo) invece elenca tra le cause «l’industrializzazione e l’alta densità di popolazione, oltre a traffico su strada, termovalorizzatori, riscaldamento a legna e allevamenti intensivi». Barbara Meggetto, presidente di Legambiente Lombardia, conferma che «le misure prioritarie devono riguardare la limitazione del traffico, automobilistico e commerciale, sapendo che i risultati più incisivi derivano dal superamento della motorizzazione diesel. L'altro pilastro su cui occorre lavorare è la riduzione delle emissioni agricole di ammoniaca, che in Pianura Padana sono la fonte più rilevante, e fino ad oggi fortemente sottovalutata, di particolato secondario». Chi si aspettava richieste più
stringenti, in una delle zone più martoriate al mondo dal Covid, sarà rimasto deluso: ma il rapporto tra pandemia e aria avvelenata «non è stato dimostrato in modo definitivo», continua Meggetto. «Sicuramente l'inquinamento è un fattore debilitante della salute respiratoria e cardio-circolatoria. Ma sembra da escludere che ci sia un ruolo delle particelle sottili come agenti in grado di facilitare il contagio».
I ricercatori intanto allargano il campo della ricerca. «Negli ultimi quindici anni», spiega Romizi, «sono emerse, a livello sia sperimentale che epidemiologico, relazioni ben definite anche con malattie metaboliche, neurologiche, endocrinologiche, gastroenterologiche e persino psichiatriche. Per non dimenticare le neoplasie maligne». I danni colpiscono anche prima della nascita: «Una volta si riteneva che il sacco amniotico fosse in grado di “schermare” molte sostanze potenzialmente tossiche, ma ora si sa che non è così: particolato e microplastiche sono stati ritrovati nella placenta». E la situazione è destinata a peggiorare: «Le modificazioni climatiche in corso ci ricordano che non abbiamo più tempo per indecisioni o per rischiose “transizioni”. Abbiamo la urgente necessità non solo di un rapido e completo abbandono delle fonti fossili a beneficio di energie rinnovabili e sostenibili ma anche di un completo ripensamento di modelli alimentari e produttivi che si sono dimostrati nocivi per ambiente, animali ed esseri umani». Una spinta all’azione la danno le multe previste per il superamento dei limiti stabiliti dalle leggi europee, che diventano sempre più restrittivi: «Per rientrare nei limiti previsti dalla nuova direttiva», osserva Meggetto, «che più o meno dimezza i valori-soglia ammessi, occorre lavorare per togliere auto nelle città, ridurre le velocità, far viaggiare le merci sui treni e le persone in bici o sul trasporto collettivo. Ridurre il numero degli animali allevati. E rendere più efficienti gli edifici» Difficile chiedere di più in una regione in cui l’assessore all’ambiente, Raffaele Cattaneo, ha dichiarato che rispettare i nuovi limiti europei non sarebbe stato possibile nemmeno «deportando tutti i lombardi», e ha festeggiato la pioggia che ha interrotto il primo blocco del traffico di stagione a Milano notando che «la qualità dell’aria risente molto di più delle condizioni meteo-climatiche» che delle misure antismog. Il problema insomma non è l’inquinamento ma il clima. Sembra di risentire la battuta chiave di “Johnny Stecchino”: «Palermo ha un grosso problema. La mafia? No: il traffico!» Ma come nel film di Roberto Begnini, anche questa volta si ride amaro.
LE CURE NEGATE AI BIMBI DEL SUD
DI MARCO GRIECO
Ibambini non sanno cos’è la morte, alla fine delle loro favole il drago viene sempre sconfitto. Eppure ogni anno per oltre 2mila di loro, il drago irrompe nella vita vera con nomi impronunciabili: leucemia, linfoma, neuroblastoma. Secondo l’Asso ciazione italiana registro tumori, ne sono affetti 1.400 bambini fino ai 14 anni e 900 adolescenti dai 15 ai 19 anni. Una diagnosi di cancro diventa, così, una storia da un fi nale incerto, perché se è vero che per le leu cemie e i linfomi gli avanzamenti della ri cerca oggi garantiscono un tasso di soprav vivenza dell’80 per cento, spesso le difficol tà sono lungo un cammino che può snodarsi per centinaia di chilometri.
È la cosiddetta mobilità sanitaria, garantita nel nostro Paese a tutela di un diritto costituzionale (art. 32) e ribadita dall’art.24 della Convenzione sui diritti dell’infanzia e adolescenza, ma che rende lo stivale una vera e propria corsia d’emergenza. Secondo la Fondazione Gimbe, infatti, nelle regioni del centro-nord emigra l’85,9 per cento dei pazienti sotto i 14 anni. Lo conferma anche l’Istat: nel 2019 nel centro-nord sono stati ricoverati 38.462 su oltre 44mila pazienti provenienti dal meridione. È quello che i tecnici chiamano indice di fuga, cioè la pro pensione dei pazienti a ricercare un servi zio sanitario fuori regione e che economi camente diventa una voce di debito. Cin que anni fa, soltanto sei regioni hanno ge nerato debiti per oltre 300 milioni di euro: in testa Lazio e Campania. Secondo la ri
cerca Pediatric interregional healthcare mobility di De Curtis, Bortolan, Diliberto e Villani, nel 2019 la mobilità passiva è costa ta al meridione oltre 90 milioni di euro. Ma i propositi e i piani di rientro regionali non bastano se, come spiega il rapporto Disu guaglianze nella mortalità infantile in Italia a cura di De Curtis, Frova e Simone, il tasso di mortalità neonatale al sud è maggiore del 40 per cento rispetto al nord a causa della carente fornitura di servizi pubblici di prevenzione e assistenza sanitaria.
Così, per molte famiglie, la prima rispo sta a una diagnosi nefasta è una corsa con tro il tempo in centri di cura spesso lontani, che richiedono di mettere in stand-by le proprie vite. Come Anna, che in 24 ore ha racchiuso la vita sua in un trolley ed ha la
sciato Catanzaro perché la figlia di 5 anni iniziasse un percorso di cura presso il Poli clinico San Matteo di Pavia, fiore all’oc chiello dell’oncoematologia pediatrica ita liana. La nuova vita di Anna e di sua figlia non è solo iniziata con la diagnosi nefasta di leucemia, ma anche con la porta aperta di Casa Mirabello, la struttura dell’associa zione Agal, nata 40 anni per assistere i bam bini leucemici in cura al San Matteo e le loro famiglie: «Se non avessi trovato Agal, non so cosa avrei fatto. Grazie a loro ho po tuto concentrarmi su mia figlia». Dal 2014, anno di inaugurazione della struttura alle porte di Pavia, sono state ospitate 2.500 fa miglie, in larga parte dal meridione: «Non può esserci cura senza accoglienza», spiega la presidente Clara Baggi, che nei suoi oc
L’85,9 PER CENTO DEI PAZIENTI SOTTO I 14 ANNI EMIGRA NEI REPARTI DEL CENTRO-NORD. PER LE FAMIGLIE UNA RETE DI SOLIDARIETÀ MESSA A DURA PROVA DALLA CRISI ECONOMICA
chi di nonna ricorda ancora gli anni in cui l’associazione ospitava le famiglie in appar tamenti dislocati nella città: «Fu allora che, assieme a mio marito Pietro, abbiamo pen sato che Agal avesse bisogno di una struttu ra. Così, nel 2011 abbiamo visto questa casa diroccata piena di topi e, partecipando a un bando del Comune, siamo riusciti a ristrut turarla e inaugurarla nel 2014».
Oggi, a due passi dall’antica residenza di caccia dei Visconti, le dieci camere e gli spazi comuni di Casa Mirabello sono un’oa si di ordine nel caos di vite sconvolte, dove un disegno appeso con la calamita sul frigo o i vapori dei piatti regionali cucinati insie me nella grande cucina comune rubano speranza dove regna la di sperazione scandita da anamnesi e referti. Per i ge nitori, che in una manciata di ore hanno smesso di leg gere i libri di fiabe per in comprensibili cartelle clini che, la vita si tratteggia nei gesti semplici dei loro figli: una risata, un catetere
rimosso, una breve corsa in cortile: «So no i bambini che, non conoscendo né la morte né il rischio, danno a noi la forza», spiega Baggi. Come già sottolineava la dot toressa Francesca Baldo, presidente dell’as sociazione Respirando, nata per sostenere le famiglie dei bambini medicalmente com plessi, per un genitore assistere un bambi no malato significa convivere con un conti nuo senso d’emergenza: si tratta, cioè, di un vero e proprio disturbo da stress-post trau matico. «Da noi festeggiamo quando un bambino toglie un catetere e vediamo la felicità in chi, come Gaspare, è contento perché potrà festeggiare il compleanno con i suoi amici in Sicilia», aggiunge Stefano Lucato, consigliere di Agal.
Ma queste case di accoglienza e cura, fi glie del terzo settore, aiutano anche a sup plire le spese che una famiglia si trova a do ver sostenere quando uno dei due genitori – se non entrambi – è costretto a lasciare il lavoro o gli altri figli.
Marisa Barracano Fasanelli e suo marito – primario radiologo - hanno vissuto que ste difficoltà di persona negli anni Novanta, cercando una cura all’estero: «Mi sono tra sferita con mio figlio Emanuele in Minneso ta, al Children’s hospital di Minneapolis. Eravamo soli e preoccupati perché, quando la stanza d’ospedale ti costa migliaia di dol lari al giorno e devi darli in anticipo, cogli la drammaticità della situazione» spiega. Emanuele morirà molti anni dopo: «Mio fi glio si è ammalato che era un bambino del le medie ed è morto che era laureando in Fisica», spiega Marisa, ma il suo lascito è l’Associazione Peter Pan, nata nel cuore di Roma per accogliere le famiglie con i loro bambini in cura presso l’ospedale Bambino Gesù. A fare da spalla alla presidente di Pe ter Pan c’è Giovanna Lea, che ha perso sua figlia Maura dopo tre anni di sofferenze: «È stata lei che, su un letto d’ospedale, mi ha ricordato quanto fossimo fortunati: nel suo stesso reparto, un bambino da Cagliari era entrato vivo e ne era uscito salma senza aver potuto salutare né il papà né i fratelli né i nonni. Quelle parole dette da mia figlia in preda alle sofferenze mi hanno segnato. In fondo, io e Marisa ereditiamo il lascito dei nostri figli».
Davanti al nosocomio pediatrico, Gianna e Marisa hanno visto spesso famiglie barat tare la speranza con un panino masticato
Sanità / Le due velocità
per strada, il sonno consumato in auto, l’i giene personale affidata alle fontanelle del Gianicolo: «Così, quando ancora non ci credeva nessuno, sono andata alla ricerca di una casa che potesse accogliere anche loro perché fossero vicino ai loro figli». Ispi rata dalle case della Fondazione McDo nald’s che la ospitarono a Minneapolis, Ma risa trova su via della Lungara una vecchia scuola che oggi è la Casa di Peter Pan, pri ma di due strutture che possono ospitare 30 nuclei familiari e preservare il legame con i loro figli, come da statuto. È una realtà ancora oggi possibile grazie ai volontari e donatori: «Non dimenticherò mai la collet ta organizzata dai detenuti del vicino car cere del Regina Coeli nel 2000. Li ringraziai perché loro, privati della libertà, hanno cer
IL TASSO DI MORTALITÀ NEL MERIDIONE È MAGGIORE DEL 40 PER CENTO. LA MOBILITÀ OSPEDALIERA DALLE REGIONI MENO EFFICIENTI, NEL 2019, È COSTATA OLTRE 90 MILIONI DI EURO
cato di lenire la prigione dei bambini malati di cancro e delle loro famiglie», ricorda commossa Marisa.
Dopo i mesi difficili del lockdown e con la crisi energetica in corso, Casa Mirabello, Casa Peter Pan e altre strutture analoghe affrontano nuove difficoltà: «Il terzo setto re è in sofferenza e dopo il Covid abbiamo adempimenti più costosi, dal revisore con tabile al caro bollette», spiega Clara Baggi. A centinaia di chilometri, le fa eco Marisa Barracano Fasanelli: «Le spese e le difficol tà non mancano. In fondo il sogno dei no stri bambini e il nostro resta lo stesso: che di case come questa non vi sarà più bisogno un giorno». È il lieto fine su cui da anni la vora la ricerca, ma che richiede l’impegno delle istituzioni affinché per sempre meno famiglie salvare la vita del proprio figlio non costi perdere la propria, lavoro com preso. Perché, oltre le rendicontazioni, i de biti e le donazioni, in fondo tutti, bambini e adulti, sognano lo stesso finale della storia: che il drago possa essere sconfitto, una vol ta per tutte.
di IVAN CAVICCHI
Con la riforma Calderoli Sanità basata sull’iniquità
Non è difficile dire cosa suc cederà alla Sanità nel no stro Paese se la proposta “autentica” di regionali smo differenziato sarà approvata in Parlamento. Quello che è difficile di re è se la proposta “autentica” resterà tale o cambierà per opera degli inevi tabili pasticci legislativi. Il testo au tentico, che, sia chiaro, ancora nes suno ha scritto, neanche il ministro Calderoli (la sua bozza è nulla di più di un ballon d’essai), si può desumere mettendo insieme la dissennata con troriforma decisa dal Pd (titolo V) nel 2001, le pre-intese fatte con i go verni dalle principali regioni interes sate a una autonomia speciale (Lom bardia, Veneto, Emilia Romagna) e infine la “terza via al federalismo” te orizzata da Stefano Bonaccini, can didato alla segreteria Pd.
Il nodo centrale della faccenda è principalmente uno solo: come si fi nanzia la sanità e quindi i Lep (Livel li Essenziali di Prestazioni)?
Se la Sanità continuerà a essere fi nanziata secondo i principi dell’arti colo 32 della Costituzione e della legge 833 del 1978, il sistema sanita rio, pur con le sue innumerevoli ma gagne, non cambierà. Resterà deca dente certo, ancora diseguale, ma fondamentalmente universalistico e solidale, e i malati con i Lea (Livelli Essenziali di Assistenza) saranno considerati giuridicamente uguali al Nord e al Sud. Se invece la Sanità sarà finanziata secondo i principi del federalismo fiscale che ispirano il regionalismo differenziato, quindi secondo il reddito prodotto dalla re gione, il Sistema Sanitario Nazionale
sarà radicalmente controriformato.
Pur restando un sistema prevalen temente pubblico diventerà un insie me di regioni autarchiche nel quale il diritto alla salute dipenderà intera mente dalla volontà della singola re gione e i malati avranno prestazioni diverse da regione a regione e pure, probabilmente, professioni diverse cioè formate con sistemi formativi diversi.
I principi su cui si basa il regionali smo differenziato sono così antimo derni e così anticostituzionali, ma anche così socialmente immorali, che per il governo Meloni la questio ne è sicuramente un enorme trappo lone politico e per l’Italia la rinuncia a essere un Paese civile. Per decidere di fare delle diseguaglianze addirit tura il “valore” portante di una con troriforma così radicale prima di tut to bisogna essere cattivi, non solo ingiusti.
Ma distinguendo i problemi in ter mini istituzionali e funzionali vedia mo cosa significherebbe passare da un sistema sanitario imperniato sul diritto a un sistema sanitario imper niato sul reddito, cioè da un finanzia mento basato sulla fiscalizzazione (DL 56 2000) a un finanziamento ba sato sul regionalismo fiscale (residui fiscali):
l’art. 32 della costituzione sarebbe di fatto abolito e di conseguenza tutte le leggichehannoistituitosinoadorala sanità pubblica (L833, L502, L299);
il Ssn sarebbe superato come sistema di tutela nazionale e con esso quel si stema di governo definito “decentra mento amministrativo”; si affermerebbe un sistema regionale
di fatto autarchico (non autonomo, l’autonomia a certe condizioni è una necessità)
Passando ai problemi funzionali: le diseguaglianze le ingiustizie le di scriminazioni che già oggi dividono il Nord e il Sud si radicalizzerebbero; la dipendenza medico-sanitaria ma anche finanziaria del Sud nei con fronti del Nord diventerebbe cronica e irreversibile per cui si continuereb bero a spostare malati e risorse dal Sud al Nord (già oggi la mobilità sani taria ha un valore di circa 5 miliardi); lo sfruttamento delle carenze sanita rie del Sud per le regioni del Nord di venterebbe un secondo business (già ora i saldi attivi della mobilità sanita ria di Lombardia, Veneto, Emilia Ro magna sono spaventosi, quelli negati vi delle regioni del Sud altrettanto); la qualità già piuttosto carente dei servizi al Sud ne sarebbe ulterior mente compromessa, in particolare ospedali e assistenza territoriale; la decadenza dei servizi pubblici ac centuerebbe il fenomeno della migra zione delle professioni verso il Nord e il Sud si troverebbe a gestire i servizi maancheareeimportanticomelasa lute mentale con sempre meno ope ratori; con la decadenza dei servizi pubblici la privatizzazione del sistema non in contrerebbe più ostacoli. E tutto questo perché? Perché tanti anni fa il centrosinistra nel 2001 pen sò la sua “vaccata” politica peggiore: la controriforma del titolo V. L’idea cioè, di fronteggiare l’avanzata della Lega diventando Lega a sua volta: si milia similibus curantur.
ANNA DICHIARANTE
Zaporizhzhia, in Ucraina, i bombardamenti cadono a pochi metri dalla centrale nucleare. E riportano l’Europa all’incubo di Chernobyl. Mentre l’Agenzia internazionale per l’energia atomica avverte che intorno a quei reattori si gioca con il fuoco, la Russia accusa Kiev di voler utilizzare ordigni con materiale radioattivo. In questo clima di tensione, dallo scorso febbraio, gli esperti del Centro antiveleni di Pavia lavorano senza sosta proprio per essere pronti ad affrontare eventuali emergenze di tipo nucleare o radioattivo. Pur facendo i conti con un organico ridotto all’osso e con storture ataviche della sanità nostrana.
«Ci confrontiamo quotidianamente con le istituzioni go vernative e amministrative per prepararci a intervenire, qua lora si verificassero davvero incidenti o attacchi», spiega Carlo Locatelli, direttore del cosiddetto Cav dal 1992. In pratica, sin dalla fondazione di questo polo d’eccellenza ospitato dagli Isti tuti clinici scientifici Maugeri. Un unicum. «In Italia esistono altre nove realtà analo ghe, ma nessuna si occupa di questioni lega te alla minaccia nucleare, al terrorismo, alle armi chimiche, ai disastri industriali e alle nuove droghe», continua il professore: «Noi siamo il riferimento sanitario per crisi del genere. E fungiamo da Centro nazionale d’informazione tossicologica; cioè da collettore di ogni aspetto relativo a diagnostica, cura, prevenzione e sperimen tazione nell’ambito delle intossicazioni».
Così la squadra di Locatelli affina la capacità di risposta agli scenari peggiori che la guerra in Ucraina evoca, sia per ciò che riguarda il nostro Paese sia per le misure necessarie a livello continentale: «Saremmo allertati nell’immediato. Fondamentale è comprendere che cosa sia successo, quan te persone siano coinvolte e dove. Saremmo in grado di ca pire quali sostanze pericolose siano state diffuse e con qua
li conseguenze. Procederemmo con le analisi chimico-cli niche, con le diagnosi e, se opportuno, avremmo anche la possibilità di trasferire i pazienti dalla zona colpita alla nostra o ad altre strutture. Per partire con i trattamenti più urgenti».
Perciò il Cav pavese collabora con il ministero della Salute, in materia di difesa civile, e con la presidenza del Consiglio dei ministri, in particolare con i dipartimenti delle Politiche antidroga e della Protezione civile. È il solo, poi, a essere in serito in un istituto di ricovero e cura a carattere scientifico
come Maugeri: tra i suoi compiti, per definizione, rientra la ricerca. «A Pavia, nel 1967, sono nate la prima scuola di spe cializzazione in Tossicologia e la Società italiana di tossico logia», ricorda Locatelli: «C’erano le condizioni ideali per creare anche un Centro antiveleni, che via via ha sviluppato competenze specifiche. La principale consiste nel saper mettere a sistema le risorse, gestendo i rapporti e muoven dosi sull’intero territorio nazionale. Un ruolo gravoso, som mato all’attività di routine».
Il telefono del Cav, infatti, squilla 24 ore su 24. Chiama chi ha mangiato tonno avariato, chi ha maneg giato pesticidi nocivi, chi soccorre bambini che hanno ingerito sostanze stupefacenti lasciate incustodite. Un modello rodato di telemedicina. «Negli anni Cinquanta, l’Orga nizzazione mondiale della sanità ha classifi cato le intossicazioni come problema di sa lute pubblica non gestibile nei singoli ospe dali e ha dettato linee guida per istituire ser vizi specialistici a distanza», racconta il
direttore: «Pur non essendo presenti fisicamente all’esame dei loro pazienti, supportiamo i colleghi che ci contattano da tutta Italia. Le patologie riscontrate sono complesse, gli agenti che le causano sono infiniti e variabili. Il nostro perso nale deve essere altamente qualificato ed efficientissimo. Il servizio, dunque, ha costi notevoli. Motivo per cui nei Paesi meno ricchi stenta ad affermarsi».
In parallelo vengono garantite le prestazioni ospedaliere, con gli ambulatori e i posti letto, così come le attività d’inse gnamento in diverse università, quelle dei laboratori e della centrale operativa. Una cabina di regia «delicata e protetta», sottolinea Locatelli, perché custodisce un patrimonio di co noscenze strategiche. «Nel 2021 abbiamo effettuato più di 92 mila consulenze; in media, riceviamo 200 richieste al giorno. Rappresentiamo un osservatorio epidemiologico straordi nario sul piano nazionale. Siamo fonte di una casistica ster minata: raccogliamo, compariamo e forniamo dati agli enti regionali e statali, studiamo i trend delle intossicazioni per segnalare alle autorità di vigilanza situazioni di rischio». Quali? Dal dilagare tra i giovani di tentativi di suicidio con
determinate sostanze al commercio di cibo contaminato. La squadra che il professore dirige, però, è formata da 22 persone tra medici, chimici, biologi, farmacisti, tecnici: «So no inclusi gli specializzandi, preziosi per la mole di lavoro che si sobbarcano. Dovremmo essere molti di più. Come altri comparti sanitari, soffriamo per la carenza di organico e per la difficoltà nel reclutare forze fresche. Se è vero che s’impara sul campo, è altrettanto innegabile che per resistere ai ritmi del Centro antiveleni servano doti non comuni: preparazio ne specifica, rapidità nel reagire e nel prendere decisioni, at titudine alla sintesi e nervi saldi. Spesso fronteggiamo circo stanze ignote in emergenza».
Non solo. Secondo Locatelli, il fatto che si seguano tanti casi in poco tempo e che si sia responsabili assieme ai colle ghi che si trovano sul posto comporta un’elevata esposizione ad azioni legali: «Ci vuole grande spirito di sacrificio, anche perché occorre essere sempre reperibili. La retribuzione è la stessa che viene riconosciuta per servizi ben più tranquilli. Non è corretto, occorre ripagare la fatica di ciascuno in misu ra equa laddove il carico sia più impegnativo».
C’è un ulteriore tasto dolente: «Non sono ancora corretta mente accreditate nel Servizio sanitario nazionale le funzio ni svolte dai Cav in generale. E il nostro risulta ancora più penalizzato perché, essendo interno a una struttura privata,
Sanità / Il reparto modello
non riceve neanche il finanziamento per il personale medi co, che è invece corrisposto a quelli presenti negli ospedali pubblici. Eppure la nostra funzione è di sanità pubblica, uni ca e di riferimento nazionale. In pratica, per svolgerla siamo costretti a sostenerci con i fondi ottenuti attraverso i proget ti di ricerca». Ricerca che costituisce vanto e onere. Il team pavese si concentra sulla tossicologia clinica, sperimentale e analitica; allo studio, per esempio, ci sono le intossicazioni alimentari e ambientali, oppure generate da farmaci, pro dotti per uso domestico, alcolici, metalli rilasciati da protesi, morsi di vipera e persino da errori terapeutici.
Al Cav, inoltre, fa capo il sistema nazionale di allerta pre coce per le droghe. Si monitora la diffusione di nuove sostan ze d’abuso, di cui non si conoscono tossicità ed effetti, per individuare i trattamenti e i meccanismi di prevenzione. Co me avverte Locatelli, «si tratta di una piaga seria tra ragazze e ragazzi, per cui condividiamo a livello sia nazionale sia eu ropeo le informazioni raccolte». Le quali, peraltro, conflui scono in uno dei quattro database implementati dal Centro.
Oltre ai due con gli elenchi dei casi identificati e degli esa mi tossicologici, il più significativo tra questi è la banca dati nazionale degli antidoti. Aggiornata di continuo, consente di fare una ricognizione in tempo reale degli antidoti dislocati sul territorio e di movimentarli dal luogo più vicino all’ospe dale che li richiede. Una rete telematica, a cui le strutture aderiscono in modo volontario e gratuito condividendo i da ti. E il Cav di Pavia coordina pure la Scorta nazionale antido ti. In parte sono disponibili nella sua sede: «Li inviamo con l’elisoccorso o con i mezzi delle forze dell’ordine e diamo in dicazioni su come somministrarli. Sono distribuiti ovunque. Con urgenza, giorno e notte, in Italia e all’estero. Siamo gli unici, per esempio, a disporre di immunoglobulina antirab bica», prosegue il direttore: «Per certi farmaci rari, invece, si è raggiunto un accordo con importanti aziende a rilevante rischio d’incidente, come il petrolchimico, le quali conserva no scorte nei loro depositi e con cui cooperiamo per attività specifiche. È un modello senza pari al mondo».
Nonostante gli ostacoli, Locatelli resta «innamorato di questo mestiere eccitante. Affrontiamo cose talvolta stram be e talvolta drammatiche, ma possiamo dirci soddisfatti. Cito il fronte del terrorismo: abbiamo calibrato la nostra operatività sull’ipotesi di molteplici attacchi in città diverse e lontane; siamo più avanti di altri Paesi». Il Cav pavese, quindi, va preservato: «Innanzitutto, per le peculiarità del servizio, non è pensabile porre in discussione l’assetto nazio nale. Le divisioni regionali non hanno senso per talune problematiche. E vorrei conclu dere con un monito. Se chiudessimo, si im piegherebbero oltre vent’anni per ricostruire l’esperienza accumulata finora. E si prive rebbero i pazienti dell’ultima spiaggia, dell’ultimo presidio che può salvare le loro vite in caso di intossicazioni di difficile dia gnosi e trattamento».
