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Lorenzo morto di lavoro
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Idee
Chiamami col mio nome colloquio con Beatrice Cristalli e Vera Gheno di Gaia Manzini 84 Se la storia è malinconica Giuliano Battiston 90 Bosnia, cronache da un girone infernale Gigi Riva 93 Al Grand tour degli spettatori Francesca De Sanctis 94 Spettacoli per Visionari dalla Valtiberina al Mali 97 Miti e memorie tra jazz e pop colloquio con Fabrizio Bosso e Enrico Rava di Emanuele Coen 98 Negli abissi di Avatar Claudia Catalli 102
Storie
Gli argentini nella bolla spendono tanto e si godono la vita Ludovico Mori 106 L’insostenibile filiera della Wall Street dei fiori Salvatore Di Mauro 110 Sunak e le mucche sacre del tempio Krisna europeo Tiziano Fusella 114
Altan 3 Makkox 8 Serra 41 Manfellotto 46 Corleone 57 Alberti 122
La parola 7 Taglio alto 17 Bookmarks 105 Ho visto cose 118 #musica 118 Scritti al buio 119 Noi e voi 120
mondiale
Aggettivo che un tempo sostituiva i più moderni «mitico» e l’onnipresente «epico», è rimasto a designare l’evento calcistico più seguito, controverso, conosciuto e che, ormai, con lo sport in sé ha ben poco a che fare. Soldi, sponsor, calcio-mercato e, toh, diritti umani. Scordiamoci di Bearzot, ma non troppo: l’Italia non si qualifica ai Mondiali, ma non si lascia scappare l’occasione per entrare di diritto nella pagina bruttissima di cronaca che ci vede tra i protagonisti della decisione di disputare la contesa in Qatar. A dir la verità, ero ben lieta di non dover assistere a nuove (?) polemiche sull’opportunità di indossare simboli quando l’unico, possibile simbolo di un no a regalare denari a chi ignora i diritti umani può essere un no a giocare in Qatar e non per via di un’eliminazione. Ma allora non vuoi accettare il diverso da te e aprire una possibile strada verso un Paese che rispetti i diritti di tutti? Ma allora perché accogli
gente che umilia, lapida, non rispetta donne, gay e altrui mentalità? Perché un uomo rimane un individuo che arriva nel mio Paese e si deve adattare alla legge di quel Paese, uno Stato costringe me ad accettare le sue regole. E io non gioco con chi ha regole che fanno a pugni con la mia coscienza, perché il gioco ha un valore positivo anche senza scomodare de Coubertin. E non riesco a immaginare me che sventolo la bandiera dell’Italia, strombazzando qua e là, ancor peggio sapendo che purtroppo accadrebbe. Che importa di pena di morte, lapidazione, fustigazione, schiavitù, censura, condizione della donna (essù, lavora e vota, in fondo, no?), omosessualità? Se sarà provato che il Mondiale è stato favorito da mazzette, forse anche date a italiani, questo rimarrà comunque per i più la prova che Mancini non è poi ’sto grande allenatore e che noi non abbiamo partecipato. E questo sì è davvero osceno.
La memoria di Lorenzo contro il lavoro insicuro
La persona dell’anno è Lorenzo. Il nome che tutti dovremmo ricordare perché rappresenta il fallimento di una società precaria che non è riuscita a proteggere un giovane. Di una scuola che è costretta a formare gli studenti in luoghi non sempre sicuri. Del mondo del lavoro che continua a mietere vittime.
Lorenzo Parelli è lo studente diciottenne che il 21 gennaio è rimasto schiacciato da una pesante trave di acciaio, proprio l’ultimo giorno di stage nella ditta dove svolgeva il tirocinio previsto dal suo corso di studi. Frequentava il quarto anno del Centro di formazione professionale dell’Istituto salesiano Bearzi di Udine. Imparava il mestiere di manutentore di macchine a controllo numerico ed era entrato nel sistema duale, basato sull’alternarsi di un bimestre di pratica e uno di lezioni. La figura di questo ragazzo ci mostra i fattori sociali, formativi ed economici che hanno connotato il 2022. Un tempo caratterizzato dal prezzo pagato alla pandemia dagli adolescenti. Una fascia in età scolare che ha l’eredità più pesante, quella di crearsi un futuro e fare scelte lungimiranti per assicurarsi una solida prospettiva lavorativa.
Lorenzo custodisce tutto ciò. Ed è guardando a questo ragazzo che vediamo la condizione degli studenti, quella della scuola, e lo stato della sicurezza sui luoghi di lavoro per apprendisti e operai.
Come ha detto il presidente Sergio Mattarella, ricordando Lorenzo, «il valore del lavoro, per i giovani, e per chiunque, non può essere associato al rischio, alla dimensione della morte. La sicurezza sul lavoro si trova alle fondamenta della sicurezza sociale, cioè del valore fondante di una società contemporanea». La scuola ha il compito di formare la comunità e costruire il futuro del Paese. Occorre qualificare le professionalità e far progredire la collettività. Ma è anche il caso di ricordare che purtroppo le morti sul lavoro sono sempre una costante drammatica e accanto a questo doloroso dato continuiamo a registrare pure il lavoro irregolare, che talvolta varca il limite dello sfruttamento.
Dopo Lorenzo anche altri ragazzi sono stati vittime del lavoro nel 2022, studenti
Il suo nome rappresenta il fallimento di una società precaria che non è riuscita a proteggere un giovane. Di una scuola che è costretta a formare gli studenti in luoghi pericolosi. Di un mondo produttivo che continua a mietere vittime
deceduti durante i percorsi di formazione: Giuseppe Lenoci, di 16 anni, che ha perso la vita quando il furgone della ditta di Fermo per cui stava svolgendo lo stage si è schiantato contro un albero, lungo una strada di campagna stretta e mal asfaltata della provincia di Ancona; Giuliano De Seta, 18 anni, che è stato schiacciato da un parallelepipedo di acciaio, all’interno di una piccola azienda della zona industriale di Noventa di Piave, vicino a Venezia. Storie che stringono il cuore, che non possono essere cancellate o dimenticate e lasciate solo al dolore delle loro famiglie. A noi spetta il compito di stimolare la memoria, di accendere i riflettori mediatici, illuminare i fatti e i volti che il tempo inesorabile conduce ad accantonare. Non possiamo permettere che cali l’oblio.
Dalla tragedia di Lorenzo è trascorso quasi un anno. E non si può dimenticare. Il capo dello Stato lo ha ricordato a febbraio nel suo discorso di insediamento, quando ha voluto inviare una carezza a una famiglia e a una comunità distrutte dal dolore. Una carezza che è diventata monito, soprattutto per azzerare le morti sul lavoro. E poi quel nome, Lorenzo, scandendolo, migliaia di studenti sono scesi in piazza da Torino a Trieste, da Milano a Roma, e in ogni parte d’Italia hanno sfilato in cortei (pacifici), perché quel nome è diventato un riferimento per un forte impegno sulla sicurezza. Un simbolo per gli studenti. E in nome di Lorenzo il futuro deve puntare ad azzerare le morti bianche. A evitare queste tragedie. È per questo che L’Espresso ha deciso che Lorenzo - che rappresenta tutto ciò - è la persona dell’anno. E la politica, da destra a sinistra, deve attivarsi in tutte le sue forme, perché questi studenti non siano morti invano.
a forma del vuoto è un lutto che non si elabora. L’assenza che provoca un dolore costante, sfiancante. Lorenzo Parelli manca da quasi un anno. Dal 21 gennaio scorso, quand’è morto nell’azienda metalmeccanica dove svolgeva uno stage. Lo avrebbe terminato quella sera. Invece, una barra d’acciaio da 150 chilogrammi lo ha travolto e schiacciato, facendone uno studente vittima del lavoro. Il 17 novembre sarebbe stato il suo compleanno. Ma l’ultimo che ha potuto festeggiare è stato il diciottesimo.
A Castions di Strada, nella piccola frazione di Morsano, il vuoto si tocca con mano. Lorenzo abitava qui, a mezz’ora di automobile da Udine. E la sua famiglia, originaria del posto, continua a viverci: vicina al cimitero dov’è sepolto e circondata dal calore di un paese di 3.600 anime. La mamma Maria Elena è insegnante d’infanzia, il papà Dino è dirigente in una società ferroviaria, la sorella maggiore, Valentina, si sta laureando in Infermieristica. Persone normali, a cui la normalità è stata ingiustamente strappata. Si intuisce la sofferenza dagli occhi che si arrossano nel racconto della perdita. Eppure, ascoltandoli, colpiscono la compostezza e il riserbo. Ma anche la determinazione nel chiedere che tragedie simili non si moltiplichino.
«Nell’immediato eravamo sopraffatti da shock e disperazione. Via via, anche per l’eco suscitata dalla morte di Lorenzo, abbia-
mo cominciato ad affinare i pensieri. Non puntiamo il dito contro nessuno, ma crediamo che tutti abbiano una parte di responsabilità», ammette Dino. Valentina alza lo sguardo: «È stato un fatto nuovo. C’erano già stati infortuni ai danni di giovani impegnati nelle varie forme di alternanza scuola-lavoro, un incidente mortale no. Con mio fratello l’elenco s’è esteso a chi lavoratore ancora non è. Ci domandiamo come sia potuto succedere a lui, a noi. Siamo attenti, abituati a rispettare le regole. Allora significa che può capitare a chiunque».
Lorenzo frequentava il quarto anno del Centro di formazione professionale dell’Istituto salesiano Bearzi di Udine. Imparava il mestiere di manutentore di macchine a controllo numerico ed era entrato nel sistema duale, basato sull’alternarsi di un bime-
stre di pratica e uno di lezioni. Per il primo stage del ciclo era stato assegnato alla Burimec, impresa della zona industriale di Lauzacco. «All’inizio si era iscritto all’Informatico, ma poi aveva cambiato percorso, preferendo una preparazione manuale che lo introducesse direttamente nel mondo del lavoro», riprende Dino: «Aveva trascorso brevi periodi in altre aziende. Questo indirizzo gli piaceva. A giugno avrebbe conseguito il diploma e forse avrebbe proseguito per prendere la Maturità tecnica. Al Bearzi si trovava bene: è un ottimo istituto».
S’intravede una rabbia trattenuta. «Lo incitavo a incamerare esperienza. Adesso mi rimprovero di non averlo spinto di più alla prudenza», confessa il papà. Valentina gli tocca il braccio. Si era trasferita a Udine, dal fidanzato, per essere comoda con l’università; dal 21 gennaio, è tornata a Morsano: «Volevo stare accanto ai miei. Le nostre vite hanno subìto un contraccolpo, piano piano tentiamo di ripartire».
LA FAMIGLIA
Lorenzo Parelli con il padre, Dino, dirigente in una società ferroviaria, la sorella Valentina, studentessa universitaria in Scienze infermieristiche, e la madre, Maria Elena, insegnante in una scuola dell’infanzia. A destra, la chiesa di santa Maria Maddalena, dove si sono svolti i funerali di Lorenzo Parelli a Castions di Strada, in provincia di Udine. In alto, l'Istituto salesiano Bearzi dove studiava Lorenzo
Maria Elena annuisce: «La quotidianità aiuta a distrarsi. Ma al calare del buio, chiuse le porte, Lorenzo manca. Occorre dare un senso ai giorni, lottando affinché non accada più. Non è stato un caso unico, infatti: nel 2022 sono morti sul lavoro altri due studenti. È inaccettabile. Portiamo i figli a scuola e pretendiamo che siano al sicuro. Perché mandarli in luoghi in cui la gente muore? Siamo convinti che questo tipo d’istruzione sia una scelta valida. Se, però, mette a rischio anche un solo essere umano, ci si deve fermare».
E lei si ferma, prende fiato: «Aveva i suoi tempi per aprirsi, Lorenzo, era riservato, timido, ma si confidava con noi. Era abbottonato soltanto sulle questioni sentimentali, su qualche simpatia che c’era, e custodiva in maniera ferrea i segreti degli amici. Era un mediatore, gli piaceva far divertire chi gli stava attorno. Casa nostra era diventata punto di riferimento per la sua compagnia, una decina di ragazzi con cui aveva un legame intenso. La pizza, il giro al bar e l’an-
dirivieni di motorini».
Già, le moto: la grande passione ereditata dal padre e dallo zio Alex, cognato della mamma. In sella alla sua motard, Lorenzo adorava unirsi a loro in gita e guidare gli amici dal mare alla montagna. La cantina del nonno paterno, Duilio, fungeva da officina. Mentre targhe e pezzi di ricambio popolavano persino la sua camera, assieme ai gadget di “Ritorno al futuro”. «Amava la natura. Non rinunciava mai alle escursioni e alle vacanze con noi. O con i nonni, nella loro baita, dove curava gli animali e tagliava l’erba. Per l’estate stava riparando una barchetta, che usava in laguna», racconta Maria Elena.
«Eravamo sempre insieme, a scuola, di sera o in moto. La nostra era una fratellanza. E ora mi manca tutto di lui: le battute, l’altruismo, la tenacia», dice Luca Braidotti,
19 anni, che dal Bearzi è uscito con il mestiere sognato pure da Lorenzo. E che non riesce a darsi pace: «Era tanto bravo e con lui ci confrontavamo di continuo». Al funerale, il 2 febbraio, a salutarlo c’erano il paese e idealmente l’Italia intera. E lì, davanti alla chiesa di Morsano, tra i fiori bianchi raccolti sulla bara e i palloncini lasciati salire al cielo, è stato il rombo delle moto degli amici ad accompagnare Lorenzo nel viaggio finale. A comunicare speranza hanno provato don Roberto Rinaldo, nell’omelia, «aprendo il Vangelo a caso e leggendo un paragrafo, come faceva San Francesco quand’era in difficoltà», e don Adolphus Egwim, il parroco di Castions che celebra per lui una messa in suffragio ogni mese.
«Lorenzo riposa in una tomba coperta, al momento, dal cemento. Stiamo pensando a quale veste darle, a che cosa scrivere sulla lapide. Non è facile», ammette Maria Elena, che va a trovarlo più volte al giorno. Intorno ci sono molti fiori e sassi, alcuni con scritte e cuori disegnati. Ogni tanto qualcuno appoggia una sigaretta: lui fumava e nascondeva il tabacco dei compagni, fumatori in incognito. «Per loro si faceva in quattro. Se lo chiamavano a tarda ora perché avevano bisogno di lui, si rivestiva e usciva di corsa».
Tutto interrotto, all’improvviso. «Stavamo assieme sette giorni su sette e questo sarà il primo Capodanno senza di lui, dopo l’ultimo trascorso nella casa dei suoi nonni in montagna», dice Davide Pinzini, 19 anni: «Sarà dura, ma cercheremo di goderci la vita pensando a lui. Porteremo per sempre con noi il suo ricordo». Intanto, per il compleanno mancato di Lorenzo, gli
L’IMPIANTO
La ditta Burimec di Lauzacco, in provincia di Udine, dove Lorenzo era in tirocinio
amici hanno raccolto le fotografie più belle rimaste nelle memorie dei rispettivi cellulari e le hanno consegnate ai genitori. Balsamo per alleviare un vuoto comunque incolmabile.
Compagni, anche tra i banchi. Al Bearzi, complesso scolastico frequentato da oltre 1.200 allievi dalla primaria alla formazione professionale, il vuoto si snoda per corridoi e cortili dove Lorenzo camminava fino a un anno fa. Il direttore, don Teston, ha il suo stesso nome: «Parlare di lui è sempre doloroso, era ed è un membro di questa nostra famiglia. È stato difficile affrontare il trauma della morte: per me, per gli insegnanti e, ovviamente, per i ragazzi. Li abbiamo accompagnati in percorsi di supporto psicologico per rispondere alle domande che hanno iniziato a farsi, diverse a seconda dell’età. E ci siamo interrogati a lungo su quanto facciamo per la sicurezza. Selezioniamo centinaia di aziende per gli stage, costruiamo rapporti di fiducia reciproca, mandiamo gli studenti dopo aver formulato piani personalizzati e averne accertato le competenze».
In questi mesi, per dimostrare che il modello può funzionare, lo stesso Dino ha voluto tirocinanti nella sua impresa. «Le aziende non andrebbero obbligate a prenderli in carico, perché poche sono pronte e interessate a seguirli con la dovuta accortezza». È in particolare alla figura del tutor che si riferisce: «Va riformata, delimi-
TAGLIOALTO MAUROBIANI
tandone i compiti, imponendo una preparazione specifica, riconoscendo un indennizzo per il ruolo e nominando dei sostituti. Ricordo che il tutor di Lorenzo era assente il giorno della sua morte».
Intanto, la Procura di Udine è a un passo dalla chiusura delle indagini preliminari sull’accaduto: si procede per omicidio colposo. Dopo gli accertamenti iniziali, nel registro degli indagati sono stati iscritti sia il legale rappresentante della Burimec sia l’azienda, per la cosiddetta responsabilità amministrativa dell’ente, sia l’operaio che era incaricato di sostituire il tutor e che soccorse per primo il ragazzo. La perizia disposta dalla pm Lucia Terzariol, titolare del fascicolo, per chiarire la dinamica dell’incidente è stata depositata alla fine dell’estate e non resta che tirare le fila sulle rispettive, presunte, responsabilità penali.
L’ISTITUTO
Ivan Petrucco, sindaco di Castions di Strada. A sinistra, don Lorenzo Teston, direttore dell’Istituto salesiano Bearzi, complesso scolastico frequentato da oltre 1.200 allievi dalla primaria alla formazione professionale
«Manca la cultura della sicurezza. Le norme ci sono, ma sono difficili da applicare. Ci vorrebbe meno burocrazia e più formazione», dice il sindaco di Castions, Ivan Petrucco. Non è un caso se, in vista dell’anniversario della scomparsa di Lorenzo, intende omaggiarne la memoria con un’iniziativa che avvicini il mondo del lavoro e quello della scuola. «Nella nostra comunità la ferita è ancora aperta. È sconvolgente pensare che un giovane esca di casa per andare a imparare e non vi faccia più ritorno per un infortunio in fabbrica. La politica deve tenere alta l’attenzione e supportare gli sforzi della famiglia, quel che si è fatto non è abbastanza».
Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha citato Lorenzo nel suo discorso d’insediamento per il secondo mandato ed è stato in visita al Bearzi, alla vigilia del 1° maggio. «Un segnale forte», sostiene Maria Elena, «ma vorrei che ci si ponessero obiettivi concreti, da raggiungere davvero. Al lavoro serve dignità, perché una vita persa non torna più». Il marito concorda: «Non spetta a noi essere operativi. Certo, abbiamo avuto la vicinanza delle istituzioni. Ma temo che, se non faremo da pungolo, non cambierà nulla».
IL CAPO DELLO STATO A UDINE “LA SICUREZZA È UN DOVERE”
di Sergio Mattarella
[…] Il segno di Lorenzo è destinato a rimanere nella vita di chi lo ha conosciuto, di chi lo ha amato, di chi ha apprezzato la sua passione.
Io sono qui anzitutto per esprimere la mia vicinanza e la mia partecipazione all’immenso e insanabile dolore dei genitori, della sorella, degli amici e dei compagni di Lorenzo.
È una ferita profonda che interroga l’intera comunità, a cominciare da quella scolastica di cui era parte, dai ragazzi e dagli insegnanti del suo corso di formazione professionale.
La natura del suo percorso formativo lo aveva portato in azienda. Ma è accaduto quel che non può accadere, quel che non deve accadere.
La morte di un ragazzo, di un giovane uomo, con il dolore lancinante e incancellabile che l’accompagna, ci interroga affinché non si debbano più piangere morti assurde sul lavoro.
La sicurezza nei luoghi di lavoro è un diritto, una necessità; assicurarla è un dovere inderogabile. Questa esigenza fondamentale sarà al centro della cerimonia di dopodomani, Primo Maggio, al Quirinale.
Ma quest’anno anticipiamo qui la celebrazione della Giornata del Lavoro, in omaggio a Lorenzo e a tutti coloro che hanno perso la vita sui luoghi di lavoro, affinché si manifesti con piena chiarezza che non si tratta di una ricorrenza rituale, astratta, ma di un’occasione di richiamo e di riflessione concreta sulle condizioni del diritto costituzionale al lavoro.
Il valore del lavoro, per voi giovani, e per chiunque, non può essere associato al rischio, alla dimensione della morte.
La sicurezza sul lavoro si trova alle fondamenta della sicurezza sociale, cioè del valore fondante di una società contemporanea.
Quando si parla di diritto al lavoro, di diritti del lavoro, di diritti sui posti di lavoro, sovente non sono i giovani al centro delle preoccupazioni.
E, quando è così, è un atteggiamento sbagliato.
Il ritardo - un ritardo che ci mette in coda alle statistiche europee - con il quale gran parte delle nuove generazioni riesce a trovare una occupazione non è condizione normale.
Sono quindi apprezzabili i percorsi che accompagnano i giovani ad entrare nel mondo del lavoro.
Un mondo che deve rispettarli nella loro dignità di persone, di lavoratori, di cittadini.
Che dia ai giovani quel che loro spetta, che consenta loro di esprimere le proprie capacità, affinché possa-
no costruire il domani.
È una necessità per il futuro stesso dell’intera società.
La cronica mancanza di lavoro per le nuove generazioni – particolarmente in alcune aree - è una questione che va affrontata con impegno e con determinazione.
Accorciare la distanza tra giovani e lavoro è condizione indispensabile di sviluppo e di sostenibilità per l’intero Paese, tanto più in presenza di una crisi demografica che ha ridotto in notevole misura la presenza dei giovani nelle comunità.
Occorre liberare le giovani generazioni da quegli impedimenti, da quella compressione di energie, che molteplici fattori strutturali hanno via via opposto al loro naturale cammino.
La crescita complessiva del livello di istruzione e, in essa, della formazione tecnica e professionale qualificata, è fondamentale. Cambia la vita delle persone.
DI CHIARA SGRECCIA
on c’è stato solo Lorenzo. Sono tre gli studenti morti nel 2022 durante i percorsi di formazione che dovrebbero collegare la scuola con il mondo del lavoro. Giuseppe Lenoci, di 16 anni, ha perso la vita a bordo del furgone della ditta di Fermo per cui stava svolgendo lo stage schiantatosi contro un albero, lungo una strada di campagna stretta e mal asfaltata della provincia di Ancona. Giuliano De Seta, 18 anni, è stato schiacciato da un parallelepipedo di acciaio, all’interno di piccola azienda della zona industriale di Noventa di Piave, vicino a Venezia. Sulla dinamica indagini ancora in corso, spiega l’avvocato Luca Sprezzola, legale della famiglia De Seta: «Il lavoro dei periti nell’area sequestrata è iniziato il 9 dicembre. Si ipotizzano inadempienze da parte dell’azienda, in quanto i ragazzi durante gli stage non dovrebbero lavorare ma osservare, imparare, affiancare il tutor. C’è da capire se sono state violate le norme di sicurezza».
città del Paese, durante i flash mob di fronte al ministero dell’Istruzione e dagli istituti di nuovo occupati, con una mobilitazione come non si vedeva da anni e che va avanti ancora oggi.
STAGE, IL DEBUTTO N
Per ricordare che la morte di tre ragazzi durante l’orario scolastico non è normale, né giustificabile. E che non lo è neanche l’uso della forza con cui sono state represse le manifestazioni. Come è successo a Roma e a Torino dove gli studenti che protestavano contro l’alternanza scuola-lavoro non solo hanno preso le manganellate, «ma in quattro sono ancora, da sette mesi, sottoposti a misure di custodia preventiva nonostante siano incensurati», racconta Irene M., madre di uno di loro, Emiliano: «Sara è agli arresti domiciliari da maggio per aver parlato al megafono. Emiliano e Jacopo dopo essere stati in carcere fino allo scorso 6 giugno, sono chiusi in casa con il braccialetto elettronico e il divieto di contattare chiunque. Anche Francesco, che è stato prima in carcere, oggi è ai domiciliari. L’accusa è di resistenza a pubblico ufficiale, a febbraio ci sarà il processo».
Chiara Sgreccia GiornalistaLorenzo, Giuseppe e Giuliano non hanno potuto scegliere. Ma sono diventati il simbolo della relazione malsana che avvicina l’istruzione al settore occupazionale. «Perché i Pcto non sono scuola, non sono lavoro, sono solo sfruttamento», gridano gli studenti dalle piazze, dalle strade del centro delle principali
Ma, nonostante la repressione, gli studenti non si sono arresi: «Uno dei cinque pilastri della scuola pubblica che rivendichiamo è proprio la costruzione di una relazione sana tra istruzione e mondo del lavoro», spiega Alice Beccari dell’Unione degli studenti, Uds, il sindacato più grande d’Italia. «I Pcto sono stati pensati come dei progetti didattici. Ma non lo sono». Sono nati per integrare la for-
DEBUTTO DEL PRECARIO
mazione tradizionale in aula con l’esperienza in azienda, all’interno di enti pubblici o privati, con l’obiettivo di migliorare la qualità dell’apprendimento, offrire agli studenti le competenze trasversali necessarie per cogliere le opportunità della società. Si chiamano così dal 2019, quando con la legge di bilancio l’allora Governo Conte I ha cambiato il nome dell’alternanza, ridefinito alcuni parametri, come il vincolo del monte ore minimo per i licei, gli istituti tecnici e professionali, predisposto le linee guida per la loro attuazione anche in accordo con l’evoluzione degli orientamenti europei.
Ma la volontà di stringere il legame tra scuola e lavoro attraverso una modalità didattica innovativa risale al 2003, quando il governo Berlusconi II con la legge n. 53, disciplinata dal decreto legislativo n. 77/2005, ha dato agli studenti la possibilità di alternare i momenti di formazione in aula con quelli in azienda. Nel 2010, con Berlusconi di nuovo presidente del Consiglio e Mariastella Gelmini ministra dell’Istruzione, per la prima volta l’alternanza scuola-lavoro è stata definita come un metodo sistematico da introdurre nei piani di studio, per avvicinare i giovani al mondo del lavoro, orientarli e promuovere il successo scolastico. In seguito, è diventata obbligatoria per tutti gli indirizzi della scuola secondaria di secondo grado: nel 2015 con la buona scuola del Governo Renzi, per sottolineare l’importanza di affiancare il sapere al saper fare e con l’obiettivo di rafforzare la partnership con le imprese. Per offrire agli studenti la possibilità di acquisire competenze spendibili nel lavoro.
Il risultato, però, è discutibile. Secondo alcuni, come per Francesca Galdenzi, referente Pcto per l’Istituto di istruzione superiore “P. Cuppari- S. Salvati” di Jesi, i percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento sono uno strumento efficace per collegare istruzione e un settore occupazionale in continua evoluzione. «Le linee guida sono chiare e costituiscono una sfida anche per noi
LE VITTIME SONO DIVENTATE IL SIMBOLO DELLA RELAZIONE MALSANA CHE AVVICINA L’ISTRUZIONE AL SETTORE OCCUPAZIONALE: POCHE REGOLE, VIOLATE E DIRITTI INESISTENTI
docenti. Non si parla più solo di stage ma ci sono tante altre attività che completano i percorsi per l’orientamento di ciascun allievo, in base al tipo di scuola. Come le visite in azienda o nelle università. Gli incontri con i professionisti di settore, i corsi di formazione su materie specifiche: finanza o l’utilizzo di software, ad esempio. Gli allievi del nostro istituto sono generalmente soddisfatti. Ma visto che altri scendono in piazza perché si sentono sfruttati forse sarebbe necessario maggior controllo, investire più risorse e garantire una formazione qualificata al personale, per fare in modo che i parametri che definiscono i Pcto sulla carta diventino pratica di ogni scuola, non a seconda delle competenze o dell’impegno dei singoli docenti».
Secondo altri, invece, l’ex alternanza ha fatto entrare negli istituti scolastici le stesse dinamiche di sfruttamento e scarsa sicurezza che caratterizzano il settore dell’occupazione. «Comprendiamo l’importanza dell’esperienza pratica ma oggi i Pcto insegnano come diventare parte di un mondo frammentato e precario. Il rischio è che ci si abitui. Mentre la scuola dovrebbe renderci consapevoli dei nostri diritti, darci la possibilità di trasformare la realtà lavorativa attuale, per renderla migliore». Per Beccari una commissione parite-
tica formata da docenti e studenti dovrebbe concordare gli obiettivi formativi, sulla base delle esigenze di entrambi. Una parte della formazione pratica dovrebbe avvenire nei laboratori scolastici che andrebbero potenziati con più investimenti. L’altra parte all’interno delle aziende che, però, dovrebbero sottoscrivere e rispettare un codice etico. «Per verificare che abbiano i requisiti necessari per essere utili nel percorso di formazione e garantiscano le condizioni di sicurezza adeguate agli studenti, che non dovrebbero in nessun caso entrare a far parte dei processi produttivi. Perché di scuola non si può morire».
E neanche rimanere gravemente feriti. Come è successo lo scorso maggio, a uno studente di 17 anni che si è ustionato a causa di un ritorno di fiamma in un’officina a Merano, durante i Pcto. O a un ragazzo, sempre di 17 anni, che il 4 febbraio 2020 è finito in terapia intensiva dopo essere stato travolto da una cancellata in ferro che stava spostando durante uno stage.
L’elenco è più lungo. Anche se non ci sono dati precisi sul numero degli incidenti che gli studenti hanno vissuto durante i percorsi di formazione in azienda, «il report - avvisa l’Inail - sarà pronto entro un anno». Ma come spiega Franco Natalini, responsabile del servizio di prevenzione e protezione di Pan Eco, azienda marchigiana che si occupa di ambiente, igiene e sicurezza: «I minorenni che si interfacciano per la prima volta con il mondo del lavoro sono soggetti particolarmente a rischio. L’attenzione da porre per garantire la loro sicurezza deve essere altissima. Noi accogliamo da anni i ragazzi durante gli stage perché è un piacere avere a che fare con energie nuove e perché ci offre la possibilità di conoscere giovani che potrebbero trasformarsi in risorse per l’azienda, alla fine del percorso di studi. Ma succede raramente. E gli sforzi necessari per seguire gli studenti sono talvolta superiori ai benefici che traiamo dal loro operato». Come sottolinea Natalini, rendere validi i percorsi che collegano il mondo della scuola a quello del lavoro è fondamentale sia per le aziende, sia per gli studenti. Il punto sta nel capire come strutturare il link: immaginare una scuola che formi lavoratori consapevoli e competenti, in grado di migliorare le condizioni del Paese oppure future vittime di un sistema occupazionale che mostra ogni giorno il suo malfunzionamento.
UN PAESE FONDATO SUL
diaye, 51 anni, è morto il 10 dicembre a Gatteo, nel Cesenate. Maurizio, 62 anni, è morto il 9 dicembre a Bedizzole, in provincia di Brescia. Angelo, anche lui 62 anni, è morto il 7 dicembre a Palermo. Sono tutti morti sul lavoro. E sono solo gli ultimi, nel momento in cui si scrive, in una lunga conta che ha già sfiorato quota mille nel 2022. Da troppo tempo, infatti, ci si è assestati su una media di tre vittime al giorno nei luoghi in cui ciascuno svolge il proprio mestiere. «L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro», proclama l’articolo 1 della Costituzione. Queste morti, allora, negano l’essenza stessa dello Stato.
LE VITTIME DEL LAVORO
Secondo l’ultima rilevazione compiuta dall’Inail, le denunce di infortuni mortali raccolte dal 1° gennaio al 31 ottobre scorsi sono state 909. Vale a dire 108 in meno rispetto al medesimo periodo del 2021, 127 in meno rispetto al 2020 e 13 in più rispetto al 2019. Se nel 2022 si è con-
quistato un decremento del 10,6 per cento sull’anno precedente, lo si deve al fatto che chi si è ammalato di Covid-19 contagiandosi per lavoro è riuscito più spesso a guarire. Una minore letalità del virus che ha ridotto i casi avvenuti in occasione di lavoro da 815 a 659. Resta pericoloso percorrere il tragitto di andata e ritorno tra l’abitazione e l’ufficio, la fabbrica o il cantiere: i casi in itinere sono passati da 202 a 250. I 16 incidenti che hanno coinvolto contemporaneamente più persone (per un totale di 37 decessi) sono tutti stradali.
Il calo riguarda, in particolare, i settori dell’industria e dei servizi; è più consistente al Sud, più contenuto al Nord-Ovest. A livello regionale, migliorano i dati di Campania, Abruzzo, Puglia, Lazio ed Emilia Romagna; peggiorano quelli di Calabria, Lombardia e Toscana. Diminuiscono le denunce per gli italiani, mentre aumentano per gli stranieri provenienti sia dall’Unione europea sia da altri Paesi. E ci sono altre tendenze da monitorare. Se è vero che sono morti meno uomini (806 contro i 922 del 2021), tra le donne le vittime salgono da 95 a 103. Non
Secondo l’Inail, le denunce di infortuni mortali dal 1° gennaio al 31 ottobre scorsi sono state 909
solo. Hanno perso la vita più persone di età compresa tra i 25 e i 39 anni (da 132 a 167) e sono raddoppiati da 10 a 20 gli incidenti mortali ai danni di chi non era ancora ventenne.
INFORTUNI IN AUMENTO
Ci sono, poi, gli infortuni. Nei primi dieci mesi dell’anno ne sono stati segnalati 595.569, ovvero il 32,9 per cento in più rispetto al corrispondente periodo del 2021 (più 41,3 per cento rispetto al 2020 e più 11,5 sul 2019). Con un incremento sia dei casi in itinere (73.422 contro 62.403) sia di quelli avvenuti in occasione di lavoro (passati da 385.707 a 522.147). Questi ultimi aumentano in generale in quasi tutti i comparti produttivi: spicca il 129,1 per cento in più nell’ambito della sanità e dell’assistenza sociale, così come il 102,9 per cento in più di trasporto e magazzinaggio. Non va bene nemmeno per l’Amministrazione pubblica e per le attività ricettive o di ristorazione. Dal punto di vista geografico, il peggioramento maggiore si registra al Sud e nelle isole. La crescita interessa le don-
ne (da 159.524 a 246.162) e gli uomini (da 288.586 a 349.407), gli italiani e gli stranieri. E ogni fascia d’età, sebbene la più colpita sia quella tra i 40 e i 59 anni.
ANCHE LA SICUREZZA INVECCHIA
«Se si guarda al numero degli infortuni avvenuti in un anno ogni 100 mila lavoratori, in base alle statistiche pubblicate da Eurostat, ci si accorge che il nostro Paese si posiziona meglio di Francia, Germania, Spagna. Uno scenario che sorprende, certo, ma che non esime dal compito di risalire alle cause della triste media giornaliera», spiega Andrea Tardiola, direttore generale dell’Inail: «Gli incidenti, anche mortali, si sono dimezzati in confronto al passato; dal 2000 al 2012 sono progressivamente diminuiti. Poi la curva si è trasformata in un plateau. Perché? Probabilmente per la saturazione tecnologica dei dispositivi di sicurezza. Nel decennio successivo alla crisi finanziaria del 2008 non ci sono stati investimenti pubblici o privati nella prevenzione». Le protezioni, quindi, sono invecchiate. Perciò l’Istituto collabora con il Centro Studi della Banca d’Italia per incro-
ciare le informazioni sull’andamento degli infortuni e sulle dinamiche che possono influenzarlo.
«Esistono due tipologie d’incidenti. Quelli che si perpetuano dai tempi in cui si costruivano le piramidi e quelli legati all’evoluzione della società», prosegue Tardiola: «Da un lato si continua a morire cadendo dall’alto, schiacciati da pesi o soffocati in ambienti chiusi; dall’altro, eventi come la pandemia o il cambiamento climatico ci pongono di fronte a rischi che non conosciamo. In edilizia o in agricoltura, per esempio, l’innalzamento delle temperature provoca seri problemi a chi sta sui ponteggi o nei campi. Nel settore dei servizi, invece, assistiamo alla smaterializzazione del luogo di lavoro: le persone sono attive sempre e ovunque, perciò bisogna puntare sulla loro preparazione più che sulla presenza di strumenti nel posto in cui si trovano».
