L'Espresso 51

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Settimanale di politica cultura economia N. 51 • anno LXVIII • 31 DICEMBRE 2022 Sabato L’Espresso + la Repubblica + Robinson 3,50 euro. Gli altri giorni solo L’Espresso 4 euro Momenti di storia Poste Italiane s.p.a.sped.in A.P.-D.L.353/03 (conv.in legge 27/02/04 n.46) art.1comma 1-DCB RomaAustriaBelgioF ranciaGermaniaGreciaLussemburgoPortogalloPrincipato di MonacoSloveniaS pagna € 5,50C.T. Sfr. 6,60Svizzera Sfr. 6,80Olanda € 5,90Inghilterra £ 4,70
Altan 31 dicembre 2022 3

Prima Pagina

Il 2022 in 22 scatti

Tiziana Faraoni 10 Voto Schlein, serve una scossa colloquio con Ugo Sposetti di Susanna Turco 24 Aiuto, il Pnrr chiede asilo Gloria Riva 30 Decrescita, la tempesta perfetta Simone Alliva 34 Si fa presto a dire occupabili Carmine Benincasa e Chiara Sgreccia 38 Tutti contro le banche centrali Eugenio Occorsio 42 È italiano lo sceicco dei dati Vittorio Malagutti 46 La stagione degli sfratti Diletta Bellotti 52 Romanzo Matacena Gianfrancesco Turano 54 Corrompo, patteggio, ricomincio Paolo Biondani e Leo Sisti 60 L’ombra dell’astro nascente Luciana Grosso 66 L’informazione intransigente Comitato di Redazione 69

Idee

Il ritorno dei confini colloquio con Ivan Krastev di Wlodek Goldkorn 70 Alle origini della guerra Caterina Bonvicini 74 Quell’angelo di Ricciardi Maurizio de Giovanni 78 Strane coppie di cinepanettoni Fabio Ferzetti 80 “Alle Feste preferisco il 25 aprile” colloquio con Valentina Lodovini di Claudia Catalli 84

Storie

Alle radici dell’odio nella Tunisia dei foreign fighter Nicole Di Ilio 86 Deserto Italia da Enna a Sondrio Maurizio Di Fazio 90

Sommario numero 51 - 31 dicembre 2022 Abbonati a SCOPRI L’OFFERTA SU ILMIOABBONAMENTO.IT L’Espresso fa parte in esclusiva per l’Italia del Consorzio internazionale dei giornalisti investigativi Ricevi la rivista a casa tua per un anno a poco meno di €6,00 al mese (spese di spedizione incluse) Le
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Sui binari de l’Espresso Alessandro Mauro
9
inchieste
dibattiti
ogni giorno sul sito e
pagine
de L’Espresso.
Editoriale
Rossi
Rubriche Altan 3 Makkox 6 Panarari 29 Serra 98 Opinioni Bookmarks 77 Ho visto cose 94 #musica 94 Scritti al buio 95 Noi
voi 96 70 24 38 42 52
e
Cronache da fuori 6 31 dicembre 2022
Makkox 31 dicembre 2022 7

Sui binari de L’Espresso

Tranquilli. La fine della carta stampata è all’orizzonte. Per fortuna l’orizzonte non è altro che una linea immaginaria che si allontana tanto più ci si avvicina. Non ci sarà mai qualcuno che racconterà la fine della carta stampata. Almeno di quella di qualità, come L’Espresso. Pensate al boom degli e-book di qualche anno fa. Dicevano: «I libri sono finiti». E invece oggi le grandi case editrici fanno utili proprio con i libri di carta.

Sfogliare un giornale è un piacere assoluto soprattutto se questo è ricco di opinioni, di inchieste, di reportage, se è libero, indipendente, laico. Se ci trovi dentro quello che ti aspetti di trovare ma anche qualche sorpresa, se non segue il main stream, se ogni tanto deborda dal politically correct, se ogni tanto fa incazzare qualcuno, se ogni tanto racconta storie belle di donne e uomini che hanno fatto imprese straordinarie o di giovani che vanno alla conquista del mondo armati della propria intelligenza e del proprio coraggio o storie terribili di uomini terribili, di governi infami, di politici ladri, di mafie assassine, di catastrofi che distruggono il nostro pianeta pezzo per pezzo, se riesce a proporre opinioni diverse a confronto. Se il lettore riesce a provare una sensazione unica. Toh, ho già raccontato L’Espresso che vorremmo fare. L’anima di sempre dentro un corpo con nuovo vigore.

La crisi dei newsmagazine concepiti nel Novecento ha visto ridurre il loro spazio a vantaggio dei quotidiani che si sono messi a fare il loro mestiere. Quello di andare a scandagliare il presente, ma con poca attenzione al futuro. L’Espresso è uno dei pochi sopravvissuti a questa ecatombe storica, l’unico ad aver superato le colonne d’Ercole del ventunesimo secolo con la propria forza. E nella sofferenza si è fortificato. Dalle crisi nascono sempre le occasioni. Questa è una grande occasione per L’Espresso, quella di tornare sempre più centrale nel panorama dell’informazione italiana. Come, lo scoprirete tra un paio di settimane

Questa testata è l’essenza del giornalismo d’inchiesta, irriverente, coraggioso, un settimanale unico, un giornale corsaro. Cari lettori, giudicateci. Sarete il nostro tribunale

con la nuova versione del settimanale completamente rinnovato.

Quando l’editore Danilo Iervolino, un rivoluzionario del nostro tempo, capace di scompaginare e ricomporre tutto in un minuto, mi ha detto «Ale, dai, tocca a te. Tu ce la puoi fare», mi sono sentito addosso una grande responsabilità, travolto da un’onda di orgoglio e di entusiasmo. La scrivania che sto occupando è stata (metaforicamente) quella di Arrigo Benedetti, di Eugenio Scalfari, di Livio Zanetti, di Claudio Rinaldi: maestri che noi giovani giornalisti dell’epoca vedevamo come eroi civili, esempi da seguire, figure quasi mitologiche. Ma quel tempo bello e appassionante è lontano. Oggi dominano il Web e i social, le short stories, l’informazione fatta in casa con il telefonino, l’omologazione dell’informazione. Qualcuno lancia una notizia, vera o falsa che sia, e tutti si accodano. Non si fanno più approfondimenti, si è persa una delle qualità fondamentali del mestiere del giornalista: la curiosità, la voglia di chiedersi «perché?». Con queste cose dobbiamo farci i conti ma il buon giornalismo ha ancora un grande valore. Dobbiamo credere nel giornalismo di qualità, indipendente, ma contemporaneamente rivoluzionare il nostro mestiere, utilizzando le nuove tecnologie, padroneggiandole, introducendo economie di scala.

Ho trovato una redazione vera, non difficile (come mi dicevano tanti), ma magari

ribelle, come piace a me, orgogliosa, professionale, composta di colleghe e colleghi che hanno tanta voglia di dimostrare semplicemente che L’Espresso è L’Espresso, l’essenza del giornalismo d’inchiesta, irriverente, coraggioso, un settimanale unico, un giornale corsaro. I capitani di corsa finivano o baronetti o impiccati. Ma L’Espresso ne ha già viste troppe per avere paura. Cari lettori, giudicateci. Sarete il nostro tribunale. Potrete condannarci all’oblio, abbandonandoci, o seguirci nelle nostre avventure sulla carta e presto sul Web. Finirete per appassionarvi anche voi. Come noi.

Editoriale Alessandro Mauro Rossi 31 dicembre 2022 9

IL 2022 IN 22 SCATTI

DA MATTARELLA A MESSI. E LA GUERRA IN UCRAINA, L’IRAN, GLI ATLETI ITALIANI, L’ADDIO ALLA REGINA ELISABETTA E A EUGENIO SCALFARI. UN ANNO NELLE IMMAGINI SCELTE PER VOI

DI TIZIANA FARAONI

Un altro anno “storico” piano piano si dissolve lasciando marcate le sue ferite. Un fil rouge, che scorre davanti ai nostri occhi mese dopo mese, rendendoci testimoni e osservatori inermi di una serie di eventi improvvisi e inaspettati. Una raccolta per immagini, il nostro sguardo come promemoria attraverso il tempo e attraverso i frammenti dei principali avvenimenti dell’anno che sta per finire. Sergio Mattarella e il suo secondo mandato inaugurano il 2022, ma la calma e il sentimento di rinascita dopo anni di pandemia subito si arrestano bruscamente con le immagini dei carri armati russi che entrano in Ucraina, alle porte di casa, e un nuovo terribile presentimento si insinua e rievoca fantasmi di devastanti conflitti del passato. E mentre le immagini di guerra ci accompagnano giorno dopo giorno, il mondo continua nelle sue eterne contraddizioni tra dolore e meraviglia. Un clamoroso schiaffo di Will Smith a Chris Rock durante la cerimonia degli Oscar distrae momentaneamente dalla delusione per l’esclusione dell’Italia dai mondiali di calcio lasciando il passo ad altre gloriose conquiste: Rafa Nadal e la

quattordicesima vittoria ai Roland Garros e il primo straordinario esordio agli europei di atletica dell’italiano Yemaneberhan Crippa.

Nel frattempo Samantha Cristoforetti, l’astronauta dell’Esa (Agenzia spaziale europea), osserva, dalla sua finestra sull’universo nella Stazione spaziale internazionale la Terra, mentre quest’ultima continua la sua corsa contro il tempo. I ghiacciai si riducono irrimediabilmente e i fiumi si prosciugano lasciandoci di fronte a una siccità storica specchio del nostro fallimento e del cambiamento climatico, faccia a faccia con il suo punto di non ritorno. E testimoni del nostro secolo, Queen Elizabeth, la sovrana più longeva del nostro tempo, e il nostro fondatore Eugenio Scalfari, ci lasciano mentre dall’altra parte del mondo si esulta per vittorie politiche, sociali e sportive.

E anche se il 2022 sta correndo verso il suo termine lasciandoci un grande amaro in bocca, una grande speranza si proietta verso il nuovo anno: il coraggio delle giovani iraniane che da ottobre protestano contro il regime all’urlo di “Zhen, Zhian, Azadi!”, “Donna vita libertà” riscrivendo coraggiosamente la loro e la nostra storia.

10 31 dicembre 2022 Foto: D. Stinellis / Ap Photo /La Presse Calendario fotografico

29 GENNAIO

Prima Pagina
Sergio Mattarella viene rieletto Presidente della Repubblica. Nella foto saluta la folla mentre sale al Quirinale accompagnato dal presidente del Consiglio Mario Draghi

24 FEBBRAIO

L’esercito russo invade l’Ucraina. Quella che Putin immaginava come un’operazione-lampo si rivela una guerra lunga e crudele, con l’eroica resistenza ucraina che pochi si aspettavano. Nella foto: abitanti di Kiev si affollano sotto un ponte distrutto mentre cercano di fuggire attraversando il fiume Irpin alla periferia della capitale

24 MARZO

L’Italia è fuori dai Mondiali di calcio, sconfitta uno a zero dalla Macedonia nel playoff giocato a Palermo. Nella foto: Alessandro Florenzi consolato da Giorgio Chiellini

12 31 dicembre 2022
Calendario fotografico

27 MARZO

Will Smith schiaffeggia Chris Rock sul palco durante la 94a edizione degli Oscar al Dolby Theatre di Hollywood. Rock aveva scherzato su un problema fisico della moglie di Smith. Sui social si è a lungo discusso se il litigio non fosse in realtà una massinscena

5 GIUGNO

Rafael Nadal vince gli Open di Francia 2022 al Roland Garros. Unico giocatore ad aver trionfato per quattordici volte al torneo di di Parigi, viene considerato per questo il tennista più forte di tutti i tempi sui campi di terra rossa

31 dicembre 2022 13
Prima Pagina
Foto:Morenatti / Ap / La Presse, R. Beck –Afp / Getty Images, Tullio M. Puglia/Getty Images, T. Clayton/Getty Images)

Calendario fotografico

27 GIUGNO

Liliana Segre e Chiara Ferragni si recano insieme al Memoriale della Shoah di Milano. La presenza dell’influencer accanto alla senatrice a vita sopravvissuta ai campi di sterminio ha provocato parecchie polemiche

16 GIUGNO

Il presidente francese Emmanuel Macron, al centro, il cancelliere tedesco Olaf Scholz, a destra, e il primo ministro italiano Mario Draghi a bordo di un treno diretto a Kiev. I tre leader portano la solidarietà europea al presidente ucraino Volodimir Zelensky

14 31 dicembre 2022
Foto: Serranò
/
Agf, L. Marin / La Presse, E. Scalfari / Agf

21 LUGLIO

Mario Draghi annuncia alla Camera le dimissioni del governo. Entrato in carica a febbraio del 2021, l’esecutivo di unità nazionale ha fronteggiato con le vaccinazioni di massa l’epidemia di Covid e avviato l’attuazione del Pnrr.

14 LUGLIO

Muore a novantotto anni Eugenio Scalfari. Il fondatore de L’Espresso e di Repubblica è stato una figura unica nella storia del giornalismo italiano, capace di racchiudere le figure di imprenditore, editore e direttore di testate che hanno fatto la storia del giornalismo italiano

31 dicembre 2022 15 Prima Pagina

LUGLIO

Una siccità senza precedenti colpisce l’Italia, frutto dei cambiamenti climatici che stanno sconvolgendo il pianeta. Nella foto: il Po al Ponte della Becca, in provincia di Pavia

11 AGOSTO

La giornalista russa Marina Ovsiannikova agli arresti per aver denunciato la guerra di Putin interrompendo le trasmissioni televisive

1° OTTOBRE

L’astronauta italiana Samantha Cristoforetti osserva la terra mentre è in orbita nell’atmosfera terrestre. Cristoforetti è la prima donna europea a capo di una stazione spaziale

16 31 dicembre 2022
Calendario fotografico

21 AGOSTO

L'italiano Yemaneberhan (Yeman) Crippa festeggia dopo aver vinto la finale maschile dei 10 mila metri ai campionati Europei di Monaco 2022. Di origini etiopi, Yeman è stato adottato con i suoi cinque fratelli dalla famiglia Crippa di Milano

18 AGOSTO

Durante un evento nello Stato di New York un uomo, Hadi Matar, accoltella più volte lo scrittore Salman Rushdie, provocandogli gravi danni permanenti. Rushdie era stato oggetto di una Fatwa dell’ayatollah Khomeini nel 1989 per il romanzo “I versi satanici”. Nella foto: manifestazione di solidarietà con Rushdie a New York

31 dicembre 2022 17
Pagina Foto: L. Bruno / Ap / La Presse, M. Schrader / La Presse, Getty Images, Ansa, Getty Images
Prima

Calendario fotografico

19 SETTEMBRE

18 31 dicembre 2022
I solenni funerali di Elisabetta II a Londra, evento seguito in diretta da milioni di persone in tutto il mondo. La regina, scomparsa a 96 anni, era salita sul trono nel 1952
31 dicembre 2022 19 Prima Pagina Foto:Ap / La Presse

Calendario fotografico

16 SETTEMBRE

La televisione iraniana annuncia la morte di Mahsa Amini, una ragazza di 22 anni arrestata tre giorni prima perché non portava il velo. Da allora i giovani iraniani scendono in piazza per protestare (nella foto a Teheran) sfidando la brutale repressione del regime

22 OTTOBRE

Nasce il governo Meloni, nella foto durante la cerimonia del giuramento al Quirinale. È il primo governo italiano guidato da una donna e anche il primo guidato da un’esponente della destra

20 31 dicembre 2022
Foto:Agf , N. Almeida / Getty Images, Agf, La Presse

30 OTTOBRE

Ignacio Lula da Silva festeggia con i suoi sostenitori la rielezione alla presidenza del Brasile. La vittoria su Jair Bolsonaro, dopo il processo che lo aveva portato alla condanna e agli arresti, assume per l’uomo politico di sinistra il sapore di una doppia rivincita

14 NOVEMBRE

Il presidente degli Stati Uniti Joe Biden stringe la mano al presidente cinese Xi Jinping prima del loro incontro a margine del vertice del G20 a Bali. L’incontro ha segnato un momento di disgelo nelle difficili relazioni tra le due superpotenze

31 dicembre 2022 21 Prima Pagina

Calendario fotografico

26 NOVEMBRE

Il maltempo provoca una frana devastante a Ischia che distrugge il paese di Casamicciola. I morti sono dodici e ancora una volta si torna a discutere delle disastrose condizioni in cui versano i territori italiani

28 OTTOBRE

Elon Musk conclude l’acquisizione di Twitter, annunciata ad aprile. Dopo l’acquisizione e i licenziamenti decisi dal controverso miliardario centinaia di migliaia di utenti hanno abbandonato Twitter. Nella foto Musk entra con un lavandino nella sede del social network

22 31 dicembre 2022
Foto: A. Garofalo/LaPresse, Afp / Getty Images, GES Sportfoto/Getty Images

20 DICEMBRE

L’Argentina è campione del mondo di calcio battendo in finale la Francia ai rigori. Dopo le polemiche sui diritti umani nel paese ospitante, l’emirato del Qatar, l’attenzione dei media si è concentrata su Lionel Messi, l’eroe del torneo, qui portato in trionfo con la coppa

Prima Pagina 31 dicembre 2022 23

UNA SCOSSA

COLLOQUIO CON UGO SPOSETTI DI SUSANNA TURCO

l Pd ha bisogno di uno scossone. Ma forte. Per questo sto con Elly Schlein». L'endorsement che non ti aspetti arriva da Ugo Sposetti, ultimo tesoriere dei Ds, custode della complessa eredità materiale del Pci attraverso una rete di fondazioni. Colui che si immaginerebbe essere il più fermo custode dell'ortodossia opta a sorpresa per il profilo meno allineato tra quelli in corsa per le primarie dem del 19 febbraio. «Ci vorrebbe una giovane donna», era del resto stato il suo auspicio (a L'Espresso) già nel marzo 2021, do-

dell'immobile che è la sede del museo delle opere d'arte del Pci».

Nel 2021 diceva che il Pd era alle macerie. E adesso?

«Da sotto le macerie, intervengono nel dibattito coloro che hanno avuto sin qui posizioni apicali. E ora ci spiegano cosa deve fare il Pd? Dovrebbero stare zitti per un po'».

Di chi parla? Di Letta?

po le dimissioni di Nicola Zingaretti. Non è dato sapere se Sposetti pensasse già a Schlein, di certo in quei giorni si proclamò «incompatibile» con Enrico Letta e non pare certo averci ripensato: «Nel partito siamo all'8 settembre», dice. Bollando il dibattito della Costituente dem come «incomprensibile» e cominciando col dirsi, semmai, «soddisfatto per l'assoluzione di Rita Lorenzetti, la ex presidente dell'Umbria, dopo dieci anni di martirio. E per l'acquisto, ad Alessandria,

«Parlo di tutti: ministri, dirigenti, capigruppo. Potevano fare altre scelte. Adesso il Pd ha bisogno di cambiamenti radicali».

Le discussioni sulla carta dei valori servono?

«Non mi appassionano. C'è chi dice che c'è troppo liberismo, chi troppa sinistra. Un autorevole tra i fondatori sostiene che stiamo tornando al 1921».

24 31 dicembre 2022 Il travaglio dei
dem
VOTO
SERVE
“IL PD È ALL’8 SETTEMBRE. BONACCINI È UNA STORIA GIÀ NOTA. CUPERLO NON SO PERCHÉ SI CANDIDI”. UGO SPOSETTI, CUSTODE DELL’ORTODOSSIA, ANNUNCIA LA SUA SCELTA, A SORPRESA
SCHLEIN
I
Susanna Turco Giornalista

È Arturo Parisi, ha detto a "Repubblica" che due democristiani, cioè Enrico Letta e Dario Franceschini, «stanno riportando il Pd nella casa le cui fondamenta sono state messe a Livorno».

«Tutti questi che parlano, lo dico con una battuta, avrebbero bisogno di qualche seduta da un bravo strizzacervelli che gli faccia capire dove siamo».

Il Pd rischia di diventare un nuovo Pci? «Non offendiamo il Pci».

E dove è allora?

«Sull'orlo del baratro. Io dico si elegga il segretario, che formi la sua squadra, si dedichi 24 su 24 al partito, ascolti iscritti ed elettori».

In quasi quindici anni di vita il Pd ha avuto otto segretari, perché pensa che cambiarne un altro possa servire?

«Otto, bene. E perché se ne sono andati? Non ce l'hanno spiegato. Zingaretti ha ten-

tato di fare due mestieri insieme, se ne è andato accusando le correnti. Poi è arrivato uno da Parigi: noi avevamo chiesto a Macron il ritorno in Italia di terroristi, forse c'è stato un errore di traduzione».

Di sicuro è arrivato Enrico Letta. «Eletto all’unanimità. Senza una discussione, senza capire perché. Ha accettato di fare il segretario ma, dopo sei anni lontano, l'Italia era cambiata profondamente. Il Paese bisogna viverlo, ascoltarlo».

Di Luigi Zanda e Pierluigi Castagnetti lei disse che votano e, due ore dopo, criticano quello che è stato deciso. Però adesso, sulla fusione troppo rapida del Pd, sono sulle sue posizioni.

«Il Pd non lo volevo, l'ho detto in tempi non sospetti. Ma ho preso sempre la tessera. E di riunioni come quelle fatte dagli ex popolari all’istituto Sturzo prima di Natale diffido. Producono danni».

EX TESORIERE

Ugo Sposetti, 75 anni, è stato l’ultimo tesoriere dei Ds, custode dell’eredità materiale del Pci attraverso una rete di fondazioni

31 dicembre 2022 25 Prima Pagina Foto: A. Dadi / Agf

Quali danni?

«Il messaggio è sbagliato: è come se io organizzassi una riunione di comunisti, non avrebbe nessun significato. Abbiamo voluto il Pd, andiamo avanti con il Pd. Anche se in questi anni l’unica cosa venuta avanti purtroppo per noi è Fratelli d’Italia, un partito che - al contrario del Pd e del Pdl - è nato per difendere una storia che stava scomparendo».

Gli ultimi calcoli, non ufficiali, dicono che gli iscritti dem sono circa 50 mila. «È quello che dico io: con 50 mila iscritti non è un partito. Per questo c'è bisogno di un cambiamento radicale. Per questo, nonostante la mia storia possa sembrare lontana, sosterrò Elly Schlein. O come si pronuncia». Perché Schlein fa così paura a larghe fette della dirigenza del Pd?

«Non lo so, magari vorrebbero che si facessero gli stessi accordi di sempre. Di certo non intimorisce me: il Pd ha bisogno di scuotersi, perché altrimenti va a morire.

Non vedo altro». Ci sarebbe Stefano Bonaccini. «Sono tutte cose già viste, facciamole studiare dagli storici. Bonaccini è un bravo compagno, un bravo amministratore, dove è stato ha fatto sempre bene. Ma fare due mestieri in politica è sempre complicato». Mi sa dire perché si è candidato Cuperlo?

«Non lo so. L'ho chiamato per gli auguri di Natale, sempre grande affetto, ma non ho chiesto niente e lui onestamente non mi ha detto nulla».

C’è davvero il rischio di una nuova scissione?

«Le scissioni producono l’1 per cento di risultato. Visti i voti dem, anche meno».

Il Pd ha perso quasi un milione di voti tra il 2018 e il 2022. Erano 12 milioni nel 2008, siamo a 5,6.

«Un calo che riguarda anche altri. Il punto è che noi dobbiamo stare attenti a prendere

IL SEGRETARIO

Enrico Letta, segretario del Partito Democratico ha lanciato la fase costituente dem. Che Sposetti bolla come incomprensibile

atteggiamenti che alimentano l'antipolitica, perché altrimenti produciamo astensione sicura o peggio voti alle liste estreme. Siamo in una fase storica molto complicata, c'è la guerra in Europa da dieci mesi. Ci sono ricchi troppo ricchi, poveri troppo poveri, e una classe di mezzo che è in grande difficoltà, abbandonata a se stessa».

E i Cinque Stelle ormai hanno sopravanzato il Pd, almeno nei sondaggi.

«Il problema è che siamo senza un'idea, da tempo. Abbiamo teorizzato il campo largo, poi alle elezioni abbiamo fatto il campo profughi. Per non parlare dell'agenda Draghi, ma mi faceva venire l'orticaria: la politica deve avere la sua agenda, non quella di un banchiere».

E i dem ce l'hanno?

«Siamo senza guida da mesi, chi ci ha guidato non è in grado. La campagna elettorale sbagliata, poi il 26 settembre allo sbando. Ma quando mai un leader dice: "Siamo morti", come ha fatto Letta? Devi difendere i 5,6 milioni che ti hanno votato, devi rassicurarli sul fatto che prepari una riscossa. Te lo immagini se nel 1948 il segretario del Pci e quello del Psi avessero detto "siamo morti"?».

L'8 settembre del Pd.

«Tra 8 e 26 non c’è molta differenza, in effetti: qualcuno se ne è andato, il popolo è rima-

26 31 dicembre 2022
Il travaglio dei dem “ABBIAMO TEORIZZATO IL CAMPO LARGO, POI ALLE ELEZIONI ABBIAMO FATTO IL CAMPO PROFUGHI. IL QATARGATE? RIGUARDA SINGOLI, PERCHÉ DEVO ACCUSARE IL MIO PARTITO?”

sto. Fortuna che ci sono stati i partigiani, allora, e adesso qualcuno che si è candidato e cerca di rivitalizzare la storia del partito».

Per il momento alcune bandiere della sinistra le sventola Conte. La difesa dei deboli, il pacifismo.

«In tutta la campagna elettorale i leader del Pd non hanno mai pronunciato la parola pace. Siamo nella Nato, dobbiamo essere alleati degli americani, ma non possiamo essere vassalli».

A proposito di cose non fatte o fatte poco, è soddisfatto della reazione del Pd alle notizie provenienti da Bruxelles sul Qatargate? Letta ha sospeso Cozzolino, ad esempio.

«Sospesa una persona che non è neanche inquisita, la dice tutta su come ci comportiamo a proposito di alimentare l'antipolitica. Alcuni dirigenti hanno già parlato come se avessero capito tutto: il Pd si deve vergognare, il Pd è stato penetrato dalla questione morale. Tutti hanno rivalutato Berlinguer. Ho letto una intervista il cui titolo è: "Dopo Berlinguer, quella degli ex Pci è una storia criminale"».

È Flores D'Arcais, sul "Domani".

«Affermazioni miserabili. Di fronte alle quali posso dire che noi, eredi di quella storia, abbiamo non solo il compito di conservarla, ma di tramandarla, sforzandoci di

IN CORSA

Elly Schlein, ex vicepresidente dell’Emilia Romagna sfida alle primarie il governatore della stessa regione Stefano Bonaccini

renderla attuale. Per il resto aspettiamo. Non vorrei che fra dieci anni, come per Lorenzetti, venissimo a scoprire che il fatto non sussiste».

E questo trasforma il Qatargate in una bella cosa?

«Certamente no. Ma si tratta di singoli. Perché io devo accusare il mio partito?»

Non può sfuggire che siano esponenti di una stessa area.

«Per ora è così, per ora. Significa che non c’è stata vigilanza, da parte di quelli che hanno avuto posizioni apicali».

Le pare poco?

«Queste cose succedono quando in politica si allenta il dibattito, lo scontro. Quando si allargano le maglie può entrare di tutto. Non so se riusciremo a ricrearli, ma quando c'erano i partiti organizzati, questo controllo c'era».

Trova fuori luogo scomodare Berlinguer?

