Ombre
ECONOMIA
IDEE
52
Editoriale
Prima Pagina
Il crinale della tregua Gigi Riva 12
Dissenso russo disorganizzato Maria Chiara Franceschelli 16
Lo smacco ucraino gela la festa Sabato Angieri 18 Diari di guerra graphic novel di Nora Krug 22 Sanzioni al fronte Guntram Wolff 26 Caro Pd, sei brutto però mi piaci Carlo Tecce 30 Anche all’opposizione divisi su tutto Gabriele Bartoloni 32
Il problema di Meloni sono gli amici Antonio Fraschilla 38
A chi fa paura che si parli di politica Paolo Di Paolo 44 Invertire la rotta per salvare la scuola F. Lorenzoni e A. Morniroli 48 Donne in lotta per l’Iran libero Hamid Ziarati 50 Trumpiani in festa, Giorgia una di noi M. Cavalieri e D. Mulvoni 52
Il paziente inglese, Labour risanato Luciana Grosso 56 Un reddito da cambiare Vittorio Malagutti e Gloria Riva 60 Sempre più poveri con l’inflazione colloquio con Massimo Baldini 62 Giovani senza lavoro, una palla al piede per il futuro Alessandro Rosina 65 Una macchina al posto tuo Alessandro Longo 66
Il mestiere del genitore Margherita Abis 70 Donne contro le disparità Silvia Andreozzi 72 Ultima chiamata per la Sanità pubblica Ivan Cavicchi 74 Salute mentale, cure a metà Jessica Masucci 76 Ragazzi isolati in casa, gruppi di aiuto per genitori Marco Benedettelli 78 Il sorriso amaro del leone ferito Daniele Mastrogiacomo 82 La sfida globale di Xi lo spietato Federica Bianchi 86
Idee
1978 Ufo sugli Appennini colloquio con Wu Ming di Sabina Minardi 88 Il bello di quel ramo del lago Emanuele Coen 94 Roma sotto i riflettori Fabio Ferzetti 98 Non siamo l’eccezione colloquio con Esther Newton di Simone Alliva 102 La musica cura il tempo colloquio con Petra Lang di Aisha Cerami 104 L’importante è recitare colloquio con Vanessa Scalera di Francesca De Sanctis 106
Storie
La tratta delle nigeriane passa per i pentecostali Alice Facchini 110 Allevamenti intensivi, la Ue non ferma le sevizie Pietro Mecarozzi114
Opinioni
Rubriche
La
COPERTINA
La parola
insofferenza
A ben guardare, si tratta della vera pa rolaombrellodiquestanuovaetàdell’an sia. L’epoca della crisi permanente vede un’insofferenza diffusa, a ogni livello. E i vari piani si tengono. L’iperindividua lismo e il narcisismo rendono tanti fragili e particolarmente insofferenti a tut to, in primis a quella complessità, cifra distintiva dei nostri tempi, per la quale esigono soluzioni semplicistiche. Gli individui tendono sempre più a brandire quello che il Censis ha chiamato «so vranismo psichico», manifestazione di un soggettivismo esasperato – e sovente rancoroso – su cui poggia l’orizzonta lizzazione (uno dei numerosi paradossi postmoderni) dell’«uno vale uno», che dissemina di ostacoli la convivenza e mi na il pluralismo. Al punto che pure certe fondatissime argomentazioni delle mi noranze si sono convertite di recente, in alcuni casi, in forme di ipersuscettibili tà (alla base della woke culture) le quali non rendono giustizia alla loro causa, né
a quei percorsi di integrazione che devo no ampliare i diritti e riconoscere le ra gioni procedendo verso equilibri sociali e culturali più consapevoli. E l’insoffe renza di gruppo (nel passato si sarebbe detto “di classe”) aumenta al cospetto della sofferenza sociale e dell’indifferenza altrui. Aprendo così praterie a quella rabbia sociale in cui sguazzano eletto ralmente i partiti neopopulisti. Attori politici che sono «banche della rabbia», come ha scritto il filosofo Peter Sloterdi jk. E pure «banche dell’insofferenza» nei riguardi dei metodi e delle tempistiche delle democrazie liberali. Confermando, così, che l’insofferenza costituisce una patologia non esclusivamente della psi che individuale, ma di un’intera società e fase storica, alimentata senza sosta dall’emotività che ha espugnato l’Occi dente già illuministico. E disperatamente e urgentissimamente bisognosa di cu re e rimedi che parlino tanto al cuore che alla ragione.
MASSIMILIANO
Il fantasma della bomba Sessant’anni dopo Cuba
Nel 1962 il confronto tra Stati Uniti
e Unione Sovietica portò a un passo dalla catastrofe nucleare. Oggi la minaccia di Putin appare come la mossa disperata di chi sta perdendo una guerra iniziata da lui stesso
Sessant’anni dopo la crisi dei missili cubani, il mondo torna a preoccuparsi della guerra nucle are. Era l’ottobre del 1962 e il mondo fissava quello che appariva come un cataclisma atomico, perché gli Stati Uniti avevano rilevato i missili nucleari a Cuba. E così bloccarono l’isola con l’i potesi di invaderla. I sovietici cedettero, rimuovendo le loro armi. L’America, se gretamente, rimosse i propri missili che aveva installato in Turchia. E l’annienta mento fu evitato.
I ricordi di quei tempi terrifican ti vengono rianimati dalla guerra in Ucraina. Vladimir Putin ha più volte av vertito che potrebbe ricorrere alle armi nucleari.
Inquestasituazionesnervante vale la pena ricordare che le terre ucraine che Putin sta per annettere non fanno par te della Russia. Inoltre, cedere al ricatto nucleare non farebbe altro che incitare l’invasore. L’Occidente ha commesso quell’errore nel 2014, in effetti, accon sentendo al furto della Crimea dall’U craina da parte di Putin.
Se il rischio di escalation nucleare cresce non è per la farsa dei referendum, ma perché Putin sta perdendo la guerra. Ha sempre presente il problema che la sconfitta significherebbe umiliazione e possibile rovesciamento. Per questo da
febbraio ha più volte brandito la minac cia nucleare. Avrebbe potuto usare le armi atomiche prima del referendum ma, nonostante le molte battute d’ar resto, non l’ha fatto. Allo stesso modo, l’annessione non lo obbligherebbe. Tut to questo è visto come un tentativo di sperato di un leader che sta perdendo la guerra.
Cosa fare? La Nato ha ragione ad aver chiarito che se Putin avesse sparato con una bomba atomica, le conseguen ze sarebbero state terribili. L’Occiden te dovrebbe convincere Cina e India a chiarire se anche loro sono contrarie a un attacco nucleare. E l’Ucraina, nel frattempo, dovrebbe andare avanti. Pu tin la scorsa settimana ha ordinato una mobilitazione in preda al panico di tre centomila soldati, causando grande ma lumore in Russia e la fuga di centinaia di migliaia di giovani che vogliono evitare il richiamo alle armi. Le proteste si stan no diffondendo e circa venti uffici di re clutamento sono stati attaccati. La Rus sia non sta ottenendo reali guadagni. Potrebbe anche aver fatto ricorso alla strana tattica di far saltare in aria i pro pri gasdotti, come quello di Nord Stre am, nella speranza che questo avrebbe spaventato l’Occidente. Nonostante le minacce di Putin, l’Occidente dovrebbe continuare ad aiutare gli ucraini a difen dersi.
DELLA TREGUA
Guerra in Ucraina/Gli scenari
Succede, talvolta, che l’acme di una crisi bellica corrisponda contro ogni evidenza all’avvio di trattative di pace. Le parole e i fatti sono andati talmente oltre che la prossima escalation sarebbe solo l’u so dell’arma nucleare. Putin l’ha evocata, sfumando e ri traendosi prima di una dichiarazione esplicita, e restrin gendo la possibilità dell’irreparabile ai casi di un attacco altrui o di una «minaccia esistenziale» al suo Paese. La Nato ha risposto che, dovesse lo zar ricorrere all’atomica, «tutta la Russia pagherà».
Che lo zar di Mosca contempli la catastrofe è il segno della violazione di un tabù che avremmo voluto essere sempiterno. E non consola la spiegazione che si trattereb be di una bomba nucleare tattica, di ridotte dimensione sì, ma dagli effetti più devastanti dell’unico precedente di Hi roshima e Nagasaki. Lo farebbe, Putin, se, pescando dalla sua biografia, si dovesse trovare nelle condizioni del topo. Ama infatti narrare che quando era ragazzo in una strada di San Pietroburgo si trovò davanti a un topo, lo mise nell’angolo, cercò di afferrarlo e l’animale gli morse la ma no. La morale: mai lasciare un topo senza una via di fuga. Passati gli anni e capovoltisi i ruoli la domanda è: crede
CIRCOLI DIPLOMATICI CIRCOLA UN’IPOTESI DI COMPROMESSO NON DIVERSA DA QUELLA PROSPETTATA DA
MUSK. PASSA DA UN ACCORDO TRA LE DUE SUPERPOTENZE AMERICA E CINA
Putin di essere nella situazione di quel topo? La guerra sta andando male. Voleva prendersi tutta l’Ucraina nel volgere di pochi giorni, non ce l’ha fatta mal misurando le capacità del suo esercito e la reazione coraggiosa di un popolo che voleva «liberare dai nazisti». Ha dovuto registrare la fuga in massa di oltre duecentomila renitenti alla leva dopo aver proclamato la mobilitazione parziale. Il consenso in terno, comunque ancora relativamente alto, sta calando. Affiorano critiche anche sui media di regime. È attorniato da falchi che gli consiglierebbero di alzare il tiro, e abbia mo visto cosa significa. Può temere di essere rovesciato dai suoi gerarchi o dai militari? È quello che almeno in Oc cidente piace pensare partendo dal presupposto peraltro indimostrato che «dopo» chiunque sarebbe meglio di lui.