Alla radice del divario, le caratteristiche del tessuto produttivo nostrano. «I grandi gruppi industriali considerano la sicurezza una voce d’investimento, fissano obiettivi stringenti per garantirla e sono convinti che sia inscindibile dalla competitività», dice il dg: «Al contrario, è faticoso controllare la miriade di piccole imprese spesso impermeabili alle tecnologie. Manca la consapevolezza dei pericoli, c’è un eccesso di confidenza che porta a sottovalutarli. E si percepisce la prevenzione come una mera in-
combenza burocratica, una seccatura. È responsabilità della parte pubblica chiedere più sostanza che forma. Dal canto nostro, incentiviamo queste realtà con bandi per finanziare l’acquisto di impianti all’avanguardia o sconti sui premi assicurativi».
Intanto, i fondi stanziati con il Pnrr hanno generato il proliferare di opere e cantieri. Una ripresa dai ritmi serrati: «La velocità è antagonista della cautela», ammette Tardiola, «è necessario stabilire più turni con più manodopera, perché caricare le persone di straordinari è un azzardo. Tra qualche anno capiremo se, nonostante l’aumento delle ore lavorate, l’indice infortunistico sia stato compensato dal rinnovamento di macchinari e attrezzature. Il Piano deve lasciare in eredità anche una solida infrastruttura di sicurezza».
UN MERCATO MALATO
La situazione, però, non è rassicurante. Emblematico è il caso della Lombardia, descritta come locomotiva d’Italia.
«La ripartenza qui sta provocando conseguenze drammatiche. I lavoratori si espongono a rischi troppo elevati perché non sono addestrati in maniera adeguata e, soprattutto, perché subiscono pressioni a fare in fretta e a costo minimo. Se vogliamo essere davvero efficienti, cominciamo a fare in modo che la gente non muoia sul posto di lavoro», avverte Massimo Balzarini, della segreteria regionale della Cgil. È lui a evidenziare quanto la prevenzione sia conveniente: tra cure, riabilitazione, pensioni d’invalidità e risarcimenti, l’impatto economico degli incidenti è enorme.
«C’è un problema politico. I contratti precari e le partite Iva che hanno invaso il mercato del lavoro creano discontinuità nell’impiego e rendono impossibile monitorare i percorsi di formazione sulla sicurezza, demandati all’iniziativa dei singoli. Avevamo presentato delle proposte al governo precedente, adesso il dialogo è sospeso. Ma ribadiamo le richieste: un tavolo interministeriale per coordinare le istituzioni competenti sul tema, una patente per certificare le aziende che partecipano alle gare pubbliche, l’introduzione della fattispecie di omicidio sul luogo di lavoro. Ricordiamo, poi, che l’autonomia differenziata delle Regioni non può incidere su standard che hanno senso solo se nazionali».
A CHI SPETTA LA VIGILANZA
Su un punto tutti sembrano d’accordo: la sicurezza è una questione culturale. Dove la persuasione e l’educazione fal-
DENUNCE DI INFORTUNIO CON ESITO MORTALE
Confronto Gennaio–Ottobre
DENUNCE PER ETÀ
Denunce d’infortunio per classe di età. Gennaio–Ottobre
classe di età.
liscono, però, devono arrivare controlli e sanzioni. Nel corso del 2021, l’attività dell’Ispettorato nazionale del Lavoro ha riguardato 13.924 aziende: quelle a cui sono stati contestati illeciti proprio in materia di salute e sicurezza sono 10.278, su un totale di 13.348 accertamenti portati a termine. In pratica, quasi otto imprese su dieci sono risultate irregolari. Mentre gli illeciti riscontrati ammontano a 17.511, di carattere penale nel 90,92 per cento dei casi e di natura amministrativa per il resto.
«Le regole ci sono, è fondamentale verificare che vengano rispettate. Oltre a intercettare le violazioni, infatti, la vigilanza funziona da deterrente. Ma perde di efficacia, se non è esercitata in maniera capillare e costante. In questo non aiuta la carenza di personale che affligge l’Amministrazione pubblica, anche per il blocco del turnover», nota Ester Rotoli, direttore centrale Prevenzione dell’Inail. In effetti, con 4.020 dipendenti complessivi, l’Ispettorato non può essere onnipresente. Motivo per cui l’ex ministro del Lavoro, Andrea Orlando, ha disposto il rafforzamento del suo organico in misura pari al 65 per cento. Ci vorrà tempo perché le forze fresche entrino in ruolo, mentre da poco più di un anno i compiti di vigilanza dell’ente sono stati estesi dal settore edile agli altri ambiti produttivi finora coperti dalle Asl.
«La carriera dell’ispettore non è allettante, come non lo sono quelle dei medici del lavoro e dei tecnici della prevenzione», commenta il sindacalista Balzarini: «A proposito di quest’ultima figura, da destinare sia ai controlli sia alla formazione nei luoghi di lavoro, abbiamo chiesto un confronto
con le università per la programmazione di corsi ad hoc. Ma ci sono meno candidati dei posti messi a disposizione».
FORMARE I GIOVANI
Un quadro a tinte fosche, in cui finiscono pure i giovani in veste di stagisti o tirocinanti. «Sono loro che affronteranno fenomeni nuovi. Perciò dobbiamo aggiornare la formazione obbligatoria prevista per gli studenti impegnati nella cosiddetta alternanza scuola-lavoro. Un sfida che può essere vinta solo utilizzando mezzi o linguaggi vicini ai ragazzi e alle ragazze», conclude Tardiola dell’Inail. E sperimentazioni sono in corso. Come il progetto realizzato con l’Itis Galilei di Roma, dove gli alunni applicano le loro conoscenze allo sviluppo di videogame incentrati sul tema della prevenzione, o come la ricerca dell’Istituto italiano di Tecnologia di Genova che analizza il modo in cui i visori per la realtà virtuale immersiva possono modificare i comportamenti di chi li indossa.
Lo scorso maggio il ministero del Lavoro, quello dell’Istruzione, l’Ispettorato e l’Inail hanno firmato un protocollo d’intesa di durata triennale per la promozione e la diffusione della cultura della sicurezza tra i dirigenti scolastici, i docenti, gli studenti e tutti i soggetti coinvolti nei percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento. D’altra parte, il Pnrr assegna fondi alle Regioni per la formazione professionale e spinge nella direzione di un’osmosi crescente tra scuola e mondo del lavoro. Diventa sempre più urgente tutelare chi ha meno strumenti per proteggersi da sé.
SANITÀ PUBBLICA IN RITIRATA
MEDICI IN FUGA. POCHI INFERMIERI. SPESA PRIVATA IN CRESCITA. MALGRADO LE PROMESSE IL SSN RIMANE SENZA FINANZIAMENTI NÉ STRATEGIE. E PER I CITTADINI MENO ABBIENTI CURARSI DIVENTA SEMPRE PIÙ DIFFICILE
DI GLORIA RIVA
novembre il cardiologo milanese Stefano De Vita ha fatto i bagagli ed è partito per Lione. Lavorava nella cardiochirurgia dell’ospedale statale Luigi Sacco, chiuso in aprile per essere inglobato dal Policlinico cittadino. Un’opera di razionalizzazione. O almeno, questa era l’intenzione. Nei fatti il Policlinico si è dato tempo fino al 2024 per ultimare la struttura e nel frattempo effettua due interventi a settimana, contro le tre operazioni al dì che faceva il Sacco. In attesa del completamento del reparto e mentre i professionisti del Sacco se ne vanno all’estero, «dove si guadagna il doppio e c’è maggior stima per la professione», conferma il cardiologo De Vita, a Milano s’avvantaggia un nosocomio privato. Si tratta della nuova Cardiochirurgia dell’Ospedale Galeazzi Sant’Ambrogio che fa capo al gruppo San Donato che sorge sull’ex area Expo, in quello che oggi è Mind, Milano Innovation District: le sale operatorie inaugurate a settembre sono pronte a offrire ai cittadini il servizio in precedenza assicurato da un ospedale pubblico.
Il caso lombardo è la rappresentazione plastica di quanto sta avvenendo nel Paese: dopo esserci resi conto che il Ssn era stato per decenni sotto finanziato e quindi era totalmente impreparato ad affrontare l’emergenza Covid; e dopo una sbornia di promesse, di ridare adeguate risorse al Ssn; oggi il pubblico batte in ritirata, mentre cresce la dipendenza dai centri di cura privati. Il tutto avviene nell’assenza totale di una regia statale, lasciando al cittadino l’onere e l’onore di “scegliere” fra sanità pubblica e privata, sapendo che i tempi della salute non coincidono con le interminabili liste d’attesa degli ambulatori pubblici. Di
riflesso i medici fanno i conti con condizioni di lavoro spesso al di sopra delle loro forze, il che favorisce l’emorragia di personale verso il privato o all’estero.
A proposito di ricorso al privato, il centro di ricerca Cergas Bocconi, che monitora il Ssn, stima che sette famiglie su dieci a causa di impreviste spese per la salute stanno rischiando di impoverirsi e oltre il nove per cento ha impegnato per le cure più del 40 per cento del denaro a propria disposizione, ovvero per le cosiddette spese catastrofiche. Si tratta di un record negativo italiano al confronto con gli altri Paesi dell’Europa occidentale. I tre quarti di queste famiglie scivolate in povertà hanno un reddito inferiore ai 1.300 euro mensili, più della metà vive al Sud e molti sono pensionati. «Il Ssn non può continuare ad auto-rappresentarsi come un’istituzione universale e autosufficiente, con qualche residuale presenza del mercato a pagamento di contorno, perché nei fatti il servizio pubblico controlla solo i due terzi delle risorse complessive», è impietosa la fotografia del Ssn scattata da Francesco Longo, responsabile scientifico del Cergas, che ha calcolato come, a fronte di 126 miliardi spesi dallo Stato, gli italiani aggiungono di tasca propria altri 41 miliardi per curarsi: un record. Vanno poi aggiunti altri 9,6 miliardi sborsati per assistere figli disabili e genitori anziani, più altri 9,1 miliardi di trasferimenti diretti alle famiglie dall’Inps che, sotto la veste di assegni di accompagnamento, alimentano il mercato privato e spesso informale delle badanti. In sintesi, ogni famiglia spende di tasca propria 2.200 euro l’anno per curarsi.
Emergenza salute
Eppure l’impressione è che negli anni del Covid qualcosa sia stato fatto per il bistrattato Ssn. «Fatta eccezione per i frangenti più drammatici del 2020, in questi tre anni il Ssn ha garantito a tutti i malati più gravi la possibilità di un ricovero, le vaccinazioni sono state fatte a tappeto e molti cittadini hanno effettuato tamponi in regime pubblico», dice Longo, che continua: «Questo ha alzato le aspettative di un servizio statale in espansione, proiettato verso un universalismo sostanziale, con finanziamento e standard attesi simili a Francia e Germania». Nei fatti è successo l’opposto: l’incidenza della spesa sanitaria sul Pil scende al 6,5 per cento nel 2023 e al 6,1 nel 2025, in calo di oltre un punto e mezzo rispetto al 2022, al di sotto dei livelli pre-pandemici (era al 6,4 per cento nel 2019) e parecchio distante dalla media europea del 7,9. Inoltre otto assunzioni su dieci fatte nei mesi della pandemia sono state a termine e quindi sono soltanto 17 mila gli ingressi a tempo indeterminato. Un numero non sufficiente a compensare le uscite per pensionamenti e burnout dovuti all’elevata età del personale e ai livelli di stress subiti in reparto e negli studi medici. Avverte Agenas, l’agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali, che oggi sono in servizio 103mila medici e 264mila infermieri, ma entro il 2027 andranno in pensione 41mila medici e 21mila infermieri. Già oggi, stima la Federazione Nazionale Ordine dei Medici, mancano all’appello 20mila medici, di cui 4.500 nei pronto soccorso, 10mila nei reparti ospedalieri, sei mila medici di base. Le università si preparano a formare 2.779 medici di base all’anno e 14.387 specialisti: pochi per stare al passo con le uscite. E se il numero di medici in servizio, nonostante le criticità, continua a essere in linea con quello europeo è invece l’infermieristica il tallone d’Achille. Sempre Agenas dice che l’Italia registra un tasso molto inferiore alla
media europea con 6,2 infermieri per mille abitanti, contro gli 11 della Francia e i 13 della Germania. «In risposta alla carenza di medici, diversi Paesi hanno iniziato a implementare ruoli più avanzati per gli infermieri», scrive Agenas nel report, dove cita la Finlandia a titolo di esempio: «Qui le competenze più avanzate degli infermieri hanno migliorato l’accesso ai servizi e ridotto i tempi d’attesa, fornendo la stessa qualità delle cure». L’assenza di infermieri significa che i medici svolgono compiti che nei sistemi sanitari più moderni sono eseguiti dalle professioni sanitarie. Invece quello dell’infermiere continua a essere un mestiere poco pagato e non attrattivo, con 1,6 candidati per ogni posto (contro il rapporto 7 a 1 del concorso a medicina), determinando un tasso di abbandoni addirittura del 25 per cento. Risultato: nei prossimi cinque anni usciranno dall’università molti più medici specializzati che infermieri e paradossalmente questa situazione aumenterà la percezione che mancano dottori, semplicemente perché ci abitueremo a pensare che funzioni assistenziali, tipiche delle professioni sanitarie, vengano assolte dai camici bianchi.
La speranza di invertire la rotta con i 18,12 miliardi portati in dote dal Pnrr per creare nuovi ospedali, case della comunità, sistemi digitali di medicina territoriale a domicilio e ammodernamento tecnologico svanisce quando si considera che per far funzionare le nuove strutture servono fra i 30 e i 100 mila infermieri, che costano fra i 3 e i 7,8 miliardi annui. Soldi e personale che non sono neppure stati preventivati. Nonostante le buone intenzioni del ministro alla Salute, Orazio Schillaci, di destinare nuove risorse ai medici, specialmente a quelli dell’Emergenza- Urgenza, e di aprire un dossier sugli standard dell’assistenza, il governo Meloni sta seguendo il tracciato del precedente governo Draghi che ha di fatto ridotto i fondi alla sanità a poco più del sei per cento del Pil. Questa manovra finanziaria stanzia circa tre miliardi extra, sufficienti a coprire l’inflazione e i rincari energetici degli ospedali. Non che i governi precedenti abbiano fatto diversamente, perché come puntualizza l’indagine Cergas «da tempo la politica privilegia misure di trasferimento monetario alle famiglie, la riduzione delle imposte o contribuiti cash come il bonus 110 per la casa, sacrifi-
Emergenza salute
cando qualsiasi ipotesi di servizi reali di welfare, come la scuola e la salute».
E se lo Stato taglia i servizi, il cittadino che fa? Paga di tasca propria o decide di non curarsi. Come fanno molti cittadini del Sud, dove le Regioni sono le più carenti dal punto di vista dell’offerta pubblica, ma non per questo hanno denaro da investire nelle cliniche. Al contrario, ad avere alti livelli di spesa privata, sono lombardi, veneti ed emiliani che spendono più di 700 euro a testa. Mentre in Campania la spesa sanitaria procapite è di 423 euro, in Calabria 537 euro. Sono infatti le famiglie più abbienti e meglio istruite che da un lato hanno le competenze per accedere al Servizio Sanitario Nazionale e dall’altro hanno le risorse per ricorrere ai privati, «generando un quadro di iniquità sostanziale nell’accesso alle cure e di frammentazione del sistema, perché il Ssn non ha attivato processi di ricomposizione dei due sistemi, ovvero quello privato e quello pubblico», scrive il rapporto Cergas, che offre tre soluzioni possibili.
Il primo scenario, il meno credibile, è quello in cui lo Stato investe 25 miliardi in più all’anno per il Ssn e porta la spesa sanitaria al 7,5 per cento del Pil, in linea con la media europea, consentendo il rispetto dei livelli minimi assistenziali e offrendo la possibilità alle regioni, soprattutto a quelle meno avanzate, di ridurre al minimo le disuguaglianze.
Il secondo scenario è quello più complesso da attuare, perché implica la presa di co-
Il ministro della Salute Orazio Schillaci. Sopra, a sinistra: protesta a Milano dei medici di base di Milano e Bergamo. A destra: Francesco Longo, responsabile scientifico del centro di ricerca Cergas Bocconi
scienza del Ssn di non avere sufficienti risorse per offrire un servizio universale, innescando un dibattito altrettanto complicato, e arrivando a scegliere di governare un sistema misto, pubblico e privato, dove quest’ultimo, imbrigliato da limiti e soglie, non svolge più un ruolo aggressivo e incontrollato, come avviene ora, con le cliniche private che scelgono di concentrarsi sulle aree mediche più redditizie e competono applicando contratti di lavoro al ribasso ed esternalizzazioni.
Il terzo scenario, contro cui si andrà a sbattere se non si sceglierà fra una delle due soluzioni precedenti, è mantenere inalterato - al 6,1 per cento del Pil - il finanziamento della sanità, ma promettendo livelli di cura universali e gratuità del servizio, rischiando di replicare quello che gli economisti chiamano “modello Grecia” o “modello Argentina”, con sempre maggiori buchi nell’offerta, come già sta avvenendo in alcuni ambiti, per esempio con il cronico definanziamento della Salute Mentale, a cui dovrebbe andare il cinque per cento del fondo sanitario, ma nella pratica ne riceve meno della metà. L’esito previsto dal Cergas è catastrofico: fallimento de facto della sanità pubblica, incontrollata espansione della sanità privata, esponenziale aumento delle disuguaglianze, con i ricchi che potranno scegliere dove e come curarsi e i poveri che abdicheranno al diritto alla salute.
di IVAN CAVICCHI
Con i criteri di Calderoli cure mediche solo ai più ricchi
Per sostenere progetti politici tanto terrificanti come il regionalismo differenziato bisogna avere prima di tutto quello che mia madre chiamava “l’animo cattivo” e essere individui indifferenti e insensibili alle sofferenze e alle tribolazioni degli altri. Nel caso del regionalismo differenziato se alla cattiveria e all’egoismo regionale aggiungiamo l’ignoranza, la malafede e la disonestà intellettuale, si ottiene davvero il peggio dell’umanità fino a rasentare l’orrore.
Vorrei richiamare due orrori del regionalismo differenziato dei quali non si parla mai: la possibilità di finanziare la sanità definendo dei costi standard e la possibilità di ridurre le complessità delle tutele sanitarie a prestazioni. Cioè i Lep.
I costi standard nascono dalla contabilità industriale e si basano sulla possibilità di analizzare con precisione tutti i costi che partecipano al processo produttivo e i vari scostamenti tra i costi teorici e i costi reali. Se per chi fabbrica bulloni questo è del tutto possibile, in sanità no. Nel senso che solo una minima parte dei costi delle attività sanitarie si potrebbero standardizzare. La maggior parte dei costi sanitari degli ospedali, dei distretti, dei vari servizi territoriali, dei dipartimenti di salute mentale ecc., non sono standardizzabili perché la cura, a fronte della complessità clinicadelmalato,nonèstandardizzabile.
Ciònonostante ipatitideicostistandard soprattutto Veneto, Lombardia
ed Emilia Romagna, quando girava la storiella delle siringhe che costavano di più al Sud e di meno al Nord, in occasione del riparto del fondo sanitario 2013 imposero a tutte le altre regioni il criterio dei costi standard. Il risultato fu un flop clamoroso tanto da indurre le regioni a ritornare ai vecchi criteri della spesa storica pro-capite. Da una parte non si riusciva a misurare i costi effettivi per la gran parte della sanità e dall’altra i costi che si era calcolati erano tutti sballati e approssimativi.
Nonostante i costi standard in medicina siano praticamente immorali, il regionalismo differenziato nella bozza Calderoli li propone come base di finanziamento della futura sanità.
Quanto ai Lep la bozza Calderoli di fatto propone in base all’art 117 di passare dai Lea ai Lep. La legge (L.502) che nel 1992 ha istituito i Lea parla di «livelli di attività di servizi e di prestazioni». I Lep, invece, sono solo “prestazioni” intendendo per prestazione un singolo e specifico atto clinico-assistenziale, di natura diagnostica e/o terapeutica. I Lea in sanitàsinoaorasonostatidefiniticome macro aggregati di attività servizi e prestazioni e suddivisi in tre grandi gruppi (salute pubblica, assistenza distrettuale, assistenza ospedaliera). In pratica nella proposta di regionalismo differenziato con i Lep l’intenzione sembra essere quella di ridurre il concetto di tutela facendo coincidere il bisogno di cura con la prestazione tecnica tout court. Cioè con il minimo del minimo. L’idea folle per chi non conosce le
complessità della clinica è probabilmente costruire costi standard quantificando i costi di ogni singola prestazione. Esattamente come si usa nei prontuari delle assicurazioni. Cataloghi di “articoli” da vendere definiti da un prezzo.
È ovvio che i Lep in sanità alla fine funzioneranno come minimo consentito, ma solo per le regioni povere. Cioè le regioni ricche non sono obbligate a rispettare i Lep. Se esse avranno le risorse necessarie i loro Lep potrebbero essere ben maggiori di quelli del Sud. Altrimenti non si spiegherebbe perché Calderoli nella sua bozza parla di “perequazione infrastrutturale”.
Si supponga di aver un cancro e che la sua cura preveda un costo standard al quale i servizi dovranno attenersi. Si supponga anche che per curare il cancro siano prestabilite delle prestazioni standard. Si supponga che il caso di cancro abbia un costo reale superiore allo standard e che le prestazioni predefinite per la sua cura non siano sufficienti.
Le scelte possibili non sono molte: o si interrompono le cure o i costi eccedenti si mettono a carico del malato o si autorizzano le aziende a coprire i costi eccedenti mettendoli in bilancio.
In questi casi l’onorevole Calderoli, sapendo che in ragione dei costi standard e dei Lep il cancro in Veneto è una cosa e in Calabria è un’altra cosa, che suggerisce di fare?
Achraf Dari e Walid Cheddira festeggiano la vittoria del Marocco contro il Portogallo ai quarti di finale del Mondiale
UN EMIRO È PER SEMPRE
DI GIANFRANCESCO TURANOl Mondiale di calcio in Qatar finisce da dove era iniziato. Un’inchiesta giudiziaria per corruzione guidata dalla magistratura di Bruxelles ha investito i palazzi dell’Ue sette anni dopo il blitz di Zurigo coordinato dall’Fbi del maggio 2015 contro i massimi dirigenti della Fifa del tempo. E, se l’ex presidente Joseph Blatter è uscito assolto dal processo elvetico, per la vicepresidente destituita del Parlamento di Strasburgo la socialista greca Eva Kaili, per il suo compagno Francesco Giorgi, per l’ex europarlamentare Pier Antonio Panzeri, passato dal Pd ad Articolo Uno, si parla di flagranza di reato. Niente fatture false, consulenze fittizie o sofisticati pagamenti estero su estero. Viaggi extralusso a costo zero e sacchi di soldi. Banconote per oltre un milione e mezzo di euro sono state sequestrate nelle abitazioni di Kaili e di Panzeri. Coinvolte anche due Ong, con l’arresto di Niccolò Figà Talamanca di No peace without justice, un deputato in carica, il socialista belga Marc Tarabella, perquisito nel suo ufficio, e il capo del sindacato mondiale Ituc Luca Visentini, arrestato e subito rilasciato.
In attesa che gli accusati chiariscano la loro posizione, una figuraccia storica si sta abbattendo sulla sinistra europea e sulle organizzazioni dei lavoratori. Un comunicato del sindacato eretico Usb la sintetizza in modo affabile: «Visentini, dalla Uil a capo dei sindacati gialli mondiali al fermo per corruzione. Ascesa e rapida caduta del sindacalista amico degli emiri del Qatar».
In realtà, sembra difficile accollare a Visentini, che è passato dalla guida del sindacato europeo Etuc a quella dell’Ituc il 22 novembre 2022, la costruzione paziente e fin troppo edificante di un alibi per l’emirato del Golfo, colpito da accuse gravissime sul trattamento dei lavoratori migranti impegnati nel progetto Qatar 2022.
4 ma segnala che «nonostante gli sforzi in varie nazioni del Golfo, compresi Qatar e Arabia Saudita, di mettere fine al sistema kafala, i lavoratori migranti che rappresentano la maggioranza della forza lavoro di questi Paesi, sono rimasti esposti a severi abusi dei diritti umani, specialmente negli Emirati arabi uniti».
Insomma, Abu Dhabi e Dubai cattivi. Sauditi e Qatar sulla buona strada. Eppure, anche se Doha ha ufficialmente abolito il sistema kafala nell’agosto del 2020, quindi dopo la promozione in fascia 4 da parte dell’Ituc e sei mesi prima che The Guardian denunciasse 6.571 morti nei cantieri per il Mondiale, i problemi di fondo sono rimasti. In Qatar la libertà di associazione sindacale rimane vietata ed è stata sostituita da comitati congiunti fra datori di lavoro e dipendenti dove è facile capire chi decide. Molte Ong come Amnesty international e Human rights watch hanno denunciato l’espulsione forzata dei lavoratori dal Qatar dopo la chiusura dei cantieri del mondiale con la proibizione di trovarsi un altro posto che è tipica del sistema kafala apparentemente abolito.
Eppure è bastato poco per accontentarsi. L’Ituc che nel
AL SINDACATO INTERNAZIONALE ITUC E ALL’AGENZIA DELLE NAZIONI UNITE ILO È BASTATO L’ANNUNCIO DI ABOLIZIONE DELLA SCHIAVITÙ DEL SISTEMA KAFALA PER DARE IL PLACET AL QATAR
2013 pretendeva un nuovo voto sull’assegnazione del torneo Fifa e che nel 2014 apriva una procedura contro l’emirato del Golfo, nel novembre 2017 firmava la pace con gli al-Thani in cambio di un tavolo tecnico di collaborazione.
L’Ituc, che è stata fra i principali accusatori del sistema kafala, pudicamente anglicizzato in sponsorship ma traducibile in semischiavitù, ha cambiato rotta in modo sensibile da cinque anni in qua. Fino al 2018 il Global rights index che ogni anno il sindacato mondiale dedica alla situazione dei diritti dei lavoratori nel mondo inseriva il Qatar in fascia 5 su una scala che partiva dai Paesi più avanzati, fra i quali l’Italia, a quota 1.
Peggio del voto 5 c’è solo 5+, una fascia dove figurano nazioni dove non esiste più una legge se non quella della guerra, come Siria, Yemen, Libia o Sudan. Dopo essere sparito dall’edizione 2019 perché «il Paese stava affrontando un periodo di rapide riforme legislative», a detta dell’Ituc, il Qatar torna a essere valutato nel rapporto del 2020 e citato fra le nazioni che hanno fatto passi avanti. Il voto migliora da 5 a 4, una fascia che peraltro segnala i luoghi dove esistono «sistematiche violazioni dei diritti».
A metà del 2022, pochi mesi prima dell’inizio del Mondiale di calcio, il rapporto Ituc tiene il Qatar fermo in fascia
Oltre all’Ituc, anche l’International labour organization (Ilo), l’agenzia specializzata delle Nazioni unite, ha messo il bollino di qualità sul Mondiale. Il 4 dicembre 2022 a Doha il dg dell’Ilo, l’ex premier del Togo Gilbert Houngbo, ha lodato lo sforzo del Qatar «per i progressi fatti negli ultimi anni».
Ancora prima era arrivato il placet del comitato di verifica creato dall’Uefa, che ha verificato quanto gli hanno lasciato verificare. Dopo di che, tutti davanti al televisore ad ammirare le magnifiche quattro arrivate alle finali, incluso quel Marocco che ha potuto affrontare le avversarie come se giocasse in casa grazie a una sorta di rara solidarietà panaraba.
La pista dei magistrati belgi è delineata in modo chiaro. Un gruppo di politici e sindacalisti ha aiutato l’emirato del Golfo a sciacquare i panni dei diritti. L’elemento unificante di questo gruppo, oltre alla
militanza a sinistra, è la lingua di Dante. Senza cadere nel folklore razzista sulla dotazione etica dei popoli mediterranei, è nelle cronache la campagna di investimento della famiglia al-Thani tra Francia, Italia e Grecia dove il padre di Tamim, l’ex regnante di Doha Hamad al-Thani, esordì nel 2013 con l’acquisto per diletto personale delle Echinadi, sei isole fra Itaca e Cefalonia. In Francia ogni anno il calciomercato del Paris Saint-Germain batte un nuovo record di spesa, senza grossi disturbi da parte degli organi di controllo finanziario dell’Uefa. Secondo Blatter, è stato proprio l’allora capo della Uefa, Michel Platini, a chiudere in una cena all’Eliseo del novembre 2010 l’accordo per Qatar 2022 con una contropartita che includeva un ordine di aerei da guerra made in France da 14,6 miliardi di dollari e, appunto, l’acquisto del Psg caro al presidente Nicolas Sarkozy.
E gli italiani? Sono note le vicende della Costa Smeralda dove la Qatar holding ha rilevato le attività turistiche in Costa Smeralda di Karim Aga Khan, guida spirituale degli ismailiti e dunque di quell’Islam sciita che gli al-Thani, pur essendo sunniti, hanno frequentato con alleanze sgradite al blocco americano-saudita, come quella con l’Iran o con gli Hezbollah libanesi.
Ma Tamim al-Thani non disdegna forme audaci di trasversalità confessionale tanto da condividere la compagine sociale dell’ospedale privato sardo Mater Olbia, guidato dalla Qatar Endowment foundation con la Fondazione padre Agostino Gemelli.
Nell’immobiliare si segnala anche l’investimento in Coima Res, la società di Manfredi Catella che ha messo a disposizione il maxischermo per seguire i Mondiali in piazza
Gae Aulenti a Milano in collaborazione con il consolato qatariota. Infine, c’è un interesse dichiarato per la Sampdoria penultima in serie A. La situazione del club doriano è tutt’altro che chiara. Ma la ricostruzione dei passaggi di proprietà tra football e industria è suggestiva.
La Samp è stata ceduta dalla famiglia Garrone nel 2014 a Massimo Ferrero, romano e romanista, ignoto in Riviera fino a quel momento. Il club blucerchiato è passato di mano due anni dopo che i Garrone avevano incassato 400 milioni di euro per la cessione della raffineria Isab di Priolo Gargallo (Siracusa) al colosso russo Lukoil.
Oggi l’invasione dell’Ucraina ha portato al blocco dell’I-
sab che è sul mercato con un’offerta da parte del qatariota Ghanim bin Saad al Saad, introdotto da una pattuglia di consulenti fra i quali spicca Massimo D’Alema, riferimento politico di Panzeri quando il sindacalista bergamasco era baluardo del riformismo con il suo “gruppo dei 49” contro le segreterie di Sergio Cofferati e di Guglielmo Epifani.
Si vedrà presto se Sampdoria e Isab finiranno sotto la bandiera qatariota. Di sicuro la diplomazia del calcio ancora una volta si è dimostrata un’arma vincente. Soprattutto quando si abbina ai sacchi di denaro.
di FEDERICA BIANCHI
Se la credibilità europea finisce in sacchi di banconote
Ha ragione la presidente Roberta Metsola quando dice che il Parlamento europeo e la nostra democrazia sono sotto attacco. Le interferenze straniere, che non si fermano certo al Qatar, rischiano di rendere l’Europa un’Unione insignificante e ipocrita: da una parte difende i diritti umani, dall’altra imbusta i suoi valori in sacchi di banconote. Un Continente che mette in vendita non solo le sue squadre di calcio ma perfino la sua anima.
Questa volta le parole non bastano più: è tempo di cambiare le regole. Per salvare il Parlamento europeo e con esso le istituzioni europee tutte. Perché, se da una parte l’aumento delle interferenze e delle lobby straniere riscontrato negli ultimi anni testimonia l’accresciuta importanza di Bruxelles nel mondo, e con essa del ruolo giocato dal suo mezzo miliardo di cittadini, dall’altra non è più possibile giocare in serie C. È tempo di fare un salto di qualità. Tre le misure da prendere per regolare quello che è diventato il secondo flusso di influenze più grande al mondo, dopo Washington.
Innanzitutto la creazione di un registro obbligatorio della trasparenza per gli incontri che gli europarlamentari hanno con i portatori di interessi, inclusi i diplomatici stranieri, dentro e fuori l’Europarlamento: in quanto espressione della volontà dei cittadini europei hanno il dovere di rendere noto come si formano le loro opinioni. Parallelamente, potrebbe essere opportuno rimettere in questione i cosiddetti lavori a latere: i parlamen-
L’elezione di Roberta Metsola alla presidenza del Parlamento europeo, il 18 gennaio 2022
tari hanno facoltà di mantenere altre attività durante il corso del loro mandato, nonostante si possano trovare in situazioni di palese conflitto di interesse o sottrarre tempo e risorse all’attività legislativa. Secondo i dati di “Transparency International” tra i primi venti maggiori percettori di redditi esterni (circa un quarto dei deputati svolgono attività parallele retribuite) ci sono sei eurodeputati italiani. Al secondo posto, tra i più facoltosi c’è Sandro Gozi, con redditi inclusi in una forchetta compresa tra i 360 e i 720 mila euro. Più in basso, dal tredicesimo al diciassettesimo posto, con redditi tra i 60 e i 120 mila euro, si collocano Simona Baldassarre, Luisa Regimenti, Giuliano Pisapia, Angelo Ciocca e Alessandra Moretti.
Infine, come proposto recentemente anche da Alberto Alemanno, fondatore di The Good Lobby, e oggi avanzato dalla presidente dell’Euro-
camera nell’auspicare riforme profonde, è il momento di instaurare un’autorità etica indipendente composta da ex membri della Corte di giustizia e da mediatori con l’incarico di monitorare le attività di lobby e l’autorità di comminare sanzioni, così da svolgere un’autentica azione di deterrenza. Ancora meglio se l’Authority fosse comune e potesse monitorare l’attività delle principali istituzioni europee con una visione a 360 gradi di ciò che avviene all’interno della bolla europea. Anche perché le indagini della polizia sono incorsoepotrebberoprestoestendersi al di fuori dei confini del Parlamento, toccando altre istituzioni.
Mai momento è stato più propizio per mettere fine a una cultura dell’impunità che si è diffusa nel labirinto degli europalazzi: ancora una volta l’Europa avanza spinta da una crisi. Questa volta tutta interna alle élite.
Che cosa rende il calcio così affascinante? Non sono forse quei momenti in cui il gioco viene completamente da sé, in cui gli spettatori si dimenticano di se stessi e si lasciano sorprendere da rovesciate, salvataggi geniali o passaggi da sogno? Sono momenti imprevisti di beatitudine, quando Davide vince contro Golia e all’improvviso non conta più nulla di ciò che potrebbe rovinare il piacere del calcio.
Anche la Coppa del Mondo in Qatar ci ha dato questa felicità. È stato bello vedere, ad esempio, una squadra sfavorita come il Marocco riuscire a battere la Spagna e il Portogallo, apparentemente troppo forti, o vedere il portiere Bono diventare il match-winner ai rigori e assicurarsi un posto nella galleria degli eroi della Coppa del Mondo per sempre. Il torneo in Qatar aveva bisogno di momenti come questo più di qualsiasi altro torneo. Mai una Coppa del Mondo è stata così odiata dagliamantidelcalcio.Quasinessunovoleva entusiasmarsi per le partite giocate in inverno in uno Stato desertico che ha fornito la squadra ospitante più debole di sempre e i cui tifosi hanno lasciato lo stadio molto prima della fine della partita quando era chiaro che la loro squadra stava perdendo.
Le critiche europee a questa Coppa del Mondo sono arrivate tardi. Dodici anni fa, il Qatar ha vinto la gara d’appalto in condizioni strane. Sono stati concessi dodici anni per protestare ad alta voce contro le violazioni dei diritti umani, l’omofobia e le condizioni di lavoro non dignitose. Dodici anni non sono bastati alle potenti federazioni europee per usare il loro potere contro la Fifa e il suo controverso presidente Gianni Infantino e impedire questo torneo.