«Dopo 42 anni? Quello - che andrebbe comunque contestualizzato - era un ragionamento a difesa dei partiti. Oggi vedo un ragionamento che produce antipolitica, il che non ha senso. Perché noi abbiamo bisogno di difendere la politica, il Parlamento europeo, e quel poco di partiti che sono rimasti in Italia».

Ma il Pd è pronto a darsi uno scossone?

«Non lo so, ho quasi 76 anni e parlo di scossone, è un termine che dovrebbero adoperare quelli di vent’anni».

È possibile che l'apparato voti Bonaccini e le primarie aperte le vinca Schlein?

«È colpa delle regole che a me non piacciono, era già successo con Renzi e Cuperlo. Se fai eleggere il segretario a quelli che passano per strada, la stragrande maggioranza va a uno che non conosce il partito».

E Schlein lo conosce?

«Non lo so, e per adesso questo mi interessa relativamente: serve cambiare».

È la stessa posizione di Franceschini.

«Non faccio alleanze con lui. Ma ben vengano quelli che per altre strade arrivano alla stessa conclusione».

Segno della vitalità del Pd?

«Non ci sono gli ex popolari, non ci sono gli ex comunisti, ma gente che lavora sul Pd e cerca di recuperare i voti persi. Perché le pecorelle che si smarriscono vanno recuperate. Le salvi, finché sono vive, mica gli fai l'esame».

31 dicembre 2022 27 Prima Pagina Foto: F. Foria / Agf, M. Minnella / FotoA3
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di MASSIMILIANO PANARARI

La destra candida il “civico” perché non ha classe dirigente

Appena indossati i panni di presidente del Consiglio, Giorgia Meloni si è attenuta a una sorta di austerità comunicativa (a partire dalla scelta del look). Uno strappo rispetto alla consuetudine di quel neopopulismo che è anche stile comunicativo, e si colloca agli antipodi della sobrietà. Ma il basic istinct pare essersi preso ben presto la rivincita in occasione della visita lampo al contingente militare italiano in Iraq dell’antivigilia di Natale, quando la premier ha messo una tuta mimetica. Un mimetismo che ha fatto subito venire in mente la prassi salviniana, e che segnala come sia difficile dismettere abitudini e strategie di comunicazione anche quando ci si deve infilare nelle vesti istituzionali. E che può pure essere guardato come un’allegoria di un “travestimento” che, invece, non funziona, e rimanda anch’esso a una caratteristica di lungo periodo delle destre nazionali. Vale a dire la mancanza di una classe dirigente di qualità nei territori. Una questione annosa, per l’appunto, certificata anche - seppure con vari distinguo, come naturale - da due degli intellettuali di riferimento della destra italiana, Pietrangelo Buttafuoco e Giordano Bruno Guerri. La rappresentazione di un’approssimazione di proporzioni quasi sistemiche la si è vista, in modo palese e innegabile, nell’iter alquanto pasticciato della legge finanziaria. E la carenza di una classe dirigente “in-house” spendibile nelle competizioni locali chiave è un aspetto che viene riconfermato adesso dalla scelta del candidato governatore del Lazio, andata a cadere su Francesco Rocca, presidente uscente della Croce Rossa italiana. Al punto da provocare

qualche tensione con la corrente di Fabio Rampelli, il romanissimo vicepresidente della Camera, dominus laziale della destra postmissina (nelle sue varie metamorfosi), destinato alla condizione di “eterno secondo” mai prescelto e sempre “sacrificato”. E, dunque, a meno di pensare a una sfiducia “ontologica” della leader di Fratelli d’Italia nei confronti di molti dei suoi dirigenti di punta a livello locale (cosa altamenteimprobabile),ilnodoèprecisamente quello della percezione anche da parte del vertice di una diffusa impreparazione e inadeguatezza delle proprie élites territoriali. Tanto più se si considera che proprio Meloni aveva suonato la carica della rivincita della politica, dicendosi pubblicamente sempre orgogliosa e convinta della militanza di partito come forma di selezione delle classi dirigenti. Con la celebrazione del primato della politica rivendicato contro la «tecnocrazia» - che, pure, è stata prodiga di suggerimenti e buoni consigli nell’ordinata fase di transizione dal governo Draghi a quello Meloni - il destracentro adotta, come già am-

piamente osservato in tante occasioni, quello che è sostanzialmente un puro format comunicativo. Contrariamente ai proclami, nella formazione dell’esecutivo i partiti dell’alleanza sono, infatti, andati spasmodicamente alla ricerca di tecnici più o meno di area, ottenendo però pochi risultati significativi o tangibili. Per poi aprire il fuoco contro i tecnici ministeriali - secondo il collaudato modello propagandistico del «doppio registro» -, non volendosi assumere la responsabilità di una manovra di bilancio piena di inciampi a dispetto delle promesse iniziali di innovazione e rigore. E ora assistiamo, di nuovo all’antitesi delle roboanti affermazioni di poco tempo fa, all’“eterno ritorno” del candidato civico per cercare di ovviare alla difficoltà di dotarsi di gruppi dirigenti territoriali all’altezza delle sfide e dei larghi consensi di cui godono oggi le destre. E, come evidente, non si tratta di un problema esclusivamente loro, ma di un fattore di debolezza che si proietta sull’intero sistema-Paese.

31 dicembre 2022 29 Prima Pagina Foto: A. Casasoli / FotoA3 L’intervento
Giorgia Meloni
30 31 dicembre 2022 La ripresa difficile
CHIEDE
DI GLORIA RIVA AIUTO, IL PNRR
ASILO

li occhi dell’Europa sono puntati sull’Italia. A preoccupare è la capacità del Paese di spendere i 191,48 miliardi del Piano di Ripresa e Resilienza. Con quei soldi l’Italia punta a modernizzare il Paese, ridurre le disuguaglianze e offrire uno sviluppo sostenibile e inclusivo attraverso l’uso di tecnologie innovative, creando asili nido e ridando voce ai troppi territori dimenticati, siano essi periferie, comuni di montagna o del Sud. Ma siamo già in ritardo. Perché l’Europa stacchi il terzo assegno da 19 miliardi, l’Italia deve centrare 55 obiettivi entro la mezzanotte di Capodanno, ma all’appello mancano 15 milestone da raggiungere, fra cui la legge sulla concorrenza e la ri-

forma del processo civile e penale. Parallelamente il Paese si era impegnato a spendere 42 miliardi entro fine anno, invece ha erogato appena una decina di miliardi. Il ministro per gli Affari europei con delega al Recovery Plan, Raffaele Fitto, conferma le criticità, ma assicura che a brevissimo gli obiettivi saranno tutti centrati ed è pronto a confrontarsi con la Commissione europea per ammorbidire i vincoli di spesa: «Non sfuggirà che il nostro orizzonte temporale è il 2026, non possiamo concentrarci ogni volta sulla singola scadenza», ha detto il ministro.

La partita è piuttosto delicata perché, come spiega l’economista Fabrizio Barca, «se ci sarà un’Europa politica e sociale, che renda sistematica la creazione di una spesa e di un debito pubblico comunitario, pagato con le tasse degli europei, dipende per lo più dalla capacità italiana di tenere fede agli impegni presi con il Pnrr». Questo perché l’Italia è il primo beneficiario del piano europeo: assorbe un quinto di tutti gli investimenti a fondo perduto e un terzo di tutti i prestiti disponibili. «Tutte le proposte di

FINANZIAMENTI

riforma della fiscalità europea sono bloccate in attesa di vedere se il sistema promosso col NextGenEu (ovvero debito comune con investimenti europei a fronte di concrete riforme) funziona», racconta David Rinaldi, direttore di studi e politiche della Feps, Foundation for European Progressive Studies, che dal suo osservatorio belga continua: «Un fallimento nella messa a terra del Pnrr darebbe credito ai Paesi frugali, che preferiscono evitare un coinvolgimento dell’Ue per il finanziamento di beni comuni come clima, energia pulita, sicurezza, innovazione, infrastrutture».

Perché l’Italia fa così

31 dicembre 2022 31 Prima Pagina Foto: A. Cristofari / Contrasto
Bambini giocano in un asilo nido a Roma
G
Gloria Riva Giornalista
I
EUROPEI PER I NIDI RISCHIANO DI FINIRE NEL NULLA. PERCHÉ I PICCOLI COMUNI NON HANNO GLI STRUMENTI PER I BANDI. SOPRATTUTTO AL SUD, DOVE CE N’È PIÙ BISOGNO

difficile

tanta fatica a spendere i soldi europei? Una prima risposta l’ha fornita Alessandra Faggian, docente di Economia applicata al Gran Sasso Science Institute, intervenuta a dicembre al convegno “Pnrr: valutare per migliorare” proposto da Feps e dal Forum Disuguaglianze e Diversità per una prima analisi di confronto dei piani nazionali: «La maggior parte dei fondi è allocata attraverso bandi pubblici, che implicano la capacità di sapervi partecipare e presentare progetti ben fatti e strutturati. In questo c’è un problema di divario istituzionale che non si è preso in considerazione: infatti i piccoli comuni spesso non hanno neppure l’ufficio progettazione a cui rivolgersi e quindi sono stati esclusi dalla possibilità di partecipare alle gare del Pnrr. Questo sconfessa l’intenzione dei decisori italiani di destinare il 49,55 per cento delle risorse del Pnrr a favore della coesione territoriale». Quindi, in teoria la metà del denaro europeo dovrebbe servire a contrastare lo scollamento tra cittadini e istituzioni e le disuguaglianze fra aree centrali e marginali, attraverso un approccio politico basato sui luoghi e con un

LA TRANSIZIONE

ECOLOGICA È

UN ALTRO SETTORE DECISIVO NEL QUALE L’ITALIA È IN RITARDO. E DAI RISULTATI DEL NOSTRO PAESE DIPENDE IL FUTURO DELLA SPESA DELL’INTERA UNIONE

insieme strutturale e granulare di politiche sensibili alle persone e alle zone in cui vivono per promuovere l'innovazione economica, sociale e istituzionale. In pratica si è fatto il contrario. «È vero che nel piano c’è l’impegno a destinare il 40 per cento delle risorse al Sud, ma è una soluzione parziale e manca la consapevolezza delle disuguaglianze territoriali», afferma Faggian, che aggiunge: «C’è una grave frammentazione nella definizione delle aree marginali, strumentale al ruolo di gruppi di potere, interessati a essere citati e riconosciuti nel Pnrr». Eppure sarebbe bastato fare leva sulla Snai, la Strategia Nazionale per le Aree Interne, per riconoscere facilmente le aree marginali e offrire loro una scatola degli attrezzi, per esempio un aiuto nella realiz-

zazione dei bandi o nella messa a terra dei progetti, per evitare che i finanziamenti del Pnrr rimanessero al palo. Qualche esempio? Su tutti la creazione di scuole per l’infanzia per offrire un nido a 264.480 bambini, con uno stanziamento complessivo di 4,6 miliardi: «Leggendo i decreti e i bandi di avviso pubblico, l’Italia si prefigge di raddoppiare i posti entro il 2025 per offrire un servizio ad almeno un terzo dei bambini», racconta Francesco Corti del Centre for European Policy Studies, che continua: «Al netto della graduatoria attuale, il 22 per cento dei progetti è ancora in fase di approvazione del ministero dell’Istruzione e, nonostante la semplificazione delle norme sugli appalti, i tempi per l’affidamento e l’assegnazione dei lavori variano dai sei agli 11 mesi, con tempi più lunghi del 38 per cento al Sud. In più alcuni comuni risultati vincitori al bando stanno rinunciando, perché non hanno i mezzi e le competenze per realizzare le opere. Quindi certamente non si riuscirà a raggiungere il primo obiettivo concreto concordato con la Commissione europea, cioè l’aggiudicazione di tutti i contratti di costruzione degli asili entro metà 2023». E le aree più in ritardo sono quelle che scontano una maggior arretratezza rispetto ai servizi alla prima infanzia, come la Campania e la Sicilia: «Molti comuni non hanno presentato i progetti perché non hanno le competenze tecniche. E i mille dipendenti pubblici, assunti per aiutare i municipi più in difficoltà, non sono sufficienti per rispondere alle loro carenze».

Perplessità anche sul fronte della transizione ecologica, dove l’Italia stanza 71,7 miliardi, superando di poco il minimo richiesto dall’Unione europea, destinando però il 40 per cento alle ferrovie, un’altra grande fetta al Superbonus 110 per cento per l’efficientamento energetico, mentre solo il 14 per cento va alle rinnovabili. Il confronto con gli altri piani europei è impietoso: «L’Italia è l’unico dei grandi player europei dove manca un piano per l’automotive e siamo parecchio indietro sul fronte delle energie rinnovabili», commenta Maria Enrica Virgillito, professoressa di Economia Politica alla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa. Gli investimenti in batterie e veicoli elettrici sono concentrati nelle aree dove ci sono già le competenze in atto: ad esempio in Germania aprirà una gigafactory per le batterie,

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La ripresa
FORUM Fabrizio Barca, economista e animatore del Forum Disuguaglianze e Diversità MINISTRO Raffaele Fitto, ministro per gli Affari europei, la Coesione e il Pnrr

mentre in Italia si discute di avviare una produzione a Termoli o nell’ex stabilimento Olivetti a Scarmagno, «ma parliamo di realtà che saranno attive non prima del 2025», conclude la docente, secondo cui nel Recovery manca una chiara programmazione della produzione delle energie rinnovabili e delle sue applicazioni.

Se la Commissione europea accoglierà la proposta del ministro Fitto di dilatare le scadenze, è probabile che in cambio chieda di assicurare una maggior partecipazione pubblica almeno in fase di implementazione, anche a compensazione della mancanza di un monitoraggio civico nella fase di costruzione dei programmi. «Sarebbe auspicabile, perché solo se i cittadini si convinceranno che il Recovery Plan è servito a cambiare rotta, allora potremo andare nella direzione di una maggiore integrazione europea», commenta Barca, che continua: «La cattiva notizia è che al momento l’analisi delle regole e dell’attuazione del processo ci indicano forti criticità in Italia e in tutti i Paesi e quindi si mette a rischio quell’impatto positivo desiderato. La buona notizia è che il piano è ancora alle battute inizialistiamo valutando l’allocazione delle intenzioni, non certo i progetti fatti e finiti - e

TRANSIZIONE

Lo stabilimento Bosch di Modugno (Bari). Il settore automotive è tra quelli più coinvolti dalla transizione ecologica

quindi c’è ancora margine per porre rimedio. E la prima cosa da fare è offrire un forte monitoraggio civico perché i cittadini hanno il diritto di arrabbiarsi quando scoprono che il denaro stanziato non viene speso nel modo giusto, mentre l’amministrazione pubblica ha bisogno di ricevere le critiche della popolazione, perché la pressione dell’opinione pubblica è il maggior acceleratore di pratiche burocratiche», continua l’economista che fa notare: «Se finora non è stato creato un osservatorio civico del Pnrr è perché i due governi precedenti non hanno voluto ci fosse trasparenza sul tema», e lancia la palla al governo Meloni affinché intervenga in tal senso.

Barca suggerisce di sfruttare la capacità di sintesi delle città metropolitane e della Strategia Aree Interne per offrire punti di riferimento ai comuni: «Così da potenziare la capacità progettuale dei piccoli municipi. Perché, ricordiamocelo, il Recovery non è un programma per scavare buche e riempirle, così da creare un po’ di salario, un certo profitto e soprattutto tante rendite. È soprattutto un piano europeo per rispondere in modo ordinato al succedersi di un drammatico ripetersi di grandi crisi».

31 dicembre 2022 33 Prima Pagina Foto:G. Lo Porto / Agf, P. Tre / Foto A3, Fotogramma

DI SIMONE ALLIVA

iamo in decrescita demografica. Non è una notizia. Lo siamo dalla fine degli anni Settanta. L’Italia è il Paese meno fecondo e più anziano d’Europa, in cui gli under 15 sono meno degli over 65. Tutto questo ha portato l’Istat a prevedere una riduzione di 7 milioni di residenti entro il 2050. Dal 2008 ad oggi le nascite sono diminuite del 30,6 per cento. Il numero di donne italiane tra i 15 e i 49 anni (la fascia di età considerata fertile) è in diminuzione costante: se le baby-boomer, nate tra la seconda metà degli anni Sessanta e la prima metà degli Ottanta, sono uscite dalla fase riproduttiva, le generazioni più giovani pagano il «baby-bust», cioè la fase di forte calo della fecondità del ventennio tra il 1976 e il 1995, che ha portato al minimo storico di 1,19 figli per donna nel 1995. Questo effetto era stato attenuato, a partire dagli anni Duemila, dall’immigrazione, che aveva incrementato il numero di gio-

vani. Oggi invecchia anche la popolazione straniera residente. Inoltre, all’inizio del millennio, il calo della natalità riguardava soprattutto i figli successivi al primo, adesso i dati dimostrano che le coppie più giovani hanno difficoltà anche a formare una nuova famiglia.

Il perché non è un mistero. Basta mettersi in ascolto delle nuove generazioni: non si fanno figli prima di tutto perché non si ha un lavoro per mantenerli e una casa per metterceli, perché si è precari. La madre è sempre certa ma il futuro è oscuro. Una tempesta perfetta quasi impossibile da impedire, si può solo accogliere come spiega a L’Espresso Corrado Bonifazi, demografo dell’Istituto di ricerche sulla popolazione e le politiche sociali del Consiglio nazionale delle ricerche: «Le ragioni

34 31 dicembre 2022 Il calo
delle nascite
DECRESCITA LA TEMPESTA PERFETTA MENO FIGLI E MENO DONNE IN ETÀ FERTILE. INVECCHIAMO. E IL FUTURO PRECARIO E INCERTO IMPEDISCE DI FORMARE NUOVE FAMIGLIE. SULLE QUALI INVESTIAMO IN MODO CONTRADDITTORIO S
Simone Alliva Giornalista

dell’attuale calo delle nascite risiedono negli ultimi 45 anni di storia demografica del Paese, visto che dal 1977 il tasso di fecondità totale è sceso al di sotto del livello di sostituzione di 2,1 figli per donna. Non solo, per lunghi periodi abbiamo avuto livelli di fecondità tra i più bassi in Europa, con valori al di sotto degli 1,3 figli per donna che nella letteratura scientifica è considerata la soglia della lowest low fertility. Una categoria nella quale siamo rientrati dal 2018. A questa situazione si è aggiunta una cospicua diminuzione delle donne in età feconda (15-49 anni), passate dai 13,8 milioni del 2010 ai 12,1 milioni del 2022 per effetto della bassa fecondità degli anni scorsi. Si è innescata quindi quella tempesta perfetta che mette insieme bassi livelli di fecondità e riduzione delle donne in età riproduttiva che da alcuni anni caratterizza il nostro Paese. Una situazione che rischia di continuare anche nei prossimi anni, visto che il calo delle donne tra i 15 e i 49 anni non do-

Culle in fila e genitori oltre il vetro. A invecchiare è anche la popolazione straniera residente e anche le politiche di respingimento si rivelano fallimentari sotto il profilo del contrasto del calo demografico

vrebbe arrestarsi prima del 2050 quando dovrebbe scendere al di sotto dei 10 milioni».

Da Paesi europei virtuosi come la Francia e la Svezia che tentano di invertire con qualche successo il fenomeno, ci differenziamo nella esiguità delle risorse destinate alle politiche familiari, senza contare, ricorda Bonifazi, «le crisi economiche del 2008 e del 2011 che hanno pesantemente colpito la situazione dei giovani, e più recentemente la pandemia e la guerra in Ucraina».

La notizia, oggi, è che la politica italiana sembra aver aperto gli occhi sul fenomeno. La questione si è fatta spazio nei programmi elettorali prima, nel governo in carica adesso. Fratelli d’Italia si muove attraverso simboli e azioni per fermare l’inverno demografico. Basti pensare all’istituzione di un ministero per la Natalità guidato da Eugenia Roccella, antiabortista e portavoce del Family Day nel 2007. Ma non basta: «Un Paese dovrebbe fare il contrario di ciò che fa ades-

31 dicembre 2022 35 Prima Pagina Foto: ER Productions Limited –GettyImages

so», spiega la sociologa Chiara Saraceno, esperta di cambiamento sociale e sviluppo demografico, «sostenere l’occupazione femminile, dare un orizzonte minimo di sicurezza a uomini e donne, ribilanciare la divisione di lavoro nelle cure in famiglia. Questo governo punta molto su questo tema facendo scelte sbagliate. Si aumenta l’assegno unico per chi ha più di tre figli. Ma bisognerebbe aumentarlo per chi ne fa già uno, il secondo è raro e se ti rivolgi addirittura a chi fa tre figli è chiaro che fai un atto simbolico. Una politica ferma agli anni Cinquanta. Stanno sbagliando tutto». Sventolare qualche bonus sotto il naso delle giovani coppie, dunque, non le convincerà a fare figli. «Se uno sa che non è da solo nel crescere i propri figli, che c’è una società attorno che investe in questi figli si sente incoraggiato», chiarisce Saraceno.

Non servono neanche le politiche anti-scelta e le agevolazioni fiscali adottate dal governo di Viktor Orbàn in Ungheria, stella polare del ministro Salvini e di tutto il governo per le misure “lungimiranti” in tema di natalità. Per capire gli effetti di queste politiche sul Paese magiaro basta leggere i dati Eurostat più aggiornati, tra il 2019 e il 2021 la popolazione ungherese ha continuato a calare, mentre in molti Paesi dell’Unione europea è cresciuta. Ispirandosi, invece, a Paesi come, Francia e Svezia, l’Italia potrebbe pensare a garantire l’accesso gratuito agli asili nido, ad aumentare l’assegno unico e universale per i figli introdotto nel 2021 e ad allungare e pagare di più i congedi parentali. «In questi Paesi», ricorda Saraceno, «hanno congedi ben pagati sia uomini che donne. Serve favorire la responsabilità di cura e l’occupazione remunerata, anche con la flessibilità amichevole sul lavoro. Passare all’idea che quello che conta non è il tempo ma la produzione e che questa si può gestire secondo i propri bisogni». E poi i servizi per l’infanzia. «Non sono solo strumenti di famiglia o conciliazione con il lavoro, devono essere pensati come opportunità educative per i bambini, di crescita. Si pensa a bonus bebè, baby-sitter ma un figlio ha questa caratteristica: tende a rimanere a lungo. I figli costano di più man mano che crescono. Inoltre, non abbiamo raggiunto il 36 per cento di copertura dei nidi. Ci sono aree del Paese che fino a dieci anni fa erano a più alta fecondità, sono oggi a più bassa fecondità. Nel Mezzogiorno è più bassa del Centro Nord, del resto

ESPERTA

Il calo delle nascite

con l’occupazione difficile e servizi inesistenti, questi giovani toccano l’unica cosa su cui hanno un controllo: i figli».

La Francia ha politiche di sostegno della genitorialità e non solo della natalità. Non agevolano solo le nascite, ma sostengono la scelta di fare figli nel lungo periodo. La legge francese prevede la possibilità per uno dei genitori di lavorare a tempo parziale nei primi anni di vita dei figli. La durata varia a seconda dei figli. La Svezia si caratterizza per semplici misure universalistiche, cioè rivolte a tutta la popolazione. L’unica condizione prevista per poter richiedere il sostegno economico riguarda solitamente l’età del figlio a carico. Il congedo parentale svedese è tra i più generosi al mondo: 480 giorni complessivi a disposizione dei due genitori, di cui 390 retribuiti all’80 per cento dello stipendio medio incassato negli otto mesi precedenti la richiesta. Il futuro di un Paese senza figli lo illustra in sintesi Bonifazi: «Si continuerà a

PER FERMARE L’INVERNO DEMOGRAFICO LA RICETTA UNGHERESE È FALLIMENTARE.

LE MISURE DI SOSTEGNO DI FRANCIA E SVEZIA IN FAVORE DELLA GENITORIALITÀ SI RIVELANO MODELLI

percorrere la strada dell’invecchiamento, con inevitabili e rilevanti aumenti della spesa pensionistica e sanitaria a cui una quota sempre più ridotta di persone in età lavorativa dovranno rispondere».

Bisognerebbe guardare alla realtà: insieme alla denatalità un’altra questione è il mondo che ci si stringe addosso. Milioni di persone arrivano nella vecchia Europa che sembra produrre soprattutto vecchiaia e anziché accoglierle le respingiamo. «Lamentarsi perché non nascono bambini è molto miope», conclude Saraceno, «considerando che non facciamo molto per i bambini che ci sono o per i giovani che ci sono. Il Mezzogiorno è un caso drammatico. A che serve un Paese in cui le giovani generazioni se ne vanno e nessuno viene? In cui quelli che vengono, li respingiamo perché non sono quelli che vorremmo? Forse, fossero tedeschi ce li prenderemmo volentieri»

Prima Pagina 36 31 dicembre 2022 Foto: E. Baracchi –Agf
Chiara Saraceno, esperta di cambiamento sociale e sviluppo demografico

PATRIMONI, FAMIGLIE E MATRIMONI

Armando Cecatiello

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SI FA PRESTO A DIRE

DI CARMINE BENINCASA E CHIARA

SGRECCIA

FOTO DI CARMINE BENINCASA

Da sinistra: Antonio, 40 anni, dal 2019 vive in Stazione, niente reddito per via dei precedenti penali; Ciro, corriere di giorno e rider di sera con il suo scooter; Gaetano, padre single di tre figli, parcheggiatore abusivo; il “Parking Gaetano” in piazza Sanità

l sazio non crede a chi ha fame. Chi è nato e cresciuto nell’agio non può capire che vuol dire vivere di espedienti e nemmeno si fida di chi lo fa: «“O sazio nun crere a o riuno” è un vecchio detto napoletano. Significa che le sensazioni che prova chi sta a digiuno non possono essere comprese da quelli che non l’hanno mai provato», spiega Marco seduto al tavolo di un pub, al centro del rione Sanità, a Napoli. Ha poco più di trent’anni, prende il Reddito di cittadinanza e vende corredi nuziali porta a porta e a rate settimanali. «Si è inventato un mestiere», dice la compagna che gli sta accanto. Stanno insieme ma non possono vivere nella stessa casa perché non hanno i soldi per comprarla e neanche per pagare un affitto. Così abitano con i rispettivi genitori mentre crescono cinque figli, tra i vicoli stretti e semi-bui per l’illuminazione giallastra che trasforma il quartiere dove è nato Totò in una scena di teatro a cielo aperto, in cui pubblico e attori lavorano insieme.

«Ragazzi io me ne vado. C’è il cartello con il mio numero, se dovete uscire con la macchina chiamatemi». Arriva Gaetano nella sala al secondo piano del pub, trafelato per aver fatto le scale, sempre di fretta per tutti i compiti che deve svolgere durante la giornata, tra questi c’è il badare ai suoi tre figli di nove, dieci e tredici anni, da padre

La lotta alla povertà
I LE NUOVE REGOLE SUL REDDITO DI CITTADINANZA VISTE DALLA SANITÀ A NAPOLI. DOVE IL LAVORO CHE C’È NON BASTA A VIVERE E IL SUSSIDIO SOSTIENE INTERE FAMIGLIE. FUORI DALLE STATISTICHE
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DIRE OCCUPABILI

single. Magro, in t-shirt anche se manca un giorno alla vigilia di Natale. Al centro del rione Sanità c’è la piazza con la statua di Genny Cesarano, diciassettenne ucciso per sbaglio durante una faida di camorra nel 2015. Attorno, tutti i bambini che giocano sui motorini, in due, in tre, li accendono per andare a farsi un giro e tornano per chiacchierare. Accanto, c’è la chiesa di San Vincenzo, davanti un’area protetta dalla catena dove parcheggiano le auto: è il parking Gaetano, a disposizione 24 ore su 24, se lo chiami.

