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La tregua fragile di Khartoum, lo spettro di un’altra guerra civile Irene Panozzo

Le vie deserte, poche persone e ancora meno macchine che camminano sotto il sole impietoso di un pomeriggio sudanese. Una stasi quasi irreale, rotta solo dal suono dei lacrimogeni e dei proiettili che vengono sparati in una zona non troppo distante. Da un anno, è questa la realtà di Khartoum, la capitale del Sudan, circa due volte alla settimana: i colpi secchi marcano lo scontro tra le forze di sicurezza e i manifestanti, per lo più giovani, che il colpo di Stato militare del 25 ottobre 2021 ha spinto a scendere di nuovo in piazza per salvare il processo democratico iniziato nel 2019. A segnare il primo anniversario del golpe, il 25 ottobre scorso, decine di migliaia di persone sono scese per le strade di diciannove città sudanesi, a iniziare dalle tre città - Khartoum, Omdurman e Khartoum Nord - che formano l’estesa area metropolitana della capitale, nel suggestivo punto in cui il Nilo principale nasce dalla confluenza di Nilo Azzurro e Nilo Bianco. Anche quel giorno un manifestante è morto, il 119° dal colpo di Stato: il ventenne Abu al-Qasim Osama Abdel-Wahab, investito da un veicolo della polizia in un quartiere di Omdurman. In quest’anno l’economia sudanese è andata progressivamente peggiorando. L’inflazione è schizzata alle stelle. Bastano pochi giorni a Khartoum per rendersi conto di quanto i prezzi siano saliti, anche solo rispetto all’inizio di quest’anno. «Non so come la gente normale riesca a vivere», dice Munzoul Assal, professore ordinario di Antropologia sociale all’università di Khartoum. «Il mio stipendio di professore ordinario, equivalente circa a 900 euro, mi basta appena per coprire le spese fisse. Per fortuna ho altre entrate. Ero a Parigi per lavoro recentemente, uova latte e pomodori costano meno lì che a Khartoum. Chi ha stipendi che non arrivano neanche a 100 euro al mese, e sono tanti in queste condizioni, come fa?». Forse anche per il deterioramento dell’economia, perché hanno poco da fare e ancora meno da perdere, i giovani hanno continuato a protestare. Una buona parte del resto della popolazione li sostiene, anche se il fermarsi della vita pubblica, delle attività commerciali e del traffico un paio di volte alla settimana pesa e affatica. Ma la sfiducia verso i militari ha la meglio. Non è sempre stato così. Partita quattro anni fa, la rivoluzione sudanese contro il regime militare di matrice islamista guidato dal presidente Omar al-Bashir è culminata ad aprile 2019 in un sit-in di fronte al quartier generale dell’esercito per chiedere ai soldati di schierarsi con i manifestanti, com’era successo 34 anni prima quando un’altra rivoluzione aveva spazzato via il precedente regime militare. Di fronte alla pressione della gente radunata nel cuore di Khartoum, nonostante il caldo estremo e il digiuno del Ramadan, pochi giorni dopo i militari hanno deposto e arrestato Bashir. Avendo però imparato la lezione della Primavera araba del 2011, le proteste sono continuate: liberarsi di Bashir non bastava più, la gente chiedeva a gran voce sia l’allontanamento dell’ex partito dominante islamista, il Partito del congresso nazionale (Ncp nell’acronimo inglese), sia che i militari cedessero il potere a un governo guidato da civili. E al grido di «madaniyyah», «civile» appunto, e dello slogan della rivoluzione «libertà, pace e giustizia» il sit-in è rimasto, alternandosi a

Un attivista durante gli scontri con le forze militari nella capitale del Sudan Khartoum