L’ILVA FA GOLA. SE
LA ROTTURA TRA L’AZIONISTA PRIVATO, ARCELORMITTAL, E QUELLO PUBBLICO È VICINA. MA SULL’ACCIAIERIA DI TARANTO SI CONCENTRA L’INTERESSE DEI GRUPPI SIDERURGICI ARVEDI E MARCEGAGLIA
DI GLORIA RIVA
due si sono sposati troppo in fretta. Senza neppure conoscersi bene. Del resto si è trattato di un matri monio riparatore: c’era da salvare l’Ilva, che alla fine del 2020 era sull’orlo della chiusura. Ci hanno provato l’azionista privato, ArcelorMittal, e quello pubblico, lo Stato attraverso Invi talia, ad andare d’accordo. Ma neppure il tentativo dell’attuale presidente di Accia ierie d'Italia Holding, Franco Bernabè, di far marciare entrambi verso il risanamen to finanziario e ambientale ha sortito l’ef fetto sperato. Insomma, la resa dei conti è vicina. Alla finestra attendono due preten denti, due gruppi siderurgici del Nord: la cremonese Arvedi, che è in grande cresci ta, e la mantovana Marcegaglia, storico cliente Ilva. Entrambe stanno analizzando il dossier molto da vicino ed è probabile stiano dando qualche consiglio al mini stro dello Sviluppo economico, Adolfo Ur so. Una volta risanata dai debiti e dagli eventuali contenziosi con i tanti, troppi, fornitori in attesa di essere pagati, uno dei due potrebbe decidere di versare una quota – cir ca 400 milioni di euro — per far ripartire non solo l’acciaieria tarantina ma anche, e soprattutto, gli impianti di laminazione di
Novi Ligure e Genova: due fiori all’occhiel lo al servizio delle principali imprese side rurgiche del Paese, che da parecchio tem po vengono mortificate dalle logiche stra tegiche di Acciaierie d’Italia, con un co stante ricorso alla cassa integrazione, mentre i competitor fanno affari d’oro. Per capire il motivo di tanta diffidenza tra lo Stato e ArcelorMittal bisogna riavvol gere il nastro all’autunno 2020, quando in fretta e furia il governo Conte compra l’Ilva a scatola chiusa, impegnandosi a pagare un miliardo senza disporre di un’analisi appro fondita e completa dei conti della società, gestita dal 2018 da ArcelorMittal. Qualche mese dopo è il nuovo governo Draghi a ver sare una prima tranche da 400 milioni in Acciaierie d’Italia per sigillare l’accordo: il
SE PAGA LO STATO
denaro, però, termina nel giro di poche set timane e viene utilizzato dall’amministra trice delegata Lucia Morselli (in quota Ar celorMittal) per coprire le spese correnti e in parte i debiti. Da lì si apre una situazione di stallo, con ArcelorMittal socio di maggio ranza al 68 per cento e lo Stato socio di mi noranza al 32 per cento. In base agli accordi presi, tutto dovrebbe restare così, congela to, almeno fino all’aprile del 2024, per la sciare il tempo di completare il piano am bientale che, a cascata, consentirebbe alla magistratura di dissequestrare gli impianti per metterli a rogito e venderli allo Stato. Solo a quel punto il governo verserà il resto dei quattrini. Quindi: lo Stato sostiene di non poter versare il miliardo di euro pro messo e salire in maggioranza perché, fin
Una veduta dello stabilimento dell’ex Ilva di Taranto. Il polo è stato, per quasi tutto il XX secolo, il più grande produttore di acciaio in Italia e uno tra i maggiori in Europa
ché non saranno fatte le opere di ambienta lizzazione, gli impianti sono in mano alla magistratura e non c'è proprio nulla da comprare. Anche la promessa dei 700 mi lioni di euro di garanzie da parte di Sace, la società di Cassa Depositi e Prestiti che rila scia coperture assicurative, è congelata, perché la situazione debitoria di Acciaierie d’Italia è troppo pesante: di conseguenza, le linee di credito che Unicredit e Banco Bpm si erano impegnate a concedere sono bloccate. Sul fronte opposto, ArcelorMittal è convinta che lo Stato possa e debba versa re al più presto in Ilva i due miliardi pro messi senza però cambiare la governance. Per quello, sostiene Arcelor, c’è tempo fino al 2024. Del resto il gruppo franco-indiano dice di aver già sganciato 1,3 miliardi di
euro e che ora tocca allo Stato. Ma il go verno non si fida di versare tutti quei soldi senza poter decidere come spenderli, tanto più che il partner privato, quando è stato siglato l’accordo a fine 2020, non aveva for nito tutte le informazioni alla società di consulenza Kpmg per effettuare una cor retta valutazione di Ilva. E mesi dopo ha preso corpo il sospetto che la multinazio nale ArcelorMittal sfruttasse a proprio fa vore il posizionamento strategico dell’ex Ilva per conquistare quote di mercato in Italia, dubbi che i sindacalisti continuano a nutrire. Di vero c’è il nuovo record di fattu rato di ArcelorMittal, che ha annunciato di aver registrato nel secondo trimestre di quest’anno vendite per 22,14 miliardi di dollari, in crescita dell’1,4 per cento su base trimestrale e del 14,5 su base annua, grazie agli elevati prezzi dell’acciaio.
E l’Ilva? In base al cronoprogramma do vrebbe produrre sei milioni di tonnellate d’acciaio, invece ne fa la metà. Dopo un 2021 chiuso non troppo male (4 tonnellate di acciaio; 3,3 miliardi di fatturato; utile netto a 300 milioni, contro una perdita di 266 milioni nel 2020) la produzione in Ilva sta ora registrando una battuta d’arresto a causa del caro energia, del crollo dei prezzi dei coils, cioè i nastri laminati d’acciaio, ma soprattutto per via del rinvio al 2024 delle decisioni sulla struttura societaria tra azio nista pubblico e privato. La crisi di liquidità dell’Ilva è confermata da una bolletta da 300 milioni di euro che la società tarantina non riesce a pagare a Eni e una fonte vicina al dossier parla di oltre un miliardo di debi ti commerciali nei confronti dei fornitori, che sono 2.100, di cui 320 pugliesi. L’ammi nistratrice delegata, Lucia Morselli, ha so speso l’attività dei 145 fornitori del gruppo, adducendo vaghe motivazioni. Di fatto il blocco delle forniture, la sospensione degli ordini e l’assenza delle materie prime in magazzino stanno paralizzando l’attività dell’impianto siderurgico. Secondo Arce lorMittal, l’Ilva ha bisogno subito di un’inie zione di liquidità, ma il problema è chi ci mette i soldi e per fare cosa. Il ministro Adolfo Urso si è detto disposto ad anticipa re l’incremento della partecipazione pub blica dal 32 al 60 per cento già l’anno prossi mo (nonostante fosse previsto solo al 2024 e in seguito al dissequestro degli impianti). Solo una volta salito in maggioranza, il go
FRANCO BERNABÈ
È il presidente di Acciaierie d’Italia Holding, nominato dall’ex premier Draghi LUCIA MORSELLI È amministratrice dell’ex Ilva, chiede soldi pubblici e invarianza della governance
verno verserebbe in Ilva le risorse a disposi zione: ovvero i circa due miliardi che pro vengono dal Pnrr e dal previsto aumento di capitale, così come indicato nel decreto Aiuti bis firmato da Mario Draghi. Al con trario, il governo non è disposto a investire quel denaro in una società che non control la, tanto più che lo scorso 17 novembre l’amministratrice delegata Morselli ha pri ma disertato l’incontro convocato al Mise dal ministro Urso e poche ore dopo ha so speso l’attività dei fornitori, andando quin di allo scontro.
Il governo non ha intenzione di farsi inti midire e ha in mente un piano b: un falli mento pilotato attraverso la revoca del contratto che permette ad Acciaierie d’Ita lia di utilizzare gli impianti. Visto che an che ArcelorMittal non vuole sborsare ulte riori quattrini in una società priva di patri monio tangibile (perché l’ex Ilva ha solo debiti e nessuna proprietà sugli impianti), la soluzione – la peggiore per i fornitori e la migliore per coinvolgere nuovi azionisti – è il fallimento pilotato, dando però il tempo ai fornitori di cartolarizzare i propri debiti e incassare una frazione degli stessi, per poi portare in liquidazione Acciaierie d’Italia e ripartire con una nuova società.
Solo a quel punto si aprirebbe la strada a una delle due società del Nord. Da un lato c’è il gruppo Marcegaglia, diretto da Anto nio Marcegaglia, fratello dell’ex presidente di Confindustria, Emma, con un giro d’affa ri di sei miliardi: già nel 2017 sostenne Ar celorMittal in Ilva, ma fu obbligata dall’An titrust Ue a uscire dalla cordata. Più con creto l’interesse di Giovanni Arvedi, 85 an ni, che negli ultimi anni si è distinto sia per la capacità di realizzare acciaio a impatto zero, sfruttando nuove tecnologie fra cui l’idrogeno, sia per la crescita dimensionale del suo gruppo: l’ultima espansione è l’ac quisizione della Ast, Acciai Speciali Terni, da ThyssenKrupp, al punto che Arvedi si candida a diventare il primo gruppo side rurgico italiano, con un potenziale fattura to da 7,5 miliardi e oltre 6.600 dipendenti. Giovanni Arvedi aveva già presentato un’of ferta per Ilva nel 2017 e ora potrebbe torna re in campo, mettendo a disposizione le proprie competenze soprattutto sul fronte dell’ambientalizzazione e della conversione verde dell’acciaieria tarantina.
Bonus 110 per cento anche agli abusivi
Nuove rivelazioni sugli abusi edilizi in Italia. Secondo cla morose indiscrezioni una intera vallata veneta, la Val Far locca, sarebbe abusiva. Non solo gli edifici, anche la valle stessa: è stata costruita con terra di riporto durante i we ek-end dalla industriosa popolazione. «Prima qui eravamo in pianura - spiega il sindaco, Bepi Tomaia - ma siccome fabbrichiamo scarponi da sci, abbiamo pensato di trasformarci in una valle alpina per poterli collaudare meglio». La Val Farlocca è già stata condonata da set te governi. Il suo capoluogo, Smottola, è stato travolto altrettante volte dalle frane, ma gli abitanti, con una tenacia straordinaria, lo hanno rico struito ogni volta identico e nello stesso posto.
L’esempio Non solo neve artificiale, anche montagne artificiali: l’e sempio della Val Farlocca potrebbe fare scuola. Il progetto “montagna a chilome tro zero” permetterebbe a chiunque di erigere una catena montuosa nei pressi della propria abitazione. Le piste da sci sarebbero raggiungibili a piedi, con gran de giovamento per il traffico e la qualità dell’aria. Il materiale migliore, per co struire montagne, è il calcestruzzo. In via di studio anche montagne gonfiabili, che in estate possono essere riposte in un ca pannone dismesso.
Ischia Gli abitanti delle case non abusi ve di Ischia sono sotto accusa. Avrebbero accatastato regolarmente le loro abita zioni solo allo scopo di mettere in cattiva luce i vicini, e di farsi belli con gli inviati della Rai. «Qui ci sono delle tradizioni da rispettare - spiega il leader degli abusivi campani, Calogero Iuorno, eurodeputato - e da un governo che si richiama ai valori tradizionali ci aspettiamo collaborazio ne». Iuorno è un caso unico: è stato eletto, con centinaia di migliaia di preferenze, in cinque liste diverse, e a Strasburgo occu pa, oltre alla sua, altre quattro poltrone, e fa parte di ben tre gruppi parlamenta ri. Ha voluto erigere, con l’aiuto di alcuni parenti, un bilocale a pochi chilometri dall’Europarlamento, allacciandolo per sonalmente alla rete elettrica.
Il settore è in crisi, dopo i recenti disastri, e va rilanciato.
In Veneto la Val Farlocca è completamente irregolare. Ma è stata condonata già da sette governi
La polemica L’idea che molte case me ridionali siano abusive è comunque messa in discussione da molti osserva tori. «Quasi tutte le nostre case hanno la benedizione della Vergine - spiega per esempio lo storico locale Gennaro Gna gnariello - ed è una certificazione che vale molto di più di quella di un geome tra comunale: a meno di credere che la parola di un geometra conti più di quella della Madonna». A riprova della sua teo ria, Gnagnariello ha pubblicato uno stu dio secondo il quale in quasi tutte le case travolte da frane e alluvioni c’era una sta tua della Vergine. Di quali irregolarità si parla, dunque?
Il Vesuvio Fittamente edificate, le pen dici del Vesuvio costituiscono uno stra ordinario esperimento. «L’idea - spiega l’urbanista abusivo Cirillo Zolfanelli - è arrivare a una densità abitativa impene trabile dalla lava, che non troverebbe più sfogo e sarebbe costretta a fare ritorno nel vulcano». Con lo stesso spirito, un gruppo di geometri abusivi ha presenta to in Regione un piano per la copertura abusiva del Vesuvio. La sommità, cemen tificata, potrebbe ospitare migliaia di vil lette a schiera, con una vista impareggia bile sul Golfo di Napoli.
La politica Estendere il 110 per cento anche al settore dell’abusivismo edilizio, che dopo le recenti sciagu re idrogeologiche necessita di un forte rilancio. È la proposta della Lega, da sempre vicina all’economia spontanea. I Cinque Stelle, per sveltire gli iter e dare la parola direttamente ai cittadini, chiedono di mettere ai voti sulla piattaforma Rousseau le piantine dei singo li progetti edilizi, con possibilità per ogni iscritto di apporre le sue correzioni, vano per vano. La presidente Meloni cerca di allungare lo sguardo anche sul futuro, e dunque esprime cordoglio non solo per le vittime di Ischia, ma anche per quelle delle future frane e alluvioni. Il Pd dirà la sua posizione dopo il congresso, ma fonti interne fanno sapere che il partito è contrario alle catastrofi.
QUELLE LACRIME INACCETTABILI
DI PAOLO PILERI*
Il 5 dicembre è la Giornata mondiale del suolo. Dovremmo spegnere le betoniere e fare il punto sulla sua salute e sulla sua tutela. Faccia molo partendo da alcuni numeri che riguardano dei suoli partico larmente fragili, quelli franosi: +345,6 ettari; +311 ettari; +286 ettari; +371 ettari: sono le aree franose follemente urbanizzate dal 2017 al 2021 in Italia. 1.313,6 ettari asfaltati in soli cinque anni. Tra il 22 e il 32 per cento sono cementificazioni in aree a elevata/molto elevata franosi tà, dove sono matematici il disastro, le vittime, i danni a cose e case e l’au mento di spesa pubblica. Numeri che sono la prova delle irresponsabilità urbanistica e politica qua e là in tutto il paese, non solo a Ischia. Sono un grido che denuncia la miopia di chi governa il territorio a tutti i livelli. Sono numeri dai quali non si scappa e che non è ammesso ignorare: chi lo fa è colpevole, ancor più se ha un ruolo di amministratore pubblico. Quei dati non sono segreti, ma sono parte dei rapporti sul consumo di suo lo pubblicati dall’Istituto superiore per la Ricerca e la Protezione Ambien tale (Ispra) e dal Sistema Nazionale per la Protezione dell’Ambiente (Snpa). Quindi sono accessibili a tutti e gratuitamente. Ispra è un’agenzia del Go verno italiano che opera con rigore scientifico e per supportare governi,
politici e sindaci nella loro azione decisionale. Ma proprio qui arriva una nota dolorosa: quei rapporti sono poco o per nulla letti da chi dovrebbe leggerli. Una indifferenza che certo non è una medicina per il cambiamento. Ignorare tut to, diciamolo, equivale ad assumersi precise responsabilità e precise aggravanti. Sono ricevibili le lacrime dei sindaci che piangono i fatti delle tante Casamicciola diffuse in Ita lia, ma che mai hanno sfogliato quei dati? È ammissibile l’ignoranza dei politici e dei loro staff tecni ci? Hanno mai indetto riunioni politiche per diffondere quegli indicatori e capire che fare? Ne hanno parlato in campagna eletto rale? E le alte cariche dello Stato? Il suolo italico, caro a Luigi Einaudi, fa ancora parte dei discorsi pubblici, delle preoccupazioni dei nostri tanti presidenti? Nessuna legge per fermare il consumo di suolo è stata approvata in Parlamento nelle
ultime tre legislature. Un cocktail al fulmicotone di igno ranza e indifferenza tecnica e politica continua a tollerare un’urbanistica fuori controllo: siamo nelle prime posizioni in Europa per consumo di suolo; siamo lontano da tutti i traguardi minimi di sostenibilità; l’Agenda2030 è disattesa; le Olimpiadi del ’26 consumeranno suolo, nessun politico prende le difese del suolo quando un cantante dà dell’eco nazista a chi tenta di dire che una spiaggia è un ambiente naturale e non una pista da ballo. Poi arrivano Casamiccio la, Sarno e Quindici (1998), Giampilieri (2009), Val Canale (2003), Borca di Cadore (2009), Cinque Terre e Lunigiana (2011), Alta Val d’Isarco (2012), San Vito di Cadore (2015), Madonna del Monte (2019), Chiesa in Valmalenco (2020), Cavallerizzo di Cerzeto (2005), Montaguto (2010), Capri glio di Tizzano (2013)… E puntuali arrivano le lacrime di coccodrillo delle istituzioni e dei loro governatori cheahinoi - non portano da nessuna parte e si asciugano pre
sto, non innescando alcun cambiamento. È tempo di finirla. La latitanza da tutte le evidenze scientifiche che aiuterebbero a decidere meglio è un problema grave che riguarda il modo con cui si fa politica nel nostro Paese e il modo con cui si fa urba nistica e governo del territorio non solo a Ischia. Tutti gli urbanisti, tutti i sindaci, tutti i politici hanno la responsabilità pubblica di fare qualcosa e capire per be ne la questione ecologica e climatica che stanno eviden ziando l’insostenibilità del governo del territorio. La confi gurazione amministrativa spezza i territori in migliaia di comuni quando la questione ambientale è una sola. Troppi comuni e con troppe competenze ambientali esclusive che non conoscono e non possono gestire, a partire dall’uso del suolo che non sanno essere un ecosistema fragile. L’urbani
stica è ancora inadeguata a raccogliere la sfida climatica. Ma lo è anche il Pnrr sul fronte della prevenzione al dissesto idrogeologico (8 miliardi per 6 anni quando ce ne vorrebbe ro sei volte tanti) che ancor pensa di combattere a colpi di cemento e grandi opere anziché guardare all’ingegneria na turalistica, figlio dell’ossessionante teorema secondo cui bisogna sempre aggiungere e mai togliere. Matilde Casa, sindaco di Lauriano (TO), nel 2010 invece tolse l’urbanizzabilità a un’area a vincolo idrogeologico perché è così che si deve fare se non vuoi morti e danni sulla coscienza e vuoi salvare il suolo. Ma - assurdo - per questo atto fu spedita dai magistrati ad affrontare un pro cesso penale. Dopo alcuni anni ne uscì illesa processual mente, ma ferita a morte politicamente. Nessun collega, nessuna istituzione, nessuna urbanistica, nessuna alta ca rica dello Stato hanno mai preso la storia di Matilde per farne una bandiera della sostenibilità e della messa in si curezza del territorio, provando a cambiare le cose. Nessu no. Ma torniamo a Ischia e al disordine urbanistico am bientale che non è solo campano ma italiano anche se non possiamo nascondere che in Campania la situazione è par ticolarmente grave. Hanno urbanizzato 77 ettari in aree franose tra il 2020 e il 2021. Altre 37 tra il 2019 e il 2020. Al tre 50 tra il 2018 e il 2019 e 81 tra il 2017 e il 2018 (Ispra, 2022). Sono i primi in Italia in questa terrificante classifi ca di abuso di suolo e di suoli in aree franose. Ma anche da qui possono nascere fiori e vogliamo sognare uno scatto di orgoglio pensando che la miglior politica di questa re gione martoriata si intesti una battaglia per cambiare le cose, per togliere urbanizzabilità, per chiedere una legge che fermi il consumo di suolo ovunque, perché il proble ma non è solo campano. Le frane censite nell’Inventario dei Fenomeni Franosi in Italia sono oltre 625.000 e inte ressano un’area di quasi 24.000 km2, pari al 7,9 per cento del territorio nazionale (Ispra, 2021). Davanti a tutto que sto è vietato stare zitti, a meno di voler essere complici di questo maledetto stato di cose che fa dell’insostenibilità
la norma. Non abbiamo ricette se non quella di investire tanto in cultura ecologica e di mettere in piedi un’agenda pubblica senza più compromessi. Si può fare, va fatto. *Docente di Pianificazione e progettazione urbanistica al Politecnico di Milano. Il suo ultimo libro è “L’intelligenza del suolo” (Altraeconomia)
Abbiamo occupato la scuola rivendicando responsabilità
Noi studentesse e studenti del liceo Torquato Tasso di Roma abbiamo occupato il nostro istituto. Le ragioni, le critiche, la nostra idea di società e di scuola sono qui di segui to estratte dal manifesto e dalla lettera aperta che abbiamo scritto perché vorremmo vivere istituzioni scolastiche democratiche, egualitarie, in cui gli stu denti si sentissero apprezzati. Luoghi che insegnino ad amare il vivere in società e che si preoccupino di sviluppare una nuova eticità.
Perché siamo noi che dobbiamo costruire una so cietà senza ipocrisie, che innovi. Una società libera da pregiudizi, inclusiva, aperta, progressista. Non crediamoci eredi del futuro, dobbiamo essere i prota gonisti del presente. E l’istituzio ne promotrice di questa consape volezza deve essere la scuola.
logica e fisica degli studenti. Anche il ruolo del docente deve essere rivalutato, tenendo conto dell’enorme po tere sociale di cui dispone. L’assenza di un’istituzione scolastica moderna è una delle cause dell’impoveri mento culturale di questo Paese. Intervenire significa vederne gli effetti tra almeno dieci anni. È una scelta di democrazia che dobbiamo fare ora.
Ci rivolgiamo anche a chi pensa all’occupazione come un atto contro il diritto all’istruzione. Sul pia no giuridico non c’è nulla che possa difenderci ma il modello attuale di scuola manca di un reale valore sociale. Probabilmente a noi che frequentiamo uno dei migliori licei di Roma permetterà di realizzare le nostre aspirazioni, ma saremo in grado di avviare
VORREMMO VIVERE ISTITUZIONI
Abbiamo assistito a riforme che hanno parzialmente smantellato la scuola pubblica, i governi non hanno mai specificato quale com pito sociale spettasse all’istruzio ne. Fatta eccezione per la valuta zione sulla base del merito che evidenzia l’incapacità o la non-vo lontà dei partiti di proporre un’i dea di Paese fondata sull’uguaglianza: il merito elita rizza, eleva i migliori, cioè i più facoltosi, e lascia in dietro la maggioranza.
EGUALITARIE, IN CUI GLI STUDENTI SI SENTISSERO APPREZZATI. È COSÌ GRAVE
CHE PER UNA SETTIMANA I CORSI SIANO ORGANIZZATI DAGLI ALUNNI?
La scuola, invece, dovrebbe massificare, stimolare il pensiero critico, e non basarsi sulla sola valutazione delle nozioni. L’aziendalizzazione degli istituti va nel la direzione contraria. Contro un sistema classista chiediamo gratuità dei libri di testo per i redditi più bassi, il miglioramento del trasporto pubblico e mas sicci investimenti, una riforma dell’esame di maturi tà che valorizzi il ragazzo e il suo percorso di studi, un ripensamento dei programmi perché è impensabile non studiare la storia del Novecento o, in letteratura, importanti autori che trattano la contemporaneità.
Nelle scuole devono esserci programmi che abbatta no i tabù sessuali e che salvaguardino la salute psico
una rivoluzione culturale se educati a divenire parte del sistema che vogliamo stravolgere? È antidemo cratico disinteressarci della maggioranza delle real tà scolastiche che sono inadatte a coinvolgere gli stu denti, a rendere le future generazioni libere di fare della vita una loro scelta.
Concludiamo, quindi, con una domanda: è così gra ve che per una settimana gli spazi del liceo Tasso ven gano gestiti da studenti che si fanno carico di respon sabilità di cui mai ci avete reso protagonisti? Che la didattica frontale sia sostituita da corsi organizzati dagli alunni? È così grave avere, per una settimana, la possibilità di aggregarci e socializzare come mai ci è permesso da questa compulsiva quotidianità? * Collettivo politico Tasso – Roma
Aforisma 341. «Questa vita, come tu ora la vivi e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e non ci sarà in essa mai niente di nuovo». Nella stessa se quenza e successione, con gli stessi nomi e le stesse facce, gli stessi interessi e le stesse ar mi. È la teoria dell’eterno ritorno di Friedrich Nietzsche, è il clan dei Casalesi secondo Anna Carrino, compagna e madre di boss, collaboratrice di giustizia; Gianluca Bidognetti, suo figlio, e Ivanhoe Schiavone, figlio di capoclan e fratello di un pentito. È attraverso le loro parole che è possibile ricostruire la struttura dell’organizzazione, unitaria come non accade va da trentacinque anni, che ha tatticamente deposto le ar mi, ma solo finché serve. Che si nutre di ricatti, minacce, estorsioni e – la sola novità – di spaccio di droga, che un tempo era stato subappaltato alla mafia nigeriana. A quasi quindici anni dalle stragi terroristiche del 2008, a tredici da gli ergastoli definitivi del processo Spartacus, a una decina
dagli arresti in massa e dalla cattura dei grandi latitanti, l’in chiesta della Dda di Napoli e dei carabinieri di Caserta, che nei giorni scorsi ha portato a una quarantina di arresti, dise gna strategie, alleanze e interessi economici del mai sconfit to cartello mafioso del Casertano. Ci sono, negli atti, i fat ti-reato che saranno oggetto di processo. Ma c’è, soprattutto, la strategia a lungo termine: la ricostituzione della cassa comune, lo stipendio agli affiliati e ai capiclan detenuti (an che a Vincenzo Zagaria, capozona a Casapesenna fino al suo arresto nell’aprile 1996), l’attesa per la scarcerazione di Ema nuele Schiavone, il più piccolo dei figli maschi del boss chia mato Sandokan e testa pazza che ha visto rinviare più volte la liberazione a causa delle sue ripetute intemperanze.
Anna Carrino lo aveva anticipato il 12 febbraio scorso, in una lunga intervista rilasciata a Roberto Saviano nel pro gramma “Insider”, che il clan sarebbe tornato. E ha detto anche di non essersi «pentita» della sua vita da donna del boss («mi dovrei pentire davanti a un prete»), ma di aver fat to un patto di reciproca convenienza con lo Stato. Così co me, in effetti, prevede laicamente la legge. E un’eco dello stesso concetto è nelle parole di Ivanhoe Schiavone, quarto figlio maschio del boss ergastolano, di recente rinviato a giu dizio per trasferimento fraudolento di beni. «Io non giudico nemmeno mio fratello Nicola – dice al genero di Francesco Bidognetti – e non giudico nemmeno a Raffaele (figlio di Bi dognetti, ndr) o qualche altro cristiano. Non perché è capita to ora nella famiglia mia. Conoscendo i re troscena di tutto quello che poi è successo, di come si sono evolute le cose, tutti i cristia ni che hanno fatto asso pigliatutto, di tutte le cose che sono scomparse, di tutte le male azioni che uno ha subito, quello dopo dieci anni di galera ha fatto bene». La collabora zione con la giustizia, dunque, come una qualunque altra strategia processuale, can cellato lo stigma sui “pentiti” e i loro familia ri. Questione di realpolitik. Con un nuovo obiettivo da perseguire: colpire coloro che si sono arricchiti grazie al clan e che l’hanno fatta franca. Ed è per questo che pure Anna Carrino è ammessa alle conversazioni con i pa renti. A febbraio aveva detto di non aver più parlato con i figli dalla data del suo pentimento, nell’autunno del 2007. Negli atti dell’inchiesta ci sono invece conversazioni con il genero precedenti di qualche mese. E un regalo importante alla ni pote: una ricarica (su PayPal, verosimilmente) di 500 euro.
Tutti insieme come una volta, dicono nelle ambientali. Superando le divisioni tra sottofamiglie che tante morti ave vano provocato tra il 1988 e il 2010: alcune centinaia di vitti me delle faide che si sono succedute dalla misteriosa scom parsa di Antonio Bardellino all’arresto del primogenito di Francesco Schiavone, Nicola, condannato all’ergastolo e poi diventato collaboratore di giustizia. Cassa comune, esclu dendo solo il gruppo di Antonio Iovine e la sua famiglia, per ché «si sono pentiti tutti» e sono, quindi, fuori dal giro. Ri presa delle attività, dalla piccola usura (prestiti anche da
mille euro, ma con interessi del 20 per cento al mese) al gioco d’azzardo, dalle estorsioni alla droga. Con un occhio, come sempre, ai grandi affari: welfare e sanità durante la pandemia, traffici internazionali su traiettorie temporali più lunghe. L’attività dei carabinieri ha documentato, tra le altre cose, il lungo lavorio di uomini del gruppo Schiavone con personaggi che, sostanzialmente impuniti, da qua rant’anni gravitano nell’orbita del clan nel ruolo di broker: da Milano a Roma, da Ca serta a Salerno e a Bari, sempre le stesse persone che compaiono in decine di inchie ste nel ruolo di procacciatori di droga, di tecnologie per la bonifica di siti inquinati, di carburanti, di immobili e di società decotte e poi svuotate prima di finire nelle aste falli mentari di mezza Italia. La solita compa gnia di giro per le solite attività.