Solo poche settimane prima della partita inaugurale, le menti critiche si sono svegliate e hanno agito come se avessero appreso allora degli abusi in Qatar. Le emittenti, che avevano pagato ingenti somme di denaro per i diritti di trasmissione, si sono improvvisamente trovate a dover raccontare di movimenti che chiedevano il boicottaggio televisivo dei Mondiali. Dal canto loro i giocatori, che considerano la Coppa del Mondo come l’apice della loro carriera, si sono improvvisamente sentiti obbligati a fare dichiarazioni politiche e a pensare a fasce arcobaleno o per un solo amore.
CALCIO E IPOCRISIA
Ci si è accorti solo ora dei problemi di diritti umani in Qatar, dodici anni dopo l’assegnazione. Le potenti federazioni europee non hanno fatto sentire la loro voce
DI RAINER MORITZ
L’AUTORE
Rainer Moritz è il direttore della Literaturhaus di Amburgo. Da giovane è stato arbitro di calcio e aveva un debole per Giacinto Facchetti. È membro del TSV 1860 Monaco, scrive recensioni letterarie per la Neue Zürcher Zeitung e libri sul calcio, tra le altre cose
Lo sport, in particolare il calcio, è sempre stato il palcoscenico migliore per i doppi standard. È noto da tempo che il commercio governa il calcio globale e che i tifosi non sono altro che un male necessario. Nessuna indignazione morale potrà essere utile contro lo strapotere del denaro. Se non si può impedire un torneo in Qatar, non ha senso fare dell’indignazione morale a due settimane dal calcio d’inizio. Nelle ultime settimane abbiamo assistito a messinscene in cui sono state dichiarate banalità apparentemente importanti.Adesempio,quandolaministradell’Interno tedesca, Nancy Faeser, ha indossato una fascia arcobaleno durante un incontro conilpresidentedellaFifaInfantino,sièfatto credere che avesse compiuto un grande atto di coraggio politico.
Ma forse si può anche riconoscere un progresso in questa indignazione, anche se ipocrita. Il fatto che si sia discusso delle implicazioni morali del Qatar come Paese ospitante segnala almeno che la coscienza pubblica non accetta più tacitamente ogni imposizione. Nel 1978, quando i Mondiali di calcio si svolsero in Argentina, un Paese governato da una brutale giunta militare, ci fu un diffuso silenzio, si ripeté la vecchia storia dello sport che non aveva nulla a che fare con la politica. Oggi quasi nessuno ci crede.
Le partite di calcio regalano esperienze di felicità anche in condizioni poco dignitose e i
tifosi non vogliono perdersi queste esperienze di felicità, pur in tali condizioni poco dignitose. In tempi in cui i movimenti nazionalisti stanno guadagnando terreno ovunque, una Coppa del Mondo serve sempre a rafforzare simbolicamente le nazioni in lotta. Se il Marocco gioca meglio del previsto, fa piacere al popolo marocchino e accresce la sua fiducia in se stesso; se l’Inghilterra si comporta bene, fa dimenticare per un po’ la disastrosa gestione del Paese negli ultimi anni.
La Germania ha sperato invano di ottenere una spinta simbolica da questa Coppa del Mondo. La politica e il calcio sono sempre stati stranamente legati in questo Paese. Se si giocava bene, il Paese andava bene. Se si vinceva un titolo di Coppa del Mondo, l’autostima aumentava automaticamente. È il caso del 1954, quando la sorprendente vittoria sull’Ungheria in finale fu percepita come una sorta di reintegrazione nella comunità delle nazioni. E così è stato nel 1990, quando la Germania è diventata campione del mondo proprio nell’anno della riunificazione dei due Stati tedeschi e l’allenatore Franz Beckenbauer ha dichiarato con arroganza di essere virtualmente invincibile in futuro.
Questa arroganza è stata vendicata amaramente: ci sono voluti più di vent’anni perché il calcio tedesco raggiungesse di nuovo il livello mondiale e vincesse il suo ultimo titolo nel 2014. Il fatto che la Germania sia stata
IL TEMA
Mai una Coppa del Mondo è stata così odiata dai tifosi, mai è stata così criticataanche se le critiche europee sono arrivate troppo tardi, dodici anni di ritardo, per essere precisi. Per i rappresentanti europei, gli abusi in Qatar sono apparsi come una grande novità - per alcuni il Paese rappresentava addirittura uno Stato modello. Ma quest’ambiguità non è una sorpresa: lo sport, in particolare il calcio, è sempre stato il palcoscenico migliore per i doppi standard
eliminata per due volte di fila nelle fasi preliminari della Coppa del Mondo - nonostante abbia giocatori eccezionali e rispettati a livello internazionale - è più di un fallimento sportivo: mostra la debolezza strutturale di un intero Paese che si sente segretamente un campione del mondo a cui è stato impedito di vincere e che in realtà offre una prestazione debole su molti livelli. Non è un caso che la Germania abbia fallito per anni anche su un altro palcoscenico simbolicamente carico: l’Eurovision Song Contest, dove la gente si è abituata a vedere i rappresentanti tedeschi piazzarsi fra i perdenti per anni.
L’Italia, che è mancata molto a questa Coppa del Mondo, non ha bisogno di porsi tali domande. Non ha partecipato e quindi non ha dovuto lottare per il riconoscimento sportivo e simbolico. E del resto, in Italia si poteva osservare in tutta tranquillità come altrove si fosse riaperto il barile della politica e degli atteggiamenti e si fosse assistito al boom dei predicatori morali e dei saputelli che - tratto tipico del nostro tempo - credono sempre che la coscienza giusta sia dalla loro parte.
Per inciso, i Mondiali di calcio del 2026 si svolgeranno in Canada, Messico e Stati Uniti. Ci saranno certamente occasioni di indignazione morale...
Traduzione di Amanda Morelli
Barili di greggio nell’appartamento
Sono sempre più inquietanti i retroscena dello scandalo Qatargate al Parlamento europeo. I primi sospetti sono nati quando un folto gruppo di deputati ha preso l’abitudine di presenziare alle sedute con il caratteristico copricapo degli sceicchi, il ghutra, dopo avere legato il dromedario agli alberi circostanti. Un comportamento anomalo che ha insospettito il giudice belga Antoon De Pieter, inflessibile pubblico ministero. Anche i barili di greggio trovati, durante le perquisizioni, negli alloggi di alcuni degli indagati, hanno confermato l’ipotesi di una influenza illecita dei Paesi arabi nel Parlamento europeo.
Marius Church Uno degli indagati, il laburista Marius Church, è stato sorpreso dalle forze dell’ordine mentre tentava di liberarsi, al loro arrivo, del maltolto, buttando nel gabinetto le sue concubine. Tentativo maldestro per almeno due ragioni: la prima è che le concubine non passavano dal condotto e alcune, le più prosperose, non entravano nemmeno dalla porta del bagno. La seconda è che una di esse, ex campionessa di judo, si è rivoltata e ha messo con la testa nel water lo stesso Church, attualmente ricoverato in prognosi riservata e piantonato dall’Interpol.
La difesa «Una normale attività di lobbismo, simile a tante altre». Così si difendono alcuni degli imputati. In effetti, i precedenti ci sono. Forti sospetti destò la febbrile attività di alcuni europarlamentari per dichiarare il wurstel “cibo dietetico” e per depenalizzare lo yodel, il canto tradizionale delle Alpi germanofone che in quasi tutti i paesi del mondo è considerato un crimine contro l’umanità. Poco chiaro anche il tentativo, trasversale in tutti gli schieramenti, di promuovere nelle scuole di tutto il continente, a partire dalle materne, l’acquisto, come materiale scolastico, di automobili di grossa cilindrata. Venne dimostrato che i promotori del progetto di legge avevano a disposizione, già da mesi, le ammiraglie delle principali case produttrici europee, con autista. E con questo? Forse che l’attività lobbisti-
I fusti trovati negli alloggi degli indagati, così come l’abito da sceicchi indossato da alcuni deputati, lasciano ipotizzare l’interferenza indebita di Paesi arabi
ca non è consentita, da secoli, proprio nelle democrazie di grande tradizione?
L’accusa Per il giudice De Pieter, e per i numerosi giornalisti al seguito, il lobbismo non è una giustificazione. «Tutti abbiamo l’hobby di qualcosa - dichiara De Pieter - ma non per questo dobbiamo sentirci assolti. L’innocente è solo un colpevole che per adesso l’ha fatta franca, come dice il mio collega Dawighen. Bisogna alzarsi dal letto, ogni mattina, sentendosi loschi. Sporchi dentro. Prima o poi un’inchiesta ti spiegherà perché».
L’opinione pubblica Come sempre è divisa in due fazioni: una favorevole all’impiccagione preventiva di qualunque parlamentare, per impedirgli di delinquere a prescindere dalle sue intenzioni. L’altra che difende a spada tratta il diritto di ricevere valigie di banconote come simbolica riconoscenza del proprio impegno per una giusta causa: la politica ha dei costi, voi non avete idea di quanto sia alto, a Bruxelles, l’affitto di un attico con giardino pensile ed eliporto. Chiunque manifesti una posizione intermedia è oggetto di disprezzo e di scherno da ambedue le parti. Per i parlamentari coinvolti nel Qatargate, di conseguenza, l’alternativa è tra l’esecuzione capitale, con sputo sul cavadere e dileggio dei figli da parte dei compagni di scuola, e l’ovazione, con conseguente nomina a Martire, se deceduti, o a premier, se viventi. Tutto quello che sta nel mezzo non è preso in considerazione, tanto che si sta pensando di riaccorpare i gruppi parlamentari europei in due nuovi e vasti schieramenti.
I nuovi gruppi Non più destra, centro, sinistra, categorie vecchie, ma Colpevoli e Innocenti. Secondo i sondaggisti sono queste le due fazioni, soprattutto sui social, in grado di appassionare la pubblica opinione, coinvolgendola nuovamente nella politica dopo anni di indifferenza. «È il solo rimedio possibile alla crisi della politica», spiega il celebre politologo Levi-Pumkin. «I parlamenti sono luoghi noiosi, è importante vivacizzarli».
CONGRESSO SPACCA FAMIGLIE
lla fine del percorso, nel Partito Democratico soltanto una famiglia riuscirà a non spaccarsi: quella di Dario Franceschini. L’esito abbastanza paradossale del congresso appena cominciato - in un partito squassato dal Qatargate che ha messo nell’occhio del ciclone ancora una volta la sinistra, europea ma anche italiana - con la corsa per la segreteria tra Stefano Bonaccini ed Elly Schlein (tecnicamente c’è anche Paola De Micheli, probabile terza) e le primarie fissate per il 19 febbraio, è contenuto nella amara iperbole fatta alla vigilia della riunione di AreaDem chiamata giovedì scorso a certificare la situazione quanto meno inedita della corrente dell’ex ministro della Cultura che Matteo Renzi ai tempi di Veltroni battezzò «vicedisastro», l’ala da sempre la più protei-
forme e flessibile tra quelle del partito democratico. L’esito, il segno del tempo, è una spaccatura mai vista, che è destinata a posizionare dalla parte di Schlein certamente Franceschini e sua moglie Michela De Biase, neodeputata dem tra i pochi presenti al lancio della candidatura della ex presidente dell'Emilia Romagna al Monk di Roma, come pure la decana Marina Sereni, ma non ad esempio l'ex segretario Ds Piero Fassino, schierato con il presidente dell’Emilia Romagna. Mentre gli zingarettiani sono sostanzialmente pro Schlein (non però il sindaco di Roma Roberto Gualtieri), si presentano spaccati anche i lettiani: Marco Meloni ed Anna Ascani si avviano verso Bo-
naccini, e invece il vicesegretario ombra di Enrico Letta, Francesco Boccia, già suo responsabile per gli enti locali, è in predicato per assumere la posizione ambita di coordinatore della mozione di Schlein, la quale come si sa gode dell’appoggio (silente) del segretario dimissionario.
Per ironia della sorte di un partito condannato da sempre a fare i conti con la versione più complicata di se stesso, la disposizione in campo delle due candidature emiliano-romagnole ha messo in scena un assetto nel quale un nuovo Pd ancora non esiste (sarebbe forse quello cui il sindaco di Bologna Matteo Lepore vuol aggiungere la parola “lavoro”), ma dove il vecchio Pd tende a rinculare nelle precedenti appartenenze - Ds, Margherita e le loro sfumature - anche perché si sente a disagio, fatica a trovare una collocazione in questo panorama, ci rinuncia. È la tenden-
za più evidente, che va molto oltre il reciproco rimpallarsi tra Schlein e Bonaccini del falso problema su dove ricada il peso delle «correnti» e delle varie «anime» (correnti e anime sono inscindibili dal Pd, coincidono col partito). La si vede, la tendenza, per un verso dal nervoso agitarsi nella penombra di tanti retroscena di uno come Goffredo Bettini, ufficialmente in tour con il suo libro ("A Sinistra. Da capo", praticamente il sogno di tornare al Pci) e impegnato come dice lui a «contribuire con le mie idee al confronto generale della costituente», solo dopo aver però tentato invano di far candidare prima l’ex ministro del Lavoro Andrea Orlando e poi il sindaco di Pesaro Matteo Ricci.
Una estraneità anche insofferente di cui, per altro verso, è un esempio lampante Pierluigi Castagnetti. Tra i grandi vecchi del Pd, ultimo segretario del Ppi, tra i fondatori
Schlein e Stefano Bonaccini, i due principali candidati alla segreteria del Pd. Lui è Presidente della regione Emilia-Romagna, lei è stata vicepresidente fino all’ottobre scorso, quando si è dimessa dopo essere stata eletta alla Camera
Dario Franceschini e, in alto, Goffredo Bettini. L’ex ministro della Cultura è apertamente schierato per Schlein, mentre “l’eminenza grigia” del Pd romano ha cercato invano candidati alternativi
della Margherita, amico del capo dello Stato Sergio Mattarella e per questo avvezzo alla prudenza di non rilasciare dichiarazioni, si è specializzato nello sport estremo di parlare via tweet. Eloquenti i suoi ultimi messaggi, meglio di un editoriale. «COSTITUENTE (?) DEL PD. Un gruppo di nominati, in buona parte neppure elettori, che attraverso la modifica di statuto e carta dei valori vuole far cambiare natura al Pd. Ma se cambia natura non è più il Pd. Semplice. Fermate la giostra, per favore», ha scritto il 4 dicembre.
Una fortissima critica a come il Pd sta conducendo se stesso dentro il congresso («non è più il Pd», «fermate la giostra»), alla quale non è peraltro estraneo un altro pezzo pregiato del Pd prima maniera come Arturo Parisi (istruttivo peraltro anche il suo, di profilo twitter, con tutti quei riferimenti a Massimo D’Alema). Una critica che aleggerà anche alla prossima riunione dell’associazione “I Popolari”, prevista per lunedì 19 all’Istituto Sturzo a Roma e aperta da Castagnetti, il cui eloquente titolo sembra il preannuncio di un
vena polemica, quella che in altri tempi, regnante Matteo Renzi, lo portò per esempio a dire che politicamente la sua casa era «una tenda» via via sempre più lontana dal partito democratico.
Il “neneismo”, il sentirsi a proprio agio né con Schlein né con Bonaccini, è quello che ha spinto Gianni Cuperlo addirittura a ipotizzare di scendere in campo in prima persona, tipo mossa della disperazione. Segno di un ciclo che appare finito, testimonianza di un vuoto che nessuno dei due candidati è riuscito finora a riempire, stando entrambi sostanzialmente pari come gradimento sia tra gli elettori del Pd sia nel resto del mondo, come ha certificato un sondaggio dell’Swg. Un vuoto che ha portato in questi giorni a uno schierarsi sull’ipotesi meno azzardata di Bonaccini da parte di tanti amministratori locali (una specie di partito dei sindaci in tono minore, da Dario Nardella a Giorgio Gori, da Enzo De Caro a Stefano Lo Russo), più a loro agio nel rimescolare le tessere già note che nel mettersi a spiegare perché puntare su una politica, come Schlein, che la tessera del Pd l’ha appena ripresa e deve gestire questo suo lato “marziano” nei rapporti con un partito che non le ha ancora preso le misure.
polemico ritiro dalle scene: «I cattolici democratici nella politica di oggi: ancora utili all’Italia?». Tutto un programma visto che nel frattempo tra i tweet, si presenta come ancora meno felpato (sembra quasi un fake) quello del 13 dicembre: «IL NUOVO? LA RADICALITÀ? Ma decchè? Tornate a ZACCAGNINI e BERLINGUER. Ma studiateli bene. Che poi gli elettori interrogano!», ha esclamato il segretario dei Popolari, accantonando di botto con un «de che» scritto alla reggiana sessant'anni di risposte posate e pensose riflessioni.
Preoccupato appare anche Romano Prodi, che in una paginata de La Stampa ha fatto (ri)sapere in settimana di non voler parteggiare né per Schlein né per Bonaccini. Prudentemente distante, l’ex premier simbolo dell’Ulivo che sconfisse per due volte Silvio Berlusconi, anche dalla sua propria generosa
È proprio questo fenomeno, l’accoccolarsi su quello che ha chiamato «l’usato sicuro» rappresentato da Stefano Bonaccini, uno dei motivi che invece ha spinto Franceschini a optare per Schlein: «Elly è il rischio, ma in questa fase il Pd o rischia o muore», ha detto l’ex ministro. Anche in virtù - e visto l’uomo non appare strano - di un preciso calcolo.
Se il corpaccione del Pd si schiera con Bonaccini nel congresso e nel voto dei circoli, e se Schlein invece riesce a mobilitare la società civile fuori dal Pd per il secondo tempo, cioè per le primarie, la partita rischia di finire con una vittoria di lei che sconfessa la linea dei dirigenti dem, e dunque anche il loro ruolo dentro al Pd. Una specie di rottamazione nei fatti dell’attuale gruppo di testa democratico. Rispetto alla quale Franceschini si troverebbe in posizione di vantaggio, avendo scelto l’altro cavallo: posizione nella quale si ritroverà comunque, vista la scarsa durata attribuita al prossimo segretario del Pd (chiunque sia) e visto il precedente di Matteo Renzi, che perse la prima volta le primarie per vincere poi la seconda (con l’appoggio di Franceschini, guarda caso).
Così Meloni sull’evasione dimentica l’agenda Draghi
Eperò quando si tratta di tasse e di evasori, ma guarda un po’, Giorgia Meloni dimentica l’agenda Draghi, pur invocata per giustificare prudenza nei conti o assolversi dai ritardi del Pnrr. Succede con la manovra di bilancio in corso, e toccando due moloch del contribuente poco fedele: le cartelle esattoriali e il Pos. Un ampio condono per le prime - se non avete pagato siete perdonati - e un notevole alleggerimento per il secondo, proprio ora che si fanno più stringenti i controlli del fisco. Come ha fatto? Attenzione ai dettagli.
Le cartelle esattoriali, cioè le notifiche di pagamento per tasse e contributi evasi dagli italiani, e ormai dovuti al termine di un’estenuante procedura di ricorsi e contenziosi, sono una montagna e un tesoro: 137 milioni di cartelle, per un totale di 1200 miliardi di euro, spicciolo più spicciolo meno, accumulati in vent’anni da 18 milioni di morosi. Uno ogni tre italiani, bambini compresi: è come se in ogni famiglia si nascondesse un evasore, o comunque uno che deve soldi allo Stato, cioè alla sanità, alla scuola, alle pensioni di tutti.
Stato dice addio a 415 miliardi. Due Pnrr. Non solo. Chi dopo il 2015 avesse accumulato debiti superiori ai 1000 euro può pagare il dovuto senza sanzioni né interessi e in cinque comode rate annuali. Con l’inflazione è un doppio regalo.
Intendiamoci, buona parte di quei crediti lo Stato non sarebbe mai riuscito a incassarli. Perché? Le risposte sono in un dettagliatissimo rapporto inviato un anno e mezzo fa al Parlamento dal ministro dell’Economia Daniele Franco e lì dimenticato. Proviamo a riassumere.
Fino al 2006 a occuparsi di quel tesoro erano una trentina di privati, per lo più banche; poi è subentrata Equitalia e, infine, dal 2017 l’Agenzia della Riscossione, ramo distaccato dell’Agenzia delle Entrate. Le cose,
CONDONI, GIÀ FATTI O ANNUNCIATI. LIMITI AL POS. CONTANTE. CON LE NUOVE MISURE DEL GOVERNO SI CONFERMA CHE IN ITALIA NON PAGARE LE TASSE CONVIENE
L’Agenzia della Riscossione, che affianca quella delle Entrate, fatica assai a smaltire questa caterva di carte e a incassare ciò che le è dovuto. E così, ogni tanto, il governo che fa? Rottama, cioè rinuncia a una bella fetta di quei crediti: alleggerisce il fisco, sì, ma soprattutto fa un regalone ai furbi che non hanno pagato tasse, contravvenzioni, contributi, imposte. Negli anni passati, per esempio, a furia di doni e regalìe, da quella montagna sono stati spalati 300 miliardi. Un Pnrr e mezzo.
Anche Draghi si apprestava a fare qualcosa di simile, ma in modo ben diverso da come lo sta facendo Meloni. Draghi prevedeva di stralciare le cartelle del periodo 2000-2010 inferiori ai 5mila euro purché riguardassero cittadini e imprese con un reddito inferiore ai 30mila euro. A tutela di chi è più in difficoltà. Con Meloni le cose cambiano, si arriva fino al 2015 e sotto i 1000 euro, ma il limite di reddito non c’è più. Che il moroso sia un Gennaro Esposito o un Elon Musk fa lo stesso. E così lo
certo, sono migliorate. Se i privati portavano a casa tre miliardi l’anno ed Equitalia sette e mezzo, la Riscossione ha superato gli undici: dialogo più stretto con le Entrate (non sarebbe meglio unificare le due Agenzie?), migliore organizzazione e, finalmente, la possibilitàconcessa dal governo Draghi pur se con limiti e garanzie - di incrociare le informazioni delle banche-dati fino ad allora vietate dal Garante della privacy. E però se ogni anno si recuperano undici miliardi, ecco che arrivano cartelle da smaltire per altri 70-80 da enti associazioni Comuni Regioni Casse di previdenza che un tempo si affidavano ai privati.
Alcune norme, studiate a garanzia del contribuente quando la gestione era privata, andrebbero aggiornate. Oggi la procedura è lenta e macchinosa, è difficile cancellare crediti inesigibili (per vecchiaia, decessi, fallimenti, nullatenenti) e le armi a disposizione del fisco sono spuntate. Esempi? Se un anno dopo la notifica il
pagamento non c’è stato, bisogna rifare l’iter daccapo; gli eventuali pignoramenti, poi, si decidono al buio: a febbraio-marzo di ogni anno le banche consegnano all’Agenzia una fotografia dei conti correnti (il dato riguarda la giacenza media) fino al 31 dicembre dell’anno prima, così quando il fisco si muove quel conto può essere ormai vuoto.
E se i soldi ci fossero? Se sono proventi da lavoro, non si possono toccare. In caso di crediti ingenti una banca può rivalersi sulla prima casa, lo Stato no. Per non dire dei ricorsi e dei tempi della giustizia. Al resto pensa la prescrizione. Quasi sempre, ci mancherebbe, si tratta di norme studiate a difesa del cittadino in difficoltà, ma si applicano a tutti: procedure, norme e poteri sono le stesse per un debito da 100 o 100mila euro, maturato ieri o vent’anni fa. A discapito di efficienza e risultati. E a vantaggio dei soliti furbetti. Che brillano anche nella incredibile saga del Pos. Eccola.
A introdurre il pagamento elettronico è Mario Monti nel 2012, ma a partire dal 2014, e senza obbligo né sanzioni: al loro buon cuore. Ci riprova il governo Letta ed è il ministro Zanonato, Pd, a fissare per la prima volta un tetto minimo di 30 euro. E le sanzioni? Dimenticate. Allora tocca al governo Renzi, 2015, ma il Consiglio di Stato lo ferma: un decreto ministeriale non basta, occorre una legge. Che però non si fa. Nel 2019 arrivano i giallorossi di Conte e propongono sanzioni: ma chi si oppone? I Cinque Stelle. Onestà-tà-tà.
Alla fine, 2022, è Draghi a imporre e obbligo e sanzioni. Però manca ancora un tassello. La macchinetta si limita a segnalare alla banca l’arrivo di un bonifico e non sempre c’è una ricevuta fiscale a dimostrarlo. Così era stato deciso che anche il Pos trasmettesse notizia dei pagamenti al fisco come già avviene con quelli registrati da una cassa elettronica. In tal modo sarebbe possibile incrociare i dati e verificare che al fatturato complessivo corrispondano altrettanti scontrini fiscali. Data fissata per questa piccola rivoluzione, rinvio dopo rinvio, il 30 novembre scorso. Ma nel frattempo al governo sono arrivati Meloni & C. e il tetto minimo per i pagamenti con il Pos è diventato un grande problema…
La Banca d’Italia ha criticato i troppi “segnali” del governo Meloni che rischiano di incoraggiare l’evasione. Troppi: condoni (fatti e annuciati); Pos limitato; contante più libero; flat tax più generosa (15 per cento) per le partite Iva; aliquota fiscale dimezzata sugli utili maturati dalle aziende all’estero; aliquota ridotta dal 26 al 14 per cento sulle plusvalenze in caso di vendita di fondi e polizze… Mentre si ciancia di poveri e disuguaglianze, il reddito dichiarato al fisco è in media di 21mila euro e 5 milioni di italiani, il 13 per cento dei contribuenti, quasi tutti pensionati e lavoratori dipendenti, versano il 60 per cento dell’Irpef totale. Per le tasse una volta si facevano le rivoluzioni, oggi è più semplice non pagarle. Chi può.
POLVERIERA FORZA ITALIA
Avviso al lettore su contenuti sensibili: il testo che segue descrive attori e fattori che possono turbare il placido andare del governo di Giorgia Meloni e il frangibile consenso che avvolge i vincitori di ogni sorta di gara. Il racconto (una anamnesi) si svolge fra villa Grande di Roma e villa san Martino di Arcore, abitazioni private di Silvio Berlusconi e perciò domicili ufficiosi di Forza Italia.
IL FATTORE B. Novantuno. A volte lo scrive rimarcando i contorni, soprattutto dove i numeri sono curvi, altre lo dice con tono solenne e un po’ stupito. Novantuno. Ormai è un appunto che Silvio Berlusconi ha posto in cima ai suoi pensieri. La prossima campagna elettorale per il Parlamento, a scadenza naturale, ci
sarà nell’autunno del 2027. In quei giorni il Cavaliere avrà 91 anni. Questa è una legislatura di passaggio. Vuol dire che il suo contributo a Forza Italia sarà diverso. Non soltanto più sporadico. A settembre ha rimosso una pagina odiosa per la sua carriera politica con il ritorno da senatore dopo la decadenza per la condanna per frode fiscale. Al solito ha elargito imbarazzi e divertimento con i foglietti contro Meloni, le casse di Lambrusco, l’amico Vladimir Putin. Ha formato il governo. Ha assecondato la famiglia-azienda e Gianni Letta. Ha imposto i suoi ministri (tranne Licia Ronzulli). Il pieno di ricordi. Il vuoto di attese. E adesso. Il guaio è adesso. S’era intuito con le aspirazioni per il Quirinale, adesso - sì, adesso - è più chiaro: il Cavaliere vuole essere il fondatore, lo statista e il vecchio saggio. «Se Berlusconi avesse le tette farebbe anche l’annunciatrice» (Enzo Biagi). Non importa se pretestuose, eccentriche, legittime. Le aspirazioni sono un fatto. E lo sono per Meloni. «Il Cavaliere è spazientito». «Non mi ha consultato». «Neppure una telefonata». «Io avrei mediato». «Le avrei suggerito». Le cronache grondano già di lagne così. Non è un particolare per i feticisti dei retroscena. Ha un significato. Se Meloni non lo coinvolge, la reazione di B. non è prevedibile. A Mario Draghi è costata il Quirinale e pure il resto.
L’IRREQUIETEZZA DI BERLUSCONI. LA DEBOLEZZA DI TAJANI. LE AMBIZIONI DI RONZULLI. I DEBITI. GLI SCRICCHIOLII DEL PARTITO POSSONO METTERE IN PERICOLO LA STABILITÀ DEL GOVERNO
Il sobbollire del Cavaliere ha un tempo lento. Nel medio e lungo periodo provoca pericoli. Non subito. La sopravvivenza di Forza Italia. Questa è la priorità. Le cifre, di nuovo. È lo stesso Berlusconi che le ripete ai suoi dirigenti. Un italiano su venti ha votato noi e la Lega. Un italiano su cinque ha votato Meloni. Troppa distanza per manovre ardite. Ci vuole pazienza. Il Cavaliere ha ripreso a concionare
di partito Repubblicano sul modello americano. L’uomo non ha interrotto mai la sua convivenza con le smisurate ambizioni, ma stavolta non ci crede neanche. L’unica opzione è Matteo Salvini. Il Cavaliere lo reputa simpatico. Ne avverte la cagionevolezza politica. In Forza Italia hanno riesumato il tema di una federazione con la Lega. Se ne parlò lo scorso anno, ma gli ex ministri Mara Carfagna, Mariastella Gelmini, Renato Brunettafuoriusciti - erano inorriditi. La federazione/ fusione va spiegata semplice: ripulire i leghisti dagli ultimi residui sovranisti, condurli nel Partito Popolare Europeo, compilare liste unite per il voto per Bruxelles/Strasburgo (2024) e poi dividersi per aree geografiche. Al Nord i leghisti. Al Sud i forzisti.
IL FATTORE T.
L’ex monarchico Antonio Tajani ha più cariche che potere: vicepresidente del Consiglio, ministro degli Esteri, capodelegazione nel governo, coordinatore nazionale di Forza Italia. La sua giacca è trapuntata di medaglie e onorificenze e però la sua guarnigione in Fi ne ha patito le conseguenze. È disarmata e non decorata. Il deputato viterbese Francesco Battistoni non ha ottenuto un secondo mandato da sottosegretario all’Agricoltura. Il deputato ternano Raffaele Nevi ha presto riposto le sue aspettative. Invece Paolo Barelli, che ha sorvegliato con fideistica lealtà l’ascesa di Tajani, l’amico Antonio, è parecchio deluso. Era capogruppo alla Camera. Era in bilico fra ministro, viceministro e sottosegretario. E poi il niente. S’è pure beccato una squalifica di due anni per presunti illeciti dalla Federazione mondiale nuoto e la relativa sospensione - c’è il ricorso al Tribunale arbitrale dello sport - da presidente (lo è da 22 anni) della Federazione italiana. I colleghi forzisti lo sentono di rado e lo vedono ancora meno. Chissà se Barelli reciderà il legame con l’amico Antonio e di riflesso col partito. La sola ipotesi è spiazzante.
Tajani si è finalmente realizzato anche a Roma, era il suo cruccio, dopo l’abbondante raccolto in Europa con la presidenza del Parlamento e le nomine a commissario ai Trasporti e all’Industria. Gli manca la presidenza del Consiglio, approdo che ritiene spontaneo per il suo percorso. Non ha smesso di pensarci, ma è opportuno concentrarsi su altro. Sulle vicende estere, senz’altro e poi sul partito. Il Cavaliere non l’ha celebrato al pranzo di Natale. Gli ha gentilmente comuni-
PER CONTRASTARE IL PESO SCHIACCIANTE DI FRATELLI D’ITALIA IL CAVALIERE STA PENSANDO A UNA FEDERAZIONE CON LA LEGA DI SALVINI. DA PRESENTARE ALLE EUROPEE NEL 2024
COORDINATORE
Antonio Tajani è il coordinatore nazionale di Forza Italia. È anche vicepresidente del Consiglio e ministro degli Esteri
cato di aggiornarlo sulle questioni di governo e di procedere alla ricostruzione del partito nei territori (nemmeno un paio di giorni e il responsabile giovani, Marco Bestetti, ha mollato Fi e in Sicilia il presidente Renato Schifani e il senatore/consigliere regionale Gianfranco Micciché continuano a battibeccare). Tajani non ha più una rilevante influenza nel partito, l’asse con Licia Ronzulli si è incrinato. A febbraio si vota per le regionali in Lombardia e nel Lazio. Fi corre spedita verso un fallimento. Alle politiche ha preso una media dell’8,20 per cento. Nel Lazio, zona di Tajani, rischia di dimezzare i voti. Con l’agenda fitta di impegni e il partito spoglio di alleati, che farà il ministro-vicepresidente-capodelegazione-coordinatore-onorevole Tajani? Si nota la sua ricercata sintonia/empatia con Meloni. Normale. La domanda è un’altra: Tajani sarebbe in grado di organiz-
zare una pattuglia di Fi a sostegno del governo Meloni se il partito di B. dovesse rompere? Cioè Tajani è utile a Meloni?
IL FATTORE R.
R. sta per Ronzulli Licia e Renzi Matteo. Tajani è nel governo, Ronzulli no. Tajani aveva il compito di inserirla, veto o non veto di Meloni, e non ci è riuscito. La senatrice Ronzulli è capogruppo al Senato. Luogo dove nascono e muoiono i governi. S’è presto accorta che in quel ruolo bada al governo e al partito. Ha il vantaggio del tempo. E del tempo trascorso assieme a Berlusconi, alla quasi moglie nonché deputata Marta Fascina, ai senatori e - tramite il suo capogruppo Alessandro Cattaneo - ai deputati. Così può permettersi di distinguersi per coscienza dal governo. Come non votare per il reintegro dei medici sospesi perché non vaccinati al Covid. Un gesto per esse-
CONSIGLIERI
Gianni Letta.
In alto: la capogruppo di Forza Italia al Senato Licia Ronzulli. Sono tra i consiglieri più ascoltati da Berlusconi
re coerenti e per dimostrare che il partito ha senso se ha una linea riconoscibile su qualcosa. Altrimenti verrà fagocitato da Fratelli d’Italia. Un esempio. Fdi e Lega rinunciano a un pezzo degli elettori meridionali perché smontano con frenesia il reddito di cittadinanza, Fi lo difende (in passato no) e propone con insistenza l’aumento delle pensioni minime.
Per tanti motivi Forza Italia è un antico obiettivo di Renzi. Azione di Carlo Calenda e Italia Viva hanno un valore simile e una prossimità di elettorati. La legislatura è appena cominciata e discutere di un governo aperto a Carlo&Matteo è sciocco. Le posizioni sono ancora ben solide. E Meloni non è una politica che si smentisce. Si è presentata agli elettori con una coalizione di centrodestra e non cederà presto a tattiche di palazzo. Il cosiddetto dialogo con le opposizioni è materia differente. Calenda e Renzi ne hanno bisogno per non farsi schiacciare (anche se a sinistra non c’è nessuno), il governo ha il vantaggio di non apparire ideologico e chiuso in sé stesso. Sui temi della giustizia c’è ampia concordia fra Forza Italia e Azione/Italia Viva.
IL FATTORE F.