manifestazioni di massa e spingendo i militari ad accettare una coabitazione con i civili e la formazione di un governo di tecnici guidato dall’economista Abdallah Hamdok. «La fiducia nell’esercito ormai è finita», sottolinea Zeynab, nome di fantasia di una giovane attivista di uno dei comitati di resistenza di Khartoum. Ma gli attivisti in realtà fanno fatica anche a fidarsi dei partiti politici più vicini alla rivoluzione, quelli che riuniti nelle Forze per la libertà e il cambiamento (Ffc in inglese) avrebbero dovuto essere il motore politico del governo Hamdok. E che invece con le loro divisioni e battaglie interne hanno favorito il colpo di Stato che ha fermato la transizione. Per uscire dall’impasse, da inizio 2022 si è tentata la via, tutta in salita, del dialogo, facilitato da un panel formato dalla missione Onu in Sudan, da rappresentanti dell’Unione Africa e dell’Igad, organizzazione regionale del Corno d’Africa, con il sostegno di tutta la comunità internazionale. Dietro le quinte, negli ultimi mesi, chi ha spinto di più per una soluzione politica sono stati però Stati Uniti e Arabia Saudita, affiancati da Gran Bretagna ed Emirati Arabi. Da un lato del tavolo le forze di sicurezza, con il comune interesse a mantenere almeno parte del potere ma divise dalle forti tensioni esistenti tra esercito regolare, guidato dal generale Abdel Fattah al-Burhan, e dalla milizia para-militare e semi-privata del generale Mohamed Daglo, detto Hemedti, ex leader dei janjawid del Darfur e a capo di un impero economico miliardario. Capire come siano davvero i rapporti tra i due generali, rispettivamente presidente e vicepresidente del Consiglio sovrano, l’organo di presidenza collettiva creato in seguito all’accordo di coabitazione del 2019, non è facile. Secondo alcuni interlocutori Burhan e Hemedti rimangono in buoni rapporti. Secondo altri, incluse persone di alto rango legate al Consiglio sovrano e all’esercito, sarebbero invece ai ferri corti. E uno scontro aperto tra le rispettive forze armate

Un manifestante sudanese fuori dal quartier generale dell'esercito. Sotto, un sit-in

non sarebbe da escludere. A sostenere il colpo di stato ci sono anche alcuni partiti e movimenti ex armati, mentre gli islamisti del Ncp, ufficialmente fuorilegge, in questo anno hanno riguadagnato terreno nell’amministrazione pubblica. L’impressione che il colpo di Stato non abbia solo fermato la transizione democratica ma abbia anche riaperto le porte ai protagonisti dell’ex regime non fa altro che rendere più difficile un compromesso per “le forze della rivoluzione”. Gruppi che seppur con posizioni diverse nei particolari, in generale chiedono un’inversione di rotta su alcuni punti principali: la loro partecipazione preponderante nel governo, lo smantellamento del vecchio regime, la creazione di un unico esercito nazionale e giustizia per i crimini degli anni passati.

Un primo passo per sboccare finalmente la situazione è arrivato la settimana scorsa, quando militari e forze della rivoluzione hanno firmato un accordo-quadro che dovrebbe permettere di far ripartire la transizione. Il condizionale rimane d’obbligo, sia perché non tutti i partiti politici vicini ai militari hanno firmato, sia perché rimane da vedere se l’accordo sarà sostenibile e se i comitati di resistenza lo accetteranno. In questi mesi l’obiettivo delle Ffc è stato proprio quello di ottenere dai militari delle concessioni che fossero accettabili per la piazza. «Un’intesa di massima su quali sono le questioni più importanti c’era già da qualche settimana», sottolinea Yasir Arman, uno dei leader delle Ffc. «Ma era importante che ci fosse un accordo sui dettagli tra tutte le forze che devono essere parte del dialogo affinché la soluzione sia sostenibile». In tutto ciò le dinamiche regionali e internazionali non hanno aiutato. L’instabilità politica al centro ha fatto ripartire i conflitti locali nelle periferie, incluso il Darfur occidentale, al confine con il Ciad a sua volta nel pieno di un’accidentata transizione politica, e nello stato del Nilo Azzurro, a ridosso dell’enorme diga che il governo etiope sta costruendo appena oltre confine, fonte di acute tensioni con il Sudan stesso e con l’Egitto. Il conflitto in Tigray, nel Nord dell’Etiopia, ha portato in Sudan decine di migliaia di profughi. A fine febbraio, inoltre, mentre Putin dava ordine di invadere l’Ucraina, Hemedti e alcuni ministri del governo post-golpe si trovavano a Mosca per accordi economici, inclusa la paventata possibilità che i russi aprissero una base militare sul Mar Rosso. Sebbene Khartoum abbia fatto marcia indietro ed escluso alcun ruolo russo in Sudan, i legami del generale darfuriano con la Wagner, la società russa di mercenari vicina a Putin, continuano a gettare un’ombra lunga. «Il rischio che questa volta la guerra civile non si limiti alle regioni periferiche rimane alto», sottolinea Malik Agar, leader di uno dei movimenti ex armati che hanno firmato la pace con Khartoum nel 2020 e da allora membro del Consiglio sovrano. «Ma il Sudan è un paese-cerniera per una regione molto vasta. E se cade, rischia di risucchiare anche i paesi vicini». Per fortuna, un’evoluzione così negativa sembrerebbe evitata, almeno per il momento. La speranza di molti, anche tra i manifestanti, è la via d’uscita politica tra militari e politici, società civile e attivisti sia percorribile. E che la transizione democratica sudanese possa quindi ripartire, prima che sia troppo tardi.

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