Le ipotesi si accavallano e nelle ipotesi ci si può perdere: in realtà cosa succeda dentro e fuori le mura del Cremlino è un mistero, essendo la cittadella del potere moscovita più impenetrabile dei tempi di Breznev quando i cremlinologi potevano almeno decrittare il «chi sale chi scende» da im percettibili segnali che comunque filtrava no. Infine ha dovuto registrare a Samar canda i malumori circa la sua condotta da alleati, o almeno non ostili, come la Cina e l’India.
Eppure Putin una via di fuga ha creduto di potersela aprire con il referendum farsa nelle quattro regioni di Do netsk, Luhansk, Zaporizhzhia e Kherson. Dopo l’annes sione ratificata in pompa magna, si è detto pronto a tor nare a un tavolo negoziale nel caso Kiev fosse d’accordo per un cessate il fuoco. Avrebbe potuto raccontare alla propria opinione pubblica la storiella della vittoria e degli obiettivi raggiunti perché è riuscito a riportare nella ma dre patria i fratelli separati che abitano nelle aree conqui state . La mossa gli sarebbe riuscita se non fosse caduta nel momento di massima efficienza delle truppe ucraine che stanno riguadagnando città e posizioni approfittando dello sbandamento e dell’inefficienza di un esercito di
VALLI
Prima
tutta evidenza inadeguato al disegno imperialista del suo duce. Volodymyr Zelensky ha firmato un decreto che san cisce «l’impossibilità di negoziare con il presidente della Federazione russa Vladimir Putin». Una capriola della storia impronosticabile a febbraio, fattasi via via più con creta dall’estate in poi e ora si avvicina l’ inverno, stagione difficile per la conduzione di una guerra che è anche di trincea. Zelensky si sente in una posizione di forza e ne vuole approfittare ma è con il nemico che si tratta. Può essere sia convinto che la stella dello zar sia al tramonto. O che il peso dei troppi morti lo obblighi alla rivincita, no nostante debba mettere in conto altri lutti.
Se l’Ucraina ha resistito e passa al contrattacco è stato per l’appoggio in consiglieri militari e materiale bellico forniti dall’Occidente, in primis gli Stati Uniti, a ruota gran parte dell’Europa. Il Vecchio Continente paga quella che è an che la difesa dei propri valori con una crisi economica preoccupante, un’inflazione che non si vedeva dagli Anni Ottanta, le bollette di gas e luce a livelli siderali. E si chiede quale sia il prezzo finale della de mocrazia e dei diritti. Il che significa, tra dotto: fino a che punto siamo disposti a
seguire il desiderio di Zelensky di riprendersi tutto il terri torio ucraino, Crimea compresa? E ancora: è l’armata ucraina in grado di sostenere da sola tale sforzo senza un ausilio militare diretto che significherebbe ufficializzare lo scontro Nato-Russia con conseguente (probabile) uso dell’atomica perché Putin sentirebbe la «minaccia esi stenziale»?
È proprio lo scenario apocalittico ad aprire la strada per una chance negoziale. Strada assai stretta per approdare non proprio a una pace ma almeno a una tregua. Zelensky non accetterà mai l’amputazione di un sesto del suo Paese. Putin non rinuncerà mai ai territori annessi. Eppure il lin guaggio diplomatico si presta a nuance, sottigliezze, eufe mismi, dilazioni. E nonostante prese di posizione acciglia te fanno capolino ipotesi di soluzione delle cancellerie che non sono poi così dissimili da quelle evocate dal chiacchie rato miliardario sudafricano-canadese Elon Musk. Il cui piano lanciato via Twitter e da molti deriso prevede: l’U craina neutrale (niente ingresso nella Nato); la Crimea par te della Russia come lo è di fatto dal 2014 e come lo è stata dal 1783 al 1954 quando Krusciov la cedette all’ Ucraina; un referendum da rifare nelle regioni annesse dai russi sotto la supervisione delle Nazioni Unite (ma servirebbero garan zie ben più solide per assicurare una consultazione equa sotto il tallone degli attuali occupanti). In pratica un conge lamento della situazione di fatto in attesa di una definizio ne di là nel tempo per abbassare la temperatura: è poco, ma è sempre meglio della carneficina quotidiana. Per quanto arrivi da un personaggio bizzarro, è una versione aggiorna ta del realismo cinico geopolitico. Non è strano che se ne faccia portavoce un imprenditore multimiliardario. Il busi ness, a esclusione del complesso militar-industriale, ha in odio le guerre perché rallentano gli affari. Una preoccupa zione condivisa dal regime cinese del capitalismo di Stato che vede minacciata la sua crescita.
Resta da capire la prossima mossa degli Stati Uniti di Joe Biden, sinora generosi nel rifornire l’arsenale ucraino. Hanno stanziato un altro miliardo di dollari poco più di una settimana fa in previsione di un conflitto lungo. Per eterogenesi dei fini potrebbe essere un tassello della co struzione di un equilibrio di forze utile alle trattative. È sempre più chiaro che una soluzione negoziale, stante l’o stinazione dell’aggressore e le buone ragioni dell’aggredito, passa da un accordo tra le due superpotenze America e Cina. In gioco infatti non ci sono solo gli oblast ucraini ma gli equilibri strategici di un intero pianeta.
Gigi Riva Giornalista Il tema del conflitto tra Russia e Ucraina è affrontato anche da Bernardo Valli nella sua rubrica a pagina 122Guerra in Ucraina / La contestazione
DISSENSO RUSSO
DISORGANIZZATO
DI MARIA CHIARA FRANCESCHELLI
Nella società civile russa si scorge un grande vuoto. Subito dopo il 24 febbraio, la popolazione contraria all’invasio ne dell’Ucraina si è riversata nelle piazze con proteste spontanee, diffuse tramite passaparola sui social, re presse con violenza. Tra febbraio e marzo vi sono stati più di 15.000 arresti, spesso accompagnati da gravi abusi e infrazioni procedurali.
Prive di un centro organizzativo e coordinatore, le proteste di inizio marzo si sono pian piano affievolite sotto le violenze delle forze dell’or dine, e hanno lasciato il posto al cosiddetto guerrilla activism: “micro proteste” incentrate sul piano simbolico, azioni sparse e organizzate in maniera orizzontale, senza leader né masse. Volantini anonimi, statuet te, nastri, graffiti, performance e simili iniziative (celebre il caso di Alexandra Skochilenko, arrestata e torturata dopo aver
sostituito i cartellini dei prezzi di un supermercato di San Pietroburgo con bigliettini denuncianti il massacro dell’esercito russo in Ucraina) sono sbocciate in molte città, a ribadire l’esistenza di un dissenso sotterraneo, che però non trova una valvola di sfogo.
Non è un caso, infatti, che le proteste contro Putin e la sua guerra abbiano seguito questa traiettoria. All’alba del 24 febbraio, la popolazione russa dissidente si è tro vata priva di un’infrastruttura verso cui convergere, in grado di raccogliere e organizzare il dissenso, di fare re ale opposizione extraparlamentare alle decisioni del go verno, e di entrare in dialogo, o in scontro, con le élite politiche. In maniera speculare, le capaci tà dell’apparato repressivo del Cremlino sono ora ai massimi storici, con un appa rato di pubblica sicurezza estremamente efficace, e una propaganda capillare. Questo stallo non è incidentale: è il risul tato di un’operazione attenta e lungimi rante durata vent’anni.
Maria Chiara Franceschelli Analista politicoSpiega Maria Kuznetsova, portavoce di Ovd-Info, organizzazione per i diritti uma ni e a supporto dei prigionieri politici: «È
fondamentale capire che la repressione del dissenso in Russia non è iniziata il 24 febbraio, ma nel 2000». Dal suo insediamento, Putin ha progressivamente eroso il margi ne di azione della società civile russa, stringendo la morsa su più fronti. Dal punto di vista legislativo, tre sono gli snodi fondamentali: la legge sulle Ong del 2006, la legge sugli «agenti stranieri» del 2012, e la legge contro le «fake news» del 5 marzo scorso.
La prima ha introdotto una serie di criteri ammini strativi che, di fatto, sottopongono le Ong a costante mo nitoraggio e pressione da parte delle autorità. La legge consente poi lo scioglimento delle organizzazioni che rappresentano «una minaccia per la sovranità naziona le, l’integrità territoriale, l’unità e indipendenza politica e l’interesse nazionale»: una definizione vaga che dà alle autorità ampio margine di manovra.
La legge sugli «agenti stranieri» riconosce come tali enti o persone che operano su territorio russo «facendo gli interessi di Paesi terzi», o che ricevono fondi dall’e stero. Ciò ha costretto molte Ong a recidere i rapporti con partner stranieri, e a rinunciare ai fondi dall’estero. Di conseguenza, molte hanno dovuto chiudere i battenti o, nella migliore delle ipotesi, reinventare la propria atti
vità in maniera de-politicizzata, e cercare finanziamenti dallo Stato.
Infine, la legge contro le «fake news» prevede fino a quindici anni di detenzio ne per chi diffonde «informazioni false» sul conflitto in corso, e ha costretto molti media indipendenti a sospendere la co pertura della guerra in Ucraina, lascian do carta bianca all’apparato di propagan da del Cremlino.
Prima
fra il 2019 e il 2021. Dopo l’arresto di Navalny nel gennaio 2021, il suo Fondo contro la corruzione (Fbk) è progres sivamente collassato sotto il peso della violenza di Stato: le sedi dell’organizzazione sono state assaltate dalle for ze dell’ordine, i collaboratori perseguitati.
Fbk, però, aveva già mostrato i propri limiti: con le pro prie rivendicazioni di natura morale, si è sempre tenuto lontano dalle esigenze di natura strettamente economica, pur legate alla corruzione politica, che interessano gran parte della popolazione russa, soprattutto nelle aree rura li. Di orientamento liberal-nazionalista, Fbk ha escluso inoltre molti gruppi sociali, come le minoranze etniche. Questi fattori, insieme alla pressione statale e alla natura verticistica di Fbk, incentrato sulla figura del fondatore, hanno fatto sì che, col leader in carcere, il movimento per desse la propria capacità di mobilitazione.