La famiglia Berlusconi è presente per interposto Gianni Letta. Viene definito ai margini o protagonista con cadenza regolare, dipende dall’io narrante che ispira i resoconti politici, però non è mai assente. Per Mediaset/Fininvest è deleterio avere cattive relazioni con i governi di qualsiasi tipo (quante ne ha smussate, Letta). Non è un’urgenza del momento. Per affrontare l’ultima campagna elettorale, i figli di Berlusconi hanno donato 500.000 euro a Forza Italia. Il partito ha debiti per 100,9 milioni di euro di cui 92,2 verso Berlusconi che, dopo l’abolizione dei rimborsi elettorali, ha dovuto estinguere i mutui con le banche. Ogni anno Forza Italia di Berlusconi incrementa gli interessi passivi col creditore Berlusconi. Il tesoriere Alfredo Messina, ex dirigente e amministratore in Olivetti, Alitalia, Iri con Romano Prodi e poi ai vertici di Fininvest, Mondadori, Mediaset e Mediolanum, non più candidato al Senato, sta per lasciare l’incarico. Con un debito ingestibile Forza Italia esiste finché vogliono Berlusconi e la famiglia Berlusconi. Il resto sono chiacchiere. Postilla. Se uno di questi fattori salta, il governo Meloni non rimane di certo immobile.
di PIETRO GRASSO
Con pm separati dai giudici rischiamo la super-polizia
Nessuna meraviglia se Carlo Nordio, in forza delle sue note idee sulla giustizia, prospetti nel suo discorso programmatico al Parlamento un vero e proprio stravolgimento dell’assetto organizzativo della magistratura, a partire dai temi storicamente delicati della separazione delle carriere, dell’obbligatorietà dell’azione penale -oggetto della riflessione odierna - e dell’uso delle intercettazioni, su cui conto di intervenire la prossima settimana. Se il ministro successivamente ha precisato che non intende fare alcuna guerra alla magistratura tuttavia l’ha attaccata frontalmente facendo cenno ad indicibili arbitrii, a inchieste inutili, a cittadini perseguiti per fare spettacolo, a un Csm cui va tolto il giudizio disciplinare, alla presunzione d’innocenza volutamente violata dalla carcerazione preventiva spesso usata come strumento di pressione investigativa, all’informazione di garanzia «diventata condanna mediatica anticipata» e infine all’azione penale «arbitraria e quasi capricciosa». Poi, di fronte alle critiche, ha precisato che si tratta, per fortuna, solo di pochi casi. E per questi pochi sarebbero addirittura necessarie riforme che abbatteranno i pilastri costituzionali su cui si é fondata sino ad oggi la magistratura?
con un solo passaggio possibile e per di più con cambiamento del distretto giudiziario. Di fronte alle critiche il ministro ha poi precisato di ritenere un’offesa personale la sola supposizione di voler spostare il pubblico ministero nell’orbita del potere esecutivo. Occorre allora che faccia alcune riflessioni: creare un corpo di pm separato dai giudici rischia di far nascere una super-polizia indipendente, pericolosa per la democrazia o ancora peggio controllata dal governo, che la potrà usare contro gli avversari. Il mantenimento del pm nell’alveo costituzionalmente protetto e riparato della giurisdizione conferisce invece all’esercizio obbligatorio dell’azione penale quelle garanzie di autonomia e indipendenza che non sono un privilegio di casta, ma una tutela per i cittadini onesti.
CON CARRIERE DIVISE E AZIONE PENALE DISCREZIONALE, IL PUBBLICO MINISTERO NON PUÒ CHE DIVENTARE IL BRACCIO ESECUTIVO DELLE FORZE
POLITICHE DOMINANTI
Sul tema della separazione delle carriere ho già ricordato che, nella mia esperienza personale, il passaggio dalla funzione requirente alla giudicante e viceversa mi ha dato un positivo arricchimento: tornare a fare il pm dopo aver fatto il giudice fa comprendere meglio le difficoltà di valutazione di una prova al vaglio del contraddittorio, e quindi valutare più criticamente se sia il caso di presentarla. Pertanto, sarebbe semmai utile prevedere un congruo periodo di partecipazione ad un tribunale collegiale prima di attribuire la funzione di pm a chi entra in magistratura.
La separazione delle carriere è ormai divenuta un totem ideologico, un segnale politico, dal momento che le carriere sono state già fin troppo diversificate
È vero, come afferma il ministro, che la riforma Vassalli del 1989 è di stampo accusatorio, con la diretta dipendenza della polizia giudiziaria agli ordini del pubblico ministero, ma ha mantenuto l’art. 358 c.p.p.: «Il pubblico ministero … svolge altresì accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta alle indagini». Questa norma è volta a rendere il più possibile imparziale l’attività investigativa del pm, che ha l’obbligo di non tacere al giudice l’esistenza di prove a favore dell’imputato: con un ossimoro, il pm è «parte imparziale». Il tema quindi riguarda il codice etico e la deontologia professionale del pubblico ministero, su cui auspico che possa intervenire il ministro Nordio, titolare di poteri ispettivi e dell’azione disciplinare (art.107 Cost.). Se - come ha affermato - siamo in presenza di «culpa in vigilando», chi meglio di lui potrà
Un magistrato all’inaugurazione dell’anno giudiziario in Cassazione
intervenire per eliminare le mele marce senza bisogno di riforme epocali?
Al contrario, se da «parte imparziale» vuol fare divenire il pm «parte parziale», antagonista rispetto all’imputato, allora l’espulsione dal circuito della giurisdizione è non solo consequenziale, ma addirittura necessaria. Ma la nostra cultura giuridica, lontana da quella anglosassone, potrà sopportare un processo accusatorio dominato da una logica di vittoria a qualsiasi costo e pronta a sacrificare le esigenze di giustizia sostanziale e di ricerca della verità? Sono sicuro che anche al magistrato Nordio, come a me, sia capitato di dover chiedere al dibattimento l’assoluzione dell’imputato. Dobbiamo rinunciare a questa possibilità?
Affermare - come ha fatto il ministro - che l’impossibilità per le procure di gestire migliaia di fascicoli si sarebbe trasformata in un «intollerabile arbitrio» che «conferisce alle iniziative, e talvolta alle ambizioni, di alcuni magistrati, per fortuna pochi, una egemonia resa più incisiva dall’assenza di responsabilità in caso di mala gestione» suona offensivo.
Già oggi i criteri di priorità sono una realtà e la riforma Cartabia ha attribuito un ruolo non secondario al Parlamento nell’approvazione dei criteri generali che definiranno la cornice entro cui le singole procure individueranno altri specifici criteri in relazione alle realtà criminali del territorio. È stata dunque tracciata la strada per un esercizio responsabile e trasparente della obbligatorietà dell’azione penale in termini compatibili con il dettato costituzionale.
Al contrario, ipotizzare in un unitario progetto separazione delle carriere e discrezionalità dell’azione penale lascia fatalmente intravedere un pubblico ministero onnipotente che, dovendo rispondere della accresciuta discrezionalità e nonostante le buone intenzioni del ministro, non può che diventare braccio esecutivo delle forze politiche di volta in volta dominanti. Occorre evitare il rischio che il potere di indagine usato da un soggetto non imparziale né indipendente possa costituire un vulnus per la democrazia, in quanto usato in modo strumentale per difendere gli amici e attaccare i nemici.
breve, di questo passo, vorrà rilasciare una intervista sulla battaglia di Adua del 1896 e magari anche una sul codice Zanardelli: «È del 1890, ormai è superato». Un po' come ha già detto per la legge Severino. Nell'attivismo caotico della maggioranza alle prese con le strettoie della sua prima finanziaria, spicca in effetti l'attivismo a parole da destra storica, tipo tuba e marsina, del ministro della Giustizia, Carlo Nordio. Tutto un programma ministeriale, sciorinato in questi giorni, che si stende davanti a lui (e a noi) con uno sguardo però completamente girato all'indietro. La giustizia secondo Nordio riguarda infatti questioni che pensavamo aver superato, risolto, limitato, archiviato o quanto meno tralasciato. L'abuso d'ufficio, le intercettazioni, le norme sulla corruzione, addirittura l'obbligatorietà dell'azione penale, la separazione delle carriere, la disciplina sugli avvisi di garanzia. Tutto vivo, tutto attuale. Sembra di stare all'indomani di Tangentopoli, o meglio in un tempo eterno: quello del conflitto tra politica e magistratura, culmi-
nato in tempi recenti con il più puro berlusconismo. Pareva scolorito? Macché, si è reincarnato.
Il neoministro, col piglio di chi si siede finalmente a capotavola e intende ricominciare il pranzo daccapo dall'antipasto, sdegna il già fatto: lo tratta al contrario come qualcosa ancora da fare. Vagheggia ad esempio di incentivare il pentimento di chi corrompe, ma in effetti così dicendo sconosce l'esistenza della Spazzacorrotti (articolo 323-ter), vanto dell'allora Guardasigilli Alfonso Bonafede, spacciata come soluzione per sconfiggere la corruzione, e oggi relegata tra le cose sostanzialmente inutili. «Una norma che già c'è e non ha dato risultati», ha spiegato l'ex presidente dell’Anac, Raffaele Cantone, a Repubblica. Nordio vuol ridimensionare l'abuso d'ufficio, ma anche quello è stato fatto: una sostanziale cancellazione che fu applicata per decreto nel 2020, ad attutire quello che il ministro chiama elemento che «intimidisce» sindaci, assessori e amministratori pubblici, tutt'oggi indicato come problema da scavallare.
Al culmine della meraviglia generale e peraltro nel mez-
zo di uno scandalo come quello del Qatar che in verità è venuto fuori proprio grazie a questo strumento, Nordio vuol limitare l'uso delle intercettazioni. Perché costano troppo e vanno troppo spesso in giro, pubblicate, rovinando reputazioni. A sprezzo di una realtà invero piuttosto cambiata, siamo al più puro ritorno al futuro dell'epoca berlusconiana, e ciò proprio nel momento in cui la leadership del centrodestra passa a Giorgia Meloni. «Proporremo una profonda revisione» delle intercettazioni e «vigileremo in modo rigoroso su ogni diffusione che sia arbitraria e impropria», promette Nordio. Sembra di sentire il Cavaliere in persona, o il suo Guardasigilli più fedele e più ripudiato, Angelino Alfano. Come se i successivi quindici anni, e le relative modifiche proprio nel regime delle intercettazioni che pure si sono fatte, non fossero mai passati.
Nel panorama della giustizia, in effetti, gli elementi restano sempre gli stessi, e giusto Nordio è l'incarnazione più nuova di questo presepe che si scompone e ricompone come in un quadro di Escher. Il suo manifesto, infatti, il Guar-
dasigilli l'ha raccontato davanti a un auditorio tutt'altro che impreparato. Quello della commissione Giustizia del Senato guidato dalla senatrice-avvocata Giulia Bongiorno. La stessa cioè che, da presidente della commissione Giustizia della Camera, deputata finiana, tra il 2008 e il 2013 guidò la rivolta interna ai dettami del Cav. dentro il Popolo delle libertà. A partire proprio dal regime delle intercettazioni, di cui Berlusconi voleva limitare l'uso e la diffusione. E da dove si partì? Proprio dai costi eccessivi. Prontissimo, Alfano allora ministro mise su una task force che rilevò come all'epoca (anno 2007) gli ascolti costassero 227 milioni di euro all'anno. Adesso Nordio lamenta che costano «duecento milioni di euro», 213 milioni sono stati stanziati per l'anno 2022, in un regime tuttavia di progressiva diminuzione di tutto il comparto (anche le utenze-bersaglio sono scese da 141 mila del 2013 a 109 mila del 2021).
Oggi Giulia Bongiorno, senatrice leghista, ha gestito la felpata manovra per svuotare le norme anti-rave (contenute nel decreto su ergastolo ostativo e multe ai no vax) con la
Governo e magistratura
stessa abilità con la quale a suo tempo svuotò il processo breve, addormentato a botte di cicli di audizioni e poi spedito sul binario morto. Certo stavolta, a differenza di allora, l'ha fatto in pieno accordo con governo e maggioranza. Cambiato il reato anti-raduni, che è stato ricollocato all'interno di quelli contro il patrimonio (dall'articolo 434 al 633), tolti i riferimenti all'ordine pubblico, tolto il limite delle 50 persone, aggiunta la specifica «musicali» (che riduce l'applicabilità a circa tre casi l'anno), ecco che dell’articolo 5 iniziale è rimasto puro scheletro. E così, approvato martedì con 92 sì e 75 no dal Senato, è stato spedito alla Camera insieme col resto del decreto. Un'impalcatura nella quale, grazie alla pena massima prevista, è rimasta impigliata tuttavia la possibilità di intercettare, eventualità che per tutto il resto Nordio ha già detto di voler limitare. Ma tant'è: contraddizioni in seno al popolo dei Fratelli (d'Italia).
Tanto, a gestire per conto del governo la partita (mai sarà abbastanza rimpianto Niccolò Ghedini, l'unico uomo cui Berlusconi ultimamente dava retta) c'è da viceministro un altro tra gli avvocati della cabala dei devoti al Cav.: Francesco Paolo Sisto. Già scudo umano contro la presunta congiura delle toghe ai danni del caro Silvio, poi difensore nel processo barese sulle escort e Tarantini, poi convinto sostenitore della non retroattività della legge Severino (uno dei punti del programma di Nordio) e della bontà della manifestazione del Pdl sotto la procura di Milano (la definì niente meno che «una protesta seria contro l'uso politico della giustizia»), Sisto si trova per sua fortuna a lottare dalla stessa parte di Bongiorno, la quale invece ai tempi del Cavaliere lo tramortiva con estenuanti e lambiccose contrattazioni su qualsiasi virgola, lasciandolo infine inerte tra i fogli. Quasi dalla stessa parte della barricata, o meglio con la voglia di trasferircisi in fretta, c'è pure Azione. Tra le cui fila milita non soltanto Matteo Renzi, che lancia messaggi d'amore in direzione di Nordio e delle sue riforme («condivido lo spirito del
ministro anche nel metodo, non solo nel merito», ha dichiarato al Messaggero), ma anche come delegato alla Giustizia Enrico Costa, già capogruppo di Forza Italia in commissione Giustizia alla Camera nella legislatura delle intercettazioni, e viceministro a via Arenula per conto di Alfano ai tempi dell'Ncd. È insomma un altro pezzo del berlusconismo che fu, pronto a saldarsi con gli altri. Già si sa, per esempio, che la separazione delle carriere avrà il sì di Azione, e per il momento si fanno le prove preliminari di armonizzazione: l'altro giorno alla Camera è passato un ordine del giorno firmato Costa che impegna a un «monitoraggio» degli atti con cui i procuratori spiegano perché hanno ritenuto una certa azione giudiziaria rilevante per l'opinione pubblica (e quindi oggetto di conferenze stampa, comunicati, eccetera).
Si tratta a occhio degli stessi pm che Nordio definiva, al Senato, «troppo ambiziosi». Con il che il girotondo è appena cominciato. Già rivanno forte certi pezzi classici, come una volta: l'intervento del presidente dell'Anm a sopracci-
glio alzato, quello di Magistratura democratica, la questione del bavaglio e quella della separazione tra poteri. La conferma, su tutto, che anche in questo Giorgia Meloni e i suoi Fratelli, più che costruire una nuova egemonia culturale e politica, più che portare l'Italia verso il futuro di un'altra Italia, puntano a tenerla dove la trovarono un giorno lontano, a riportarla dove l'hanno imparata. Aspirazione massima di una ambizione minima, Adua permettendo.
di FRANCO CORLEONE
Non facciamo calare l’oblio sugli eccidi dei soldati nazisti
Marzabotto e Sant’Anna di Stazzema sono due luoghi simbolo delle stragi nazifasciste compiute in Italia nel 1943- 45 , ma non furono le sole. Un numero accreditato parla di 2.273 episodi; con certezza sono 695 i fascicoli trovati in un armadio della Procura generale militare nel 1996 dal magistrato Antonino Intelisano, che rappresentò l’accusa nel processo contro Eric Priebke. Erano stati occultati molti anni prima con lo scopo preciso di nascondere la storia tragica dell’occupazione hitleriana e imporre una pacificazione negazionista. Franco Giustolisi, giornalista de L’Espresso coniò la definizione di armadio della vergogna e nel 2016 Pier Vittorio Buffa, anche lui giornalista di questa testata, con la passione della storia, rivelò che i documenti erano finalmente accessibili, disponibili sul sito dell’Archivio storico della Camera dei deputati.
Ora gli storici hanno materiale significativo, ma le vittime, i sopravvissuti e i parenti che hanno chiesto inutilmente giustizia dai tribunali?
Come è potuto accadere che si siano dimenticati crimini di guerra e contro l’umanità, lesivi di inviolabili diritti umani, perciò imprescrittibili?
La vicenda giudiziaria promossa da Duilio Bergamini contro la Repubblica Federale Tedesca è stata intricata e dopo la sentenza 238 del 2014 della Corte Costituzionale che dichiarava l’incostituzionalità di due leggi di recepimento di accordi internazionali che negavano la giurisdizione dell’Italia, il giudice Minniti del Tribunale di Firenze condannava la Germania al risarcimento. Finalmente il Governo,
Il trasporto di un feretro di una vittima dell’eccidio di Marzabotto
nel 2022, di fronte a un intollerabile impasse ha inserito nel Decreto legge legge 30 aprile, n. 36, l’Istituzione del Fondo per il ristoro dei danni subiti dalle vittime di crimini di guerra e contro l’umanità, compiuti in danno di cittadini italiani dalle forze del Terzo Reich. L’accesso al Fondo aveva termini molto stretti e ancora una volta la questione rischiava di rimanere in sordina. Se ne accorse però Katia Poneti, giurista fiorentina, che riuscì a presentare l’atto di citazione per l’uccisione del nonno partigiano, Egidio Gimignani, tramite l’avvocato Jacopo Casetti e a diffondere la notizia.
Nella mia memoria familiare era radicato il ricordo della strage della Malga Promosio sulle Alpi carniche di proprietà di Andrea Brunetti ucciso il 21 luglio 1944 con 14 pastori. Mio nonno, Giorgio Muser sovrintendeva al comparto di Promosio e casualmente non era presente quel giorno. I soldati tedeschi proseguirono nella strage durante la discesa a valle uccidendo altri civili inermi al solo scopo
di terrorizzare e impedire il sostegno ai partigiani. Ho immediatamente fornito la documentazione al sindaco di Paluzza, Massimo Mentil e all’avvocato Andrea Sandra. La riunione con la popolazione per l’adesione alla richiesta di condanna della Germania ha visto la partecipazione di oltre settanta persone, segno di una memoria ancora viva. A febbraio è fissata l’udienza.
Altre cinque cause sono state avviate a Udine, Gorizia e Trieste. Per molti parenti delle vittime non c’è stato il tempo per raccogliere la documentazione necessaria per rispettare i termini (27 ottobre). Si chiede oggi al governo di riaprire i termini e aumentare la dotazione del Fondo. È una richiesta più che giustificata.
La Resistenza in Carnia ha avuto caratteri drammatici e originali. Rappresenta una memoria collettiva che va conservata e tutelata. Il processo civile per il risarcimento alle vittime avrà anche questo significato.
GIÙ IL SIPARIO, SPETT
Nelle 110 pagine che compongono la manovra presentata dal governo, lo spazio dedicato alla cultura occupa appena una riga e mezzo. Riguarda i 20 milioni che l’esecutivo intende stanziare nel 2023 per «l’acquisto dei beni culturali». Una cifra minuscola al cospetto dei 35 miliardi che nel complesso sposta la finanziaria, soprattutto se si considera che per 2023 il governo intende tagliare di 63,5 milioni il budget a disposizione del ministero della Cultura. All’appello mancano soprattutto due capitoli: il Fus, il fondo statale che dà ossigeno al mondo dello spettacolo, e la dote necessaria a mettere in moto una delle riforme più importanti degli ultimi anni in ambito culturale: l’indennità di discontinuità. Una svolta chiesta a gran voce dagli artisti scesi in piazza durante il biennio pandemico e ottenuta allo scadere della scorsa legislatura dopo anni di tentativi andati a vuoto.
«Sorprende che un governo dai tratti così identitari non stia prendendo in considerazione un settore così importante per il nostro Paese», dice Francesco Rossini, regista e membro del direttivo di Unita, associazione di categoria di cui fanno parte molti big dello spettacolo, da Pierfrancesco Favino a Caterina Guzzanti. Come le altre organizzazioni attive in ambito culturale, Unita nelle ultime settimane è in stato di agitazione per la mancanza dei fondi in manovra dedicati ad uno dei settori più colpiti dalla pandemia. «Siamo pronti a collaborare ma anche a mobilitarci». Durante il biennio 20202021 la filiera dello spettacolo ha subito un crollo senza precedenti. Secondo i dati di Federculture l’intero settore ha perso ben 55 mila posti di lavoro, nella maggior parte dei casi si tratta di giovani under 35. In più il tentativo della maggioranza di abolire il bonus cultura per i 18enni non ha fatto altro che mettere ulteriormente in allarme il settore.
contributi per l’organizzazione di eventi. Come evidenzia la Slc-Cgil, il Fus ha subito un continuo calo di finanziamenti. «Nel giro di 37 anni - denuncia il sindacatosono calati del 60 per cento, precipitando dallo 0,08 all’attuale 0,02 per cento del Pil». Sabina Di Marco, segretaria nazionale della Slc, parla di un «progressivo disinvestimento nella cultura». «Ad esclusione della dote stanziata nel 2021 - aggiunge - nel corso degli anni la situazione è andata peggiorando».
Gabriele Bartoloni GiornalistaL’iter delle manovra si concluderà tra Natale e capodanno. Il voto degli emendamenti potrebbe modificare il quadro. C’è ancora spazio, dunque. Ma per ora i 20 milioni del ddl scritto dal governo riguardano un ambito abbastanza ristretto. Fin da subito l’opposizione ha denunciato l’assenza di interventi in favore del Fondo unico per lo spettacolo, strumento attraverso cui lo Stato ogni anno eroga
La legge di bilancio dell’anno scorso, infatti, aveva rimpolpato il fondo, portandolo a una dotazione ben più consistente rispetto agli anni precedenti. Quest’anno, all’interno della finanziaria non viene mai nominato. L’obiettivo del ministro sarebbe quello di riformarlo. Il governo, però, come si legge a pagina 103 della manovra, si riserva semplicemente di apportare «variazioni compensative di bilancio» in favore degli spettacoli dal vivo. Peccato che il budget ministeriale dedicato a quel capitolo subirà una decurtazione di 50 milioni euro rispetto al 2022. Di cifre aggiuntive a sostegno del comparto non
SPETTACOLO FINITO
demia, lo stop delle attività culturali aveva lasciato i lavoratori del settore senza un reddito, mettendo in luce in maniera più evidente il carattere precario e discontinuo delle professioni connesse al mondo artistico. I lavoratori erano scesi in piazza per chiedere maggiori tutele e finalmente, sullo scadere della scorsa legislatura, il Parlamento aveva dato il via libera ad un disegno di legge che conferiva al governo le deleghe per attuare una riforma complessiva del settore, che tra le altre cose prevedeva il riconoscimento della discontinuità delle professioni artistiche e un’indennità mirata a “coprire” i momenti di inattività, studio o formazione fisiologici nelle professioni artistiche. «Al momento dell’approvazione l’accordo tra le forze di maggioranza era quello di finanziare la misura in legge di bilancio», spiega Matteo Orfini, deputato del Pd. Anche FdI - all’epoca all’opposizione - aveva collaborato a scrivere la riforma. «Stanziare zero fondi significa ucciderla», insiste l’esponente dem.
Secondo la Slc-Cgil, in fase di avviamento sarebbero necessari almeno 150 milioni. «Dopodiché - spiega la segretaria Di Marco - la misura sarà in grado di autofinanziarsi attraverso i contributi versati dai lavoratori». Anche un emendamento alla manovra presentato dal Pd prevede uno stanziamento di 150 milioni per il 2023. Un’altra proposta avanzata dall’Alleanza Verdi e Sinistra prevede una dote ancora più consistente. L’incognita più grande, però, riguarda le coperture a disposizione. L’o-
ce ne sono, dunque. Come risulta assente qualsiasi tipo di impegno indirizzato ai lavoratori dello spettacolo, nonostante le parole spese dal ministro Gennaro Sangiuliano in varie occasioni pubbliche. Durante l’audizione davanti alla commissioni Cultura di Camera e Senato, ad esempio, il ministro si era impegnato a «farsi carico di una maggiore sicurezza sociale e previdenziale per gli artisti». E ancora: «Su questo punto mi adopererò compatibilmente con le esigenze generali di bilancio», aveva detto durante un question time alla Camera. Risultato: della legge delega approvata lo scorso 15 luglio in Parlamento non c’è traccia. O meglio: non c’è traccia delle dote finanziaria necessaria a sostenere la riforma.
Si tratta di un provvedimento che affonda le proprie radici nelle richieste che artisti e tecnici del mondo dello spettacolo hanno portato all’attenzione dei governi che si sono avvicendati nel corso degli anni. Durante la pan-
biettivo della premier Meloni è quello di snellire il più possibile la manovra, guardandosi bene dall’accogliere anche le numerose richieste provenienti dai suoi stessi alleati. La coperta, in sostanza, è corta. Soprattutto per le richieste provenienti dall’opposizione. Ma come prevede la legge delega, il governo ha nove mesi di tempo a partire da luglio per attuare la riforma sullo spettacolo. Numeri alla mano, dopo l’approvazione della manovra mancheranno solo due mesi.
DOPO IL MINIBOOM ECCO LA FRENATA
Se l’unico parametro che conta in economia fosse il Pil - Prodotto Interno Lordo - l’Italia sarebbe il Paese più felice al mondo. L’anno che sta finendo si chiuderà infatti, stando alle ultime stime dell’Unione europea, con un sorprendente +3,8-3,9%, il doppio di quanto previsto all’inizio del 2022, più della Germania (che si appresta a registrare una crescita dell’1,6%), della Francia (+2,6%), dell’intera eurozona (+3,3%). Non a caso, su queste cifre si sta costruendo tutta una narrazione entusiastica che ovviamente spinge con il vento in poppa l’ottimismo governativo, anche se in verità pochi aedi di destra si accampano meriti che semmai vanno riconosciuti all’esecutivo preceden-
te. «La verità è che all’Italia servivano dieci anni di Draghi e non 21 mesi», commenta Lorenzo Codogno, che dopo essere stato a lungo capo economista del Tesoro, dal 2015 coordina il suo think-tank macroeconomico a Londra. «Durante i sette trimestri del governo Draghi - conferma Marco Fortis, economista della Cattolica e direttore della Fondazione Edison - il Pil italiano è cresciuto dell’8,4%, a dispetto di tutte le previsioni fosche dei tempi del lockdown (l’Italia perse l’8,9% nel 2020 ma oggi ha recuperato tutto visto che era cresciuta già del 6,7% nel 2021)». La brillante stagione della manifattura Made in Italy, il boom turistico con l’estate che è arrivata fino a fine ottobre, i primi risultati degli investimenti del Pnrr soprattutto nelle ferrovie
IL PIL ITALIANO HA RECUPERATO I LIVELLI PRE-PANDEMIA. MA DALL’ANNO PROSSIMO SI TORNA ALLA CRESCITA ZERO O POCO PIÙ. E I PROBLEMI STRUTTURALI NON SONO STATI AFFRONTATI
(l’unico comparto a non accusare ritardi) e infine le generosissime sovvenzioni a partire dall’edilizia - il solo bonus del 110% è costato all’erario 60 miliardi - sono fra i motivi della rinascita.
Ma il problema è che non di solo Pil vive un Paese, come sanno le famiglie che pagano una bolletta del gas del 63,7% in media più alta di un anno fa (dati dell’authority Arera) o che al supermercato trovano gli alimentari (secondo Altroconsumo) aumentati in media del 20% (va anche bene se come calcola il centro studi Crea i costi per gli allevatori sono saliti del 99%). E l’inflazione - che non è scesa in novembre restando all’11,8% mentre nell’eurozona è passata dal 10,6 al 10% - non è che uno degli elementi di quelle che Serena Sileoni, docente al Suor Orsola Benincasa di Napoli e “fellow” dell’Istituto Bruno Leoni, chiama le «sabbie mobili» del sistema Italia: «Il nostro resta un Paese estremamente fragile,
A sinistra: operai al lavoro nella fabbrica di elicotteri Leonardo di Vergiate (Milano)
con un sistema scolastico e formativo drammaticamente carente, con conti pubblici perennemente periclitanti, che non è in grado di reggere a eventuali ulteriori impatti traumatici». Lo stesso apparato industriale, aggiunge Sileoni, «è troppo concentrato su settori di nicchia come il lusso o l’alimentare di qualità, e per di più strutturato su pochi grandi gruppi a cui afferisce un sistema polverizzato di piccole imprese, spesso a conduzione familiare, a volte non efficacemente gestite né capitalizzate. Il tutto rende l’Italia tremendamente esposta alla concorrenza internazionale, sia che si torni alla globalizzazione sia che ci si divida in una serie di mercati a vocazione locale e forte specializzazione».
A complicare la situazione, lo stesso Pil è previsto che stia per imboccare la picchiata. «È inutile guardare con compiacimento nello specchietto retrovisorecommenta Mario Baldassarri, già viceministro dell’Economia e oggi presidente del Centro studi economia reale - perché archiviati questi due anni positivi ci attende l’impatto della recessione internazionale indotta dai rialzi dei tassi, a loro volta dovuti all’inflazione, che dovrebbe arrivare su scala globale nella prima metà del 2023». Malgrado le buone performance complessive, ci sono già le avvisaglie della tempesta prossima ventura: «Diversi settori, come il tessile, cominciano a rallentare con gli incrementi di produzione ormai scesi sotto lo zero», spiega Federico Neri, ricercatore presso l’Osservatorio dei conti pubblici, fondato da Carlo Cottarelli, che sta per sfornare un report dettagliato sull’economia reale. «Ovviamente quelli più in difficoltà sono i comparti a maggior assorbimento di energia, come il tessile o il chimico. La siderurgia, il più energivoro di tutti, è oggi sotto di più del 20% come produzione rispetto a un anno fa, e accusa problemi analoghi a quelli del lockdown del 2020 quando scese del 40% rispetto a un anno prima».
Per l’Italia, l’Unione europea prevede un Pil che piomba al +0,3% l’anno prossimo: un po’ meglio la previsione del governo, ma secondo diversi centri studi - fra cui quello per noi cruciale di Moody’s - si potrebbe finire in negativo fino allo 0,6%. «E poi - riprende Baldassarri - guardiamo
La crescita italiana nel 2022 secondo le previsioni d’autunno dell’Ue. Il governo stima che si potrà arrivare fino al 3,9%
i fatti con obiettività: abbiamo recuperato i livelli del pre-pandemia, e ne siamo felici. Però andando a ritroso dal 2019 fino all’inizio del secolo ci sono stati vent’anni di crescita praticamente a zero che hanno ricacciato l’Italia, come Pil pro capite, sotto le medie sia dell’Ue sia dell’eurozona che fino agli anni ’90 invece superavamo ampiamente».
Il rapporto debito/Pil nel 2022, sempre nelle previsioni di Bruxelles. Un netto calo rispetto al 150,3% del 2021, ma sempre più alto del pre-Covid
+3,8% 144,6% 11,8%
L’inflazione in Italia in novembre, identica a ottobre. Nell’eurozona nel complesso invece c’è stato un calo fino al 10% medio
Che si ricominci con lo stillicidio della crescita anno dopo anno allo “zero virgola” è l’incubo più diffuso. Il clima per certi versi è peggiore rispetto al pre-pandemia: ora c’è l’inflazione e non c’è più l’appoggio incondizionato della Bce perché il quantitative easing è finito e i 70-80 miliardi di titoli che saranno emessi nel 2023 dovranno tutti essere assorbiti dal mercato in un contesto di valori decrescenti e di rendimenti (interessi che lo Stato dovrà pagare) in aumento. Come sempre la crescita ridotta all’osso porterà conseguenze dirette drammatiche per la popolazione: per un Paese dove secondo l’Istat i poveri assoluti - chi materialmente non sa come mettere insieme il pranzo con la cena - superano i 3 milioni, e 10 milioni sono a rischio di trovarsi da un giorno all’altro in tale situazione, non c’è scenario peggiore. Puntualizza
Stefano Scarpetta, direttore per il lavoro e gli affari sociali dell’Ocse: «I salari mediani dal 1990 al 2020 sono scesi del 2,9% mentre in Francia sono aumentati del 31,1%, in Germania del 33,7% e negli Stati Uniti del 47,7%». Sono risultati provvidenziali gli interventi a sostegno del reddito, dai “ristori” in pandemia (per le persone e le aziende soprattutto piccole) ai bonus e alle agevolazioni post-guerra, appena rinnovati per 21 miliardi con la legge di Bilancio. L’Italia è il Paese che ha stanziato più risorse in quest’inseguirsi di emergenze: i soli interventi energetici hanno assorbito il 3,4% del Pil (del 2021) contro il 2,9% della Germania, calcola l’Osservatorio dei conti pubblici, il 2,6% della Germania e il 2,1 della Francia. Anche il controverso reddito di cittadinanza ha giocato un ruolo importante: «Le misure di contrasto della povertà - aggiunge Scarpetta - hanno aiutato a contenere il numero di persone in difficoltà, anche se meno della metà delle persone in povertà assoluta secondo la Caritas e ancora meno quelli in povertà relativa, ricevono il reddito di cittadinanza. Durante la pandemia, le forti misure di sostegno hanno permesso di evitare ulteriori aumenti delle diseguaglianze di red-
dito che in alcuni casi si sono, solo temporaneamente, ridotte». Un beneficio, quest’ultimo, che l’inflazione sta annullando. «Che la svalutazione si accanisca sui poveri è purtroppo una legge irreversibile - commenta Emanuele Felice, storico dell’economia, docente allo Iulm di Milano e già capo economista del Pd - e quello delle diseguaglianze resta uno dei problemi più gravi per il Paese». Anche nelle politiche di assistenza nella doppia crisi Covid-guerra, nota Felice, «sono stati compiuti errori, basti pensare ai bonus non solo edilizi elargiti a pioggia anziché essere targettizzati su chi ne aveva veramente bisogno». Ora si sta cercando di correre ai ripari delimitando le varie forme di aiuto, ma sono già stati spesi dall’ultimo trimestre 2021 ben 72 miliardi per il caro energia, che salgono a 92 se comprendiamo quelli della legge di Bilancio relativi al primo trimestre 2023.
Gli aiuti per ora scadono a fine marzo. Dopodiché, si vedrà. «Eppure una pianificazione esatta delle spese sarebbe fonda-
GLI AIUTI PER L’EMERGENZA SCADONO
A FINE MARZO. SUL DOPO, NESSUNA PREVISIONE DEL GOVERNO. MA L’EUROPA VUOLE SAPERE, PER CONTRATTARE IL NUOVO PATTO DI STABILITÀ
Il cantiere Azimut Benetti di Pisa. A sinistra: spolette di cashmere per l’industria tessile
mentale perché l’anno prossimo vedrà la luce il nuovo patto di Stabilità destinato a entrare in vigore all’inizio del 2024», ricorda Ferdinando Nelli Feroci, ambasciatore ed economista, presidente dell’Istituto Affari Internazionali. «Sarà un passaggio cruciale per l’Italia perché, a quanto si sta preparando, si adotteranno criteri diversificati Paese per Paese che non potranno prescindere da una lucida analisi priva di sconti dei conti pubblici e della loro tendenza. È necessario stabilire un rapporto di leale cooperazione e integrazione con l’Europa». Altro che “la pacchia è finita”: è il momento in cui la destra di governo deve dimostrare, come ha scritto Ezio Mauro, di volere essere davvero «parte e non controparte» dell’Unione.
SPRECO AD ALTA VELOCITÀ
MILIARDI IN STUDI MENTRE I COSTI, ANCHE AMBIENTALI LIEVITANO, LA UE NICCHIA, I GUASTI SI PERPETUANO E IL DISSENSO FINISCE A PROCESSO
DI DILETTA BELLOTTI
el raccontare il movimento No Tav non si può tracciare né un punto né una linea, il movimentosipuòcomprendereforse in uno snodo: nel 1995 si sono viste convergere, dopo anni di assemblee, persone che nella salvaguardia del proprio territorio hanno tracciato un destino comune. Dallo snodo del movimento passano, ogni giorno da trent’anni, comunità in lotta di tutta Italia e non solo. Comunque si voglia raccontare la storia, la Val di Susarappresentailpiùimportanteesempio di resistenza degli ultimi decenni contro l’esproprio, la speculazione e la devastazione ambientale. La Valle è stata attraversata da 17 governi (o forse da nessuno) che, ad oggi, non sono riusciti a costruire neanche un metrodibinario,nonostanteabbianospeso miliardi di euro; soprattutto non sono riuscitiafermare,anzihannoforsealimentato, la resistenza del movimento contro la cosiddetta «grande opera inutile».