«Non chiedo soldi, prendo a piacere quello che le persone si sentono di dare», spiega Gaetano mentre spezza gli spaghetti da mettere a tavola per la cena. I figli guardano la televisione nell’unica vera stanza dell’appartamento, che è per pranzo, per dormire, per mangiare, per giocare. E accoglie l’albero di Natale, tagliato a metà con l’obiettivo di stare appeso, come un quadro, alla parete. Sotto, ci sono una miriade di regali. Diego, il figlio più piccolo, si aspetta un cellulare e la Nintendo Switch. Gaetano, che per la casa di al massimo 20 metri quadri, a pochi passi da

piazza Sanità, paga 300 euro al mese, vive anche grazie al Reddito di cittadinanza, 980 euro a cui aggiunge l’assegno unico familiare e quello che ricava dall’occupazione di parcheggiatore: «Alla fine guadagno più io che mio fratello che sta alla Fiat», dice sorridendo. «Ma vorrei lavorare legalmente. Ho 50 anni e l’energia per farlo. Solo che nessuno mi vuole. Finora ho fatto due colloqui, non mi hanno mai richiamato. Chiedo la dignità non la carità».

Lo interrompe il rumore insistente di un clacson. «Christian - dice al più grande tra i figli - affacciati alla finestra. Vedi se è qualcuno che deve uscire con la macchina». «Sì papà, c’è uno che se ne deve andare». Gaetano scende, sempre di corsa, con le chiavi della catena in mano.

Appoggiato sul motorino, di fianco alle auto che sono rimaste parcheggiate e ai bambini che fanno confusione c’è anche Ciro, un ragazzo di 23 anni che preferisce non dire il suo vero nome perché «non tutti conoscono la mia vera storia e preferirei non la venissero a sapere. Tipo la madre della mia ragazza non sa bene cosa è successo», spiega.

Ciro è indagato per rapina. Ma intanto che aspetta di capire come si metteranno le cose punta a costruirsi un futuro dignitoso, legale. «In passato ho commesso piccoli reati che non vorrei ripetere ma è stato perché mi sono dovuto arrangiare, per necessità». Scherza con i bambini, conosce tutti. Sulle spalle ha ancora lo zaino del food

Carmine Benincasa Giornalista Chiara Sgreccia Giornalista
31 dicembre 2022 39 Prima Pagina

delivery per cui lavora nel tempo che gli rimane libero, per arrotondare. Perché da poco più di tre mesi un lavoro vero ce l’ha. Fa il corriere per una ditta che consegna pacchi per Shein, per Zara, per Amazon. «Mi sveglio ogni mattina alle 6 e faccio fino a 120 consegne a Napoli e dintorni. All’inizio ero lento, non conoscevo i posti, e rientravo a casa dopo le 21. Adesso finisco per le 18. Mi trovo bene e il proprietario mi vorrebbe mettere a posto. Ma non posso, perché i miei genitori perderebbero il Reddito».

«Se tolgono il Reddito, qua succede un disastro», dicono Ciro, Gaetano e anche Nunzia, che lavora come cameriera per 600 euro al mese in nero in uno dei ristoranti che affacciano su piazza Sanità, «ma prendo pure il sussidio, altrimenti i soldi non mi basterebbero per mantenermi». Così dimostra anche la storia di Antonio, 40 anni, che dal 2019 vive fuori dalla stazione di Napoli Centrale. Dorme accanto ad altri che ormai sono diventati persone fidate, anche se si parlano a malapena. «Chi ti ha portato il panettone? La Caritas?», chiede alla vicina di posto. Nessuna risposta, neanche uno sguardo di intesa. «Non posso prendere il Reddito per i reati che ho commesso, anche se ho scontato la mia pena. Dopo poco che sono uscito dal carcere ho perso mia madre e con lei anche la casa in cui abitavamo. Così sono venuto a vivere qua, per l’elemosina. Guardami. Non faccio una doccia da giorni». Antonio ha la barba lunga, incolta, il viso scavato per i troppi pasti saltati e un corpo esile, circa 65 chilogrammi per più di un metro e 80 di altezza. Un’immagine che stride con le vecchie foto di Facebook in cui sorrideva appena uscito dal carcere. «Per me adesso trovare un lavoro è ancora più difficile, per i pregiudizi».

Secondo una simulazione dell’Ufficio parlamentare di bilancio, basata sui dati Inps, sono circa 400 mila i nuclei

familiari che rischiano di perdere il reddito di cittadinanza in base alle nuove indicazioni del governo Meloni. Come si capisce dalla manovra economica, in attesa che le caratteristiche di una nuova misura a sostegno della povertà vengano definite per il 2024, chi ha tra i 18 e i 59 anni, appartiene a un nucleo familiare in cui non ci sono minori, anziani o disabili, nel 2023 potrà ricevere il sussidio al massimo per sette mesi o finché non arriva un’offerta di lavoro. Al primo no decadrà il Reddito, anche se servirà un decreto per definire i criteri dell’offerta valida.

Gli occupabili sono il 38,5 per cento dei percettori di oggi, persone che secondo la definizione del governo, avrebbero le capacità di lavorare sulla base dell’età e della composizione del nucleo familiare. Non in seguito a un’analisi delle esperienze, del livello d’istruzione, delle competenze e delle opportunità occupazionali che i territori effettivamente offrono. Senza tener conto che tra quelli che prendono il Reddito di cittadinanza ci sono anche i lavoratori che non ricevono uno stipendio sufficiente per una vita dignitosa: i “working poor” che secondo un rapporto dell’Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche, l’Inapp sarebbero quasi il 46 per cento dei percettori. A cui va aggiunto chi, come Gaetano o come Nunzia, sta fuori dalle statistiche perché lavora nell’illegalità, per uno stipendio che comunque non permette di vivere. Si potrebbe quasi dedurre che, proprio come ha detto il presidente dell’Inapp alla presentazione del Rapporto, «basterebbe migliorare le condizioni del mondo del lavoro italiano per quasi dimezzare l’attuale numero dei percettori del Reddito di cittadinanza». Puntando sulla qualità e provando, anche se sazi, a comprendere chi è rimasto a digiuno.

Foto: I. Petyx –Ansa / Afp / Getty Images
La lotta alla povertà Prima Pagina 40 31 dicembre 2022
Manifestazione a Palermo per il Reddito di cittadinanza durante un evento di Giorgia Meloni

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TUTTI CONTRO LE BANCHE CENTRALI

Politica economica
EUGENIO
DI
OCCORSIO

giapponesi hanno suscitato un’ondata di ammirazione ai Mondiali di calcio per i modi eleganti, gli inchini al pubblico, il ritorno festoso pur da sconfitti. Eppure neanche la cortesia nipponica ha fermato un’ondata di polemiche il 21 dicembre di fronte al più inaspettato degli oltraggi: la Banca del Giappone ha alzato i tassi d’interesse (a Tokyo si chiama «allargamento della banda d’oscillazione») dopo le reiterate assicurazioni del governatore Haruhiko Kuroda che la politica sarebbe rimasta espansionista a lungo. Invece ecco il rialzo: da 0,25 a 0,50, proporzionale con l’inflazione che è al 3,6%. Commenti irritati e sconcerto degli operatori, e Borsa a picco del 2,6% con effetto-domino su tutte le piazze mondiali.

Benvenuta Tokyo nel “club dei falchi”, dove a nessuna banca centrale vengono risparmiate accuse. In Italia, ricordiamo le espressioni di sconcerto quando - il 15 dicembre - la Bce ha alzato i tassi dal 2 al 2,5%: è una sorpresa e una vergogna, ha tuonato la maggioranza guidata dai ministri Crosetto e Tajani, con tanto di inopportune e maldestre accuse agli istituti centrali di essere “braccio delle banche private”, contro le quali è dovuto intervenire il governatore Ignazio Visco a ripristinare la verità di un’istituzione pubblica che ha come solo riferimento l’interesse collettivo. Oltretutto non è chiaro cosa ci fosse da sorprendersi dei rialzi con l’inflazione che viaggia al 10% nell’eurozona e all’11,8% in Italia. «Semmai c’era da preoccuparsi», commenta Brunello Rosa, docente alla London School of Economics, «per il secondo annuncio fatto dalla presidente della Bce, Christine Lagarde: l’inizio (fissato per marzo) del “quantitative tightening”. È l’opposto del “quantitative easing”: se quest’ultimo aveva aiutato l’Italia perché una bella fetta dei titoli emessi (il 25% del monte-debiti alla conta finale, ndr) era acquistata da Francoforte, ora inizia l’operazione inversa. La Bce smette di acquistare i Btp, e avvia il graduale smobilizzo per quelli che si ritrova “in pancia”. Con un doppio svantaggio per noi: l’aumento dell’offerta di titoli con un inevitabile calo del valore (e rialzo dei tassi a carico del bilancio italiano) e la necessità per i Paesi indebitati di collocare per intero sul mercato le emissioni visto che è finita l’era in cui la Bce ne ricomprava in quantità. E l’Italia emetterà 450 miliardi di titoli nel 2023». Destino beffardo quello delle banche centrali: «Dopo essere state benemerite dell’umanità per aver affiancato con generosità i

La sede della Banca Centrale Europea a Francoforte

governi contro la pandemia, e prima ancora nel post-crisi finanziaria del 2008-2010, sono passate dalla parte dei cattivi», conclude Rosa. Ma le critiche, argomenta l’economista Mario Baldassarri, presidente del Centro studi economia reale e dell’Istituto Adriano Olivetti di Ancona, sono ancora altre: «È grave il ritardo con cui la Bce, come la Fed, si è mossa rispetto all’inflazione, quando si sarebbe dovuta vedere la situazione con lungimiranza di almeno un anno. E ora insiste nel preannunciare futuri aumenti dei tassi senza considerare che l’inflazione sta calando. Quanto alla vendita o meno dei titoli in portafoglio, è un pasticcio di comunicazione che ha intorbidito il dibattito». Né dalle comunicazioni del giorno stesso né da quelle successive si è capito se la Bce comincerà a vendere i titoli che ha in “pancia”, operazione delicatissima e da condurre con oculatezza massima, o semplicemente non ne acquisterà di nuovi. «La risposta giusta è la se-

conda», dice Lorenzo Codogno, per anni capo economista del Tesoro e ora titolare di un think-tank a Londra, «perché vendere i titoli, come già ha cominciato a fare la Bank of England, sarebbe estremamente dirompente e non penso che ci arriveremo prima di due anni». Concorda Lorenzo Bini Smaghi, che del board della Fed è stato membro fino al 2011: «Per ora si limiterà a non ricomprare i titoli». Il problema vero è che Lagarde sarà un grande avvocato ma non ha la calibratura millimetrica del predecessore, Mario Draghi. E infatti i mercati oscillano paurosamente a ogni sua dichiarazione come se gettasse benzina sul fuoco. Ulteriore pasticcio: l’invito all’Italia ad aderire al Mes, competenza invece dei governi e della commissione. A riprova del difficile momento, la Bce è nel mirino perfino dei think-tank tedeschi più ortodossi, che l’hanno criticata per tutti gli anni di politica

31 dicembre 2022 43 Prima Pagina Foto: B. Roessler/picture alliance/ Getty Images
RITARDO.
BCE, FED E BANK OF ENGLAND IRRITANO I MERCATI
RIALZI DEI TASSI ECCESSIVI E IN
SCELTE POLITICHE INCERTE, COMUNICAZIONE POCO CHIARA. COSÌ
E SI ATTIRANO LE CRITICHE
Eugenio Occorsio Giornalista
I

Politica economica

espansionistica: «Permangono diverse zone grigie nel mandato della Bce, che amplia il raggio d’azione a dismisura», accusa Julian Marx, analista di Flossbach von Storch, un grosso gestore di fondi di Colonia. «L’ultima trovata è il Transmission Protection Instrument, logica continuazione della dinamica del Qe. Il programma ha lo scopo di prevenire un eccessivo allargamento degli spread. Se la Bce giunge alla conclusione (soggettiva) che la divergenza è eccessiva, può acquistare a propria discrezione i titoli di Stato di qualsiasi Paese senza neanche più alcuna limitazione precostituita». Beninteso, tutti gli economisti, italiani e nordici, sono d’accordo: non bisogna intendere le polemiche come alibi a motivo di campagne sovraniste. «L’Italia», riprende Baldassarri, «deve abbassare il debito, da questo non si scampa: i modi ci sono, dall’intervento sui sussidi alla riforma fiscale, l’importante è attuarli senza guardare alle pretese di lobby e categorie di sorta».

Se la Bce è al centro di roventi polemiche, altrettanto politicamente sensibili sono le controversie che circondano l’americana Federal Reserve, che ha almeno il vantaggio di avere come controparte un solo governo anziché i 19 dell’area euro (20 dal primo gennaio con l’ingresso della Croazia). Il presidente Jerome Powell è sotto accusa fin dalla sua riconferma da parte di Biden nel novembre 2021 (è un repubblicano convinto nominato la prima volta Trump nel 2018). Larry Summers, ministro del Tesoro con Clinton, si è scagliato subito contro il capo della Fed: è riapparsa l’inflazione, ammoniva dalle colonne del Washington Post, cosa aspetta Powell a intervenire? Forse vuole dimostrare la sua gratitudine a Biden per la riconferma e non guastare la ripresa americana? Fra accuse al veleno e spiegazioni fallaci che l’inflazione era “transitoria” si è arrivati alla primavera di quest’anno, quando la svalutazione negli Usa era già arrivata all’8,5% e Powell ha finalmente deciso di agire. Il primo timido rialzo dei tassi (da zero a +0,25%) è del 16 marzo, dopodiché è partita la rincorsa che ha portato a metà dicembre i tassi al 4,5%, e non è ancora finita. Ma la “forward guidance” anacronistica, l’anticipo degli aumenti dei tassi prevedendo un’inflazione che a questo punto forse non ci sarà, è al centro delle accuse contro la Fed (identiche a quelle contro la Bce). La stessa necessità dei rialzi è controversa: Joseph Stiglitz, premio Nobel e guru della Columbia University, è alla testa del

10,

1%

L’inflazione nell’eurozona (novembre 2022). Il tasso della Bce è per ora al 2,5%: mai così lontano dal valore dell’inflazione nella storia dell’euro

11,8%

L’inflazione in Italia, sempre nel novembre 2022. ll dato medio dell’intero anno secondo l’Istat dovrebbe essere dell’8,1%

7,1%

L’inflazione in America in novembre: il dato più basso del 2022. Il massimo dell’anno era l’8,6% toccato in maggio

4,5%

Il livello dei tassi della Fed in America dopo l’aumento di metà dicembre. I tassi erano ancora fermi allo 0% all’inizio di marzo

0,50%

L’ “allargamento della banda d’oscillazione” (denominazione dei tassi d’interesse) in Giappone deciso all’inizio di dicembre

movimento che sostiene l’inutilità, anzi la dannosità, dei rialzi per combattere l’inflazione. «Così si affossa l’economia in una recessione da cui poi sarà difficile uscire», sostiene in un documento del Roosevelt Institute che presiede. «L’inflazione si cura da sé perché provoca un rallentamento delle spese e degli investimenti, in sostanza dell’attività economica, che provoca il raffreddamento dei prezzi», scrive Stiglitz. I fatti in parte gli danno ragione se si guarda all’andamento calante dei mercati in quest’anno. Dal primo gennaio al 21 dicembre 2022 il Dow Jones ha perso il 10% (più o meno quanto il Ftse Mib di Milano), mentre molto peggio sono andati il Nasdaq, giù del 35% (da 14.935 a 10.476) e anche il mercato obbligazionario che nella media mondiale ha perso circa il 25% del valore. Ma il palcoscenico delle polemiche più plateali contro le banche centrali spetta alla Bank of England, la “Old Lady of Threadneedle Street”, dal nome della strada della City dove ha sede dal 27 luglio 1694. «La BoE è stata coinvolta quest’estate», riprende Rosa che prima della Lse era un funzionario della stessa banca centrale, «nella caduta del governo di Liz Truss, quando fu costretta dalla rovinosa manovra di tagli alle tasse non finanziati (oltre 60 miliardi di sterline non coperte, ndr) a ricominciare a comprare i titoli di Stato inglesi, i gloriosi gilts, per calmare un mercato in rivolta». Il rifiuto di continuare con questi acquisti portò alle dimissioni del ministro del Tesoro Kwasi Kwarteng, e poi della stessa premier. «Dopo l’arrivo del nuovo governo, con Rishi Sunak primo ministro e Jeremy Hunt al Tesoro, la Bank of England ha ripreso la sua politica di rialzo dei tassi e di riduzione del bilancio, attirandosi immancabilmente le critiche di aver inasprito la recessione già in atto nel Regno Unito».

Insomma, della serie “come fai sbagli”. Forse ha ragione il vecchio Olivier Blanchard, prestigioso economista mondiale già chief economist del Fondo Monetario, quando propone in uno studio per il Peterson Institute di alzare il tasso di obiettivo, verso il quale tutte le banche centrali dovrebbero tendere, dal 2 al 3%: «Così si avrebbero più margini di manovra quando in qualche futura crisi ci sarà bisogno di abbassare i tassi, senza sbattere subito contro lo “zero lower bound”». Ma di sicuro qualche modo per polemizzare contro le banche centrali si troverebbe sempre.

Prima Pagina 44 31 dicembre 2022

È ITALIANO LO SCEICCO

PIGNATARO

DI VITTORIO MALAGUTTI

e davvero i dati sono il petrolio del Ventunesimo secolo, il carburante che alimenta la crescita economica nel terzo millennio, allora Andrea Pignataro si è già conquistato un posto in prima fila tra i nuovi sceicchi del potere globale. Bolognese di nascita, da tempo di casa a Londra, l’imprenditore italiano tira le fila di un gigantesco flusso di informazioni che alimenta i mercati finanziari. Miliardi e miliardi di byte, sotto forma di ordini d’acquisto o di vendita, che muovono le grandi Borse internazionali, da Wall Street alla City londinese fino a Tokio. Mai come in questo caso di può dire che il tempo è denaro. Perché pochi secondi di vantaggio nella corsa a un titolo a volte garantiscono guadagni colossali. La velocità è tutto, insieme alla qualità dei dati su cui si basano le scelte dei trader, che molto spesso sono nient’altro che macchine guidate da complessi algoritmi.

È questa, in estrema sintesi, la rivoluzione digitale su cui Pignataro ha costruito il suo successo, con una raffica di acquisizioni che l’hanno portato a controllare un grup-

46 31 dicembre 2022 Foto: C. Alfonso/ Guindani / Trovati/SGP, Getty Images Business digitale
RISERVATISSIMO, GUIDA
ANDREA
È TRA I PRIMI AL MONDO NEL SETTORE DELLE INFORMAZIONI FINANZIARIE.
UN IMPERO VALUTATO OLTRE 20 MILIARDI S
Nel fotomontaggio Andrea Pignataro con un listino di Borsa

SCEICCO DEI DATI

po che secondo le valutazioni che circolano sul mercato potrebbe avere un valore compreso tra i 25 e il 35 miliardi di euro. Queste però sono stime di massima, perché la holding Ion, con base a Dublino, non è quotata in Borsa e visto che non è mai stato pubblicato un bilancio consolidato, risulta difficile farsi un’idea completa di una galassia che comprende decine di società e filiali tra gli Stati Uniti e svariati Paesi europei, tra cui, oltre alla Gran Bretagna, anche Italia, Germania, Austria, Svezia.

Può sembrare un paradosso, ma un imprenditore che ha costruito la sua fortuna sulla circolazione in tempo reale delle informazioni ha sempre evitato con cura ogni forma di pubblicità riguardo sé stesso. Rarissimi i contatti con la stampa, poche le immagini, e datate. Pignataro è un nome noto solo nella ristretta cerchia dei professionisti della finanza. Chi lo conosce bene racconta che si sposta tra le due sponde dell’Atlantico con un aereo privato e che ha investito milioni di euro ai Caraibi per un buen retiro a Canouan, nell’arcipelago delle Grenadine, su un’isola che in passato è stata al centro di più di una speculazione immobiliare con capitali italiani. Tramite la società Punta Rossa, Pignataro ha invece rilevato vasti terreni nel nord della Sardegna, anche a La Maddalena. In patria, il fondatore e azionista unico di Ion è uscito dall’anonimato solo nel 2021 grazie a due acquisizioni di grande rilievo: prima Cedacri, un’azienda che fornisce servizi informatici agli istituti di credito, e poi Cerved, nata come piattaforma di informazioni commerciali per poi allargarsi ad altre attività, come la gestione di crediti deteriorati. Lo sbarco sul mercato italiano segue la rotta già tracciata negli anni precedenti, con l’obiettivo di consolidare la posizione del gruppo tra i grandi provider di servizi destinati a

31 dicembre 2022 47 Prima Pagina
Vittorio Malagutti Giornalista

IL SUO GRUPPO È CRESCIUTO CON UNA STRATEGIA

BASATA SULLE ACQUISIZIONI. ORA HA NEL MIRINO PRELIOS, SOCIETÀ SPECIALIZZATA NELL’IMMOBILIARE E NEI CREDITI INCAGLIATI

grandi istituzioni bancarie, fondi d’investimento, società di gestione delle Borse, anche quelle merci.

L’ascesa di Pignataro ricorda molto quella di Michael Bloomberg. Entrambi hanno iniziato la carriera alla banca d’affari Salomon Brothers. Il miliardario americano si mise in proprio quarant’anni fa per creare la società che porta il suo nome, destinata a trasformarsi in un impero multimediale fondato proprio sulla fornitura di news e dati agli operatori finanziari. L’imprenditore bolognese, classe 1970, laurea italiana in economia con dottorato in matematica all’Imperial College di Londra, si è invece lasciato alle spalle la carriera da trader (e una quota nell’hedge fund Endeavour Capital) per investire nel software. Il primo salto di qualità è arrivato grazie ai contratti con Mts, il mercato telematico dei titoli stato italiani ed europei, cioè la piazza virtuale dove gli investitori istituzionali si scambiano obbligazioni pubbliche, in primo luogo Btp.

All’epoca, una ventina di anni fa, sulla poltrona di presidente della società che gestiva questo snodo centrale della finanza continentale sedeva un economista del calibro di Giorgio Basevi. Un nome, quest’ultimo ben conosciuto da Pignataro, che era stato suo allievo e poi collaboratore all’università di Bologna. Il ruolo di Ion in Mts funzionò come un trampolino di lancio per consolidare i rapporti con colossi della finanza internazionale come Deutsche Bank, Barclays e JP Morgan, che diventarono grandi clienti del gruppo con base a Dublino.

Pignataro, infatti, capì da subito di dover crescere in fretta. L’evoluzione tecnologica impone investimenti massicci e chi resta indietro è tagliato fuori dal grande gioco. Le acquisizioni più importanti, quelle che davvero hanno proiettato Ion sullo scenario globale, risalgono alla metà del decennio scorso, dopo la grande crisi del debito sovrano. Le cronache elencano almeno una ventina di operazioni, ma quelle che danno l’impulso più forte alla crescita del gruppo, sia per dimensioni, sia come parco clienti, sono almeno tre, concluse tra il 2017 e il 2019. In quel triennio d’oro passano infatti sotto le insegne di Ion aziende che forniscono dati e informazioni sui mercati finanziati come Acuris e Dealogic, oltre a Fidessa, che invece è specializzata nel software per le piattaforme di trading azionario.

Secondo le notizie circolate all’epoca, la

48 31 dicembre 2022 Business digitale

campagna acquisti sarebbe costata almeno 3,5 miliardi di euro, finanziata in buona parte a debito. In anni di tassi ai minimi storici e liquidità abbondante sul mercato, i progetti di Pignataro hanno convinto il mondo bancario ad allargare i cordoni della borsa. D’altronde i numeri di bilancio, gli ultimi disponibili, accreditano l’immagine di un gruppo che produce profitti in abbondanza. Nel 2020 i ricavi complessivi delle tre divisioni di Ion (markets, analytics e corporates) hanno superato quota 1,6 miliardi di euro, per oltre la metà realizzati negli Stati Uniti, il 35 per cento in Europa e il resto in Asia, con profitti complessivi per oltre 1,1 miliardi al lordo di interessi, ammortamenti e tasse (ebitda). Questo è quanto si legge nel prospetto informativo pubblicato nella primavera del 2021 in vista dell’Opa in Borsa su Cerved. Il documento dà conto anche dei debiti, che all’epoca superavano i 6,5 miliardi di euro. Una somma di certo rilevante, che però in passato gli analisti hanno sempre giudicato del tutto gestibile, visto che il patrimonio aziendale è rafforzato ogni anno da un abbondante flusso di utili. Inoltre, secondo quanto L’Espresso ha potuto verificare, l’anno scorso la Ion corporate investment di Dublino, una delle principali società del gruppo, ha raggiunto un accordo per rifinanziare debiti per circa 2 miliardi di euro. La scadenza dei prestiti è stata prorogata fino a marzo 2028 e il tasso d’interesse sui nuovi crediti, si legge

BORSA

Operatori al New York Stock Exchange, la Borsa di New York. Nell’altra pagina: Andrea Pignataro (a destra) con il finanziere irlandese Dermot Desmond

nelle carte ufficiali, «è inferiore a quello del precedente finanziamento».

Sul fronte industriale, invece, la migliore garanzia per la tenuta del gruppo, in aggiunta alla qualità del servizio offerto, sono i consolidati rapporti con i grandi clienti, anche perché, in molti casi, per una banca può rivelarsi molto complicato e costoso trovare un’alternativa ai software targati Ion. Forte di bilanci che grondano utili, Pignataro è così riuscito senza grandi difficoltà a gestire altre due acquisizioni di peso, questa volta in Italia, come Cedacri e Cerved, entrambe completate, come detto, nel corso del 2021. Per l’occasione, con il ruolo di finanziatore, si è schierato al suo fianco anche l’Unicredit guidato da Andrea Orcel, insieme ad alleati di lunga data come Deutsche Bank e Jp Morgan.

Non è finita qui, perché secondo indiscrezioni che circolano da mesi, il prossimo obiettivo di Ion sarebbe Prelios, una società che in questi ultimi anni ha allargato il suo raggio di azione aggiungendo alle attività immobiliariancheunbusinessingrandeespansione come la gestione di crediti incagliati, i cosiddetti Npl. Il fondo Davidson Kemper capital ha da tempo messo in vendita la quota di controllo di Prelios, che è presieduta da un banchiere di lungo corso come Fabrizio Palenzona. Finora, però, nessuna delle manifestazioni d’interesse ricevute si è mai trasformata in un’offerta vera e propria. Questa volta invece le trattative sarebbero già entrate nel vivo e secondo i rumors di mercato, Prelios potrebbe passare di mano per una somma di poco superiore al miliardo di euro. Nel frattempo, però, Pignataro ha colto al volo un’altra occasione per rafforzare la sua posizione sulla scacchiera della finanza nostrana e ha messo sul piatto 50 milioni di euro per partecipare all’aumento di capitale Monte dei Paschi di Siena, una sorta di ultima spiaggia per la banca controllata dallo Stato. Forte di una quota del 2 per cento del capitale, il patron di Ion è così entrato a far parte del gruppo ristretto di soci privati che hanno affiancato il ministero dell’Economia. In prospettiva le incognite non mancano. Serviranno anni per il rilancio dell’istituto, ma a Pignataro non fanno certo difetto tempo e denaro. E intanto il suo contributo all’ennesimo tentativo di salvataggio del Monte potrà essere ben speso anche al tavolo della politica.