Maria Capua Vetere, sottraendogli la competenza sui ter ritori del clan dei Casalesi, spacchettando quelli della Ter ra dei fuochi e caricando tutto su Napoli Nord. Che ha sede ad Aversa e sul quale gravitano anche tutti i Comuni a Nord di Napoli: da Caivano a Frattamaggiore, da Marano ad Arzano, da Giugliano a Villaricca. In complesso, un mi lione di abitanti e statistiche criminali da orrore. In com penso, niente aule, organici sottodimensionati, carichi di lavoro impossibili. «Il Tribunale di Napoli Nord ha compe tenza su ben 38 Comuni, 19 della provincia di Caserta e 19 della provincia di Napoli, alcuni dei quali saliti agli onori della cronaca per vicende gravissime di malaffare: i feno meni camorristici, il degrado ambientale e urbano asso ciato di riflesso all’espressione “Terra dei fuochi”», spiega Picardi: «Con un bacino di utenza che vanta un dato com plessivo di popolazione di gran lunga superiore a quello di altri tribunali del distretto, cioè Santa Maria Capua Vetere, Nola, Torre Annunziata, Benevento e Avellino, dotati di numeri di magistrati e di personale amministrativo, in as soluto e in percentuale, notevolmente superiori a quelli di Napoli Nord, che, per popolazione, è tra i primi cinque d’I talia. È entrato in funzione a carico zero, cioè senza pen denze. Oggi la situazione è questa: per ogni magistrato in pianta organica a Napoli Nord sono arrivati, nel 2021, 444 fascicoli. In concreto, ben 180 più che a Napoli e 150 più che a Santa Maria Capua Vetere. La situazione del penale è
NEL CASERTANO È COMPETENTE IL TRIBUNALE DI NAPOLI NORD. GRAVATO DA CARICHI DI LAVORO INSOSTENIBILI. SPROVVISTO DI AULE E CON ORGANICI FORTEMENTE SOTTODIMENSIONATI
Aspettando il ritorno di Emanuele Schia vone e l’immancabile riassetto, il vecchio clan dei Casalesi si è riorganizzato, riammettendo anche i vecchi nemici e i loro nipotini, non ancora nati quando furono ammazzati i nonni, dei quali pure hanno preso i soprannomi. Non si sa che passo avranno i Casalesi 3.0, né quanto tempo dure ranno. Gli apparati investigativi sono mille volte più effi cienti dei tempi delle origini, le denunce non sono più merce rara. La macchina giudiziaria, invece, non è ade guata alle necessità del territorio. Il Tribunale di Napoli Nord, inaugurato nel 2013, avrebbe dovuto causare un for te effetto deflattivo sui carichi di lavori di Procura ordina ria e aule di giustizia. I dati forniti dal suo presidente, Luigi Picardi, sono di tutt’altro segno. E sono drammatici. I pro cessi monocratici vengono fissati a quattro anni. Oggi, cioè, si chiude un’inchiesta che arriverà in aula a dicembre del 2026. Tutta colpa, dice Picardi, di una scellerata appli cazione della riforma della geografia giudiziaria, che ha sostanzialmente alleggerito di molto il Tribunale di Santa
particolarmente drammatica. Al 30 giugno scorso erano di fatto pendenti circa 25 mila processi».
Disastrosa la situazione delle strutture: «Non tutte le aule penali hanno camere di consiglio e quelle presenti so no comunque palesemente inidonee. L’edificio che avreb be dovuto ospitare cinque aule è stato assegnato al tribu nale nove anni fa. A oggi, i lavori sono bloccati dalla So vrintendenza a seguito del ritrovamento di due archi bor bonici. Sono stati assegnati al tribunale due edifici in attesa di adeguamento. Per effettuare interrogatori i giudi ci devono spostarsi a Napoli. Ma in organico ci sono solo quattro autisti e in dotazione due auto, la più nuova delle quali ha già percorso 130 mila chilometri. Oltre al danno, la beffa: ci è stato anche sottratto un autista per destinarlo a un altro ufficio giudiziario». In queste condizioni, assicu rare giustizia è poco più di una speranza. E si spiana, così, la strada ai progetti egemonici dei nuovi Casalesi.
Tre proposte per evitare l’Apocalisse nelle carceri
Il sistema carcerario è incompa tibile con la rieducazione, per ché troppo brutale. Le sue strut ture edilizie e le condizioni inu mane sono al limite della tolleranza, sono una vergogna della nostra pre tesa giuridica».
«La stessa prigione è una forma di pena da rivedere profondamente. Rispetto a qualche anno fa, qual cosa si è fatto, ma è ancora troppo poco di fronte alle emergenze note a tutti, di cui quella più esplosiva è il numero dei detenuti».
Ho scelto due frasi di Carlo Nordio, contenute nel dialogo con Giuliano Pisapia sulle riforme possibili, pub blicato nel 2010 nel volume “In attesa di giustizia”. Il confronto tra un poli tico di sinistra e un magistrato libe rale e moderato trovava motivo nell’aver entrambi presieduto com missioni per la riforma del codice pe nale (rispettivamente nel 2004 e 2006) e nell’aver individuato soluzio ni simili, ma con lo stesso destino delle precedenti commissioni Paglia ro (1988) e Grosso (2000). Quest’ulti ma improntata al diritto penale mi nimo, con la pregevole indicazione di cambiamento del sistema delle pene attraverso il superamento della cen tralità del carcere e il favore sia verso il principio di riserva di codice sia verso quello di offensività.
La presenza di Nordio nel governo Meloni rappresenta una vera con traddizione: dipenderà da lui che questa si riveli una contraddizione felice, e realizzi l’obiettivo dichiara to ripetutamente di cancellare il co dice Rocco e di approvare un codice
repubblicano dopo 90 anni, anziché un tradimento delle sue idee.
La tragedia di 79 suicidi nelle carce ri italiane fino a novembre scorso ri schia di costituire un alibi per versare lacrime di coccodrillo, ma non fare nulla per cambiare. Cosa andrebbe fatto lo sappiamo almeno dal 1949: lo indicava già Ernesto Rossi a Piero Ca lamandrei, direttore della rivista “Il Ponte” e promotore della commissio ne parlamentare d’inchiesta sulle carceri e sulla tortura nel 1948.
La prima verifica sulle buone inten zioni di Nordio si manifesterà entro la fine di dicembre con la definizione del decreto-legge sull’ergastolo osta tivo, sui rave party e sulla riforma Cartabia. E, ancora prima, con la scel ta della persona a cui affidare la dele ga del carcere, al viceministro Sisto o a uno dei sottosegretari, e soprattutto con la nomina del capo del diparti mento dell’Amministrazione peni tenziaria, con la conferma dell’ottimo Carlo Renoldi o la preferenza per un
magistrato giustizialista. Certo non è un buon segno la delega per la politi ca antidroga affidata da Giorgia Me loni ad Alfredo Mantovano, esponen te del proibizionismo moralistico e carcerocentrico, ispiratore della ne fanda legge Fini-Giovanardi.
Per parte mia suggerisco tre misu re indifferibili: 1) liberare i 15.000 detenuti classificati come tossicodi pendenti e da affidare a programmi alternativi territoriali o comunitari; 2) istituire case di reintegrazione so ciale per i soggetti (7.000) con pene inflitte fino a tre anni e quelli con pe ne residue fino a tre anni (altri 13.000), con la direzione affidata ai sindaci e con personale educativo, del volontariato e del terzo settore per incarnare l’articolo 27 della Co stituzione; 3) approvare una legge intelligente sul numero chiuso per limitare gli ingressi in carcere. È sicuro che, senza misure deflattive, l’Apocalisse alla fine verrà.
CARO BOLLETTE
L’INTELLIGENZA ARTIFICIALE PER PREVEDERE I PREZZI DI LUCE E GAS
Secondo un recente studio dell’Istituto Demosko pika, nel 2022 una famiglia italiana spenderà per luce e gas in media 1.516 euro in più rispetto all’anno precedente: 2.771 euro quest’anno, contro i 1.255 del 2021 per un aumento complessivo del 120,8%. Ammonterà a oltre 38 miliardi di euro la spesa aggiuntiva degli italiani per i consumi di energia elet trica e gas: 15,4 miliardi di euro per la luce e poco più di 23 miliardi di euro per il gas. La crisi energetica, quindi, è ancora lontana dall’essere superata e il tema delle bollette resta una priorità per privati e aziende. A fronte dell’aumento globale dei costi dell’energia, diventa sempre più importante per le aziende che forniscono luce e gas orientarsi in questo mercato variabile, intercettandone gli spostamenti e preve dendo i prezzi di elettricità e gas per offrire ai clienti le condizioni più vantaggiose. Oggi, infatti, la competitività di un’impresa che fornisce servizi di vendita e distribuzione di energia è legata alla capacità di gestire un corretto approv vigionamento della materia prima, prendendo decisioni in modo da coprire il rischio di carenze di materiale o ulteriori aumenti di prezzo. Le aziende del settore energy che adot tano soluzioni di Intelligenza Artificiale possono prevedere disponibilità e costi di gas e luce, riuscendo a proporre of ferte sempre aggiornate e restare competitive sul mercato. AtalescopoVedrai,gruppochesviluppasoluzionidiIntelligenza ArtificialeperlePMI,metteadisposizioneBecky,agentevirtua
le che supporta il responsabile acquisti nei processi decisionali analizzando grandi quantità di dati relativi alle materie prime. In primo luogo, l’AI esamina i dati storici sulla disponibilità, l’andamento dei prezzi della commodity prescelta negli ulti mi 10-15 anni e i principali indicatori di mercato (Stocastico, MACD, RSI). A seguire il team di market analyst di Vedrai analizza i cosiddetti “regressori”, cioè le notizie macroecono miche o gli eventi che possono influenzare l’andamento sul mercato, selezionando quelli che possono avere un impatto sulla materia prima su cui si sta lavorando e li inseriscono nel la piattaforma; un esempio di regressore in fatto di energia è un evento straordinario come l’attuale crisi geopolitica. Incro ciando questi dati, Becky è in grado di fornire delle previsioni su disponibilità e andamento dei prezzi delle materie prime: nel caso specifico dell’energia, monitora il PUN (Prezzo Unico Nazionale) per l’elettricità e il PSV (Punto Scambio Virtuale) per il gas, facendo risparmiare mediamente alle aziende il 4,58% sul costo di acquisto. Questo risparmio per le imprese ha un impatto positivo anche sull’utente finale: riducendo i costi, infatti, queste possono aumentare i margini e proporre dei prezzi più convenienti ai propri clienti. In questo momento di congiuntura sfavorevole, quindi, l’Intelligenza Artificiale di Vedrai è uno strumento in grado di alleggerire le aziende del comparto energy dagli effetti negativi della crisi, offrendo so luzioni concrete a un settore che, oggi, è sempre più chiamato a orientarsi con lungimiranza nel mercato globale.
di GIGI RIVA
La Fifa e il tentativo ipocrita di separare calcio e politica
C’è una frase, spesso pro nunciata in questi giorni, che nelle intenzioni di chi la dice dovrebbe suonare bellissima, nobile, etica: «Il calcio de ve restare fuori dalla politica». O la variante: «La politica deve restare fuori dal calcio». Ma quando arriva al le orecchie di un uditorio planetario, in tempo di Mondiali, risulta falsa, ipocrita, farisaica.
Si poteva sperare che l’epoca di Sepp Blatter fosse il punto più basso toccato dalla Fifa, il massimo organi smo del calcio mondiale. Con il suo successore, l’italo-svizzero Gianni In fantino, da un anno residente in Qatar con la famiglia, si è ripreso a scavare.
Per cercare di buttare la palla in tri buna e allontanare i sospetti di inva sione di campo tra sport, business e politica, Infantino si è esibito nel fa moso discorso degno di un rapper: «Oggi mi sento qatarino, oggi mi sen to arabo, oggi mi sento africano, oggi mi sento gay, oggi mi sento lavoratore migrante».
Fosse davvero gay passerebbe qual che guaio nel luogo dove si svolgono i Mondiali. Fosse lavoratore migrante avrebbe avuto buone possibilità di morire nei cantieri degli stadi. Fosse davvero così interessato alle mino ranze, ai diritti degli ultimi, elevereb be qualche protesta presso gli emiri quando i loro zelanti poliziotti seque strano le magliette di Mahsa Amini, la ragazza uccisa in Iran per una ciocca di capelli. Fosse contro la censura non avrebbe vietato di portare la fascia ar cobaleno ai capitani delle squadre, pena un’ammonizione. Cartellino giallo alla libertà.
La Fifa fa politica da sempre. L’aveva
fatta quando aveva deciso di assegna re i Mondiali in sequenza alla Russia e agli Usa per bilanciare i favori alle due grandi potenze (ce ne sarebbe una ter za,laCina). L’hafattaamaggiorragio ne quando tra i due appuntamenti ha intrufolato il Qatar per il volere di un presidente francese, Nicolas Sarkozy, che giocava una geopolitica tutta sua per i denari del Golfo. L’ha fatta con la scusa di mostrare la supposta moder nità di un Paese e aiutarlo nel progres so verso la conquista dei diritti per tutti non solo per i famigli della casa regnante. La modernità sono lo shop ping delle bellezze di Francia (e d’Ita lia), quanto al progresso lo si vede in questi giorni. È semmai la Fifa ad esse re regredita e ad aver rinunciato, per cinque miliardi di euro di buoni moti vi, ai valori che in teoria dovrebbe propagandare: fair play, uguaglianza, difesa delle minoranze vessate.
Implacabile arriva, a questo punto di ogni discussione, l’obiezione del ri spetto verso la cultura altrui. Non me no ipocrita della precedente. Forse
che allora si doveva andare in un luo go dove il regime decide quale t-shirt si può usare e quale no? Forse che per rispetto dell’ospite bisogna imbava gliare i calciatori e impedire loro di dire quello che pensano e se sono di scoli come i tedeschi si oscurano le immagini della loro protesta? Forse che si arriva al grottesco di mandare un guardalinee a controllare la fascia del portiere tedesco Neuer nel caso, sia mai, fosse colorata?
Esiste, poi, l’ipocrisia di segno op posto. Sognare che davvero lo sport possa essere scisso dalla politica quando è il più grande palcoscenico planetario e dunque da sempre abi tuato agli assalti di chi vuole veicolare messaggi, difendere una causa, pro muovere un’idea.
Dunque si rassegni Infantino. Non per colpa sua il calcio è politica, la sua continuazione con altri mezzi. Talvol ta è addirittura utile per difendere del le buone cause. Lui, però, ha scelto la causa sbagliata.
UNA PREMIER CONTRO MACRON
DI CAMILLE VIGOGNE LE COAT
In Francia, la tradizione vuole, sin dal 1978, che ciascun primo ministro pianti un albero nel parco dell’Hotel di Matignon, uno dei più grandi e bei giardini di Parigi. Un modo per lasciare una traccia del proprio passaggio: se i presidenti sono eletti per cinque anni, i primi ministri conoscono spesso un’esistenza molto più breve. Lunedì 28 novembre, Elisabeth Borne ha scel to la sua pianta: una quercia verde, un albero sempreverde. «Una scel ta ecologica e rispettosa dell’ambiente», si è compiaciuto il gabinetto del primo ministro. Un modo di ricordare che il capo di governo è an che ufficialmente in carico della «pianificazione ecologica» voluta da Emmanuel Macron. Una formula che il presidente francese ha preso in prestito alla sinistra e a Jean-Luc Mélenchon, quando era ancora in campagna elettorale, per convincere di voler veramente agire sulla
questione ambientale.
Sei mesi dopo la sua nomina, è ancora qua, Elisabeth Borne, i piedi ben piantati per terra. Dopo avere puntato su un fallimento veloce, la stampa francese è oggi vittima di una sindrome inaspettata di “Bornemania”: “L’Odissea di una resistente” (Les Echos), “La trasformazione politi ca di Elisabeth Borne” (Le Point)... Prima dell’estate, nes suno avrebbe scommesso su una tale resilienza per la sessantunenne.
Troppo rigida, troppo tecnica, troppo fredda… Laureata al Politecnico - la più prestigiosa scuola di inge gneria francese - questa alta funzionaria non era mai sta ta eletta, né candidata a un’elezione. Il capo dello Stato aveva dapprima offerto il posto a una donna di destra, il sindaco di Reims Ca therine Vautrin, conoscenza di Nicolas Sarkozy, ex ministro sotto la presidenza di Jacques Chirac. Ma Macron ha cambiato idea sotto la pressione della sua cerchia ristretta, preoccupata di questa ennesima svolta a destra. Ed è stato allora che Elisa beth Borne è entrata in scena: nel passato, è stata consigliere dei socialisti Lionel Jo
spin e Ségolène Royal, e rivendica, ancora oggi, una sensi bilità di sinistra. Membro del governo durante l’intero quinquennio precedente, ha già occupato diversi posti strategici: trasporti, ecologia, lavoro… Ma senza riuscire mai a imporsi come personaggio politico di prim’ordine.
Al di là del suo profilo, è soprattutto la situazione poli tica che sembrava dover condannare il Premier a un con tratto a breve termine. A giugno, le elezioni legislative hanno regalato una brutta sorpresa a Emmanuel Macron: una maggioranza relativa all’Assemblea nazionale. Per la prima volta dal 1988, l’Eliseo non può più contare su un gruppo di deputati che obbediscono come un esercito di soldati alla volontà del Presidente. Ormai, ogni legge deve essere discussa con i gruppi di opposizione, fino ad otte nere un compromesso. In alcuni paesi, si chiama demo crazia. Nel contesto della Quinta Repubblica francese, tutta incentrata sul presidenzialismo, si definisce instabi lità. Da qui in avanti, l’ipotesi di uno scioglimento del Par lamento per provocare nuove elezioni legislative, prero gativa che il presidente può attivare quando vuole, sem brava l’unico orizzonte a medio termine. Ma anche su questo punto, il timore sembra scemare. Numerosi testi sono stati votati, anche se non senza difficoltà. Un succes
so che nessuno si aspettava. E se la ragio ne si chiamasse Elisabeth Borne?
Il Premier ha dimostrato la serietà del suo metodo: concertazione, dialogo con le opposizioni e le parti sociali. Quelli che la pensavano trasparente e in disparte sono stati delusi: l’appassionata di running può anche alterarsi quando lo ritiene necessa rio, la sigaretta elettronica sempre in ma no con gesto nervoso. All’interno del go verno, ha dato prova di leadership, nei confronti di quelli che sognano di rubarle la poltrona, o che vogliono quella di Emmanuel Macron, dal 2027. Una puntualizzazione fatta in privato - i ministri devono giocare da collettivoera dediacata soprattutto agli ambiziosi ministri Bruno Le Maire (Economia), o Gérald Darmanin (Interno).
Lo “stile” Borne - efficace e discreto - sembra funzio nare. Negli ultimi sondaggi, il primo ministro è più popo lare di Emmanuel Macron. Piccoli segnali che possono avere grandi conseguenze. Edouard Philippe ne sa qual cosa, congedato perché più apprezzato nei sondaggi del Presidente. Tra l’attuale inquilino dell’Eliseo e quello di
Matignon, i potenziali screzi esistono già. Emmanuel Macron sta cercando un accordo con la destra; Elisabeth Borne afferma che così si correrebbe il rischio di perdere a sinistra i voti trovati a destra. Il Presidente fa sapere che vuole imporre rapidamente la sua riforma delle pensioni; il Premier insiste sulla necessità «di lavorare più a lungo» sull’argomento… E mentre Elisabeth Borne è ufficial mente incaricata del delicato tema dell’ecologia, è Em manuel Macron stesso che decide di riprendere il dossier in mano, e si occupa di nuove riforme di trasporti pubbli ci, convinto che sul tema della transizione ecologica non si vada abbastanza veloci.
Per Elisabeth Borne, il più difficile deve quindi an cora venire. Al parlamento, si aspetta per il 2023 l’ennesi ma legge sull’immigrazione, tema sempre difficile per una maggioranza divisa. La riforma delle pensioni, che dovrebbe essere sul tavolo in primavera, rischia di essere esplosiva. Nel frattempo, Elisabeth Borne deve continua re ad occuparsi di una crisi energetica senza precedenti, e di numerose critiche sulla gestione statale, in particola re per quanto riguarda la questione del nucleare. L’equa zione sembra irrisolvibile: come promuovere la costru zione di sei nuovi reattori (Epr) - come ha promesso Em manuel Macron nel suo programma - quando il dispositi vo attuale funziona già così male, con il 41 per cento del parco nucleare spento per motivi tecnici? Quando il go verno chiederà ai francesi di ridurre il riscaldamento quest’inverno, di rinunciare a far funzionare la lavatrice, o di accettare delle interruzioni di corrente per due ore, Elisabeth Borne si ritroverà da sola in conferenza stam
pa, per spiegar loro tali misure. Una mossa sbagliata po trebbe danneggiare una popolarità basata soprattutto sull’immagine e non ancora su fatti concreti.
Le sfide sono talmente numerose che nessuno parla più del fatto che una donna occupa la poltrona di Primo Ministro. «Dedico questa nomina a tutte le bambine», aveva dichiarato con emozione l’interessata nel suo pri mo grande discorso. Una cosa purtroppo eccezionale nella storia politica francese: era avvenuto solo una volta, tra il 1991 e il 1992, per un periodo di undici mesi, con Edith Cresson. Questo è senza dubbio il più bel tour de force di Elisabeth Borne.
Attività frenetica tra Berlino e Parigi - la prima ministra francese Elisabeth Borne e il cancelliere Olaf Scholz di chiarano, dieci giorni fa, che i rapporti tra i due paesi non sono mai stati così buoni e stretti. Poco pri ma il presidente Emmanuel Macron riceve la ministra degli Affari Esteri Annalena Baer bock, poi il Ministro delle Finanze Christian Lindner e quello dell’Economia Robert Ha beck. Tutti invitati alla sede della presidenza francese, il sontuoso Palazzo dell’Elysée, un onore normalmente riservato ai capi di stato o di governo di Paesi partner della Francia. Raramente si sono visti tanti viaggi diploma tici e una tale esibizione di unità tra i due pa esi. Borne e Scholz hanno pure firmato un accordo di solidarietà reciproca nell’approv vigionamento energetico, un accordo messo in scena davanti alla stampa internazionale, anche se in verità già da parecchio tempo i tedeschi forniscono elettricità alla Francia e la Francia trasporta gas verso la Germania. Gli osservatori non credono ai loro occhi, perché solo un mese fa una crisi importante minava la stabilità di quella che spesso viene chiamata la “coppia franco-tedesca”. Macron aveva deciso di annullare all’ultimo momen to il vertice dei due governi previsto per il 23 ottobre, perché il partner tedesco non gli sembrava sufficientemente motivato per tro vare compromessi su questioni urgenti a li vello europeo e bilaterale.
Un conflitto aperto di tale portata non si vedeva da tempo. Un’irritazione crescente e una mossa politica nazionale dopo l’altra che, accumulandosi, alla fine hanno fatto traboc care il vaso. Come ha dimostrato Michel Der devet tre settimane fa in queste pagine, la crisi è profonda perché riguarda non solo progetti concreti, nell’industria degli arma menti ad esempio, ma anche concezioni di vergenti sulla strategia dell’Ue nei suoi rap porti con gli Stati Uniti e la Cina. Le reazioni dei media europei più importanti sono state dettate da una grande preoccupazione. Jac ques Attali, ex-consigliere di François Mitter rand, in un contributo sulle pagine di Les Echos, non escludeva neppure una nuova guerra tra Germania e Francia prima della fi ne del secolo.
Come spiegare questo rapporto complica to e fragile malgrado la lunga esperienza nel la cooperazione bilaterale, e il gran numero
CRISI DI COPPIA
Frenetica attività diplomatica per ricucire i rapporti tra Francia e Germania, difficili come mai da anni. Oltre alle divergenze politiche pesano anche antichi pregiudizi
DI FRANK BAASNER
L’AUTORE
Nato nel 1957, Frank Baasner ha vissuto e lavorato in vari paesi europei. È cattedratico alla facoltà di lettere dell’Università di Mannheim, e dal 2001 è direttore dell’Istituto Franco-Tedesco di Ludwigsburg. Per più di 25 anni ha lavorato come consulente per la cooperazione tra Francia, Germania e Italia sia nel settore privato, sia in quello pubblico. È autore di libri e saggi sui rapporti tra paesi europei
di rapporti istituzionalizzati a tutti i livelli, politici, economici e sociali? Germania e Francia sembrano Paesi talmente antitetici che un’intesa spontanea pare esclusa. Stori camente il loro antagonismo nasce molto tempo prima delle guerre devastanti tra il 1870 e il 1945: fin dagli esordi del movimento liberal-nazionale tedesco negli anni 1800, la costruzione di un’identità filosofica e anche politica della Germania era orientata contro la Francia. Fichte, nei suoi famosi “Discorsi alla nazione tedesca”, combatteva l’idea chia ve della Rivoluzione francese che vedeva nell’individuo, considerato il “citoyen”, l’atto re principale dello Stato moderno, sottoline ando invece l’importanza dell’appartenenza a una comunità (germanica) quasi tribale. Wilhelm von Humboldt, nella sua grande ri forma del sistema pedagogico e universitario tedesco, spazzava via la tradizione dell’edu cazione gesuita, mettendo al suo posto il con cetto di “Bildung”, una visione quasi organica dell’educazione secondo cui, invece di incul care sapere, il ruolo del professore è quello di accompagnare lo sviluppo di un potenziale che il giovane ha, in nuce, già dentro di sé. E per dare un terzo esempio, la poetica della letteratura di lingua tedesca di quell’epoca si opponeva radicalmente alle regole del classi
cismo francese per mettere in risalto il “ge nio”, ispirato da forze divine e per niente sot toposto alle norme dell’Académie française.
Questo richiamo storico, che si potrebbe prolungare citando Clausewitz e la sua repli ca anti-napoleonica sull’arte della guerra e la serie di umiliazioni reciproche durante le tre guerre, dal 1870 al 1940, dimostra quanto è difficile, anche tra Paesi amici, guardarsi in faccia senza avere in testa, consapevolmente o meno, delle idee preesistenti.
Proprio in momenti di tensione, come quelli che stiamo vivendo in questi ultimi me si se non anni, gli stereotipi che tutti noi ab biamo rispetto ad altri Paesi, hanno il loro peso. Pochi sarebbero in grado di spiegarne le origini storiche, ma è proprio questo che complica la nostra collaborazione. Raramen te siamo coscienti che spesso riproduciamo vecchi modelli anche se in veste più contem poranea. I tedeschi visti dai francesi? Egoisti e fissati sul loro modello economico con la dipendenza energetica dalla Russia e quella commerciale dalla Cina. I francesi visti dai tedeschi? Troppo protezionisti, antiamerica ni e vanitosi malgrado la debolezza della loro industria, sempre pronti ad imporre la loro visione universalista del mondo “alla france se”. Alcuni di questi giudizi preconfezionati
IL TEMA
Attività frenetica e tanti viaggi diplomatici tra Berlino e Parigi per ristabilire i rapporti tra i due Paesi, minacciati da varie crisi politiche negli ultimi mesi. Il rapporto, storicamente complicato, è stato messo a dura prova e la coppia rischia di ricadere in vecchi stereotipi invece di portare avanti la cooperazione bilaterale necessaria per il futuro europeo
riposano sicuramente su delle osservazioni giuste: in ogni stereotipo c’è un pizzico di ve rità. Al limite ci si può anche ridere sopra, co me nelle barzellette del tipo: «Il paradiso è dove i tedeschi sono gli organizzatori, i fran cesi i cuochi, gli svizzeri i banchieri, gli inglesi sono i poliziotti e gli italiani sono gli amanti», mentre: «L’inferno è dove i tedeschi sono i po liziotti, gli italiani sono gli organizzatori, i francesi sono i banchieri, gli inglesi sono i cuochi e gli svizzeri sono gli amanti».
Purtroppo non basta farsi una risata, an che se può aiutare a sbloccare la situazione. Gli scambi tra i grandi Paesi sono troppo im portanti per l’Europa per lasciare la coopera zione al caso. Le percezioni schematiche che tutti abbiamo in testa ci conducono troppo spesso a giudizi prematuri, prima di aver ascoltato l’altro, prima di aver cambiato pro spettiva. La cooperazione - e quello che vale per la Francia e la Germania vale per tutti i paesi dell’Ue - richiede un’attenzione partico lare, la capacità di ascolto e di autocritica. Il motto dell’Ue “unita nella diversità”, se vuole essere più di una formula vuota, richiede tan to il rispetto delle particolarità quanto lo sforzo nella ricerca di interessi comuni.
Traduzione di Amanda Morelli
Regno Unito
L’AZZARDO SCOZZESE
DI LUCIANA GROSSO
In fondo alla strada più antica e bella di Edimburgo, il Royal Mile, dopo una lunga discesa, c’è un palazzo: si chiama Holyrood, ed è il luogo in cui risiede il sovrano d’Inghilterra quando si reca a Edimburgo. Proprio di fronte al palazzo reale, sorge un altro edi ficio, quello del Parlamento scozzese, istituito nel 1999 per dare alla Scozia l’autonomia che con tanto vigore chiedeva. In quel Parlamento autonomo, da anni e in modo esplicito, si discute aperta mente di indipendenza dal Regno Unito, un regno del quale la Scozia fa parte dal 1707, ma con il quale si accapiglia più o meno dal XII secolo.