La linea ferroviaria Torino-Lione, contro cui il Movimento No Tav valsusino da trent’anni si oppone, prevede la costruzione di un Tunnel di Base che collega Susa a Saint-Jean-de-Maurienne, in Francia. Dal 2001 ad oggi sono stati realizzati solo studi, sondaggi geognostici e lavori preparatori per poco meno di 2 miliardi di euro spesi. L’estensione prevista è di 115 km, più precisamente due gallerie da 57,5 km. L’ultima stima del costo è di 9,63 miliardi di euro (2017, Cipess). Questo valore non tiene però conto dei rincari degli ultimi mesi, che ammontano ad almeno un 30 per cento in più sul costo totale. Bisogna notare che i quasi 10 miliardi di euro coprono solo il Tunnel di Base, tuttavia, affinché la tratta ferroviaria sia realizzata come da progetto, il tunnel deve essere collegato sia a Torino che a Lione con altre
opere ferroviarie. In Italia, di queste opere non c’è ancora il progetto mentre in Francia, nel 2019, con un decreto ministeriale è stato deciso che non si costruiranno nuove linee ferroviarie e che verranno invece utilizzate le linee già esistenti per collegarsi al Tunnel, apportando, di conseguenza, minimi miglioramenti sulla tratta Torino-Lione già esistente. Infatti, anche se venisse costruito il Tunnel, senza le tratte di accesso, si risparmierebbero solo 30 minuti rispetto alla linea già in servizio. Mentre, se si dovesse realizzare la linea con il Tunnel, più le opere di collegamento necessarie, si arriverebbe ad un totale di quasi 30 miliardi di euro.
Ad oggi, i costi di costruzione sono integralmente sostenuti da Italia (57,8 per cento) e Francia (42,2 per cento). L’Unione Europea ha ipotizzato di rimborsare fino al 50 per cento del costo ma finora non ha preso alcuna decisione di finanziamento. È importante notare che la conferma del finan-
Un giovane attivista No Tav espone la bandiera del movimento su una delle cime montuose che circondano la Val di Susa
ziamento è vincolata alla decisione da parte dei due Stati di realizzare anche le tratte di accesso. Al momento non vi è nulla di definito in merito a tale decisione. Entro il 31 dicembre 2022 Telt, la società partecipata italo-francese, avrebbe dovuto completare molti lavori preparatori, tra cui l’Autoporto di San Didero, lo svincolo di Chiomonte e parte del Tunnel di Base. Non essendo riuscita a realizzarli perderà varie centinaia di milioni di euro di contributi. Va sottolineato inoltre che l’Ue ha finanziato solo i lavori preparatori mentre per il resto dei finanziamenti, quelli per il Tunnel e le tratte di collegamento, non ha firmato nessun accordo vincolante. Dunque non è facile immaginare quando e se finiranno mai i lavori e soprattutto chi li pagherà. Sicuramente basta guardare all’impatto ambientale stimato del progetto per capire che non è proprio in accordo con le politiche europee sul tema. Già a giugno 2020 infatti, la Corte dei conti europea ha dichiarato il progetto insostenibile a livello ambientale poiché si stima che la costruzione dell’opera provocherebbe emissioni di CO2 per 10 milioni di tonnellate le cui compensazioni avverrebbero dopo il 2050, anno in cui dovremmo raggiungere lo zero netto di emissioni. Per compensazioni si intende l’impatto positivo che il traffico di merci, ovvero il 90 per cento dei treni previsti per la tratta, ha rispetto a quello su strada, tuttavia per compensare davvero l’impatto ambientale della costruzione, il traffico di merci nei prossimi anni dovrebbe aumentare di dieci volte.
Nonostante la ferrovia non sia stata ancora costruita, i costi attualmente sostenuti per presidiare, da 11 anni, il cantiere del Tav, sono significativi. Per esempio, nell’ultimo anno e mezzo per il cantiere di San Didero si stima che siano stati utilizzati circa 50 mila euro al giorno, presidiando un’opera che ne costa 90 milioni, mentre per il cantiere di Chiomonte si è stimato un utilizzo di circa 90 mila euro al giorno. Va notato che gli ampliamenti dei cantieri hanno un impatto ambientale aggiuntivo che non viene preso in considerazione durante la valutazione generale. Questi ampliamenti non sono di per sé utili alla costruzione del tunnel ma alla «securitizzazione» della zona. Negli anni sono stati quantomeno stridenti i tentativi del governo di mettere in
piedi i processi democratici necessari per compiere un’opera pubblica degna di questo nome. Tra i più imbarazzanti troviamo, nel 2006, la formazione di un Osservatorio con la nomina di Mario Virano come presidente ovvero colui che che rivestirà poi il ruolo di dg nella società incaricata di realizzare il Tav; ma non solo: è stridente l’esclusione progressiva dei comitati No Tav dai tavoli e l’assenza assordante di un’opzione zero nella discussione ovvero quella di non fare l’opera e basta. Le grandi opere hanno un impatto inevitabile sui territori, i decenni passano e le analisi costi-benefici vanno adattate: le urgenze climatiche sono più pressanti e ignorare o provare a sopprimere trent’anni di resistenza generazionale è quantomeno sciocco. Quando le popolazioni locali, come è il caso del Tav, così come per il Muos e troppi altri casi in Italia, non sono parte dei processi democratici come le consultazioni o i negoziati, l’opposizione sembra essere naturale. Che lo Stato, in questi trent’anni abbia fallito la gestione del progetto Tav è un dato di fatto, ma soprattutto ha fallito nel suo sottrarsi al tribunale a cui deve sempre necessariamente rispondere: quello del popolo. Inconsapevole forse che la verità infastidisce ma poi radicalizza sempre e, come si dice da quelle parti, «No Tav si diventa».
I numeri di questa grande opera sono sicuramente impressionanti, lo sono anche quelli della risposta delle istituzioni all’opposizione: dall’inizio dei lavori più di 1.500 persone sono state indagate, ci sono stati 50
LE TAPPE DEL MOVIMENTO
1995
Il 2 marzo si tiene, a Sant’Ambrogio di Torino, la prima grande manifestazione pubblica “No TaV”
2005
L’8 dicembre, a seguito degli sgomberi del 5-6 dicembre, 30.000 manifestanti raggiungono da Susa il presidio di Venaus
2011
Il 22 Maggio, si forma a Chiomonte un presidio permanente (“Libera Repubblica della Maddalena”), poi sgomberato
2020
Nasce il presidio permanente di San Didero, luogo del cosiddetto “fortino fantasma.”
2022
Inizia il processo per “associazione a delinquere.” Imputate 28 persone del movimento No Tav e del csa Askatasuna. 16 rinviate a giudizio
procedimenti penali, un maxi-processo con 53 imputati, carcerazioni preventive, accuse di terrorismo, di associazione sovversiva e a delinquere. Sono risposte istituzionali contro il movimento e le realtà che lo attraversano che sembrano voler solamente silenziare il dissenso, svuotandolo e provando a ridurlo a mera delinquenza. La criminalizzazione del movimento No Tav deve tenerci in allerta: a macchia d’olio tutto ciò che è anche solo geograficamente vicino a quelle realtà patisce un destino repressivo molto più aspro rispetto al resto della penisola. Basta osservare le recenti accuse agli attivisti di Extinction rebellion Torino: accuse impensabili per le modalità di disobbedienza civile che il movimento pratica. Il fatto che dei luoghi così fitti di resistenze suscitino reazioni del genere è un campanello dell’allarme di una «gestione penale del conflitto» da parte delle istituzioni (Chiaramonte, 2019).
Ad osservare questi movimenti che si muovono tra cantieri fantasmi e militarizzati ci si chiede dunque a chi appartiene la terra. A chi la abita? A chi la amministra? Viene spontaneo domandarsi se uno Stato possa mai ammettere di aver commesso un errore e se in democrazia ci sia lo spazio per fare un passo indietro, per ritrattare, per ammettere che forse i territori sono sempre più martoriati dai cambiamenti climatici, la gente dalla precarietà, e che forse nessuno ha davvero fretta di andare a Lione, soprattutto una scatola di ceci.
L’INDUSTRIA TEDESCA SALUTA E SE NE VA
USKI AUDINO DA BERLINO
no spettro si aggira per la Germania, è lo spettro della deindustrializzazione. A quasi duecento anni dalla pubblicazione del Manifesto di Marx il problema non è come mettere al centro i lavoratori, la questione all’ordine del giorno è come trovarli. Allo stato attuale sono vacanti 1,8 milioni di posti di lavoro nella ex locomotiva d’Europa. In Germania è un nodo irrisolto da anni ma che adesso, in combinazione con i costi decuplicati dell’energia, sta dando origine a «quella che tanti chiamano la tempesta perfetta», dice Wolfgang Fink, capo di Goldman Sachs Deutschland. Ovvero una lenta e ponderata fuga delle aziende dal Paese. Un fenomeno a cui il governo tedesco vuole porre rimedio così: facilitando l’immigrazione.
In Germania «il nostro modello di business è sottoposto a un enorme stress» e «il pericolo di delocalizzazione è concreto», ha detto il presidente della Bdi, la Confindustria tedesca, Siegfried Russwurm, dal palco di una conferenza sul futuro dell’industria a Berlino a fine novembre. Su 600 imprese il 20% sta valutando l’opzione di lasciare il Paese.
Il primo fattore a spingere oltre frontiera le aziende sono i costi dell’energia. In un recente studio dell’ufficio federale di statistica Destatis l’1,6% delle 64.000 aziende con più di 50 dipendenti ha già lasciato il Paese tra il 2018 e il 2020 «soprattutto per vantaggi in termini di costi». E se i costi energetici quest’anno sono il primo fattore di scelta, il secondo è «la carenza di forza lavoro qualificata». Il 55% delle aziende vede nella mancanza di manodopera un fattore di rischio per la sua attività, riporta il governo tedesco. Stephan Moschko, presidente dell’associazione delle aziende di Berlino e Brandeburgo, ci conferma il dato statisti-
co al livello locale. «Un’impresa su cinque sta pensando a delocalizzare o a trasferirsi all’estero», e questo «è uno scenario minaccioso per il futuro della Germania, perché la crisi energetica non ha colpito in tutto il mondo come da noi», e produrre in altre realtà ora è molto più vantaggioso, ci spiega. «Per le aziende tedesche è più conveniente produrre in Usa piuttosto che qui».
Il pericolo della deindustrializzazione non è imminente, assicura Clemens Fuest dell’istituto economico Ifo, «ma certo si pone la domanda di come restare un sito pro-
duttivo attraente», sul lungo periodo. Anche perché «stiamo perdendo competitività rispetto ad altri siti produttivi, per esempio nel settore delle industrie ad alto consumo energetico».
Per affrontare l’emergenza, il governo di Berlino ha mirato alto, come è noto, annunciando di mettere a disposizione 200 miliardi, una somma mai stanziata prima. «I 200 miliardi di Scholz ci danno un po’ di respiro», ammette Moschko, «ma lo Stato non può sovvenzionare i conti in eterno e sul tema della crisi energetica bisogna pensare all’orizzonte oltre il 2024». La ristrutturazione dell’approvvigionamento energetico è un processo di lungo periodo che non si lascia governare da misure tampone, per quanto generose.
Tuttavia i costi energetici sono solo un fattore dell’esodo perché «la più grande preoccupazione per le imprese dopo la crisi energetica è la mancanza di forza lavoro»,
Un operaio al lavoro nell’acciaieria di Brema
dice Moschko, ex responsabile delle risorse umane di Siemens in Germania.
Sul tavolo dell’ufficio stranieri di Francoforte si sono accumulate 15.000 richieste di lavoro dall’estero, ancora inevase. Si tratta di domande da prendere in esame che giacciono inermi da mesi. Il problema? Manca il personale per valutarle. Ovvero, la carenza di forza lavoro è tale, che manca anche il minimo necessario ad acquisirla. Come un cane che si morde la coda.
Quando si parla di «mancanza di forza lavoro qualificata» si pensa a chi lavora nell’industria o a chi ha una formazione specifica, magari nell’It. Non è questo il nostro caso, chiarisce Moschko. «Non ci manca solo la forza lavoro qualificata ci manca gente che lavori. Punto. A tutti i livelli. È una carenza trasversale ai settori. Mancano lavoratori e lavoratrici nell’industria, nella gastronomia, nel settore alberghiero, nel sistema sanitario, nell’artigianato come negli uffici».
Un esempio? Uno noto studio notarile al Kudamm, nel corso più glamour della ricca Berlino ovest, offre un posto di segreteria in ambito giuridico. Compenso previsto: 3200 euro al mese. Il posto resta vacante per 7 settimane. Arriva una candidata, a cui si stendono tappeti rossi. Lei ci pensa a lungo, poi declina. Non saprebbe dove lasciare il suo cane durante l’orario di ufficio. Il datore di lavoro rilancia: le pagherà la metà del costo del dogsitter. Sembra una storiella umoristica, non lo è. È il sintomo della disperazione. E i numeri lo confermano: a Berlino e nella regione limitrofa sono ufficialmente censiti dall’Agenzia del lavoro 47.000 posti liberi in attesa di occupazione. «Ma non tutti quelli che cercano personale segnalano la mancanza all’Agenzia, in realtà le cifre sommerse sono circa il doppio, 80.0000», ci spiega Moschko. Questo si traduce su scala federale in numeri impressionanti. In totale nei 16 Laender tedeschi mancano all’appello 1,8 milioni di lavoratori. Lo ha verificato lo Iab, l’istituto per il mercato del lavoro e la ricerca, in una ricerca sul terzo
trimestre 2022. Si tratta di circa il doppio dei posti censiti ufficialmente dall’agenzia federale del lavoro. «Malgrado il pericolo della recessione, il numero delle posizioni aperte è cresciuto e ha raggiunto un livello inaudito», sostiene l’esperto del Iab, Alexander Kurbis.
A questo si somma un altro fenomeno. «Io lo chiamo il paradosso della mancanza di manodopera - spiega Moschko - nei prossimi anni avremo circa 3,6 milioni di posti di lavoro che saranno spazzati via dalla digitalizzazione. A questi si aggiungerà un numero uguale di nuovi posti creati dalla digitalizzazione. Poi ci sono 1,7 milioni di nati nel boom economico degli anni Sessanta che andranno in pensione», e già questo è un bel cambiamento. Si tratta nel complesso “di una trasformazione epocale del mercato del lavoro”. Se non si prendono provvedimenti nell’arco di 8 anni mancheranno 5 milioni di posti di lavoro, riferisce lo Iab. Una voragine difficile da colmare. «Solo per mantenere stabile l’offerta di lavoro», cioè per compensare le uscite dei prossimi anni, «si è calcolato che servono 400.000 immigrati all’anno» da inserire nel mondo del lavoro, continua il nostro esperto. Lo ha confermato anche l’Agenzia federale del lavoro perché «il problema non è nuovo ma ora è urgente e vanno azionate tutte le leve della politica per risolverlo».
Da anni la Germania prova a mettere in cantiere una legge che risponda al grido di allarme delle mondo economico tedesco. Riserve di natura politica hanno impedito finora che proposte di legge più volte dibattute fossero poi votate. Difficile per un governo a guida conservatrice come il precedente accettare e spiegare al proprio elettorato che l’immigrazione è una risorsa necessaria per salvare l’economia.
Il 30 novembre il governo di Berlino ha approvato un piano che punta a facilitare l’immigrazione, andando a sciogliere quegli ostacoli burocratici che a tutt’oggi sono il principale freno. Si tratterà di velocizzare le procedure per il riconoscimento del titolo di un Paese straniero e semplificare l’ottenimento del visto di lavoro. Il secondo punto all’ordine del giorno è snellire il processo per ottenere la cittadinanza. «Chi vive e lavora qui da tempo deve anche votare ed essere votato, deve essere parte della nostra società con tutti i diritti e doveri che implicano», ha detto la ministra degli Interni Nancy Faeser. In sostanza «deve essere più facile venire in Germania», dice Moschko, iscritto al partito conservatore della Cdu - e se da una parte va alleggerita la burocrazia è decisivo lavorare sulla cultura dell’accoglienza, la Wilkommenskultur, per renderci competitivi rispetto ad altri Paesi che attraggono forza lavoro, come Canada e Usa». Non vogliamo solo che arrivino ma che restino, aggiunge. Le persone vogliono sentirsi a casa, non soltanto lavorare. «Io vengo dal Palatinato, zona di cultura millenaria, gente a cui piace bere e mangiar bene. Senza la mia comunità della Pflaz qui a Berlino mi sentirei perduto».
FAME E BLACKOUT. L’ASSENZA
DI SABATO ANGIERI
ome a Napoli dopo la liberazione, oggi in piazza della Libertà a Kherson comandano i bambini. Sono una banda di età variabile tra i 6 anni e i 12, i più alti danno gli ordini e gli altri corrono di conseguenza. Ti circondano e iniziano a toccare tutto, «cos’è questa? A cosa serve questo? Mi regali questo? E questo e questo…». Sono attratti soprattutto dagli accessori militari e dagli strap. Non li rubano, ma li staccano e te li chiedono insistentemente e se dici no passano direttamente all’oggetto accanto. Ridono forte con il tono acuto tipico della loro età e fanno a gara per dimostrarsi più strafottenti. Uno di loro finge di scappare con un moschettone che aveva staccato dal retro del giubbotto antiproiettile e poi torna indietro e chiede un riscatto.
Da quel momento iniziano tutti a chiedere «dollars, yevra, grivna», soldi insomma. E non è più divertente perché si trasformano in bisognosi. Come dice Ivan al fratello Alioscia nei Fratelli Karamazov «con i bambini è tutto più evidente», del resto «se è vero che essi devono condividere la responsabilità di tutti i misfatti compiuti dai loro padri, allora io dico che una tale ve-
ALFREDO BOSCO
rità non è di questo mondo e non la capisco». Perché la punizione non dovrebbe essere uguale per tutti e comunque nelle nostre società i bambini non sono puniti mai allo stesso modo e quando ciò accade ci scandalizziamo e si indica come «mostro» chi contravviene. Invece in guerra la sofferenza livella all’estremo ogni distinzione, il mostro è dovunque, nelle cose animate e inanimate. In chi decide di bombardare e nel missile stesso. Quei bimbi non escono da una scena di un film neorealista italiano, non sono i ragazzi di un romanzo ottocentesco, sono orfani di padri uccisi in guerra o in prigionia, sono figli di deportati oltre il fiume Dnipro, di genitori sparsi per l’Europa e nonni stremati, di collaborazionisti costretti a seguire la ritirata russa per evitare il tribunale marziale di Kiev, a volte sono anche figli di nessuno. Come la piccola Alina che a Kramatorsk, in Donbass, ogni giorno scendeva con noi quando partivamo e ci veniva incontro nel cortile del palazzo al ritorno. Con i colleghi pensavamo lo facesse solo per curiosità e un pomeriggio siamo tornati con una busta piena di dolci. Alina era scappata nel buio delle scale ma dopo poco era venuta a bussarci una vicina che ci aveva spiegato che entrambi i genitori di Alina erano morti durante un bombardamento. «E chi si occupa di lei?». Chi può, aveva risposto la donna. La bimba si spostava di casa in casa ma rimaneva
BUIO DELLA GUERRA
Il conflitto in Ucraina
sempre nel suo palazzo, nascondendosi dietro la pesante porta di ferro quando arrivavano degli sconosciuti. Ora che a Kramatorsk si inizia a gelare e la corrente elettrica manca spesso, dove si rifugia Alina non lo sappiamo. I blackout reiterati rendono molto difficili le comunicazioni e intere aree della città sono isolate. Probabilmente molti bambini ucraini hanno superato la paura del buio in quanto si sono resi conto che ci sono cose reali ben più terribili. Chi invece ce l’ha ancora deve essere atterrito ora che quasi due case su tre scontano interruzioni di corrente continua.
Yuri nel suo garage adibito a rifugio nella zona portuale di Mykolayiv dice che «le bambine (le due figlie di 12 e 13 anni) non chiedono mai, credo che abbiano capito tutto da sole». Ma Yuri in realtà non ne sa molto di cosa chiedono le figlie poiché lui è fuori tutto il giorno con i battaglioni di difesa territoriale. È sua moglie Svetlana che passa la maggior parte del tempo con loro. «Parlano con gli amichetti su Internet, i professori ogni tanto gli accennano qualcosa durante le lezioni a distanza e poi le sento che confabulano tra di loro, il fatto che il padre sia militare le preoccupa molto». Svetlana è commovente con le figlie, alle attenzioni normali di una madre aggiunge una forza d’animo titanica. Purtroppo non è per tutti così.
Alcuni dei padri di Kherson avevano ricevuto l’ordine di ritirata il 26 febbraio e non sono potuti rientrare in città fino a un mese fa. Ora si occupano di «bonificare» i villaggi di campagna intorno al capoluogo. Cercano collaborazionisti, raccolgono testimonianze per i tribunali speciali sui crimini di guerra, presidiano le aree minate o sono in turno alle postazioni di artiglieria lungo la riva occidentale del Dnipro. Queste ultime sono le zone più pericolose al momento assieme alle infrastrutture energetiche e portuali. I russi le bersagliano
GLI AIUTI
Civili di Kherson in fila per la distribuzione dei pacchi degli aiuti umanitari. Al centro, il cimitero di Bucha. Qui sono sepolti i soldati morti durante il conflitto nel Donbass
quotidianamente per impedire la riorganizzazione delle difese e per tenere impegnate la controparte. Infatti, più militari ucraini devono restare a difesa del fronte sud e meno se ne possono dislocare nell’est. Anche se lo Stato maggiore di Kiev è molto riservato sulla sua strategia nel Lugansk è plausibile credere che Kreminna e Svatove siano i suoi obiettivi principali. Il primo per entrare a Lysychansk (o per iniziare ad accerchiarla) il secondo per interrompere le linee di approvvigionamento delle truppe russe che passano dall’importante snodo ferroviario cittadino. Così come fecero a Kupiansk per isolare Izyum e costringere i russi alla ritirata per insufficienza di munizioni, carburante e rinforzi. Ma stavolta Surovikin, il comandante in capo delle forze russe in Ucraina, ha dato l’ordine di fortificare con chilometri di linee di trincee e denti di drago (i blocchi di cemento a forma di prisma che servono per bloccare i mezzi pesanti) le pianure a est del fronte. Inoltre ci sono i nuovi coscritti, quelli arrivati con la «mobilitazione parziale» di inizio autunno. Saranno anche male addestrati e male armati, ma sono diverse decine di migliaia e gli sono stati assegnati compiti prettamente difensivi; possono anche morire a centinaia basta che tengano la posizione. Sempre in Donbass, tuttavia, c’è un secondo fronte, molto più sanguinoso. Si tratta di Bakhmut, data per
spacciata a giugno e ancora in mano ucraina. La cittadina deve la sua importanza alla posizione strategica che occupa, a poca distanza dal Donetsk separatista e al crocevia di due autostrade che portano a Kramatorsk, Slovjansk e nel cuore del comando ucraino orientale. Dopo la caduta di Severodonetsk e Lysychansk sembrava che per Bakhmut fosse solo questione di tempo. E lo stesso si credeva per il villaggio di Soledar, nella stessa zona e ancora più esposto all’avanzata di Mosca da est. E invece sia Soledar sia Bakhmut si sono trasformate in un cimitero a cielo aperto. Le immagini satellitari mostrano una terra devastata. Ma dal vivo è molto peggio, ogni giorno nuove macerie, nuovi morti, meno quartieri accessibili e le evacuazioni si fanno sempre più rischiose. I civili rimasti sembrano zombie, si aggirano con buste di plastica piene di tutto ciò che riescono a trovare tra le macerie o dai pochi che ancora vendono qualcosa, e non battono ciglio neanche quando un colpo di mortaio esplode a poche decine di metri. Eppure non se ne vanno, così come non se ne vanno i militari ucraini che hanno attirato i russi nell’ennesima trappola dall’inizio dell’invasione. Come Mariupol ha permesso all’esercito di Kiev di riorganizzarsi e di resistere altrove mentre i russi cercavano di radere al suolo ogni centimetro dell’Azovstal, Bakhmut ha permesso ai rinforzi di arriva-
I COMBATTENTI
Uno dei membri di Svoboda Rossii, Legione Libertà per la Russia, la Compagnia fondata per combattere con l'esercito ucraino controlla sul tablet gli obiettivi
re a Kramatorsk, al genio militare di spostare gli Himars americani nell’est, alle ferrovie di portare nuovi obici e semoventi. E alla fine, come ha dichiarato il generale Zaluznyj, il comandante in capo delle forze armate ucraine, Bakhmut sarà comunque una vittoria. Se i russi dovessero rinunciare o venire respinti (il che al momento è altamente improbabile) si tratterebbe di un capolavoro di resistenza, ma «anche se dovessimo ritirarci avremmo vinto» considerando i nemici caduti e il tempo impiegato per la conquista. In tal caso, si noti bene, non si tratta di propaganda bellica, Zaluznyj ha ragione a gioire per il nemico impantanato. Chi non ne gioisce di sicuro sono i civili dell’area, ma i generali guardano al quadro più ampio, i dettagli sono distrazioni. Non che gli ucraini non stiano pagando cara la difesa di quel fazzoletto di terra, tuttavia perdere Bakhmut ora avrebbe un impatto infinitamente minore rispetto a quattro mesi fa.
E poi c’è Zaporizhzhia, la costante paura. Tra accuse reciproche e dichiarazioni roboanti i due Stati non intendono abbandonare le mire sull’area della centrale nucleare più grande d’Europa. Il Cremlino la occupa fisicamente e la risposta alle richieste dell’Aiea e alla comunità internazionale per ora è solo un grande «niet». Gli ucraini vogliono riprenderla ad ogni costo perché così potrebbero spezzare in due i territori occupati lungo la costa orientale del Mar Nero. Un tentativo di sfondamento nell’area occupata di Melitopol non è da escludere e anche per questo Surovikin ha fatto scavare nuove trincee e postazioni difensive.
Si parla spesso di “generale inverno” e di come i russi vogliano sfruttare il gelo incipiente a proprio vantaggio. Ma gli ucraini conoscono il freddo come i loro vicini, in passato hanno combattuto insieme a entrambi. Per questo tenteranno di non lasciare ai nemici il tempo di riorganizzarsi per un’eventuale nuova offensiva primaverile ma terranno impegnate le truppe di Mosca su ogni fronte possibile. Per lo stesso motivo i russi bombarderanno ancora.
E intanto i bambini di Kherson continueranno a reclamare quella libertà che gli è stata negata per mesi, finché non dovranno correre a nascondersi di nuovo.
ITALIANA DEL MISTER X
e venisse rappresentata in un film di spionaggio, la sede dei Servizi segreti greci assomiglierebbe probabilmente a come è in realtà. Un cubo di cemento trapiantato nella periferia di Atene, dove la bandiera greca, unica nota di colore, sventola all’entrata e le finestre degli uffici sembrano scrutare l’esterno come tanti piccoli occhi. A quattro mesi dallo scoppio del cosiddetto «Watergate greco», l’edificio pare custodire gelosamente molte delle risposte agli interrogativi che stanno mettendo in crisi il governo conservatore di Nea Dimokratia. O forse bisognerebbe cercare quelle risposte lungo la riviera ateniese, nel quartiere esclusivo di Glyfada, presso la sede di Intellexa, l’azienda che ha venduto lo spyware Predator. Ma oggi al suo interno non c’è più nessuno: il personale, dopo una sommaria perquisizione degli uffici da parte delle autorità greche, ha fatto gli scatoloni e protetto dalla stessa riservatezza che ha accompagnato il suo arrivo due anni fa, ha abbandonato Atene. «Finché le autorità greche non condivideranno le informazioni, saremo costretti a comporre il puzzle con il materiale che abbiamo: e l’immagine emersa finora non è confortante», ha dichiarato l’europarlamentare Sophie in ‘t Veld durante una visita ad Atene con la commissione Pega, istituita per fare luce sull’u-
tilizzo di spyware in Europa. E un tassello di questa costruzione in divenire conduce in Italia.
È l’ultimo capitolo di una storia che inizia con il giornalista Thanasis Koukakis, collaboratore del Financial Times, il primo a denunciare nella primavera scorsa di essere stato intercettato dai Servizi segreti greci nel 2020, mentre stava portando avanti indagini sull’evasione fiscale e l’emissione di fatture false in Grecia. Un anno dopo l’intercettazione dei Servizi segreti, Koukakis ha ricevuto un messaggio con Predator: per permettere che tutte le attività del suo cellulare venissero monitorate, è bastato cliccare sul link ricevuto da uno sconosciuto. La stessa trappola è stata tesa, pochi mesi dopo, all’europarlamentare e presidente del partito socialista del Pasok, Nikos Androulakis; vittima dello spyware, infine, è caduto anche il deputato di Syriza Christos Spirtzis: «Attraverso me volevano ascoltare Alexis Tsipras», ha dichiarato dopo avere presentato una denuncia nel settembre scorso.
Il premier conservatore Kyriakos Mitsotakis, responsabile di avere avocato a sé per legge la gestione dei Servizi segreti, ha negato ogni possibile uso di Predator da parte dello Stato e ha promesso di «sciogliere il
groviglio di questo centro di spionaggio occulto». Le numerose rivelazioni della stampa greca tratteggiano invece uno scenario diverso: un parastato, vicino al premier, avrebbe utilizzato entrambe le modalità di spionaggio per controllare almeno cento persone tra politici, forze dell’ordine e giornalisti. Sotto la lente di ingrandimento del sito d’inchiesta Insidestory, con cui Koukakis collabora, sono finite due aziende: la già citata Intellexa e Krikel, rifornitrice ufficiale del ministero dell’Interno per quanto riguarda le tecnologie di sorveglianza e di interesse, secondo la stampa greca, dell’uomo d’affari Yannis Lavranos. A evidenziare un rapporto tra le due aziende sarebbe sia il movimento di fondi tra Krikel e Intellexa, nel 2020, sia un servizio di consulenza prestato dall’imprenditore Felix Bitzios, divenuto successivamente azionista di Intellexa, all’azienda rifornitrice dello Stato nel 2018. Secondo il quotidiano greco Efimerida ton syntakton, inoltre, Krikel sarebbe coinvolta in un probabile giro di fatture false, in base alle quali avrebbe effettuato transazioni per 5 milioni di euro con un’altra impresa ma i pagamenti bancari corrispondenti non risultano da nessuna parte.
«Yannis Lavranos appare come una figura mitica, soprattutto per ciò che su di lui non è stato detto», ha riportato il quotidiano: l’imprenditore afferma di vivere a Londra e
Spionaggio politico
italiano in cui compare il
avrebbe goduto di un accesso privilegiato sia ai precedenti governi di Nea Dimokratia che a quello di Syriza. Nel maggio di quest’anno, in un elegante centro ricevimenti fuori Atene, Lavranos ha organizzato il battesimo del proprio figlio: come padrino ha presenziato il nipote ed ex capo di gabinetto di Mitsotakis, Grigoris Dimitriadis, dimessosi quest’estate a seguito dello scandalo. A rendere il personaggio di Lavranos ancora più misterioso, contribuisce una carta di identità italiana, rubata e poi falsificata con una sua foto, che è stata rinvenuta dal sito d’inchiesta greco Reporters United. L’Espresso ha potuto verificare come il documento, il cui uso rimane sconosciuto, e nel quale Lavranos appare con il nome di Gianni Berti, sia stato rubato a Pompei nel 2012. Altre due carte di identità italiane che risultano rubate nei pressi di Napoli nello stesso anno sono state registrate, con i nomi di Antonio Sassi e Giorgio Antonelli, nel consiglio di amministrazione di un’altra società riconducibile a Lavranos, la Elektroum technologies, che dal 2017 non pubblica il bilancio nel registro delle imprese.
L’Espresso, in aggiunta, ha potuto visionare la copia di altre due carte di identità italiane rubate nel 2012 a Pompei e Ottaviano poi falsificate con le foto di persone ricollegabili alla cerchia di collaboratori di Lavranos.
Interpellata a proposito della vicenda, l’Agenzia delle entrate greca commenta: «La verifica dei documenti di cittadini europei viene effettuata solo in caso di sospetti di reato sulla base di una richiesta scritta alla rispettiva ambasciata». Contattato da L’Espresso, Lavranos afferma di avere presentato denuncia contro ignoti dopo essere venuto a conoscenza della carta di identità italiana con la propria foto e di non avere rapporti di partecipazione con Krikel, mentre a proposito di Elektroum ribadisce di non avere più legami con l’azienda da molti anni.
Un altro legame che sembra emergere tra il misterioso uomo d’affari e l’Italia risale al 2021, quando i Servizi segreti greci firmano un contratto per la fornitura di «sistemi moderni di intercettazione legale» con la milanese Rcs lab, azienda di punta del settore che vanta tra i suoi clienti anche le forze dell’ordine italiane. In base alle testimonianze
raccolte da Insidestory di due funzionari che hanno partecipato alle trattative, una figura si sarebbe imposta «a rappresentanza degli interessi italiani»: Lavranos, considerato il «local partner» in Grecia di Rcs lab, mentre Krikel sarebbe stata l’azienda subappaltatrice del contratto.
L’Espresso ha chiesto a Rcs lab di commentare queste affermazioni, e ha ottenuto la seguente risposta: «Esistono specifici obblighi normativi e contrattuali che vincolano l’azienda al riserbo […] in ogni caso, si ritiene opportuno precisare che rientra tra le modalità operative di Rcs lab quella di fruire del supporto di partner tecnici locali per aspetti logistici, implementativi o di manutenzione […] qualora un partner non risultasse più idoneo a svolgere l’incarico, l’azienda provvederebbe alla tempestiva sostituzione». Lavranos, inoltre, ha smentito qualsiasi relazione con Rcs lab e ha denunciato una «spietata guerra di diffamazione del proprio nome».
Una commissione parlamentare d’inchiesta, istituita per indagare sulle intercettazioni, si è conclusa senza una relazione condivisa: l’opposizione ha infatti accusato i deputati di Nea Dimokratia di ostruzionismo, quando si sono opposti alla convocazione di personaggi considerati decisivi per la vicenda, come Lavranos. A seguito della chiamata della Commissione parlamentare per le Istituzioni e la Trasparenza, invece, Lavranos e Bitzios non si sono presentati sostenendo di risiedere all’estero e si sono detti disposti a rispondere per iscritto alle domande. L’unico a essere stato ascoltato è Dimitriadis, il nipote del premier, che ha negato ogni legame con l’utilizzo di Predator.
«Ogni ombra su questo caso deve essere allontanata prima delle elezioni» previste per la prossima primavera, ha invocato l’europarlamentare Sophie in ‘t Veld, ricordando come «sono di interesse non solo nazionale, ma anche europeo». Alla vigilanza di Bruxelles guardano con speranza i reporter greci, costretti a lavorare in un clima di crescenti intimidazioni, e i giovani, tra i più convinti che al pari del suo illustre americano, «il Watergate greco» debba concludersi con la scoperta dei responsabili.