31 dicembre 2022 49
Pagina Foto: M. M. Santiago/Getty Images
Prima

LA STAGIONE DEGLI SFRATTI

DI DILETTA BELLOTTI

Conoscevo persone obbedienti e le loro vite non erano migliori delle nostre. Continuavano ad arrabbiarsi, continuavano a perdere le loro case, continuavano ad andare in prigione, continuavano a morire per strada» (Hunter, 2019). La casa è uno strumento di irradiazione di molti diritti fondamentali: la sua garanzia rappresenta il mezzo per rendere gli altri diritti non solo effettivi, ma anche dotati di senso. I movimenti e i sindacati per il diritto all’abitare si muovono intorno a numerose rivendicazioni, tra le principali troviamo: l’utilizzo immediato degli alloggi e degli edifici pubblici inutilizzati; il blocco dell’esecuzione con la forza pubblica degli sfratti; la gestione del sovraffollamento negli

affittacamere; lo stop alla compenetrazione tra pubblico e privato, cioè la cessazione dello stanziamento di fondi pubblici ai privati che speculano e aumentano il valore di intere aree cittadine contribuendo così ai processi di gentrificazione. Per gentrificazione si intende il processo socioculturale che trasforma un’area urbana da proletaria a borghese a seguito dell’acquisto di immobili con conseguente rivalutazione sul mercato, costringendo così lo spostamento verso zone periferiche della città, e il conseguente cambio radicale delle condizioni di vita delle persone. In questo senso, le politiche abitative sono, quindi, chiamate a garantire non solo l’accesso a un alloggio dignitoso, ma anche il diritto a vivere in un contesto sostenibile, sotto il profilo ambientale e sociale. In questa cornice, gli sfratti sono la punta dell’iceberg di una sofferenza abitativa strutturale del nostro Paese che riguarda l’intero comparto dell’affitto e dei senza casa.

tosa. Nel 2005 la percentuale era il 3,3 per cento della popolazione residente in Italia; nel 2021 era il 9,4 per cento; nel 2022 5,6 milioni di persone, dunque il 10 per cento della popolazione. Nel 2022 gli sfratti eseguibili in Italia erano circa 150 mila, il 90 per cento eseguibili per morosità (Sole 24 Ore). Le convalide di sfratto sono attualmente 37 mila, numeri particolarmente alti anche perché si stanno eseguendo quelli accumulati con il blocco degli sfratti durante il periodo pandemico.

In Italia le famiglie in affitto sono circa il 20 per cento delle famiglie residenti, rappresentando circa il 45 per cento dei 5,6 milioni di persone in povertà assoluta, di queste 1,3 milioni sono minori. Povertà assoluta significa non potersi permettere le spese minime per condurre una vita digni-

A dicembre l’Unione Inquilini ha lanciato l’allarme rispetto alla decisione del governo di azzerare i fondi di contributo per l’affitto e la morosità incolpevole. La decisione di azzerare le dotazioni di bilancio, insieme all’assenza di misure strutturali contro l’emergenza abitativa, causerà un aumento drammatico degli sfratti e delle persone senza casa, in una situazione già estremamente precaria. Nonostante la natura non strutturale e le modalità di erogazione delle risorse, il contributo affitto e i fondi per la morosità incolpevole hanno costituito negli ultimi anni uno strumento utile per alleviare il disagio abitativo, impedendo o ritardando gli sfratti fino a consentire ai nuclei familiari in difficoltà di trovare un’altra sistemazione abitativa. In Italia, con i finanziamenti che venivano erogati, 600 mila famiglie beneficiavano di fondi di contributo per l’affit-

52 31 dicembre 2022 Diritto all’abitare

to, mentre 650 mila persone sono utilmente collocate in graduatoria: hanno cioè il diritto alle case popolari, ma le case non vengono loro assegnate. Per far un esempio della gravità della gestione di queste, si consideri che nel 2022 l’Unione Inquilini di Ladispoli è riuscita a ottenere un’assegnazione di casa popolare in emergenza, la prima assegnazione dal 1986.

Il 20 dicembre l’Assemblea di autodifesa dagli sfratti di Roma ha protestato davanti alla sede del dipartimento del Patrimonio e delle Politiche abitative con lo slogan «Basta persone senza casa, basta case senza persone», denunciando così i 7 milioni di case inutilizzate in Italia, ovvero il 25 per cento degli appartamenti in un Paese in cui 2,3 milioni di famiglie non possono permettersi un alloggio. Inoltre, denuncia l’Assemblea, sono quasi 50 mila gli alloggi di liste di edilizia residenziale pubblica non utilizzati perché non hanno ricevuto la giusta manutenzione dall’ente gestore.

Premio gentrificazione

A Bologna, dal 2014, le strutture extra-alberghiere sono triplicate. Al momento in città ci sono quasi quattromila

Airbnb. D(i)ritti alla città ha stimato che a Bologna ci sono 547 case vuote, di cui 183 pubbliche, con un totale del vuoto immobiliare di 1.079.902 metri quadrati, equivalente a più di quattro volte i Giardini Margherita (2021).

Premio sfratti

Nel 2021 a Pisa, c’è stato un aumento di più del 600 per cento di richieste di esecuzione e di più del 550 per cento di sfratti eseguiti con la forza pubblica. Solo nel 2022 ci sono stati oltre trecento sfratti. La comunità di quartiere di Sant’Ermete, dieci giorni fa, ha preso in gestione tre palazzine abbandonate, con sei alloggi l’una, e iniziato un processo di autorecupero dal basso. Sono case che il Comune di Pisa avrebbe dovuto demolire e ricostruire, le ha, invece, abbandonate. Dopo l’operazione di autorecupero la comunità chiede al Comune di assegnare le case alle famiglie in graduatoria.

Premio repressione

A novembre di quest’anno il tribunale di Milano ha emesso una sentenza contro nove membri del Comitato abitanti Giambellino Lorenteggio per «associazione a delinquere con finalità di occupazione e resistenza». L’accusa è quella di avere aiutato a occupare una serie di appartamenti vuoti di proprietà dell’Aler, cioè l’ente gestito dalla Regione che si occupa di buona parte dell’edilizia residenziale pubblica della città.

Nella complessità delle cause dell’erosione del diritto all’abitare si può additare con certezza il processo storico neoliberista in cui lo Stato si è sottratto al proprio ruolo pubblico di regolatore del mercato immobiliare e delle trasformazioni urbane, svendendo di fatto città intere, svuotandole e rendendole inabitabili. Ha fallito così nel garantire una vita dignitosa e, soprattutto, ha contribuito nel costruire una colpa sociale intorno alla povertà. Le realtà che lottano per il diritto all’abitare vogliono ristabilire la casa come diritto fondamentale, non solo come struttura che fornisce riparo, ma come luogo, fisico e non, che permette di localizzare le proprie memorie, svolgendo così un ruolo centrale nei processi di costruzione dell’identità.

31 dicembre 2022 53 Prima Pagina Foto:A. Ronchini / NurPhoto /Getty Images
SONO 7 MILIONI LE CASE INUTILIZZATE, PARI AL 25 PER CENTO DEGLI APPARTAMENTI. MENTRE 2,3 MILIONI DI FAMIGLIE IN ITALIA NON POSSONO PERMETTERSI UN ALLOGGIO
Protesta dei movimenti abitativi di Roma alla Centrale Montemartini

ROMANZO MATACENA Potere e

criminalità

Foto:A. Scattolon / Foto A3
54 31 dicembre 2022

DUE MORTI SOSPETTE. E POI TESTAMENTI CONTESTATI, GRAVIDANZE MISTERIOSE, LITI FAMILIARI. LA SCOMPARSA DELL’EX POLITICO

DI FORZA ITALIA CONDANNATO PER CONCORSO IN MAFIA FINISCE NEL MIRINO DEI MAGISTRATI

DI GIANFRANCESCO TURANO

Amedeo Gennaro Raniero Matacena, armatore e politico, è morto a Dubai il 16 settembre 2022 poche ore dopo avere festeggiato il suo cinquantanovesimo compleanno insieme all’ultima compagna, Maria Pia Tropepi, 41 anni, nata anche lei il 15 settembre e sposata con Amedeo secondo notizie apparse lo scorso agosto.

Al momento della morte, improvvisa e imprevista, Matacena era latitante da nove anni e tre mesi. A giugno del 2023 avrebbe ritrovato la libertà perché la sua condanna definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa, allo scadere dei dieci anni, sarebbe diventata inesigibile, dunque annullata. Inoltre aveva recuperato da qualche settimana il suo patrimonio visibile, custodito nella holding italiana Amadeus e dissequestrato dal tribunale. A questo si aggiungeva la sua quota di eredità della madre, Raffaella De Carolis, morta anche lei a Dubai il 18 giugno 2022 poco dopo essersi trasferita negli Emirati con il figlio.

Anche la signora De Carolis era stata coinvolta nell’indagine sulla fuga all’estero di Amedeo junior che nel 2014 ha portato in carcere l’ex nuora Chiara Rizzo e, con grande clamore mediatico, l’ex ministro forzista Claudio Scajola, oggi sindaco di Imperia, tuttora sotto processo d’appello a Reggio Calabria per l’inchiesta Breakfast aperta dal pubblico ministero Giuseppe Lombardo.

La procura di Reggio, secondo quanto risulta a L’Espresso, ha chiesto al ministero della Giustizia di indagare sulle morti di Matacena e della madre che considera sospette. Il fascicolo è stato affidato a Sara Parezzan che ha anche sequestrato uno

Nell’altra pagina: Amedeo Matacena. Morto a Dubai il 16 settembre 2022, nel giugno 2023 sarebbe tornato libero dopo una latitanza decennale

dei testamenti della madre di Amedeo. Per quanto macabro possa suonare, la salma di un latitante appartiene allo Stato e allo Stato deve essere restituita per eventuali accertamenti medico-legali. La competenza territoriale spetta alla Procura di Roma salvo che Reggio riesca a dimostrare di avere buoni motivi per occuparsi dei fatti. I buoni motivi sono collegati a un altro importante processo, ’Ndrangheta stragista, dove alcuni collaboratori di giustizia come Pino Liuzzo hanno evidenziato il ruolo di Matacena come ufficiale di collegamento fra la politica e le cosche, ancora prima che Marcello Dell’Utri lo nominasse coordinatore regionale della Calabria per Forza Italia. L’intervento della magistratura e dei familiari ha bloccato la cremazione dei due corpi che, secondo la vedova Maria Pia Tropepi detta Mapi, era nella volontà di suocera e marito. Per l’esattezza, la cremazione di Raffaella De Carolis è stata fermata dal suo secondogenito Elio, che vive a Roma e controlla due immobiliari a Miami (Ghope e Mhope). La cremazione di Amedeo è stata fermata, oltre che dalla Procura reggina, dai due figli dell’ex politico azzurro. Il primo, avuto dalla presentatrice tv Alessandra Canale, si chiama Amedeo come il padre e il nonno, e lavora come investment analyst a Invitalia. Il secondo, 23 anni, vive a Montecarlo ed è figlio di Chiara Rizzo, appena uscita dal processo Breakfast con la rinuncia all’appello della Procura generale.

I due fratelli non hanno rapporti per la differenza di età ma c’è un tentativo di coordinare la strate-

Gianfrancesco Turano Giornalista
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gia sulla morte del padre fra il legale di Athos, Bonaventura Candido, e quello di Amedeo, Francesco Cicciola, molto attivo negli Emirati e socio di Paolo Costantini, il capo antenna dei servizi dell’Aise negli Eau al tempo dell’arresto di Matacena. Cicciola e Costantini, che ha parlato di protezioni ad alto livello statale per il latitante Matacena, non hanno commentato con L’Espresso.

Ma c’è la voglia di andare fino in fondo. Athos ha anche avanzato sospetti sull’ultima compagna del padre che ha replicato accusandolo di scarso amore filiale. Eppure è stata lei, il 16 settembre, ad avvertire Athos Matacena della morte del padre attraverso messaggi scritti e vocali. Poco dopo della neosignora Matacena si perdeva ogni traccia, inclusi i profili social, tutti chiusi nel giro di poche ore. Aveva dichiarato di essere incinta di due gemelli ma anche i suoi legali ne dubitano, a cominciare da Renato Vigna del foro di Palmi, noto alle cronache per avere patrocinato il Grande Oriente d’Italia, di cui è membro con il ruolo di giudice della corte centrale, nella causa per diffamazione contro il magistrato in pensione Agostino Cordova, autore di una storica indagine sulla massoneria negli anni Novanta.

«La signora Tropepi non è più mia cliente», dice Vigna a sorpresa. «Difendevo Amedeo che conoscevo da quando era consigliere comunale a Reggio, e stavo seguendo il suo ricorso contro la condanna per mafia alla Corte europea, sulle basi della giurisprudenza creata dal caso di Bruno Contrada. Amedeo mi ha chiesto di fare i salti mortali per ottenere il divorzio di Tropepi in Italia e risposarsi a Dubai. La gravidanza dovrebbe essere arrivata a buon fine perché era prevista a novembre. Lo spero o sarebbe stata tradita la mia fiducia».

La questione gravidanza resta poco chiara. L’Espresso ha potuto parlare con Stefania Franchini, avvocato italiano con base negli Emirati da quasi trent’anni che ha preso come cliente Tropepi e che in Italia è nota per l’affare dell’imprenditore Massimo Sacco, condannato per droga a 27 anni da una corte emiratina e graziato tre anni fa per intervento di Franchini. «La mia cliente non rilascia dichiarazioni», dice Franchini sull’affare Matacena.

PROCESSO

Claudio Scajola. L’ex ministro dell’Interno è sotto processo a Reggio Calabria per l’inchiesta Breakfast aperta dal pubblico ministero Giuseppe Lombardo (a destra)

Franchini è stata citata da Francesco Pazienza, custode di molti misteri d’Italia, come colei che ha aiutato l’allora senatore forzista reggino e avvocato, Nico D’Ascola, a scrivere i trattati bilaterali con gli Eau che avrebbero salvato Matacena dall’estradizione. Per queste frasi D’Ascola ha citato in giudizio Pazienza per diffamazione. La prima udienza è prevista a Firenze il 21 febbraio del 2023.

Insieme a Franchini lavorano per Tropepi due colleghi dall’Italia. Sono Carlo Zaccagnini e Alessandro Gamberini, noto per la difesa di parte civile nel processo sui crimini della Uno Bianca e per il patrocinio di Carola Rackete.

Tropepi, pur nata a Lamezia e a lungo residente a Sinopoli, un paesino della piana di Gioia Tauro commissariato per infiltrazioni del crimine organizzato con decreto dello scorso giugno, si dice discendente dei conti francesi Le Couteulx e laureata in medicina alla Federico II di Napoli. Ciò non toglie che, secondo quanto risulta all’Espresso, abbia processi penali pendenti a Reggio legati alle sue avventure nella dietologia con la dieta del sondino elaborata dal medico campano Vincenzo Siano.

Potere e criminalità
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Ma il dottor Siano non ha risposto alle richieste di chiarimenti dell’Espresso e alla Federico II il nome Tropepi è ignoto. Sull’argomento l’avvocato Franchini taglia corto: «Non so se è laureata. Non ho il dovere di controllare i titoli di studio dei miei clienti».

Di certo, il legale italiano con base nello studio Tlg di Abu Dhabi è un’esperta, fra l’altro, di diritto della famiglia secondo la shari’a tanto da scriverne, cinque anni fa, sulla rivista Abu Dhabi Week in un articolo dal titolo “Family laws: know your rights”.

In sintesi, la legge emiratina non consente il concubinaggio soprattutto in casi di persone note come Amedeo e Mapi. La coppia aveva esibito la sua relazione con un lungo articolo su Adnkronos che, a ben guardare, è stato firmato non da un giornalista ma da una società di pr, la TiLinko di Img solutions srl.

Dopo l’approvazione della legge 14 del 2021 il matrimonio nel Paese del Golfo è consentito anche a chi non si converte all’Islam, mentre prima i non musulmani potevano sposarsi solo in ambasciata o al consolato secondo la legge dello Stato di provenienza. Gli Emirati hanno anche introdotto un tribunale della famiglia per

non musulmani. Ma fra i requisiti necessari per sposarsi c’è un documento che provi l’inesistenza di matrimoni precedenti.

Un documento dell’anagrafe italiana consultato dall’Espresso e datato 20 settembre 2022, quindi quattro giorni dopo la morte di Matacena, mostra che l’ex politico ha divorziato da Chiara Rizzo, risposatasi nel frattempo, nel novembre 2019. Tropepi invece risulta ancora sposata. E se negli Eau non si scherza sul concubinaggio, ancor meno è gradita la bigamia soprattutto per un’imprenditrice che è tuttora attiva attraverso un centro di estetiste che si chiama Gada e una clinica che si chiama Centermed.

Il matrimonio a Dubai è una complicazione in più dei rapporti all’interno della famiglia Matacena, storicamente segnati da liti e parziali riconciliazioni. La prima rottura traumatica avvenne tra Amedeo Matacena senior, padre di Amedeo Gennaro Raniero e monopolista per decenni dei collegamenti navali sullo Stretto con la Caronte, e il fratello minore Elio. La

quota societaria di Amedeo fu liquidata nel 1998 con 120 miliardi di lire, in larga parte cash.

Elio junior, che porta il nome dello zio, era in pessimi rapporti con il fratello fuggitivo. «Non avevo contatti con Amedeo da cinque o sei anni», dichiara. «Non conosco la vedova, se vogliamo chiamarla così, ma ho incontrato Vigna che al tempo era un fervido sostenitore del trasferimento a Dubai di tutti i soldi di mia madre».

Secondo i legali vicini alla vicenda Matacena, non era rimasto molto nel conto presso la Compagnie monégasque de banque di Montecarlo. I 40 miliardi accreditati dal marito Amedeo senior a fine 2000, diventano circa 10 milioni di euro e nel 2004, un anno dopo la morte dell’armatore, passano ai figli. Nel suo ultimo viag-

Foto: Serranò / Agf
NEL PROSSIMO GIUGNO L’EX DEPUTATO SAREBBE STATO LIBERO DI TORNARE IN ITALIA. E FORSE QUALCUNO TEMEVA CHE PARLASSE DI CASI SCOTTANTI. COME NEL 2015 CON TELEKOM SERBIA 31 dicembre 2022 57 Prima Pagina

gio a Dubai Raffaella De Carolis ha trasferito circa 2 milioni di euro. Ma è praticamente impossibile quantificare la ricchezza effettiva dei Matacena, accumulata in decenni di attività armatoriali legittimamente insediate all’estero, fra Panama e i paradisi offshore dei Caraibi. Oltre ai soldi c’erano gioielli, immobili e dalla casa reggina della signora Matacena, svaligiata dopo la sua morte, sarebbero scomparsi quadri da museo (Utrillo, De Chirico) durante un blitz in luglio, quando Amedeo era ancora vivo. Anche su questo è in corso un’indagine.

Un’altra circostanza mostra le tensioni in famiglia. Dai manifesti funebri apparsi sui muri di Reggio e datati 19 settembre Dubai è stato cancellato a pennarello, uno per uno, il nome del figlio Athos su ordine della madre Chiara. Nella lista dei condolenti sono rimasti la moglie Mapi e gli amici. Quali amici è difficile dire. Amedeo aveva rotto con molti di loro così come aveva esonerato la maggior parte degli avvocati che lo seguivano da anni. Fra gli ex amici si conta il latitante brindisino Antonio Epifani che aveva lavorato con Matacena nel noleggio yacht della Dream Tours dopo la sua scarcerazione

Potere e criminalità

dalla prigione per stranieri di Dubai nell’autunno 2013.

Inoltre Amedeo non aveva smesso di litigare con l’ex moglie Chiara perché riteneva che lei si fosse appropriata di cose sue. «C’erano stati contatti», dice nel suo studio di Messina l’avvocato Bonaventura Candido, «per appianare questo dissidio dopo una serie di messaggi piuttosto pesanti di Amedeo. Ma nell’Amadeus c’era poco o nulla e l’appartamento di Miami è di Chiara e di Athos». Anche la motonave Athos Matacena, ormeggiata al porto di Reggio per anni, è stata appena venduta come rottame per 1,2 milioni di euro.

La linea ereditaria è complicata dalle volontà dei morti. Gli eredi di Raffaella De Carolis sono i figli Amedeo ed Elio ma esistono due testamenti della signora. Morto Amedeo, gli eredi sono i figli Amedeo e Athos, più la moglie Mapi che è anche esecutore testamentario del marito.

Sull’ammontare del patrimonio tutti i legali concordano: tanti debiti. Ma ci sono

IL MATRIMONIO A DUBAI CON L’ULTIMA MOGLIE È UN GIALLO NEL GIALLO. NON È CHIARO SE LA SIGNORA, CHE NON RILASCIA DICHIARAZIONI ALLA STAMPA, FOSSE DIVORZIATA

Una nave traghetto nel porto di Villa San Giovanni. I trasporti nello stretto di Messina sono stati per decenni il business della famiglia Matacena

troppe persone intorno all’alveare perché l’alveare sia vuoto.

E poi c’è un’altra pista, più inquietante. La sintetizza Corrado Politi, per anni difensore di Amedeo prima di una recente rottura. «Magari Amedeo voleva rientrare in Italia per parlare. Non da pentito perché a giugno sarebbe stato libero ma per una collaborazione di tipo dichiarativo. Forse qualcuno lo ha voluto bloccare».

Dagli archivi riemerge una frase di Matacena del marzo 2015. «Se succedesse qualcosa a me o ai miei familiari, verrebbero consegnati e pubblicati in Italia i numeri dei conti correnti svizzeri sui quali sono stati depositati soldi delle tangenti Telekom Serbia». Tangenti o mafia, Matacena era l’uomo che sapeva troppo.

Foto:F. Serranò / Agf
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CORROMPO PATTEGGIO RICOMINCIO

PAGANO RISARCIMENTI RECORD PER EVITARE I PROCESSI. MA PER LE MULTINAZIONALI SONO COSTI AZIENDALI

COME MOSTRANO I CASI DI RECIDIVA. DA NOVARTIS A DEUTSCHE BANK FINO A ENI

DI PAOLO BIONDANI E LEO SISTI

IL CONSORZIO

Questa inchiesta è frutto del lavoro collettivo dei giornalisti de L'Espresso con l’International Consortium of Investigative Journalists (Icij) e altre testate internazionali, in particolare con Sydney Freedberg, K. Kehoe, A. Armendariz, Frederik Obermaier, Karlijn Kuijpers, James Oliver

a multinazionale svizzera Novartis produce farmaci fondamentali per le cure contro il cancro e molti altri preziosi medicinali e dispositivi sanitari, che ne fanno una delle aziende più redditizie del mondo. La banca americana Jp Morgan è una delle più ricche del pianeta, con un patrimonio di oltre 2.600 miliardi di dollari. L’Eni, controllata dallo Stato italiano, è una delle sette maggiori compagnie petrolifere a livello globale e nei primi nove mesi del 2022, con l’impennata dei prezzi del gas, ha quintuplicato gli utili. Anche la tedesca Deutsche Bank è tornata a registrare profitti miliardari per il nono trimestre consecutivo, dopo anni di crisi e perdite.

Novartis,JpMorgan,EnieDeutscheBank

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L

hanno in comune un’altra peculiarità, oltre al potere economico e ai profitti record. Sono state tutte coinvolte in casi di corruzione internazionale o in altri scandali finanziari. Negli ultimi dodici anni, ognuna di queste società ha dovuto affrontare delicati procedimenti giudiziari, chiusi con patteggiamenti che hanno comportato il pagamento di somme molto consistenti, con l’impegno scritto di non commettere mai più altri reati. Eppure, nonostante questi accordi legali, sono finite di nuovo sotto accusa e hanno patteggiato ancora una volta, in particolare negli Stati Uniti. Dal 2010 ad oggi, Jp Morgan ha scelto di pagare e risarcire le autorità per cinque volte, Novartis e Deutsche Bank in quattro casi, l’Eni in tre.

Il patteggiamento è uno strumento legale per chiudere i processi penali, con un accordo tra accusa e difesa, che è nato negli Stati Uniti e negli ultimi decenni si è diffuso in tutto il mondo. Oggi questo modello di giustizia contrattata riguarda molti dei più importanti procedimenti che coinvolgono grandi aziende, anche in Italia. La possibilità di evitare i processi attraverso i patteggiamenti è stata spesso criticata da giuristi, accademici, magistrati e politici di molte nazioni, ma è ormai diventata una tendenza globale. Questo articolo è il frutto di un’inchiesta giornalistica internazionale che, per la prima volta, quantifica il numero e il valore dei patteggiamenti approvati negli ultimi vent’anni in trenta nazioni diverse, dall’America all’Europa, ed evidenzia i casi più gravi di recidiva aziendale: giganti dell’economia che, dopo aver pagato forti sanzioni per accuse pesanti, tornano a commettere illeciti. E patteggiano di nuovo, per una o più volte, anche nel giro di pochi anni.

I documenti raccolti dalI’International consortium of investigative journalists (Icij), di cui fa parte L’Espresso in esclusiva per l’Italia, confermano la rilevanza e la diffusione globale dei patteggiamenti. In questi vent’anni, almeno 265 grandi aziende hanno evitato i processi, nelle trenta

Paolo Biondani Giornalista Leo Sisti Giornalista
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La statua della Giustizia nel cortile del tribunale di Milano Foto: Fotogramma

nazioni considerate, versando alle autorità un totale di oltre 34 miliardi e 900 milioni di dollari, tra multe e rimborsi di vario tipo. Il valore di questi accordi giudiziari è in costante aumento. Nel 2000, il prezzo più alto pagato da una singola società per evitare un processo era stato di 844 mila dollari, nel 2020 è salito a due miliardi e mezzo. I dati rilanciano anche l’allarme sui casi di recidiva: 34 multinazionali, 21 delle quali inserite nella classifica delle 500 società più grandi del mondo, hanno patteggiato per almeno due volte. Dopo aver pagato sanzioni per sfuggire ad accuse di corruzione, frode o evasione fiscale, hanno violato di nuovo la legge, spesso pochi anni dopo. E hanno potuto patteggiare ancora.

«La proliferazione globale dei patteggiamenti aziendali sul modello americano è allarmante», ha dichiarato al Consorzio Peter Reilly, professore di diritto alla Texas A&M University: «Patteggiare è come pagare una multa per eccesso di velocità: si versa una somma e poi si riparte. Lo Stato di diritto ne risulta compromesso, la giustizia è minacciata, la democrazia viene indebolita».

Peter Solmssen, un avvocato che ha contribuito a scrivere le linee guida internazionali per i patteggiamenti, spiega che «l’applicazione della legge “vecchio stile” non funziona più». Una questione critica è che le sentenze normali sono pubbliche e vanno motivate, mentre le trattative sui patteggiamenti si svolgono a porte chiuse e in molti casi restano segrete. Uno dei magistrati più famosi degli Stati Uniti, Lewis Kaplan, per anni giudice a New York, ha confessato di essere preoccupato dalla diffusione dei patteggiamenti, avvertendo che gli stessi tribunali americani hanno un’autorità limitata per contestarli: «In pratica sono obbligato a ingoiare la pillola, che mi piaccia o no».