Altre importanti proteste di massa risalgono al 2018. In risposta all’aumento dell’età pensionistica, il Partito co munista russo (Kprf) lanciò manifestazioni in tutto il Pa ese. La grande affluenza spinse il presidente russo a tor nare sui suoi passi, ma non si tradusse in maggiori con sensi per il Kprf. Il partito rimase inscritto nei meccani smi dell’«opposizione controllata», molto frequente nelle cosiddette autocrazie elettorali, per cui in un sistema tecnicamente pluripartitico i partiti di opposizione con tribuiscono in realtà a preservare gli equilibri di potere governati dalla maggioranza. Non a caso, fu proprio il lea der del Kprf Gennadii Zjuganov a presentare in Parlamen to la mozione per il riconoscimento dell’autonomia delle repubbliche separatiste di Donetsk e Luhansk, appog giando il progetto di «denazificazione» dell’Ucraina.
CON LE LEGGI SU ONG, AGENTI STRANIERI E FAKE NEWS, PUTIN HA DISARTICOLATO L’OPPOSIZIONE DELLA SOCIETÀ CIVILE. IMBRIGLIANDO QUELLA POLITICA. NUOVI SEGNALI DI RISVEGLIO DALLE PERIFERIE
Oltre agli aspetti formali, la morsa sulla società civile ha coinvolto anche strategie informali, come intimida zioni, abusi e violenze. L’avvelenamento di Navalny, ad agosto 2020, ha rappresentato l’apice di questa tenden za, ma si tratta della punta dell’iceberg: prima e dopo di lui, dissidenti, giornalisti, attivisti, agitatori hanno subi to incarcerazioni arbitrarie, perquisizioni, minacce e violenze, che organizzazioni come Ovd-Info e testate indipendenti come Meduza, Novaja Gazeta, Dozhd han no documentato.
Proprio a Navalny sono legati gli ultimi episodi di mo bilitazione «di massa» in Russia: la campagna mediatica contro la corruzione e le proteste a sostegno del leader,
Vent’anni di politiche volte a soffocare la società civile da un lato, e gli sviluppi dei principali episodi di mobili tazione recenti dall’altro: è evidente come la Russia di Putin sia stata privata di un’infrastruttura in grado di or ganizzare il dissenso in un fronte coeso. In questo vuoto pneumatico, però, si scorgono delle novità: le proteste contro la mobilitazione militare scoppiate negli ultimi giorni nelle aree periferiche della Russia aprono un capi tolo inedito dell’azione collettiva. Spinte nuove vengono dai margini: bisognerà guardare a Dagestan, Buriazia e Jakuzia per scorgere le nuove crepe del dissenso in un Paese sempre più autoritario.
LO SMACCO UCRAIN
PARATA PROPAGANDISTICA DOPO IL
SULL’ANNESSIONE CANCELLATA
DALL’AVANZATA DELLE TRUPPE DI KIEV. DECISIVA LA STRATEGIA DI PUNTARE SULLA CATENA DEI RIFORNIMENTI PER RIPRENDERSI LE CITTÀ
DI SABATO ANGIERI DA KRAMATORSK (DONETSK UCRAINO)
a voce era quella di sempre e, da lontano, anche il volto sembrava la stessa maschera di ghiaccio. Ma quando le telecamere hanno stretto l’obiettivo su Vladimir Pu tin, al centro dei quattro nuovi governatori, per un attimo la diretta è sem brata sospesa. Uno sguardo carico di sfida, un sorriso d’odio che dagli occhi alle labbra se michiuse si è trasmesso dietro lo schermo. Contemporaneamente, a Kramatorsk, capo luogo del Donetsk ucraino e obiettivo prima rio dell’invasione russa, iniziavano a cadere le prime gocce di quella che di lì a poco si sareb be trasformata nell’ennesima pioggia torren ziale. Come molti corrispondenti, anch’io il 30 settembre mi sono fermato in un luogo con una connessione Internet sufficiente per assistere alla cerimonia in cui il presidente Putin avrebbe proclamato l’annessione alla Federazione russa dei quattro territori sepa ratisti e occupati d’Ucraina.
Sul palco di Mosca si muovevano degli uo mini dall’aria un po’ incredula, impacciati nei vestiti eleganti. Ma il capo li ha ridestati stringendoli a sé e raccogliendo le mani di tut ti ha iniziato a urlare «Rus sia, Russia» come si fa nell’hockey, sport di cui è giocatore e appassionato.
Sabato Angieri GiornalistaTutta la sala, dai ministri agli oligarchi, dai militari alle si gnore con le pettinature co
tonate ha scandito quel coro congiungendosi idealmente con il suo leader in quel momen to storico. Le telecamere l’hanno inquadrato di nuovo e lo sguardo di prima è diventato più chiaro: il lupo messo alle strette ha ringhiato più forte, il sorriso si è allargato e i suoi occhi piccoli si sono illuminati di una luce strana e terribile: sembrava che chiedessero al mondo «E adesso cosa farete?».
Stando alle parole pronunciate poco prima e secondo la costituzione russa, modificata proprio dallo stesso Putin, i quattro territori annessi «ora sono parte della Russia e lo sa ranno per sempre». Servirebbe una nuova maggioranza assoluta in Parlamento in gra do di cambiare nuovamente la costituzione per sciogliere questo vincolo. Uno scenario altamente improbabile, se non utopistico, al meno per il momento. E quindi «il nuovo or dine mondiale non più basato sul dollaro e sull’egemonia americana» Vladimir Putin ha voluto inaugurarlo così, con una festa a corte, nel Cremlino che ricorda sempre più una ver sione oscura della Versailles di Luigi XIV, e una in piazza di fronte al suo popolo.
A quel punto a Kramatorsk il diluvio era scoppiato e, nonostante i tuoni, ogni tanto si riusciva comunque a distinguere i boati dei colpi d’artiglieria. Su Internet si sono moltipli cate le teorie su quale sarebbe stata la rispo sta ucraina, soprattutto in virtù del fatto che un attacco ai nuovi territori annessi dalla Russia, che in realtà sono territori ucraini se condo tutto il resto del mondo (tranne la
UCRAINO GELA LA FESTA
Guerra
Fronte Donbass
Corea del Nord e qualche astenuto, come la Cina), avrebbe potuto comportare una rea zione spropositata di Mosca. L’aveva detto, tra i tanti, anche l’ex presidente russo e ora vi ce-capo del Consiglio di sicurezza nazionale, Dmitry Medvedev: «Le armi nucleari strategi che della Russia saranno utilizzate a Kiev e Leopoliincasodiattaccoaiterritoriannessi», aggiungendo,inoltre,cheinquelcaso«Zelen sky sarà un obiettivo legittimo per la Russia».
Il giorno seguente, il 1° ottobre, in Russia si festeggia la giornata nazionale dell’esercito. Una ricorrenza particolarmente significativa quest’anno dato il protagonismo delle forze armate negli ultimi mesi. E tuttavia, la festa dei generali russi è stata guastata dalla più importante vittoria ucraina dall’inizio della guerra, ovvero la riconquista di Lyman. «Le nostre truppe si sono ritirate da Lyman», ha fatto sapere il ministero della Difesa russo, retto dal sempre più criticato Sergei Shoigu. Quanto sarà costato scrivere queste poche parole e doverle presentare a una classe poli tica ancora sotto i postumi del rito del giorno prima e a un’opinione pubblica illusa sull’in vincibilità del proprio esercito non è difficile immaginarlo. Anche Ramzan Kadyrov, il lea der ceceno, si è espresso sulla ritirata da Ly man criticando aspramente i comandanti russi. Sul suo canale Telegram, Kadyrov ha
LE BOMBE
Una famiglia in fuga dal fronte di guerra. Una donna osserva un edificio distrutto a Kramatorsk
lanciato un’invettiva contro Alexander Zhu ravlev, il comandante del Distretto militare occidentale russo, reo di essere al suo posto solo grazie al «nepotismo» che dilaga nell’e sercito di Mosca. L’appello non è caduto nel vuoto e a inizio settimana il presidente Putin ha sostituito Zhuravlev con il tenente genera le Roman Berdnikov. Il ceceno aveva inoltre esortato il Cremlino a «prendere misure più drastiche« come «l’uso di armi nucleari tatti che». Anche perché, secondo la teoria di Mo sca, si tratta del primo dei «nuovi territori russi» che gli ucraini riconquistano e quindi, tecnicamente, sottraggono alla Federazione russa. Tuttavia, la liberazione di Lyman indi ca che Kiev è disposta a proseguire la guerra nonostante le minacce del nemico.
A tale proposito è utile analizzare le ultime mosse sul campo per comprendere il perché dei successi fulminei della controffensiva
Prima
ucraina. Secondo diversi analisti e per am missionedialcunepersonalitàvicineaZelen sky, come Mykola Bielieskov, ricercatore dell’Istituto nazionale di studi strategici, gli ucraini hanno trascorso settimane ad analiz zare le linee di difesa russe e prima di lanciare l’attacco sono riusciti a identificare quasi esattamente dove la tenuta del fronte fosse più precaria. In estrema sintesi, in molti punti gli sbarramenti degli invasori erano costituiti da una sola linea, dipendente in tutto e per tutto da alcuni centri logistici. Kupyansk, ad esempio, era uno di questi. Quando i fanti so no riusciti a sfondare all’altezza di Balakliia, l’obiettivo seguente era Izyum. Tuttavia, l’arti glieria ha iniziato a bersagliare Kupyansk. Perché? Tutta la logistica verso Izyum passa va da Kupyansk, i rifornimenti di cibo, carbu rante, munizioni, quasi tutto ciò di cui un esercito ha bisogno. L’artiglieria ha colpito senza sosta e poi le truppe di terra hanno oc cupato la città. Una volta presa Kupyansk, i russi sono stati praticamente costretti a la sciare Izyum.