La questione dell’indipendenza e dell’insofferenza scozzese verso l’In ghilterra e verso il Regno Unito è da sempre sostrato di ogni trattativa tra Edimburgo e Londra, ma di recente quest’ultima ha preso a farsi più
aspra, tanto che nelle ultime settimane si è preso a parlare di nuovo di un referendum (dopo la sconfitta di quello del 2014) e di indipendenza.
In realtà, a quanto sembra, non ci sarà nessun IndyRef 2, nessun nuovo referendum sull’indipendenza e anzi, la posizione caparbia (al limite dello stolido) della premier scozzese Nicola Sturgeon, sembra indebolirsi e farsi più fragile ogni volta che alza la voce e che rinvigorisce le sue richieste di autonomia.
Una situazione paradossale nella quale la Scozia appa re in stallo, finita in un vicolo cieco, e divisa tra chi chiede l’indipendenza e chi, invece, si accontenterebbe di un mi nimo di senso di realtà.
La ragione di questo stallo è che la premier scozzese Sturgeon, come il suo partito, lo Scottish national party, ha costruito gran parte del proprio consenso sul nazionalismo e sull’indipendentismo dal Regno Unito. Se dovessimo riassumere in una parola le posizioni dell’Snp, che pure si colloca va gamente a sinistra, la parola che userem mo sarebbe nazionalista. Nel 2007 il par tito vinse le elezioni del Parlamento auto nomo scozzese proprio schiacciando sul
Una manifestazione dei sostenitori dell’indipendenza scozzese fuori dal Parlamento di Edimburgo, il 23 novembre scorso
pedale dell’autonomia da Londra; nel 2011, poi, le stra vinse con la promessa di organizzare un referendum per l’indipendenza. A questo punto, dopo che il governo au tonomo scozzese era riuscito, con una lunga trattativa, a ottenere dal Parlamento britannico l’autorizzazione a tenere un referendum su una materia che, in teoria, non gli competeva il referendum per l’indipendenza si è te nuto davvero. E, nel 2014, gli indipendentisti, dopo una campagna elettorale a tappeto, a sorpresa, lo persero. E nemmeno di poco: 44 a 55 per cento.
Da quel voto in poi, la faccenda dell’indipendenza in vece di chiudersi si è inasprita. Per almeno due ragioni. La prima è che, due anni dopo la decisione scozzese di rimanere nel Regno Unito, è arrivata Brexit. In Scozia il Remain, cioè la parte di quelli che volevano continuare a far parte dell’Ue, aveva stravinto con percentuali anche superiori al 60 per cento. Non solo: ma nel 2014, molti di quelli che avevano votato affinché la Scozia non divenis se indipendente dal Regno Unito, lo avevano fatto pro prio per poter rimanere nell’Ue, cosa che una neonata repubblica scozzese non avrebbe potuto fare. La somma di questi due voti divergenti ha così creato una profonda ferita nell’animo e nella politica degli scozzesi che oggi si
trovavano in una posizione molto diversa da quella che avrebbero voluto: legati a un Regno Unito che non hanno mai dige rito fino in fondo e, allo stesso tempo, espulsi da un’Unione Europea di cui inve ce volevano essere parte.
A questa prima frattura si è sommata quella della necessità di sopravvivenza po litica del partito Snp. Il partito è da tempo in affanno. Anche se, secondo i sondaggi è ancora il primo partito, il suo consenso è in forte diminu zione (dal 47 per cento a circa il 38 per cento).
ciato e ha detto che saranno le prossime elezioni a decidere sull’indipendenza, diventando un referendum de facto. Tradotto in soldoni significa che se il suo partito, la cui pro posta principale è l’indipendenza, dovesse avere più del 50 per cento dei voti, allora la partita si riaprirebbe.
Una scommessa audace, di quelle che se si perdono si perde tutto. E soprattutto una scommessa che al mo mento non sembra avere possibilità di essere vinta, an che perché nel farla Sturgeon sembra essersi dimentica ta di tenere conto di vari fattori in gioco.
Il primo sono i sondaggi di opinione, che dicono che per quanto il consenso verso l’indipendenza sia cresciuto ne gli ultimi anni, è ancora al di sotto della magica soglia del 50 per cento (anche se di pochissimo: 49 per cento circa). Questo perché, secondo molti scozzesi, l’indipendenza sarebbe un salto nel vuoto troppo audace e per giunta con il rischio che la sola Scozia, che pure è ricca, non lo sia abbastanza da reggersi autonomamente.
La seconda è l’Europa: non sta scritto da nessuna par te che, nel momento in cui la Scozia facesse il bel gesto di lasciare il Regno Unito per correre verso l’Ue questa sia disposta ad accoglierla. Anzi. Un’ipotetica Scozia in dipendente dovrebbe essere sottoposta, come tutti i Pa esi che fanno richiesta di adesione, ad un lungo processo che, nella migliore delle ipotesi, durerebbe 10 anni. In questi dieci anni la Scozia si ritroverebbe inevitabilmen te al di fuori da qualsiasi rapporto commerciale e politi co, sia con la Gran Bretagna che con l’Ue. Anzi: ci sareb be il serio pericolo che l’adesione della Scozia all’Ue fini sca come merce di scambio nel risiko diplomatico che da anni vede Ue e Regno Unito impegnati a gestire Brexit.
L’ONDA INDIPENDENTISTA FA I CONTI CON LA REALTÀ DI UN PAESE CHE FUORI DALLA GRAN BRETAGNA RESTEREBBE IN PANCHINA NELL’UE. E LA PREMIER STURGEON SI GIOCA IL TUTTO PER TUTTO
Un rischio che nessuno si sente davvero di correre.
E dunque, per un partito che dell’indipendenza dal Re gno Unito ha sempre fatto la sua bandiera, non c’è altro modo di riprendere vigore che tornare ad agitarla, quella bandiera. E il modo per farlo è alzare la posta ogni volta che la strada si fa impervia o addirittura sbarrata.
Così, pochi giorni fa, dopo che i giudici della Corte Supre ma britannica hanno stabilito che il Parlamento scozzese non ha il potere di indire un referendum sull’indipendenza a meno che non sia il Parlamento della Gran Bretagna a concederlo (cosa che Westminster a questo giro non ha nessuna intenzione di fare), la premier Sturgeon ha rilan
Non solo. La Scozia, per quanto rispetti molti dei requi siti richiesti dall’Ue, in realtà manca anche di infrastruttu re legislative e istituzionali che, sino ad ora, ha delegato al Regno Unito (banalmente, non c’è un capo di Stato).
Infine, quello di cui Sturgeon sembra non tenere conto, è la stanchezza degli elettori che, probabilmente, dopo anni di dibattito avvitato sulla faccenda referendum sì, referendum no, e dopo un voto già compiuto, potrebbero voler iniziare a parlare d’altro. E soprattutto potrebbero non considerare allettante la promessa elettorale di un salto nel vuoto.
GUANTANAMO NON CHIUDE MAI
DI GLORIA RIVA
Il cappuccio nero calato sulla testa. Le catene ai pie di. Le tute arancioni. I corpi ripiegati su se stessi, stesi su brevi fazzoletti di ghiaia, a respirare quel poco d'aria concessa ai carcerati. Le immagini del carcere militare di Guantanamo, ex base navale cu bana, sono indelebili. E perché mai quell’orrore do vrebbe essere archiviato fra i brutti ricordi, se a vent’anni e undici mesi dall'apertura di Guantanamo, quella prigione non è ancora stata chiusa? Persino i campi di sterminio nazisti sono stati serrati e i responsabili puniti. Invece Guantanamo, il buco nero dei diritti umani, dove è vietato guardare, dove le regole non valgono mai e dove qualsiasi pratica - specie la tortura - è lecita, continua a esistere. Addirittura nel 2018 l'allora presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, annunciava che Guantanamo non sareb be mai stata chiusa e che era stato un errore rilasciare
centinaia di pericolosi terroristi «per ritrovarli di nuovo nel campo di battaglia».
Delle 780 persone internate al Camp X-Ray, oggi restano 36 detenuti, pochi nel raffronto con il passato, ma sono comunque persone in attesa di un processo che probabil mente non arriverà mai: sono infatti quattordici i trattenu ti a tempo indefinito che non hanno avuto alcun contatto con una qualsivoglia forma di organo giudiziario. Questo perché la giurisdizione di Guantanamo è affidata al Tribunale di guerra delle commissioni mi litari essendo i prigionieri definiti “enemy combatant”, cioè nemici combattenti: si tratta di persone ritenute vicine al terrori smo, catturate in Afghanistan e in Pakistan, incarcerate e fatte confessare a qualsiasi
Riva Giornalistacosto e con qualsiasi mezzo. Per via del livello di brutalità applicato ai detenuti, confermato da Amnesty e da molti ex prigionieri rilasciati, si è fatta strada la richiesta da par te della società civile di chiudere il gulag cubano. Qualche promessa in tal senso è stata fatta, ma non è mai stata mantenuta. Su tutti il tentativo dell'ex presidente Barack Obama, che nella sua prima campagna elettorale promi se di mettere fine a Guantanamo. Ma andò diversamente: «È una questione molto complessa», racconta l’avvocato tedesco per i diritti umani Bernard Docke, che continua: «Obama non agì abbastanza prontamente. Se lo avesse fat to subito, dopo le elezioni, cogliendo lo slancio entusiasti co successivo alla sua nomina, probabilmente ce l’avrebbe fatta. Invece ha lasciato passare il tempo e dalle elezioni di midterm è uscita una maggioranza repubblicana del Con gresso, che ha fatto opposizione e ha bloccato tutta una
serie di provvedimenti di stampo riformista e pacifista, fra cui anche la chiusura del campo di prigionia X-Ray. Il piano di Obama è stato poi definitivamente accantonato all'indomani di una nuova escalation di attacchi terrori stici e della conseguente inversione di rotta dell'opinione pubblica. D’altra parte Obama stava portando avanti alcuni progetti di politica interna, fra cui la riforma sanitaria, che gli stavano a cuore e per i quali aveva bisogno dell’appro vazione dei repubblicani, per cui alcune questioni, fra cui quella di Guantanamo, sono scivolate in secondo piano e questo purtroppo è vero ancora oggi, con il presidente Bi den, alle prese con una maggioranza risicata e parecchie tensioni interne soprattutto per il sostegno alla guerra in Ucraina». Joe Biden sta evitando di affrontare il problema, forse più preoccupato dalle divisioni interne - addirittura il dipartimento di Giustizia ha deciso di istituire una nuova unità per contrastare il terrorismo interno, una minaccia in ascesa dopo il violento assalto a Capitol Hill - e dall’ef fetto che una decisione su Guantanamo potrebbe avere sul risicato sostegno di cui gode al Congresso.
L’avvocato Bernhard Docke si occupa di Guantanamo dal 2002, cioè dalla sua creazione, e per cinque anni ha lottato contro l’amministrazione di George W. Bush nel tentativo di liberare il suo assistito, l’allora diciannovenne Murat Kurnaz, nato in Turchia ma cresciuto in Germania, nella periferia di Brema. Murat nell'ottobre del 2001 volò da Francoforte al Pakistan per ché voleva frequentare le scuole del Corano e rafforzare la sua fede musulmana, proprio mentre gli americani invadevano l’Afghani stan per combattere i talebani all'indomani dell'attacco alle Torri Gemelle. Sebbene non fosse accusato di alcun crimine, Murat venne arrestato in Pakistan e venduto per tremila dollari alle forze armate statunitensi, che lo imprigionarono a Guantanamo, un carcere dove si trova «il peggio del peggio», così definì i detenuti sull’isola l’allora vicepresidente Dick Cheney, che aggiun se: «L’unica alternativa alla creazione di Guantanamo Bay sarebbe stata uccidere direttamente i sospetti terroristi». L’edificazione di Guantanamo, a distanza di vent'anni, ha finito per intrappolare la stessa America: «I trentasei pri gionieri che ancora oggi si trovano lì pongono un altro ti po di problema: loro per primi non vogliono tornare nel loro Paese d’origine dove spesso vige la pena di morte e quindi un loro rimpatrio significherebbe subire ulteriori torture, se non la morte. Dall’altra parte questi prigionieri sono considerati troppo pericolosi per essere rilasciati e troppo difficili da condannare. Ovvero, da un lato, se fos sero liberati sarebbero una minaccia per l’America se non altro perché potrebbero cercare una rivincita rispetto ai torti subiti in carcere; d'altro lato, le loro confessioni,
Diritti negati
IL FILM
“Una mamma contro G.W. Bush” del regista Andreas Dresen, al cinema dal 24 novembre, è una commedia basata su uno dei maggiori scandali giudiziari legati alla guerra al terrore proclamata dal presidente degli Stati Uniti Bush nel 2001.
essendo state estorte con la tortura, non avrebbero alcun valore legale di fron te a un tribunale e sarebbero di fatto an nullate: i carcerati verrebbero quindi libe rati, ma gli Stati Uniti non possono per metterselo perché, come dicevamo, si trat ta di persone troppo pericolose. In qualche modo Guantanamo è una trappola che l’America si è costruita da sola», spiega l’avvocato Bernhard Docke, che in questi giorni si trova in Italia per la presentazione del film “Una mamma contro G.W. Bush” del regista Andreas Dresen, che ha conquistato due Orsi d'argento alla Berlinale 2022. Il film, una commedia divertente, nonostante la comples sità del tema, racconta i cinque anni e mezzo di lotta di Rabiye Kurnaz, la madre di Murat, per liberare suo figlio da Guantanamo, dove ha subito torture: dall'essere co stretto a ingoiare acqua fino al limite del soffocamento, all'elettroshock, a restare appeso per giorni al soffitto, al restare giorno e notte sempre con la luce accesa. Per libe rarlo la madre Rabiye ha intentato una causa contro Bush davanti alla Corte Suprema. Unendosi a una class action di altri genitori di giovani incarcerati a Guantanamo e sfruttando le apparizioni televisive, Rabiye è riuscita a fa re pressione sulla politica e sulla magistratura statuniten si per garantire ai prigionieri di Guantanamo il diritto di
avviare un'azione legale contro la loro detenzione. La Cor te Suprema si pronuncia a favore dei detenuti presentatisi in giudizio contro il governo Bush. «Eppure Guantanamo non è ancora stato chiuso. È un pensiero che mi assilla, ripenso continuamente alle persone rinchiuse e tortura te, che ricevono un trattamento disumano», dice Rabiye e racconta anche il difficile percorso di riabilitazione di Murat che solo dopo molto tempo è riuscito a tornare a una vita normale. Anche la documentarista Laura Silvia Battaglia ha incontrato Murat, così come altri ex carcerati di Guantanamo: «Molti convivono con problemi di post traumatic stress disorder e dicono di dover convivere
CHE È ACCADUTO DIETRO LE MURA DI QUELLA PRIGIONE HA COSTITUITO UNA PALESE VIOLAZIONE DELLA LEGISLAZIONE INTERNAZIONALE DA PARTE DEGLI STATI UNITI”
quotidianamente con l'incubo di quel lager».
La mancata chiusura di quel carcere e l’assenza di alcun pentimento da parte degli Stati Uniti rispetto all’esplicita violazione del diritto internazionale e alla privazione del diritto di “habeas corpus” ha provocato un generale de classamento dello stato del diritto in generale: «Se in Ucraina la Russia si permette di oltrepassare qualsiasi re gola minima del diritto umanitario e se le norme della Convenzione di Ginevra vengono sistematicamente igno rate è anche perché G.W. Bush, dopo l’11 settembre, ha ag gredito in modo così esplicito il diritto internazionale da averlo praticamente annientato ed è oggi ipocrita chiedere un qualsiasi rispetto del diritto in Ucraina, quando gli Stati Uniti continuano a violarli mantenendo aperto il carcere di Guantanamo», commenta l’avvocato Docke.
“QUELLO
PIEGARE KIEV PER NEG
DI SABATO ANGIERI
Fare dell’Ucraina un grande Donbass. Sembra essere questo l’obiettivo della strategia russa in vista dei mesi invernali. E finora le preoc cupazioni del governo di Kiev e dei suoi allea ti confermano che le mosse del generale Su rovikin, il comandante in capo delle forze ar mate russe in Ucraina, stanno ottenendo dei risultati. Certo, quando si tratta di guerra i risultati rimano con l’indebolimento e la morte dei nemici e, tuttavia, non si può fare a meno di parlarne. I recenti attacchi alle infra strutture energetiche del Paese hanno seriamente minato le capacità del sistema ucraino di mantenere le città nelle retrovie a un livello minimo di normalità. L’apparato indu striale soffre in maniera evidente per i continui bombar damenti e le aziende in chiusura, anche nei settori strate gici, aumentano giorno dopo giorno. La sede di Arcelor Mittal di Kryvyi Rih, ad esempio, ha sospeso la maggior parte dei processi produttivi a causa del massiccio attacco missilistico russo alle infrastrutture energetiche del 23 no vembre. Secondo i vertici dell’azienda, «la quantità di elet tricità disponibile è insufficiente per sostenere la produ zione anche al 20 per cento della capacità produttiva». Il che è molto significativo se si considera che si trattava della più grande azienda siderurgica ucraina. Il metallo, infatti, in una guerra è fondamentale sia per riparare le in frastrutture civili sia per costruire i pezzi di ricambio per i mezzi corazzati e per l’industria bellica. Chissà se il gover no ucraino deciderà di agire come ha fatto a inizio novem bre, ovvero espropriando e nazionalizzando alcune indu strie considerate «strategiche». Si tratta delle compagnie di idrocarburi Ukrnafta e Ukrtatnafta, della fabbrica di camion AvtoKraz, del produttore di trasformatori indu striali Zaporizhtransformator e della fabbrica di motori per aerei Motor Sich. In quell’occasione, il ministro della Difesa Oleksii Danilov aveva annunciato che gli espropri erano anche dovuti alla proprietà delle ditte, gli oligarchi Kostyantyn Zhevago, Igor Kolomoisky e Konstantin Gri gorishin. Ma non si può non considerare che le aziende in questione operano tutte in settori strategici, vitali per la resistenza dell’Ucraina soprattutto in virtù del possibile stallo invernale. Il presidente Zelensky aveva dichiarato che «le complesse mansioni di queste aziende possono es sere svolte solo attraverso una gestione di tipo milita re-statale» aggiungendo anche che non escludeva «deci
sioni simili» in futuro. In altri termini, il governo ucraino si preparava a gestire un’emergenza che aveva visto chiara mente arrivare rispetto all’approvvigionamento energeti co e alla logistica, accentrando tutto nelle mani dello Sta to. La legge marziale, prolungata fino al 19 febbraio 2023, permette anche questo, con buona pace degli uomini d’af fari e degli industriali ucraini che hanno provato timida mente a protestare.
Tuttavia, queste decisioni non sono sufficienti a risolve re i problemi contingenti della popolazione civile. Il presi dente ucraino ha pubblicizzato molto la costituzione degli invincible points (i punti dell’invincibilità, ndr), ovvero dei tendoni dotati di generato ri autonomi e beni di primo conforto dove ricaricare i dispositivi mobili e ottenere aiuti umanitari. Si tratta di un palliativo, è evidente, dato che la stessa compagnia energetica nazionale Ukrenergo ha dichia rato che le forniture di energia nel Paese al momento sono ridotte al 30 per cento della capacità totale a causa dell’arresto di emer
genza delle unità di diverse centrali elettri che dopo i bombardamenti del 28 novem bre. L’operatore energetico ha inoltre ag giunto che il peggioramento delle condi zioni meteorologiche ha portato a un aumento del consumo di energia. In altri termini, fa più freddo e le persone vorreb bero riscaldarsi ma l’energia non c’è.
Ed è proprio questo il punto. Nelle ulti me settimane abbiamo sentito parlare spesso dell’imminente arrivo del «generale inverno», i media di tutto il mondo si sono profusi in analisi sui possi bili risvolti militari e sociali per l’Ucraina e su quanto i rus si puntino sul freddo come una sorta di alleato. L’obiettivo primario del Cremlino sarebbe quello di fiaccare il morale dei civili nelle retrovie, di obbligarli in qualche modo a fa re pressioni sul governo affinché si intavoli un negoziato a partire dalla situazione attuale. Si ricordi che in Donbass ci sono migliaia di persone che vivono senza gas da giu gno e che dalla fine dell’estate non hanno neanche acqua corrente ed elettricità. Ma i civili dell’est forse non hanno
lo stesso peso di quelli di Kiev o di Odessa sul governo cen trale. Quando si sentiva qualcuno di loro dire che «l’unica cosa importante è che la guerra finisca, non importa sotto quale bandiera» ci si scandalizzava perché la dissonanza con le dichiarazioni dei residenti di Leopoli o di Kiev era troppo palese. La resistenza «fino alla vittoria» sembrava l’unica versione ammessa, a costo di bollare chiunque si esprimesse diversamente come un «filorusso» o, peggio, come un traditore. Se consideriamo i vertici militari e po litici di Kiev tale censura è comprensibile: l’Ucraina è in guerra e il morale deve restare alto, pena il disfacimento della narrativa così faticosamente costruita dal 24 febbra io a oggi e, soprattutto, la sconfitta. Per alcune parti delle opinioni pubbliche occidentali, invece, sembra che alcuni non siano mai riusciti a capire che la cosiddetta difesa dei valori democratici non è qualcosa di astratto ma passa at traverso morte e devastazione. Non solo nell’immediato, ma negli anni a venire, la cancrena dell’attuale conflitto in Ucraina è già evidente a chi non ha i paraocchi. Orfani che odieranno chi gli ha portato via i genitori, famiglie spezza te, invalidi di guerra, traumi psicologici, povertà, chiusura culturale e violenza. Chi vive in Donbass ne sa qualcosa, otto anni di guerra intermittente sfociata nell’invasione su larga scala di inizio anno e poi mesi e mesi di sofferenze in una terra di confine.
Ora il Cremlino sembra essere deciso a distruggere l’U craina non solo con le bombe ma nell’animo, a lasciare so lo macerie al posto dello Stato che ha osato opporsi ai suoi progetti espansionistici. Il problema, reale come la morte che si respira vicino alle linee del fronte, è che questa non è una vendetta di Putin ma una strategia militare. Gli Stati Uniti e l’Unione Europea hanno già dichiarato che aiute ranno Kiev in ogni modo possibile, ma sembra difficile che i generatori possano riuscire a sostituire la rete elettrica e intanto il freddo aumenta.
IN CLASSE SULL’ATTENTI
DI GIUSEPPE AGLIASTRO
La propaganda di guerra del regime di Putin ha cominciato a fare irruzione nelle scuole della Russia nello stesso istante in cui i carri armati del Cremlino hanno cominciato a ir rompere prepotenti in Ucraina. Ma adesso, assieme al militarismo più spinto, negli isti tuti scolastici russi potrebbero presto fare capolino per sino elementi di preparazione alla guerra da propinare a bambini e ragazzi.
A dare la notizia è stato il ministro della Pubblica Istru zione Sergey Kravtsov, annunciando che dal prossimo settembre nelle scuole russe si svolgeranno dei corsi di «preparazione militare di base». Si tratta ancora di un progetto e la confusione non manca. Il ministro prima ha assicurato che le lezioni saranno obbligatorie per tutti, a partire dalla quinta classe. Poi ha fatto marcia indietro dicendo che saranno «extracurriculari» e che il loro inse rimento nel piano di studi dipenderà da insegnanti e ge nitori. Non è neppure chiaro in cosa consisteranno que ste lezioni, perché il programma non è stato delineato. Stando a Ria Novosti, però, «gli studenti impareranno l’esecuzione dei comandi, studieranno i dispositivi di protezione individuale e di primo soccorso, le armi e co me maneggiarle, le basi del tiro, l’uso e la composizione delle bombe a mano». Ma non è finita. Sempre secondo l’agenzia di stampa statale, «gli studenti degli ultimi anni impareranno inoltre come operare in un moderno com battimento, studieranno la composizione e l’armamento di una squadra di fucilieri motorizzati su un veicolo da combattimento di fanteria, l’equipaggiamento ingegne ristico della postazione di un soldato e impareranno cos’è una trincea singola». La Tass — altra agenzia stata le — sostiene che «gli alunni del 10° e dell’11° anno» im pareranno anche «a maneggiare un kalashnikov» e «for nire primo soccorso in combattimento»; poi, «studieran no i principi di funzionamento delle granate F1 e Rgd-5».
Preparazione militare, quindi preparazione alla guer ra. E sicuramente non è un caso che queste lezioni venga no pensate proprio ora, nel pieno dell’invasione dell’U craina ordinata da Putin. Lo ha confermato indiretta mente la stessa presidente della commissione Istruzione della Duma, Olga Kazakova: «Per una qualche ragione, molti genitori rifiutavano la parola “militare”. Tuttavia, sullo sfondo dell’operazione militare speciale, tutti han no sentito l’importanza di questo corso a scuola», ha det to la deputata al quotidiano Vedomosti. «Operazione militare speciale» è il modo in cui le autorità russe pretendono che si chiami il conflitto in Ucraina: il Cremlino vieta, infatti, di chiamare la guerra col suo vero nome. «Crediamo che nelle attuali condizioni molto difficili, ogni giovane dovrebbe essere in grado di maneggiare le armi e sottoporsi a una preparazione mi litare di base», ha dichiarato, secondo No
vaya Gazeta Europa, il leader del partito Russia Giusta, Sergey Mironov.
A marzo, quando la crudele guerra sca tenata dal Cremlino era iniziata da poche settimane, la famigerata “Z” simbolo dell’offensiva delle truppe russe in Ucrai na era spuntata già sulle finestre di diver se scuole. Alcuni istituti sembravano fare a gara nel dimostrare il loro appoggio all’invasione dell’Ucraina. In più di una scuola, bambini e ragazzi sono stati fatti schierare nei cortili o nelle aule e sono stati messi in fila in modo da formare una “Z”. Già la scorsa primavera c’era notizia di lezioni in cui si ripetevano agli studenti le menzogne sul la guerra diffuse dal Cremlino: ovvero che l’invasione sa rebbe in realtà un atto di difesa della Russia con l’obietti vo di «denazificare» l’Ucraina. Da quest’anno, inoltre, nelle scuole sono stati introdotti alzabandiera e inno na zionale (da eseguire ogni settimana) e, soprattutto, le co
siddette «conversazioni su cose importanti», considerate vere e proprie lezioni di propaganda. Non tutti sono stati zitti, ci sono state anche lamentele, sia di genitori sia di insegnanti, ma a Mosca sembrano intenzionati a conti nuare su questa strada. E i corsi di «preparazione milita re di base» proposti sono purtroppo la conferma del cre scente livello di militarismo che il Cremlino vorrebbe imporre alla società russa e persino ai più giovani.
Le nuove lezioni dovrebbero impegnare gli studenti per 35 ore nel corso di cinque giornate e il loro contenuto, per quanto sia noto solo per sommi capi, ricorda a molti quel lo della preparazione militare di epoca sovietica, quando a scuola s’imparava a reagire ad attacchi nucleari o chi mici, prestare primo soccorso e maneggiare armi da fuo co. Secondo il quotidiano filogovernativo Izvestia, il capo di Stato Maggiore Valery Gerasimov avrebbe accolto con favore l’iniziativa così come l’idea di includere eventual mente i veterani di guerra tra gli insegnanti di queste le zioni militari. Inoltre, sempre secondo il giornale, vorreb be che i corsi durassero addirittura 140 ore in due anni per gli studenti della decima e dell’undicesima classe.
La Russia di Putin non è arrivata a questo punto da un giorno all’altro. Sono anni ormai che le scuole e la tv di vulgano una visione edulcorata e idealizzata della storia nazionale. Ed è già dal 2016 che in Russia esiste un grup po paramilitare per bambini o poco più: la YunArmiya, che ha l’obiettivo di diffondere il culto della patria anche tra i più piccoli. I ragazzini in uniforme — basco rosso e divisa beige — hanno tra gli otto e i 17 anni. Gli adole scenti sfilano regolarmente nelle parate dell’esercito rus so, inclusa quella colossale sulla Piazza Rossa che si svol ge ogni anno il 9 maggio per celebrare la vittoria sovietica nella Seconda guerra mondiale, ma che serve al Cremlino anche per gonfiare i muscoli davanti al mondo mettendo in bella mostra carri armati e missili balistici. A differen
za di quanto succedeva in epoca sovietica col corpo dei Pionieri, non è obbligatorio per i ragazzini far parte della YunArmiya, ma le loro scelte sono inevitabilmente in fluenzate da insegnanti e genitori. Stando ai dati ufficiali, ora, i bambini e gli adolescenti col berretto rosso sareb bero più di un milione. Alcuni attivisti si sono schierati contro questa militarizzazione denunciando che viola i diritti dei minori. Purtroppo, sono rimasti inascoltati.