LE VITE NEGATE DELL’IRAN
DI ROBERTA GRIMA
La questione dell’Iran non si può ridurre a uno slogan: «Donna, vita, libertà». Perché per Ashti, giovane donna del Kurdistan iraniano arrivata in Italia quattro anni fa dove lavora come scultrice e assistente di altri artisti, «è molto di più ed è prima di tutto vita, che come dice un detto iraniano, è sulle dita delle mani», ossia si perde in un attimo per un nonnulla. È sufficiente professare una fede diversa da quella sciita musulmana come per i curdi sunniti per esempio, che proprio
per questo sono da sempre un pericolo da fermare. Questa è una delle ragioni per cui sono messi più di tutti in condizioni di estrema povertà come i Beluci, altra etnia minore dell’Iran sud orientale, anch’essa sunnita, concentrata però nell’area del Baluchistan dove la gente vive ancora senza un documento di identità. «Al regime degli ayatollah non basta togliere la vita ai dissidenti, ma occorre negare anche la loro esistenza».
sciare l’Iran per motivi di studio», come è riuscita a fare Ashti quattro anni fa. «Adesso l’Iran è ad un punto di non ritorno e se non cambia qualcosa finirà come l’Afganistan in mano ai talebani», aggiunge.
Ashti ricorda quando era piccola di aver visto morire sotto i proiettili della polizia il figlio dei vicini con cui era solita giocare insieme ai suoi fratelli. Crescendo capiva che per sopravvivere si sarebbe dovuta o sposare o andare via e così ha scelto di lasciare il Kurdistan per Teheran, dove ha insegnato arte. Tutto in rispettosa lingua persiana, con la veste scura e maniche lunghe come vuole l’Islam del potere. «All’ingresso dell’istituto scolastico c’era il controllo, così agli incroci delle strade». Ashti si vedeva obbligata ogni mattina a prendere un taxi tutte le volte che doveva attraversare la via che la portava al lavoro. «Due minuti in auto per evitare i controlli dei poliziotti al semaforo, che certamente avrebbero trovato da ridire ad una donna curda».
Roberta Grima GiornalistaAshti è cresciuta quando l’Iran era impegnato nella guerra contro l’Iraq, immerso in una grave crisi economica, una nazione nella quale la disoccupazione era alle stelle così come la voglia di costruirsi un futuro, ma all’estero. Non è un caso che adesso siano proprio i giovani ad avere in questo momento in mano il destino del loro Paese. «Sono ragazzi che per anni hanno vissuto chiusi in casa creandosi uno spazio lontano dalle regole severe degli ayatollah, cercando di assaporare una normalità, dando vita a feste clandestine, incontri culturali, senza preoccuparsi del velo, della separazione tra uomini e donne, dell’abito scuro o meno, in un mondo tutto loro che si erano ritagliati anche con l’aiuto del computer fino a quando una di loro è stata ammazzata per lo hijab mal messo», dice Ashti. È stata la morte di Mahsa Amini, ragazza curda come Ashti a scatenare l’ira e l’orgoglio della gioventù iraniana che oggi si scontra con l’ultima trovata del regime: il divieto di uscire dall’Iran per i prossimi 10 – 15 anni. «Il che significa che i ragazzi non potranno più andare fuori per lavoro, costruirsi un futuro altrove, neppure la-
Oggi, ripensandoci ride, così come ride nel ricordare il suo fidanzato iraniano con il quale per due anni ci sono stati solo sguardi. Ride quando ricorda di essere stata arrestata perché era in auto con un collega uomo di ritorno dal lavoro. È una risata amara la sua, che svela l’assurdità del potere che rasenta il ridicolo, se non fosse per la crudeltà che le ha tolto anche le lacrime per piangere quando pensa alla sua migliore amica che non sa che fine abbia fatto. Gli account dei social network ormai sono tutti cancellati e lei non riesce a comunicare. Le ultime notizie che ha raccolto rivelano diversi amici arrestati,
ma nessuno sa esattamente cosa accade in quelle celle. Ashti però ricorda quando era ancora in Iran, un suo amico uscito dal carcere dietro cauzione, che si limitò a farle vedere la sua schiena: «Era incisa da tante firme realizzate sulla pelle da una lama, un passatempo dei militari».
Per Ashti al dolore si aggiunge la colpa: sapere che amici, familiari, colleghi, ragazzi come lei, ma anche bambini si trovino in quell’inferno la fa sentire in debito. «Mi vergogno un po’ nel non provare più paura quando cammino per strada, mentre nel mio Paese si contano quasi 20mila persone arrestate, oltre 500mila uccise e non si sa quanti iraniani scomparsi». E questo, se è possibile, è il capitolo più terribile. «La scomparsa di una persona è peggio della morte». Già tre anni fa l’istituto per la società civile iraniana Tavaana parlò di corpi buttati nelle dighe, nei fiumi o nei laghi e fatti svanire per non lasciare tracce delle atrocità del regime. «Il sospetto è che a distanza di anni qualcosa di simile sia accaduto anche
ad Anika Shakarami la sedicenne sparita ad ottobre scorso per dieci giorni e poi ritrovata in un obitorio con il volto completamente deformato. C’è anche chi il corpo del familiare non riesce ad averlo, non può così celebrare il funerale al proprio caro, se prima non paga alla polizia morale il diritto di proiettile. Si chiama così la tassa da versare per saldare la spesa sostenuta dai militari per uccidere “il ribelle”», racconta.
Oggi Ashti ha 37 anni, da quattro vive in Italia dove ha potuto leggere per la prima volta un libro nella sua lingua curda, cosa che in Iran era vietata. A volte le capita di guardare con invidia una famiglia che pranza al ristorante, mentre quando parla con i colleghi o si sfoga con il suo ragazzo italiano sulle piaghe del suo popolo iraniano prova rabbia quando la invitano a dimenticare o a non pensarci. «Non posso ignorare quello che accade, fa parte di me e dovrebbe appartenere a tutti. Tanto più che l’Europa manifesta contro il regime autoritario mentre sulle strade iraniane accanto a giovani cadaveri restano bossoli prodotti in Occidente». Contraddizioni. Quando Ashti esce per le vie di Roma ha ancora il terrore di dimenticare il velo, ma poi ricorda che può finalmente sentire il vento tra i capelli, una sensazione mai provata prima. «E sì, vorrei un giorno passeggiare e sentirlo il vento tra i capelli. Ma nel mio Paese».
rivolta di Teheran
NON SONO PROTESTE,
COLLOQUIO
in corso una rivoluzione, ne ha tutti i caratteri. E ha il sapore della libertà. Non va letta come una sommossa, non lo è più. Totalmente diverso da alcune proteste del passato. Stavolta possono farcela, perché il regime perde consenso. Le ragazze, le donne stanno mostrando un coraggio incredibile, da far vergognare i maschi».
Luccicano gli occhi a Ramin Bahrami mentre parla del suo Iran, la Persia millenaria delle radici, quasi più di quando suona al pianoforte l’amato Bach. Invoca il sostegno dell’opinione pubblica europea, biasima l’ambiguità dei governi occidentali, si addolora per il silenzio di Papa Francesco. «Il sangue degli esseri umani è rosso allo stesso modo in tutti i luoghi del mondo, sia che scorra in Ucraina che in Siria e in Congo. Perché in Iran no, forse è diverso?», è il suo amaro interrogativo. Parla con dolore e rabbia di quel che accade nel paese che gli ha dato i natali 46 anni fa, sotto il regno dello scià Reza Pahlevi; dall’Iran fu costretto a scappare ancora bambino insieme alla madre dopo l’arresto e l’omicidio del padre da parte del regime teocratico imposto dall’ayatollah Khomeyni.
L’Espresso ha incontrato Ramin Bahrami a Ercolano, la città alle falde del Vesuvio, dopo un intenso concerto nell’auditorium del Museo Archeologico Virtuale
(Mav). Un concerto politico, definito così dagli organizzatori, «per la libertà delle donne iraniane». Nelle stesse ore in cui la dittatura di Teheran ha sfidato il mondo con le impiccagioni di giovani contestatori. Al pianoforte Bahrami ha suonato Bach, Mozart, Bela Bartòk, Chopin. «La musica classica non è più vietata nel mio Paese. Solo menti perverse potevano pensare che fosse una musica di perdizione. Resta proibita quella contemporanea: Michael Jackson, i Bon Jovi, i Måneskin sono considerati diabolici. Si finisce in carcere, si rischia la vita nell’ascoltarli. È contro questo clima soffocante che i giovani si stanno ribellando».
La musica per Bahrami è la vita. Ancora oggi, all’apice del successo, ammette di esercitarsi al piano per sei-sette ore al giorno. Pendolare tra l’Italia e la Germania, dove ha scelto di risiedere.
Dunque,soloperascoltareunpo’dimusica occidentale l’Iran è in fiamme?
di un modo di vivere imposto con la violenza, con il terrore. La Persia ha una cultura millenaria, almeno 8mila anni di storia; l’Islam è stato imposto solo 1400 anni fa. Sì, ripeto: solo 1400 anni. I persiani non sono arabi, non sono musulmani, è altra la nostra cultura».
Lei sta dicendo che è in atto anche una rivolta antireligiosa?
Luigi Vicinanza Giornalista«No, certo che no. Molti avranno sorriso vedendo quei video in cui i ragazzi, quando passa per strada uno di quei cupi personaggi tutti intabarrati, con un buffetto fanno cadere il loro turbante. Invece è un gesto enorme. Potente. È il segno del rifiuto
«Voglio dire - perché purtroppo in Europa se ne sa poco - che proprio nell’antica Persia sono state poste le basi del pensiero moderno, della civiltà indoeuropea. I persiani non hanno mai adorato inesistenti dei, come pure accadeva in Grecia. Con Zaratustra nasce il culto monoteista, l’idea di un unico dio. Si afferma il dualismo bene/male trasferito poi in musica nelle tonalità che noi oggi conosciamo come maggiore e minore. Esisteva già nello zoroastrismo una musica sacra; scritta, non orale. Con caratteri cuneiformi, come l’alfabeto originario. Cancellato con l’avvento del potere musulmano. L’idea
“IL
È
UNA RIVOLUZIONE
ze, aderiscono alla rivoluzione per dimostrare di non essere dei vigliacchi».
Durerà? Il regime resisterà o può collassare?
«Mi arrivano notizie di agenti della polizia morale e di membri dell’esercito disposti a mettersi dalla parte del popolo. Nonostante l’atroce repressione. Come dalla parte del popolo si sono schierati in Qatar i calciatori della nazionale quando si sono rifiutati di cantare l’inno. Rischiano molto per il loro coraggio».
del sacro non era affatto pedante o noiosa. Friedrich Nietzsche ha capito perfettamente questa cultura. Ispirato dal filosofo tedesco ho scritto “Mille e una musica”, primo libro in lingua italiana dedicato alla storia della musica persiana». Lei sostiene insomma che la religione musulmana ha deviato l’evoluzione della civiltà persiana?
«Sì, perché l’Iran ha ancor oggi un’identità culturale ben definita. Quella religione fu accettata per sopravvivere. E poi, mi faccia dire: le moschee più belle del mondo sono state costruite in Iran. Perché lì è radicata la perfezione del bello. Sa una cosa? Mia nonna paterna era tedesca, ma non faticò a imparare il persiano. Perché in quell’antica lingua ci sono le radici comuni delle parlate indoeuropee. Tutte derivate dal sanscrito. Mio nonno, Mehdi Bahrami era un archeologo, lavorava al Louvre dove conobbe la futura moglie. Mia madre invece ha sangue russo».
Oggi però il regime si accanisce contro il corpo delle donne. Mahsa Amini, appena 22 anni, è stata assassinata per il solo motivo di non aver nascosto sotto il velo una ciocca di capelli. E Mohsen Shekari è stato il primo condannato all’impiccagione a soli 23 anni. Perché?
«Al regime di Teheran fa paura la bellezza, pretende di nasconderla. Si accanisce nella sottomissione delle donne. Ma la civiltà persiana ha un’impronta matriarcale, si vede in questi giorni dolorosi. Le donne iraniane stanno dimostrando di essere più coraggiose degli uomini. Manifestano una forza incredibile. E i maschi stanno imparando dalle ragaz-
Che cosa può fare il mondo occidentale per aiutare le ragazze e i ragazzi iraniani?
«I governi dell’Occidente hanno grosse colpe. Nonostante le apparenze, coltivano imponenti interessi economici in quanto l’Iran è ricco di petrolio e uranio. Dai governi mi aspetto poco. Ma dalle opinioni pubbliche molto. Anche un concerto serve per rompere il muro del silenzio. Come le manifestazioni che si stanno svolgendo in Italia. O la campagna di informazione promossa da Radio Radicale».
Che cosa insegnano invece a noi occidentali, alle nostre sfibrate istituzioni democratiche, gli eventi in corso in Iran? Che le democrazie non si esportano? Ma che si conquistano e si costruiscono nel proprio Paese con il sacrificio e la lotta?
«Sì, la rivoluzione è nata spontaneamente. Ha radici profonde. Come la cultura che non conosce confini. Così la musica, linguaggio universale. Alla fine la bellezza vincerà anche in Iran. Mi piacerebbe che in tanti potessimo ritornare presto a Persepoli, lì dove Arthur Rubinstein amava suonare tra lo splendore di quelle rovine».
Lei non è di religione islamica. Ma ha una sua fede? Se sì, qual è?
«Come Johann Sebastian Bach sono cristiano, di rito cattolico romano. Se la religione cristiana ha avuto il suo più grande musicista in Bach, non posso che esserlo anche io. In quella musica io scorgo la perfezione. Un miracolo della nostra società».
Rivoluzione di parole
uguaglianza è il diritto alla diversità. Ma il valore della diversità si comprende a fondo solo se, invece di intenderla in modo comparativo, la consideriamo come sinonimo di varietà. Vera Gheno, sociolinguista, autrice di numerosi libri tra cui “Chiamami così” (Il Margine) e “Le ragioni del dubbio” (Einaudi), insiste sulla varietà come stato naturale del mondo in cui viviamo. La linguista Beatrice Cristalli, con il suo “Parla bene, pensa bene. Piccolo dizionario delle identità” (Bompiani), sembra darne una dimostrazione concreta muovendosi tra le parole che nell’italiano di oggi registrano quella varietà. Una società che ambisce all’inclusione non può prescindere dall’educazione alla varietà anche nel campo dell’identità di genere e dell’orientamento sessuale e affettivo. Una cultura davvero democratica non può che partire dalla scuola e dal confronto costante tra le generazioni.
Agender, cisgender, demisessuale, cross-dressing, poliamoroso, queer… Queste parole attestano un bisogno, non solo individuale, ma direi sociale e dunque politico. Perché la discussione intorno alla fluidità è esplosa proprio in questi anni? Sono state le persone più giovani ad avviarla? Beatrice Cristalli: «Innanzitutto questi termini non sono termini “nuovi”, come di solito viene comunicato dai media. Non sono i giovani che li hanno creati. I giovani hanno interpretato in modo più semplice le realtà che stanno dietro a queste parole:
hanno accolto altre prospettive di vita. I social hanno avuto un grande ruolo nella divulgazione e nella diffusione di questi termini. Pensiamo alla funzione di Instagram che consente di scegliere il proprio pronome di presentazione: negli Stati Uniti, per esempio, le persone non binarie possono scegliere they/them. La generazione Z e quella Alfa, ancora più giovane, non percepiscono la diversità come la percepivo io da piccola. Pubblicità, cinematografia e social diffondono più possibilità di rappresentazione. Ragazze e ragazzi sono molto avanti, perché partecipano fin da subito a una nuova narrazione. Le “etichette”, però, non sono una moda, non sono da giovani: viviamo in un’epoca in cui le varie dimensioni esistenziali sono venute a galla e c’è stata la necessità di nominarle».
Vera Gheno: «Secondo me ci sono due elementi strutturali del presente che hanno favorito la coscienza, o se vogliamo l’autoanalisi dal punto di vista dell’identità di genere e dell’orientamento sessuale: internet e la globalizzazione. Oggi questo restringersi del mondo e, al contempo, questo ampliarsi delle possibilità grazie a internet, fa sì che siamo costantemente a contatto con
La lingua non viene decisa dall’alto.
Sono i fenomeni e la complessità a determinare l’emersione di parole che danno voce ad altre persone
delle diversità di cui neanche sapevamo l’esistenza. Noi così forti della nostra cultura occidentale, bianca, etero cisnormativa, fino a poco tempo fa non sapevamo quasi nulla dell’esistenza di altri generi e orientamenti nelle civiltà degli altri continenti. In Brasile il transgenderismo è strutturale alla società, nelle Filippine anche, tra i nativi d’America esistono le persone two spirits, che vengono abitate nel corso della loro vita da spirito maschile o femminile. Siamo ossessionati dalla nostra visione del mondo, quando invece la grande necessità del presente è relativizzare il punto di vista». Tutto questo però mi sembra stia creando una dialettica più profonda tra generazioni.
V.G: «Non è che le persone più giovani siano più fluide di noi: agiscono con un orizzonte cognitivo diverso da quello che per esempio avevo io da ragazza. Oggi l’identità di genere e l’orientamento sessuale e affettivo assomiglia a un ventaglio di possibilità. È chiaro che siamo in un momento di passaggio, in cui si assiste a un’iper prolificazione delle “etichette” ed è abbastanza normale in una situazione iniziale di riconfigurazione mentale e cognitiva. La grande dif-
PROFESSIONE LINGUISTA
Linguista, saggista e traduttrice, Vera Gheno sta promuovendo attraverso i libri, le lezioni universitarie, gli interventi social un uso della lingua inclusivo e responsabile. Tra i suoi libri più recenti “Chiamami così” (Treccani), “Le ragioni del dubbio” e “Potere alle parole” (pubblicati da Einaudi).
Beatrice Cristalli, autrice di “Parla bene pensa bene. Piccolo dizionario delle identità” (edito da Bompiani), è linguista e consulente di editoria scolastica.
ferenza rispetto al passato è che le etichette hanno il pregio di essere auto-determinate, rispetto a una lunga tradizione di etichette etero-determinate. Un tempo gli omosessuali venivano definiti dalla cultura dominante “invertiti”, per esempio. Oggi, invece, queste “etichette” le persone se le scelgono per sé».
B.C.: «Abbiamo una visione della parola molto statica, in questo una grande responsabilità ce l’ha il mondo dell’educazione. La lingua non viene decisa dall’alto: sono i fenomeni e la complessità a determinare l’emersione di parole che ci orientano e permettono di dare voce ad altre persone. Le parole che usiamo hanno sempre dietro delle persone. Ogni etichetta nasce dall’esigenza di stare meglio con sé stessi: ci aiuta a conoscerci più in profondità e in relazione agli altri. Le persone adulte in questo momento, invece, non riescono “riconfigurare il campo del pensabile”, come dice il filosofo Francois Jullien. L’incomunicabilità e lo iato tra le generazioni passa inevitabilmente attraverso le parole, perché le parole hanno una storia: riguardano l’atteggiamento nei confronti nel mondo, vale a dire come interpretiamo noi e gli altri».
Rivoluzione di parole
Per una società più inclusiva e solidale è necessaria un’educazione alla diversità. Quali materie dovrebbero essere inserite nei programmi e come dovrebbero essere ripensati i testi scolastici?
B.C.: «Due anni fa ho curato un volume di geostoria al cui interno c’erano rubriche dedicate a importanti figure femminili. Ogni volta che però dovevo editare i testi, mi sembrava che quei box o quelle rubriche fossero una forma di discriminazione nei confronti delle donne. Oggi a livello editoriale si pone molta attenzione all’aggiornamento di tutto l’immaginario collettivo, soprattutto nei testi per la scuola primaria. La migliore proposta è quella promossa dalla pedagoga Irene Biemmi, ma è un progetto in corso. Spesso si trovano ancora nei testi le immagini del papà che torna dal lavoro con la valigetta e la mamma che sta stirando. L’educazione deve essere al passo con i cambiamenti. Questo mette l’editoria scolastica in forte crisi su quali forme utilizzare (ancora sono escluse dai testi scolastici la
schwa, la chiocciola o l’asterisco); tuttavia a livello redazionale è già in atto una fortissima attenzione alla perifrasi che non promuova una visione binaria del mondo. È un processo di aggiornamento molto lento di cui si vedranno i risultati tra dieci anni».
V.G.: «Di fronte a una società più complessa si deve insegnare come funziona il sistema lingua, come si modifica, che cosa apportano cognitivamente le parole… Nell’educazione mancano prima di tutto le competenze metalinguistiche. Insieme a Federico Faloppa, Fabrizio Acanfora e Lorenza Alessandri sto lavorando a una grammatica per il biennio delle superiori che uscirà per Feltrinelli. Stiamo facendo un grande lavoro di riformulazione degli esercizi. Se scrivo, per esempio “Mamma Fatima porta in tavola il cous cous” o se inserisco persone con disabilità nell’apparato iconografico abituo i ragazzi alla diversità. È molto difficile conciliare tutte le esigenze. Acanfora, che è un esperto di accessibilità e inclusione, ci sta aiutando molto in questo senso: i testi dovranno già essere pensati anche per i bes e i dsa, senza box a parte. L’idea di creare dei testi in cui il diverso non è nel boxino ma fa organicamente parte del libro è davvero la nuova frontiera. È la rap-
presentazione di una varietà. È importante farlo fin dalla scuola perché è lì che si crea la coscienza sociale, etica e cognitiva». Se le nuove generazioni hanno già un atteggiamento più naturalmente inclusivo, chi altro deve essere educato alla diversità?
V.G.: «Il problema è che prima di pensare a una scuola democratica bisognerebbe pensare all’educazione di chi insegna nella scuola democratica. C’è un gap generazionale strutturale nella scuola, in questo momento però è ancora più ampio perché sono arrivati i nuovi media. Se continuiamo a misurare le competenze delle nuove generazioni su quello che era corretto per noi, ci perdiamo un grosso pezzo di complessità».
B.C.: «È per questo che chi insegna non può prescindere dal conoscere il digitale, non può non conoscere il linguaggio generazionale, cosa veicolano le immagini, quali sono i trend linguistici su Tik Tok: tutte cose necessarie per entrare in contatto con nuovi modi di interpretare il mondo. Il problema dunque sono gli adulti, le figure di riferimento: i professori ma anche i genitori. Oggi c’è una profonda incomprensione dell’adolescenza. Le ultime generazioni viaggiano a una velocità tale che anch’io,
Ragazzi a Milano, durante Lgbtq+ Pride Parade, luglio 2022; a fianco: ragazzi all’ingresso di un liceo, a Roma
sorella maggiore Millennial, se non studiassi giornalmente alcuni ambiti, farei fatica a capire. Il problema non è il digitale, è l’alfabetizzazione digitale che gli adulti non hanno. Bisogna avere la consapevolezza che tutti noi viviamo nell’on life, in una forma di ibridismo. I docenti che promuovono le classi senza cellulari non lo hanno ancora accettato: per me questo è un grosso limite all’educazione».
V.G.: «Bruno Mastroianni e io lo dicevamo in “Tienilo acceso” nel 2018 (Longanesi). Guardavamo al grande fraintendimento per cui educazione digitale volesse dire educazione all’uso del mezzo, che la soluzione fosse togliere i cellulari invece che integrarli nella didattica nel modo più intelligente». Come si avvia questo cambiamento?
B.C.: «I ragazzi hanno bisogno di fiducia. Si deve conoscere i mezzi, si deve conoscere il loro mondo ed esserne incuriositi. Chi porta ancora “A Silvia” nei programmi come vent’anni fa, senza sapere come portarla oggi, con quali strumenti, si perde una fetta importante di giovani».
V.G.: «Lavoro con un insegnante che propone compiti alternativi. Per esempio, un’interrogazione di storia come un brano trap: scrivi un brano trap sulle invasioni barbariche. L’aggiornamento richiede tempo, cosa che spesso i docenti non hanno perché oberati dalla burocrazia. Si dovrebbe mettere gli insegnanti nelle condizioni anche economiche e sociali per poter seguire al meglio la contemporaneità».
Quella della fluidità è la prima grande rivoluzione culturale del millennio?
V.G.: «Non è una vera rivoluzione. La cosa c’era già, forse ci siamo resi conto solo ora di questa complessità».
B.C.: «Quando si parla di giovani, l’accezione di fluidità ha qualcosa di negativo per gli adulti. In realtà, la fluidità riguarda tutti, solo che gli adulti hanno difficoltà ad accettarlo».
Pubblicità, cinema, social diffondono più possibilità di rappresentazione.
Su Instagram le persone non binarie possono scegliere il pronome they/them
Se la storia è malinconica
Il XXI secolo nasce dall’eclissi delle utopie, sostiene lo storico Enzo Traverso. Sconfitta della sinistra e ascesa del neoliberalismo autoritario sono il frutto di quella svolta
L’
Ottocento è un secolo che si apre con la rivoluzione francese; il Novecento nasce con la grande guerra, ma il suo orizzonte d’attesa è fissato dalla rivoluzione russa; il XXI secolo nasceinvecedaunacontrorivoluzione, dalla sconfitta e dall’eclissi dell’orizzonte di attesa utopico e rivoluzionario, con la grande svolta del 1989...». Per Enzo Traverso, è all’interno di questa svolta storica e della «paralisi utopica» che ne deriva che vanno lette la sconfitta della sinistra in Italia e l’affermazione del neoliberalismo autoritario del governo presieduto da Giorgia Meloni. Storico della Cornell University di Ithaca, New York, tra i più rigorosi intellettuali del nostro tempo, Traverso è in Italia per il Premio Napoli 2022, di cui è finalista con “Rivoluzione. 17891989: un’altra storia” (uscito l’anno scorso per Feltrinelli), una monumentale storia intellettuale del concetto di rivoluzione, da leggere insieme a “Malinconia di sinistra. Una tradizione nascosta” (Feltrinelli) e al suo ultimo libro, “La tirannide dell’io. Scrivere il passato in prima persona” (Laterza).
Con “Rivoluzione”, lei intende «riabilitareilconcettodirivoluzionecome chiave d’interpretazione della modernità», evitando le trappole simmetriche della stigmatizzazione conservatrice e dell’apologia cieca. Cosa ne deriva per la comprensione del presente?
«La rimozione del concetto di rivoluzione dal paesaggio culturale, politico e ideologico del presente fa sì che oggi si pensi alla politica, ma che nessuno pensi più alla rivoluzione come via possibile al cambiamento. Ricostruirne la storia è indispensabile per capire che il XXI non sarà un secolo senza rivoluzioni. Le rivoluzioni sono scomparsesolodalnostrouniversomentale, non dalla realtà. E non è escluso che nel XXI secolo lo stesso concetto subisca una nuova metamorfosi, come quella avvenuta con la rivoluzione francese: non più il ritorno alle condizioni originarie dopo un movimento rotatorio ciclico, secondo la definizione dell’astronomia, ma una rottura sociale e politica, la proiezione della società nel futuro. Una proiezione resa possibile dalla dialettica storica di cui parlava Reinhart Koselleck: la storia
A sinistra: 14 maggio 1929, Benito Mussolini parla al popolo. Sopra: lo storico Enzo Traverso
Foto: Publifoto –LaPresse, A. Cristofari –Contrasto
come dialettica tra il passato come campo di esperienza e il futuro come orizzonte di attesa. Oggi quella dialettica si è inceppata».
Lei sostiene che, dopo questo passaggio, una nuova sinistra globale non possa rinascere se non elabora l’esperienza storica che ha trasformato il socialismo in un’utopia fredda. Anziché eluderla, dovrebbe inoltre farci carico della “malinconia di sinistra”. La malinconia è una premessa all’azione politica?
«Non faccio della malinconia una prescrizione, una terapia. Ma neanche un sentimento di impotenza e rassegnazione: è un processo di elaborazione di una coscienza storica senza il quale le future rivoluzioni non potranno pensare il futuro. I movimenti degli ultimi venti anni hanno una vasta elaborazione critica, ma non si inscrivono in una continuità storica. Le rivoluzioni arabe non avevano modelli di riferimento, non erano socialiste, comuniste, panarabe, islamiste, terzomondiste o antimperialiste. I Gilets jaunes in Francia non scendevano in piazza con la bandiera rossa. Esistono movimenti radicali con forti potenzialità,
Leggere il presente
ma sono privi di memoria e di coscienza storica».
Per lei la malinconia è produttiva, performativa. Ma nella storia della sinistra è apparsa spesso come un segno di debolezza e impotenza... «Nella cultura della sinistra la malinconia è stata a lungo rimossa come illegittima, anche a causa di un retaggio virilista, maschilista e guerriero. Per Raymond Williams, invece, la malinconia fa parte della struttura dei sentimenti della sinistra. D’altronde, ha svolto un ruolo attivo in molti casi. Le madri di Plaza de Mayo in Argentina
ha definito principio disperazione, che pone il problema dell’etica della responsabilità».
Una certa storiografia ha favorito l’idea che l’utopia di una società liberata e il socialismo reale fossero la stessa cosa e che il totalitarismo sia l’esito inevitabile di ogni utopia rivoluzionaria. Oggi si dà per scontato che non ci sia alternativa a democrazia liberale e società di mercato...
«Se osserviamo quel che è avvenuto in Italia negli ultimi mesi – le elezioni, il nuovo governo, la sua composizione
Un retaggio maschilista e guerriero ha fatto rimuovere l’emozione dalla sinistra. Ma il lutto è scintilla per le rivolte. Come Plaza de Mayo o Black Lives Matter
sfilavano con i ritratti dei desaparecidos. Manifestazioni di lutto, ma scintille per la lotta contro la dittatura militare. Black Lives Matter è un altro esempio di come lutto e malinconia possano sfociare in rivolta e lotta». L’abbandonodelsognodiun’umanità liberata ha prodotto un regime di storicità che ne “La tirannide dell’io” definisce “presentismo”. La stessa immaginazione è chiusa dentro i confini del presente o, se rivolta al futuro, è distopica, segnata da catastrofi ecologiche. Come interpreta il “catastrofismo”?
«Il fascismo è una minaccia, ma è un’opzione che si può evitare, mentre lacatastrofeecologicaèundestinoineluttabile se non modifichiamo il modello di civiltà ancor più che alcune politiche economiche. Per le nuove generazioni è la premessa per pensare un futuro capace di scongiurare la catastrofe. Il Novecento era un secolo dominato da quello che Ernst Bloch definiva il principio speranza, il secolo dell’anticipazione, del non-ancora, dell’utopia. Ora l’unica anticipazione possibile è quella dell’escatologia negativa. Vale quel che Günther Anders
– non solo con una lente contingente, ci accorgiamo che è l’esito di questo lungo processo storico. Oggi si parla di fascismo a livello globale, ma l’Italia non è solo un Paese che ha conosciuto il fascismo. È il Paese in cui il fascismo è nato. In cui il comunismo non ha prodotto i gulag, ma la resistenza. Ora abbiamo un governo con un partito maggioritario che ha rivendicato con orgoglio la propria origine. Si insedia dopo anni di campagne di stigmatizzazione e criminalizzazione del comunismo, contro una parte del mondo politico che, anziché ribattere, diceva “siamo d’accordo con voi, anzi, i ragazzi di Salò sono bravi ragazzi!”. Non c’è da stupirsi: gli eredi del fascismo sono arrivati al governo traendo profitto da una svolta culturale profonda».
L’ultimo capitolo di Rivoluzione si intitola “Storicizzare il comunismo”. Ritiene che l’attuale deficit della sinistra in Italia dipenda anche dal non aver fatto i conti con quella storia, storicizzandola?
«In Italia abbiamo assistito non solo alla sconfitta del comunismo, del socialismo e delle rivoluzioni del Nove-
cento, ma all’autodissoluzione del più grande partito comunista del mondo occidentale. La sconfitta è stata non solo accettata, ma quasi rivendicata. Il passato, dimenticato e rimosso. Da un lato c’è chi ha chiuso quell’esperienza senza elaborarne l’eredità, aderendo in modo acritico a un nuovo modello: la democrazia liberale e la società di mercato come ordine naturale del mondo. Dall’altro la reazione di una minoranza ancorata a un modello ormai obsoleto, sterile. In una prospettiva di lunga durata siamo ancora dentro questa impasse». In un’intervista al Manifesto ha parlato del governo Meloni come «l’espressione più vistosa di una tendenza verso il neo-liberalismo autoritario che permette la convergenza tra la democrazia liberale classica e il post-fascismo», che fa propri i valori del capitalismo. La sinistra può “sfruttare” la situazione?
«Tensioni e contraddizioni dell’ascesa della nuova destra, in Italia e altrove, non vanno sottovalutate. Più che alle sue scelte ideologiche, il successo di Giorgia Meloni è dovuto alla sua “coerenza politica”, al fatto che sia apparsa
l’unica forza di opposizione, alternativa. La stessa chiave spiega l’ascesa delle nuove destre radicali su scala globale, apparse come l’unica alternativa - di destra, conservatrice, reazionaria - al neoliberalismo. Eppure, se diventano l’incarnazione di un neoliberalismo autoritario, vanno inevitabilmente incontro a problemi: possono apparire forze di governo legittime agli occhi delle élite, ma perderanno consenso tra i ceti popolari che le hanno sostenute».
La “coerenza politica” di Giorgia Meloni è passata per la rivendicazione dell’autonomia del politico: l’idea che Fratelli d’Italia fosse l’unico partito a rappresentare gli interessi del popolo, non della finanza globale. Ma dentro l’economia politica neoliberista i governi hanno margini di autonomia ridotti. Come ne uscirà il governo?
«In Italia, almeno a partire dal governo Monti, l’autonomia del politico è stata sostituita dall’autonomia dell’economico. Oggi l’autonomia del politico può spiegare la capacità di Giorgia Meloni di far rinascere un partito che sembrava un residuo dell’estrema destra, raccogliendo un forte consenso
Bosnia, cronache da un girone infernale
di Gigi Riva
È finalmente stato pubblicato anche in Italia, a quasi trent’anni dalla prima edizione norvegese, il libro-testimonianza di un sopravvissuto ai campi di concentramento in Bosnia, “Il decimo girone dell’inferno” (edizioni Spartaco). Ma non è mai troppo tardi per riflettere sulla brutalità di alcuni istinti umani che, a sconfessione di ogni idea di progresso, puntuali si scatenano soprattutto durante le guerre, ma non solo. L’autore si chiama Rezak Hukanovic, un poeta di Prijedor, cittadina del nord-est della Bosnia, a meno di duecento chilometri in linea d’aria da Trieste, dove il furore dei serbi toccò il suo apice. Hukanovic fu catturato il 30 maggio 1992, in una vasta retata che comprese anche tutti gli intellettuali della zona a qualunque titolo. Una pulizia culturale oltre che etnica nella convinzione che massacrando loro si sarebbero eliminati i punti di riferimento ideologici della comunità musulmana. Il suo tour nell’abisso toccò i campi di concentramento del suo luogo natale, di Omarska e Manjaca. Fu liberato in uno scambio di prigionieri l’anno successivo e riparò in Norvegia dove scrisse la sua storia. Usando l’espediente della terza persona perché, spiegò, sentì che per narrare doveva prendere una distanza, immaginare che le efferatezze subite (e le complicità di ex amici e vicini di casa) dovevano essere accadute a qualcun altro. Il volume si intitola “Il decimo girone dell’inferno”, esplicita citazione di Dante che nella Commedia ne contemplò nove, come a significare che nemmeno il sommo Alighieri poteva immaginare tanto orrore. La cifra stilistica è una cronaca mondata dagli aggettivi, superflui se si devono descrivere stupri di gruppo, crani fracassati a bastonate, genitori che vedono morire i figli di fame, stenti, botte tra le loro braccia e viceversa, anziani obbligati a fare l’amore in pubblico con ragazze ventenni, uomini evirati. C’è anche spazio per qualche raro carceriere che, di nascosto dai superiori, sfida il “tradimento” passando un tozzo di pane a detenuti conosciuti nella vita di prima. Un minuscolo raggio di sole nell’uragano.
“Il decimo girone dell’inferno” di Rezak Hukanovic prefazione di Elie Wiesel e postfazione di Paolo Rumiz Edizioni Spartaco, pp. 156, euro 16
elettorale, passando come interlocutore credibile per l’Unione europea e per l’élite economico-finanziaria, senza rinunciare alla periferia di neonazisti e neofascisti. Ma arrivata al governo la stessa Meloni diventa l’incarnazione dell’autonomia dell’economico, la cifra dell’era neoliberista, ultima di una serie di governi votati dai parla-
menti ma sovradeterminati da forze esterne. È una tendenza generalizzata. Se vuole essere una forza di alternativa, la sinistra non può che opporsi radicalmente a questo modello. E nella misura in cui è la destra a governare, deve saperne gestire tutte le contraddizioni che ne derivano».