L’obiettivoseguenteeraLyman.Ma,ancora una volta, gli ucraini non si sono diretti diret tamente verso la cittadina, rischiando di per dere una gran quantità di uomini negli scon tri frontali. In questo caso il centro logistico che garantiva gli approvvigionamenti russi
Un residente locale nella sua auto nel villaggio di Dolyna nella regione di Donetsk
era a Svatove, nelle retrovie russe. Allora gli artiglieri di Kiev hanno iniziato a bombarda re Svatove con Himars e Mlrs. Stando ad alcu ne rilevazioni satellitari, in circa 72 ore gli ucraini sono stati in grado di colpire almeno 5 obiettivi strategici diversi a Svatove, tra i qua li il centro di comando del 144° reggimento di Mosca. Nel frattempo, la fanteria ha iniziato ad accerchiare Lyman villaggio dopo villag gio, senza fretta ma costantemente. In ultima analisi: Lyman è diventata indifendibile per i russi senza che gli ucraini portassero un solo attacco diretto alla cittadina e, di conseguen za, senza spreco di soldati. Un militare lo ca pisce quando lo stato maggiore si preoccupa dell’incolumità delle truppe e gli ucraini de vono senz’altro essersi sentiti protetti. Con ogni evidenza, i fanti russi si sono sentiti ab bandonati, se non apertamente sacrificati.
Ora, è plausibile pensare che gli ucraini si indirizzeranno verso Kreminna. La sua con quista permetterebbe di interrompere la li nea ferroviaria che arriva a Svatove e, in que sto modo, si taglierebbero i rifornimenti ai reparti di Mosca di stanza sul fiume Oskil. La caduta di Svatove avrebbe un effetto a catena su tutta l’area e permetterebbe, in teoria, di orientare tutti gli sforzi verso il quadrante di Rubizhne-Lysychansk-Severodonetsk. Un successo ucraino in quest’area sarebbe la vera débâcle per Mosca.
I soldati di Kiev continuano a dimostrare evidentiprogressinellapreparazione,mentre dall’altro lato i nuovi coscritti russi vengono e verranno spediti al fronte con una o due setti mane d’addestramento sulle spalle e, a quan to sembra, il morale sotto gli anfibi. Tuttavia, molto probabilmente a breve l’avanzata ucraina rallenterà e l’arrivo di un numero in gente di soldati russi cambierà di nuovo gli equilibri.
Purtroppo, questo breve e non esaustivo resoconto dal campo si chiude con un tetro interrogativo che ci riporta al ghigno del po tere. Per quanto ancora Vladimir Putin sop porterà di essere con le spalle al muro sul campo da gioco che egli stesso ha scelto per provare al mondo la sua potenza? Se ha senso affermare che la guerra in Ucraina è entrata in una nuova fase non è solo in virtù dei suc cessi che sta riportando l’esercito di Kiev, ma soprattutto perché il protagonista di questa tragedia, la Russia, ha scelto di limitare anco ra i possibili finali.
Settimane 25, 26 e 27
La guerra continua. K., giornalista ucraina, e D., artista russo, i protagonisti dei diari che l’illustratrice Nora Krug sta realizzando dall’inizio del conflitto, riportando e disegnando le loro testimonianze, continuano a raccontare le loro esistenze stravolte. L’Espresso sta pubblicando “Diaries of war” contemporaneamente ad altre testate internazionali, in esclusiva per l’Italia. Con il passare delle settimane,
la stanchezza è sempre più atroce: le famiglie restano divise e i pensieri dilaniano: è giusto possedere un’arma ed essere pronti a usarla contro altri esseri umani? K., che ha perso amici, che ha dovuto trasferire i figli in Danimarca, che assiste da mesi alla distruzione del suo Paese, ribadisce il suo no: «Do troppo valore alla vita umana». Sul fronte opposto, D., che non condivide la guerra, che sente anzi la vergogna di essere cittadino del Paese invasore, e che è in cerca di un posto dove
andare a vivere in libertà, si pone la stessa domanda: «Ho pensato a cosa succederebbe se venissi arruolato in questa guerra e ho deciso che non porterei con me un’arma. Sono pronto ad andare in prigione se questo è il prezzo da pagare. È stato il governo russo a iniziare questa guerra e io non combatto dalla loro parte». Una dichiarazione tragica di fronte alla mobilitazione richiesta da Putin. E all’esodo di questi giorni, di chi sfugge alla coscrizione. Sabina Minardi
Europa Oggi
Già nel 2014, dopo l’annessione della Crimea, la Russia è stata sottoposta a un regime di sanzioni dall’Ue. Sebbene queste sanzioni non abbiano impedito a Putin di ordinare l’invasione dell’Ucraina nel febbraio 2022, nel loro insieme hanno indebolito in modo signi ficativo la capacità della Russia di condurre una guerra. A nove mesi dall’inizio dell’inva sione, risulta chiaro quanto le sanzioni abbia no danneggiato l’economia e le capacità mili tari della Russia. L’Italia, essendo un Paese europeo chiave, dovrebbe quindi mantenere e inasprire le sanzioni con i suoi partner per ridurre ulteriormente il potere militare ed economico del regime di Putin.
L’economia russa risente sempre più delle conseguenze della guerra. Il Fmi prevede un crollo economico russo del 6%. Secondo uno studio dell’Università di Yale, dall’inizio dell’invasione oltre 1.000 aziende occidentali hanno lasciato la Russia, invertendo circa 30 anni di investimenti stranieri. Queste azien de, con i loro ricavi ed investimenti, rappre sentano circa il 40% del Pil russo e circa un milione di posti di lavoro. Oltre all’esodo delle aziende, si osserva anche una fuga di cervelli. Più di 500.000 russi hanno già lasciato il Pae se, e di questi circa il 50% ha un alto livello di istruzione o, per esempio, ha lavorato come operaio specializzato nel settore tecnologico.
Si registrano inoltre sempre più perdite di produzione a causa della mancanza di mate riali, fattori produttivi e tecnologie, soprattut to per quanto riguarda semiconduttori, chip e componenti di precisione. Sulla base dei dati forniti dai partner commerciali della Russia, si può notare che le importazioni rus se sono diminuite fino al 50%. Le sanzioni non riguardano solo i Paesi sanzionatori (60% delle esportazioni), ma anche i Paesi non sanzionatori (- 40% delle esportazioni). L’e sempio della Cina è particolarmente degno di nota: invece di far entrare sempre più aziende cinesi nel mercato russo, le esportazioni cine si si sono ridotte del 50% (da 8 miliardi di dol lari al mese a 4 miliardi). Pertanto, le sanzioni indeboliscono significativamente la base eco nomica della Russia e, in particolare, impedi scono l’accesso a tecnologie critiche.
Il mix di sanzioni severe nel settore tecno logico e il ritiro delle aziende high-tech occi dentali ha un impatto concreto anche sulle forze armate russe. La Russia non può sosti
SANZIONI AL FRONTE DI GUNTRAM WOLFF
Senza la tecnologia occidentale tutta la Russia è in difficoltà. Soprattutto le forze armate. Una politica che funziona e che dovrebbe essere rafforzata
L’AUTORE
Guntram Wolff è direttore e amministratore delegato del Consiglio tedesco per le relazioni estere (Dgap). Fino a giugno 2022 è stato direttore del Bruegel Institute di Bruxelles. Insegna, fa ricerca e pubblica su temi di economia politica europea, cambiamenti climatici e geoeconomia, politica monetaria e fiscale
tuire le perdite di materiale militare con si stemi d’arma di nuova produzione. Le san zioni attuate nel 2014 hanno anche indeboli to le forze armate russe a livello strutturale.
Per esempio, hanno reso impossibile l’acqui sizione e la produzione dei caccia stealth Sukhoi Su-57, dei bombardieri Pak Da e delle portaelicotteri francesi. Senza questi pac chetti di sanzioni, il corso della guerra con tro l’Ucraina avrebbe potuto essere significa tivamente diverso.
I nuovi pacchetti di sanzioni stanno aven do un impatto sulle forze armate russe anche perché l’industria della difesa russa è ancora fortemente dipendente da parti e componen ti importati dall’Occidente. Per esempio, la produzione di diverse armi moderne di difesa aerea (9K37 Buk, 9K22 Tunguzka) ha dovuto essere interrotta a causa della mancanza di elettronica importata; anche la produzione di missili da crociera H-101 soffre per la man canza di componenti taiwanesi, olandesi, statunitensi e svizzere. Sebbene le scorte fos sero immense, la Russia sta esaurendo le pro prie risorse di missili da crociera moderni e non è in grado di reintegrare la produzione. La capacità di attacco di precisione di Mosca è già fortemente limitata.
Il ritiro di molte aziende occidentali ha
quindi inferto un duro colpo, finora irrepara bile, all’industria russa della difesa. Le forni ture esistenti sono limitate o esaurite e i ri fornimenti non possono essere prodotti au tonomamente dalla Russia.
Le esportazioni di combustibili fossili so no state la spina dorsale del potere sovietico e rimangono centrali per il potere di Putin oggi. Le esportazioni di materie prime, in particolare gas e petrolio, rimangono la prin cipale fonte di reddito della Russia, rappre sentando fino al 60% delle entrate statali. Tuttavia, le sanzioni energetiche dell’Ue adottate finora non hanno ancora avuto un effetto significativo. Si pensi che la sola Ue ha pagato quasi 100 miliardi di euro per i combustibili fossili russi dall’inizio dell’inva sione, pur continuando a soffrire per gli alti prezzi energetici globali.
Il problema principale è che le sanzioni so no state discusse a lungo, ma le restrizioni effettive alle importazioni sono arrivate mol to tardi o sono ancora in sospeso. Da un lato, ciò ha permesso alla Russia di trovare nuovi clienti. Dall’altro le esportazioni verso l’Euro pa sono proseguite. Il continuo dibattito sul le sanzioni contro il più importante esporta tore di gas e il secondo esportatore di petro lio al mondo ha fatto salire i prezzi del mer
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IL TEMA
Le sanzioni imposte alla Russia dal 2014 hanno indebolito notevolmente il Paese, anche se non hanno potuto evitare la guerra. Una guerra di cui l’economia russa sta soffrendo molto: calo delle importazioni, mancanza di tecnologia bellica, fuga di cervelli. Il problema principale rimangono le sanzioni energetiche dell’Ue. Discusse troppo a lungo, non hanno portato a un successo significativo, al contrario
cato mondiale. Nel frattempo, come previsto, Putin ha cambiato le carte in tavola e sta sanzionando l’Europa con una notevole ri duzione delle sue esportazioni di gas. Gli alti prezzi dell’energia in tutta Europa - anche in Italia - non possono quindi essere attribuiti alle sanzioni, ma piuttosto all’esitazione dell’Ue in materia di sanzioni energetiche e all’ulteriore riduzione su scala globale dell’e missione di gas della Russia.