Quando Tibor Szabó ha notato un kalash nikov nascosto nel suo campo di grano, non si è spaventato: ha fatto una fotografia, che mostra sullo schermo del suo cellulare, e non ha toccato l’arma, convinto che presto sarebbe scomparsa. «Non sono il primo contadino della zona a cui è capitata una cosa del genere, né sarò l’ultimo», spiega appoggiato allo steccato della sua casa di campagna mentre un gruppo di galline razzola attorno ai suoi piedi. Lui e la moglie, raccon ta, stanno cercando di abituarsi ai colpi di arma da fuoco che di tanto in tanto riecheggiano nella notte e ai passi fur tivi nei campi quando cala il buio. A pochi chilometri dal suo terreno, nella regione serba della Voivodina, dove un decimo degli abitanti parla ungherese, si stende la doppia recinzione, alta quattro metri e costellata di filo spinato e telecamere, fatta costruire da Viktor Orbán nel 2017 per im pedire l’ingresso ai migranti diretti dalla Serbia in Ungheria.
Nell’estate scorsa, non lontano dalla casa di Tibor, una spa ratoria tra bande di trafficanti ha provocato una vittima: «So no nervosi, quest’anno il carico di lavoro è aumentato», com menta il contadino, fissando un punto indistinto in direzione del confine. Dalla casa la recinzione non si vede, nascosta dal la boscaglia, ma in questa zona di frontiera tutti si sono abi tuati alla sua presenza. Secondo i dati di Frontex, il numero dei migranti in cammino per entrare nell’Unione Europea sul la cosiddetta rotta dei Balcani occidentali è aumentato del 170 per cento quest’anno, e nei primi nove mesi sono stati re gistrati 106mila ingressi irregolari. Un aumento favorito, a det ta di Bruxelles, dal governo di Belgrado: la Serbia, infatti, non chiede il visto ai viaggiatori provenienti da Stati che non rico noscono l’indipendenza del Kosovo, tra cui India, Turchia e Marocco. Per i cittadini di questi Paesi che desiderano vivere in Europa lo Stato balcanico rappresenta la prima tappa, rag giungibile con un biglietto aereo, di un viaggio che li conduce fino alle porte dell’Ungheria, dove tentano di entrare clande stinamente. Si tratta di «una porta di accesso dal retro che va chiusa», ha affermato il vicepresidente della Commissione europea Margaritis Schinas. «I nostri amici serbi pensavano forse che non avremmo notato come gli indiani oggi figurano tra le prime dieci nazionalità di richiedenti asilo?», ha com mentato il politico greco, mentre la commissaria per gli Affari interni, Ylva Johansson, ha annunciato «un piano d’azione» per la rotta balcanica pronto prima del vertice “Ue-Balcani oc cidentali” del 6 dicembre a Tirana.
Nel luglio scorso, l’Austria ha registrato il più alto numero di domande di protezione internazionale dalla crisi migratoria del 2015; i primi, per nazionalità, sono stati proprio i cittadini indiani, ma nessuno di loro, si è affrettata a chiarire Vienna, ha ottenuto l’asilo. Un mese dopo, ad agosto, l’Ue ha registrato un inedito, anche se contenuto, picco di domande da parte di mi granti turchi e marocchini per un totale di 6mila richieste. Così, su pressione di Bruxelles, la Serbia, candidata ufficial mente a entrare nell’Unione, ha promesso di uniformare la propria politica di ingresso a quella degli Stati europei e ha, per ora, imposto l’obbligo di visto ai viaggiatori provenienti dalla Tunisia e dal Burundi, Stato africano tra i più poveri al mondo.
Seduto in mezzo a un campo di patate nei pressi del confine con l’Ungheria, Jaskaran prova a scaldarsi con i raggi del sole autunnale; accanto a lui il suo compagno di viaggio, con il ca po avvolto in un turbante nero, taglia una cipolla da mangiare con un pezzo di pane. Entrambi raccontano di essere emigrati dalla regione indiana del Punjab, dopo avere scoperto l’esistenza della rotta balcanica tra mite Internet: «Lavoravamo nei campi, ma ci siamo indebitati a causa delle frequenti allu vioni e vogliamo trovare lavoro in Svizzera». Ogni tanto tossiscono, perché il mulino ab bandonato in cui hanno passato la notte è molto umido, raccontano: dopo essere arri vati in aereo a Belgrado, hanno depositato 5mila euro in un fast food vicino alla sta
zione ferroviaria, che funge da base per i trafficanti, e ora sono in attesa delle indicazioni per sapere quando varcare il confine a nord della città di Subotica.
Con i suoi edifici in stile Art Nouveau e i colori accesi delle facciate dei palazzi, la città di Subotica racconta un’altra storia di frontiera. L’elegante sede del municipio, il teatro e la sinago ga testimoniano l’antica ricchezza di un crocevia commercia le conteso tra gli Ottomani e gli Asburgo. Oggi sui giornali stampati in lingua magiara che si leggono nelle piazze fanno spesso capolino titoli contro i profughi, accusati di avere reso la città una terra di conquista dei trafficanti.
Snodo di contrabbando di armi durante le guerre jugoslave e di cannabis ed eroina ancora oggi, la regione intorno a Subo tica ha infatti scoperto un nuovo business: il traffico di mi granti. Secondo il centro di ricerca svizzero Global Initiative questo giro di affari al confine tra la Serbia e Ungheria frutte rebbe ai trafficanti più di 8 milioni all’anno. Radoš Durović, della ong serba Asylum protection center, si è abituato a legge re delle sparatorie fuori dalla città tra gruppi rivali: «I crimina li locali arruolano i migranti che si sono indebitati durante il viaggio per utilizzarli come traduttori. Ma anche i cittadini del posto, spesso in difficoltà economica, si offrono come autisti o mettono a disposizione i loro appartamenti».
Fuori dal centro di accoglienza nei pressi della città di Som bor, a pochi chilometri dal confine con la Croazia e l’Ungheria, una lunga fila di taxi staziona sotto agli alberi. «Accompa gniamo i migranti in città per acquistare il cibo, oppure li avvi ciniamo al confine: ma cosa fanno lì bisogna chiederlo ai traf ficanti, senza di loro qui non puoi fare nulla», commenta un tassista. Progettato per ospitare un centinaio di persone, il centro di accoglienza di Sombor ne accoglie oggi circa 800. Tutti, al suo interno, conoscono la logica del profitto dei traffi canti che regola le modalità di attraversamento. La percen tuale di successo è molto alta, se ci si può permettere di pagare 10mila euro per corrompere i funzionari dei varchi ufficiali, mentre i più poveri versano 300 euro per noleggiare una scala con cui provare a scavalcare, di notte, il muro di filo spinato. Oltre la barriera, però, l’ostacolo più grande rimane quello del la polizia ungherese.
«In ogni accampamento che visitiamo, tra i boschi o negli edifici abbandonati, ci sono persone con lesioni e arti spezza
Migranti / La rotta balcanica
ti», racconta Vuk Vuckovic, della ong serba klikActiv, impe gnata a offrire sostegno umanitario ai migranti lungo il confi ne. «L’Unione Europea ha mostrato interesse solo per la que stione dei visti che hanno un’influenza minima: il 70 per cento dei migranti in transito oggi in Serbia è rappresentato da af ghani e siriani, e tutti, a prescindere dalla nazionalità, subisco no soprusi terrificanti per mano della polizia». Secondo klikActiv, sono centinaia le persone respinte ogni giorno in Serbia dopo avere attraversato la frontiera con l’Ungheria. In un rapporto pubblicato lo scorso agosto, Medici senza frontie re ha elencato gli abusi documentati in questa terra di confi ne: percosse con cinture e manganelli, calci, pugni, uso di spray al peperoncino e gas lacrimogeni, e poi umiliazioni co me quella di «funzionari di frontiera che durante i rastrella menti hanno urinato addosso ai migranti svestiti».
A fine ottobre, il governo ungherese ha annunciato di vo lere aumentare l’altezza del muro, che si estende anche al confine con la Croazia, e ha rimproverato l’Unione di non avere rimborsato la spesa di oltre 800 milioni di euro neces saria a costruirlo. «Bruxelles è convinta che i respingimenti illegali e le barriere fungano da deterrente: ma finora hanno solo favorito gli affari dei trafficanti», sostiene Durović. «Molti rifugiati stanno abbandonano la Turchia, dove han no vissuto per anni, a causa della crisi economica e dell’osti lità della popolazione, e con l’avvicinarsi delle elezioni nel Paese la situazione peggiorerà».
La risposta dell’Unione europea non sembra destinata a farsi attendere: «Frontex deve essere impiegata lungo tutta la rotta balcanica», ha chiarito il vicecommissario Schinas, e Belgrado ha accettato di ospitare le truppe di pattugliamento dell’agenzia europea al confine meridionale con la Macedonia del nord. Il ministro dell’Interno serbo, Aleksandar Vulin, ha chiarito la posizione del governo durante una visita istituzio nale in Grecia, quando ha alluso al conflitto secolare con l’Im pero ottomano: «Non è la prima volta che la Serbia protegge l’Europa da un’invasione: ogni migrante fermato al confine serbo è un migrante in meno a Vienna o a Berlino». Intanto, nel campo al confine con l’Ungheria, assieme a migliaia di al tre persone, Jaskaran attende le indicazioni dei trafficanti. E si augura di non essere lui, quel migrante.
Una donna palestinese protesta per il taglio dei suoi ulivi nel villaggio di Burin
NON C’È PACE TRA
GLI
ULIVI
DI STEFANO LORUSSO
Robert Abuied ha fatto tutto quello che ha potuto quest’anno per mantenere in salute i suoi ulivi nei 50 dunam (12 acri) di terreno della sua famiglia, nella municipalità di al-Walaja, a nord-ovest di Betlemme. Ma un gennaio più caldo del solito ha ritardato la fruttificazione degli alberi. «Il mese di gennaio, in genere il più freddo e decisivo per la fioritura, è stato mite, seguito da alcune gelate notturne a febbraio. Di conseguenza le oli ve sono più piccole e questo si ripercuote sui miei guada gni. Ho perso almeno 15.000 shekels (4.220 euro) rispetto all’anno scorso e produco la metà rispetto a 10 anni fa», spiega l’agricoltore sessantacinquenne e proprietario della Cooperative association for olive pressing, il più antico frantoio di Betlemme.
Robert Abuied è uno dei tanti agricoltori palestinesi che ha visto i suoi redditi diminuire per gli effetti combinati del cambiamento climatico e dell’occupazione israeliana. 16 (4 acri) dei suoi 50 dunam di terreni agricoli si trovano nella Seam Zone, una enclave di terre intrappolate tra la Linea Verde - il confine dell’accordo di armistizio del 1949 - e il Muro di separazione, cui i contadini pale stinesi non possono accedere senza un per messo concesso dalle autorità israeliane.
Quest’anno Robert non l’ha ottenuto, in linea con le politiche restrittive dello stato ebraico che secondo i dati dell’ong israe liana HaMoked ha ridotto il tasso di ap provazione dal 71 per cento nel 2014 al 27 per cento nel 2020, affermando che i Pale stinesi si servirebbero di questo strumen to per entrare illegalmente in Israele e cer carvi un impiego.
sbalzi termici notturni interrompono e danneggiano le fasi di fioritura e allegagione dell’ulivo. Di conseguenza il fiore si essicca e cade», spiega Abeer Butmeh, coordinatrice del Palestinian environmental Ngos network. «L’irregolarità delle piogge e la siccità impediscono all’acqua di raggiunge re le radici dell’albero, che pur essendo resistente, deve an dare a cercare il nutrimento in un suolo sempre più secco», continua l’ingegnere ambientale oggi a capo di una rete di 15 organizzazioni ambientaliste.
La diseguale distribuzione dell’acqua poi peggiora il quadro. L’80 per cento delle risorse idriche in Cisgiordania è controllato da Israele che la incanala verso le colonie, ille gali secondo il diritto internazionale. Lo sa bene Rizak Qa raq, contadino di sessantadue anni, le cui viti, ad un centi naio di metri dalla colonia di Neve Daniel, a sud di Gerusa lemme, si sono essiccate: «Mi hanno tagliato l’acqua. Non sono riuscito a salvare le piante con il concime», spiega l’a gricoltore, cui l’ordine militare n. 158 dello stato d’Israele vieta di scavare un pozzo.
La stagione della raccolta delle olive, tra ottobre e no vembre, è uno dei momenti più importanti dell’anno per le
IL CAMBIAMENTO CLIMATICO. GLI ATTACCHI DEI COLONI. LE POLITICHE RESTRITTIVE DI ISRAELE. PER GLI AGRICOLTORI PALESTINESI DIVENTA QUASI IMPOSSIBILE SOPRAVVIVERE
L’assegnazione limitata dei permessi impedisce le attivi tà agricole essenziali come l’aratura, la potatura, la conci mazione o la gestione dei parassiti durante l’anno, impat tando negativamente la produttività e la qualità delle olive. «In poche settimane il raccolto di un intero campo infesta to dalla mosca dell’olivo, le cui larve si nutrono della drupa del frutto può andare perso, senza intervento umano», spiega Thaer Fakhoury, esperto nell’accompagnamento dei contadini dell’Arab centre for agricultural development. Nel 2020 in Cisgiordania sono stati prodotti circa 13.000 metri cubi d’olio d’oliva, mentre nel 2014 la produzione era di circa 25.000 metri cubi, quasi il doppio.
Un colpo duro da incassare per le 100.000 famiglie pale stinesi che secondo l’Onu aspettano i proventi della raccol ta per rafforzare i propri redditi, in un settore, quello dell’o lio, che vale tra i 160 e 190 milioni di dollari secondo il Pale stine trade center.
Negli ultimi dieci anni i raccolti di olive in Cisgiordania, ma anche quelli degli alberi da frutto, sono diminuiti non solo a causa della riduzione dei permessi, ma anche per l’effetto del riscaldamento globale che danneggia la fruttifi cazione degli alberi. «In primavera le alte temperature e gli
famiglie e gli agricoltori palestinesi, non solo per la sua rile vanza economica. La raccolta contribuisce a costruire un senso di comunità familiare e di appartenenza alla terra e alle tradizioni palestinesi. Un sentimento che si tramuta in numeri. Negli oltre 900.000 dunam (222.395 acri) di terre arabili in Cisgiordania sarebbero piantati circa 10 milioni di ulivi, secondo il programma di sviluppo dell’Onu.
La loro produttività non è minacciata soltanto dal cam biamento climatico, ma anche dagli attacchi dei coloni che si fanno più intensi durante la raccolta delle olive. L’ong israeliana Yesh Din ne ha documentati 42 tra l’ottobre e il novembre 2021. Quest’anno, tra l’11 e il 24 ottobre, ce ne sono stati 22 secondo l’Onu, risultati in oltre 800 ulivi di strutti. Ma non solo. Il 19 ottobre scorso a Kisa, nel sud di Betlemme, un’attivista isra eliana di 70 anni è stata ricoverata con un polmone perforato da un bastone di ferro scagliatole contro da un colone di Ma’ale Amos. Due giorni più tardi a Burin, a sud-o vest di Nablus, un agricoltore di 22 anni, colpito da una pietra lanciata dai coloni di Yitzhar, ha perso un occhio.
Proprio a Burin, la mattina del 7 no
vembre scorso, Doha Asous, contadina di 60 anni, ha avuto, dopo più di un anno, finalmente accesso al suo olive to. Ma non si aspettava di trovare 35 dei suoi ulivi in pezzi, piantati in terra come mozziconi di sigarette spenti, taglia ti con la motosega dagli abitanti della colonia di Yitzhar. «Sono rimasta congelata e congelate erano anche le mie lacrime. Quegli ulivi avevano più di 70 anni», racconta la contadina, sessant’anni, mostrando le foto dei tronchi mozzati.
Il villaggio di Burin, poco più di 2.500 abi tanti, è situato tra Yitzhar e Har Bracha, due colonie conosciute per la violenza dei loro abitanti. «L’esercito israeliano ha assistito all’attacco senza intervenire. Poi mi ha allon tanata dai campi. Non posso permettermi di star ferma. Se lo faccio il dolore prende il so pravvento», denuncia la contadina, i cui ter reni agricoli si trovano in zona C, sotto con trollo amministrativo e militare israeliano, come l’80 per cento del territorio di Burin. In zona C è vietato coltivare, salvo ottenimento di uno speciale permesso da parte dell’Amministrazione civile israeliana, braccio del governo israeliano in Cisgiordania. Quest’anno a Doha sono stati concessi due soli giorni per raccogliere le olive nei suoi 8 du nam (2 acri) di terreno. «Li denuncerò alla polizia israeliana, ma so già che gli autori non subiranno conseguenze», sospi ra Doha. Nel 2021 i coloni hanno distrutto più di 9.300 ulivi secondo la Croce Rossa, mentre dal 2005, su 1.395 fascicoli d’indagine riguardanti le aggressioni dei coloni, il 92 per cen to è stato archiviato senza la formulazione di un’accusa.
Le minacce psicologiche e le violenze mirano a scoraggia re l’accesso alle terre per i Palestinesi e rinforzare il principio su cui si fonda il diritto fondiario israeliano ereditato dall’e
poca ottomana, per cui un campo lasciato incolto per alme no tre anni consecutivi diventa di proprietà dello stato di Israele. Una strategia che sarebbe utilizzata dai coloni per impaurire i contadini palestinesi e accaparrarsi nuove terre. «Rivendicare la proprietà di un campo di ulivi, soprattutto se antichi, o piantare un ulivo, è un gesto politico. L’atto di bru ciarli poi statuisce chi ha il potere di cambiare lo status quo
e dettare chi è chi e chi è cosa», analizza Dani Brodski, dell’ong israeliana Rabbis for human rights, che ogni anno si reca nei villaggi palestinesi a rischio per supportare le opera zioni di raccolta con un gruppo di volontari israeliani.
«La raccolta delle olive è sempre stata un periodo di festa per la mia famiglia. Voglio che continui ad esserlo nono stante tutto», dice sorridendo Doha Asous, mentre racco glie le olive cadute fuori dai grandi teli di nylon neri distesi alla base dei tronchi. «Mi piace raccogliere le olive che scappano», dice con lo sguardo sfuggente, mentre il caffè aromatizzato al cardamomo bolle sul fuoco da campo. L’o lio d’oliva, spremuto la sera prima nel frantoio di Burin, è pronto per essere mischiato allo Za’tar (miscela di maggio rana, timo e origano) e spalmato sul pane caldo.
Noi, campi di battaglia Diritti negati
Perché oggi la libertà delle donne è diventata in tutto il mondo così centrale. E perché questo non piace alle destre populiste. Parla la pioniera del pensiero femminista in Polonia
colloquio con Agnieszka Graff di Wlodek Goldkorn illustrazione di Ambra Garlaschellil palcoscenico è un caffè, un po’ hipster, affollato più da donne che da uomini fra i trenta e cinquant’anni, nel rione Saska Ke pa, sulla riva destra della Vistola a Varsavia: viali alberati, villette d’anteguerra e ampi spazi verdi. La protagonista è Agnieszka Graff, cinquantadue anni, storica di lette ratura anglosassone, dottorato di ricerca su James Joyce, curriculum universitario fra Amherst College, Oxford e ora professoressa all’Università di Varsavia. Graff è una delle pioniere del pensiero femminista in Polo nia, introdotto un quarto di secolo fa: un modo di percepire il mondo che trasformò le donne polacche in protagoniste e guide dei movimenti di protesta e delle iniziative della società civile, dalla difesa della Costi tuzione all’aiuto ai profughi dall’Ucraina, per non parlare della questione dell’aborto. Con lei abbiamo parlato del perché la liber tà delle donne sia diventata centrale nel nostro immaginario e per quali motivi le de stre populiste considerano quello che loro chiamano “l’ideologia gender” come nemi co da combattere. Tutto questo dal punto di vista di un’intellettuale di quella che in Italia viene spesso chiamata “l’Europa dell’Est”, una definizione che, paradossalmente e po lemicamente, Graff fa sua.
Si comincia con l’attualità, l’Iran. «La ri voluzione è iniziata quando una ragazza, Mahsa Amini, è stata uccisa dalla polizia per aver indossato l’hijab in modo non con forme alle regole. La domanda è: è stato un pretesto, un fattore scatenante, o si tratta davvero dell’hijab? La risposta è: si è tratta to di entrambe le cose. Garantire che il velo sia indossato correttamente è diventato un simbolo di potere. Dall’altra parte, togliersi le sciarpe e bruciarle in piazza è diventato segno di ribellione. L’Iran è un caso estre mo, ma per qualsiasi potere il controllo sui corpi delle donne è cruciale: come dovreb bero vestirsi, se hanno il diritto di muoversi liberamente, chi controlla la fertilità. È ana logo, seppur diverso, il caso dell’aborto in Polonia: il corpo della donna è un campo di battaglia. L’atteggiamento nei confronti dei diritti delle donne e della sessualità fa la dif ferenza fra sistemi autoritari e democratici, liberali e anti-liberali». Ci torneremo. In tanto, il fatto stesso che il corpo delle don ne sia oggetto di battaglia (in Polonia co munque stiamo indisturbati in una città dove chiunque può vestirsi come vuole e la
nostra interlocutrice vive in un legame con un’altra donna), una battaglia cui parteci pano pure i maschi è la testimonianza del fatto che il femminismo ha cambiato il no stro sguardo sull’universo e sia vincente. Graff prende tempo, poi dice: «Merito del nostro attivismo, di generazioni di donne in molti Paesi, ma anche dell’atmosfera spiri tuale e culturale in cui viviamo e che ha le sue radici nel pensiero illuminista. La per sona umana è sempre più al centro dell’at tenzione». Sorride: «Però, dire che il fem minismo abbia cambiato il modo di perce pire il mondo anche dei maschi mi sembra un’affermazione azzardata. Di alcuni sì, di altri no. E comunque, il femminismo è un’i dea semplice: le donne sono esseri umani». Chiarisce: «Dal momento che ripetiamo il credo illuministico e liberale per cui tutti gli uomini sono stati creati uguali e tutti han no diritto alla felicità, parole della Dichia razione d’Indipendenza americana, si pone la domanda: solo gli uomini?». Aggiunge: «Per me la storia del femminismo è una se rie di moniti per cui la democrazia ha di menticato le donne. Sembra che tutti i dirit ti che abbiamo oggi ce li siamo conquistati con le nostre lotte e la capacità di rivolta. Ma c’erano pure necessità storiche. In con seguenza delle guerre mondiali le donne sono entrate massicciamente nel mercato
del lavoro. Ecco: il femminismo può essere raccontato come la causa di cambiamenti radicali oppure come il sintomo dei cam biamenti. Penso che ambedue le narrazioni siano vere. Però». Però? «È pure cambiato il paradigma del pensiero liberale».
Spiegazione: «È entrata a farne parte la psicanalisi, la cultura della terapia». Si fer ma. Guarda l’interlocutore e chiede: «Ha presente Eva Illouz?». L’abbiamo presente, è una studiosa franco israeliana nata in Ma rocco e l’abbiamo intervistata per questo settimanale. «Adoro i suoi libri», dice Graff: «La sua tesi è la seguente: la psicanalisi co me forza culturale è in forte connessione con il femminismo. Certo, il femminismo trattava Freud da nemico. Lo psicoterapeuta era la persona che normalizzava le donne e le riportava fra le mura domestiche dicendo: la tua rivolta è solo sintomo della tua nevro si. Ma possiamo raccontare il femminismo partendo dai gruppi di autocoscienza degli anni Sessanta e Settanta, come terapia psi canalitica trasformata da un processo politi co e sociale in corso. In breve: il femminismo è anche una specie di terapia della civiltà mediante la conversazione, un po’ come la psicanalisi».
Terapia è anche Riparazione - un concet to che nella tradizione ebraica si chiama “Tikkun” - la Riparazione del mondo o, for
Agnieszka Graff, scrittrice e attivista per i diritti delle donne. Sopra: manifestazione femminista a Varsavia; sempre a Varsavia, il 6 novembre, commemorazione di Iza, giovane donna morta per il divieto di abortire
se, l’attuazione della grande promessa della modernità per cui tutti gli esseri umani so no liberi di scegliere l’appartenenza, il ge nere, i modi con cui amare l’altro.
E così si torna all’attualità. La domanda è perché in un Paese considerato spesso peri ferico e arretrato, la Polonia, il femmini smo, punta avanzata del pensiero occiden tale, è fondamentale? Graff risponde: «Per ché la Chiesa ha scelto di allearsi con il partito Diritto e giustizia (Pis). E così il fem minismo si è liberato dall’impasse in cui si trovava fin dall’inizio del processo della transizione dal comunismo alla democra zia». Spiega: «Ci veniva detto: state zitte, non svegliate i demoni del cattolicesimo polacco; noi liberali abbiamo bisogno della Chiesa perché la Polonia entri e resti nell’U nione europea». E infatti la Chiesa si pro clamava favorevole all’Europa: «Ma dal momento in cui quel contratto è stato stracciato dai vescovi, noi femministe
“Lo sguardo sul mondo oggi è femminile. Ma il potere è nelle mani dei maschi. E la storia dell’umanità non è una storia delle idee, ma di chi ha soldi e potere”
da sovversive, guardate con sospetto o ridicolizzate dagli stessi liberali, siamo di ventate le difensore principali della demo crazia. Un cambio epocale nella storia po lacca». Allarga: «Non si tratta di sola Polo nia. In molti Paesi il populismo di destra mette in questione la democrazia liberale e ovunque la questione di genere è cruciale. C’è un’alleanza fra le destre populiste e radi cali e l’ala ultraconservatrice della Chiesa o forse al plurale delle Chiese: negli Stati Uniti, come in Spagna o in Italia, e basti pensare alle conferenze del Congresso mondiale del le Famiglie». Uno di questi si era tenuto a Verona nel 2019 fra le manifestazioni di pro testa delle femministe, un altro a Budapest. Però, per quanto riguarda l’Italia, le destre promettono che la legge 194 sull’aborto non si tocca. Risposta: «Certo. Si usano vari regi stri di retorica a seconda del Paese. In Polo nia si promette qualunque cosa, dalla proi bizione totale dell’aborto allo stop alla “So doma e Gomorra” . In Francia sono nel miri
no i matrimoni dello stesso sesso». In Russia ci sono leggi che vietano la propaganda Lgbt. «La narrazione è sempre la stessa», di ce Graff: «Il liberalismo ci ha portato a una situazione in cui è in pericolo la famiglia e noi vi difenderemo da questo obbrobrio». Riflette: «È senso comune pensare che il po pulismo anti-gender sia una reazione al fem minismo. Io invece credo che sia al contra rio. Il risveglio del femminismo è una reazio ne all’ondata di misoginia».
Una pausa nel colloquio. Graff risponde al telefono al figlio adolescente. Poi riprende: «In Occidente viviamo in un periodo che sa di tramonto e di paura. Da quando Putin ha spiegato che la sua “operazione speciale” non riguarda soltanto l’Ucraina quanto “l’Occidente collettivo”, il gender, la questio ne dei gay e delle lesbiche è oggetto di una guerra vera, combattuta. Ecco, il femmini smo è così importante perché è diventato parte di una partita che non riguarda più e
Il linguaggio della lotta Donne protagoniste alla Fiera nazionale della Piccola e media editoria di Roma (7-11 dicembre). E tanti libri che muovono dalle loro lotte. Come “Aborto senza frontiere” di Alessandro Ajres (Rosenberg & Sellier), dedicato proprio alle donne polacche. O “Il mito della bellezza” (Tlon) di Naomi Wolf; “Le Lupe di Pompei” con Elodie Harper (Fazi). E “Donne, diritti e libertà”: il titolo dell’incontro con l’iraniana Azar Nafisi, con Michela Murgia.
non solo i costumi. La guerra non è più su chi lava i piatti nelle coppie eterosessuali ma ha come oggetto la questione di chi governerà il mondo». Sorride: «Ciò detto, chi lava i piatti resta comunque importante».