Al
Grand Tour
degli spettatori
Portare gli appassionati del palcoscenico a vedere le migliori pièce d’Europa. Teatro Pubblico Ligure e Narni Città Teatro lanciano la sfida. Da Parigi, con Bartabas
Un grande falò, con lingue di fuoco che sembrano toccare le stelle, illumina e riscalda i volti. Gli sguardi si cercano, quasi a voler domandare o almeno rubare qualche parola mentre ci viene offerto da bere. Attorno al grande fuoco sono radunati gli spettatori, gente di tutte le età, che ogni sera, settimana dopo settimana, raggiunge il Fort di Aubervilliers per condividere un rito, quello teatrale, in un luogo storico e affascinante: il Théâtre Zingaro, uno spazio abitato da cavalli e acrobati-fantini, tra magie e
fantasie che sera dopo sera catapultano il pubblico nel mondo arcaico e sognante dallo spettacolo “Cabaret de l’exil. Irish Travellers”.
Ma prima di parlarvi del magico mondo di Bartabas, un personaggio quasi mitico che anni fa ammaliò anche il pubblico romano sfrecciando sui suoi cavalli eleganti, voglio parlarvi proprio di loro, di quel pubblico fatto anche di spettatori italiani che se ne vanno in giro per l’Europa a vedere spettacoli di grandi registi. Eh sì, avete capito bene, armi e bagagli e poi via per il “Grand Tour”.
È questo il nome dell’ambizioso pro-
getto ideato da Sergio Maifredi per il Teatro Pubblico Ligure, in collaborazione con Narni Città Teatro, che porta il pubblico italiano ad assistere ai migliori spettacoli della scena europea, proprio nei teatri in cui nascono i lavori, rovesciando così il punto di vista al quale siamo abituati: non più importare spettacoli, ma andarli a vedere lì dove sono nati.
dei più grandi
meier,
La novità di quest’anno è l’organizzazione di una vera e propria Stagione Teatrale Europea. Abbiamo deciso, come Teatro Pubblico Ligure, di dare forma a questo rovesciamento di prospettiva: non più far venire gli artisti in Italia, ma andare noi da loro. È un po’ come andare a vedere un’opera d’arte in una chiesa, perché non si può fare anche con il teatro? In questo modo il pubblico non vive semplicemente lo spettacolo, cioè il risultato finale, ma entra anche nel mondo degli arti-
sti, nelle loro “case”».
La visione di Sergio Maifredi ha poi incontrato quella di Davide Sacco, drammaturgo e regista, da un paio di anni direttore artistico con l’attore Francesco Montanari (coadiuvati da Ilaria Cenci) di Narni Città Teatro. «Partiamo da una domanda: quale è la funzione del teatro? Cominciamo da qui per approfondire il concetto di responsabilità dello spettatore. Il teatro non è semplicemente un sipario che si apre, bisogna far capire allo spettatore che non sta acquistando un biglietto, ma la bellezza. Questo significa che non vogliamo collezio-
nare spettacoli, ma creare progetti di comunità in cui raccontiamo delle storie. Il teatro per noi è un bene comune». Ed è bastato frequentare pochi giorni questi spettatori per capire che sono già una comunità. Alcuni di loro hanno preso il volo da Roma, altri da Milano, prima di incontrarsi a Parigi: a loro spese, ma con un’organizzazione curata dai teatri italiani. «Una delle cose belle di questo progetto è l’aver favorito la nascita di legami speciali, di amicizia», racconta Adelaide Carlini, 38 anni, guardia nazionale ambientale. «Io per esempio condivido la mia stanza con Elisa,
Foto: Hugo Marty, S. Gengotti registi: Thomas Oster- Ariane Mnouchkine, Giorgio Strehler, James Thierrée, Eugenio Barba, Milo Rau. Spettatori del Grand Tour, Stagione Teatrale Europea. A sinistra: un momento dello spettacolo “Cabaret de l’Exil - Irish Travellers” di Bartabassenza frontiere
In una scena indimenticabile un cavallo bianco corre e si rotola nella nebbia ricreata nello spazio circolare di Aubervilliers, quasi un quadro vivente di Chagall
è un po’ come essere in gita scolastica». La più grande del gruppo è Angelina Caorsi, 75 anni. È abbonata da sette anni al Teatro Pubblico Ligure, che ha sede a Sori (Genova), dove lei vive. «Amo viaggiare, sono già stata a Vienna e a Berlino. Quando torno i miei figli chiedono e io racconto». Le fa compagnia Anna Olivari, 64 anni, che vive a Rapallo. Anche lei è abbonata al Teatro Pubblico Ligure ma è al suo primo viaggio in Europa: «Sono felicissima di questa esperienza. Il teatro ti apre il cervello. Prima che scoppiasse il Covid avrei dovuto viag-
giare per vedere lo spettacolo di Milo Rau, ma poi il lockdown ha bloccato tutto. E ora finalmente questo viaggio, che meraviglia». Arriva da Viterbo, ma vive a Terni, invece, Andrea Iosa, 37 anni, titolare di un’azienda. «Sono abbonato da un paio di anni al Teatro Manini di Narni, e questa idea del Grand Tour la trovo molto innovativa», dice: «A teatro vedo un po’ tutto, ma certi spettacoli come quello di Bartabas sono un’altra cosa». Tutti ne sono rimasti affascinati, a partire da Raffaella Martellotti, la più chiacchierona del gruppo, che però dopo lo
spettacolo della compagnia Zingaro resta senza parole.
Per raccontarvi cos’è “Cabaret de l’exil. Irish Travellers” partiamo dal luogo in cui siamo, il Théâtre Zingaro, fondato da Clément Marty, alias Bartabas, che dal 1989, grazie al sostegno dell’allora ministro della cultura Jack Lang, ha trovato la sua sede in Aubervilliers. Qui ogni anno arrivano più di 60mila spettatori per assistere alle creazioni di Bartabas, personaggio dalla natura gitana come la sua arte, che mescola circo e teatro di ricerca, danza e performance, mantenendo sempre fede alla centralità del cavallo, celebrando la sua forza e la bellezza.
inizio già nel primo dei due edifici in legno progettati da Patrick Bouchain, la grande hall, che al centro ha tanti tavoli sui cui poter mangiare, mentre tutto attorno a noi, fino in cima, costumi, pupazzi, disegni, maschere, scenografie rendono impossibile rimanere a lungo con il naso in giù.
Al teatro circolare il pubblico accede attraverso la scuderia, così l’odore e i nitriti dei cavalli precedono la visione dello spettacolo, che è un ritorno al cabaret equestre delle origini, stavolta in un mondo popolato da viaggiatori irlandesi, oche, pecore, e pony tra feste e processioni, canti e corse spericolate su carovane strampalate trainate da cavalli che corrono verso la libertà. È il secondo capitolo di “Cabaret de l’Exil”, un progetto partito lo scorso anno e destinato a proseguire fino al 2025. Mentre la prima parte si ispirava alla cultura yiddish e alla musica klezmer, questa seconda stagione
Spettacoli per Visionari dalla Valtiberina al Mali
Ne hanno fatta di strada in questi anni i Visionari. Le loro “assemblee democratiche” non saranno sfuggite a chi è capitato di frequentare il borgo di Sansepolcro (Arezzo), dove ogni estate decine di persone sedute in cerchio commentano lo spettacolo visto la sera precedente. Chi sono i Visionari? Uomini e donne di ogni età che amano il teatro, “cittadini attivi” della Valtiberina che dal 2007 selezionano spettacoli per poi formare ogni anno il cartellone di Kilowatt Festival. Da allora si incontrano e si confrontano, partecipano alle attività dell’Associazione CapoTrave/Kilowatt e oggi sono un modello per l’Europa, tanto che 50 gruppi di Visionari sono nati in 15 Paesi differenti, dal Regno Unito alla Spagna. Ad inventare il format dei “Visionari” è stato il regista e drammaturgo Luca Ricci, ideatore con Lucia Franchi del Kilowatt Festival. «Chi l’avrebbe detto che partendo da un piccolo centro saremmo diventati partner capofila, per ben due volte, di un progetto di cooperazione europea. All’inizio ci sembrava una cosa più grande di noi e invece eccoci qua» racconta Luca Ricci da Lisbona, dove lo incontriamo insieme a tutti gli altri 18 partner di “Be SpectACTive!”, il progetto di cooperazione che in otto anni di ricerca ha approfondito, studiato, sperimentato diverse modalità partecipative di programmazione e gestione dei processi creativi nel settore dello spettacolo dal vivo. A conclusione delle attività co-finanziate da Creative Europe, per il progetto ideato e curato da Luca Ricci con la cultural manager e ricercatrice Giuliana Ciancio, sono state organizzate a Lisbona tre giornate di convegno (“Having a voice”) durante le quali direttori di festival e di teatri, organizzazioni culturali, docenti universitari e centri di ricerca hanno dialogato, confrontandosi su pratiche che hanno rivoluzionato in qualche modo il rapporto tra pubblico, artisti e operatori del settore, e trasformato un’attitudine passiva della fruizione culturale in avventura intellettuale. E tra un pastel de nata e un bicchiere di Porto, abbiamo scoperto anche nuove realtà, come il Festival Sur Niger, in Mali, dove gli spettatori vengono ospitati nelle case di artisti, musicisti e artigiani. (F.D.S)
segue l’universo dei viaggiatori irlandesi, nomadi esiliati nel loro stesso Paese, una minoranza etnica itinerante (oggi sono circa 30mila in Irlanda) che nutre un grande amore proprio verso per i cavalli, e con una cultura musicale incentrata sulla tradizione orale, celebrata dal cantastorie irlandese Thomas McCarthy che Bartabas ha coinvolto nel suo spettacolo. Quello che vediamo davanti ai nostri occhi è semplicemente un intreccio di vita e di morte, ma c’è una scena che resta indelebile più di ogni altra nella nostra mente: un cavallo bianco che cor-
re e si rotola nella nebbia ricreata nello spazio circolare, quasi un quadro vivente di Chagall.
Non perdetelo se passate per Parigi, dove resterà in scena fino al 2 aprile. Ma quale sarà il prossimo appuntamento del Grand Tour? Stoccolma, dove sta per debuttare “La Signorina Giulia” di August Strindberg con la regia di Marie-Louise Ekmanal, a gennaio al Dramaten, in quella che fu la seconda casa di Ingrid Bergman. Zaino in spalla, dunque: si parte per un nuovo viaggio teatrale.
Il mostro sacro e il suo delfino. Enrico Rava, 83 anni, e Fabrizio Bosso, alla soglia dei cinquanta. In comune la tromba, lo strumento che da decenni li porta in giro per il mondo, il jazz in tutte le declinazioni e il gusto di attraversare il mare largo della musica, dall’improvvisazione fino al pop e al soul. A Stevie Wonder è dedicato il nuovo album di Bosso, “We wonder” (Warner Music), che verrà presentato dal vivo il 7 gennaio all’Auditorium Parco della musica, a Roma. Nove canzoni tra le più significative del leggendario musicista americano, da “Isn’t she lovely” a “Overjoyed”. Mentre di recente Rava ha realizzato l’album “The Song is You” per l’etichetta ECM, con Fred Hersch al pianoforte. Abbiamo fatto incontrare i due trombettisti: un dialogo tra passioni, miti, idiosincrasie, memorie che riaffiorano.
È capitato di vedervi insieme sul palco. Nel 2017, a Perugia per Umbria Jazz, Bosso invitò Rava a duettare in una canzone di Dizzy Gillespie. Cosa pensate l’uno dell’altro?
Enrico Rava: «Adoro Fabrizio, ascoltarlo è un piacere enorme. È uno dei trombettisti con maggior controllo dello strumento, non c’è Wynton Mar-
salis che tenga. Una volta in Francia eravamo in albergo, in due camere vicine: lo sentivo fare gli esercizi con la sordina. Sono rimasto a bocca aperta per quanto fosse bella la sua musica».
Fabrizio Bosso: «Con la sua libertà, Enrico fa capire davvero cosa vuol dire fare musica. Ha ancora voglia di trasmettere qualcosa a chi lo ascolta, lui che ha calcato palchi incredibili e suonato con musicisti incredibili. A differenza di tanti colleghi non ha paura dei musicisti, l’ho sempre visto cercare il dialogo. A me invece è capitato di suonare in big band con colleghi che speravano sbagliassi. Una cosa terribile».
Dieci anni fa Rava incise “Rava on the dance floor”, album tributo a Michael Jackson, adesso Bosso rende omaggio a Stevie Wonder. Cosa vi appassiona di questi due grandi artisti?
E.R.: «Michael Jackson è uno dei più grandi artisti del Novecento. È stato un grandissimo cantante, un compositore strepitoso e un ballerino straordinario, non a caso Fred Astaire lo apprezzava molto. Prima di lui, vedere un videoclip musicale era come mangiare una pizza cattiva: poi è uscito “Thriller”, ha chiamato grandi registi come George Lu-
cas, coinvolto Marlon Brando in “Bad”. In particolare adoro i suoi ultimi due o tre dischi, i meno gettonati, piacevolissimi e interessanti, in cui usa elementi di musica contemporanea. Il suo percorso ricorda un po’ quello dei Beatles. Tuttavia non ho mai “jazzificato” Michael Jackson, ho rispettato quei ritmi, quel clima».
F.B.: «Sono cresciuto con la musica di Stevie Wonder, ho iniziato a improvvisare sui suoi dischi e su quelli dei grandi cantautori italiani. Trovo geniale la sua facilità nel costruire melodie che restano nell'orecchio di chi ascolta. Al tempo stesso le sue canzoni possiedono una profondità eccezionale dal punto di vista armonico. A differenza di Enrico, con il quartetto abbiamo portato la musica di Stevie nel nostro mondo, ma armonicamente non abbiamo toccato quasi niente perché la sua scrittura è perfetta». Jazz e pop non vanno sempre d’accordo. I puristi storcono il naso davanti a certe contaminazioni. E.R.: «I puristi sono integralisti, non mi interessa cosa dicono o pensano. La musica del Novecento, dal jazz al funky al rap, è figlia di quello che è accaduto in America a fine Ottocento, dove la memoria del ritmo africano si è incon-
trata con la musica sacra inglese, francese, italiana. Queste musiche sono tutte imparentate».
F.B.: «Sono d’accordo, aggiungo solo un’osservazione tecnica. Il risultato della contaminazione dipende dalla qualità di chi porta il jazz a incontrare il pop. Se Enrico suona un assolo in una canzone, come ha fatto milioni di volte, avremo la certezza che aggiungerà poesia. Purtroppo esistono canzoni pop con brutti assoli».
A proposito di miti del jazz, nel 1969 Rava ha conosciuto Miles Davis a New York. Cosa ricorda del vostro incontro?
E.R.: «Suonavo con un gruppo jazz rock che si chiamava Gas Mask, avevamo fatto un disco prodotto da Teo Macero, il produttore di Miles. Quella sera presentavamo l’album nel club Ungano, il tempio del jazz rock a New York. Ero fuori che aspettavo di entrare, appoggiato a una cabina telefonica, fumavo la mia cinquantesima Pall Mall senza filtro della giornata. A un certo punto vedo da lontano questo nero, piccolo, bellissimo, vestito super “hip”, trendy, con il cinturone e la giacca con le frange. “Oh, cazzo”, dico. Mi appoggia la bocca all’orecchio e mi fa con la sua voce roca: “Are you playing tonight?”, “suoni
stasera?”. Cerco di essere cool e gli rispondo: “Yes, I play”, “sì, suono”. Lui aggiunge: “Okay, I will check you out”, “Vengo a controllarti”, poi entra nel club tra la folla, che si apre come le acque con Mosè. Telefono immediatamente a casa, all’epoca vivevo con la mia prima moglie, con Gato Barbieri e sua moglie. “Guardate, c’è Miles. Venite immediatamente con del Valium!”, dico. Mezz’ora dopo arriva il taxi, ho preso il tranquillante e ho suonato rilassatissimo». Miles era in prima fila con Teo Macero, credo di aver suonato bene. Quando sono sceso dal palco è venuto da me e mi ha dato un pugno sul braccio, mi è rimasto il livido per un mese». Fabrizio Bosso, quali sono i musicisti più interessanti che ha conosciuto?
F.B.:«Un paio di episodi li ricordo volentieri. Una volta da bambino andai ad Aosta insieme a mio padre per vedere Dizzy Gillespie con l’orchestra. Pioveva a dirotto, siamo rimasti sotto l’acqua per un’ora e mezza. Un concerto pazzesco. Alla fine mio padre si avvicina alla scaletta mentre Gillespie sta scendendo, gli fa segno che anche lui suona la tromba. Ma non solo. “Anche mio figlio suona”, dice gesticolando a Dizzy, che si avvicina e, senza dire una parola, mi mette una mano sulla testa. E poi mi piace ricordare un altro incontro importantissimo avvenuto proprio grazie a Enrico. Anni fa Charlie Haden aveva bisogno di un trombettista per sostituire il suo durante il tour europeo. Enrico ha fatto il mio nome, non finirò mai di ringraziarlo». Di Miles Davis abbiamo parlato. Tra i grandi trombettisti chi amate di più: Chet Baker, Wynton Marsalis o Louis Armstrong?
E.R.: «Louis Armstrong l’ho visto una volta in concerto a Torino quando avevo 15 o 16 anni. Un’emozione pazzesca. È il più grande di tutti, ha traghettato il jazz dal folklore alla musica d’arte. Marsalis è un grandissimo trombettista ma non mi ha mai emozionato. Invece Chet Baker lo adoro. I suoi dischi, insieme a quelli di Miles, João Gilberto e Sonny Rollins, li avrò ascoltati milioni di volte. In questi giorni suono in casa con le musiche di Chet Baker, che ho
Stelle della musica
conosciuto quando suonavo la tromba da un anno e poi ho avuto la fortuna di frequentarlo tutta la vita. Se Miles è il massimo della drammaturgia, Chet è la bellezza pura. Ogni sua nota era come se fosse l’ultima».
F.B.: «Sono tre trombettisti che ci hanno insegnato tanto. Louis Armstrong mostra come si sta sul tempo, in maniera molto moderna per la sua epoca. Chet Baker ha fatto capire a tutti cosa vuol dire raccontare qualcosa con profondità senza sfruttare a tutti i costi i
mezzi dello strumento. Marsalis è sicuramente uno dei trombettisti più forti di tutti i tempi. Mi sento mezza unghia rispetto a lui, ma la capacità tecnica non deve necessariamente piacere a tutti».
A volte la musica flirta con la letteratura e le arti visive. C’è uno scrittore, un pittore, un fotografo che influenza il vostro lavoro?
F.B.: «Sono sempre stato molto attratto dalle musiche da film. Nino Rota, Ennio Morricone, i grandi compositori. Tra i pittori amo molto Picasso e, in ogni caso, quando capita di suonare in un ambiente dove si respira altra cultura anche la musica prende un’altra strada».
E.R.: «Sono un lettore onnivoro. Lo scrittore che ho amato e amo di più è Proust, adoro Raymond Carver, mi piace moltissimo Philip Roth. Per me il più grande scrittore italiano del dopoguerra è Beppe Fenoglio, che conosco a memoria, e ho letto quattro o cinque volte “La coscienza di Zeno” di Italo Svevo. Quanto alla pittura, mi piace tutta dal Quattrocento in poi. Mi è capitato di visitare qualche mese fa la Cappella degli Scrovegni, a Padova. È stato un tale choc che mi veniva da piangere».
Foto: Michael Ochs Archives –GettyImages, D. Redfern –Redferns / GettyImages Sopra: Miles Davis durante un concerto. In alto: il trombettista statunitense Dizzy GillespieRava: “Ho frequentato Chet Baker tutta la vita. Se Miles Davis è il massimo della drammaturgia, Chet è bellezza pura. Ogni sua nota era come se fosse l’ultima”
Negli abissi di Avatar
Arriva il sequel della favola ambientalista, record di incassi e con un cast stellare.
to da guerrieri giganti di colore blu chiamati Na’ Vi, in cui regna l’armonia tra le specie grazie a una profonda connessione energetica. Una fiaba ambientalista decisamente anti-americana: a minacciare l’esistenza di Pandora e pretenderne la conquista interveniva nel primo film il governo americano, lo stesso per cui si era battuto in guerra l’ex marine Jake Sully, reinventatosi presto guerriero difensore di Pandora. Cameron spiega il successo mondiale del suo film, che portò a casa tre Oscar nel 2010, con la portata universale del suo messaggio: «Avatar ha saputo parlare a tutti: attraverso la lente della fantascienza il pubblico – americano, ci-
nese, europeo o giapponese che fosseha visto affrontato sullo schermo anche un discorso politico che riporta al caos delle nostre vite reali». Un caos che, sottolinea il cineasta, appartiene solo al mondo degli adulti: «Tutti i bambini d’istinto amano la natura e gli animali, il merito di “Avatar” sta nel riuscire a riportare chi guarda a quel livello di stupore e meraviglia, facendo riflettere sulla complessità e la grandezza della natura e su quanto, da adulti, tendiamo ad allontanarcene fino a rischiare di rovinarla per sempre».
Tredici anni dopo, il sequel “Avatar: La via dell’acqua” approda al cinema:
«La voglia di fare un sequel me l’ha data l’esperienza umana con il cast artistico e tecnico migliore che potessi immaginare. Abbiamo compiuto tutti insieme un viaggio importante con il primo film, e non vedevamo l’ora di rifarlo. Ho riunito Sam Worthington, Zoe Saldana e persino Sigourney Weaver che nel primo film era morta e qui torna nei panni di un’adolescente, pur di ripetere quest’esperienza incredibile insieme. Perché nel frattempo siamo tutti cresciuti, siamo diventati genitori – solo io di figli ne ho quattro – e volevamo raccontare le dinamiche familiari e il senso di responsabilità sui figli, la
Sopra: una scena del film “Avatar”. A lato: James Cameron, 68 anni
paura di quando diventi genitore e temi di perdere chi per te conta di più al mondo ma anche, al tempo stesso, quel senso di accettazione reciproca. L’importanza di quell’“Io ti vedo”, cioè l’attenzione che dobbiamo porre gli uni agli altri per vederci, per convivere pacificamente insieme». Ambientato più di dieci anni dopo gli eventi del primo film, il sequel racconta «le avventure della famiglia Sully, ora che Jake e la sua Neytiri sono diventati genitori e sono tenuti a insegnare ai loro figli a rispettare il loro pianeta e le sue leggi, a stare al mondo guardandosi dai numerosi pericoli a cui sono espo-
realizzato dalla Nasa e dall’Istituto di Oceanografia dell’Università della California. I suoi attori si sono impegnati a fondo per tenere il passo e recitare, per la prima volta in assoluto, direttamente sott’acqua. «Sono stati determinati e impavidi, si sono impegnati al massimo per una sfida recitativa per nulla facile. Gli effetti speciali possono aiutare, ma è la bravura degli attori a fare la differenza in un film», sottolinea con convinzione Cameron. «Prendiamo Sig (Sigourney Weaver, ndr) ad esempio: si è messa in gioco ed è stata molto coraggiosa, ha saputo dare voce a una teenager in lotta con la sua identità e ci ha sbalordito. Per non parlare
siamo anche stati accusati di non avere un grande impatto culturale». Eppure è proprio sull’incontro tra culture diverse che si è sempre basata la storia di Avatar, dal primo capitolo in cui gli americani miravano a sbaragliare i nativi Na’Vi fino a questo sequel che mostrerà in che modo riescano a convivere tribù diverse su Pandora: «Tutto è iniziato perché volevo ribaltare lo stereotipo dell’invasione aliena con cui siamo cresciuti: mi piaceva mostrare una volta tanto come fossero gli umani i veri nemici, pronti a invadere senza esitazione per distruggere la Natura e tutte le meraviglie che offre».
LA MINACCIA NAZIONALISTA SULL’EUROPA
Guido Crainz ricostruisce le origini dei sovranismi nei Paesi ex sovietici. E le responsabilità occidentali DI LEOPOLDO FABIANI
Le ombre del passato che si allungano sul futuro dell’Europa sono i nazionalismi. Specie quelli in crescita minacciosa nei Paesi che a torto abbiamo chiamato “dell’Est” e invece sono il cuore dell’Europa. Sono, argomenta Guido Crainz in “Ombre d’Europa” (Donzelli), sentimenti antidemocratici e antiliberali che vengono da lontano. Lo snodo cruciale è stata la caduta del muro di Berlino e il seguente crollo dell’impero sovietico. L’errore più grave, da parte “occidentale”, è aver preteso l’adesione immediata alle “nostre” istituzioni politiche ed economiche, poco compatibili con il peso di decenni passati sotto i regimi imposti dall’Urss. In particolare l’economia di mercato nella versione del liberismo più esasperato ha provocato sofferenze sociali, disuguaglianze estreme, crisi economiche. Da qui un rancore verso l’Europa, un senso di estraneità, quasi fosse ancora in piedi «una cortina di ferro senza il comunismo». Ecco il terreno di coltura su cui prosperano nazionalismo e sovranismo, alimentati da regimi semiautoritari come quello di Orbán in Ungheria o quello polacco, ma non solo. Regimi che costruiscono il consenso su un uso smaccatamente politico della storia, che investe il discorso pubblico e parte dal basso, cioè dai testi scola-
Lei non ha nome. E neppure l’altra: è solo “la donna da cui sono ossessionata”. Lui è “l’uomo con cui voglio stare”. Il movente di un incessante, fatale, pedinamento social contro quella donna più fortunata: tra screenshot, post passati al setaccio, foto ingigantite per cogliere dettagli e informazioni. Da un’autrice già componente del collettivo 4 Brown Girls who write, una storia su gelosia e solitudine ai tempi di Instagram. E sulle nostre vite esposte.
“TI SEGUO”
Sheena Patel (trad. Clara Nubile) Edizioni di Atlantide, pp. 233, € 17,50
stici, addomesticati alla narrazione di Stato. Perché, diceva Orwell, «chi controlla il passato controlla il futuro. E chi controlla il presente controlla il passato». Una pratica che va avanti da tempo e colpevolmente ignorata, come dimostra la sorpresa di molti davanti ai discorsi con cui Vladimir Putin ha “giustificato” l’invasione dell’Ucraina. Crainz ha sempre concepito il lavoro dello storico e l’impegno civile come una cosa sola. Dopo decenni di studio dedicati all’Italia contemporanea, si è dedicato all’Europa. Quasi ad avvertirci che gli scricchiolii della costruzione continentale possono essere fatali per lo sviluppo già abbastanza problematico del nostro Paese. Il frutto di queste preoccupazioni è ora questo libro, «un sommesso grido d’allarme e il richiamo a un impegno talora disertato».
“OMBRE D’EUROPA”
Crainz Donzelli Editore, pp. 188, € 19
C’è la follia d’amore. E ci sono meravigliose storie nutrite dal gusto della risata, dall’ironia, dal sentirsi parte di un universo di magiche connessioni. E che importa se le sintonie riguardano fantasmi, uomini e donne che non ci sono più, eppure bussano alla soglia di casa nostra ogni giorno. Come il timido vicino che si aggira intorno a Katja Wiesberg e come l’uomo innamorato del karate che vuole farle compagnia. E ribadire a noi, lettori umani, il piacere di leggere.
“LA CONFEZIONISTA”
Mariana Leky (trad. Scilla Forti) Keller editore, pp. 201, € 16,50
Una favola tra gelide strade inglesi nell’inverno del 1843. Protagonista Charles Dickens, in pieno blocco dello scrittore: un nuovo figlio in arrivo, i soldi che mancano, i pretendenti in attesa. E il successo di Oliver Twist, che pesa ingombrante sui suoi libri successivi. In cerca di idee, per le vie affollate di Londra - giostra vivente che lo avvolge - si imbatte in una donna dal mantello viola. E la fantasia, risvegliata, detta uno dei libri più amati di sempre: Canto di Natale.
“IL
CANTO DI MR DICKENS”
Samantha Silva (trad. Daria Restani)
Neri Pozza Editore, pp. 287, € 19
LA MONETA SVALUTATA
Cambio! Cambio dollari, euro! Cambio!». Questa la cantilena che si ascolta ininterrottamente attraversando la strada più commerciale del centro di Buenos Aires, la rinomata calle Florida. A intonarla è uno stuolo di bagarini che offrono di comprare e vendere i biglietti verdi e quelli gialli a un prezzo doppio a quello della quotazione ufficiale. La cantilena non è nuova per nessun argentino ormai abituato ai violenti cicli di svalutazione che investono il Paese da circa cinquant’anni a questa parte, ma risuona da alcuni mesi con sempre più forza e vigore.
Sull’onda di un’inflazione che viaggia a un ritmo ormai di quasi il 100 per
cento annuale, le divise straniere più forti sono infatti tornate a rappresentare, per la parte della popolazione in grado di risparmiare anche solo una piccola parte delle entrate, il principale rifugio contro la rapida perdita del potere d’acquisto e il pericolo di una nuova svalutazione. Il governo ha annunciato di recente misure principalmente in materia di controllo dei prezzi, ma le pressioni inflazionistiche ormai vanno al di là sia delle dinamiche del mercato interno sia di quelle che provengono dal contesto globale.
Un nodo centrale è quello rappresentato dal valore reale della moneta locale, il peso. Nel mercato ufficiale un euro vale 160 pesos contro i 290 a cui
viene scambiato tanto nel mercato nero quanto nei mercati finanziari (attraverso lo scambio di titoli). Si tratta di una breccia che disordina l’intero sistema dei prezzi relativi interni che nella maggior parte dei casi fa ormai chiaramente riferimento al valore del peso al mercato nero.
I pesos evaporano letteralmente nelle tasche della gente e, per quelli che non sono in grado di risparmiare comprando dollari, un altro rifugio possibile contro l’inflazione è spendere i soldi prima che sia troppo tardi. Quelli che possono comprano proprietà, automobili, elettrodomestici. Altrimenti si spende al supermercato, in attività ricreative, o andando in vacanza dove possibile. Eventualmente anche in Qatar. Se nella prima fase a gironi l’organizzazione stima che siano stati almeno 40 mila gli argentini ad assistere all’incerto avvio della squadra guidata da Messi, nella partita dei quarti di finale con i Paesi Bassi, giocata in uno stadio da quasi 90 mila spettatori, la maggioranza degli spalti era tinta di celeste e bianco. «Era come se l’Argentina giocasse in casa», ha detto Messi. E d’altra parte la stessa ministra del Lavoro argentina, Kelly Olmos, in risposta a una domanda sul mondiale, ha affermato che «dal punto di vista del morale, un successo dell’Argentina può fare più che qualsiasi misura del governo». Eppure il biglietto di maggiore denominazione in circolazione, quello da 1.000 pesos, vale ormai poco più di 6 euro sul mercato ufficiale e poco meno di 3,5 euro al mercato nero, una circostanza che obbliga la gente a circolare con mazzette di contanti spropositate.
«La gente non vuole saperne nulla dei pesos», afferma Vicente Fabis, arrivato dalla Calabria in Argentina nel Dopoguerra e fino a qualche anno fa proprietario di una delle migliori fabbriche di pasta fresca di Buenos Aires. Vicente le ha vissute tutte le crisi argentine degli ultimi cinquant’anni, e la congiuntura attuale non lo prende alla sprovvista. «Io ho imparato nel ’75 con il Rodrigazo», spiega. Il riferimento è al disastroso piano economico messo
in atto dall’allora ministro dell’Economia, Celestino Rodrigo, sotto il governo di Isabelita Peron, e sfociato nella prima grande crisi inflazionaria dell’Argentina. Dopo il Rodrigazo per 16 anni consecutivi l’indice dei prezzi non è mai sceso al di sotto del 100 per cento con una punta del 444 per cento nel ’76, primo anno della dittatura militare. Per Vicente, così come per molti argentini, quell’esperienza rappresentò la fine del peso argentino, una valuta su cui «non era possibile pianificare un futuro», dice. «Quell’estate ero andato a vendere churros (dolci fritti) alla costa e già cambiavo dollari», racconta assecondato dalla moglie Gilda.
La Banca centrale stima che attualmente gli argentini siano in possesso di almeno 200 miliardi di dollari in biglietti. Una cifracherappresentail10percentodel totale dei dollari messi in circolazione dalla Federal Reserve e il 20 per cento del totale dei dollari in circolazione al di fuori degli Usa. Vicente ha iniziato a risparmiare in dollari nel ’75 e non ha più smesso. Una decisione che ritiene gli abbia permesso di sostenere la sua attività attraverso anche la forte crisi del 2002 e di assicurarsi poi una rendita per la pensione.
D’altra parte non c’è bisogno di avere l’esperienza di cinquant’anni di crisi sulle spalle per capire che i pesos in tasca bruciano. Lo sanno perfettamente anche i giovani argentini entrati da poco nel mondo del lavoro e alle prese con un disordine assoluto dei prezzi. Un paio di scarpe da ginnastica importate può arrivare a costare fino a 50 mila pesos, che al cambio ufficiale sono oltre 300 euro, mentre il salario minimo ufficiale è di 60 mila pesos e l’affitto di un monoambiente nella capitale sfiora i 90 mila pesos. Per loro, a queste condizioni il risparmio, l’acquisto di una casa propria o qualsiasi tipo di pianificazione sono obiettivi preclusi. L’orizzonte è il breve termine e spendere quello che si ha in tasca finché si ha.
Lo sa bene Camilo Duque, 30 anni, colombiano, gestore del Trade Sky Bar,
uno dei locali “after-office” più alla moda della capitale argentina, ispirato al mondo della Borsa e strategicamente collocato al 22mo piano di uno degli edifici razionalisti più iconici del centro con una vista unica della città. Una cena qui costa sui 35 euro circa, e con inflazione e crisi di mezzo, il Trade è comunque sempre pieno, da lunedì a lunedì. «Abbiamo aperto poco prima della pandemia, e poi abbiamo dovuto chiudere per oltre un anno ma adesso abbiamo sempre tutto riservato», afferma Duque.
Pedro Peña, chef e proprietario del ristorante di cucina fusion asiatica-argentina, Niño Gordo, nel quartiere di Palermo, neanche si può lamentare degli affari nonostante ammetta di essere costretto a modificare i prezzi del menù ogni 20 giorni. «La gente viene, mangia bene e passa un buon momento. Nessuno si pente di questa esperienza», afferma Peña. Nonostante il contesto di alta inflazione, l’Argentina è d'altra parte l’unico posto al mondo do-
ve la band inglese Coldplay ha tenuto tra ottobre e novembre 10 concerti consecutivi. Il gruppo guidato da Chris Martin ha venduto in totale 600 mila biglietti incassando complessivamente 34 milioni di dollari. In un contesto di alta inflazione, andare a mangiare fuori, una notte in discoteca, un concerto dei Coldplay, o andare a vedere Messi ai mondiali del Qatar diventano quindi per gli argentini come una forma di investimento sul benessere personale.
Eppure, sul medio e lungo termine, l’inflazione aggrava immancabilmente gli squilibri nella piramide sociale. Chi non ha accesso ai dollari e vive di lavori precari o di una pensione minima rimane completamente in balia degli aumenti dei prezzi. Secondo gli ultimi dati ufficiali dell’Istituto nazionale di statistica (Indec) relativi al primo semestre del 2022 il 36,5 per cento della popolazione argentina versa in condizioni di povertà. In termini nominali sono 10,6 milioni di persone che vivono in nuclei familiari con introiti comples-
sivi inferiori a 130 mila pesos mensili. Si tratta di una cifra equivalente a oltre 800 euro al cambio ufficiale e a 400 euro al valore ben più realista del mercato nero. Sebbene secondo questo rilevamento la povertà sia scesa di 4,1 punti rispetto allo stesso periodo del 2021, rappresenta un livello ancora al di sopra di quello pre pandemia e gli analisti stimano d’altra parte che con l’impennata dell’inflazione nel secondo semestre l’indice possa tornare a peggiorare sensibilmente.