Il fenomeno della globalizzazione dei patteggiamenti ha avuto un punto di svolta nel 2008. Quell’anno le autorità della Germania e degli Stati Uniti accusano la Siemens, il gigante tedesco dell’elettronica, ingegneria e impianti energetici, di aver utilizzato fondi neri e società di comodo per pagare tangenti enormi, per un totale di 1 miliardo e 400 milioni di dollari, per aggiudicarsi contratti in tutto il mondo. Per chiudere i processi, la casa madre Siemens e le sue filiali in Bangladesh, Argentina e Venezuela hanno versato 800 milioni di dollari agli Stati Uniti e

FARMACI

Un dipendente di Novartis AG guarda uno schermo in un laboratorio di ricerca presso il campus Novartis Institutes for Biomedical research (Nibr) di Shanghai, Cina

JP MORGAN HA PAGATO 3,4 MILIARDI DI DOLLARI PER AVER MANIPOLATO IL MERCATO DEI FUTURES, UN CINQUANTESIMO DEI PROFITTI REALIZZATI TRA IL 2015 E IL 2020

altri 813 milioni alla Germania. Il gruppo ha inoltre accettato di pagare 421 milioni di dollari ad altri quattro Paesi danneggiati dalla corruzione, Italia, Svizzera, Nigeria e Grecia, e 100 milioni alla Banca Mondiale. Con quegli accordi legali, la Siemens si è impegnata a non violare più la legge, in nessun Paese del mondo.

Questa inchiesta giornalistica nasce dal caso Ericsson. Pochi anni fa, la multinazionale svedese delle telecomunicazioni era stata incriminata dalle autorità americane per aver pagato tangenti in almeno sei nazioni. L’inchiesta ha spinto la Ericsson a negoziare un costoso patteggiamento: nel 2019 ha versato un miliardo di dollari per chiudere il procedimento americano, impegnandosi a denunciare tutte le sue corruzioni nel mondo. Nel febbraio 2022, però, il

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consorzio Icij ha pubblicato, assieme a L’Espresso, una serie di documenti aziendali, fino ad allora rimasti segreti. Le carte mostrano che nel 2019, proprio mentre patteggiava, il gruppo Ericsson aveva in corso un’indagine interna su tangenti per decine di milioni pagate in Iraq, che risultavano versate anche a tesorieri e perfino a combattenti dello Stato Islamico. Pochi giorni dopo quell’articolo, le autorità americane hanno accusato la multinazionale svedese di aver violato l’accordo di patteggiamento, precisando che si trattava della seconda infrazione accertata in meno di sei mesi.

Il problema della recidiva riguarda molte altre aziende di livello mondiale. Nel dicembre 2022, ad esempio, la multinazionale svizzera Abb ha patteggiato, per evitare una serie di processi con l’accusa di aver pagato tangenti per costruire una centrale elettrica in Sudafrica. Quell’accordo giudiziario da 327 milioni di dollari, concluso con le autorità statunitensi, svizzere e sudafricane, fa della società di Zurigo la prima azienda straniera accusata per tre volte di aver violato le norme americane contro la corruzione internazionale. Norme severe, approvate negli anni ’70 sull’onda dello storico scandalo Lockheed, che coinvolse anche l’Italia.

Nel gennaio 2021, un altro colosso aeronautico americano, la Boeing, ha stabilito l’attuale record mondiale dei patteggiamenti. Al centro delle indagini, due incidenti aerei che hanno coinvolto i modelli 737 Max, nel 2018 e 2019, con un bilancio di 346 vittime. Come mai sono precipitati in picchiata? Gli investigatori federali americani hanno concluso che la Boeing aveva tenuto nascosti gravi difetti di progettazione. Per evitare il processo, la multinazionale americana ha risarcito 2,5 miliardi di dollari. Le famiglie delle vittime hanno ricevuto 500 milioni, ma hanno contestato l’accordo, chiedendo che sia annullato e i manager della Boeing vengano processati.

A infiammare le critiche è anche la potenza economica di molte società che fanno parte di una sorta di club dei recividi: è il caso di Jp Morgan, che negli ultimi otto anni ha patteggiato per quattro volte, negli Stati Uniti, per quattro diversi scandali finanziari. L’ultimo accordo è del 2020: il colosso finanziario ha ammesso di aver manipolato i mercati dei futures, come già aveva fatto cinque anni prima. In totale, Jp Morgan ha pagato più di 3 miliardi e 400 milioni di dollari per evitare i processi. A conti fatti, però, quella cifra corrisponde a meno di un cinquantesimo dei profitti realizzati dalla banca americana nello stesso periodo.

Tra le società europee, la medaglia d’oro dei recidivi spetta alla Deutsche Bank. La banca tedesca è stata incriminata dalle autorità americane per aver ingannato i risparmiatori offrendo prodotti finanziari ad alto rischio, poi annientati dalla crisi del 2007-2008. Quindi si è vista accusare di aver aiutato migliaia di ricchi clienti a evadere le tasse fino al 2010. Poi di aver manipolato i tassi d’interesse fino al 2015. In tempi recenti, la Deutsche Bank ha deciso di pagare 150 milioni di dollari, per sfuggire all’accusa di non aver monitorato i rapporti finanziari di Jeffrey Epstein, il miliardario condannato per abusi sessuali, poi morto suicida. E nel 2021 la banca tedesca ha versato altri 130 milioni di dollari, questa volta per evitare un processo con l’accusa di non aver denunciato un giro di tangenti per vincere contratti in Arabia Saudita.

Le autorità americane hanno accusato pubblicamente anche una società italiana di aver violato ripetutamente le norme anticorruzione: «L’Eni è recidiva», ha scrit-

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GAS

La piattaforma offshore PCW-C di Eni Gas, vicino alla spiaggia di Dante, sulla costa adriatica italiana

to la Sec, la commissione americana di controllo delle società quotate in Borsa, in un comunicato del 2020. Quell’anno il colosso italiano dell’energia, senza ammettere di aver commesso illeciti, ha versato 24 milioni e mezzo di dollari agli Stati Uniti, per chiudere un procedimento su presunte tangenti pagate in Algeria. Con questo accordo, l’Eni si è impegnata a non violare le norme contro la corruzione internazionale, le stesse che aveva promesso di non trasgredire dieci anni prima. Quando aveva siglato il suo primo patteggiamento americano. Il caso riguardava un maxi-impianto di estrazione di gas a Bonny Island, in Nigeria, aggiudicato a una cordata di tre società occidentali, tra cui la Snamprogetti del gruppo Eni. Accusata con le altre multinazionali di aver corrotto ministri e generali africani con oltre un miliardo, la società italiana ha chiuso il caso, nel 2010, versando 365 milioni di dollari alle autorità americane. Proprio quel precedente ha spinto la Sec a parlare di recidiva, nel 2020, quando il gruppo Eni ha concordato il secondo risarcimento, questa volta per gli affari in Algeria di un’altra società controllata, la Saipem. In Italia, per le stesse accuse, tutti i manager della Saipem sono stati

assolti in appello, per cui l’Eni non ha dovuto risarcire nulla.

Nel 2021, però, l’azienda statale ha siglato un patteggiamento con la Procura di Milano, che l’accusava di aver pagato tangenti nella Repubblica del Congo. Con la sentenza finale, l’accusa di corruzione è stata derubricata in un reato meno grave, «concussione per induzione». A quel punto l’Eni ha accettato di pagare una multa di 826 mila euro e di farsi confiscare altri 11 milioni come «profitti illeciti».

I giornalisti del Consorzio hanno inviato domande dettagliate a tutte le società menzionate in questo articolo, compresa l’Eni, che ha risposto con una nota scritta. Il gruppo italiano ha potuto così chiarire che il caso del 2010 in Nigeria riguardava «un’ex controllata», la Snamprogetti, una società che oggi non esiste più. Ha sottolineato che «l’Eni non ha mai fatto alcuna ammissione di corruzioni in Algeria» e che i processi italiani per le stesse accuse si sono conclusi con assoluzioni piene. Mentre in Congo «l’Eni ha patteggiato solo per un’accusa minore, non di corruzione», versando «un importo relativo e nominale».

I casi più preoccupanti di recidiva, secondo i dati raccolti con questa inchiesta, riguardano i colossi sanitari: ben dieci tra i maggiori produttori mondiali di farmaci e dispositivi medici (dalle protesi alle valvole cardiache) hanno patteggiato almeno due volte. La Novartis è ormai al quarto patteggiamento per corruzione. Nel 2010 aveva pagato oltre 422 milioni di dollari alle autorità americane per due accuse collegate: commercio di farmaci non regolari; tangenti a medici e operatori sanitari per prescriverli ai pazienti. Nel 2015 il colosso svizzero ha versato altri 390 milioni «per aver continuato, nonostante le sanzioni precedenti, a finanziare convegni e conferenze che erano solo strumenti per pagare mazzette». Poi ha siglato un ulteriore accordo, impegnandosi a bandire le tangenti e sottoporsi a «controlli d’integrità». Nel 2020 però ha patteggiato ancora una volta, pagando 591 milioni di dollari, per annullare l’ennesima accusa di aver corrotto medici per vendere più farmaci. Anche con l’ultimo accordo, i manager della Novartis si sono impegnati a dare un taglio netto con i metodi del passato.

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uasi sempre la politica è fatta di presenza. In rari casi, invece, è fatta di assenza. Succede, in questi rari casi, che a dettare l’agenda, ad attirare l’attenzione, i timori e le speranze delle persone, dei social e dei giornali siano persone che in teoria non sono neppure candidate. Eppure sono quelle persone, assenti, di cui tutti parlano, che tutti cercano e che tutti vogliono. Una cosa del genere sta succedendo, in queste ultime settimane, negli Stati Uniti. Lì, in quella specie di campagna elettorale permanente che è la politica americana, si parla già delle presidenziali 2024. E soprattutto si parla di Ron DeSantis, governatore della Florida, rieletto in carrozza con un vantaggio di 20 punti in uno Stato in cui, in genere, le elezioni si decidono per un pugno di voti.

Al momento DeSantis non è candidato alla presidenza, né ha parlato esplicitamente di volerlo fare (anche se a febbraio

66 31 dicembre 2022 Corsa alla Casa Bianca
DI LUCIANA GROSSO
Q RON DESANTIS È LA PROMESSA REPUBBLICANA. MA DEVE BATTERE TRUMP E POI FARSI APPOGGIARE. STORIA DI UN LEADER SU CUI INCOMBE UNA PRESENZA INGOMBRANTE L’OMBRA DELL’ASTRO NASCENTE

uscirà un suo libro, cosa che, in genere, è prodromica al lancio di una campagna elettorale). Eppure il suo è il nome che tutti guardano e sul quale in molti scommettono come possibile vincitore della prossima corsa presidenziale.

In realtà da qui al novembre 2024, quando si voterà per il presidente, mancano circa 700 giorni e nessun sondaggio è in grado di dire cosa e come succederà, sia perché nessuno è davvero in grado di fare previsioni di così lungo periodo sia perché troppe sono le incognite che ci separano da quella scadenza.

La più corposa di tutte, ovviamente, è cosa farà Joe Biden. Il presidente ha detto che annuncerà entro gennaio se correrà o meno per un secondo mandato. Quando questa decisione arriverà, i primi tratti della prossima campagna elettorale inizieranno a prendere forma, perché una cosa è sfidare un candidato fisiologicamente favorito perché uscente, anche se molto anziano (nel 2024 Biden avrà 82 anni) e un’altra

è sfidare un candidato nuovo e privo di un’esperienza di governo come quella della Casa Bianca.

La seconda incognita da sciogliere, invece, riguarda Donald Trump. L’ex presidente, benché abbia sempre raccolto risultati pessimi alle elezioni (sotto la sua guida il Partito Repubblicano ha perso tutte le elezioni per le quali ha corso e solo per il complicato gioco di alchimie del sistema elettorale americano ha vinto quella del 2016) è, di fatto, il moloch e il protagonista assoluto della politica Usa da ormai quasi dieci anni. Dal 2015, nello scenario politico americano, non si parla d’altro che di Trump, l’uomo che vince anche quando perde, l’uomo che è stato guida di un sistema che vuole esplicitamente distruggere. E soprattutto l’uomo che è riuscito, nello stesso tempo, a distruggere il Partito Repubblicano (un gruppo politico con una storia lunghissima e persino gloriosa) e a impossessarsene, controllando in modo completo la sua base. Oggi Trump, che pure ha indici di approvazione bassissimi (piace solo al 31 per cento degli elettori) è ufficialmente candidato alle primarie del Partito Repubblicano e, dunque, se dovesse vincerle, alla presidenza.

In questo scenario si inserisce la figura di DeSantis.

DeSantis, che il New York Times recentemente ha definito «la supernova repubblicana» è di fatto una specie di Trump senza Trump. Come Trump è estremamente conservatore sia nei temi economici sia (ed è la cosa che elettoralmente paga di più, perché, a differenza dell’economia, è una cosa che tutti comprendono e sulla quale tutti si sentono in diritto di avere un’opinione) sui temi culturali. Come Trump strizza l’occhio ai complottisti no vax (è di pochi giorni fa la notizia che abbia lanciato una commissione di inchiesta sui presunti crimini commessi da Pfizer e da altre compagnie farmaceutiche durante la campagna vaccinale); come Trump applica politiche anti immigrazione talmente dure da sfociare nel cinismo; come Trump ha dichiarato un’esplicita guerra a tutto quello che considera «woke», ossia il grande cappello sotto il quale potremmo far stare tutto quello che viene considerato politicamente corretto, dal linguaggio inclusivo, al riconoscimento del razzismo sistemico. «Florida is where woke is going to die», è uno degli slogan preferiti di DeSantis. Eppure, anche se la lotta al «woke» è considerata uno dei cavalli di battaglia dell’estrema destra di questi anni e anche se Trump ne è stato (e per certi aspetti ne è ancora) l’aedo, DeSantis ha dalla sua una serie di carte che Trump non ha e che, dunque, lo rendono più forte ed elettoralmente spendibile dell’ex presidente. La principale di queste carte è che DeSantis, semplicemente, non è Trump. Dice le stesse cose di Trump, tocca gli stessi tasti che tocca Trump, vellica gli stessi istinti di sopravvivenza della classe anziana, bianca e poco istruita che vellica Trump, ma non è Trump. Il fatto che non sia Trump significa che DeSantis non si trascina dietro le mille questioni legali dell’ex presidente (su tutte quella per il suo ipotetico coinvolgimento nell’assalto al Campidoglio), oppure non

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Ron DeSantis con la moglie Casey e i tre figli saluta la folla durante una festa elettorale in Florida Luciana Grosso Giornalista

Pagina Corsa alla Casa Bianca

porta in dote la divisività di Trump, indigesto anche a buona parte dell’elettorato tradizionalmente repubblicano che, infatti, da quando c’è Trump ha smesso di votare o si è turato il naso e ha votato Biden; oppure ancora, dal momento che a differenza di Trump non è pluridivorziato ma vive all’interno di una famiglia estremamente tradizionale, può offrire alla destra religiosa un modello di vita coerente con quello che dice e professa, senza dover fare appello a nessun errore di gioventù.

Ma non è tutto.

I vantaggi elettorali del non essere Trump, per DeSantis, non si limitano a questioni personali. Ma anche politiche.

Per esempio DeSantis ha saputo giocare molto bene al gatto col topo rispetto al complotto della «Big lie», ossia rispetto alla convinzione di Trump e dei suoi più fedeli che le elezioni del 2020 siano state rubate da Biden. Non è vero, ovvio, ma quella bugia (bizzarro che il nome «Big Lie» valga sia per quello che si vuole denunciare sia per quello che, in sostanza, si perpetra) è da due anni il chiodo fisso della parte più destrorsa del Paese. Rispetto a questa palese bugia, inventata solo per lenire l’ego acciaccato dello sconfitto Trump, DeSantis si è mosso con accorta ambiguità: non l’ha espressamente sposata, ma non l’ha nemmeno negata. Anzi, le ha lisciato il pelo. Lo ha fatto sia facendo approvare una nuova legge elettorale che istituisce un ufficio apposito contro i «crimini elettorali» e che dunque, per il solo fatto di esistere, instilla il sospetto che negli Stati in cui questo ufficio non c’è, con le ele-

tre che di trent’anni più giovane), e nonostante i primi sondaggi lo diano vincente alle primarie contro Trump e pari alle presidenziali contro Biden, ancora non si sa né se DeSantis si candiderà davvero né se davvero la sua campagna potrà andare bene come sperano i suoi sostenitori.

Sul fatto che si candidi davvero pesano due incognite: la prima è che per farlo dovrebbe prima dimettersi da governatore. E questo, per un politico «tutto d’un pezzo», come lui dice di essere, potrebbe essere un boomerang, perché l’elettorato che lo sostiene e che è stato conquistato dalla sua dedizione alla causa della Florida potrebbe sentirsi tradito, deluso dal suo abbandonare lo Stato che dice di amare più di ogni cosa per inseguire la Casa Bianca. La seconda incognita è DeSantis stesso, che per quanto sia andato benissimo in Florida, non ha esperienza di campagne nazionali.

zioni si possa fare un po’ quel che si vuole, e sia sostenendo i candidati alle elezioni di midterm che, invece, della «Big Lie» erano orgogliosi alfieri. Ma, nonostante questo, non ha mai esplicitamente negato la legittimità della presidenza Biden. E anzi, nei giorni drammatici dell’uragano Ian, ha lavorato al fianco di Biden e con lui è andato a visitare le zone colpite.

Allo stesso modo, a differenza di Trump, DeSantis ha saputo coniugare politiche di abbassamento delle tasse e di assistenza sociale ritenute molto efficaci e, ultimo ma non ultimo, ha gestito l’emergenza Covid-19 in un modo che ha pienamente convinto i conservatori, ossia non gestendola. Una decisione che ha portato a circa 70 mila morti, ma anche a quasi un milione di conservatori che si sono trasferiti in Florida.

Eppure, nonostante DeSantis appaia come il santo Graal della destra americana, perché dice le stesse cose che dice Trump, ma è molto più potabile e raziocinante di Trump (ol-

Sul fatto che possa davvero vincere la presidenza, invece, di incognite ne pensano altre due. Una si chiama Donald Trump e l’altra si chiama Joe Biden. Per quel che riguarda Trump, se l’ex presidente dovesse effettivamente perdere le primarie, è altamente improbabile che abbia voglia di sostenere l’uomo che lo ha sconfitto. Anzi. Probabilmente proverebbe a distruggerlo, sia con le solite armi della campagna denigratoria («DeSanctimonious», lo ha già soprannominato) sia con l’estrema arma della scissione del partito. Nell’ipotesi che Trump, sconfitto alle primarie, decidesse di lasciare il partito e di portarsi via il suo personale elettorato, per DeSantis non ci sarebbero speranze.

Per quel che riguarda Biden, invece, anche se DeSantis dovesse vincere le primarie e anche se Trump decidesse di appoggiarlo, ci sarebbero le elezioni vere da vincere. E la cosa potrebbe essere molto difficile, sia se il candidato fosse Biden (anziano e poco popolare, ma perfetto quando si tratta di raccogliere consenso trasversale) sia se il candidato democratico fosse un altro. Nel campo democratico ci sono molti nomi spendibili. E nessuno di questi deve lottare con l’eredità tossica di Trump.

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Prima
DEI TEMI
DELLA
PRESIDENTE, MA IL POTENZIALE NUOVO CANDIDATO DEI CONSERVATORI È MENO DIVISIVO E PUÒ RECUPERARE CONSENSI
MOLTI
CARI AL GOVERNATORE
FLORIDA SONO GLI STESSI DELL’EX
L'ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump

L’informazione intransigente

La settimana scorsa, come avrete notato, L’Espresso non era in edicola. Bloccato da uno sciopero che la redazione ha indetto per dare ai lettori e all’editore un messaggio di grande preoccupazione. La sostituzione del direttore Lirio Abbate con Alessandro Rossi è stata improvvisa e inattesa, visto il momento delicatissimo che il giornale sta attraversando. Alla normale programmazione complicata dei numeri di fine anno si aggiungono i preparativi per il lancio del “nuovo Espresso”, previsto per il 15 gennaio. Un giornale rinnovato nella forma e nei contenuti che è destinato a diventare il pilastro di un progetto multimediale annunciato da Danilo Iervolino, il proprietario della società L’Espresso Media che da luglio 2022 edita il nostro giornale.

Essere al centro di un progetto multimediale di grande ambizione, in un momento in cui la carta stampata è in difficoltà in tutto il mondo, non può che far piacere, ma è un obiettivo che bisogna perseguire con rispetto della storia de L’Espresso. In questa fase di cambiamenti, la sostituzione di Abbate è stata vista come una rottura col passato. È essenziale che il nostro giornale mantenga un’identità diversa dalle altre testate del gruppo, a partire da Forbes Italia, di cui il nuovo direttore de L’Espresso è e resterà responsabile. L’Espresso è un giornale fatto di inchieste scomode, di politica militante, di cultura d’avanguardia che i lettori sanno di poter trovare nelle nostre pagine molto più che altrove.

Per questo noi giornalisti abbiamo deciso di mantenere lo stato di agitazione e il Comitato di redazione ha a disposizione ancora un pacchetto di giorni di sciopero. La redazione ha accolto Rossi con spirito costruttivo e ha iniziato a lavorare con lui con le migliori intenzioni, ma rimane estremamente preoccupata per un giornale che ha un’identità unica e fondamentale per l’offerta informativa del nostro Paese. Noi tutti vigileremo e saremo intransigenti sulla qualità dell’informazione: faremo fino in fondo il nostro dovere di giornalisti.

31 dicembre 2022 69 Prima Pagina Comitato di Redazione
Essere al centro di un progetto multimediale di grande ambizione non può che far piacere, ma è un obiettivo che bisogna perseguire con rispetto della storia di questo settimanale
colloquio con Ivan Krastev di
Le guerre rivendicano limiti territoriali. Ma i margini oggi dipendono da questioni di identità. Un grande intellettuale riflette sul sorprendente legame tra democrazia e nazionalismo
ritorno Sguardi sul presente confini dei 70 31 dicembre 2022
Wlodek Goldkorn illustrazione di Ivan Canu
Il
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Non siamo tornati ai tempi di prima della caduta del Muro di Berlino, a un passato di cui qualcuno è nostalgico ma che la maggior parte degli europei sperava superato, salvo ripiombare in un incubo con la guerra in Ucraina, ma stiamo vivendo in un’epoca in cui manca il futuro. Questa non è certamente una buona notizia per la democrazia, che però dimostra delle capacità sorprendenti di difendersi. Ivan Krastev ha 57 anni, è nato in Bulgaria, abita a Vienna dove è fellow all’Istituto per le Scienze dell’Uomo, si occupa della crisi del liberalismo, dell’ascesa dei populismi, del fenomeno migratorio e delle politiche dell’identità, e scrive su giornali come il “New York Times”, la “Frankfurter Allgemeine Zeitung”.

La conversazione comincia con una constatazione obbligatoria, per cui non solo la Storia non è finita, come teorizzava dopo la fine della guerra fredda Francis Fukuyama, ma anzi è tornata con una inaspettata prepotenza: una guerra in Europa, di tipo coloniale fra un Impero e un Paese che difende la sua libertà. Krastev sorride e risponde:

professore prosegue: «Il problema è che quando gli Usa e l’Europa dicono agli asiatici o ai latinoamericani: dovete essere solidali con l’Ucraina dato che è una guerra di decolonizzazione, loro rispondono, non è la nostra decolonizzazione. Ecco perché questa guerra è una sfida prima di tutto per l’Europa».

«Le guerre erano date per finite, forse per sempre. Ma lo erano in Europa occidentale, altrove invece sono continuate, talvolta sotto la forma di guerre civili. E il numero delle vittime dei conflitti armati dal 1989 e fino a oggi corrisponde alla metà delle vittime della seconda guerra mondiale». Precisa: «Comunque il libro di Fukuyama sulla fine della storia era un bestseller, ma solo negli States e in Europa. Altrove si leggeva il saggio di Samuel Huntington “Lo scontro delle civiltà”». Riflette: «Il processo di decolonizzazione ebbe inizio in Europa negli anni Venti dell’Ottocento, con la lotta per l’indipendenza della Grecia dall’Impero Ottomano e sta finendo in Europa con la guerra fra Russia e Ucraina. Un cerchio si chiude». Ironia della Storia, il movimento nazionalista ellenico nasceva a Odessa, oggi città al centro delle cronache belliche. Il

Però, a guardare bene, l’Europa è stata una specie di progetto che possiamo chiamare “post-storico”: democrazia, pace, diritti universali e anche una certa gioia della vita. «Certo» è la risposta: «L’Unione europea è stata costruita con l’idea che il potere militare non abbia tanta importanza quanto invece lo ha il potere economico e i modi di vita, il soft power». Si ferma, dice: «La guerra in corso è fra un impero autocratico e una democrazia disfunzionale. E la resistenza degli ucraini è, a pensarci bene, un successo della democrazia». Sorride: «Ma è anche un successo del nazionalismo, seppure civico. La domanda è: saremo in grado di conciliare una certa misura di nazionalismo con la democrazia?». Allarga il discorso, per far capire che non parla dell’Ucraina e non solo dei Paesi ex-comunisti. Dice: «Abbiamo creato in Occidente delle società in cui la gente non era disposta a sop-

Sguardi sul presente
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“La gente tende a sentirsi più vicina a chi percepisce come simile. Diciamolo: il fatto che ci si occupi prima di tutto della propria comunità non è nazionalismo”

portare sacrifici perché le persone si consideravano più consumatori che cittadini. I cittadini hanno bisogno di leader e sono disposti a sopportare sacrifici. I consumatori invece necessitano di camerieri». Sorride di nuovo: «Dal 1987, dal dopo Reagan e fino all’11 settembre 2001, la parola sacrificio non è mai stata pronunciata da un presidente americano. Il contratto sociale era “sacrifice free”». Obiezione. È facile parlare dei sacrifici se si è borghesi e si fa parte delle élite. Non altrettanto per chi è precario o percepisce un salario bassissimo. Risposta: «La disuguaglianza in guerra diventa una questione di sicurezza. Se non si possono pagare le bollette si scende in piazza, giustamente. Ecco perché la risposta a questa crisi è diversa da quella alla crisi finanziaria del 2008. Allora si parlava di austerità. Oggi la parola austerità è sparita (come prima la parola sacrificio)». E poi: «Noi dell’Unione europea non siamo in guerra, vediamo altri morire. Però da quando c’è guerra, la gente deve sapere che nelle elezioni vota per qualcuno che potrebbe diventare il leader in guerra. E questo è il ritorno della politica e della Storia».