Obiezione. Al tramonto siamo noi ma schi, non il mondo. Lei ride e racconta un episodio. Mentre portava i suoi cani al guin zaglio un uomo con una postura molto da macho la redarguì e le intimò di liberare gli animali. «Ma era poco convinto della sua superiorità e anch’io non mi sono arrabbia ta come invece sarebbe successo dieci anni fa». Insistiamo. Perché le donne hanno vin to. Nella sfera della cultura le cose più im portanti le creano loro. Risposta: «Lo sguar do sul mondo oggi è delle donne. Ma il pote re è nelle mani dei maschi. La storia dell’u manità non è storia delle idee ma prima di tutto di chi ha i soldi e il potere. E da questo punto di vista il potere maschile è in cresci ta. Siamo in un momento storico in cui il femminismo potrebbe diventare patrimo nio generale dell’umanità ma potrebbe an che diventare storia, passato».
Silenzio, poi dice: «Secondo alcuni studio si, lungo tutto il Novecento e fino a oggi le destre radicali hanno avuto un’ossessione per la questione della purezza, dell’identità certa e univoca. Le forme di questa ossessio ne cambiano, si trasformano con l’evoluzio
“Siamo in un delicatissimo momento in cui il femminismo potrebbe diventare patrimonio universale. Ma potrebbe anche diventare di colpo storia, passato”
ne della cultura e della società. Oggi, al cen tro, ripeto, è l’esaltazione della famiglia tra dizionale». Ha detto tradizionale.
La guerra in Ucraina ha riportato i ruoli tradizionali. I maschi combattono, le donne aspettano a casa, oppure: «Oppure vengono stuprate. Ho l’impressione che molte fra le femministe occidentali non si rendano con to di quanto gli stupri sistematici siano un’arma di guerra». Tace e poi: «Questa guerra ha riportato la divisione fra un’Euro pa occidentale e una orientale, in un modo doloroso. Per noi, in Polonia è evidente quanto non siamo percepite come parte con pari diritti dell’Unione europea ma come una propaggine del Continente. Comunque, abbiamo scoperto la comunanza con la no stre sorelle dei Paesi dell’Est e dell’Ucraina e questa è stata una piacevole sorpresa».
Spiegazione (nostra ): è solo nei Paesi della “vecchia Europa”, in particolare in Italia, che è comune la convinzione per cui al di là del Muro di Berlino si sia sviluppata una specie di “cultura comune”, diversa dall’Occidente; non allo stesso modo la pensano i diretti in teressati. E restituiamo la parola a Graff: «Poco tempo fa a Breslavia si è svolta l’as semblea annuale di Kongres Kobiet (il con gresso delle donne, l’organizzazione che uni sce varie istanze femministe e femminili). Finora abbiamo sempre invitato le sorelle
italiane, olandesi, tedesche, per sottolineare la nostra appartenenza all’Occidente, i no stri “standard europei”. Quest’anno invece c’erano molte ucraine o donne che aiutano le ucraine. La guerra ha cambiato la nostra identità. Non dobbiamo cadere nella trap pola del nazionalismo di nessun tipo (certa mente non quello polacco e neanche ucrai no) ma il tema dell’Ucraina è per il nostro femminismo centrale. Riguarda la nostra si curezza, la nostra identità. Ma anche il no stro sguardo sulle sorelle occidentali. Abbia mo l’impressione che una parte del femmi nismo occidentale usi una mappa obsoleta dell’Europa e una retorica della pace che non dice niente. Hanno tanto criticato da si nistra la democrazia liberale da non aver percepito il montare delle destre radicali». Infine: «Non ho le energie per occuparmi di tutto questo. Ho già tanto da fare nel cercare case e lavoro alle ucraine rifugiate da noi». E alla domanda finale sul perché dalla periferia si vede l’Europa meglio che dal centro ri sponde così: «Sono americanista, ho studia to gli scritti di W.E.B. Du Bois (teorico del ri scatto degli afroamericani). Parlava dell’im portanza della voce degli ultimi per vedere meglio la natura del potere e del razzismo. Parafrasando dico: da qui, dall’Est, vediamo quel che succede prima delle altre» .
Oriente magico
Gioielli, monete, mosaici, icone. Al Museo archeologico di Napoli va in scena l’età d’oro di Istanbul. Quella Bisanzio, ponte tra civiltà. E ultimo baluardo dell’impero romano
di Marisa Ranieri PanettaFoto per gentile concessione di: G. Sannino
onte strategico fra Oriente e Occidente, l’antica Anatolia, oggi Turchia, ha visto fiorire e decadere civiltà diverse sul suo territorio, dal regno ittita alla leggendaria Troia. Erano però tutte greche le principali città sulla costa, quando Alessandro Magno le liberò dal gio go persiano. Ed era greca Bisanzio, affac ciata sul Bosforo, dove Costantino “il Gran de” trasferì la sua residenza nel 330.
Da lui prese il nome di Costantinopoli, sebbene, con i suoi sette colli e con un Se nato, alla denominazione ufficiale di Nuova Roma rispondessero i fatti; il latino restava la lingua amministrativa e militare, mentre il Cristiane simo si diffondeva sempre di più, fino a diventare, sotto Te odosio, religione di Stato. Stava cambiando il mondo.
L’impero fu suddiviso in segui to tra Oriente e Occidente, ma la sede del massimo potere rimase Costantinopoli, che continuò ad arricchirsi di monumenti, chiese e palazzi. Lì risiedeva l’impera tore d’Oriente, rimasto solo nel la nuova capitale a reggere lo scettro della romanità dopo che il “barbaro” Odoacre depose l’ul timo regnante occidentale nel 476. Dunque, fu impero romano (e “romei” erano detti gli abitanti) lo Sta to che per tanti secoli ne proseguì l’esi stenza, fino alla conquista turca del 1453. Eppure, a cominciare dal Seicento fu de finito “bizantino” dal più antico nome di Costantinopoli, per la prevalenza della lin gua greca e l’assetto teocratico dell’impero. A questo lungo tratto di storia è dedicata una mostra a Napoli, nel Museo archeologi co nazionale (Mann): “Bizantini. Luoghi, simboli e comunità di un impero millena rio”.
Promossa da Paolo Giulierini, direttore del museo, curata scientificamente dall’ar cheologo Federico Marazzi e organizzata da Villaggio Globale International, la mo stra entra, attraverso quindici sezioni e quasi 500 reperti, in ogni aspetto di quanto si irradiò dal Bosforo in Italia e nel Mediter raneo: amministrazione, esercito, espres sioni artistiche, vita di corte, monetazione, commercio (dal 21 dicembre 2022 al 13 feb
braio 2023, guida breve e catalogo Electa).
Ma perché il racconto è stato allestito proprio a Napoli, luogo più legato ai regni angioino, aragonese, delle due Sicilie? «Ri guarda un aspetto importante e poco cono sciuto della storia di questa città», spiega Marazzi, docente all’Università Suor Orsola Benincasa, partner dell’evento: «Napoli, come ducato all’interno dell’impero, co nobbe per secoli autonomia e prosperità; inoltre, il suo porto ben attrezzato offriva maggiore sicurezza ai vivaci traffici com merciali con il cuore dell’impero e il mondo islamico. La sezione d’apertura della mo stra è riservata proprio alla Campania e a Napoli, vero Stargate verso l’Oriente».
Se “bizantino” e “bizantinismo” sono ri masti termini relativi a norme cavillose, di scorsi tanto retorici quanto difficili da comprendere, non rimangono dubbi sul nome dell’imperatore che fece raggiungere il massimo splendore al regno: Giustinia no (527-565). Promotore del codice che riordinava, adattandole ai tempi nuovi, le leggi romane (Codex Iu ris civilis), ricostruì la famosa chiesa di Santa Sofia (ora mo schea); con i suoi eserciti riu scì a conquistare i territori italici sotto il dominio gotico e gran parte del Mediterra neo, mentre continuò — come i predecessori – a essere arbitro di contese religiose, quale garante dell’ordine costituito. Di più: sentiva la sua figura pervasa da una missione ultraterrena, interprete di una sinergia tra imperatore e divinità. E di questa col laborazione Santa Sofia era l’esempio più fulgido. Talmente maestosa, rilucente d’oro nei mosaici, ricca di colonne e ornamenti di vari colori da lasciare abbagliato chi vi entrava.
La liturgia aveva il suo peso: il complica to cerimoniale tra suoni, canti, gesti, pro fumi intensi rendeva il culto un grande spettacolo. La stessa Costantinopoli si offriva agli occhi dei sudditi e dei visitato ri alla stregua di un palcoscenico, con processioni e sfilate interminabili all’in segna del fasto lungo la via Mesa, larga 25 metri e fiancheggiata da portici. Arri vava fino al Gran Palazzo, sede principa le dei sovrani, adiacente all’Ippodromo, il più importante luogo di raduno
Tesori in mostra a Napoli. Sopra: formella in avorio con Dormitio. Sotto: evangelario miniato, dalla Biblioteca medicea laurenziana di Firenze. Al centro: orecchino con perle. Nella pagina accanto: veduta di Istanbul con la Moschea di Solimano
Sopra: icona di Sant’Anastasia, da Naxos, risalente al tardo XIV secolo. Sotto: miscellanea di testi medici, dalla Biblioteca medicea laurenziana di Firenze. Al centro: anello proveniente da Senise
della città dove l’imperatore appariva dall’alto di una loggia.
Nella rassegna napoletana una statua in marmo (dalla Centrale Montemartini di Roma) rappresenta un giovane magistrato: nella mano destra stringe una specie di faz zoletto che serviva, agitandolo, a dare ini zio alle corse equestri. Era il momento più atteso dalle migliaia di persone stipate sul le gradinate e, anche se la scultura si riferi sce al Circo Massimo, lo stesso rituale do veva svolgersi a Costantinopoli.
All’interno del percorso espositivo, in grandimenti dei reperti più minuti e gigan tografie di personaggi reali fanno da sfondo alle vetrine e potremo vedere Giustiniano, con sua moglie Teodora e alcuni dignitari, come appaiono nei mosaici della basilica di San Vitale a Ravenna. Colpiscono i gioielli che li ornano: per l’imperatrice, una co rona-turbante di pietre preziose, perle à gogo, pendenti che termi nano con diamanti. Ma l’impe ratore non è da meno, sfog giando la ricca corona e la vistosa spilla che trattiene il mantello su una spalla.
Sono molte le donne di po tere che caratterizzarono i secoli bizantini, iniziando da Elena, madre di Costan tino, poi le regnanti: Irene alla fine dell’VIII secolo, unica ad assumere il titolo imperiale al maschile (basileus), che pose fine alla guerra con gli arabi, e Zoe, che salì e scese più volte dal trono tre secoli più tardi; ma la moglie di Giustiniano ri mane la più famosa (da non perdere la biografia “Teodora. Ascesa di un’imperatrice” di Paolo Cesaretti, Bolis Edizio ni) perché è stata la prima a incidere nella storia del suo tempo e per la vita dissoluta condotta prima del matrimo nio, raccontata dallo storico Procopio di Cesarea.
A Napoli si vedranno altri gioielli, indicativi del lusso delle dinastie che si sono avvi cendate, accompagnati da va si invetriati, croci con gem me, le stesse monete auree
Grandi mostre
che ritraggono i sovrani. Due posti a sé spettano ai sigilli e ai testi scritti. In parti colare, va segnalato l’evangelario greco in caratteri d’oro che faceva parte della biblio teca di Lorenzo il Magnifico.
L’erezione di chiese e monasteri è stata considerevole ovunque, anche per l’impul so di donne aristocratiche, e pertanto a prevalere nella mostra sono mosaici, orna menti architettonici, icone, affreschi reli giosi provenienti da 57 musei, in gran parte greci. Ma per illustrare il mondo cristia no-bizantino in alcune postazioni scorre ranno immagini di manufatti e luoghi si gnificativi.
In tutta Italia, da Venezia a Cagliari, dalla Puglia alla Sicilia, passando per Roma, si trovano edifici di culto e fortificazioni. Cu stode di particolari bellezze è la Calabria che per cinque secoli fu un concentrato d’Oriente e di grecità. Sono lì a docu mentarlo i resti del castello di Santo Niceto, la Cattolica di Stilo, chiesa a croce greca su pianta quadrata con le sue cinque cupole intatte; e ben conservati sono anche il bat tistero di Santa Severina, il complesso monastico basilia no di Santa Maria del Patire a Rossano, città che conserva il Co dice purpureo, patrimonio Unesco: 188 fogli miniati di pergamena rossa con i vangeli di Marco e Matteo, risalenti al VI secolo. «La rassegna che sta per iniziare si presenta come specchio di una comunica zione culturale, religiosa, amministrativa durata secoli tra le diverse sponde del Me diterraneo e, grazie a un impero che ha te nuto insieme popoli profondamente diver si fra loro, si offre come occasione per ri flettere in chiave di conciliazione interna zionale tra luoghi, oggi contrapposti, permeati di questa eredità», sottolinea il direttore Giulierini.
Pure Istanbul, l’attuale Nuova Roma, conserva testimonianze e ha inviato un bellissimo video con la ricostruzione vir tuale di Costantinopoli al suo apogeo. Il si lenzio delle immagini è interrotto dal ru more dell’acqua che zampilla in fontane e terme, scende lungo ninfei, scorre negli acquedotti. Sembra una musica leggera, senza tempo.
Foto per gentile concessione di: G. Sannino
Ispirazione politica
L’arte è top secret
Dovremmo parlare più di oblio, e meno della memoria. Abbiamo parlato poco, pochissi mo,diunastrategiadel potere in senso largo che va avanti da molto tempo (forse da sempre?): narrare solo parti della storia, e nascondere le altre. Dobbia mo riflettere sull’oblio, sull’uso dell’o blio da parte del potere. Non è la ri chiesta che viene dal mondo degli sto rici, bensì da un’artista. Un’artista vi suale cilena, Voluspa Jarpa, che da almeno quindici anni conduce il suo processo artistico dentro gli archivi di plomatici e dell’intelligence, soprat tutto quelli statunitensi, e nelle carte dei magistrati latino-americani.
La sua ultima mostra, allestita nello spazio Zac dei Cantieri Culturali della Zisa, a Palermo, dove la Fondazione Merz opera già da oltre un anno, è l’imponente descrizione di quello che non sappiamo. Che non ci viene detto, o meglio, ci viene nascosto, fino a che le autorità deputate non decidono di declassificare, di mostrare un docu mento. Con i segni della censura, spesso: tratti pesanti di pennarello ne ro coprono parole, frasi, nomi. Fino al paradosso di cancellare, in questo modo, intere pagine: gli interi docu menti desecretati.
È una cascata di strisce srotolate quella che accoglie chi visita, all’in terno della mostra “Isolitudine”, l’in stallazione dell’artista cilena intitola ta “False flag”, “Falsi Bersagli”, e cura ta da Beatrice Merz. Le strisce com poste proprio da quelle pagine ricordano, a prima vista e in versione
Documenti da 007. Atti diplomatici. Informazioni riservate che hanno cambiato la storia. L’artista cilena Voluspa Jarpa trasforma
di Paola Caridi
gigantesca, i distruggi-documenti in uso quando la carta era ancora es senziale, per chi doveva gestire un archivio e anche per chi, al contrario, voleva distruggere prove. E in effetti, è un elenco infinito di documenti di plomatici declassificati quelli che Ja rpa ha messo insieme.
La Storia, in effetti, ha fatto irruzio ne nella vita di Jarpa quando l’artista aveva due anni. L’11 settembre 1973, Salvador Allende viene assassinato. Una morte che fa precipitare il Cile nell’abisso della dittatura di Augusto Pinochet, sostenuto dagli Stati Uniti. La Cia, in quegli anni, interviene con tutta la sua potenza per cambiare il corso politico deciso dai cittadini di molti Paesi dell’America Latina. Sono gli anni bui, in cui la scelta è tra una vita sotto la dittatura o, invece, l’esilio.
Affascinante e intenso è il modo in cui prende la Storia e ne fa un campo di indagine artistica. «Mi sembrava interessante vedere il potere, guarda re in faccia il potere, anche in questa azione di declassificare i documenti», dice l’artista: «Ci si può chiedere: ma perché gli Usa declassificano i loro se
in opere il potere della censura
greti? Credo che lo facciano per dirci: questo è il potere, è nelle nostre mani, e dunque, proprio per questo, possia mo manipolare quello che si sa e quel lo che, al contrario, non si sa. È diver so, insomma, leggere un documento di Wikileaks e, dall’altra parte, osser vare un documento che il proprio si stema di potere ha reso accessibile, e che contiene tutti i segni, le impronte di come questo sistema di potere con tinua a pensare alla relazione tra po tere e informazione. È importante ve dere, leggere, sapere ciò che questi documenti dicono, e allo stesso tem po ciò che dicono le stesse cancella zioni. La censura. In quello che è can cellato con un pennarello nero, c’è la dimostrazione del potere». Il segno nero sui documenti desecretati ma comunque censurati rappresenta, in somma, l’uso deliberato dell’oblio. Ciò che non è stato raccontato deve conti nuare a essere coperto, censurato, perché altrimenti cambierebbe la stessa memoria degli eventi storici.
Le ricadute di questa narrazione della storia sono evidenti nel popolo, in chi dovrebbe conoscere la propria
storia e, invece, riesce solo episodica mente a intuire qualcosa. Jarpa cita le riflessioni di Naomi Klein, secondo la quale un popolo che non conosce il suo racconto, la sua narrazione, è un popolo che vive in uno stato di shock. «Non sa quello che gli è successo, ed è per questo che non sa quello che gli stasuccedendo»,spiegal’artista:«Per de il suo racconto, perde la possibilità di comprendersi. Negli ultimi venti anni abbiamo messo molta enfasi sul la memoria, molta meno sull’oblio. Io credo che una parte della incoscienza storica del popolo abbia a che fare con operazioni attraverso le quali si sce glie cosa dimenticare e cosa far di menticare, perché non comprendano quello che hanno vissuto».
L’esempio che fa Jarpa non è in America Latina. Riguarda invece l’Eu ropa. L’Italia. «Quello che mi fa im pressione è quanto poco la gente sap pia dell’Operazione Gladio, e dell’im portanza che ha avuto nel determina re il divenire politico dei Paesi europei tra gli anni Sessanta e Ottanta», sotto linea l’artista: «E mentre in America Latina ci sono stati colpi di stato vio
lenti attraverso i quali i militari hanno preso il potere, in Europa si è utilizza ta una strategia adatta a una società traumatizzata dalla guerra per cui, attraverso piccoli attentati, si riviveva proprio l’orrore e il terrore della guer ra». Una lettura straniante, e allo stes so tempo un’ipotesi su cui ragionare: la strategia della tensione poteva es sere legata alla memoria della guerra, visto che la generazione che rappre sentava la rete connettiva del Paese era quella che aveva vissuto sulla sua pelle il secondo conflitto mondiale?
L’ipotesi è affascinante, e al tempo stesso pone una domanda sulla diffe renza tra un’indagine artistica e lo scavo dei documenti condotto da una storica. Dove ci si può incontra re? «Ci si incontra sul metodo, talvol ta, sul modo in cui si indaga il docu mento. Per me, come artista, sono però importanti due elementi. Non cerco solo informazioni, cerco il sim bolo. Non cerco solo la storia, mi in teressa anche il livello simbolico di quella storia».
C’è dunque anche una dimensione etica, in ballo. Come passare tutto questo a chi vede, in una mostra, la storia occultata e poi solo parzial mente svelata dal potere. «Il segreto ha prodotto in noi una sorta di infan tilizzazione, per la quale vogliamo ascoltare solo storie belle e a lieto fi ne», conclude l’artista: «Quello che, invece, ci dice questa storia è che dobbiamo essere più adulti. Dobbia mo essere capaci di guardare il pote re, altrimenti resteremo sempre citta dini in attesa di empatia».
Protagonisti
Giovani
con la febbre a 41
Tengo ad esprimere, innanzi tutto, il mio grande rispetto per la libertà di parola delle donne e il mio profondo at taccamento al fatto che pos sano essere ascoltate. Sono stata io stessa vittima di abusi durante la mia infanzia e conosco il dolore di non essere presa sul serio. Ciò non mi impedisce, tuttavia, di essere sbalordi ta nel vedere il trattamento riservato a un giovane uomo oggetto di un’indagi ne penale in corso, senza alcun rispet to per le persone che stanno lavorando su questa indagine, né per il principio di presunzione di innocenza. Ad oggi, è chiaro a tutti che non è stato ancora giudicato, e questa scelta editoriale non è altro che un puro linciaggio me diatico». Sono parole scritte e lette a Roma dall'attrice e regista Valeria Bru ni Tedeschi sull'attore Sofiane Benna cer, suo attuale partner e protagonista maschile del suo film “Forever Young“, denunciato per stupri e violenze. È ora nelle sale il film, fortemente applaudi to a Cannes, storia di passioni incan descenti e amore smodato per il tea tro, in cui Bruni Tedeschi sceglie di portare in scena la gioventù ribelle del Théâtre Nanterre-Amandiers degli an
ni Ottanta che ha frequentato in prima persona.
Le sono voluti lunghi mesi di ca sting per trovare gli attori giusti e poi settimane di prove prima delle riprese. Com’è andata?
«Abbiamo fatto insieme un lavoro mol to teatrale, ho provato un grande pia cere a dirigerli, sono tutti talenti formi dabili. Il lavoro del regista è come quel lo di una madre egoista. Occuparsi dei figli, e non unicamente di sé, dà molta gioia: più che una regista generosa mi ritengo una regista fortunata».
La protagonista Nadia Tereskiewicz nel film si chiama Stella, ma è chia ramente il suo alter ego.
«Non l’ho filmata pensando di filmare me, non volevo realizzare un film no stalgico sui miei ricordi. Le ho parlato molto della mia vita e di situazioni che non conosceva, le ho fatto indossare i miei vestiti di allora, ma abbiamo lavo rato soprattutto sul ritmo, perché ab biamo un ritmo interiore molto diver so. Nadia si è messa a mia completa disposizione, ha accettato la possibili tà di perdere il controllo e lasciarsi portare per acquisire il mio respiro, mai per imitarmi. È stato molto bravo anche Sofiane Bennacer, che ho forte
rispetto
Se dovesse dare un consiglio alla Valeria ventenne con l’esperienza di vita e di carriera che ha oggi?
«Le suggerirei di volersi più bene. Ai giovani attori, tutti, direi di non aver paura di fare psicanalisi, che non to glie il talento, ma offre la chance di es sere più forti in un mestiere che fragi lizza molto. E di circondarsi di perso ne care, perché è un mestiere che può rendere molto soli».
I giovani che vediamo nel film amano e vivono pericolosamente insieme.
«Volevo andare in profondità nelle emozioni come si va in profondità a vent’anni, un’epoca in cui volevamo
divorare la vita. Eravamo tutti arsi dalla passione, dal desiderio di fare gli attori e di vivere in modo intenso. Dovevamo alzare la temperatura della nostra vita affinché fosse alta poi sul palcoscenico o da vanti alla cinepresa. Per questo agli attori ripetevo: “Alzate la temperatu ra, dovete avere 41 di febbre, quasi morire di gioia e di dolore”. Senza iste rie, però».
Ha saputo tenere alto l’equilibrio anche nell'affrontare il tema della malattia dell’Hiv che ha conosciuto da vicino con suo fratello Virginio,
«Ho cercato di raccontare cosa fosse quella malattia a giovani che per loro fortuna non la conoscono più così tanto. Ho mostrato loro dei film, ab biamo parlato a lungo di come l’Hiv ci accompagnasse nel quotidiano: i ri sultati dei test e lo spavento facevano parte della nostra vita, così come la morte. Eravamo in balia di eros e tha natos, due forze che nel film si attrag gono continuamente».
Il suo è un film incandescente, fatto di arte, sesso, droga, malattia e ani me capaci di osare, che spicca nel panorama italiano: trova che il no stro cinema si sia “imborghesito”? «Si parla tanto di libertà di parola, a
me sembra ci sia qualcosa di tirannico e terrorizzante nell’aria che influisce sul modo in cui ci muoviamo: c’è una paura costante di non fare o non dire la cosa giusta, di non essere politica mente corretti. Più che imborghesito il cinema, come la società, mi sembra spaventato. Allora avevamo paura an che noi, ma della morte, di certo non della vita. Vivevamo pericolosamente, abitavamo con la morte ma non ci fer mavamo, l’Es freudiano era più pre sente. Oggi governa il super-Io».
Ha affidato a Louis Garrel il ruolo di Patrice Chéreau che aveva un pensiero politico preciso. Ritiene che Forever Young sia anche un film politico?
«Chéreau era un uomo di sinistra che non aveva paura di avere un pensiero scorretto sulla sinistra stessa, era vera mente libero. Quando gli proposero un teatro in piena Parigi disse che pre feriva il teatro di una periferia di sini stra a Nanterre, Les Amandiers appun to. Fu un gesto politico. Per noi studen ti era come un dio dell’Olimpo, è stato il primo regista a valorizzare la diversi tà e lavorare con attori di origini e pro venienze diverse, e a mettere in scena i testi di Koltès. Arte, politica, pensiero intellettuale si mescolavano in lui e an ch’io ho voluto mischiarli dentro il mio film, raccontando come l’incontro tra mondi diversi possa generare un gran de amore».
Teme un governo di destra?
«Mi preoccupa molto, ma lo prendo come una specie di delirio. La colletti vità ha avuto un colpo di follia, speria mo sia solo un momento passeggero. Anche perché è un disastro per l’ecolo gia, che non riguarda solo l’aria pura ma la visione politica del mondo in cui c’è rispetto per ogni essere vivente e, ovviamente, per ogni essere umano, a partire dal più debole. Avere cura dei più deboli è un pensiero di sinistra, però. Tutto questo mi fa pensare a “Tutti dicono I love you” di Woody Al len, in cui il figlio di due democratici che fa discorsi di destra si scopre avere un serio problema al cervello, risolto il quale torna ad essere normale».
Crane sull’altare
Non credo che esista, a memoria d’uomo, un omaggio tributato da uno scrittore a un altro scrittore, che sia, anche lontanamente, simile al lavoro di riesumazione, direi quasi di resurrezione, che Paul Auster ha fatto nei confronti di Stephen Crane. E l’ha fatto con un volume di oltre mille pagi ne, edito in Italia da Einaudi, dal titolo “Ragazzo in fiamme”. Un volume di ol tre mille pagine, si diceva, per raccon tare ventotto anni di vita. Tanto è il tempo trascorso dall’autore de “Il se gno rosso del coraggio” su questa terra. È evidente che il destino di certi artisti è di avere tantissime cose da dire e po chissimo tempo per dirle.
L’omaggio di Auster, sontuoso come la piramide di Cheope o come il Taj Mahal, si concentra proprio sulle tan tissime cose anziché sul pochissimo tempo. Certo può apparire azzardato accostare un’opera letteraria ad un monumento che è anche un sepolcro, ma nel caso del “Ragazzo in fiamme” è assolutamente calzante. Innanzitutto per l’ubicazione dell’edificio: Auster posiziona Crane, senza mezzi termini, nel Sancta Sanctorum della letteratu ra americana. Alla base di questo pos sente lavoro c’è infatti un evidente in tento di sistemazione, e forse di risar cimento. Auster si è chiaramente as sunto il compito di far accomodare questo gigante, mai diventato adulto, sullo scranno che gli spetta nella stan za dei padri americani: Poe, Melville, Withman, Conrad, Faulkner, Hemin gway, Salinger. Ma non solo: esiste an che una precisa volontà di compren dere questo “monumento” in quello che si potrebbe definire un Grand Tour mondiale delle opere capitali della modernità. La lista di Auster a
di Marcello Fois
questo proposito è asciutta e chiaris sima: “Il segno rosso del coraggio”, “Fame”, “Alla ricerca del tempo perdu to”, “Gita al faro”, “Ulisse”, “Mentre morivo”. È evidente che quando si de cide di tracciare un canone della mo dernità ci si assume l’onere delle pro prie scelte, tuttavia questa lista non è affatto gratuita, ma risiede in un pen siero piuttosto coerente come è quello di inserire il defilato Crane, e il rovello adolescenziale del soldato Henry Fle ming, protagonista della sua opera principale, nella lista di coloro che hanno inaugurato la tendenza a co struire storie basate su un’interiorità appassionata. Secondo questa coe rente visione l’edificio Crane è come una costruzione troppo avanti per i suoi tempi, di quelle che solo pochi il luminati possono apprezzare, ma è proprio questa caratteristica a deter minarne l’importanza e, soprattutto, la durata.