Nel complesso le sanzioni hanno indeboli to in modo significativo le capacità economi che e militari della Russia. L’Italia e i suoi partner dovrebbero mantenerle e rafforzarle ulteriormente, soprattutto nel settore ener getico, per continuare a sostenere l’Ucraina. Nel settore energetico, tariffe punitive sulle importazioni di energia russa sarebbero sta te un modo più efficace per ridurre rapida mente le entrate di Putin e mantenere i prez zi moderati, senza mettere a rischio la sicu rezza energetica globale. Nel medio-lungo termine, tuttavia, è necessaria una svolta verde per porre fine alla domanda globale di combustibili fossili, principale fonte di reddi to per molte autocrazie.
Traduzione di Amanda Morelli e Nicholas TeluzziUna notizia è falsa indovinate quale
Questa settimana Satira preventiva vi propone un gioco non a premi. Nel senso che se indovinate la risposta esat ta non vincete niente, dimostrando la vostra comprensione per lo stato di insolvenza dell’editoria italiana nel suo com plesso. Seguiranno sei notizie, una sola delle quali è falsa, tutte le altre vere. Dovete individuare la notizia falsa. Mi è doveroso aggiungere che questo giochino non è affatto originale. È molto dif fuso, ormai da anni, tra i mestieranti della satira ancora in attività, e serve a mettere in luce una novità sociale e semantica sempre più evidente: la condizione umana sta diventando la parodia di se stessa. Sempre che non lo sia sempre stata. Siete pronti?
1 Una ragazza, a Roma, è stata picchia ta dal fidanzato perché rifiutava di fare sesso a tre con il cognato, non adeguan dosi agli standard indicati da Youporn, e dunque gettando discredito sociale sul le persone coinvolte. La madre dei due, indignata dallo sciagurato rifiuto della ragazza, ha cercato di sequestrarla, per impedirle di andare dai carabinieri e di contravvenire così sgarbatamente alle indicazioni di Youporn, condannando i suoi due figli all’emarginazione e al di leggio.
2 Una giovane influencer, per incre mentare il suo traffico su OnlyFans, ha mostrato il culo allo stadio di Bari, otte nendo immediato riscontro. Le persone disposte a diventare fan su OnlyFans di una ragazza che mostra il culo allo sta dio di Bari sono molte migliaia. Questo fa pensare che, per imitazione, presto saranno molte migliaia anche le persone che mostrano il culo allo stadio di Bari, fino alla saturazione del ciclo (tra non so quanti anni): quando tutti mostreranno il culo allo stadio di Bari, mostrare il cu lo allo stadio di Bari sarà irrilevante, e si passerà ad altre attività esemplari.
3 Alcuni collaboratori domestici di un popolare influencer lo hanno denuncia to perché lui li avrebbe costretti a danza re insieme a lui su TikTok, infuriandosi
perché non andavano a ritmo. Non si sa se l’influencer abbia trascurato di met tere in regola un paio di filippini a causa della loro totale inadeguatezza al samba, al rock’n’roll e al merengue, oppure per una dimenticanza; sta di fatto che la de nuncia non è solamente per danza non consenziente, ma anche per mancato versamento dei contributi.
4 Un gruppo di ospiti di una casa di riposo della Bergamasca, suggestionati dal porno on line, hanno tentato un’orgia collettiva, diretti da un assistente sociale, ma hanno fallito a causa dell’età molto avanzata. La richiesta di Viagra, indi rizzata alla direzione sanitaria, è stata respinta, inducendo ad atti di autolesio nismo alcuni degli anziani. Altri hanno sporto reclamo al Tar del Lazio, altri an cora interverranno alla prossima puntata de “La vita in diretta” per spiegare la loro posizione.
5 L’umanità è alle soglie di una guer ra atomica, provocata da un naziona lista russo paranoico che sostiene che i confini della Russia sono spirituali e non geografici, e risalgono al Medioevo, e dall’ostinata opposizione di un comico ucraino, per il quale il Medioevo non è un copione divertente. Terzo personag gio, un prete pazzo, di religione cristiana, che sostiene che morire per restaurare il Medioevo non è affatto una cattiva idea, e anzi garantisce il paradiso. Il principale antagonista del nazionalista russo è un vecchietto americano, ceramizzato da strati di pomate o or mai incapace di muovere i lineamenti del volto, che invita l’Europa a farsi radere al suolo pur di testimoniare la fedeltà al famoso Occidente, così detto perché sta tramontando. Nomen omen.
6 C’è un Paese nel quale le donne che sciolgono i capelli possono esse re imprigionate, picchiate e ammazzate, e nel quale è considerato reato professare altre religioni. Sono sicuro che molti di voi diranno: è sicura mente questa la notizia falsa, è troppo mostruosa per essere vera.
Vi proponiamo un gioco senza premi. Serve solo a mostrare come la condizione umana sia diventata la parodia di se stessa, se non lo è sempre stata
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S
i potrebbe pigramente annotare che si tratta di “lettere a un par tito mai nato”. Che peraltro fu il titolo di un libro di Francesco Rutelli, illustre fondatore dem, dato alle stampe nella fase di concepimento di Api, la presto dimenticata Alleanza per l’Italia (2009). Oppure si po trebbe cinicamente osservare che si tratta di “lettere a un partito già morto”. E invece elettori e militanti del Pd, a differenza di previsioni, psicanalisi, sondaggi, non han no reagito con la frenesia della classe diri gente che si addenta in Direzione e si av venta sul Congresso. Va ammesso: la di stanza emotiva non sorprende.
In questi giorni alla casella di posta (non soltanto elettronica) del segretario uscente Enrico Letta sono arrivate centinaia di let tere, l’Espresso ne ha visionate decine e ve ne propone un campionario. Ci sono le cri tiche, aspre ovvio; ci sono gli attestati di sti ma, forse più del previsto; non ci sono, e qui si disintegra il pensiero dominante, troppi rimpianti per il campo largo diventato “camposanto” o accorati appelli a repulisti e scioglimenti. Il contrario. Al Nazareno elettori e militanti spediscono in maniera spontanea - non inseguiti per strada o sco vati nei circoli - messaggi di orgoglio per replicare anche al segretario che ha convo cato il congresso. Il popolo democratico cerca la rifondazione di qualcosa che è na to, perché nato è, parecchio storto. Non cerca la fondazione di qualcosa di nuovo, perché nuovo non lo sarà mai davvero, per illudersi ancora. Tommaso sfoggia una pro fondità politica che al Nazareno hanno smesso di adoperare da tempo: «Trala sciando la questione delle mancate allean ze, la mia attenzione va alla campagna elet torale che è stata sbagliata e per la quale serve autocritica. La proposta elettorale è stata caratterizzata troppo da tematiche massimaliste e tipiche di battaglie identita rie del ’900. A ciò si sono ag giunte dichiarazioni estem poranee sul recente passa to e la strategia della deni grazione dell’avversario: poca contemporaneità e prospettiva, oltre che il mancato coraggio di un giudizio serio sull’operato del governo Draghi. Non
Carlo Tecce GiornalistaIl futuro della sinistra
è inoltre opportuno sottacere sulla mo dalità “chiusa” di scelta delle candidature e l’imposizione di troppi nominati nel prossi mo Parlamento, e peggio ancora di espo nenti politici, senza una casa sicura sopra lo sbarramento, nelle liste del Pd che allo stesso tempo non ha però dato ospitalità a energie nuove individuabili fra la società civile, l’associazionismo e i mondi produtti vi. Altri elementi di riflessione che rimetto alla tua attenzione riguardano l’annuncio di un Congresso Costituente e l’assenza di novità nelle quattro fasi proposte. Un con gresso in stile secolo scorso, camuffato da moderno sarebbe un errore imperdonabile non sanabile dalla sola proroga del tessera mento - che proponi come prima fase - pro babilmente idonea a dare una casa a chi ha già avuto un seggio gratis in Parlamento o a far rientrare in silenzio ex esponenti del Pd». Claudio stringe a sé il 19 per cento e respinge l’istinto (auto)distruttivo che abi ta a sinistra: «A differenza di quanto sta ac cadendo, io volevo distinguermi e compli mentarmi con lei. Sì, lo dico sinceramente, perché penso che lei abbia fatto il possibile, rimanendo nei confini della decenza. Si può perdere con dignità e decoro, perché a forza di seguire sondaggi e pancia dell'elet torato questo Paese non riconosce più cosa sia giusto o sbagliato, di buon senso oppure no. Stiamo diventando tifosi, come nel cal cio. Si riflette sempre meno e si vota sempre più con disinvoltura. Sufficienza. Adesso c'è chi sostiene che sia indispensabile cam biare nome e sciogliere il partito. Tutte cose assurde che purtroppo avvengono sempre e soltanto a sinistra. Questo male endemi co che ci porta all'autolesionismo non lo capisco e francamente mi stanca anche un po'». Filippo della provincia di Firenze è fer mamente convinto che i Cinque Stelle sia no forestieri da non accogliere: «Non sem pre le buone e giuste idee riescono vincenti, ma non per questo in caso di sconfitta de vono essere rinnegate. Era giusto non legar si a movimenti inaffidabili (M5S), aprirsi invece alla sinistra (Fratoianni e Bonelli), cercare convergenze verso il cosiddetto “terzo polo”: non è andata bene, pazienza. Occorre dirlo: eravamo nel giusto, ma di nuovo è uscita fuori l’anima conservatrice e populista dell’Italia». La questione Cinque Stelle è divisiva, Carlo è la nemesi di Filip po: «L’Italia vi ha punito per la vostra
ANCHE ALL’OPPOSIZIONE DIVISI SU TUTTO
DI GABRIELE BARTOLONI
Il termine “opposizione”, almeno per ora, dovrà essere declinato al plurale. Davanti a una solida maggioranza di centrodestra, le forze dell’ex campo largo si ritroveranno a giocare nella stessa metà campo ma per squadre avversarie. I rapporti personali sono al minimo storico, le visioni sul Paese sono spesso opposte. C’è chi si mostra intransigente verso il prossimo governo e chi, al contrario, promette collaborazione «se farà cose giuste». A comporre la frammentata galassia d’opposizione ci sarà il Terzo polo di Azione e Italia Viva, il Movimento 5 stelle di Giuseppe Conte, l’Alleanza Verdi-Sinistra di Bonelli e Fratoianni e, infine, il Partito Democratico, la cui sopravvivenza, dopo l’ennesima batosta elettorale, è ormai messa in discussione perfino dai dirigenti. Non una, bensì quattro minoranze che alle elezioni del 25 settembre hanno ottenuto complessivamente 158 seggi alla Camera e 79 al Senato. Il resto è andato tutto al centrodestra, assicurandosi la maggioranza assoluta di entrambe le Aule. La debolezza dell’opposizione, infatti, sta in primo luogo nei numeri. Numeri che però rappresentano la diretta conseguenza dei litigi che hanno preceduto le elezioni. Gli stessi, in sostanza, che ora rischiano di pregiudicare un’azione compatta dell’opposizione contro lo strapotere della destra. La campagna elettorale ha scavato un fossato tra i partiti.