Una percezione, questa, che si registra invece già quotidianamente nella mensa comunitaria della basilica di San José de Flores di Buenos Aires, la chiesa frequentata nell’infanzia dal papa Francesco. «Si nota un cambiamento, adesso viene gente anche della classe media e pensionati che non arrivano a fine mese», afferma il parroco Martin Bourdieu. La mensa serve 70 razioni doppie due volte al giorno a circa 140 persone. Tra questi anche Daniel Perez, 60 anni, ex calciatore
dell’Argentinos Juniors. Da piccolo, nello storico club de La Paternal, Daniel ha conosciuto Diego Armando Maradona, di due anni più grande, e ha sognato di diventare come lui. Una lesione lo ha però allontanato dal calcio e oggi ha un lavoro precario come custode di una palestra. Affitta una stanza in una pensione e ricorre abitualmente ormai alla mensa della basilica.
Per l’economista Emanuel Alvarez Agis, ex vice ministro dell’Economia nel 2013, durante l’ultimo governo di Cristina Fernandez de Kirchner, e attuale direttore di PxQ, una delle società di analisi del mercato più influenti, frenare l’attuale dinamica inflazionaria è come «fermare una valanga». Il programma di riordinamento macroeconomico del governo di Alberto Fernandez si sta scontrando di fatto con difficoltà apparentemente insormontabili proprio in materia di inflazione. L’indice dei prezzi ha segnato ad otto-
bre un aumento dell’88 per cento annuo (+6,3 per cento su mese) con una proiezione del 100 per cento a fine del 2022. L’esecutivo sta cercando a tutti i costi di evitare una deriva iper-inflazionistica che potrebbe sprofondare il Paese in una nuova crisi economica e sociale vanificando tutti gli sforzi fatti durante e dopo la pandemia. «Quello che noi argentini facciamo per proteggerci dall'inflazione è allo stesso tempo ciò che consolida l'inflazione», sostiene Alvarez Agis. Il riferimento è sia all’abitudine consolidata di risparmiare in dollari dell’argentino medio che alle diverse e sempre più astruse misure messe in atto dal governo per impedirlo. «Possiamo anche arrivare ad esportare 60 miliardi di dollari di litio e petrolio ma con l’Argentina ridotta ad essere un semplice spettatore, come succede ai Paesi africani, dove le risorse vengono isolate dal contesto in cui si trovano», profetizza l’ex vice ministro.
PIANTE A CHILOMETRO ZERO
Io, tu, il broker e le rose L’insostenibile filiera della Wall Street dei fiori
Produzioni intensive, concimi chimici, emissioni, delocalizzazione e sfruttamento dei braccianti. Dietro il più cortese dei gesti le stesse pratiche dell’economia del cibo. Per questo arriva anche in Italia Slow Flowers
Salvatore Di Mauro
Provenienza e qualità del cibo che arriva sulle nostre tavole stuzzicano frequentemente il nostro interesse, ma ai fiori si fa davvero poco caso: si comprano solo per grandi occasioni e in quel momento ci si meraviglia per un attimo dei soldi lasciati al fioraio. Le rose sembrano non profumare più come prima e il bouquet finisce per appassire dopo meno di una settimana, ma con esso di solito anche il dubbio sul costo di quell’acquisto va nel dimenticatoio. Dietro ai cinquanta euro per un bel mazzo di undici rose rosse a stelo lungo o per una dozzina di tulipani olandesi c’è tuttavia una lunga catena di attori, che ad ogni anello diventa un po’ meno sostenibile da un punto di vista economico, sociale e ambientale. L’industria floreale globalizzata è infatti un business costruito sulla coltivazione di fiori acquistati a prezzi stracciati, rivenduti all’asta, prodotti con pratiche inquinanti e in condizioni di lavoro ingiuste. È una sorta di colorata e profumata Wall Street con tanto di «broker dei fiori», una figura che fa da collante tra coltivatori e commercianti attraverso una lunghissima filiera. Alla base ci sono i «breeders», le multinazionali che producono e vendono sementi, fanno poi il loro ingresso i «growers», per lo più inglesi e olandesi, che comprano i semi e delocalizzano le coltivazioni in Africa o in Sud America a condizioni economiche più vantaggiose.
Segue il comparto import/export, dove a giocare sono proprio i broker, il tramite tra le società di logistica e trasporto. Solo al termine della catena si arriva a grossisti, fioristi e per ultimo ai clienti: affari che poco si sposano con la sostenibilità etica e ambientale. Si avranno, per esempio, emissioni quasi nulle per le nostre ortensie piantate nel giardino di casa, 350 grammi di CO2 per una rosa coltivata in Kenya ed oltre due chili per un tulipano cresciuto in serra nei Paesi Bassi. Ma se per coltivare i fiori sul terrazzo non è previsto sicuramente alcuno sforzo, per le industrie florovivaistiche il discorso è ben diverso: il mercato chiede qualsivoglia fiore e in qualunque momento,
anche se ciò va contro i ritmi della natura, proprio come accade a frutta e verdura. Inquinare diventa quindi inevitabile, poiché è necessario creare le condizioni adatte al mantenimento del bocciolo che è costretto a viaggiare attraverso i continenti, inondato da sostanze ritardanti e congelato dentro celle frigorifere che ne riducono i tempi di appassimento. A giovarne non sarà di sicuro l’ecosistema, ma un mercato florovivaistico che attualmente vale 55 miliardi di euro e che si stima continuerà a crescere intorno al 6 per cento annuo. Inoltre, i professionisti del settore hanno ben pensato di spostare i propri orizzonti in quelle nazioni dove il lavoro già costa meno e
Un workshop di Slow Flowers Italy in un casale a Sant’Angelo Vico l’Abate, Firenze
Fotoper gentile concessione di: L. PoggiAllestimento di fiori etici in un ristorante. Al centro, produzione in Africa oggi sul podio dei produttori di steli recisi compaiono Thailandia, Colombia e Kenya. Il che significa che prima di raggiungere un vaso europeo, un mazzo di rose colombiane dovrà percorrere migliaia di chilometri nel più breve tempo possibile, producendo qualcosa come 360 mila tonnellate di CO2. Cifre da capogiro se si pensa che il valore di queste importazioni dai Paesi in via di sviluppo raggiunge oggi i 718 milioni di euro. A questi numeri vanno sommati anche quelli relativi agli impatti connessi ad un ciclo di coltivazione in serie, con uso di concimi chimici e soprattutto tantissima acqua, situazione quest’ultima che comporta pesanti modifiche ambientali. In pratica, una carrellata di problemi dietro a quell’acquisto fatto in un momento speciale, che non aveva acceso la nostra attenzione e forse neppure l’interesse. A trasformare il trittico «organico, locale e stagionale» nel mantra
del gemello movimento dell’alimentazione globale è oggi lo Slow Flowers, poiché proprio come il cibo, anche un fiore a chilometro zero è qualitativamente migliore per profumo e durata, con la garanzia di una filiera corta e pulita sotto molti aspetti.
Fondato negli States, nel 2014 ad opera della scrittrice Debra Prinzing, il movimento promotore della filosofia del fiore etico è ora arrivato anche in Italia, partendo dall’impegno di un gruppo di floricultori delle colline del Chianti, che hanno creduto in un’arte rispettosa della stagionalità e localizzazione, coinvolgendo una ventina di aziende pioniere, che mettono in stretta comunicazione coltivatori, fioristi e clienti. La Slow Flowers Italy è una grande comunità inclusiva che sostiene attivamente una modifica delle pratiche di approvvigionamento dei fiori da parte
di consumatori e professionisti del settore, attraverso azioni di sensibilizzazione e educazione. «Dobbiamo tornare ai ritmi della terra e lasciar parlare la bellezza della natura; coltivare e donare un fiore deve essere un gesto che ci riporta al nostro ritmo naturale», afferma Tommaso Torrini, presidente di Slow Flowers Italy. «Noi vogliamo divulgare una nuova cultura del fiore, una bellezza portatrice di un messaggio etico e guidare la produzione e il consumo verso scelte più rispettose di ambiente, territorio e uomo», com’è spiegato anche nel Manifesto dell’associazione. Spuntano così le fattorie fiorite della rete slow: piccole farm con laboratori annessi per avvicinare i meno esperti alla coltivazione di fiori stagionali ad emissione zero di gas serra e mettendo in risalto la grande qualità contro la minore varietà che ne consegue. «Coltivando specie diverse, si crea un habitat capace di attrarre insetti
“buoni” e allontanare quelli “cattivi”, così noi possiamo fare a meno di antiparassitari, diserbanti o fertilizzanti», spiega Marzia Barosso di Viale Flower Farm, azienda fondata due anni fa nelle colline del Monferrato per produrre fiori dal taglio sostenibile. Stanchi di vedere sempre gli stessi boccioli in qualsiasi stagione con i petali imbalsamati e soffocati in grandi pacchi di cellophane, diventerà entusiasmante ammirare una produzione in pieno campo che si modifica in base alle condizioni climatiche, fiorendo spontaneamente come madre natura comanda. È questa la fotografia che le farm italiane vogliono offrire: il ritratto di un paesaggio genuino rivolto a chi non si è distratto dal fioraio, perdendo di vista il viaggio del fiore prescelto, l’impatto ambientale e i diritti umani calpestati. «Pochi sanno che il fiore che acquistano sotto casa ha percorso decine di migliaia di chilometri
di fiori etici secondo le regole di Slow Flowers, nel rispetto del ciclo naturale delle piante su un Boeing, ha passato tre giorni in frigorifero, è stato smerciato ad un’asta ed è infine giunto in Italia con un aereo prima di compiere le ultime centinaia di chilometri su strada. Costa poco perché, nella maggior parte dei paesi africani i lavoratori – spesso donne e bambini – non sono tutelati in alcun modo», afferma Francesco Mati, presidente della Federazione nazionale florovivaistica di Confagricoltura. Ad assicurare dignitose condizioni di lavoro, proteggendo i lavoratori delle serre e soprattutto supportando operai ed operaie nella conoscenza dei propri diritti è la Fairtrade, un’organizzazione internazionale che ogni giorno tutela più di un milione e 700mila braccianti agricoli in Asia, Africa e America Latina, dove la manodopera è a basso prezzo, non ci si cura della dignità e gli ambienti di lavoro risultano ancora insalubri e pericolosi. Non c’è da stupirsi se dei 2300 lavoratori di quattro serre
ecuadoriane, più della metà sia rappresentata da donne, che vedono garantito soltanto da pochi anni un impiego stabile con stipendi equi, norme di sicurezza e corsi di formazione, congedi di maternità e servizi all’infanzia, condizioni troppo rare, e persino insolite da chiedere, per le donne contadine. Una catena con molti nodi da sciogliere e nella quale il nostro ruolo da semplici clienti non risulta affatto marginale. Affidarsi a fioristi e vivai che fanno parte della rete slow, richiedendo una certificazione di garanzia e seguendo stagionalità e territorialità dei boccioli, ci eviterà di fare acquisti azzardati e modaioli. Così da distratti e inesperti compratori di steli recisi, prima stuzzicati dall’effetto che avrebbe potuto fare un dono esotico, ritorneremo a pensare quanto sia più bello e genuino «quel mazzolin di fiori che vien dalla montagna».
LA RELIGIONE DEL PREMIER
Sunak e le mucche sacre della tenuta di Manor tempio Krisna europeo
Il parco ospita il quartier generale del culto induista in Occidente. Da lì passano tutti i politici. Attenti a una comunità che conta 33 mila fedeli
di Tiziano Fusella
Nelle ore successive alla nomina di Rishi Sunak come primo ministro britannico, sui social media indiani è rimbalzato un meme, ovvero uno dei tanti fotomontaggi che girano in Rete. Mostrava la porta del numero 10 di Downing street, residenza dei premier, circondata da scarpe ordinatamente deposte. Un modo per celebrare il nuovo leader, il primo di origini indiane a guidare il Paese: nelle case induiste e nei luoghi di culto infatti, è vietato l’ingresso con le scarpe, considerate contaminate dal mondo esterno. Per quanto sia di religione induista, difficilmente il primo ministro britannico riuscirà a far rispettare questa regola a Downing Street, dove si muovono ogni giorno decine di persone. E probabilmente non ne farà neanche un caso.
Benché sia un fedele praticante, Sunak non ama parlare di religione in pubblico. Quando fu scelto come cancelliere dello Scacchiere (ministro delle Finanze) del governo di Boris Johnson, giurò sulla Bhagavad Gita, testo sacro dell’induismo e in particolare degli Hare Krishna. Più volte è stato visto nel tempio londinese di Bhaktivedanta Manor, quartier generale culto di Krishna in Europa: qui era anche qualche settimana prima della sua nomina, alla vigilia delle celebrazioni hindu per il compleanno di Krishna, la festività di Janmashtami.
Alla comunità Hare Krishna, Rishi
Sunak, 42 anni, è molto legato. Lui e la moglie Akshata Murthy insieme alle due figlie Krishna e Anoushka si recano spesso al Manor. Ogni volta che vanno sono inghirlandati con fiori e accolti al suono di grosse conchiglie insufflate. Le sue visite, con o senza fotografi al seguito, terminano di solito col rifocillare di fieno le 62 mucche della comunità, razza frisona belga, sacre e coccolate secondo i dettami induisti.
Ma chi sono gli Hare Krishna? Il nome ufficiale è in realtà International society for Krishna consciousness (Associazione internazionale per la coscienza di Krishna), o Iskcon: il gruppo fu fondato a New York nel 1966 dal maestro spirituale indiano A.C. Bhaktivedanta Swami Prabhupada, morto undici anni più tardi. I suoi insegnamenti, che vengono ancora oggi seguiti, si basano su quelli del mistico bengalese Caitanya (1486-1534) e s’innestano nel variegato alveo della religione induista, ma con una forte accezione monoteista.
Il gruppo ha come sede principale Mayapur, in India, e chiede fra l’altro ai suoi aderenti di seguire una dieta vegetariana, di evitare l’uso di alcol e tabacco, niente gioco d’azzardo, di attenersi al celibato fino al matrimonio, e di vivere incentrati sulla devozione. Oggi l’Iskcon si compone soprattutto di membri che risiedono fuori dai templi o dalle comunità rurali e possono anche rinunciare al tradizionale abbi-
gliamento arancione (il colore di chi è celibe) o bianco (quello dei coniugati): ha quattrocento centri, cinquanta fra comunità rurali e fattorie e dieci scuole nel mondo.
In passato gli Hare Krishna sono stati molto popolari: si potevano incontrare nelle strade delle maggiori città europee. La gran parte degli adepti erano occidentali che avevano scelto di vivere secondo i dettami della religione hindu. Ora la loro presenza si è ridotta, ma il culto non è scomparso. Lo dimostra appunto Bhaktivedanta Manor, tenuta di 31 ettari con magione ottocentesca a trenta minuti dal centro di Londra, specchio perfetto degli alti e bassi vissuti dal mo-
vimento nel suo mezzo secolo di storia.
Donata all’Iskcon da George Harrison dei Beatles nel ’73, oggi vi abitano una settantina di monaci dedicati. Ma ad attrarre l’attenzione di politici sia di destra sia di sinistra è la vasta e ricca congregazione. Cioè coloro che, perlopiù di origine indiana, vivono fuori dal Manor e che partecipano alle attività del tempio nei giorni liberi. Nel 2020 è stata inaugurata una grande struttura che ospita una scuola frequentata da 4.300 alunni in larga parte provenienti dalla congregazione.
Tornando alla storia, «negli anni 70 il movimento in Inghilterra è cresciuto rapidamente grazie al carisma del fondatore. Per i ragazzi di allora vivere in un monastero era un’esperienza da fa-
re», ci spiega via e-mail Radha Mohan Das, dello staff comunicazioni del Manor. Poi arrivarono gli anni 80 con il loro consumismo spietato: alcuni guru lasciarono l’abito talare. E molti discepoli se ne andarono, sentendosi presi in giro. «Pochi prendevano i voti, ma nel frattempo Bhaktivedanta Manor diventava sempre più popolare tra la comunità indiana qui in Inghilterra», dettaglia Radha Mohan Das. Il risultato sono i 33 mila devoti “ufficiali” di oggi nel Regno Unito e 250 mila i fedeli in generale.
Numeri che spiegano perché negli ultimi anni il Manor sia diventato un “salotto” tenuto sempre più in considerazione dai vari leader di partito.
A ridosso di elezioni, dal Manor so-
no passati gli ex-primi ministri James Cameron e Boris Johnson. Ad ottobre il laburista Kier Starmer ha incontrato l’alto commissario indiano nel Regno Unito Vikram Doraiswami durante una visita al tempio e hanno discusso l’accordo sul libero scambio (Fta) tra Regno Unito e India.
«È chiaro che i politici che passano da qui cercano voti. Ma alcuni sono sinceramente interessati alla spiritualità», ammette rispondendo alle nostre domande per iscritto Visakha Devi, 74 anni, presidente del Manor. L’attuale primo ministro, nato in una famiglia hindu e dunque della stessa matrice degli Hare Krishna, è inscrivibile a quest’ultima categoria.
Sunak da bambino frequentava il
tempio di Southampton, 110 km a Sud di Londra. Ma un paio di dettagli fanno pensare che oggi preferisca il più vicino Manor, nel sobborgo di Letchmore Heath. Il fatto che a una delle sue figlie abbia dato il nome «Krishna», che è sì una divinità del pantheon induista comune a molti templi ma preminente al Manor, è un indizio da cogliere; pare anche che abbia confidato che la sera sia solito dibattere con la moglie i versi della Bhagavad Gita, la scrittura prediletta proprio dal ramo degli Hare Krishna. Elementi che confermerebbero la tesi della predilezione dei Sunak nei confronti del Manor. Resta comunque un argomento su cui i devoti londinesi amano scherzare, consapevoli che certi vip sia meglio non tirarli troppo
per la giacca. «Quando ho detto loro che secondo la mia opinione assolutamente imparziale, le nostre adorabili statue delle divinità erano senza dubbio le più belle del Regno Unito, i coniugi Sunak hanno riso di gusto», aggiunge Visakha.
Anche lei, come Sunak, può vantare un suo personale primato all’interno dell’Iskcon: è la prima donna a ricoprire la carica di presidente in un grande tempio. Nata a New York col nome di Jean Papert, è stata fotoreporter fin dall’età di 18 anni con alcune pubblicazioni ben riuscite. Nel 1970 incontrò Prabhupada e da atea convinta adottò la via della spiritualità assieme al marito anch’egli devoto e documentarista. Dopo la morte del fondatore Prabhupada avvenuta nel 1977 il movimento si irrigidì sul ruolo delle donne, che restarono nelle retrovie. Non vi era traccia di guide spirituali donne, né donne presidenti di templi. In un’intervista al Guardian del 2019, Kalakantha Das, leader di una grossa comunità in Florida, disse che l’Iskcon era affetta da «misoginia latente», e che «molte consorelle sono cresciute sentendosi come se dovessero restare in disparte, non potendo ad esempio tenere conferenze pubbliche».
La nomina di Visakha a presidente del Manor, avvenuta due anni fa, ha segnato una svolta, anche se l’interessata preferisce oggi sorvolare sull’argomento. «Forse è il segno che possiamo voltare pagina sul passato», si limita a dire. L’argomento è delicato: i devoti in India o di origine indiana rappresentano l’ala più conservatrice. I devoti occidentali invece hanno un’inclinazione più liberale.
Di questo a Londra si preferisce non parlare molto: l’enfasi in queste settimane oltre che su Sunak è concentrata sul cinquantesimo anniversario del tempio Bhaktivedanta Manor. Per il 2023 si prevedono grandi feste: ed è facile indovinare chi sarà l’ospite d’onore.
BEATRICE DONDI
L’EGOCENTRISMO CRISTIANO
Quello dell’onnipresente Malgioglio è ormai un duro lavoro: parlare di sé, sempre e comunque
La prima volta che Ted Neeley indossò la tunica di Jesus Christ Superstar era il 1973. Cinquant’anni dopo è ancora lì, in giro per i teatri, a moltiplicare pani, pesci e canzoni, con la differenza
che ormai alla fine dello spettacolo benedice il pubblico in sala, ormai posseduto dalla parte. Ecco, più o meno la medesima sindrome che ha colpito Cristiano Malgioglio. Sarà perché la radice del nome è la stessa, sarà anche che in tv c’è talmente bisogno di un’idea qualsiasi che ci si fa andare bene parecchio, sta di fatto che da quando il paroliere di chiara e meritata fama si è buttato nel piccolo schermo è rimasto incastrato per amor di share dentro un ego smisurato, come quei costumi gonfiabili dove per muoverti devi portarti in giro sfilze di addominali non tuoi. Cintura nera di amicizie («L’ho vista, l’ho incontrata, l’ho abbracciata»), divino tra le divine («Meloni settima donna più potente secondo Forbes, sai chi è la prima? Io») e cugino di terzo grado di Lady Gaga, appare in tv a un ritmo tale per cui ci si aspetta
di vederlo nei videocitofoni a breve, costretto a recitare una litania senza sosta, neanche fosse la poesia di Natale in piedi sulla sedia. Così col suo bagaglio linguistico atipico e quel vezzo di ordinare le consonanti in modo del tutto casuale, sposta le sue acconciature impegnative da “Ballando” a “Tale Quale”, e poi Cattelan, Venier, De Filippi, Fiorello, Fialdini. E più aumentano le apparizioni più il nostro ragioniere di nascita, autore di canzoni indimenticabili di crescita e capace di passare da “L’importante è finire” a “Danzando Danzando mi sono preso Fernando” si incastra dietro gli occhiali scuri, per ricominciare con l’auto citazione del giorno dopo. Come un Sisifo disinvolto, porta sulle sue spalline il peso della responsabilità perché, dicono, il personaggio funziona. Anche se per cosa non è ancora dato saperlo. Monocorde nei complimenti («Bellissimo, meraviglioso» a tratti anche «Stupendo»), nelle stroncature si fa più creativo (il suo “J Lo da discount” all’Eurovision ha scatenato una crisi diplomatica con la Spagna), ma è talmente abituato a parlare di sé che nella relazione con gli altri gli scappa da ridere. Inevitabile dunque che gli affidassero anche un programma di interviste tutto suo (“Mi casa es tu casa” su Rai Due) dove fa le domande all’ospite solo per affrettarsi a rispondere in sua vece. Che lavoraccio, o come direbbe qualcuno, una vera croce.
Quale canzone ti piace? Decide l’algoritmo
Scelgo, ergo sum? I grandi scrittori di fantascienza che per decenni hanno immaginato futuri catastrofici in cui le macchine prendevano il sopravvento sull’umanità, non avrebbero mai potuto sospettare che l’infernale macchina che ci avrebbe distrutto la vita potesse essere un esserino invisibile e dall’aria totalmente inoffensiva: un algoritmo. In comune con le macchine cattive di una volta, l’algoritmo ha la neutralità, ovvero il fatto di non essere di per sé buono o cattivo, casomai male impostato e soprattutto lasciato prosperare senza controllo. E così è successo. Ormai l’algoritmo è ovunque, si è insinuato in dosi massicce in quasi tutti i momenti della nostra esistenza. È una semplice operazione matematica ma non per questo meno potente. Prendete la musica. Ci sono piattaforme che oggi rendono straordinariamente agevole il reperimento delle musiche. C’è tutto, e di più, talmente tanto da creare un effetto quasi disturbante, uno spaesamento, una sindrome da eccesso d’offerta, ed ecco che entra in gioco l’algoritmo, un buon amico fedele che fa per noi il lavoro sporco, ci suggerisce quello che verosimilmente ci piacerà, e per farlo si è sobbarcato l’ingrato lavoro di analizzare cosa abbiamo ascoltato, quando l’abbiamo fatto, quanto è durato l’ascolto di quel determinato pezzo (se è per meno di 30 secondi si chiama “dislike” ovvero un punto a sfavore), forse anche com’eravamo vestiti in quel momento, e da tutta questa massa di dati deduce cosa potrebbe essere di nostro gusto. Che dire, grazie… C’è solo un piccolo insignificante dettaglio che dovrebbe annullare la nostra gratitudine, un particolare che rende questa pratica devastante, una sorta di napalm che fa terra bruciata di alcuni elementi essenziali all’avanzamento
culturale. Il motivo è semplice, l’algoritmo per fare il suo lavoro elimina le discrepanze, cancella le sorprese, non ama le scoperte, preferisce le certezze, le conferme, sente di avere successo quando azzecca qualcosa che noi già sappiamo, e quindi predica l’appiattimento, l’omologazione, sfavorisce la curiosità, l’imprevisto, ovvero, ed è la cosa peggiore, la nascita di nuove idee. A far prosperare l’infido algoritmo è stata l’ossessione dei numeri. La prima cosa che si dice di un pezzo, di un disco, di un concerto è quanti numeri ha collezionato, biglietti, streaming, visualizzazioni, se dentro c’è della merda o un dolcetto delizioso è meno importante, i numeri hanno ragione, sempre e comunque, se una cosa, qualsiasi cosa, funziona a livello di numeri, allora è giusta. Il passaggio successivo si avvicina alla fantasie distopiche della vecchia fantascienza. Sempre di più l’algoritmo chiederà che vengano seguite le sue indicazioni, in musica, nel cinema, nelle serie televisive, nei programmi, l’algoritmo consiglierà cosa scrivere, spiegherà cosa fare nei primi 30 secondi di un brano per evitare di essere “skippati”, il verbo più temuto oggi nel mondo della musica. Succederà, oppure sta già succedendo, ma ovviamente non dipende dall’algoritmo, che di per sé è una semplce operazione matematica, ma da chi gli conferissce il potere assoluto sulle nostre scelte.
L’IMPERATRICE SISSI IN VERSIONE PUNK
Nel film di Maria Kreutzer, Elisabetta di Baviera è un telescopio puntato sulla condizione femminile ma con molte licenze in più. Il meglio è nella libertà un po’ punk degli accostamenti anche musicali (“As Tears Go By”, e non solo); nel misto di arroganza e vulnerabilità con cui la superdotata Vicky Krieps ritrae questa amazzone
L’imperatrice Sissi fa ginnastica agli anelli (vero) e batte il marito Francesco Giuseppe a scherma (probabile, il coniuge era più basso di lei e non aveva la sua statura morale, anche se il film ne fa un bel ritratto sfumato). L’imperatrice si impone diete tremende e misura ogni giorno ossessivamente il girovita (vero anche questo), non in ossequio ai canoni dell’epoca quanto per esercitare il massimo controllo su di sé. Ma l’imperatrice fa anche di peggio. Se ne va da tavola alzando il dito medio; si tatua un’àncora sulla spalla; prova un nuovo farmaco chiamato eroina (difficile, siamo nel 1878, Sissi sta per compiere i fatidici 40 anni, il boom terapeutico dell’eroina arriverà a fine secolo); si lascia filmare dal pioniere del cinema Louis Le Prince (il personaggio è autentico, l’episodio inventato ma di sicuro fascino). Insomma fa un mucchio di cose strambe alternate ad altre improbabili ma vere. Come uscire in pubblico nascosta da una spessa veletta nera. O immergersi nella disperazione dei manicomi, forse per accostare tormenti estremi ma non estranei (dal corsetto alla camicia di forza, è un attimo).
Dimenticate la Sissi di Romy Schneider e quella di Netflix. Nel bel film dell’austriaca Maria Kreutzer l’intramontabile Elisabetta di Baviera è un’icona mèta-temporale. Un telescopio (e insieme un microscopio) puntato sulla condizione femminile di oggi e di ieri. Una figura che discende dalla “Marie Antoinette” di Sofia Coppola o dalla “Miss Marx” di Susanna Nicchiarelli
dai molti amanti, sempre intrattabile e spesso ingiusta con figli e ancelle. Infine nella grande attenzione riservata alla vita di corte e agli innumerevoli comprimari (su tutti Ludwig di Baviera), che danno rilievo, profondità, universalità agli affanni dell’imperatrice. Il limite sta in certe insistenze un poco ideologiche, nell’ultima parte. Come se regista e protagonista (anche produttrice esecutiva del film) sentissero il bisogno di sottolineare una rivolta che il film già esprime con forza. Usare la Storia come specchio deformante del presente è sempre un esercizio rivelatore. Se resta Storia.
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QUEL MALE INVISIBILE CHE COLPISCE I GIOVANI
Cara Rossini, sono Davide e ho 23 anni. Ciò che vorrei raccontarle è un’esperienza di vita, la mia, che seppur breve, sono certo interesserà a buona parte dei miei coetanei sulla ventina. Sono stato per anni affetto da una mistura di depressione e ansia, che ha popolato gran parte dei miei pomeriggi in solitudine dopo il liceo o l’università. Ho visto miei amici aver sofferto e soffrire di questo male invisibile che attanaglia la nostra generazione, e limita gran parte del potenziale di ciascuno di noi. Da un anno incontro uno specialista delle anime, uno psicologo, il quale mi ha letteralmente riportato in vita. Queste mie parole vogliono suonare come un monito a non sprecare tempo, ad assaporare ciò che si è e si ha al proprio fianco. Voglio che sia una lettera aperta da giovane a giovani. Ognuno porta con sé un mistero, un fascino inesauribile. È bene che ognuno di noi lo coltivi. La gioventù, come spesso notiamo dalle notizie che ci arrivano dalla politica, attraverso la vostra pulita e incisiva informazione, non è un tema secondario nella società odierna. Noi siamo i protagonisti del futuro.
Davide CastellazziSì certo, in virtù dell’anagrafe sarete i protagonisti del futuro. E sarete anche unici e irripetibili, come tutti gli individui su questa terra, ciascuno con il proprio bagaglio di fascino e mistero, come a te piace pensare, ma non troppo diversi dai ragazzi delle generazioni precedenti. I giovani come categoria sono stati scoperti tardi, soltanto quando si sono fatti avanti tutti insieme pretendendo visibilità e attenzione alle loro idee, segnando così un decennio di lotte anche aspre che ha preso il nome di Sessantotto. Ed è ormai riconosciuto che, con la forza dell’entusiasmo e molti errori di inesperienza, aiutarono a modernizzare un Paese ingessato, anche se nessuno seppe in seguito raccogliere e indirizzare quella passione. Dopo l’inerzia dei giovani degli anni Ottanta, altri ragazzi si ritrovarono uniti nella Generazione Erasmus, liberi di muoversi in un mondo senza più frontiere, studiare in altri Paesi e riconoscersi uguali in culture diverse, per poi vivere la delusione cocente di un’Europa che non aveva tenuto fede a se stessa. A te, Davide, è capitato invece di essere un cosiddetto nativo digitale, cresciuto mentre il mondo si attrezzava a servirsi, ma anche a dipendere da ogni tipo di strumento informatico, condannandosi giocoforza a una solitudine coatta, abitata da contatti virtuali con ogni tipo di social. Probabilmente la tua generazione non dovrà subire delle delusioni perché non ha mai potuto avere alcuna illusione. Conosce però anch’essa, tu lo descrivi bene, quel sottile male di vivere che fa sentire senza scampo e del quale si capirà la natura soltanto più tardi, per opera di un bravo psicologo o soltanto del tempo. Vale infatti per i ragazzi di tutti i tempi quello che scrisse quasi un secolo fa Paul Nizan, facendone più un’invettiva che una riflessione: «Avevo vent’anni, non permetterò a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita».
Amore e Psiche al tempo dei social
Visione romanzesca di un fatto di cronaca
Oggi Romeo è Daniele, un ragazzo che sogna, e Giulietta è Irene, una ragazza bellissima che scrive messaggi bellissimi, maestra nel parlar d’amore. E finisce come nel dramma di Shakespeare con un doppio suicidio, per notizie false. Daniele ha 22 anni. È generoso, ha il talento dell’immaginazione. Si conoscono solo in chat. Si amano al buio, come Amore e Psiche. Le foto di lei sono incantevoli. Irene continuerebbe all’infinito la fase stilnovista, ma dopo un anno di delirio ardente e immateriale Daniele vuole vederla, stringerla, sposarla. Irene rifiuta, dice di temere che la realtà rovini tutto. Lui ossessivamente insiste, lei ossessivamente resiste. Finché si scopre la verità:
Irene non esiste. Irene è Roberto, ha 64 anni. Era solo uno scherzo. Uno scherzo? Daniele ha investito tutto su questo amore. Si sente umiliato, burlato, violato. Si è consegnato in totale purezza a un nemico che lo manipola da un anno. È stato il suo zimbello. Immensi il dolore, e la vergogna. Daniele si impicca. Il lutto della famiglia è indicibile, atroce. Ma forse anche Roberto è annientato. Forse Daniele gli manca. Attraverso di lui era diventato Superman. Teneva in mano la sua vita. Forse lo amava, da bravo attore si era immedesimato nella parte. Nella sua modesta esistenza lui non era più lui, ogni contrarietà era superata. Lui era la bellissima fanciulla, che amava Daniele ma si negava, con l’estrema civetteria del rifiuto. Lui era Irene. Si era scelto il suo fantasma. Roberto era innamorato di Daniele, o della propria trama? Forse di entrambi.
E ora? Rimorso? Restano il vuoto per la morte di Daniele, e il senso di onnipotenza per averlo indotto al suicidio? Per fortuna di Roberto, nessuno lo sa. Il peso è solo suo, e lo sente. Ma forse col tempo riuscirà a perdonarsi. Tanto, nessuno può scoprirlo. E qui, come nel mito quando un dio irrompe svelando il mistero, arriva una troupe delle Iene che snida Roberto, e rivela la storia in televisione.
L’immunità è finita. Ora tutti lo sanno. La rete lo bombarda di insulti e minacce. Sui muri della città appaiono scritte che lo vogliono morto. Roberto si spara. Ce la prendiamo con la rete. La rete siamo noi. Abbiamo sempre sedotto ingannato ucciso per amore o disamore. Ora si fa con altri mezzi, invece della nutrice lo smartphone. La tecnologia potenzia l’inganno. Cos’è accaduto fra Daniele e Roberto? Forse comincia come un gioco e diventa un amore. Anche dalla parte del seduttore. Roberto era innamorato di Daniele? Il gioco gli prende la mano, scopre di avere il talento del teatro, entra nel ruolo. Solo un innamorato immaginario può sostenere quella finzione per un anno intero. Con questo gioco, Roberto gli incidenti della vita li ha superati. Ha fatto impazzire d’amore Daniele. Si è scoperto un grande seduttore. Quale affabulazione irresistibile avrà saputo tessere, per conquistare quel magnifico ragazzo? Irene Inventa l’amore e la lussuria immaginaria, diventa Cleopatra. Lui, l’uomo grigio che il servizio delle Iene mostra nella sua gogoliana tristezza, ora è oggetto d’amore. Quali patrimoni di seduzione ha dispiegato Roberto per dominare la passione di Daniele, restando invisibile? Quell’amore era la sua creazione. E aveva saputo recitarlo perfettamente. Una maschera difficile, pericolosa, esaltante
e umiliante. Il rapporto c’era, e profondo. Ogni giorno l’ingannatore doveva inventarsi qualcosa per colmare l’assenza dell’amante incorporea. Ma non alla pari. Lui era il burattinaio, il demiurgo, l’altro la vittima da sedurre ogni giorno. E Daniele, quanto bisogno d’amore doveva avere per credere a Irene, e l’altro, Cyrano di se stesso, quanto bisogno ne aveva lui per sostenere l’inganno? In quanti siamo, soli come cani, così soli da accontentarci dei fantasmi?
La storia di Daniele e Irene-Roberto rievoca il mito degli amanti al buio. Per la sua conclusione tragica diamo colpa alla rete, ma la rete siamo noi. E invece dovremmo riflettere sulla profonda solitudine che ci circonda e ci spinge ad accontentarci dei fantasmi