Nella letteratura americana, e dun que mondiale, Stephen Crane corri sponderebbe a quello che in architet tura ha rappresentato la “Casa sulla cascata” di Wright, trentanove anni esatti dopo la sua prematura morte. Infatti Paul Auster dedica ogni singola riga di queste straordinarie mille pagi ne a dimostrare, punto per punto, quanto questo autore anarchico, pre coce, sprecone, sotto molti aspetti in
dolente, sia stato fondamentale per individuare in tempi non sospetti, e imporre a rilascio lento, un punto di vista letterario “organico” che a molti, troppi, oggi, appare scontato. Esiste poi il peso romanzesco della vita breve di questo intemerato e perenne adole scente, tanto da far sembrare “Ragaz zo in fiamme” un’opera di finzione do ve, al contrario, è una biografia docu mentatissima, con tanto di contributi fotografici: fogli manoscritti, immagi ni private, disegni, appunti, corrispon denze, testimonianze, eccetera. L’idea cioè che, raccontata a posteriori e da una penna sopraffina, ogni esistenza possa apparire assolutamente straor dinaria. Tuttavia la vita breve di Ste phen Crane straordinaria lo è stata davvero, avventurosa come quella di Jack London, errabonda come quella di Hemingway, scandalosa come quel la di Henry Miller, ma enormemente più concentrata. Non a caso questo ra gazzo, che non fa in tempo a diventare uomo, è definito in fiamme. Ha ten denze monogamiche, Cora Taylor re sterà il suo grande amore, ma consu ma compulsivamente sesso mercena rio. Deve correre, bruciare le tappe, sperimentare i propri talenti e fare il poeta, il narratore, il giornalista, spes so contemporaneamente. Prima che la vampa dell’esistenza lo divori deve subire lo smacco dell’insuccesso e poi
Con un libro di oltre mille pagine Paul Auster rende omaggio allo scrittore americano scomparso a soli 28 anni. Anarchico, precoce, avventuroso, finalmente immenso
quello del successo come Mozart, Ba squiat, Jim Morrison, Alain Fournier.
Deve spostarsi da New York al Mes sico a Cuba in Grecia come inviato di guerra. Deve capire che cosa significhi vivere nella propria carne la frustra zione del fallimento, il morso della fa me, ma anche il soffio dell’entusia smo, il privilegio, o la maledizione, di possedere un talento strepitoso con le parole. E deve fare tutto in fretta, con una velocità che possa raddoppiare quel poco tempo che ha a disposizio ne. Di questa attitudine fulminea, di questo capacità performatica raccon ta Auster nell’esposizione incommen surabile, monografica e universale, che è “Ragazzo in fiamme”.
Stephen Crane è una falena, e come ogni falena ha la passione della fiam
ma, ci gira intorno: scrive per vivere e vive per scrivere. Rompe gli schemi, e spesso sbaglia, perché sa di non avere abbastanza agio per muoversi con de strezza. Scrive con l’efficacia di un ve locista naturalmente costruito per bruciareiltraguardonelpiùbrevetem po possibile, secondi, decimi di secon do: cinque romanzi, Tra cui “Maggie”, “Il mostro”, “Il segno rosso del corag gio”; due volumi di poesie, tra cui “Ca valieri oscuri”; centinaia di articoli giornalistici, interi volumi di reportage bellici in quattro anni. Asciutto, nervo so, non alto, in ogni ritratto che lo im mortali Stephen Crane guarda dritto in camera con una sfacciataggine che non appartiene al suo tempo rappre sentato dalla sussiegosa prossemica della Gilded Age.
Spesso sporco e trascurato nel ve stire si scolla dalla carta moschicida delle convenzioni. Ma l’uomo e l’arti sta non sono la stessa cosa anche se abitano lo stesso corpo. Almeno due enormi scandali investono Crane en tro il compimento dei ventiquattro anni: uno che riguarda un articolo sui sindacati e mette nei guai Whitelaw Reid, proprietario del Tribune, il gior nale che gliel’ha commissionato, tan to che Reid stesso deve rinunciare alla candidatura di vice presidente degli Stati Uniti; l’altro quando, nel settem bre del 1896, si inimica la già da allora potente polizia di New York presen tandosi, come teste a favore, in una sala di tribunale dove si discuteva la causa di una prostituta che aveva de nunciato un agente. E tutto questo vissuto in senso letterale e letterario come un’anticipazione, una premoni zione in terra di quel Paradiso della scrittura che gli spetta e sta precoce mente per raggiungere. Perché, per dirla con Menandro, muor giovane chi agli Dei è caro. E, nonostante il tempo breve, Stephen Crane un po’ caro agli Dei, magari a quelli della scrittura, do veva essere stato se è vero che l’ultimo Natale della sua vita, quello del 1899, sei mesi prima di morire di tubercolo si, lo trascorrerà in compagnia di Jose ph Conrad, quello di “Linea d’ombra”, Herbert Georges Wells, quello de “La macchina del tempo”, Henry James, quello di “Giro di vite”.
Una concentrazione spaventosa che è bello considerare come una specie di ultima luminosissima fiammata prima dell’estinzione fisica. L’intensità senza limiti di uno scrittore che si consuma molto più velocemente dell’universo narrativo che ha generato. Il corpo mortale di un genio immortale.
Casa è libertà
di Valeria VerbaroAlcune storie si tramanda no silenziose in famiglia, scorrono nel sangue, nel colore dell’iride o dei ca pelli. All’improvviso tro vano il modo di tornare in superficie, da un ricordo, da una parola in più sfuggita ai propri nonni o ai genitori. Ci si chiede allora, chi erano queste persone prima di noi? Da quali sogni, quali difficili cambi di direzione sono state guidate. E da quali pensieri.
Chissà se è questo ciò che è succes so ad Alberta Riccardi quando ha ini ziato a scrivere “Café Ida”, il suo primo romanzo (pubblicato da Piemme). Nei ringraziamenti finali ci sono le tracce di un processo di riscoperta di luoghi che nella memoria storica e affettiva l’hanno portata altrove, a una terra cui non sapeva di appartenere.
Dalla Ciociaria alla Scozia e ritorno, “Café Ida” vuole essere una saga fami liare, di quelle che come i cent’anni di solitudine di García Márquez riserva una pagina solo all’albero genealogi co, alle vite che nel corso di tre decen ni si saldano fra loro. I Montefosco da una parte, i Datti di Lanza dall’altra. Servi e padroni. Il destino però rime scola i ruoli e l’amore, spesso, li disin
“Café Ida” di Alberta Riccardi (Piemme, pp. 446, € 19,90).
Sopra: Clydesdale, Scozia, un ragazzino nel 1931
tegra. Al di là della Manica e ancora più a Nord, dove «la lingua stringe le vocali per non disperdere il calore e il sole quando si affaccia pensa di aver sbagliato strada e se ne va», Nevio e Giovanni ricostruiscono le loro esi stenze da zero, più e più volte. Il figlio del fattore e l’erede, che nulla hanno in comune, si ritrovano ancora bambini a fare i conti con il muro di diffidenza che la loro pelle scura e i loro forti ac centi alimentano già a prima vista. Nel dramma di famiglie che si spezzano, in cerca di fortuna o di una nuova li bertà, Riccardi racconta una ferita condivisa da molti italiani. Prova a immaginare come quei due bambini diventano adulti e crea le forze invisi bili che continuano a riportarli sulla medesima strada, mai tanto lontani da perdersi del tutto. La loro amicizia nasce tra gli alberi di Roccasecca, Fro sinone, poco prima che il “secolo bre
ve” li trasformi rapidamente in uomi ni. Nevio salva Giovanni da una spa ventosa scarica di pioggia e fulmini, lasciandogli addosso un odore «di selvatico e fumo di camino» che da quel momento diventa odore di casa. Umiliazioni, traguardi, gioie e lutti si susseguono senza badare gli uni agli altri, perché la vita, semplicemente, accade. Più di quanto ne siano consa pevoli, però, Nevio e Giovanni si cer cano in ognuna delle loro esperienze. Desiderano dividerne il peso, anche quando questo diventa imperdonabi le. Si riconoscono a prima vista, in nuovi corpi, in nuove voci, come fos sero uno il riflesso dell’altro. Sullo sfondo rimangono immagini vive di una Scozia che Alberta Riccardi rico struisce come si farebbe con una vec chia parente, cercando di scorgerne il carattere dai pochi indizi rimasti nella memoria familiare. Con lo stesso spi rito di Giovanni, Riccardi crea il suo «presepe» di personaggi. Li muove di continuo su una scena che è sempre fissa, ma si trasforma velocemente. E scopre se «spostandone uno si scom bussola tutto. Se cambiando una rego la si infrangono tutte le altre».
Un romanzo, tra la Ciociaria e la Scozia, incrocia i destini di due amici diversissimi. In una storia di famiglie spezzate, in cerca di fortuna, comune a molti italiani
A CURA DI SABINA MINARDI
LA FELICITÀ NON È OBBLIGATORIA
Una figlia petite, che suscita disagio. E la lezione di chi è allenato alla rinuncia. È il romanzo di Carmen Verde
Può la felicità consistere nell’avere qualche centimetro in più? O è sempre e solo l’amore - cercato, spiato, inse guito, bramato - il fulcro intorno al quale vortichiamo, come falene alla fiamma? Per Anna, che piccola è davvero, col suo corpo alto un metro e venti centimetri soltanto, il di lemma è più che lecito (“Tremenda fortuna essere alti. Ave re la fisica impressione di tutto il proprio essere. Noi piccoli dobbiamo sempre integrare, col pensiero, ciò che di concre to manca al nostro corpo”). Tanto più se hai una madre bella, elegante, sfuggente, che con i suoi non detti, con un’aria furti va, nel tentativo di proteggerti, involontariamente accentua la tua diversità. È arrivata una voce nuova, forte, cristallina nella narrativa italiana, di quelle esercitate a sottrarre anziché a ridondare. A puntare dritta sulle immagini – poche, squadernate, come le fotografie che la storia passa in rassegna – per raccontare una, due, tre vite, una famiglia intera.
Carmen Verde ha scritto un romanzo che mette al centro il rapporto tra una madre e una figlia: il loro dialogo senza pa role, le carezze negate dell’una, l’amore mendicato dell’altra. “La mia missione era meritare finalmente la sua attenzio ne”, dice la bambina: “Mamma non mi guardava mai, ma la sua indifferenza non faceva che accrescere il mio amore già
Il racconto di una città diversa da tutte le altre. Un luogo che non è solo geografico ma l’espressione di un preciso perimetro dello spirito. Culla di democrazia, certo, di filosofia, di teatro. Ma soprattutto di ideali: luogo simbolo per eccellenza di bellezza, di miti eterni. Da un docente di Letteratura greca che a lungo ha scandagliato il dramma e la mitologia delle origini, l’avventura di Atene attraverso quei luoghi più simbolici dove la storia reclama una sosta.
“ATENE. IL RACCONTO DI UNA CITTÀ”
Giorgio Ieranò
Einaudi, pp. 228, € 21
smisurato”. Nel quadro familiare c’è un marito solo e smarrito, che in vecchia di colpo. E una nonna pazza, Adelina, con le sue gonne di taf fetà oro e Dio e i santi ogni giorno convocati per assistere alla sua disperazione. E c’è una domestica inquietante e dispotica, che esercita la sua tirannia contro la padrona di casa, quella madre sempre sul punto di scivolare, un bicchie re di cognac per stordirsi, una poltrona su cui sprofondare. “La vita non è meno della letteratura”, nota con acutezza la protagonista: “Bisognerebbe studiare a scuola l’infelicità delle nostre madri”. Ed è l’infelicità che tiene insieme questa famiglia, la consapevolezza che la vita non è uno scherzo e che la gioia non è una promessa. Senza drammi, però: “Non è indispensabile essere felici”. E un corpo così piccolo può insegnare ad accontentarti di quel poco che hai. Quel poco, che è tutto. E che basta.
“UNA MINIMA INFELICITÀ”
Carmen Verde
Neri Pozza editore, pp. 156, € 17
La storia della Marvel attraverso la vicenda biografica di uno dei più leggendari creativi: amato, controverso, scandita da quei supereroi che sono parte dell’immaginario globale: da SpiderMan agli Avengers, dagli X-Men a Hulk e Iron Man. Scavando in un’esistenza piena di ombre, intuizioni imprenditoriali, dispute con gli autori, un’indagine nella vita di un uomo che è stato quintessenza della vita americana. Un sogno dove più che il talento ha contato l’ambizione.
“STAN LEE”
Abraham Riesman (trad. Enrico Zigoni) Rizzoli Lizard, pp. 496, € 25
“Il posto della guerra e il costo della libertà” è il titolo completo di questo saggio che enuncia subito la sostanziale correlazione tra conflitti e pace: è solo nella libertà che può esistere la pace. Naturale diventa perciò domandarsi il prezzo che siamo disposti a pagare per garantire l’armonia tra i popoli. L’invasione russa dell’Ucraina ce lo ricorda, costringendoci a ripensare l’idea della guerra e il posto che occupa nella cultura politica democratica.
“IL POSTO DELLA
GUERRA”
Vittorio Emanuele Parsi Bompiani, pp. 211, € 17
A chi sussurrano le stelle Così l’astrofisica Díaz-Merced traduce in suoni l’universo
perso la vista anni fa. Ma ha sviluppato un metodo per avere una percezione rigorosa dei dati cosmici, pur senza usare gli occhi. Diventando leader mondiale della “sonificazione”. E realizzando un sogno
Sul maxischermo alle sue spalle compare la straordinaria imma gine di una delle galassie inter cettate dal telescopio spaziale Hubble. Wanda Díaz-Merced muove un piccolo strumento sul monitor del suo notebook, dove è riprodotta la stes sa immagine, e comincia a descriverla al pubblico del Festival della Scien za di Genova, nel salone del Maggior Consiglio di Palazzo Ducale, con una precisione minuziosa: le sue forme, i suoi colori, le sfumature più delicate, il nucleo bianco e le sue eliche. In sala si sente un brusio di stupore: il fatto è che Wanda ha perso la vista molti anni fa e, ciononostante, ora può scoprire i segreti delle stelle grazie al sistema che ha creato per tradurre in suoni le im magini, i segnali, i raggi, le onde che ar rivano dall’universo. Per questo Wanda Díaz-Merced è diventata l’astrofisica le ader mondiale della “sonificazione” dei dati astronomici e ha consentito a stu denti non vedenti o ipovedenti di tutto il mondo di realizzare un sogno che sembrava destinato a restare tale: avere una percezione scientifica del cosmo anche senza vederlo. Non solo. Ascol tare la voce delle stelle, dei pianeti, del le galassie si è rivelato uno strumento utilissimo anche per i ricercatori che, invece, lo spazio lo vedono molto bene.
Wanda oggi dice di non ricordare più quando fu l’ultima volta che riu scì ad ammirare la bellezza di un cielo
stellato. Però ricorda quanto sia stata dura la strada per «uscire a riveder le stelle», per dirla con Dante alla fine dell’Inferno.
La letteratura quasi romantica che racconta sul Web il percorso dell’astro fisica portoricana fissa un momento preciso in cui ebbe inizio la sua avven tura umana e scientifica. Risale a quando, da bambina, si trova una sera a pescare su una spiaggia della sua isola con i genitori e rimane colpita da una scia luminosa che attraversa il cielo stellato. Il padre le spiega che è un meteorite, ma in realtà è la scintilla che accende in lei la passione per la scienza. Un amore che la porterà a iscriversi alla facoltà di Fisica dell’Uni versità di Porto Rico, a Río Piedras. Per
assurdo è questo il momento in cui il suo sogno rischia d’infrangersi, a cau sa di una retinopatia genetica degene rativa che a vent’anni la priverà della vista. Lei non si arrende alla malattia, è tenace e si laurea nonostante tutto. Ed è proprio negli anni degli studi uni versitari che un amico le mostra il fun zionamento di un ricevitore audio col legato a un radiotelescopio: è così che lei avverte le potenzialità del suono per studiare l’universo.
«Ma il mio lavoro – spiega Wanda Díaz-Merced – non è frutto di un’intu izione e nemmeno d’immaginazione. Ho fatto esperimenti, ho ottenuto ri sultati e sono andata avanti facendo analisi dei dati, progettando un proto tipo per ascoltare i dati che arrivano dallo spazio, e ho testato il sistema durante tutto il mio dottorato». Con una sensazione di fondo, poi smen tita dai fatti: «Mi aspettavo che non funzionasse, che il suono fosse inutile per l’esplorazione dei dati. Ma dopo aver dimostrato che è utile, eccome, ho pensato di progettare metodi che permettessero alle persone cieche o ipovedenti di fare ricerca».
Un percorso tracciato a partire dal 2005, quando Wanda partecipa a uno stage della Nasa per persone con di sturbi della vista. Gli studi della scien ziata portoricana proseguono poi con un dottorato in Computer Sciences all’Università di Glasgow e quindi
Rappresentazione artistica di un buco nero. Nella pagina a sinistra, Wanda Díaz-Merced nel 2016
all’Harvard Smithsonian Center per l’Astrofisica. Nel 2016 il presidente Ba rack Obama la invita alla Casa Bianca, alla conferenza “Frontiers”, e lei pre para un intervento il cui titolo è la sin tesi della sua mission di ricercatrice: “Rendere l’esplorazione della scienza accessibile a tutti”. Oggi lei ribadisce così il principio: «Viviamo in tempi di inclusione, equità e parità. Scoprire che non era complicato per le perso ne con disabilità sensoriali partecipa re a tutte le attività di ricerca che sono naturali in campo astronomico mi ha fatto inizialmente sentire molto delu sa. Se non era complicato, perché non era stato fatto prima?».
Nell’ultimo anno Wanda Díaz-Merc ed ha continuato i suoi studi a Cascina,
in provincia di Pisa, presso Ego: cioè il consorzio italo-francese costituito nel 2000 dal Centre national de la Re cherche scientifique e dall’Istituto na zionale di Fisica nucleare con lo scopo di realizzare e poi garantire il funzio namento e il miglioramento del più grande rivelatore di onde gravitazio nali d’Europa. Si chiama Virgo — dal nome di un ammasso di 1.500 galassie a 50 milioni di anni luce dalla Terra — ed è un gigantesco interferometro laser costituito da due bracci lunghi tre chilometri che si estendono nella campagna tra Pisa e Cascina. Le on de gravitazionali, teorizzate da Albert Einstein nel 1915, sono ondulazioni della trama spazio-tempo che si pro pagano alla velocità della luce e si ve
rificano quando grandi masse vengono accelerate o deformate: accade, per esempio, quando esplode una super nova o in caso di interazioni tra buchi neri o stelle di neutroni. Ed è qui che il metodo ideato da Wanda Díaz-Merced ha un ruolo decisivo, perché le onde gravitazionali sono molto diverse dal la luce, principale strumento utilizza to finora per intercettare i messaggi dell’universo. La prima rivelazione diretta delle onde gravitazionali risale solo al settembre 2015, un secolo dopo la teoria di Einstein. Il motivo di tanta difficoltà sta nella natura stessa delle onde gravitazionali, che attraversano lo spazio-tempo deformandolo e pro ducendo movimenti impercettibili. Per effetto dei quali anche i corpi
materiali vengono deformati e le distanze si allungano e si accorciano alternativamente. Queste variazioni sono difficili anche solo da immagina re: se un’onda attraversa Virgo, si stima che la lunghezza dei suoi bracci di tre chilometri vari di un miliardesimo di miliardesimo di metro. Un “quasi nien te”, insomma, che, a dispetto delle sue dimensioni infinitesimali, racconta un portentoso evento astrofisico avvenu to a migliaia di anni-luce dalla Terra.
Durante i suoi studi a Cascina, Wan da Díaz-Merced ha raggiunto altri im portanti risultati grazie ai quali, per esempio, è stato «progettato e pubbli cato sulla pagina web di Ego un trai ning per usare il suono». Sonificazione, ma non solo: anche il tatto ora si può utilizzare per “vedere” l’universo. Spie
ga la scienziata: «Ho creato una versio ne della sequenza principale delle stel le in forma audio-tattile e realizzato il concept di un rilevatore di luce basato sul tatto in tempo reale».
Il primo tentativo risale all’eclissi solare del 2017. Ricorda Wanda: «As sistevo un mio conoscente mentre la vorava a un rilevatore di luce collegato al movimento. In pratica, con un fascio di luce puntato su di me, impiegando strumenti a ultrasuoni e un Raspberry Pi (cioè una scheda madre per la pro grammazione di hardware molto usata in robotica, ndr), il movimento del mio corpo generava un segnale acustico. Questo semplice concetto creato da Steve Marks mi ha fatto pensare che avremmo potuto usare un sensore più piccolo, più semplice, più economico e
più potente per far sentire dagli Usa ai miei studenti in Sudafrica l’eclissi sola re del 2017. Ho elaborato un concept e ne ho parlato con diversi scienziati che, però, si sono dimostrati scettici. Ne ho discusso poi con Allyson Bieryla, ma nager del centro di astrofisica di Har vard, la quale, invece, in meno di tre mesi ha prodotto un rilevatore per sen tire l’intensità della luce solare durante l’eclissi. Lo conservo ancora oggi come un tesoro! Quel giorno i miei studenti in Sudafrica hanno potuto ascoltare l’eclissi in tempo reale. La loro felicità, lo stupore in quell’aula mi rimarranno sempre impressi...».
Ma i metodi di Wanda non solo hanno agevolato gli allievi non vedenti a studiare le stelle. Hanno anche rivoluzionato la ricerca astro nomica. Spiega: «In realtà non so se sia davvero così. È stato difficile per l’astronomia prendere sul serio la so nificazione. Mi viene sempre chiesto di fare divulgazione e non ricerca. La divulgazione è importante, certo, ma è necessario lavorare ancora sulla sonifi cazione come strumento di analisi dei dati. Ora invece viene spesso conside rata un intrattenimento e pertanto è difficile che sia rispettata come meto do di ricerca. A volte succedono cose paradossali: ad esempio che mi siano concessi solo sei mesi per scrivere una relazione in cui documentare come la sonificazione abbia raggiunto lo stesso livello di sviluppo delle tecniche visive. Le quali, però, hanno richiesto ben più di sei mesi di sviluppo per arrivare allo stadio attuale».
Suoni, percezioni tattili...magari un giorno potremo sentire anche gli odo ri e i sapori del cosmo, ammesso che abbia un senso a fini scientifici. Wanda Díaz-Merced non lo esclude: «Chis sà se accadrà, ma so per certo che gli esseri umani si adattano e innovano costantemente. Chi avrebbe detto 20 anni fa che oggi avrei usato la mia vo ce e il mio udito per inviare un’e-mail o che le persone avrebbero scritto su un telefono con il pollice?».
Fenomeni sociali
Viaggio nella “ballroom” italiana dove si posa, si balla e si sfila per esprimere la propria identità
Negli anni ’70 la comunità queer di New York inizia a incontrarsi in sale dove ci si sfida a colpi di travestimenti. Per sovvertire le categorie di genere. Una scena che s’è diffusa oltre i confini Usa. Grazie alla House of Ninja
Stivali di vernice bianca e una grande valigia blu seguono la fila che entra nel District 272. Nello storico locale milane se in via Padova, la gente è intenta a prepararsi per esprimere al meglio il tema che caratterizza la serata: c’è chi trasforma il proprio corpo in una tela pop art e chi dà vita ai famosi mura les di Banksy per mostrare il lato più scandaloso e controverso del mondo dell’arte posando, sfilando o ballan do. Le luci colorate illuminano la pas serella quando i partecipanti la per corrono. «La categoria è…», la frase che ogni volta porta dentro un mondo nuovo, pieno di vita e libertà.
«Quando entri in una “ball” tutte le strutture su cui la nostra società si fonda si spaccano. Resta uno spazio sicuro in cui poter esprimere se stessi e accettarsi, anche quando il resto del mondo non riesce a farlo». Una sensa zione che Barbara Pedrazzi, in arte La B. Fujiko, prova ogni volta che si esibi sce e che l’ha spinta a portare in Italia la Ballroom scene, sottocultura nata a New York negli anni ’70.
All’epoca delle prime lotte e riven dicazioni dei diritti Lgbtq+, la comu nità queer afroamericana e latinoa mericana si incontrava in sale segre te. Spazi clandestini in cui persone emarginate per l’identità e l’orienta mento sessuale, o la provenienza, si sfidavano in categorie che sovvertiva no l’ideale di genere e classe sociale.
Su queste passerelle ogni gesto, truc co o abito era parte di un complesso processo di identità e liberazione. «In quelle sale da ballo urlavano: “Io ci sono, esisto”», spiega La B. Fujiko, delineando una necessità ancora og gi sentita dalla comunità Lgbtq+ e non solo.
Incornicia il volto attraverso il mo vimento frenetico e angolare delle sue mani, mentre percorre la passe rella. Intorno a lei, a seguire le sue mosse, gli applausi a tempo. Ci sono più di 700 persone, un numero che conferma come la “Scandalous Ball” organizzata dalla performer mode nese sia ormai diventata l’evento più atteso e importante della scena Bal lroom italiana. Dal pubblico si leva subito un coro: «Ninja!», scandisco no ogni lettera mentre seguono i pas si della madre dell’iconica House of Ninja in Italia.
Agli inizi della scena Ballroom newyorchese una “madre” o un “pa dre” garantivano protezione, e spesso un tetto, a ragazzi rinnegati dalla pro pria famiglia e costretti a sopravvive re per strada prostituendosi o spac ciando droga. «La House oggi è uno spazio di crescita in cui esprimersi e confrontarsi», spiega La B. circondata dai “kids” della sua casa, di cui è pun to di riferimento dal 2012. Indossano i colori blu e verde, usati per rendere riconoscibili i membri di una casa in competizioni grandi come questa, e
seguono, ballando o saltando, il pub blico che esulta per loro.
L’House of Ninja, fondata nel 1982 da Willi Ninja, è tra le più famose per ché è stata la prima a portare la Bal lroom scene all’estero in un periodo in cui elementi iniziavano a diffonder si oltre gli Stati Uniti. In Italia, per esempio, l’idea di ball è stata per anni legata soprattutto al voguing, uno sti le di danza che imita i gesti angolari e fluidi delle modelle sulle riviste. È a New York, nel 2008, che La B. Fujiko comprende cosa c’è dietro a questa parola, grazie all’incontro con mem bri storici della House of Ninja come Archie Burnett, Benny e Javier Ninja.
All’inizio la scena italiana resta in castrata nel voguing e, di conseguen za, legata alle scuole di danza. Negli anni, però, la scena inizia a prendere forma integrando regole e valori della sottocultura. Nel 2014 La B. Fujiko e Dolores Ninja organizzano la prima vera ball italiana: “The Italian Spring Ball”, ispirata alla rinascita. «Nello stesso anno ho fondato BBallroom, organizzazione che si occupa delle ball in Italia e di eventi legati alla sce na. All’inizio eravamo in pochi a par tecipare». Alla “Scandalous” di quest’anno, invece, la gente fa a gara per cercare il posto migliore da cui ve dere le facce dei giudici mentre esa minano la performance.
Negli ultimi due anni è aumentata molto la curiosità verso le ball in
Il premio del vincitore della categoria Lip Sync, in cui i partecipanti scelgono e interpretano una canzone alla manifestazione di Milano
Italia, grazie anche all’influenza di serie tv come “Pose”. Quando è uscita su Netflix, nel 2019, la “Scandalous Ball” ha raggiunto numeri incredibili e La B. Fujiko Ninja è stata proclama ta “pioneer” e “legend”: «Titoli che ri conoscono il lavoro che ho fatto per la scena italiana e la responsabilità di portare avanti i valori da cui è nata».
La scena Ballroom in Italia è molto legata alla sua storia. «All’inizio ab biamo cercato informazioni, oggi stiamo cercando di capire chi sia mo», spiega La B. D’altronde anche per Jack Mizrahi, icona della scena newyorchese, la ball è una celebra zione del cambiamento. «La scena italiana sta crescendo molto in espressione artistica e fiducia in sé stessa», commenta a fine serata. Il mondo, e le ball, sono in continua
evoluzione e cercano spazi nuovi in cui tutti possano riconoscersi, come quello per Gender Non-Conforming da cui in molti partecipano alla “Scandalous” di quest’anno.