Elly Schlein. A sinistra: Stefano Bonaccini. Entrambi potrebbero essere candidati alla segreteria del Pd
arroganza e perché vi siete divisi dai 5S quando potevate lavorare insieme. Se vole te potete rimediare e lavorare di nuovo in sieme e basta con l'arroganza che non vi porta da nessuna parte». Teresa, altra to scana, indica a Letta la struttura dirigente: «Sai meglio di me che il problema del Pd non è il segretario. Da tempo, parlo da iscritta, il partito si logora in guerre tra ban
SPESSO PREVALE L’ORGOGLIO DI PARTITO. “SOLO GLI ISCRITTI POSSONO SCEGLIERE IL SEGRETARIO”. MA MOLTI DICONO: “PRIMA DI TUTTO DOBBIAMO AVERE CHIARA LA NOSTRA IDENTITÀ”
Prima
de ed è diventato un ceto governativo per dendo contatto con la società. Vivo in To scana e lo tocco con mano». Davide da Pia cenza inorridisce alla parola congresso, snodo che conduce a partiti più piccini non più inclusivi: «La soluzione non è il con gresso. Un congresso ci porta a dividerci su mozioni e tesi e organigrammi a livello na zionale, regionale e locale. Difficile con frontarsi su scenari, temi, obiettivi e pratica politica. Quindi il congresso a nulla serve se non a dividerci ulteriormente a dismettere un pezzo di gruppo dirigente. Facciamo fuori un segretario dopo l'altro. Poi finiran no anche le persone adeguate». Anche Marco da Vercelli, e sono tanti, probabil mente la maggioranza, non si fida delle an tiche liturgie di partito: «Il passaggio con gressuale, che dovrà essere in primo luogo
Le urne e la legge elettorale hanno fatto la loro parte. E il post elezioni, infine, è stato caratterizzato da uno continuo scambio di accuse sulla responsabilità di aver favorito il trionfo della coalizione di centrodestra.
«Non ci sarà nessun dialogo con questo gruppo dirigente», ha detto Giuseppe Conte riferendosi ai vertici del Pd. Letta?
«Non l’ho più sentito». Le parole del presidente del M5s la dicono lunga sui rapporti (pessimi) che intercorrono tra gli ex alleati. Conte ora accarezza il sogno di guidare il fronte progressista scippando la leadership a un Pd sempre più in affanno. I risultati delle elezioni, del resto, hanno consegnato ai Cinque Stelle un risultato al di sopra delle aspettative: oltre il 15 per cento con tanto di exploit al Sud. Non solo: alla destra del Pd, il Terzo polo punta dritto sulle elezioni europee del 2024 per fare del partito di Letta quello che Macron fece
con i socialisti francesi: prosciugarli. «Non staremo né con Cinque Stelle e Pd né con il centrodestra», ha promesso Renzi. In realtà il leader di Iv ha già fatto sapere che su alcuni punti sarà ben disposto a collaborare con la maggioranza. Sui temi energetici, sulle riforme costituzionali e sul reddito di cittadinanza, il tandem Calenda-Renzi viaggia distante dall’opposizione e in sintonia con il centrodestra. Entrambi puntano su gas e nucleare, così come tutti e due sarebbero pronti a ridimensionare (se non ad abolire) il sussidio caro ai 5 stelle e sostenuto dal Pd. Nei prossimi giorni i nuovi eletti si riuniranno per eleggere i presidenti di Camera e Senato. Grazie alla maggioranza assoluta il centrodestra avrà carta bianca. Il centrosinistra resterà a guardare. Stessa cosa potrebbe accadere con l’elezione dei presidenti delle commissioni parlamentari. Quelle di controllo e garanzia (come il Copasir) spettano all’opposizione, ma difficilmente - viste le condizioni - Pd, M5s e Terzo Polo riusciranno a trovare una quadra su un nome unico. Il Copasir è un organo ambito e delicato, soprattutto in un periodo caratterizzato da tensioni globali. E le divergenze in ambito geopolitico non mancano. M5S e Avs, al contrario di Pd e Terzo polo, si sono sempre opposti all’invio di nuove armi all’Ucraina. Non è escluso che il sostegno militare a Kiev, una volta insediato il nuovo governo, possa diventare oggetto di un altro passaggio parlamentare, provocando così un’ulteriore ed evidente spaccatura. L’ennesima.
Il futuro della sinistra
di rifondazione o di ricostituzione, deve essere riservato completamente agli iscritti al Partito. L'attuale organizzazione con gressuale riserva agli iscritti solo la scelta della “linea politica”. La scelta del segreta rio, magari fra due candidati con linee pro grammatiche opposte, viene offerta agli elettori, ai simpatizzanti, finanche a forze politiche antagoniste purché ben organiz zate, che potrebbero quindi eleggere segre tario - alle primarie - il candidato sconfitto nella competizione riservata agli iscritti. Da questa consapevolezza nasce anche il distacco di molti iscritti alla vita attiva di partito. Ritengo sia necessario portare la scelta dell'identità del Partito, della linea politica e del segretario nella disponibilità dei soli iscritti; sarà poi compito del segre tario eletto far avvicinare al Partito i sim patizzanti, gli elettori e i cittadini che si ri conosceranno nelle nostre proposte». Ser gio da Brescia vorrebbe separare le cose e rimetterle in due cassetti distinti della sto ria politica della Repubblica: «Sono di sini stra e per questo, a fronte dei risultati otte nuti, credo che il progetto “centrosinistra” non abbia più spazio, non vedo più le con dizioni perché il “centro” ha sminuito alcu ne cose e la “sinistra” ne ha sminuite altre, la somma non può dare più alcun vantag gio. Forse sarebbe opportuno che si tor nasse ad avere una Dc ed un Pci entrambi forti ma con idee chiare. Ognuno per sé e poi al momento delle elezioni si vedrà co
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me lavorare per creare uno spazio comu ne». Per Valentina, in qualche modo, Melo ni è un’ispirazione: «Io vi dico grazie per non esservi alleati con M5S solo per tenta re di vincere le elezioni. Non sarebbe stata un’alleanza credibile e nemmeno duratura. E se c’è bisogno di qualcosa in questo Pae se è la stabilità. Il M5S ha rotto l’alleanza che teneva in piedi il governo Draghi. E la loro politica non rappresenta gli elettori del Pd, perciò grazie per essere stati fuori da questa improbabile Unione. Rivendica telo, almeno questo. Giorgia Meloni vince anche per la coerenza, è ora di essere coe renti anche a sinistra!». Silvia ha paura che si tenti un fatuo colpo mediatico: «Fai qualcosa di davvero progressista e rimani. Hai costruito una linea di partenza, hai la vorato, imparato, sbagliato, capito. Su tut to questo il Pd ha bisogno di capitalizzare. Se tu abbandoni, si cambierà segretario per non cambiare nulla. Il Pd deve andare avanti, non cominciare sempre da capo. E poi sono i livelli intermedi che non funzio nano, sono i salotti romani che vanno ripu liti, non i vertici. E non seguire le sirene della donna segretario. Quello è un altro tema. Tu rimani sul tuo e riforma il Pd. Ve drai che le donne avranno un ruolo centra le in questo». La sigla a un dirigente dem: fare opposizione non vuol dire fare sempre l’opposto di quello che si aspettano elettori e militanti.
Senza lotta alle ingiustizie sinistra è una parola vuota
Poiché la vita ci ha allenato a trovare opportunità anche nei guai, la vittoria del centro-destra alme no un’opportunità ce la dà. Sdogana il termine “de stra”, visto che Fratelli d’Italia, partito orgogliosa mente di destra, è la spina dorsale della coalizione vincitri ce, avendole portato quasi il 60% dei voti raccolti; destra conservatrice neoliberista e destra autoritaria, che cerca no una convivenza, come altrove nel mondo. Ma qui ci interessa l’altra faccia della meda glia: l’opportunità di sdoganare, allora, anche il termine “sinistra”.
Intendiamoci. Sinistra non è parola che apre magicamente chissà quali porte. Forse fra una parte della mia generazione. Ma susci ta sguardi sospettosi in larghe masse di giova ni che pure sono in tutto e per tutto impegnati contro le ingiustizie. Non sorprenda. Nascosta dal prefisso “centro-”, quando non irrisa come un rudere, essa è stata usata spesso per coprire azioni che proponevano in realtà la conservazione o il rammendo dell’esistente. Sdoganare la “sinistra”, dunque, non ci inte ressa per la parola, ma per le idee che ci possono stare die tro. Di questo vorrei dire qualcosa. Perché la possibilità di affrontare le grandi disuguaglianze del nostro tempo, di ricacciare mostri e paure, di ritrovare un rapporto armoni co con l’ecosistema dipende da quelle idee, che chiamerò “di sinistra”. Dalla possibilità che, oltre a essere praticate da un vasto fermento di pratiche sociali, imprenditoriali e di vita, a cui continuamente noi del Forum Disuguaglianze e Diversità e moltissimi altri facciamo riferimento, quelle idee divengano il patrimonio dinamico di un partito orga nizzato, che non c’è.