Abbiamo parlato del nazionalismo. Krastev, impaziente interrompe: «Il nazionali-

9 novembre 1989, uomini contro il muro di Berlino. A destra: il politologo Ivan Krastev

smo e la democrazia hanno un legame molto più stretto di quanto si usi e osi pensare. La democrazia comincia con il fatto che c’è una nazione e che i cittadini votano (e non entro nella questione di come si diventa cittadino). All’inizio della pandemia lo spirito nazionalista era in crescita ovunque in Europa. Era un fenomeno normale: la prima preoccupazione di un governo sono coloro che l’hanno votato e i connazionali». Sospira: «La stessa cosa la posso però raccontare in un altro modo, riferito non alla pandemia ma ai rifugiati, la sostanza comunque non cambia. Ecco, c’è stata indignazione per il fatto che alcuni Paesi europei, per esempio la Polonia, hanno accolto molto bene i profughi ucraini mentre continuavano a rifiutare gli altri. Io invece penso che la gente tenda a sentirsi più vicina a chi è percepito come simile. Diciamolo: il fatto che ci si occupi prima di tutto della propria comunità non è nazionalismo». E allora cosa è nazionalismo? Risposta: «Credere che vinci solo se gli altri perdono. Ma non funziona. Infatti durante il Covid, i vaccini sono stati comprati insieme da tutti i Paesi dell’Unione. Lo stesso vale oggi per la crisi ucraina, la possiamo affrontare solo tutti insieme. E poi, ecco, quello che non va

Foto: R. Wallis –Corbis / GettyImages, H. Bamberger –Opale / Bridgemann Images
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nel nazionalismo è la sua teatralità». Per teatralità intende il vittimismo? «Sì. Il discorso per cui nessuno come noi sa cosa vuole dire sofferenza. Ripeto, è naturale la cura della tua comunità. La questione è come concili questo con una visione strategica, cioè con l’Europa». Tace e poi: «A partire dagli anni Novanta, tutti hanno parlato di democrazia inclusiva. Ma democrazia comporta pure esclusione. Si discute su chi è dentro e chi è fuori. Sono questioni identitarie complesse».

E così, siamo entrati nel cuore della questione delle identità (al plurale), dei confini e dei limiti. Dice il nostro interlocutore: «Non sono d’accordo con l’affermazione per cui siamo tornati alla guerra fredda. Intanto a differenza del comunismo, un’ideologia radicale e un modello unico di esercitare il potere, le autocrazie si muovono ciascuna per conto suo e con modelli diversi. Siamo invece tornati alla politica delle identità a livello globale. Prenda per esempio Putin. Nei suoi discorsi usa il linguaggio delle guerre di cultura americane: la retorica anti Lgbt, il con-

Alle origini della guerra

Forse è venuto il momento di tornare un po’ indietro, alle origini della guerra in Ucraina. E non c’è modo migliore che farlo in compagnia di Pierre Sautreuil, un giornalista francese che a soli vent’anni è stato a lungo in Donbass, fin dal 2014, quando quel conflitto non interessava a nessuno. “Le guerre perdute di Jurij Beljaev” (Trad. di Silvia Manzio e Silvia Mercurio, Einaudi), uscito in Francia nel 2018, è molto più di un reportage, si legge come un appassionante romanzo perché è costruito intorno al rapporto con un separatista russo, eroe negativo del suo tempo.   Sia chiaro subito: non c’è ambiguità filorussa in Sautreuil, la sua posizione è netta. La spasmodica curiosità per Jurij, detto il Gatto, è più un desiderio di conoscere il male da vicino, anche a costo di restarne affascinato. È un modo per entrare nella Russia degli anni Novanta, quella che ha prodotto Putin e poi la guerra, però da una diversa prospettiva, perché Jurij fa parte dei separatisti nemici del Cremlino.

Si entra a fari spenti in una spettrale Repubblica popolare di Lugansk, dove le acque del Donec sembrano uno Stige, attraverso ponti crivellati, guard-rail squarciati da granate,

posti di blocco, crateri, strade devastate, fra rovine di villaggi, finestre rotte tappate con i cartoni e un’aria che sa di plastica bruciata.   Si entra negli alberghi ucraini, dove si muore di freddo e non c’è acqua corrente. Si entra persino nelle stanze dei signori della guerra russi, suite disseminate «di proiettili di kalashnikov, soprammobili pacchiani e preservativi», dove la bandiera ucraina viene usata come zerbino. Si cammina fra soldati che «ciondolano sul marciapiede nelle loro uniformi disparate. Denti marci, mani gialle, indelebili incrostazioni di carbone sotto le unghie, tra le palpebre e in ogni minima piega della pelle, facce da minatori di fondo». Ecco il Donbass.   È il regno dei signori della guerra. Fra i separatisti russi ci sono corrotti uomini politici che godono della fiducia del Cremlino e approfittano della situazione per fare affari con il traffico di armi o di aiuti umanitari, ci sono gli uomini della brigata Wagner che fanno il lavoro sporco al soldo di Putin, ma anche cani sciolti, alla testa di eserciti personali, scomodi alla stessa Russia. Gente che appartiene «alla razza dei perdenti e degli eccentrici, di quelli che vivono ai margini finché, con il favore

Sguardi sul presente
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di Caterina Bonvicini

del caos, non intraprendono l’ascesa, appoggiandosi alle macerie e arrampicandosi sulle rovine di questa società che non li ha voluti, e una volta giunti in cima piantano una bandiera nera».

A questa seconda categoria appartiene Jurij, fuggito in Donbass per non essere arrestato a San Pietroburgo. Nella «peggiore no-go zone d’Europa»  non deve guardarsi solo dall’artiglieria ucraina, ma anche da quella russa, che elimina personaggi sgraditi al Cremlino a suon di attentati o esecuzioni. Il Gatto, con gli occhiali rettangolari e i capelli grigi, come un sessantenne qualunque dal «viso banale, glabro e grassoccio» fa pensare a un medico di campagna. Invece ha un passato che ha dell’incredibile: «poliziotto, deputato, soldato disperso in Bosnia, mafioso, leader di un partito; la sua carriera è talmente eclettica che fatico a trovare una logica, un denominatore comune in grado di spiegare come si sia ritrovato coinvolto in tutto ciò che la Russia contemporanea ha prodotto di più scabroso».   Piano piano svela la sua vita a Pierre, il «ragazzino». Si crea un rapporto forte fra loro, che ricorda quello raccontato

cetto dell’Occidente corrotto e simili». Chiarisce: «Non si tratta dell’affermazione di identità forti quanto della paura che la tua sia un’identità debole, della convinzione che l’identità possa essere facilmente perduta, dissolta». Questo significa che c’è una politica di nostalgia, dato che il concetto dell’identità è spesso nostalgico? «Sì», risponde il professore e spiega: «C’è paura della labilità, timore che non ci siano più limiti. E per questo che la politica ha oggi come oggetto i confini». Krastev, all’improvviso, ride. E poi: «Il politologo americano Ken Jowitt ha dato una definizione del confine. Ce ne sono di tre tipi. Il primo: “barricata”. Assomiglia al matrimonio cattolico: impossibile il divorzio. Il secondo: “bar da single”. Si sta una notte insieme ma all’indomani niente impegno né memoria. Il terzo: “liberale”. Assomiglia a un matrimonio moderno. Si può divorziare. Oggi il confine e le identità liberali», prosegue, «sono attaccati da due parti. Da un lato da gente convinta che l’identità non esista o possa essere cambiata a piacimento ogni giorno, dall’altro dai nazionalisti persuasi

da Arpino in «Il buio e il miele» o da Kevin Mecdonald nel film «L’ultimo re di Scozia», dal romanzo di Giles Foden.

Jurij comincia la sua carriera nella polizia criminale di Leningrado. Poi c’è l’ascesa come deputato e leader di un partito ultranazionalista. Neonazista, varie volte condannato per istigazione all’odio razziale, responsabile di omicidi a sfondo razzista, fa fortuna con la guerra in Bosnia. Partecipa alla strage di Srebrenica e viene accusato di complicità in crimini contro l’umanità, per avere ucciso 64 civili.  Se lo si osserva nella sua stanzetta da adolescente disordinato, non si direbbe che è stato anche un milionario. Invece. Jurij comincia procurando mercenari russi ai serbi, fonda una società di sicurezza privata che serve a reclutare uomini, diventa un bandito. Fa attentati e subisce attentati, uccide nemici con finte overdosi o investendoli con la macchina, è deputato alla Duma e ricercato, milionario e soldato di ventura.  È un prodotto dei tumultuosi anni Novanta che «ha cominciato a brillare quando le regole e le certezze hanno iniziato a vacillare, simile a un barile di polvere inerte che non aspettava altro che una scintilla per esplodere. Non credo che la sua caduta sia una ricompensa per i misfatti, perché non c’è nessuna morale in questa storia». E questa è la bellezza del libro, che innamora un lettore quanto il “Limonov” di Carrère.

Foto: Alessio Mamo (2)
“Stupisce vedere una sinistra che teme il futuro esattamente come la destra. Per ragioni diverse, ambedue percepiscono l’avvenire come una minaccia”
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Una madre con la sua bimba a Novomoskovsk. A sinistra: carri armati russi a Kiev

che l’identità sia come il matrimonio cattolico. Ecco, i confini oggi sono intesi in termini di identità e non del territorio».

Sorride quando sente dire che quanto sopra è una critica della ragione geopolitica, dato che negli ex Imperi in Europa (austroungarico, ottomano e zarista) nelle stesse città convivevano popolazioni di tre o quattro lingue diverse e quindi il confine immaginario non era tracciabile se non in termini di cultura e idioma. Poi si continua a parlare dei confini e degli immigrati, e concretamente del fenomeno di quello che possiamo chiamare l’outsourcing delle frontiere. Si cerca di fermare i migranti in Libia o in Turchia. Krastev introduce ancora un elemento: la situazione al confine polacco-bielorusso. Secondo le autorità di Varsavia, sarebbe il governo di Lukashenko a spingere i profughi in Polonia per destabilizzare il Paese. «Da allora anche nei Paesi più aperti alle istanze dei migranti è cambiata aria. Se si percepisce questa gente come arma del nemico, il contesto cambia. Si cerca di chiudere le frontiere ma senza venire accusati di averlo fatto». Tace e poi: «L’ostilità nei confronti dei migranti è dovuta al sentimento per cui l’Europa ha paura delle propria forza d’attrazione».

Sguardi sul presente

Krastev al tema aveva dedicato studi importanti. La sua tesi era: per molte persone in Africa l’Europa era l’Utopia realizzata, arrivare nel nostro Continente era più semplice che non cercare di fare la rivoluzione nel proprio Paese. Quando sente dire che è controproducente per un’Europa (e in particolare l’Italia) in piena crisi demografica chiudere le frontiere, risponde: «Quella battaglia è stata persa nel momento in cui si è cercato di dire che l’immigrazione non fosse un problema. Lo era invece e lo è». E racconta una specie di parabola: «Frequento un posto a Vienna. Cominciò come ristornate italiano: proprietario italiano, camerieri italiani e così il cibo e il vino. Ora è sempre chiamato “ristorante italiano” ma nessuno è italiano. Certo, il cibo e i vini sono ancora italiani. Ma è davvero un ristorante italiano? Per me lo è. Per un italiano di nascita magari no». Guarda l’interlocutore e dice: «La crisi migratoria distrugge l’idea che abbiamo di noi stessi. Abbiamo pensato di essere liberali, aperti ad altri. Ma non era vero. E quindi lasciamo ad altri, ai libici per esempio, di fare le cose che non ci piace o che non possiamo fare: è l’outsourcing della violenza».

E così, concludiamo con una domanda sulla sinistra. Ma prima di formularla accenniamo allo scandalo di corruzione al Parlamento europeo. Krastev reagisce: «La ragione per cui quell’assemblea è stata protagonista delle leggi più progressiste esistenti e al contempo di un disgustoso fenomeno di corruzione è il fatto che i deputati sono lontanissimi dai loro elettori». Ma la nostra domanda è sul perché la sinistra non sappia conciliare diritti civili e diritti economici. Risposta: «L’identità della sinistra era una certa idea del futuro. Seguendo le teorie di Marx si pensava che la classe operaia fosse una classe universale: emancipando se stessi i lavoratori avrebbero emancipato l’umanità intera. Questa convinzione è scomparsa. La sinistra difende i gruppi identitari, ma allora la domanda è qual è il più importante. La cosa più sorprendente però è vedere una sinistra che teme il futuro, esattamente come ne ha paura la destra. La destra dice che in gioco sono le nostre identità, la sinistra che la vita sul pianeta potrebbe finire. Ambedue percepiscono l’avvenire come una minaccia».

Foto: J. Jimenez –Primera Hora / GettyImages
76 31 dicembre 2022 Idee
11 settembre 2001 al World Trade Center

A CURA DI SABINA MINARDI

SELFIE DI SIGNORA

Melania Mazzucco rende omaggio alla pittura delle donne. In un museo che va da Artemisia a Frida Kahlo

Imusei sono luoghi sinistri, diceva Giorgio Manganelli: nascondono prepotenze, macchinazioni, frodi. Radiosa, vivace, popolata di un vitale vocìo è, al contrario, la galleria dell’immaginario museo allestito da Melania Gaia Mazzucco: “Self-Portrait” (Einaudi), il museo del mondo delle donne che hanno esercitato, a livelli altissimi, la professione maschile della pittura. Il libro non è (solo) un viaggio nella storia dell’arte al femminile, ma una raffinata, colta, coinvolgente ricognizione dove ogni artista è due volte soggetto: autrice e protagonista della sua opera. Come quella Elisabetta Sirani che nel Seicento ritrae sé stessa nel ruolo di Porzia, figlia di Catone e moglie di Bruto, avocando a sé - subliminalmente - lo stesso coraggio della donna romana. O come Antonietta Raphaël, esempio di indipendenza per le figlie (le sorelle Miriam, Giulia e Simona Mafai) e di gioia di dedicarsi a ciò che più si ama. Non è nuova Mazzucco – premio Strega nel 2003 (“Una vita”) e autrice di altri importanti storie d’arte come “La lunga attesa dell’angelo” sugli ultimi giorni di vita del Tintoretto –alla riscoperta di figure femminili ingiustamente dimenticate: come quella Plautilla Bricci che nella Roma del Seicento, tra potere papale e una società bigotta e libertina insieme, fu la prima donna architetto della storia moderna (“L’Archi-

1941, una nave salpa diretta a Buenos Aires. A bordo ci sono un campione mondiale di scacchi e un riservato aristocratico con un atroce segreto, pronto a lanciargli la sfida. Dalla novella di Stefan Zweig, l’ultima scritta prima del suicidio, e ispirata ai suoi giorni in Brasile in fuga dal nazismo, la denuncia della barbarie e della tirannia in forma di graphic novel. Con un interessante corredo di ricerche e schizzi, da un illustratore che ama spaziare tra i generi.

“IL

GIOCATORE DI SCACCHI”

David Sala (trad. Emanuelle Caillat) Gallucci, pp. 136, € 22

tettrice”). Ora la scrittrice fa di più: poggia un affettuoso, grato sguardo su 36 capolavori di altrettante artiste, da Artemisia Gentileschi a Frida Kahlo, da Georgia O’Keeffe a Louise Bourgeois e Marlene Dumas. E ne osserva i dettagli, ne scruta le ombre, interpreta simboli, interroga vesti e arredi, per compiere lei stessa una nuova operazione pittorica: pennellate decise e profonde, per quattro-cinque pagine al massimo, nelle quali ricostruisce l’impasto di cui è fatto la vita: gli amori, i figli, i compromessi, le rinunce. Suggestiva la scansione utilizzata per percorrere i corridoi del museo: la vita stessa della donna, nella sua complessità biologica e culturale, dalla nascita all’adolescenza. Tappe di una meravigliosa sfida collettiva condotta sempre contro: la volontà familiare, il giudizio della società. Lo stesso che fece dire a Èdouard Manet, rivolto alle sorelle Morisot, «Peccato non siano uomini!».

“SELF-PORTRAIT”

Melania G. Mazzucco Einaudi, pp. 242, € 30

Una premessa ricorrente nell’universo della narrativa distopica: la rincorsa di un siero della verità che consenta di penetrare nelle menti delle persone, e controllarle. Da una pioniera del racconto di fantascienza, dalla vita inquieta e dalla modernità da riscoprire, un romanzo che affronta con ironia e acutezza l’incubo di una società dominata da uno Stato di polizia. Dove la sorveglianza anziché produrre sicurezza scoperchia tutta l’ambiguità dei rapporti umani.

“KALLOCAINA.

IL SIERO DELLA VERITÀ”

Karin Boye (trad. Barbara Alinei) Iperborea, pp. 256, € 17,50

La nostalgia e la malinconia. I pomeriggi di attesa e la fragilità umana, con una consapevolezza che ammanta il mondo di pietas. Lo scrittore bulgaro sta tratteggiando un coerente, personale percorso apprezzatissimo da critica e da lettori. Ora Gaustìn, l’alter ego al quale l’autore di “Cronorifugio” affida le sue riflessioni, parla (come fa da sempre) per versi, intimi e preziosi. In un’antologia di 75 poesie: sull’amore, la separazione, la natura e Dio. A cura di Giuseppe Dell’Agata.

“LETTERE

A GAUSTÌN E ALTRE POESIE”

Georgi Gospodinov Voland, pp. 212, € 16

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Bookmarks/i libri

Quell’angelo di Ricciardi

Leggi razziali, autarchia, alleanza col nazismo.

Sullo

Una delle domande più frequenti e banali, ma anche tra le più difficili alle quali rispondere, è: da dove viene l’idea di questo romanzo? Vedrete il sorriso dello scrittore appannarsi, lo sguardo sfuggire per un attimo, la voce incrinarsi. Facilmente emetterà un suono, un fonema di incertezza, e magari schioccherà la lingua. Se gli sarà possibile, si manterrà generico ed eviterà di rispondere, divagando chiaramente e cambiando argomento (gli scrittori sanno essere abilissimi in quest’arte). Riservatezza?Timidezza?Volontàdidifendereil proprio territorio da curiosità indiscrete? Niente di tutto questo. Semplicemente, la risposta alla domanda è oscura allo stesso scrittore.

Spieghiamo meglio, ricorrendo all’agricoltura (alla quale il processo creativo assomiglia assai più di quanto si sia disposti ad ammettere). Immaginiamo un seme, che approda su un terreno portato chissà da che, vento, acqua, animali. Nessuno lo vede arrivare, nessuno si accorge del silenzioso lavoro che da subito comincia a fare, aprendosi e prendendo nutrimento sotto la superficie. Poi spunta qualcosa, e comincia a crescere mettendo foglie e rami. Allo scrittore l’idea è evidente solo allora, quando la vede; ed è autonoma e identitaria, molto diversa dall’anonimo seme arrivato nel terriccio chissà come e da dove.

“Caminito” viene forse dalla canzone, un tango stranissimo e straordinariamente bello, nato prima nella

musica (1923) e poi nel testo (1926), autori diversi e diversi sentimenti, migliaia di chilometri di distanza fisica ma nessuna tra i cuori. O arriva trasportato dall’identità musicale cheuniscequellamelodiaallacanzone della mia città, attraverso le musiche del sud del mondo, il fado, la bossa nova, il samba. O dalla malinconia di un’epoca, la fine degli anni Trenta, che era diventata così radicalmente diversa dal 1934, anno in cui avevo lasciato Ricciardi e il suo mondo: leggi razziali, sanzioni internazionali, autarchia, follia dell’impero e alleanza con la Germania nazista. Semi sparsi, frammenti agitati dal vento, non ancora un’idea compiuta, non ancora un romanzo: e soprattutto in contrasto aperto con la decisione di non raccontare più di quel mondo, di

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sfondo di “Caminito”, subito successo di lettori, la follia della storia. E una promessa tassativa al Commissario
Confessioni d’autore

quella nuova euforica follia sociale, di quella potenza militare che era tutt’altro che potente.

Poi, l’estate scorsa, mi sono ritrovato di fronte alla seria ipotesi di dover morire. E di lasciare tutto incompiuto, di abbandonare le cose che stavo facendo e quelle che avrei voluto fare. In un letto d’ospedale, privato del contatto col resto del mondo e coi miei cari, senza poter connettermi o comunicare, solo coi miei pensieri. Niente dolore, niente paure: il sentimento dominante era un’immensa, straziante nostalgia del futuro. E il riconoscimento nuovo, devastante, di una personale fragilità che non sapevo, e che collocava i miei passi inconsapevolmente sicuri su un filo sospeso a mezz’aria.

È stato allora che tra un infermiere

e l’altro è comparso Ricciardi. Non aveva l’aria di rimprovero che mi aspettavo, per averlo abbandonato tre anni prima nonostante avesse continuato a sussurrarmi storie; e nemmeno era poi invecchiato più di tanto, evidentemente mantenuto giovane da tutto l’amore dei lettori che nel frattempo non hanno mai smesso di chiedermi sue notizie.

Non mi ha detto molto, gli è bastato starsene lì a fissarmi; sapevamo tutti e due che il seme aveva attecchito, e che la piantina della storia era ormai da tempo forte e netta, pronta a trovare spazio articolandosi in un romanzo. Il suo sguardo significava che non potevo tenerlo ancora fuori la porta, che dovevo lasciarlo entrare.

l’odore del mare venivano prima, e costituivano una bella lepre mentale dietro la quale correre. Ma nelle pieghe e nelle piaghe di quel tempo sospeso, dal quale purtroppo non si esce mai più del tutto, Ricciardi c’era. E con lui, il suo mondo fatto di tanti personaggi e di tanti sapori e odori, di scorci panoramici e di miserie, di odio e rancore e di amore e dolcezza.

Mi ci sono ritrovato a passeggiare, avendo smesso di porre le inconsapevoli barriere che lo hanno lasciato per tre anni indietro rispetto alle altre storie. Devo dire che i Bastardi di Pizzofalcone, Sara e Mina Settembre hanno capito e si sono dimostrati più disciplinati e discreti di quanto io stesso li immaginassi capaci. Hanno lasciato al loro antico compagno di viaggio più strada e spazio, e si sono disposti in serena attesa, avranno il loro turno: adesso però toccava a Ricciardi.

È stato allora che ho fatto la promessa, a lui prima ancora che a me stesso o ai lettori, che se fossi sopravvissuto e se avessi avuto di nuovo la forza e l’energia per mettermi a raccontare, la prima storia sarebbe stata la sua. Ammetto che in quel momento era tutto abbastanza distante, e indistinto nei contorni; ma chi conosce il fenomeno della scrittura, e sa qualcosa del modo in cui i personaggi vivono e rivendicano la propria indipendenza, capisce bene di che cosa sto parlando. I giorni successivi, dedicati al recupero di una condizione minimamente accettabile, sono stati pieni di una nuova determinazione: la storia da scrivere. Il ritorno di Ricciardi. Non dirò che mi ci sono aggrappato, perché non è vero; i miei affetti, la voglia di tornare a percorrere il mondo e

Alla fine l’ho scritto. È stato bello? Sì, lo è stato. Ho ritrovato sensazioni note e dolci, sono tornate le parole che nella narrazione della contemporaneità non posso usare, i sentimenti di allora e le canzoni. E anche nuove atmosfere, una Buenos Aires autunnale fatta di fumo e tango e pioggia, e nuove emozioni di maternità e paternità compiute e incompiute. È stato doloroso? Sì, lo è stato. Per un tempo lanciato verso l’abisso, per nuove povertà assai meno dignitose, per infamie che comparivano nella nostra storia per la prima volta.

Adesso sono molto più sereno delle altre volte. In genere l’uscita di un nuovo libro implica ansie e tensioni, ci si chiede se la storia piacerà e se incontrerà il gusto dei lettori. Si controllano le classifiche e si leggono le recensioni, cercando consensi e sfuggendo dissensi. Stavolta no. Stavolta, quando “Caminito” è arrivato sugli scaffali e non è stata più questione mia o di Ricciardi ma dei lettori, io ho sorriso e me ne sono disinteressato. Perché avevo una promessa da mantenere. E l’avevo mantenuta. Tutto qui.

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“Caminito” (Einaudi, pp. 280, € 19). A sinistra: Ricciardi interpretato in tv da Lino Guanciale. Sotto: lo scrittore

Strane coppie di cinepanettoni

Il ritorno di Avatar e il Cristo di Rezza. Spielberg e Sokurov. “Le otto montagne” e il controllatissimo “Living”. Quest’anno i migliori film delle feste dialogano tra loro

di Fabio Ferzetti

Grande schermo
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Geopolitica del cinepanettone. Sarà un caso, sarà un’illusione ottica, ma quest’anno i migliori film delle feste vanno in coppia. E poiché non hanno più nulla a che vedere con i “film di Natale” di una volta, sembrano disegnare una mappa abbastanza precisa del confuso panorama attuale. Sempre più diviso tra titoli destinati al grande pubblico e altri che invece puntano a un numero più ristretto di spettatori, ma informati e fedeli. Come evidenziano i due titoli più abissalmente lontani usciti a fine anno. Diversi in tutto fuorché nel tempo record di gestazione.

Il primo naturalmente è “Avatar: la via dell’acqua” di James Cameron, 13 anni di lavorazione per un lancio planetario, costi mostruosi come gli incassi e un cast di star irriconoscibili perché ridisegnate al computer. A cui risponde “Il Cristo in gola” di Antonio

Rezza, film “no budget” che di anni ne è costati addirittura 18 ma fa il tutto esaurito con proiezioni mirate sui suoi numerosi adoratori (in trent’anni di teatro con Flavia Mastrella, Rezza si vanta di non aver mai preso sovvenzioni pubbliche). E dal punto di vista estetico, con il suo bianco e nero scolpito e la sua geniale colonna sonora, è uno degli oggetti più inclassificabili prodotti in Italia da diversi anni in qua.

Un Vangelo riveduto e corretto, benché mai blasfemo, girato fra Matera (come quello di Pasolini), Anzio e Ostia Antica, ma così apocrifo che alla fine svolta in zona “Edipo re”. E vede Gesù fabbricarsi la croce da solo, o battibeccare con un Ponzio Pilato doppiato dallo stesso Rezza (il suo Gesù non parla mai, urla solamente). Mentre la strage degli innocenti, idea strepitosa, è rappresentata usando solo bambolotti appesi a delle funi o lanciati in aria. Trovata che potrebbe sembrare facilmente dissacrante ma alla fine genera

Dall’alto, in senso orario: una scena del film “Avatar – The way of water”; “Fairytale” di Alexander Sokurov; “Un vizio di famiglia” di Sébastien Marnier. Nell’altra pagina: “Masquerade” di Nicolas Bedos

un autentico brivido d’angoscia.

Naturalmente non parliamo di numeri, copie o incassi. Su questo terreno la gara l’ha già stravinta Avatar sin dal primo weekend. Nessuno del resto poteva dubitarne, anche se il nuovo episodio della saga diretta da James Cameron, non ha la novità e la potenza visionaria del primo, che traduceva attese epocali nel linguaggio e nelle novità tecnologiche del miglior cinema fantastico.

Il pianeta Pandora, con i suoi umanoidi altissimi e caudati, non è più un regno incantato aggredito dalla rapacità dei terrestri, ma il teatro di una lunga e non sempre imprevedibile guerra per buona parte sottomarina. Le affascinanti ibridazioni tra gli umani invasori e il pacifico popolo dei Na’Vi sono ormai un fatto acquisito. La magia del motion capture, che ridisegna alieni color carta da zucchero sui corpi di attori in carne e ossa, non sorprende più come una volta. E soprattutto non

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suscita lo stupore profondo che provocava nel 2009, quando quegli umani “rigenerati” dentro alieni alti tre metri sembravano tradurre in termini spettacolari anche i vertiginosi progressi scientifici dell’epoca (protesi, bioingegneria, chirurgia plastica, eccetera), o per dirla più semplicemente il sogno sempre più diffuso di rinascere in un altro corpo.

Niente di tutto questo. “Avatar: La via dell’acqua” è in tutto e per tutto un sequel (già previsti anche il numero 3 e il numero 4). Dunque moltiplica, dilata, dilapida le idee del film originario. Compresa quella, centrale, che faceva del pianeta Pandora una sorta di divinità vivente, un luogo in cui ogni specie, indigeni, piante, animali, è mentalmente connessa alle altre. Dopo aver creato un universo complesso e coerente, Cameron insomma lo sfrutta come un parco a tema, secondo la celebre definizione coniata da Scorsese per i film sui supereroi. Un peccato, ma

anche un segno dei tempi.

