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La prevalenza del Fattore K Giuseppe Catozzella
from L'Espresso 49
by BFCMedia
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i ostino a cercare il volto di M Seul. Forse non c’è. Forse invece è nei lineamenti plastificati, chirurgici, di molti tra le ragazze e i ragazzi che corrono su e giù per gli stradoni illuminati di Sejong-daero, o di Itaewon, dove ho l’ hotel. Forse è in questo loro essere eterei, è negli sguardi vacui puntati a un orizzonte che non arriva mai, nel loro esserci e non esserci allo stesso tempo. Inafferrabili. Inconsistenti. Uno dei nomi della Corea – non quello occidentale diffuso da Marco Polo e ricalcato su Goryo (da cui Corea), nome con cui i cinesi chiamavo l’antica dinastia coreana – è “regno eremita”, dal momento che i coreani fino a due secoli fa sono stati chiusi al resto del mondo, impermeabili dentro il susseguirsi delle dinastie, dai Silla all’ultima degli Joseon. C’è tanto di questa chiusura in quell’evanescenza, ma c’è anche l’alienazione delle dominazioni straniere, quella giapponese e cinese, e la divisione forzata sulla linea del 38esimo parallelo alla fine della Seconda guerra mondiale: l’occupazione russa a Nord, quella americana a Sud. Parlare con uno sconosciuto qui è impossibile, in ascensore per esempio non ci si saluta, non ci si guarda. Non è fingere di non vedere; è letteralmente non vedere, e la differenza è un abisso. A New York si finge di non vedersi, a Londra si finge di non vedersi, a Parigi, a Milano si finge; a Seul non ci si vede. Gli abitanti di Seul hanno raggiunto l’invisibilità. E forse è proprio questa la sua anima, e quindi quella della corean-wave, della k-wave, della Corea-mania, dell’“hallyu” come la chiamano qui, che dall’estremo oriente e dal sudest asiatico è arrivata in India, in Pakistan, in Bangladesh prima, poi in America latina e nel Maghreb e infine ha colonizzato l’immaginario più difficile da espugnare, poiché matrice di quello da cui l’“hallyu” è partito, superandolo: l’immaginario occidentale, americano ed europeo. K-pop, k-drama, giochi elettronici, non c’è ragazzo occidentale sotto i trent’anni che non sappia di cosa si tratti. Band come i BTS, le Blackpink, e prima di loro i Seo Taiji and Boys, i TVX, lo Psi del tormentone mondiale del 2012 Gangnam Style, la prima canzone della storia a raggiungere il miliardo di visualizzazioni su YouTube (ora, guardo, è a più di 4,5), sono un vero e proprio assalto culturale. Ma cosa c’è dentro questo abisso, dentro questa vacuità così perfettamente smerigliata da diventare prismatica e riuscire a generare tanto trend globali come Dynamite o Butter dei BTS quanto serie tv come “Squid game” o film acclamati dalla critica come il “Parasite” di Bong Joon-ho, la prima Palma d’oro coreana a Cannes? E ancora: c’entra qualcosa il cult del 2004 “Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera” di Kim Ki-duk con il “Parasite” del 2019? Quello che è avvenuto tra i due è proprio il cambio della politica estera coreana: da una posizione culturale “di contenimento”, che negli anni Ottanta e Novanta faticava a strapparsi dai lacci della guerra civile e delle dominazioni culturali (seppur iniziando a investire in industrie creative e in
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start-up culturali), a una politica espansionistica. L’anno di svolta è il 2014: il primo in cui il governo ha stanziato l’1 per cento del Pil nella cultura, con l’intento scientifico di soppiantare a livello globale il soft power americano: uccidere il padre, superare il maestro. Un miliardo di dollari quell’anno fu investito in industrie culturali, e da allora è in crescita.
Capisco che la loro invisibilità, la loro incorporeità oltre a essere straniante è anche un potere; e forse è proprio il potere magico che sognavo da bambino. Qui i corpi non si scontrano ma si attraversano come ologrammi che esistono davvero solo dentro il metaverso. Ma ogni potere ha il suo risvolto, e il più famoso è la solitudine. L’abbiamo vista apparire come uno spettro durante la cosiddetta “strage di Halloween” del novembre scorso, nelle strette strade della movida di Itaewon, proprio dietro l’Imperial Palace hotel dove risiedevo, invitato da Michela Magrì, l’infaticabile direttrice dell’Istituto di cultura italiano, per incontrare l’editore coreano del mio ultimo romanzo, “Italiana”, e a tenere conferenze in alcune università. Centosessanta ragazzi morti schiacciati da corpi dei quali non hanno potuto evitare la materialità, e centinaia di altri che lì in mezzo continuavano a ballare, a bere, a scattare foto alle sagome distese sui marciapiedi. Quanta solitudine reale deve esserci nel gesto che con una mano regge il bicchiere, con l’altra fotografa il corpo morto per usarlo sui social? Nel gesto che annulla il tragico e lo trasla nel metaverso?