Diciamolo prima in generale. Essere - anche senza sa perlo o volerlo dire - “di sinistra” vuol dire osare, e agire per attuare la visione di un modo alternativo, più giusto di vi vere. Ritenendo che, di fronte all’entità delle disuguaglian ze, al succedersi parossistico di crisi, all’evidente insoste nibilità del nostro attuale modo di produzione e di orga nizzazione della vita, si debba e si possa cambiare paradig
RIPARTIRE DAL BASSO PER CAMBIARE UN MODO DI PRODURRE E DI VIVERE CHE PRODUCE DISUGUAGLIANZE INSOPPORTABILI. UN’AGENDA PER I PARTITI
Invece di muovere dai ceppi originari di quelle idee - tan to si capirà subito che il riferimento è all’incontro anti-fa scista fra il meglio delle culture liberale, social-comunista e cristiano/sociale-cattolico/democratica, che produce l’idea di “libertà sostanziale” dell’articolo 3 della Costitu zione - vediamo di che si tratta. Lo faccio senza pensare di saper fissare qui o altrove i canoni contemporanei del pen siero di sinistra. Ma al tempo stesso convinto, come nel dialogo con Fulvio Lorefice per Donzelli (“Disuguaglianze Conflitto Sviluppo”), che dal pensiero e dall’azione di tanti e tante possiamo ricavare alcuni, chiari tratti.
ma, con urgenza e radicalità; anziché eternamente ricucire, costruire resilienza attorno a una normalità che conviene solo a pochi ed è insostenibile. Questa imposta zione generale muove dal recupero di un’idea di noi uma ni, lontana sia dal grottesco riduzionismo neoliberista, che si inventa la nostra specie come mossa solo dall’egoi smo, sia dall’arrogante deriva iper-illuminista, che ci im magina capaci di prevedere e costruire il futuro in modo quasi deterministico. In realtà, siamo intrisi anche di un istinto al mutuo soccorso, alla fratellanza e sorellanza, a comportamenti di reciprocità e dono: il tema è lavorare a costruire dispositivi che ci spingano, che ci rendano possi bile valorizzare questa parte di noi, senza nascondere nel cinismo la nostra paura di non riuscirci. Ma nel fare ciò, dobbiamo ricordarci che siamo in grado di prevedere solo in modo assai impreciso l’effetto delle nostre azioni e che i processi di cambiamento non sono lineari e dunque che sempre dobbiamo attrezzarci a intercettare in tempo l’im previsto e adattarci a esso.
Su queste basi possono poggiare tre fra i tratti più signi ficativi di un pensiero e di un’azione personale, collettiva o pubblica “di sinistra”. Prima di tutto, è “di sinistra” conside rare primario il riequilibrio di potere come strumento per sanare le molteplici subalternità che si intersecano e com pongono nella società: la subalternità di chi controlla solo
il proprio lavoro (e non anche il capitale, materiale e im materiale, di cui il lavoro ha bisogno per essere produtti vo), delle donne in un contesto che resta patriarcale, dei gruppi etnici minoritari o di recente migrazione, dell’inte ro ecosistema soggetto alla specie che l’evoluzione cultu rale ha reso temporaneamente più potente. È questo il tratto di moltissime pratiche e proposte che fanno parte del patrimonio sottoutilizzato del Paese: strumenti per in nalzare i salari, per stroncare il lavoro irregolare e precario, per reinserire in società i più poveri o fragili, per eliminare il part-time involontario delle donne, per liberarle da oneri squilibrati e obbligatori di cura, per dare diritti e voce indi pendentemente dall’origine etnica, per produrre energia in modo comunitario, per consentire a ogni persona di ra gionare sul proprio genere. È questo anche il tratto che rende chi è “di sinistra” avverso a ogni forma di concentra zione del controllo e favorevole, nel mercato, alla concor renza, nell’agone democratico, al dialogo sociale ad ogni costo. Il che ci porta agli altri due tratti.
Essere e agire “di sinistra” vuol dire ritenere e agire affin ché ogni forma di conoscenza sia considerata bene prima rio comune dell’umanità. Ne discende la considerazione dell’educazione come diritto primario da assicurare attra verso un servizio universale pubblico, dalla primissima età, compensando differenze di origine sociale e demolen
Prima
do stereotipi di genere e “razza”, e lungo tutta la vita. Ma anche la costruzione di dispositivi che garantiscano a tutti e tutte i benefici derivanti dalla ricerca, il contrario di quanto avviene oggi, come la pandemia ha rimarcato, e che consentano un’evoluzione della trasformazione digi tale a favore, non a sfavore, della giustizia sociale. Ed ecco qui, di nuovo, pratiche e proposte che vanno in questa di rezione: il diffondersi dei patti educativi territoriali, la pro posta di dar vita a un’infrastruttura pubblica europea della salute che ricerchi e sviluppi farmaci senza alcuna forma di proprietà intellettuale, la proposta di una revisione dell’accordo internazionale Trips sulla proprietà intellet tuale, le idee per dare corpo alla regolamentazione euro pea sull’uso di dati, pubblici e privati, e di algoritmi, che supera i modelli di Usa e Cina.
Infine, c’è il metodo con cui fare tutto questo. Essere “di sinistra” vuol dire credere e praticare il metodo del confron to pubblico aperto, informato, acceso - dove tutti abbiamo voce - e ragionevole - dove si entra nella testa e nella pancia delle persone con cui ti confronti. È un metodo che recupe ra a un tempo il conflitto, come mezzo fondamentale della democrazia, e il compromesso, come ricerca di un’interse zione possibile fra interessi e visioni del mondo diversi. At tenzione, un compromesso che può venire solo a esito di un confronto in cui si è scavato nelle reciproche contraddizio ni, si sono fatti valere e si sono modificati i rapporti di forza, si sono prodotti cambiamenti nelle idee. Poggia su queste basi un disegno e un’attuazione delle politiche pubbliche per i servizi fondamentali che sia a misura delle persone nei luoghi, attraverso una scossa alla rigidità amministrativi stica delle nostre norme, alla monopolizzazione dei dati e alla macchina della Pa. Tutto il contrario di ciò che abbia mo visto fare di recente nel disegno e attuazione del Pro gramma Nazionale di Ripresa e Resilienza.
Non ci sono volute molte righe né parole per riassumere cosa può voler dire “essere di sinistra” e fare esempi pratici. Si può certo fare di meglio. Ma se fosse attorno a cose come queste che avvenisse da domani il confronto dentro e fuori le diverse formazioni del (centro-)sinistra, forse una luce apparirebbe all’orizzonte.
* Forum Disuguaglianze e diversità
IL PROBLEMA DI
SONO
AMICI
ettere la polvere sotto il tappeto. E di polvere Giorgia Meloni in casa ne ha talmente tanta che sta faticando non poco a nasconderla. Dal 25 settembre, data del trionfo alle urne per Fratelli d’Italia, Meloni si è chiusa al sesto piano della Camera nell’ufficio di presiden za del gruppo, che sarà il più ampio del Par lamento. E un po’ perché ha avuto un ab bassamento di voce, un po’ perché di parla re con alcuni volti del suo partito e dei par titi alleati soprattutto non ne ha proprio voglia, insomma parla pochissimo. E sta facendo saltare i nervi anche a quelli che fino al giorno del voto sembravano essere i suoi fedelissimi in Fdi, da Ignazio La Russa a Guido Crosetto, da Raffaele Fitto (meno
fedelissimo) ad Adolfo Urso, per non parla re degli altri leader della coalizione che non riescono nemmeno a scambiarci due chiacchiere vere se non battute di circo stanza, da Matteo Salvini a Licia Ronzulli. Gli unici che hanno accesso alla stanza, e alle parole della leader, sono Giovambatti sta Fazzolari, che ha in mano tutti i dossier che scottano, dal caro energia alla crisi economica, e il cognato Francesco Lollobrigida.
Antonio Fraschilla GiornalistaIn queste ore è la polvere la vera ossessione di Gior gia Meloni: dove per polve re si intende nostalgici del fascismo che le farebbero fare brutta figura in Europa già all’indomani della for mazione del governo, casi
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nisti che prenderebbero i ministeri per fare campagna elettorale permanente, impre parati al ruolo in un momento storico diffi cilissimo per il Paese e per l’Europa intera, e volti che hanno palesi conflitti di interes se per i loro ruoli recenti nel privato o in istituzioni pubbliche. La polvere che Melo ni vuole nascondere e non mettere in posti di governo e di visibilità, per evitare di esse re impallinata dai giornali e fare brutte fi gure proprio quando deve accreditarsi in cancellerie europee che già non pensano di accoglierla a braccia aperte.
Così, mentre tutti gli aspiranti ministri parlano con i giornalisti sussurrando che loro sanno qualcosa di quel che pensa Me loni in queste ore, e quindi magari salta fuori il nome di Daniela Santanché per il Turismo (con un lievissimo conflitto di in
teresse) o quello di Guido Crosetto al Mise o alla Difesa (lui che ha società di consu lenza in settori legati a molte aziende di Stato e del settore delle armi) la presiden te del Consiglio in pectore cerca di trovare soluzioni non traumatiche per dire a chi ambisce a certi ruoli che no, non è questo il momento.