Da quando tra le categorie La B. Fujiko ha aggiunto “Runway with a twist”, Sofia Chellini non deve più scegliere chi essere. In uno smoking nero che ricorda la donna delle puli zie del murales “Spazzalo sotto il tap peto” di Banksy, tema della catego ria, Nemesi Ninja sfila con la testa dritta in una camminata mascolina. Ma al twist del commentatore l’e spressione del volto cambia e i movi menti si fanno più morbidi e femmi nili. «La scena Ballroom nasce per butch queen, uomini gay, e femme queen, transgender. Le donne all’ini zio erano molto poche e le categorie
pensate per loro rispecchiavano l’i deale di bellezza e femminilità impo sto dalla società», racconta la 25enne toscana che per anni ha cercato di abbracciare questa idea.
Ma quando ha deciso di lanciarsi in categorie storicamente poco par tecipate dalle donne ha iniziato a comprendere meglio sé stessa. «Le ball mi hanno aiutata a rompere la mia insicurezza», spiega Nemesi Ninja. Prima di far vedere co sa sai fare, devi avere qualcosa da di re e sapere chi sei, le ripeteva Benny Ninja agli inizi del suo percorso. Oggi basta incrociare il suo sguardo sulla passerella per capire che sa bene chi vuole essere e che non ha paura di raccontarlo.
Chellini, in quanto parte del diret tivo di Arcigay Toscana, cerca di lega re la scena Ballroom della sua regione all’attivismo Lgbtq+ per aiutare gli altri a sprigionare la propria luce. «Le ball possono aiutare le persone con disforia di genere a trovare punti di riferimento diversi in cui rispecchiar si», racconta prima di tornare a fare il tifo per quelli che per lei sono amici, famiglia e compagni di squadra. Ne mesi Ninja, da brava godmother della House, segue i passi di tutti i ninja sulla passerella.
«La prossima categoria è Vogue Fem», urla il commentatore. Danilo D’Aprile, o meglio Yunikon Ninja, cammina a tempo di musica con le gambe leggermente piegate e facendo movimenti vorticosi con le mani. Pas si costruiti negli anni sul pavimento
liscio della Galleria Umberto I di Na poli, che ogni fine settimana diventa va il suo studio di danza.
«Nella mia città c’è un legame mol to forte tra Ballroom scene e la stra da», racconta il 23enne che viveva in un piccolo monolocale con sua madre quando ha incontrato il voguing at traverso i video di due coreografe giapponesi, Aya Sato e Bambi, e poi di Lasseindra Ninja, madre europea del la House che porterà Danilo nella fa miglia. «Sono un ragazzo interses suale e ho avuto difficoltà a capire come funzionava il mio corpo, come approcciarlo a una sessualità pretta mente binaria». Dall’energia che spri gionasulpalcoèderivatoilsopranno me “dinamite”: piccolo, ma pronto a esplodere sulla passerella.
«Partecipare a una ball ti lascia ad
dosso una sensazione di grandiosità, ma quando esci da qui la gente conti nua a insultarti e aggredirti. Questo dimostra come ci sia ancora tanto da fare in materia di diritti per la nostra comunità». Forse, secondo Yunikon Ninja, portar fuori l’essenza della ball potrebbe aiutare gli altri a far propri valori fondamentali per la nostra so cietà. «Nelle ball c’è una libertà di espressione, accettazione e condivi sione che fuori non c’è. E spero che i valori che condividiamo in questo spazio possano in futuro far parte della nostra quotidianità»: il messag gio di La B. Fujiko Ninja vale per tutti, perché ogni ball, attraverso la sua sto ria, si allarga fino a diventare uno spa zio in cui celebrare la persona in qua lunque suo aspetto e forma.
TECNOLOGIA E MODA
Nefele, come la ninfa plasma ta da Zeus da una nuvola, ha i capelli corti dalla tona lità cangiante. Mostra un approccio anticonformista e gender fluid. Il suo corpo è punteggiato da len tiggini, il suo motto «l’imperfezione è bellezza». Vive su Instagram, dove pub blica immagini sbarazzine e intriganti: lei mentre cucina, fa windsurf, scherza col cagnolino, è in vacanza nel deserto, si gode un tramonto in riva al mare. Si definisce, la definiscono la «prima in fluencer virtuale imperfetta» made in Italy: lontana al quadrato, quindi, dagli stereotipi e dalle convenzioni di cate goria. Già, perché Nefele, nonostante le sembianze e le movenze, le espressioni
e i comportamenti, non avrebbe nulla a che fare con l’evoluzione darwiniana della nostra specie. O almeno per ora. È un prodotto della computer grafica: l’hanno concepita tre ragazzi torinesi, Filippo Boschero, Laura Elicona e Luca Facchinetti. «Prova emozioni e sogna di creare un universo più inclusivo, facendo leva sul lato umano della tec nologia - ci spiegano -. Dove ci si senta liberi di essere ciò che si vuole, senza paure e pregiudizi». E senza l’ossessio ne del bellissimo a tutti i costi, naturale o innaturale che sia. «Il suo pubblico? Per lo più giovani donne, tra i 18 e i 35 anni». Sono chiamati influencer vir tuali e in Asia polarizzano l’attenzione già da qualche anno. Il loro debutto in
Giappone nella sottocultura otaku, tra anime e manga. La capostipite assolu ta era stata Hatsune Miku, nel remoto 2007, punta di diamante dell’era del vocaloid (un sintetizzatore vocale). Ne ha macinata poi di strada quel software beta. L’esplosione di massa è avvenuta nel triennio 2018-2021: ormai tra Sol Levante, Cina e Corea del Sud sono star strapagate, recitano in film e collezio nano pienoni in cyber-concerti fanta smagorici. In seguito è toccato all’Ame rica e adesso è la volta dello sbarco in Europa e nella penisola. Sono avatar, all’apparenza, autosufficienti, porte girevoli tra il vecchio mondo fisico e il Metaverso che incombe. Frutto dell’in telligenza artificiale, luccicano
sempre più numerosi su Instagram e Twitch, TikTok, Facebook e Twitter. Post e streaming, interazioni con i fol lowers: tutti protocolli che eseguono come, e meglio, dei loro omologhi in carne e ossa. E dire che sarebbero solo dei modelli in 2 o 3D, animazioni dal design ultra-antropomorfo pilotate da fotocamere e sensori di movimento. Yuniiho è una V-Tuber (virtual youtu ber) tutta italiana. Sfoggia capelli rosa e due enormi occhi verdi da cartone anni Ottanta. Con una foglia di basili co sulla cima del cappello che manda in visibilio la sua rigogliosa community su Twitch, decine di migliaia di persone con sangue e muscoli. L’hanno ideata i tre misteriosi fondatori di VCorp. Loro stessi si fanno rappresentare da avatar perché «in un pianeta sempre più con nesso e con l’aumentare dello scambio di informazioni questo permette di separare vita privata e pubblica, senza sacrificare l’identità - raccontano a L’E spresso -. Ci rivolgiamo principalmen te a una clientela giovane, lavoriamo
parecchio con l’estero». Alle spalle di Zaira, aria eterea e pop, un occhio ver de e uno blu, arrivata in primavera e già con quasi 80 mila followers su Insta gram, opera un team di professionisti tricolori del settore, tra cui un autore di serie tv. A lanciarla nei nuovi mondi è stata la compagnia Buzzoole. «Rap presenterà la generazione Z e parlerà più lingue. Sarà la Virgilio del Metaver so» assicurano. A meno di improvvise riprogrammazioni, Eli e Sofi sono due gemelle virtuali venticinquenni nate in Sicilia durante il primo lockdown, con un capitale di 47 mila seguaci Insta gram. Capigliatura rossa «perché rare», dalla loro biografia fittizia scopriamo che amano la natura, il make-up e ov viamente i romanzi fantasy. Combatto no il razzismo, il bullismo e le discrimi nazioni in genere: alla base c’è sempre uno storytelling sensibile ai temi im prescindibili del presente. E preferi scono, chissà perché, i viaggi astratti e «immersivi, senza mezzi di trasporto inquinanti». Eccole coltivare in una
delle loro stories un ricordo elegiaco della terra dei loro nonni, con selfie panoramico ma di Gucci vestite e con tanto di hashtag della maison. Trascen dono il tempo e lo spazio, sono più eco nomiche di una Chiara Ferragni e non si sono ancora ribellate ai loro demiur ghi mortali: schiere di ingegneri, filosofi e sceneggiatori freelance. Anche Daisy è una connazionale di nascita, ma è stata realizzata dal gigante dell’e-com merce Yoox ed è ricalcata sulle fattez ze dell’attrice canadese Hannah Gross. Pure lei non disdegna affatto gli abiti griffati, lo shopping free, anzi, ben re tribuito dai grandi brand. L’alta moda e le multinazionali dell’abbigliamento, della bellezza, del lifestyle, dell’intratte nimento, del turismo, dei videogiochi, del food e dell’high-tech ricorrono in fatti in maniera esponenziale ai servigi degli influencer virtuali. Sarà che come ambasciatori commerciali rasentano, in termini tecnici e cinici, la perfezio ne: instancabili e malleabili, veramente interattivi e dotati, volendo, del dono
Yuniiho è una virtual youtuber tutta italiana. Eli e Sofi sono due gemelle virtuali venticinquenni nate in
dell’ubiquità. Quando tutto era fermo per pandemia loro potevano muoversi dove volevano, alla velocità della luce. E non hanno bisogno di maquillage o filtri ingegnosi: non invecchiano mai. Valentino ha scelto, per esempio, la bla sonata orientale Kizuna Ai; Louis Vuit ton si è affidata all’elegante modella di colore “all pixel” Shudu Gram. Un’altra acclamata top model elettronica è Lil Miquela, un’eterna diciannovenne ca liforniana con la frangetta irresistibile alla Amélie: l’hanno cooptata, tra gli altri, Calvin Klein, Chanel e Samsung. Adidas si è rivolta a Lu Do Magalu, una webstar brasiliana precipitata dal futuro. Vanta addirittura 6 milioni di followers su Instagram: sono rinomati i video in cui recensisce prodotti e app. Vegana e bandiera dell’empowerment femminile, la tecno-musa Noonoou ri ha sfilato, da par suo, per Versace e Dior ed è amica di Kim Kardashian. Tra le senatrici fashion del gruppo spicca Imma da Tokyo, una sgargiante e ipe rattiva mannequin con caschetto pink
lockdown shocking e connotati incredibilmente realistici. È stata testimonial, per dirne qualcuno, di Ikea e Porsche e appog gia le campagne di sensibilizzazione sull’ambiente e sui diritti della comuni tà LGBTQ+. I giovanissimi la adorano. Uno dei pochi protagonisti maschili è Knox Forst, un ventenne robotico from Atlanta, Georgia. È apparso sulle coper tine di Forbes e Fortune e durante l’e mergenza Covid-19 ha dato una mano nientemeno che all’Oms, l’organizza zione mondiale della sanità.
Il10novembresiètenutaaMilanola prima edizione dell’Influence Day, un evento organizzato da Flu, tra le principali realtà in materia. Tra gli ospiti Cameron-James Wilson, ceo di The diigitals, la prima agenzia plane taria di virtual top model. Nel Belpaese «il comparto dell’influencer marketing vale oggi quasi 300 milioni di euro», di ce Giancarlo Sampietro, fondatore di Flu. E prendono quota “i virtuali”: po chi margini di rischio con questi nostri
indistinguibili simulacri, nessuna gaffe o caduta di stile dietro l’angolo. Anzi, la loro capacità di coinvolgimento è tre volte superiore alla norma come di mostrano studi recenti. Nutriamo una fiducia istintiva verso queste interfacce sempre più evolute e senzienti, o pseu do-tali. Doppi di noi, sfrondati però di tutti quei difetti intrinseci alle nostre virtù. Pesano tuttavia sullo sfondo pro blemi di ordine etico e giuridico: chi risponde dei contenuti che condivido no sui social? E qual è il confine tra li bertà d’espressione e sponsorizzazioni più o meno manifeste? La legislazione e la consapevolezza, al riguardo, sono ancora agli albori. Sta di fatto che se e quando cominceremo ad abitare a mi liardi l’inquietante e sfavillante Meta verso, avatar e ologrammi definitivi di noi stessi, avremo la medesima codifica grafica degli odierni influencer virtuali. E il cielo in una stanza, la vita da remo to. Più nativi digitali di così. Restiamo umani, virtualmente umani.
STORIE DI EROISMO IN FUORIGIOCO
Nella striscia di Rai Tre persone belle che pensano al bene del Paese. Anche se non fanno gol
Sventurata è la Terra che ha bi sogno di eroi, diceva qualcuno. Ma sono passati decenni e il si gnor Brecht non se ne avrebbe a male se ritrovasse la sua celebre frase ag giornata alle barbare modalità del suolo italico. Che potrebbe suonare più o meno con un: «Sventurato è il
Paese che prende gli eroi, li mastica e li butta via, senza imparare gran ché». Certo un po’ brutale, ma sicu ramente onesta. Perché altrimenti l’effetto stupore che provoca la stri scia quotidiana di Rai Tre dedicata a quelle persone che guardano al di là del loro naso per il bene comune non avrebbe ragion d’essere. Si intitola “Nuovi Eroi” l’intermezzo televisivo ormai alla sua quarta stagione, in cui rimbombano voci fortissime, a tratti assordanti persino nel silenzio. Storie quotidiane della cosiddetta Italia migliore, inedite foto di un Pa ese civile, in cui cittadine e cittadini si lasciano andare a gesti che diven tano enormi. Non ci sono le grida di entusiasmo di Adani a sottolineare le azioni belle della vita, ma la voce sab biosa di Veronica Pivetti che diventa
filo rosso, mentre scorrono i racconti di chi posa mattoni di esempi da se guire. Chi non si è arreso alla mafia, chi ha cercato di costruire un futuro diverso per sé e i suoi compagni, chi ha sacrificato forza, privato e denari per offrire un’alternativa a chi soffre, l’impegno di chi non si è arreso al do lore per la morte di un figlio operaio e ha reso quel lutto una battaglia senza fine per tutte le vittime. Azioni potenti di cittadine e cittadini che sarebbe natura le come l’acqua senza bolle che diventassero esempio da seguire. Eppure tra interviste e repertorio, sera dopo sera, viene spontaneo pensare come il concet to di eroismo del nostro buffo Paese sia perlopiù circoscritto all’urlo di Tardelli, solitario esem pio di condivisione universale. Senza gol non restano né Achille né Ettore, i medici diventati “angeli” del Covid si dimenticano nei talk come masche rine usate e persino una figura delle dimensioni di Liliana Segre diventa bersaglio della schiuma di risulta di un Paese che la memoria non sa nep pure cosa sia. Così, mentre il cuore si gonfia di orgoglio per Giovannella, Giovanni, Mauro, Valentina, Marco, donne e uomini che ogni anno vengo no premiati per la loro etica dal pre sidente Mattarella, torna alla mente l’estrema sintesi dell’eroe firmata Stan Lee: «Non credevo che l'Uomo Ragno sarebbe diventato un'icona mondiale. Io speravo solo che il fu metto vendesse così da potermi tene re il lavoro».
Victoria è una eccezione, il rock esclude le donne
In questi giorni mi è capitato di riscoprire un eccezionale trio femminile di stile folk rock di cui si è persa la memoria. Sono The Roches, tre sorelle americane che negli anni Ottanta e Novanta hanno inciso dischi deliziosi, per nulla ruffiani, con armonie vocali molto originali, e ingiustamente cancellate dalla memoria. Ma potrebbe non essere un fatto accidentale. Per essere definita da una parola così sontuosamente femminile, la musica è uno dei mondi più schifosamente maschili, se non addirittura maschilisti, che ci siano. Peggio di altri proprio perché teoricamente sarebbe per eccellenza il mondo dei sogni, dell’uguaglianza, della pace, dell’accettazione, dell’amore. E invece no, per una serie di leggi non scritte, eppure incredibilmente efficaci, alle donne in musica è in sostanza concesso quasi esclusivamente di cantare. Fateci caso, di voci ne possiamo trovare in quantità, dovunque, in ogni genere musicale, ma appena usciamo dal ruolo c’è il deserto, pressoché assoluto. La percentuale di donne che suonano uno strumento, che scrivono canzoni, che producono, compongono, arrangiano, o che dirigono case discografiche è incredibilmente bassa. Con alcune circostanze aggravanti. A essere efferatamente maschile, ai limiti dello sciovinismo, è proprio il rock, la musica che dagli anni Sessanta ha avuto la presunzione di raccontare la rivoluzione, l’emancipazione, la liberazione sessuale. Eppure, voci a parte, di gruppi rock femminili ce ne sono stati, ma pochi, pochissimi, a fronte di una marea sconfinata di maschi, di gruppi sempre e solo maschili, stabilendo quello che alla fine risulta un cliché sonoro e visivo incrollabile, roccioso. Ma anche i
singoli ruoli strumentali sono quasi sempre nettamente col segno maschile. Per una Victoria che suona il basso nel gruppo rock più famoso del momento ci sono migliaia di suonatori uomini. E se cambiamo genere le cose non vanno granché meglio. Ve lo immaginate un gruppo jazz composto esclusivamente da donne? Ce ne sono, per carità, ma all’estrema periferia dell’orizzonte. Ci sono stati maschi illuminati come Prince, che faceva di tutto per esaltare ruoli femminili al suo fianco, ma di solito ai musicisti piace creare club esclusivi e inaccessibili al mondo femminile. Il motivo per cui le donne sono autorizzate di fatto quasi solo a cantare è legato a ragioni ancestrali, alle serenate che le mamme per lenire il pianto cantavano ai piccoli. In tutte le civiltà antiche ci sono immagini di donne che cantano, diciamo pure che le donne hanno sempre cantato e continuano a farlo. Ma non basta, la disparità in tutti gli altri ruoli è offensiva, ingiustificata. C’è una intera cultura che blocca questi processi, e che dovrebbe mutare profondamente al seguito della rivoluzione in atto. Tutto è cambiato, ma la presenza di donne rimane incredibilmente scarsa. E la musica oggi non può più permetterselo.
ORLANDO PERSO NELLA METROPOLI
Un vecchio contadino della Sabina costretto a correre a Bruxelles. Il film di Vicari carico di emozioni
Il nuovo film del regista di “Diaz” sembra un po’ fuori dal tempo, co me il suo protagonista. Un vecchio contadino che lascia i monti della Sa bina per scapicollarsi nella gelida Bru xelles, dove il figlio che non vedeva da secoli è morto all’improvviso. Soldi cuciti nella giacca, aria impaurita e insieme sprezzante (Mi chele Placido è super lativo), il taciturno Or lando è come un nobile castagno trapiantato a tradimento nella metro poli (rubiamo l’immagi ne al regista). Ma tutta questa distanza non fa che renderlo ancora più contemporaneo. Un estraneo, come molti tra noi. Uno sradicato, anzi un individuo dal le radici pesanti in un mondo tutto fluidità e velocità (“Velocità mas sima” era il titolo del po tente esordio di Vicari). Un naufrago venuto da un luogo e un tempo lon tani, che sa estrarre meraviglie dalla fisarmonica ma è del tutto inadegua to all’insidioso tesoro che gli tocca in sorte. Una nipote belga di nome Lyse (la sorprendente Angelica Kazanko va). Una ragazzina dai lunghi capelli biondi che non ha mai conosciuto la madre ma chiamava il padre per no me. E guarda quel nonno ignoto co me un reperto, un alieno, un enigma. Forse una promessa. O una minaccia. Il seguito ha un passo a tratti meno sicuro. Se l’impatto reciproco, lo sper dimento nell’ostile capitale d’Europa, l’arcaica fierezza con cui il vecchio Orlando si rimbocca le maniche per mantenere Lyse e il suo misterioso sti le di vita, scorrono come acqua dalla sorgente, il lento avvicinamento di
quei due mondi suona a tratti un poco premeditato. Quasi che Vicari e il suo sceneggiatore Andrea Cedrola, come il loro protagonista, non lasciassero Lyse essere ciò che è fino in fondo con tutte le sue ambiguità, le sue ferite, i suoi egoismi.
Anche se questa difficoltà - questo do
lore - sono parte del gioco e iscrivono l’ispirato “Orlando” nel vasto registro dei film dominati da un personaggio così potente da fare ombra a tutto il resto (riecco l’albero), malgrado com primari eccellenti come la barista del paese (Daniela Giordano), l’assistente sociale Fabrizio Rongione o suo padre Federico Pacifici, a sua volta un emi grato italiano. Poco importa del resto. In un cinema accecato dalle mode e sempre più incapace di interrogare la memoria - dunque la modernità - il viaggio a ritroso di “Orlando” rappre senta una felice eccezione. Teniamo celo stretto.
“ORLANDO” di Daniele Vicari Italia-Belgio, 122’
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RISPONDE STEFANIA ROSSINI Noi e Voi
LA RABBIA DEI GIOVANI, BRILLANTI E UMILIATI
Cara Rossini, sono un neolaureato e mi voglio raccontare. Sono stato uno studente appassionato e ho concluso sia la laurea breve che quella magistrale col massimo dei voti lo scorso autunno. Durante il biennio ho frequentato uno studio professionale dove ho lavorato gratuita mente per due anni per “imparare il mestiere” di agronomo. Ho svol to una tesi sperimentale sull’utilizzo di un materiale d’impianto che potrebbe innovare la viticoltura siciliana, ma dal giorno della laurea a oggi ho incontrato solo porte sbarrate. L’ultima ieri, dopo due colloqui andati bene l’azienda mi ha chiesto di attendere un mese per poi liqui darmi dicendomi che la posizione è stata occupata da un’altra persona. Quello che le scrivo non contiene nessuna eccezionalità, è la vicenda comune di molti giovani che dopo il periodo di studio si scontrano con un Paese che sembra non aver bisogno di loro. Per me - fortunatamen te - è la storia di qualche mese da disoccupato, ma ci vuole un grande ottimismo per credere che non passerò altri lunghissimi mesi così, im pegnandomi a una continua e inutile ricerca, vivendo giornate tutte uguali e svilenti, senza quel lavoro che l’articolo 4 della Costituzione menziona come dovere di tutti i cittadini volto a concorrere il progres so materiale o spirituale della società. Io, Rossini, vorrei non avere ver gogna di questa mia condizione, ma vado perdendo le speranze e mi sento come una clessidra che più passa il tempo più si esaurisce.
Claudio MirabellaEccole le umiliazioni, cocenti, ripetute e avvilenti. Non certo uti li, come ha detto imprudentemente il ministro dell’Istruzione e del Merito, apprezzandole come «un fattore fondamentale della crescita», anche se ho il sospetto che Valditara abbia confuso un termine con un altro. È probabile che intendesse parlare di fru strazioni, termine solo apparentemente simile, che fu introdotto da Freud per indicare lo stato psicologico provocato dal mancato appagamento di un bisogno e che la moderna psicologia infantile ha sviluppato fino a considerare le frustrazioni un prezioso alle namento alla maturazione emotiva del bambino, il quale, impa rando a tollerare i rifiuti e i tanto celebrati “no” dei genitori (più tardi degli insegnanti e degli altri adulti), si allena a stare al mo do. L’umiliazione è invece violenza, dominio dell’altro e produce avvilimento, senso di impotenza e spesso rabbia. Proprio i senti menti che sta provando il nostro giovane lettore, agronomo per passione e competenza, che dopo studi brillanti pensava di essere accettato con facilità nell’ambiente professionale dove aveva già dato ottime prove. Era un pensiero giusto, ma non qui, non in Ita lia, in un mondo del lavoro che accetta il merito come bandierina di propaganda ma spesso non sa riconoscerlo né premiarlo. Per fortuna Claudio è abbastanza saggio da avere la consapevolezza del proprio valore e si dice da solo che prima o poi ce la farà. Ne siamo certi anche noi.
Donne senza uomini un’utopia trappola
Chiesi a Wauna dove fossero finiti gli uomini. Rispose “Non ne ho mai sentito parlare. Dev’essere un animale estinto”
Forse al nostro risveglio di donne manca l’atto rivoluzio nario per eccellenza. L’utopia, il gesto, il sogno. Mi è parso di ritrovarlo in un libro dell’800, “Mizora” di Mary Bradley Lane (ed. 1000 e una notte, 2018), anche se si è rivelato una trappola. A Cincinnati, nel 1880, esplode uno scandalo: sul Cincinnati commercial news sta uscendo a puntate “Mizora”, un romanzo anonimo. Racconta un popolo di sole donne, che senza il maschio hanno raggiunto la civiltà perfetta. Il Cincinnati vende,
vende, vende. Nessuno sa chi sia l’au tore, nemmeno il direttore. Le puntate arrivano per posta. I cittadini si rivolta no. Telegrammi furiosi, minacce, un re dattore viene picchiato. A una cena di notabili, dall’avvocato Burt Lane e sua moglie Mary Ellen, non si parla d’altro. Il sindaco inveisce contro “Mizora”. «Uno scritto immorale, sedizioso! Tutti i maschi sono spariti dal mondo, e per questo non ci sono più omicidi, fame, guerre. Aberrante». Mary Ellen, quie ta, risponde: «Una visione speculare a quella di Tolstoj. Lui pensa che l’assen za delle donne sanerebbe ogni male del mondo. Il suo “Sonata a Kreutzer” è un manuale per la necessaria soppressio ne della femmina». Discutono dell’autore misterioso, ma in una cosa sono tutti d’accordo: “Mi zora” lo ha scritto un uomo. Le donne non hanno immaginazione. Se fosse vero ci saremmo estinte da un pezzo, pensa Mary Ellen. Coglie lo sguardo del marito all’amante in carica. Ma anche lei ha un segreto. Un’altra vita. Partiti gli ospiti si chiude a chiave e tira fuori il suo libro, “Mizora”: è lei l’autore miste rioso. Si sfila la livrea da moglie, e scri ve la nuova puntata. Protagonista è Ve ra, nata per l’avventura, che si imbarca su un veliero, fa naufragio e sprofonda in mare. Ma invece di morire si ritrova
Nella Cincinnati di fine Ottocento spopola un romanzo, “Mizora”,
nel mondo ideale. In fondo all’Oceano, in una zona asciutta e fertile, le don ne hanno creato Mizora, la repubblica perfetta. Il luogo della bellezza, musi ca, scienza, libertà, giustizia. L’amica Wauna le rivela che senza gli uomini da servire sono diventate onniscienti. Non hanno un dio, ma il sapere è sacro. La cultura è di tutti, come il benessere. I maschi non servono più nemmeno come schiavi, meglio le macchine. Su perflui anche per la riproduzione. Nel segreto della notte, Mary Ellen sogna la partenogenesi. Grazie alle diete le donne vivono a lungo, lucidissime, a 200 anni studiano ancora. A Mizora si muore serenamente, senza paradiso o inferno. Il paradiso è aver bene operato. Nella sua stanzetta Mary Ellen rifonda il mondo. Risolve la sanità, l’inquina mento, i rifiuti. Tutto è trasformato in risorsa. Questa Jules Verne ragazza immagina le invenzioni future. Robot, videotelefoni, automobili… Mentre a Cincinnati le donne soffocano nei bu sti, le mizoriane fluttuano in sete lievi. Mizora è il sogno di un’esteta, econo mista di genio. Finché Vera chiede: «Ma… dove li avete messi i maschi?». «Si sono estinti». «Lo so. Ma come?». E viene fuori che quelle donne perfette hanno alle spalle il più grande genoci dio della storia. I maschi li hanno fatti
fuori. Tutti. Per questo provvedimento estremo c’erano delle buo ne ragioni. Quelli sapevano solo torturare e distruggere. Inciviliz zabili. Mizora è monda dal mal seme di Adamo. A Vera ciò sembra già molto sinistro. Poi nota che le mizoriane sono tutte bianche e bionde. Solo lei ha i capelli neri. Domanda a Wauna: «E le genti di pelle scura dove le avete messe?». «Anche loro erano perverse». Mary Ellen scrive, scrive, la sua creatura le scappa di mano, le sue donne divine sono anche delle razziste assassine, non sa più da che parte stare. Estranea alla società di Cincinnati, anche nel regno di Utopia Mary Ellen resta un’aliena. La sua utopia è distopica. Burt, il marito, morì vecchio e felice, senza mai sospettare che l’anonimo di “Mizora” fosse sua moglie.
di autore ignoto. Ma il sogno di un mondo tutto al femminile alla fine si rivela un incubo