La sovrabbondanza crescente dell’offerta spinge infatti a produrre oggetti sempre più riconoscibili, dunque vendibili. Come ci ricorda l’altra strana coppia delle feste, quella formata dal re Mida americano Steven Spielberg e dal campione di un cinema d’autore finanziato e protetto dallo Stato che ormai non esiste più, il grande regista russo Aleksandr Sokurov. Del film diretto dal primo, il magnifico e autobiografico “The Fabelmans”, parliamo diffusamente in altre pagine. Ma vale la pena ricordare che solo registi con il prestigio e il potere di Spielberg oggi possono permettersi di alternare progetti molto personali (e lungamente meditati) ad altri più vicini alle esigenze dell’industria, come del resto prova tutta la sua lunghissima carriera.

Mentre un habitué dei grandi festival come Sokurov, classe 1951, sempre a Cannes o al Lido con i suoi film (“Faust” vinse il Leone d’oro a Venezia 2011), og-

gi si trova stretto tra due fuochi. Da una parte, in quanto russo, si è visto rifiutare da Cannes il fosco, azzardato, bellissimo “Fairytale - Una fiaba”, presentato successivamente a Locarno e in questi giorni nelle sale italiane. Dall’altra, sempre più in urto con il regime di Putin, gode di margini di manovra ormai molto limitati in un Paese che pur avendo ufficialmente abolito la censura nel remoto 1993 di recente ha iniziato a far sparire buona parte del suo stesso cinema “non allineato”. Impedendo non solo la distribuzione di titoli stranieri sgraditi come ad esempio, per ragioni evidenti, la black comedy “Morto Stalin se ne fa un altro” di Armando Iannucci (inglese malgrado il nome), ma la circolazione e talvolta la produzione stessa di film dai contenuti “pericolosi”, o semplicemente diretti e interpretati da personaggi che si sono espressi contro la guerra all’Ucraina.

Ci saranno altri film di Sokurov dopo “Fairytale”? Ce lo auguriamo. Nel

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La fantasticheria metafisica di Sokurov viene allestita rielaborando immagini d’archivio con Stalin, Hitler, Churchill e Mussolini che aspettano il Padreterno

frattempo conviene non perdersi questa fantasticheria metafisica allestita rielaborando immagini d’archivio, con Stalin, Hitler, Churchill e Mussolini che aspettando di incontrare il Padreterno battibeccano tra loro rimpallandosi accuse gigantesche e beffarde invidie personali («che bel taglio il suo cappotto!»). Sospesi in un limbo che sta tra le carceri di Piranesi e la Divina Commedia illustrata da Doré. Sfondo astratto e insieme orribilmente concreto di uno scontro fra tiranni, qui visti come vecchi meschini e di scarsa memoria, responsabili di una guerra che ha provocato milioni di morti. E ci ricorda come la potenza del digitale possa servire anche a rivisitare la Storia, non solo a creare universi fantastici alla “Avatar”. Anche se operazioni culturali di questo impegno sembrano destinate a farsi rare in un sistema che concede sempre meno spazio ai veri autori cinematografici e tende a

sottrarre loro progressivamente ogni potere artistico e morale.

Come provano altri due film nelle sale in questi giorni, costruiti sul richiamo non dei registi ma degli scrittori a cui sono ispirati. “Le otto montagne”, direttodaibelgiFelixVanGroeningene Charlotte Vandermeersch (quelli dello straziante “Alabama Monroe”), dal romanzo omonimo di Paolo Cognetti, insolita coproduzione italo-fiamminga con Alessandro Borghi e Luca Marinelli protagonisti.

E il controllatissimo “Living”, regia del sudafricano Oliver Hermanus su copione del grande scrittore anglo-nipponico Kazuo Ishiguro, cui si deve l’idea di rifare un classico di Akira Kurosawa, “Vivere”, 1952, ambientandolo nell’Inghilterra di quegli stessi anni. Con un virtuosistico Bill Nighy nel ruolo del protagonista, un grigio burocrate ripiegato nel lutto per la moglie scomparsa e soprannominato Mr. Zombie da una sua giovane colle-

ga. Fino a quando, scoprendo di avere davanti a sé pochi mesi di vita, non tenta di dare senso e pienezza alla propria esistenza in un modo che converrà scoprire al cinema.

Due bei film, non esattamente facili, realizzati grazie al nome degli scrittori più che a quello dei registi. Come se per attribuire una patente culturale in più al cinema oggi servisse sempre più spesso la letteratura. E meno male che dalla Francia arrivano due gialli costruiti entrambi con molta sapienza (e qualche colpo di scena di troppo) sull’eterno contrasto fra essere e apparire, ovvero fra il fingere un sentimento e il provarlo davvero, “Masquerade-Ladri d’amore” di Nicolas Bedos (già regista di “Belle Époque”). E “Un vizio di famiglia” di Sébastien Marnier, con l’ormai onnipresente Laure Calamy.

Cosa vogliono e soprattutto cosa “sentono” davvero i belli e dannati Marina Vacth e Pierre Niney, lei escort lui gigolò, impegnati in una doppia truffa sentimentale in Costa Azzurra ai danni deipiùanzianiIsabelleAdjanieFrançois Cluzet? E se a forza di fingersi innamorati finissero per essere gelosi l’uno dell’altra (menzione d’onore per una Laura Morante inedita e perfida)? Mentre “Un vizio di famiglia” scava con toni allaChabrolnelsentimentochedovrebbe legare un padre a una figlia ormai adultamamaiconosciutaprima,inuna vertigine di doppi e tripli giochi che toglie ogni fiducia nel genere umano. Meno male che lo struggente “Close”, del belga Lukas Dhont, Gran Premio della Giuria a Cannes (in sala dal 4 gennaio), ci riporta al sentimento purissimo e indubitabile di due ragazzini, Léo e Rémy, destinati a non sopportare lo sguardo dei coetanei. Un film che non solo invoca ma esprime una tolleranza nuova, con uno smalto visivo e una verità d’accenti davvero fuori dal comune. Coraggio, le feste stanno per finire. Potremo tornare a essere ottimisti.

Foto: Webphoto
A lato: una scena del film “Il Cristo in gola” di Antonio Rezza. Nell’altra pagina: “Living” di Oliver Hermanus
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Il colmo per un’attrice allergica alle feste comandate è uscire a Capodanno con un film che parla di San Valentino. Succede a Valentina Lodovini, che vive uno dei periodi d’oro della sua carriera quasi ventennale: mentre al cinema la commedia “Vicini di casa” spicca sul podio al botteghino, il primo gennaio esce “I migliori giorni” di Massimiliano Bruno e Edoardo Leo. Un film corale a episodi per raccontare, tra ironia e amarezza, come gli italiani affrontino le feste.

Il 2023 sarà per lei un anno intenso: tornerà sul palcoscenico con gli spettacoli “A Futura Memoria” e “Karaoke Femminista”, poi la rivedremo al cinema nelle opere prime “Conversazioni con altre donne” e “La terra delle donne”.

Partiamo da “I migliori giorni”. Ha un cast che definire corale è poco. «Un progetto come questo rappresenta il tentativo da parte di un gruppo di professionisti di contribuire attivamente alla ripresa dei cinema. Mi è piaciuta subito l’idea di essere un gruppo, ci siamo dati la missione di riportare il pubblico in sala». Che tipo di commedia è? «Un ritratto degli italiani come si faceva un tempo, senza risparmiarne gli aspetti più cinici e crudeli. La definirei una commedia amara con personaggi veri, ora teneri, ora cinici, analizzati attraverso il pretesto delle feste comandate».

L’episodio che interpreta lei riguarda San Valentino. Che rapporto ha con quella ricorrenza?

«Non amo celebrarlo, come non amo granché celebrare le festività prestabilite, ma mi ha divertito raccontarlo al cinema tramite una riflessione sul terzo incomodo di una relazione: il tempo. La mia Sonia è una donna in carriera che dopo 25 anni di matrimonio (con Luca Argentero, Ndr.) si rende conto che l’amore cambia volto. E Sonia non riesce a cambiare, ha troppa paura, al dolore del tradimento preferisce l’abitudine. Bello portare sullo schermo una volta tanto anche la mancanza di coraggio di una donna

“Alle Feste preferisco il 25 aprile”

Una commedia già al cinema. E un’altra in arrivo, per raccontare gli italiani e le feste. “La recitazione coglie le sfumature”, nota l’attrice. E a teatro esplode la verve politica

colloquio con Valentina Lodovini di Claudia Catalli

che non se la sente di rischiare. Siamo umane».

Con Argentero siete al quarto film insieme.

«“A casa nostra” era il primo film per lui, poi abbiamo interpretato “La donna della mia vita”, “Cosa fai a Capodanno?” e ora questo. Luca è il più leale, dolce e serio dei colleghi. Anche con Greta Scarano, con noi ne “I migliori giorni”, ci siamo trovate bene, ha una dedizione al lavoro che ispira». Diceva di non amare le feste comandate. Quindi neanche Natale, Capodanno, Epifania...?

«No, non li festeggio. Intendiamoci, non faccio muro, mi lascio coinvolgere dai miei cari, ma di mio non le sento tanto. L’unica data che mi garba celebrare sin da piccola è il 25 aprile, la sola veramente degna di festeggiamenti. Ogni anno il 25 ascolto Piero Calamandrei e il suo discorso agli studenti sulla Costituzione. Lo faccio sempre, anche se mi trovo fuori dall’Italia».

Tre motivi per cui celebra la Festa della Liberazione?

«Perché dovremmo ricordarci che la libertà è tutto e non è mai scontata. Perché è fondamentale coltivare la memoria. Perché anche chi come me vive il presente e crede nel futuro in senso evolutivo deve tenere a mente la lezione del passato».

Cosa pensa di chi al governo ha detto pubblicamente che non festeggerà il 25 aprile?

«Penso che la libertà sia un valore gigante e non possiamo permetterci di trattarla con superficialità. Soprattutto oggi. Io sono grata di essere nata libera e non ringrazierò mai abbastanza la mia famiglia per avermi insegnato a conoscere per crescere e dato ampia libertà di opinione ed espressione. Sono stata libera di studiare ciò che volessi, di diventare un’attrice, di scegliere come vestire e chi frequentare. Libera nelle mie idee, nella religione, nella sessualità. Nulla è scontato, dobbiamo tenere a mente tutti il valore inestimabile

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Protagonisti

della libertà, specie di fronte a quello a cui assistiamo in questo periodo e che mi lascia allibita».

Si riferisce alle proteste delle donne iraniane?

«Certo, ma non solo. Penso anche a giovanissimi costretti a fare l’università a tutti i costi o a fidanzarsi con una determinata persona perché così è stato deciso per loro».

Porta la sua verve politica anche sul palcoscenico, penso allo spettacolo “A Futura Memoria” dedicato ad Anna Politkovskaja.

«Noi attori non possiamo cambiare il mondo, ma farlo conoscere attraverso il nostro mestiere sì. A qualche chilometro da casa nostra accadono cose terribili, dovremmo svegliarci tutti e renderci conto che molto di ciò che viviamo è già accaduto. Il fatto che non succeda a noi non significa che dobbiamo girarci dall’altra parte. Per questo farò delle letture dai diari della giornalista russa Politkovskaja (uccisa nel 2006 il giorno del compleanno di Putin,

Ndr.) con l’orchestra che suonerà brani di musicisti censurati. Dopo la tappa di Napoli lo porteremo in giro per l’Italia, a febbraio saremo a Settimo Torinese. Peppino Impastato diceva che la conoscenza ci salverà . Oggi più che mai urge ricordare la sua lezione». Nel 2023 porterà in giro anche “Karaoke Femminista”, di tutt’altro genere: una stand up comedy. «Monica Nappo è geniale. Insieme esaminiamo famose canzoni italiane, dagli anni Sessanta fino alla trap, che hanno testi agghiaccianti. Eppure le abbiamo cantate tutti trascinati dalle musiche, e magari hanno influenzato il nostro modo di vivere e amare, perché siamo fatti di tutto ciò che ascoltiamo e vediamo». “Teorema”, per fare un esempio: “Prendi una donna, trattala male”. «Anche “Meschina” dei Modà non scherza (“Devi dirmi scusami e feriscimi /E implorarmi di non ucciderti”), pare ispirata alle cronache dei femminicidi, con l’uomo di turno impazzito che minaccia la partner. Le canzoni

che prendiamo in considerazione sono tante, le trattiamo con quell’ironia pura che diventa anche dolorosa e dà da pensare. Ma nello spettacolo portiamo anche esempi positivi: “E se ti lascia lo sai che si fa? Trovi un altro più bello”, cantava giustamente Raffaella Carrà». Nel 2023 la vedremo in due opere prime: “Conversazioni con altre donne” e “La terra delle donne”.

«Nel primo sarò “le donne” del titolo, in realtà è una sola che prova tantissime cose, come tutte noi. È piena di dubbi, paure, turbamenti, amore, sete di vendetta. Io e Francesco Scianna interpretiamo due amanti che si rincontrano dopo dieci anni e hanno tanto da raccontarsi. Ne “La terra delle donne” sono invece ossessionata dall’avere un figlio senza riuscirci. Un’ossessione che degenera in follia».

La sensazione è che allo stereotipo delle donne inossidabili contrapponga volentieri la forza di quelle vulnerabili, è così?

«Mi è capitato spesso di portare sullo schermo una sicurezza e una forza poco raccontate al cinema, ma ultimamente mi piace approfondire anche la vulnerabilità dell’essere donna. Le fragilità sono preziose e fanno tenerezza, non hanno nulla di negativo. Poi viviamo in un momento storico in cui siamo tutti talmente spaventati e disorientati che mi pare siano anche più attuali. La recitazione è uno strumento per raccontare le sfumature degli esseri umani, io passo la vita a fare continui sopralluoghi emotivi. E nei miei personaggi cerco tutto ciò che non è retorica e cliché, per raccontare donne vicine alla realtà che possano suscitare empatia in chi le guarda».

Quando non è impegnata a recitare a cosa si dedica?

«Mi trovate in una sala cinematografica o in un museo. Sempre. Ci vado anche da sola, più volte al giorno. Spero si torni tutti a riappropriarsi della bellezza dell’arte e di quell’esperienza della collettività di cui abbiamo bisogno, specialmente dopo l’isolamento che abbiamo vissuto a causa della pandemia».

31 dicembre 2022 85 Idee Foto: Eleonora Proietti
Valentina Lodovini, 44 anni

I SOLDATI DELL’ISIS

I figli della Primavera tradita Alle radici dell’odio jihadista nella Tunisia dei foreign fighter

L’attesa per la nuova era, la delusione per le riforme mancate, debito pubblico alle stelle, disoccupazione e corruzione dilaganti. E poi gli effetti del carcere sulla radicalizzazione nel Paese che ha il record di combattenti

di Nicole Di Ilio

Li sale in tutta fretta i gradini di casa sua, Mohamed. Un piede dopo l’altro, cemento e polvere sulle scarpe. «Stai attenta», mi urla mentre punta l’indice sull’unica foto a terra. Il suo passo si arresta, si china, osserva. Perché tra le sue mani, in quell’immagine un po’ sbiadita, c’è il Mohamed di un tempo passato. Quel ragazzo con la tunica fino alle caviglie – il thawb – lo zucchetto nero sul capo – il taqiyah – la barba folta e lunga, oramai devoto all’Islam più radicale. «Qui», sussurra con un filo di voce, «ero appena arrivato a Shanli Urfat, la città di Maqam Ibrahim, al confine tra Turchia e Siria». Lì, dopo varie telefonate, indicazioni e messaggi, incontra l’uomo che l’aveva reclutato mesi prima quando era ancora in Tunisia e che, nel giro di poche ore, lo porta a Deir Ezzor, in Siria. Era l’autunno del 2014 e Mohamed, con la determinazione e la foga dei suoi 29 anni, si era appena arruolato tra le fila dello Stato Islamico.

«Non è facile, devi esseri resiliente», afferma mordendosi il labbro inferiore. «Gli uomini di Daesh ti mettono alla prova. Parlano un po’ con te. Controllano quanto ne sai di religione». Per quattro settimane segui solo lezioni di Sharia, la legge sacra dell’Islam. Nient’altro. «L’attenzione è su due concetti chiave: il tawhid, il monoteismo religioso, e alwalà wal barà, la lealtà totale alla religione islamica». Poi, l’addestramento sul campo. Un altro mese per imparare

ad uccidere. «Non so se tutto questo fosse giusto o sbagliato, ma finalmente sentivo di appartenere ad un gruppo, di avere una ragione di vita, una nuova identità».

La Tunisia è il paese con il maggior numero pro capite di foreign fighter al mondo. Secondo un rapporto delle Nazioni Unite, tra il 2011 e il 2015, circa 5.500 tunisini tra i 18 e i 35 anni si sono uniti alle fila dell’Isis e del Fronte al-Nusra, gruppo jihadista salafita affiliato ad al-Qaeda, in Siria, Iraq e Libia. Ad oggi, però, circa 1.000 combattenti sono tornati nel Paese, 800 sono attualmente in carcere e 200 sono stati liberati sotto controllo giudiziario.

Mohamed vive a Kalaa Kebira, un villaggio del Sahel tunisino a pochi chilometri da Sousse. Tra le ombre e il disordine di una casa modesta, afferra il suo cellulare. «Guarda», dice mostrandomi il volto di un ragazzo, «è iniziato tutto da qui». Da Mohamed Bouzazi, «il guerriero urbano, l’eroe, il martire». Quell’ambulante senza licenza di 26 anni che il 17 dicembre 2010 si dà fuoco davanti agli uffici del Municipio di Sidi Bouzid, il suo villaggio natale, un posto di polvere e poveri nel centro della Tunisia. Si immola alle 11,30 in punto, al grido di «come posso guadagnarmi da vivere?», perché dalle sue giornate di lavoro, precarie e moleste, dipende tutta la sua famiglia. Ma lo scontro con le forze di polizia locale, le pressioni, i ricatti, i soldi in cambio di autorizzazio-

ni, premono sul nervo scoperto della vergogna diventando un fardello, uno schiaffo alla sua integrità. «Il suo è stato un gesto di protesta, un grido disperato, l’appello al cambiamento», ricorda Mohamed. Quell’atto senza remissione che ha dato inizio, dodici anni fa, alla Rivoluzione dei Gelsomini, sfociata poi in quella che abbiamo imparato a conoscere come Primavera Araba.

Una sollevazione popolare, le facce e le voci della protesta, migliaia di giovani scesi in piazza contro il regime. Quell’ondata di contestazioni che coinvolse tutto il Paese, da Kasserine a Bizerte, e che nel giro di poche settimane portò alla caduta del governo dell’allora presidente Zine El-Abidine Ben Ali, al potere da 23 anni. E poi, la transizione democratica che durò anni, le promesse di sviluppo, l’impegno per le riforme: riduzione della povertà, diminuzione della disoccupazione, meno ingiustizia e più stabilità. Ma post-rivoluzione, tra caos e negligenza, poco o nulla migliorò. «Siamo stati illusi, ingannati, traditi», tuona Mohamed. Le aspettative dei giovani, umiliati dalla storia e dai loro leader, sbiadiscono per la noncuranza dei potenti, l’economia non riparte e, in una Tunisia sempre più instabile, cresce il malcontento. Il rapporto tra Stato e cittadini si incrina ulteriormente e, nella squallida attesa del niente, il vuoto politico, sociale e intellettuale viene riempito dalla propaganda dei gruppi jihadisti salafiti che,

Stato islamico
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Mohamed, 37 anni, ex foreign fighter tunisino, alla finestra di casa a Kalaa Kebira, a pochi chilometri da Sousse
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Foto: Nicole Di Ilio

sfruttando a loro vantaggio l’ambiente permissivo post-rivoluzionario, come il diritto di formare associazioni e raccogliere fondi per finanziare le proprie attività, si impegnano nella Da’wa, il proselitismo religioso. «Avevamo solo due opzioni possibili», sottolinea Mohamed. «Fare la fame e diventare delinquenti, o sposare la “causa”».

In meno di tre anni, Ansar al-Sharia (Ast), gruppo militante tunisino nato nell’aprile del 2011 e fedele ad al-Qaeda e allo Stato Islamico, recluta oltre 70.000 persone. Quando il governo, nel 2013, lo dichiara «gruppo terroristico» è ormai troppo tardi, perché si è già infiltrato nelle comunità locali capitalizzando le frustrazioni dei più giovani nei confronti delle istituzioni. «Ai loro occhi, diventa uno Stato nello Stato», precisa Oussama Helal, avvocato tunisino, ex docente di Diritto presso l’università di Tunisi. Il movimento organizza gli incontri religiosi che mancavano da tempo; condanna la laicità del Paese e promuove la propria visione del mondo sui social network; recluta proseliti per combattere in nome dello Stato Islamico in Siria e in Iraq. «L’unico che si prende cura della gente», sottolinea Mohamed.

Nel disorientamento generale, tra sconforto e incertezza, i giovani come lui trovano nell’estremismo violento l’unica risorsa possibile per elaborare il significato della propria condizione. L’ideologia religiosa – patto, voto, dedizione e impegno – riduce la complessità della vita sociale, diventando tregua da un passato inquieto, rottura con un presente instabile, soluzione per fuggire dal sistema. Il gruppo contempla l’inclusione, concede l’appartenenza, colma l’inadeguatezza di chi vive ai margini della società. Non più reietti, ma uomini impegnati.

C’è chi combatte, pattuglia, sorveglia, e poi riprende fiato, come fa Mohamed in territorio siriano, sempre pronto a sparare, kalashnikov puntato e occhi attenti. «Ricordo i cecchini, le bandiere nere dell’Isis, la cenere e il sangue a terra». Uno sparo, quel sibilo nelle

orecchie, un uomo saltato in aria, il proiettile in testa. Sul crinale della morte, la guerra è sempre presente. E la paura, implacabile. «Se fossi morto, non avrei più riabbracciato mio figlio», confessa con la voce rotta. Poi, la preoccupazione, il dubbio, il cedimento, la rinuncia.

Il ritorno in Tunisia, nell’estate del 2015. Subito, l’arresto. Il capo d’accusa: appartenenza ad un gruppo terroristico. «Sono colpevole, lo so», ammette nell’ombra della stanza, la testa un poco sollevata, le mani giunte, lo sguardo sfuggente. «Ma ho scontato la mia pena». Cinque anni al Mornaguia, il penitenziario più grande del Paese, a 14 chilometri da Tunisi. Sessanta mesi in una cella gelida insieme ad altre 47 persone. Sconosciuti. Occhi vuoti e volti senza nome. Corpi anonimi ammassati l’uno sull’altro in uno spazio ristretto, cupo, angusto, dove trasuda sangue e sudore, e si trascina l’assillo. Perché più volte al giorno, tra sbarre e cemento, si consuma l’offesa più grande. La tortura. Prima verbale, e poi fisica. Prima le minacce, poi la violenza degli agenti. Prima i «collabora o ti strappo le unghie», «la

vuoi sentire la lama del rasoio sui genitali?», «rispondi, altrimenti sei morto». Poi, «i tagli sulla pelle, le percosse, gli schiaffi in faccia», la sopraffazione, la sospensione del giudizio morale, il supplizio, «mani e piedi legati, la bocca imbavagliata, l’acqua addosso, la sensazione di annegare».

Tutto ancora lecito, nonostante l’articolo 23 della Nuova Costituzione – approvata nella notte tra il 26 e 27 gennaio del 2014 ed entrata in vigore il 10 febbraio dello stesso anno – proibisca «la tortura morale o fisica». Ma l’imperativo, oltre quei cancelli, è uno solo: ottenere informazioni. Perché tra le mura delle carceri, sempre più affollate e malsane, i detenuti per terrorismo condividono spazio e tempo con chi sconta pene per crimini minori. Uomini a volte fragili, psicologicamente indeboliti, vulnerabili, persi in una dimensione del tutto antisociale, richiamati dalle aspettative dell’eroismo arabo e, così, ricettivi alla “causa”, al Jihad, alle sirene dell’estremismo violento. Tra solitudine e similitudini, nell’immobilità dello spazio, nascono zone indefinibili di im-

Stato islamico
Manifestanti fronteggiano la polizia a Tunisi dopo la fuga di Ben Ali, il 14 gennaio 2011
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Gli islamisti tunisini partecipano a una manifestazione il 20 maggio 2012 a Kairouan slam – territorio dell’Islam – si erano uniti nelle fila dei militanti locali avversi al controllo dell’ateocrazia occidentale. «L’appello era, ed è, chiaro», puntualizza il presidente dell’Util. «No all’occupazione straniera e allo smembramento del mondo arabo; sì, invece, all’offensiva, alla resistenza, al ritorno alle origini, alle forme pure dell’Islam». Da allora, i centri carcerari sono diventati il punto ideale e funzionale per generare adepti e motivare le vocazioni di potenziali jihadisti. Aderendo, prima, alla visione di al-Qaeda e di Osama Bin Laden, poi a quella del suo braccio destro Ayman Al Zawahiri. Più tardi, anche a Daesh e al suo Califfo, Abu Bakr al-Baghdadi, sostituito prima da Abu Ibrahim al-Hashimi al-Qurashi, poi da Abu Hasan al-Hashimi al-Qurashi poco meno di anno fa. Ad oggi, in una Tunisia che annaspa, nulla è cambiato.

prevedibilità. Dove il contatto con l’altro, gli incontri, prima sporadici, poi sempre più assidui, lo scambio di idee, la “fraternizzazione” e la “familiarizzazione”, favoriscono quello che il carcere – luogo di disciplina e controllo – dovrebbe contenere: il pericolo di radicalizzazione.

«I centri di detenzione moltiplicano le possibilità di reclutamento», osserva Moez Ali, presidente dell’Unione dei tunisini indipendenti per la libertà (Util) che si occupa di prevenzione della radicalizzazione e dell’estremismo violento. «Chi entra per aver rubato o spacciato droga, con nessuna particolare inclinazione religiosa, ha alte probabilità di avvicinarsi all’Islam più radicale e, per osmosi interna, diventare uno jihadista». Non un fatto inusuale, anomalo, circoscritto, ma una realtà costante, conosciuta da tempo. Da almeno due decenni. Dai primi anni 2000. Da quando i giovani carcerati, durante i lunghi anni di detenzione, hanno iniziato ad assorbire i messaggi dei “veterani” dell’Iraq, centinaia di tunisini che, in difesa dei fratelli iracheni e del Dar al-I-

Non è bastata la legge 75 del 10 dicembre 2003 promossa ai tempi della dittatura militare di Zine El-Abidine Ben Ali per contrastare il terrorismo (dai 5 ai 12 anni di carcere): grazie alla quale, fino al 2011, sono stati processati

3.000 presunti terroristi, molti dei quali poi condannati sulla base di prove estorte con la tortura. Non sono bastati il pugno duro dei vari governi e gli oltre 7.000 arresti ordinati negli anni dopo la caduta del regime. E non è bastata neanche la legge successiva, quella del post rivoluzione, approvata il 25 luglio 2015, ancora più restrittiva: da 6 a 15 il numero di giorni in cui un sospettato può essere interrogato in un luogo segreto, senza avere contatti col mondo esterno e possibilità di pena capitale. «Il vero problema è la carenza di una strategia mirata e funzionale a lungo termine», spiega Fakhreddine Louati, ricercatore dell’Istituto tunisino per gli studi strategici (Ites). La mancanza di penitenziari dedicati con uno speciale regime di gestione – celle singole, riduzione delle attività collettive, divieto di comunicazione tra i detenuti; l’assenza di programmi di de-radicalizzazione, rieducazione e reinserimento sociale; la miopia dei sistemi di sicurezza. «Nessuno si chiede: che tipo di rapporti ha costruito il detenuto durante il periodo di detenzione?», precisa l’analista. «Su quali reti si è basato? E, soprattutto, dov’è finito dopo il fine pena?». Il dopo, appunto. Il domani. Di nuovo, il rischio e il pericolo. La frustrazione e la rivalsa. Quel desiderio di vendetta che – come chiarisce un report dell’Ites – è alimentato dal 90 per cento degli ex jihadisti incarcerati e dai nuovi proseliti. Potenziali cellule operative che, una volta fuori dal carcere, potrebbero essere pronte ad operare ovunque.