L’anima della corean-mania risiede sì nell’essere un regno eremita; sì nella colonizzazione culturale americana spinta all’eccesso; ma anche tanto, mi sembra, nella fulminante espansione economica che è seguita alla sanguinosa guerra civile da quattro milioni di morti iniziata nel 1950 e mai formalmente terminata, in assenza di un trattato di pace (nessuno si I visi sono splendenti, uguali, che siano uomini o donne: tutti spinti verso una standardizzazione surreale. E i loro corpi sono invisibili, l’isolamento è una regola
spaventa più quando il dittatore nordcoreano Kim Jong-un volta i razzi atomici verso il 38esimo parallelo). Ma se non si parla di questa spaventosa accelerazione non credo si possa capire questo immaginario solo plasticamente violento che è arrivato a dominare il mondo. Paese poverissimo fino agli anni Sessanta, poi il “miracolo sul fiume Han” e in meno di mezzo secolo è la quarta economia orientale, l’undicesima al mondo. Forse il Paese tecnologicamente più avanzato. Ma la promessa reale dell’accumulo di una ricchezza nel corso di una vita ha generato uno smisurato senso della competizione (nell’area di Seul oggi vivono 30 milioni di persone), mescolato con il modello pedagogico cinese maoista. Così le ultime due generazioni sono cresciute passando per tappe obbligate: i migliori voti per accedere ai migliori istituti per arrivare ai migliori lavori e a salari milionari. La competizione inizia all’asilo, poi fino alle superiori dove le lezioni finiscono alle quattro di pomeriggio e proseguono negli “ hagwon”, le accademie private in cui si approfondiscono le materie scolastiche e si studia musica, danza, arti marziali. Devi essere il primo. Se non ti puoi permettere gli “ hagwon” sei un fallito, meriti di nasconderti. Così per strada è pieno di ragazzi in “dobok”, la divisa di taekwondo, il tempo per cambiarsi tra un “ hagwon” e l’altro non c’è, si arriva a studiare fino a ventuno ore al giorno: l’obbligo è conquistarsi un posto in una delle Sky, la
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Seoul national university, la Korea University e la Yonsei. Se non riesci non sarai mai un milionario. Normale dunque che la Corea sia da anni il Paese con più suicidi nell’area Ocse, specialmente tra i giovani, circa cinquanta al giorno. Dopo l’ondata che ha travolto anche giovanissime star del cinema e della musica (Song Yoo-jung, Choi Jin-sil, Kim Jong-hyun, Goo Hara, Cha In-ha, Sulli, Oh In-hye tra gli altri) è nato un dibattito non pubblico (il suicidio è tabù) ma accademico. L’opinione è che ci sia una correlazione tra il “miracolo sul fiume Han”, la competitività e l’infelicità. Che sia questa, quindi, l’altra faccia dell’“ hallyu”? Che sia questo che si nasconde (così come nella k-beauty, i cosmetici) in prodotti culturali che sembrano nati già masticati, pronti per essere digeriti, in cui la violenza è senza sangue e non sfiora la carne ma solo la forma, in cui un tragico conflitto non riesce a bucare la superficie dei testi, delle sceneggiature, delle inquadrature, eppure e proprio per questo si impone nel mondo? Che sia in questo doppio fondo che è finita la vera violenza, tragica, senza speranza che ancora possedeva l’estetica di Kim Ki-duk?
Ma questo secondo volto diventa reale. L’impossibilità di un conflitto, perso una volta per tutte con i quattro milioni di morti della guerra civile, si mostra in modelli estetici senza identità, raggiunti con la chirurgia plastica. I visi sono splendenti, ma sono tutti uguali, che siano uomini o don-
Qui sopra: Rosé, Jennie, Lisa, e Jisoo, le quattro ragazze delle Blackpink; un’immagine dal drama coreano “Vincenzo”. Nell’altra pagina, dall’alto: il cantante e produttore Psy; il regista Bong Joon-ho; il regista Hong Sang-soo ne: tutti sono spinti verso una standardizzazione surreale. È il metaverso che è diventato realtà: lo smartphone è più ancora che da noi un’appendice vivente, conclamata è la dipendenza dalla tecnologia, la vera imperatrice del Pil. Quindi l’isolamento sociale è la regola, al ristorante le giovani coppie consumano i pasti senza parlarsi, ognuno dialogando con la sua versione virtuale. Ci si sfoga però nell’alcol e nelle “pc bang”, dove qualcuno porta anche il cuscino e il plaid, così da sdraiarsi in un angolo a un certo punto della notte in quelle gigantesche sale gioco aperte h24 dove ci si sfida a League of legends, Starcraft, Overwatch. Quando escono, ne ho visti due, ventenni, una domenica mattina, hanno occhi assenti da robot. Dietro di loro usciva un cinquantenne, il cappotto aperto sul vestito di sartoria, scarpe lucide e capelli dritti. «Ubriaco di soju», mi ha detto la traduttrice letteraria dall’italiano al coreano che mi accompagnava a fare un giro nella più grande libreria di Seul, non lontana dal palazzo reale di Deoksugung, le cui mura sono celebri poiché appaiono nel k-drama Goblin. «Forse è manager alla Samsung, o alla LG, o alla Hyundai e ieri hanno chiuso un contratto importante. Quando succede è obbligatorio ubriacarsi. È il capo che comanda i giri di soju, non ci si può rifiutare. Gli astemi stanno male. Alcuni finiscono col dormire nelle “pc bang”». La Corea è un viaggio nel futuro.