Perché la Tunisia di oggi, ancora in bilico tra corruzione e mancanze di prospettive, è ben diversa da quella che migliaia di persone scese in piazza in nomediMohamedBouazizisognavano 12 anni fa. Il debito pubblico è più che raddoppiato, passando dal 40 per cento del Pil nel 2010 all’ 85,5 per cento nel 2021, la disoccupazione giovanile tocca il 37 per cento, cifra che sale al 60 nel Sud del Paese, e il tasso di povertà supera il 20. «Si salvano solo i figli dei falchi al potere», mormora Mohamed scuotendo la testa. «Per noi, gente comune, resta solo rancore».

Foto: Getty Images (2) 31 dicembre 2022 89 Storie

LE RISORSE

Bacini prosciugati, campi inariditi. E poi alluvioni, frane e smottamenti. Come nelle Marche o a Ischia tra settembre e novembre. Da un lato l’abbandono del territorio, dall’altra lo spreco di un bene vitale come l’acqua di Maurizio Di Fazio

Ambiente
Deserto Italia da Enna a Sondrio Clima e incuria consumano il suolo e le poche piogge fanno disastri
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Fiumi in secca divenuti sentieri da trekking. Laghi trasfigurati in spianate riarse. Letti d’acqua prosciugati e arbusti secchi piantati in mezzo al nulla. Luoghi scenografici alla rovescia, inquietanti, immanenti. Italia, deserto. Non un’iperbole esotica ma una realtà mediterranea a tutti gli effetti. Sono le conseguenze della siccità dilagante. Non bisogna più andarsene in Africa o in Asia per restare abbagliati dai miraggi della sabbia arida sconfinata. Ecco cosa può comportare il cambiamento climatico contrassegnato dall’aumento sistematico delle temperature, dalle ondate di calore, dalla scarsità delle precipitazioni piovose (e nevose), dai terreni disa-

bituati ad assorbire l’acqua piovana. Il degrado progressivo del suolo fagocita ecosistemi oltremodo sensibili. Al resto provvediamo noi, sprecando lo sprecabile. Nel Belpaese è ormai a rischio di desertificazione tra il 20 e il 30 per cento del territorio e questa stima è destinata ad accentuarsi ulteriormente, viste le cronicizzate condizioni ambientali e meteorologiche. Un pericolo che pare irreversibile in Sicilia (dove è “polverizzabile” il 70 per cento del suolo), Puglia (57 per cento), Molise (58 per cento) e Basilicata (55 per cento). L’Italia come un nuovo e imprevedibile Sahara. Lo testimoniano, per ultimi, gli scatti del fotografo Gabriele Galimberti, vincitore l’anno scorso del World

Press Photo, che ha girato in lungo e in largo il Paese quest’estate insieme a Camilla Miliani. Il risultato è una pubblicazione dal titolo in apparenza paradossale: una “Guida turistica ai deserti d’Italia” all’interno del progetto “Acqua nelle nostre mani” di Finish. Eravamo in piena emergenza, ma è molto difficile che le cose si capovolgano. Nei prossimi mesi diventerà una mostra fotografica a Milano.

In Sicilia, in provincia di Enna, c’è il deserto di Pozzillo. Sì, avete letto bene. Si dipana per una superficie di 8 chilometri e l’abbiamo creato, per assurdo, noi. Al suo posto troneggiava uno dei più grandi bacini artificiali europei, con una capacità di 150 milioni di metri

Foto: Gabriele Galimberti
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Il deserto di Pozzillo, in Sicilia: 8 chilometri di terra arida al posto di un bacino artificiale da 150 milioni di metri cubi d’acqua

cubi d’acqua. Serviva a irrigare i campi agricoli circostanti, nella zona prosperavano gli agrumeti e persino un bosco di alberi di eucaliptus. Oggi la siccità l’ha cancellato, complice una manutenzione insufficiente. Nel Molise, tra Termoli e Campobasso, sotto un viadotto trafficatissimo, si staglia per quasi 8 chilometri il deserto di Guardialfiera, con le sue crepature geometriche perfettamente incastrate l’un l’altra. Il panorama si scolpisce seduta stante nella memoria. Fino a non molto tempo fa vi sorgeva un invaso generato dall’innalzamento di una diga sul fiume Biferno, per fornire acqua ai paesi della zona. Ora la natura matrigna se l’è ripreso. Con un unico contrappasso positivo, se vogliamo: quando il livello delle acque si annichilisce, come accaduto a luglio e agosto, riaffiora una passerella favolosa di cui si erano perse secolarmente le tracce. È il redivivo ponte di Annibale: si dice che l’intrepido condottiero cartaginese lo guadò per raggiungere la Puglia durante la seconda guerra punica. Altri esempi. In provincia di Teramo si profila il deserto del Salinello. È lungo 45 km e si snoda anche in altezza con punte di 200 metri. Le sue pareti di rocce mandano in deliquio gli amanti delle arrampicate. Insomma, un canyon dentro il parco nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga, circondato da grotte ed eremi. Il punto è che alla sua base dovrebbe scorrere tuttora un fiume, il Salinello, che deve il suo nome alle saline in prossimità della foce. Ma si è tramutato in un sentiero sterrato. Non lontano da qui, in provincia di Ascoli Piceno, sotto i Monti Sibillini, a un’altitudine di 1941 metri e intervallato da dune d’ordinanza, ecco il deserto di Pilato. Era un laghetto di origine glaciale, uno dei tanti in predicato di scomparire. E quelli che sembrano due occhi spalancati altro non sono che quel che resta dei bacini d’acqua dove sarebbe stato custodito, sulla scorta della leggenda, il cadavere di Ponzio Pilato. Due rimasugli di specchi liquidi alpini; uno sguardo affievolito dalla latitanza della neve, che potrebbe spegnersi per sempre. In provincia di Perugia fa straniante e asciuttissi-

ma mostra di sé il deserto del Trasimeno, sulle ceneri (parziali) del più celebre e omonimo lago. Un’immensa spianata friabile, fratturata da venature a mo’ di solchi giganti. Non dipende solo dal dio delle piogge. E dire che questo eden lacustre aveva riempito d’incanto scrittori come Virginia Woolf e Goethe. Ancora: ogni giorno più di 8 mila autoveicoli percorrono il ponte Paladini, a sud-ovest di Piacenza. Quando venne edificato, dieci anni fa, sovrastava il fiume Trebbia. Adesso galleggia sulla terra spoglia. Gli automobilisti si sono abituati a questo sinistro fondale emerso, che si solidifica incessantemente. In provincia di Sondrio è arduo non lasciarsi ipnotizzare dall’inconcepibile deserto di Montespluga, avvinto da catene montuose che ne fanno una sorta di cratere. Un landsca-

pe lunare nell’Alta Valchiavenna, sul limitare della Svizzera. Che poi all’inizio guizza una pozzanghera: un pallido, residuale retaggio di un lago “sintetico” che sprigionava una profondità di 67 metri nonché una capienza di 32 milioni di metri cubi d’acqua.

Italia, deserto, 2022. I risvolti esiziali non finiscono qui. Il deficit idrico è inesauribile, non piove mai e quando avviene si scatena spesso l’apocalisse. Alluvioni, frane e negligenze umane. L’ultimo evento estremo ha devastato a novembre Casamicciola a Ischia e prima ancora, a settembre, le Marche. I problemi idraulici sono una ferita aperta. Secondo Francesco Vincenzi, presidente dell’Anbi (Associazione nazionale consorzi di gestione e tutela del territorio e acque irrigue),

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Il lago di Guardialfiera, Molise. Sotto, il Ponte Gobbo, sul fiume Trebbia a Piacenza

«molti degli alvei oggi in secca sono stati, nel recente passato, protagonisti di disastrose esondazioni. I consorzi di bonifica monitorano il territorio di competenza, ma va sollecitata l’attenzione anche delle comunità locali perché un territorio arido è uno straordinario acceleratore della velocità delle acque di pioggia: le previsioni hanno dimostrato di non poterne determinare con precisione né la quantità, né le modalità». Basta sempre meno per innescare un disastro. Quanto alla siccità in generale, il nord-ovest sprofonda in zona rossa. I laghi principali crollano sotto le medie del periodo, con percentuali di riempimento sovente sotto la soglia del 10 per cento. Riserve idriche dimezzate ovunque, compresi i bacini montani e il fiume Po sotto il suo minimo storico: al centro-sud va un po’ me-

glio. «Urge aumentarle, trattenendo al suolo più dell’11 per cento di acqua piovana che attualmente riusciamo a stoccare, quando arriva», aggiunge Massimo Gargano, che dell’Anbi è il direttore. Le falde acquifere tricolori tendono al prosciugamento. Versano, per almeno un terzo, in pessimo stato. Nel 2020 si sono smarriti per strada, nei capoluoghi di provincia e nelle città metropolitane, 41 metri cubi giornalieri per chilometro. Un’enormità, il 36,2 per cento dell’acqua immessa in rete. E il nostro consumo pro capite resta tra i più elevati al mondo: ne consumiamo, per uso domestico, 152 metri cubi l’anno.

Si sono estinte le mezze stagioni, anzi le stagioni tout-court, ma dobbiamo entrare in un’inedita stagione di consapevolezza. Ridimensionando la dispersione idrica nelle case, nell’industria,

nell’agricoltura. L’acqua è il principio della vita ed è un bene sempre più prezioso, in via di rarefazione. È davvero il nuovo oro, blu. Cominciamo dai classici accorgimenti della micro-sostenibilità, un uso più accorto di docce, lavatrici, lavastoviglie: basta col voltarsi dall’altra parte, verso un passato che non c’è più. Quanto al surriscaldamento globale, il punto di non ritorno sarà pur superato ma facciamo e diciamo la nostra, diamo ascolto e voce ai giovani, strigliamo i governi, coltiviamo la buona stella. Limitiamo i danni. Altrimenti ci attendono solo lande desolate, vertigini brulle e sassose, spettacoli distopici alla Ballard. Un mondo anecumenico e argilloso, fuori dal tempo. E le oasi sono inganni della mente nel deserto che avanza.

Foto: Shutterstock (3)
Il terreno ghiacciato a Montespluga, Valchiavenna, provincia di Sondrio
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THE BAD GUY, LA COMMEDIA DISUMANA

Boss, trash e ironico cinismo in un inedito racconto sulla mafia: la mirabile serie con Luigi Lo Cascio

Ci sono le fiction che celebrano gli eroi uccisi dalla mafia, e ci sono le serie, che a volte trovano inedite chiavi per aprire forzieri nascosti. Èilcasodi“TheBadGuy”,incontrovertibile capolavoro di fine anno su Prime Video, che usa una ricchezza narrativa inusuale per raccontare a suo modo

che a Palermo il problema no, non è il traffico. Il gioco della black comedy dalla solida sceneggiatura è quello del cinismo impavido e della satira sottile, capace di ridere della tragedia in un mondo costantemente capovolto dove tutto si sbriciola, come il Ponte sullo Stretto. Ma quel che trasmette questa inedita modalità è che la mano della criminalità organizzata, in buona sostanza trasforma in miseria ciò che tocca. Perché quello delle Famiglie,delpizzoedelleostinatevendette è un mondo di devastante solitudine, di povertà intellettuale, piccineria affettiva. Giancarlo Fontana e Giuseppe G. Stasi come novelli Balzac dirigono una Commedia disumana giocata sul doppio, quel sottile confine che separa la tartaruga dal mare, incapace di scegliere tra prigionia e assoluta

libertà. Nel set surreale di un parco acquatico dove le orche masticano i campioni di omertà, il vero diventa sempre anche falso e il salto di campo è tenuto insieme da una costante narrativa forte come un evidenziatore, dove il giallo lasciato sulla scena non è un’esplosione di luce ma l’indice malsano di un rene cattivo. Così ogni elemento gioca su questo andare e venire, a partire dal corpo stesso di Luigi Lo Cascio (inaudito Lo Cascio) che cambia forma e linguaggio, portando il suo guizzo grottesco verso il fondo di un pozzo scandito dai colpi di scena. Il magistrato Scotellaro vive d’amore e di onestà e l’unica cosa sporca che lo accompagna sono i fazzoletti stropicciati sul naso gocciolante. Il suo alter ego invece, il cugino Balduccio dell’AmericadelSud,sirivestedirifiuti,perché lui stesso è stato rifiutato, reietto, cacciato di prepotenza dalla vita del prima. Acrilico come le camicie marroni, appiccicoso come i capelli schiacciati sulla fronte, l’improvvisato boss si imprigiona con le sue mani e trasforma la sua fisicità come i suoi giorni. Alla fine, al di là delle trovate, il fascino del montaggio circolare e quel desiderio di allargare con le dita lo schermo per renderlo cinema, ecco quel che rimane, in attesa della seconda stagione, è il cerchio che si chiude. E mentre i padri e Padrini si ritrovano ancora una volta ostaggi di una convivenza forzata, la dualità si unifica in un’unica certezza: «La mafia è una montagna di merda».

Streaming e no Corsi, ricorsi e nuovi esordi

Basta andarsi a cercare una foto di Bobby Helms (quattordicesimo nella classifica ufficiale delle vendite di dischi e terzo in quella di Spotify con la sua Jingle bells rock del 1957) per capire in che bizzarra e caotica situazione culturale ci siamo trovati nell’ultima settimana dell’anno di grazia 2022.

Il tempo, coi suoi cicli, corsi e ricorsi, aggiornati all’epoca degli algoritmi e della nostalgia canaglia, perché qualsiasi “prima” è per forza più bello di “ora”, gioca brutti scherzi al nostro senso della storia e delle proporzioni. Al primo posto c’è una tamarrata ispanica intitolata Quevedo: Bzrp music sessions vol. 52 intestato al duo Quevedo e Bizarrap, che già si fa una certa confusione tra titolo e nomi, ma questo sarebbe il meno. Al secondo c’è Lazza, eroe giovanile dell’anno, prossimo protagonista sanremese, e al terzo udite udite c’è Mariah Carey, che al suo 28° anno di All I want for Christmas continua a sbancare come se il pezzo fosse uscito ieri l’altro. E si tira dietro nel suo irresistibile vortice la solita Last Christmas, il sempiterno Bublé, e perfino Feliz Navidad di José Feliciano che, tra noi possiamo dircelo, è anche bruttina forte. Insomma il passato spara cartucce in ordine sparso e spesso centra il bersaglio. È l’effetto Natale, direte voi, c’è poco da fare, e infatti c’è poco da fare, ma perché debba toccare proprio a Bobby Helms che neanche nelle sue più fantasiose speranze avrebbe potuto immaginare nel 1957 che sarebbe stato in classifica in Italia nel 2022, rimane un mistero. Ma la situazione è molto più complessa, anche al di là della ricorrenza. Se andiamo a vedere la classifica degli album scopriamo che dopo i primi tre non natalizi dischi di Lazza, Pinguini Tattici Nucelari e Shiva, c’è... Franceco Guccini. Possibile? Ha fatto

Ho visto cose/tv
#musica GINO CASTALDO 94 31 dicembre 2022

un disco di Natale? No. Il suo vecchio album Radici è tornato in auge perché l’hanno usato in una serie televisiva? No. Guccini, dopo aver dichiarato che mai avrebbe messo mano a cantare, dopo lunghe tournée in cui ha stressato i suoi fan perché a cantare e suonare erano i suoi musici e lui si limitava a parlare, ha cambiato improvvisamente idea, e questo va a suo merito, e ha inciso un disco nuovo, ma nuovo davvero, un album di cover rispolverate dalle sue memorie antiche ma incise oggi, per la gioia dei suoi mai rassegnati fan. Per complicare ulteriormente la nostra capacità di comprensione, Guccini ha deciso di pubblicare il disco Canzoni da intorto, in totale controtendenza, solo come oggetto fisico, e quindi se si ritrova al quarto posto vuol dire che i dischi, volendo, ancora vendono, non come un tempo certo, ma comunque vendono, non sono estinti. Guccini canta Nel fosco fin del secolo e alcune migliaia di rappresentanti del passato che non vuole morire sono coraggiosamente usciti di casa, sono andati in un negozio e hanno acquistato una copia del disco. Il resto della classifica di fine anno è più rassicurante. Al quinto posto c’è Bublé, all’ottavo Jovanotti, al dodicesimo il disco di Natale della Bocelli Family che, anche questo in netta controtendenza, è un disco nuovo di zecca.

FABIO FERZETTI

IL ROMANZO DEL REGISTA GENIALE

Con lucidità talvolta spietata “The Fabelmans” è la storia di una scoperta: Spielberg e la settima arte

Ingmar Bergman girò “Fanny e Alexander” a 63 anni. Steven Spielberg ha aspettato i 76 per fare il film che covava da sempre. Normale: una materia così autobiografica e incandescente esigeva delicatezza e maestria assolute. Ma l’accostamento fra il genio di Cincinnati e quello di Uppsala non è così bizzarro. Fate caso al vecchio zio Boris, il circense sopravvissuto ai lager che rivela al nipotino Sammy (Gabriel La Belle) segreti e pericoli dell’arte, ogni arte. Non evoca forse, con tutte le differenze, il bergmaniano zio Gustaf? E la scoperta dei doni e dei poteri(ancheoscuri)del cinema, non corrispondeaquelladelteatronel capolavoro svedese? Naturalmente, più che dai drammi di Strindberg, Spielberg discende dai kolossal di C.B. De Mille, come ci ricorda quell’autentica scena primaria che corrisponde alla sua prima volta al cinema (con i genitori che già allora bisticciano). Il futuro autore di “Lo squalo” e di “E.T.” sa per istinto come superare l’angoscia generata dal terrificante disastro ferroviario di “Il più grande spettacolo del mondo” (De Mille, 1952): ricreando quella scena in casa, con un trenino elettrico e la cinepresa amatoriale paterna. Il resto viene da sé. Una volta acceso, quel “terzo occhio” non si spegnerà più. Consentendo a Sammy non solo di girare mini-kolossal domestici di ogni genere(horror,guerra,western)madi guardare la realtà - e i suoi genitoriin modo completamente nuovo. Con la lucidità talvolta spietata che solo

il cinema consente. Fecondata da un gusto dell’avventura e del fantastico che nasce forse per compensazione ma presto si fa esperienza virtuale, dono collettivo, insomma autentica e prepotente vocazione.

Su questo sfondo si snoda la più classica educazione sentimentale. Arric-

chita da peripezie sviluppate con tale abilità da rendere “The Fabelmans” un film pressoché perfetto, in cui il movimento costante dei personaggi (traslochi, separazioni, iniziazioni, umiliazioni, vendette...) scandisce inesorabilmente la crescita interiore del futuro regista. Fino a riunire le due anime della settima arte, quella d’azione e quella diciamo filosofica, in un autoritratto costellato di momenti memorabili che non sbaglia un colpo. Fino a quel doppio omaggio finale che fonde in un volto (e una benda) due età del cinema e forse della vita. Una gemma.

buio/cinema
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Scritti al
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“THE FABELMANS” di Steven Spielberg Usa, 151’ Bobby Helms

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Noi e Voi

RISPONDE STEFANIA ROSSINI

LO STIGMA DELLA MALATTIA MENTALE

Cara Rossini, voglio aprire lo scrigno delle mie memorie di medico e raccontare la storia di un vecchio malato di mente, da anni non più pericoloso, vittima però del pregiudizio secondo il quale un malato di mente, considerato pericoloso al momento del primo ricovero, lo rimane a vita. Niente di più falso! Il vecchio Pasquale (nome di fantasia), alla vigilia di Natale, ricevette, come di consueto, la visita del figlio che gli portava i sigari e un panettone. Questa volta l’uomo aveva con sé il più piccolo dei suoi figli, di appena otto anni, che non aveva ancora conosciuto il nonno. Entrato in reparto, il bambino vide il vecchio seduto in fondo a un lungo e freddo corridoio e timidamente si avvicinò, gli consegnò il panettone e lo baciò sulla guancia. Pasquale si commosse fino alle lacrime, che neanche volendo poteva asciugare, non disponendo nemmeno di un fazzolettino di carta. Il bambino lo guardò intensamente, gli si avvicinò ancor di più e, a sorpresa, gli chiese: «Nonno, perché domani, giorno di Natale, non vieni a mangiare con noi?». Pasquale rimase muto, ma il suo silenzio parlava, anzi, era assordante. Poi, disse: «Chiedilo a papà!». Avendo assistito a tutta la scena, profondamente commosso (e i medici non si commuovono facilmente) mi ritirai nel mio studio. Dopo pochi minuti, mi raggiunse il figlio di Pasquale che, con la voce rotta dall’emozione, mi comunicò la sua decisione di condurlo a casa non per qualche giorno, ma per sempre. Pensai che quella dimissione l’avevo proposta tante volte e non era stata mai accettata. In quella vigilia di Natale fecero il miracolo le semplici parole di un bambino, pronunciate in quel freddo corridoio del manicomio, nei pressi di un albero di Natale e di un presepe, due immagini simboliche della famiglia. La quale dovrebbe rimanere ricca di affetti nonostante la malattia, anzi, ancor di più nella malattia. È proprio vero quel che si legge nel “Talmud”: «Il mondo non si mantiene che per il fiato dei bambini. Il respiro dei bambini è un soffio delicato, ma indispensabile per tutta l’umanità, essendo la promessa sulla quale ciascuno di noi fonda le speranze in un futuro migliore». Salvatore Sisinni, Squinzano (Lecce)

Un manicomio, luogo degli ultimi, fa da scenario a questa toccante testimonianza con la quale il dottor Sisinni ci trascina in uno spazio incerto tra letteratura e realtà. Letteratura perché ha l’andamento di un racconto di Dickens. Realtà perché ci ricorda la tragica condizione dei veri o presunti “matti”, ai quali soltanto la riforma psichiatrica del 1978 (la famosa legge 180 che aboliva gli ospedali psichiatrici) ha cercato di restituire una vita accettabile. Ma Dickens sembra evocato anche nella critica alla società e ai suoi meccanismi di esclusione. Esplicita nello scrittore inglese, che abbracciava i temi sociali della rivoluzione industriale e accusava la borghesia di arricchirsi lasciando i lavoratori in condizioni miserabili. Più velata e sentimentale nell’autore della lettera, che individua nella famiglia il luogo dove può sedimentare il male diffuso di una intera società. Ricordandoci così anche i tempi che viviamo. Buon anno a tutti i lettori.

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Al Twiga si gioca con bilie Swarovski

Prende forma il Piano di Salvezza Nazionale delle spiagge italiane, fortemente voluto dalla ministra del Turismo Daniela Santanché. Come annunciato, al primo posto c’è il risanamento delle spiagge libere, piene di cicche di sigarette, lattine di birra, drogati, migranti, e per giunta senza smaltimento differenziato di tutti questi rifiuti. Verranno messe all’asta e finalmente assegnate ai privati.

L’accusa L’accusa di conflitto di interessi è stata respinta con sdegno da Santanché nel corso di una conferenza stampa alla quale si è presentata con la maglietta da bagnino e una cesta di cocco bello, cocco fresco da distribuire ai giornalisti. «Non c’è alcun conflitto di interessi - ha spiegato la ministra -, semmai c’è una totale armonia di interessi tra il mio ruolo pubblico e i miei interessi privati. Mi stringerò la mano quando, da ministro, firmerò a me stessa o a qualche mio collega la concessione di una spiaggia libera. La sinistra mi critica per la solita ragione di sempre: sono brutti, tristi, sfigati e dunque ci invidiano. Chi non vorrebbe sedersi, con gli zigomi rifatti e le labbra a canotto, su un divano leopardato sorseggiando un beverone con l’ombrellino mentre il deejay ripropone Sandy Marton e le hit dei favolosi anni Ottanta?».

Briatore Spalleggiando l’amica e socia di sempre, ha finalmente spiegato che cosa vuol dire veramente Twiga. Il nome della celebre spiaggia è un mix di “twenty”, che è il numero delle ostriche pro capite consigliate dallo chef, e “viva la figa”, che è la ragione sociale dei berlusconiani fin dall’inizio della loro straordinaria avventura. Non solo un marchio commerciale, ma una presa di posizione politica in piena regola.

Come procedere Le spiagge libere, oltre a essere in balia della prima famigliola spiantata con il suo ombrellone portatile da quindici euro, sono piene di alghe, conchiglie, meduse, tronchi alla deriva, granchi morti, ossi di seppia. In particolare questi ultimi, ricordando la poesia di Montale, rappresentano l’odioso ricatto degli intellettuali ai danni della genuina voglia di vivere degli

Il progetto della ministra Santanché per dire basta alle spiagge libere. Nessun conflitto: c’è totale armonia tra il suo ruolo pubblico e gli interessi privati

italiani. Nelle spiagge privatizzate, e bonificate a spese dello Stato, sulla battigia ci saranno ritrovamenti molto più positivi e dinamici. Reggicalze, tacchi del dodici consumati dalla salsedine, biglietti da visita di venditori pubblicitari e di chirurghi estetici, e per andare ulteriormente incontro ai gusti popolari le dentiere gratuite per tutti promesse da Berlusconi in campagna elettorale. I pedalò della flotta Twiga rilasceranno in mare, al largo, questi preziosi reperti, in modo che la risacca li trascini a riva, per la gioia dei bagnanti. Un bambino che raccoglie sulla spiaggia una dentiera per la nonna non è infinitamente meglio di un bambino che raccoglie una banale conchiglia?

Allo studio I mucchi di alghe sulla riva sono uno dei retaggi più tipici del mare quando era abbandonato a se stesso. Nel mare privatizzato le alghe saranno sostituite dagli algoritmi. Camminando a piedi nudi sul bagnasciuga, le impronte plantari verranno rilevate da raffinati algoritmi che scaricano sul vostro smartphone utili consigli su cosa acquistare. Sul bagnasciuga del Papeete, in omaggio a Salvini, ci saranno anche le suggestive banconote spiaggiate: accostandole all’orecchio si sente la voce degli evasori fiscali.

Capalbio Anche per la spiaggia di Capalbio è previsto un piano di bonifica e risanamento. Gli intellettuali di sinistra verranno sostituiti dagli intellettuali di destra, così che il distanziamento tra gli ombrelloni sarà molto maggiore: da uno ogni cinque metri, uno ogni cinque chilometri.

Giochi da spiaggia Al posto delle desuete bilie di plastica con la fotina del ciclista, il ministero promuoverà le nuove bilie Swarovski con la fotina dei manager.

PS – Dopo quasi vent’anni Satira Preventiva saluta i suoi lettori. Grazie di cuore per avermi letto. I giornali cambiano e ne hanno pieno diritto. A chi scrive il diritto di scegliere se rimanere oppure no. Auguri alla nuova gestione dell’Espresso, e un abbraccio fraterno alla redazione.

Michele Serra Satira Preventiva 98 31 dicembre 2022 Illustrazione: Ivan Canu

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