Si narra in Fratelli d’Italia, a esempio, di una certa tensione di La Russa, uno dei fondatori del partito: prima la storia del fratello che alza il braccio salutando alla fascista con il grido “presente” ai funerali dello storico volto della destra Alberto Sta bilini, poi lo stesso ex ministro dei governi Berlusconi che in televisione parla di radici storiche comuni con il fascismo e Mussoli ni di tutti gli italiani, mentre lei è impegna ta a rassicurare il mondo esterno sulla
In alto Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia e in predicato di ricevere dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella il compito di formare il nuovo governo del Paese. In queste ore si è chiusa nella stanza di Fratelli d’Italia alla Camera e sta stilando una prima lista di nomi papabili per il ruolo di ministro. Potrebbe salire al Colle già dal 18 ottobre
Politica / Le spine della destra
fine della “matrice” nera in Fratelli d’I talia, ribadendo che lei non ha detto nulla quando Gianfranco Fini ha rinnegato il fa scismo come «male assoluto». Fini che, guarda caso, dopo anni di silenzio per gli scandali familiari che lo hanno travolto, è tornato fugacemente sotto i riflettori nella sede della stampa estera per dire che «Giorgia è brava». Per La Russa si deve tro vare quindi un altro ruolo, forse la presi denza del Senato se questa non va a Lega o Forza Italia, oppure un dicastero meno in fluente.
Un altro volto che si agita molto e che non capisce bene dove Meloni lo voglia piazzare è quello di Crosetto: l’altro fonda tore del partito, ex democristiano di de stra, ma soprattutto lobbista nel campo delle aziende di armi e con portafoglio ampio di clienti, durante la campagna elettorale è stato uno dei frontman media tici del partito. Sempre in televisione, de cine di interviste per spiegare il Meloni pensiero. Certe volte creando più irrita zione che altro proprio alla leader: che di cono si sia molto innervosita per l’ultima intervista rilasciata da Crosetto ad Avve nire. Sul giornale della Conferenza episco pale italiana il fondatore di Fdi si è lancia to nel dire che «siamo in guerra, per salva re l’Italia servono tutte le energie. E tutte vuol dire tutte. Giorgia è libera e non ha paura, sa che deve unire». Dopo due giorni
Prima Pagina
sullo stesso giornale Meloni rilascia una intervista che smentisce Crosetto e ribadi sce: «Stop larghe intese, ora esecutivo con mandato popolare».
Ma la vera tensione con Crosetto, come anche con Urso, è dovuta alla linea che la futura presidente del Consiglio (a meno di sorprese clamorose) ha tracciato e che Fazzolari e Lollobrigida ribadiscono ad ogni piè sospinto: «Nel governo non ci de vono essere potenziali conflitti di interes se, dobbiamo dimostrare che siamo diver si da chi ci ha governato negli ultimi dieci anni». Crosetto ha annunciato subito di aver liquidato una delle sue società, Urso ha ribadito da tempo che non ha più par tecipazioni nella società, rimasta al figlio, che si occupa di internazionalizzazione delle imprese. Basteranno queste mosse per avere ruoli di peso nel prossimo gover no? Meloni è una sfinge, mentre cerca
TENSIONE CON LA RUSSA PER UN’USCITA SULLE RADICI FASCISTE E PER IL SALUTO ROMANO DEL FRATELLO. IRRITAZIONE VERSO CROSETTO PER UN’INTERVISTA NON CONCORDATA
I DIOSCURI
Sopra, uno dei tre fondatori insieme a Giorgia Meloni di Fratelli d’Italia: l’ex ministro Ignazio La Russa. Per lui si prospetta un ruolo in Parlamento. Il terzo fondatore è Guido Crosetto, che ambisce a una poltrona da ministro con deleghe di peso
sponde in tecnici che possano rassicurare Europa e mercati che detengono il debito italiano, su tutti Fabio Panetta, ex diretto re generale di Banca d’Italia e dal 2019 nel board della Bce, per il ministero dell’Eco nomia, o Elisabetta Belloni per gli Esteri.
La polvere sotto il tappeto, il mantra di Meloni che teme brutte figure come nessu no in Fratelli d’Italia. Tanto che un altro volto considerato in prima linea per un ruolo nel governo in questo ore vive un po’ di ansia: Raffaele Fitto, uno dei pochi ex centristi e di famiglia democristiana di cui Giorgia si fida, lei che gli ex Dc non li ha mai amati e non li ama. Fitto è il candidato na turale per il ruolo di ministro con la delega agli Affari Europei o al Mezzogiorno. Ma c’è la polvere che rimane: Fitto oggi è copresi dente a Bruxelles del gruppo dei conserva tori europei. Un ruolo delicato per gli equi libri nell’Ue di Meloni. Se Fitto va a fare il ministro, chi potrebbe rimpiazzarlo nel partito in questa poltrona chiave nel
Prima
Parlamento europeo? Non certo Carlo Fidanza, indagato per corruzione a Milano e già finito su tutti i giornali per le sue spa rate da nostalgico del fascismo. E nemme no un moderato come l’ex sindaco di Cata nia Raffaele Stancanelli, con il quale i rap porti sono tesi per le vicende siciliane sulla scelta del candidato governatore.
A proposito: a dimostrazione della tanta polvere che ha in casa Meloni, e di mancan za di classe dirigente adeguata in Fratelli d’Italia, per il ruolo di ministro del Sud po trebbe puntare sul governatore uscente si ciliano Nello Musumeci. Già candidato ed eletto al Senato e perdonato per certe usci te, come quella nel 2018 quando disse di non voler aderire a Fratelli d’Italia perché non entrava in partiti del tre per cento. Re centemente ha cambiato idea e Giorgia lo ha accolto a braccia aperte: per carità, è un ex missino nostalgico del Ventennio ma all’acqua di rose, diciamo.
Negli anni da governatore, a differenza del collega delle Marche Francesco Acqua roli, non ha mai fatto parlare di sé per pa gliacciate fasciste, al massimo ha organiz zato mostre sull’architettura degli anni Venti e Trenta, ristrutturato i borghi rurali fascisti, o speso qualche milione di euro per la fiera del cavallo in una tenuta a due
L’INIZIATIVA
Stefano Disegni firma sei vignette da completare a tema disuguaglianze a sostegno della campagna di raccolta fondi “Insieme per la giustizia sociale e ambientale” del Forum Disuguaglianze e Diversità su Produzioni dal Basso. La terza battuta vincitrice è di Bruno Bertuccioli nella vignetta che pubblichiamo qui. Ogni settimana, per le prossime tre settimane, una nuova vignetta di Stefano Disegni da riempire verrà pubblicata sul sito e sui canali social del ForumDD. Per partecipare con la propria battuta, bisognerà essere già sostenitori e sostenitrici della campagna del ForumDD o decidere di diventarlo senza nessuna soglia minima o massima (la donazione alla campagna è assolutamente libera). Tutte le informazioni sull’iniziativa e le modalità per partecipare su www.forumdisuguaglianzediversita.org
Politica / Le spine della destra
Giovambattista Fazzolari, fedelissimo di Giorgia Meloni.
In alto: Raffaele Fitto, eurodeputato che ha scritto parte del programma di Fdi
passi dal suo paese di origine, Militello. Musumeci è un volto presentabile e po trebbe avere ruoli di peso. A differenza di molti suoi neo colleghi nel partito.
Ma la leader di Fratelli d’Italia non vuole nemmeno casinisti in ruoli di governo: ogni riferimento a Matteo Salvini non è del tutto casuale. Dietro il braccio di ferro sul mini stero dell’Interno si nasconde il timore di Meloni di finire tutti i giorni suoi giornali per le piazzate di Salvini e non magari per altri importanti provvedimenti. Uno scena rio subito molto dall’ex presidente del Con siglio Giuseppe Conte e che Meloni non vuole assolutamente rivivere. E non vuole persone che considera non adatte al ruolo in poltrone delicate, ogni riferimento all’ex infermiera Licia Ronzulli alla Sanità anche qui non è del tutto casuale.
Il vero problema è che si può provare a nascondere la polvere sotto il tappeto, ma se ne hai talmente tanta, come nella coali zione strampalata di questo centrodestra, il compito è difficile. Se non impossibile. Il presidente della Repubblica Sergio Matta rella non vede l’ora di ricevere la prima lista dei ministri: sulla scrivania quirinalizia ha già una scorta di bianchetti. E anche un aspirapolvere.
A CHI FA PAURA CHE SI
DI PAOLO DI PAOLO
Scusi, verrebbe a parlare nella nostra scuola?
Volentieri, rispondo, ma di cosa? Della situa zione politica attuale. Quando? Domattina! L’invito del collettivo studentesco del liceo “Virgilio” di Roma arriva – giustamente – in formale e all’ultimo minuto. Nella mattinata stabilita per l’assemblea, a pochi metri dalla scuola, incon tro per caso la scrittrice Lidia Ravera. Mi chiede dove sono diretto, mi dice: se serve vengo anche io; potrei spiegare perché si può continuare a essere femministe anche senza gioire per Giorgia Meloni premier. Sarà anche questo un te ma, mi dico, e trovo un drappello di giovanissimi “pasiona
ri” che mi aspettano sulla porta del liceo. Non entriamo? No, la facciamo all’aperto. Ma siete sicuri? Sì, la preside ave va autorizzato l’assemblea – mi spiegano – ma per fare en trare un ospite comunicato troppo tardi mancano tempi e passaggi burocratici. E quindi? Quindi niente, la facciamo lo stesso, però fuori. Dove? In una piazzetta qua vicino, non si preoccupi. Non mi preoccupo. Li guardo un po’ perplesso e li seguo. Due di loro mi offrono un caffè. Al bancone del bar mi raccontano di essersi confrontati sull’ipotesi di una qualche forma di protesta simbolica, di una occupazione come quella del liceo “Manzoni” di Milano, per manifestare – questo il termine – la loro «indignazione» di fronte ai ri sultati elettorali. Ma è prematuro, aggiungono, e preferia mo, intanto, discutere. Si dispongono a semicerchio, occu pando metà di una piccola piazza nel centro storico. Non passa quasi nessuno. I camerieri di un ristorante prestigio so apparecchiano con largo anticipo sull’orario del pranzo. Si fermano ad ascoltare. Almeno un paio di minuti a testa. Faccio qualche considerazione, leggo una pagina dello scrittore francese – trentenne – Édouard Louis, in cui viene indicato il rischio che la politica sia ridotta a una questio ne estetica (e invece, per chi non è parte delle classi domi nanti, dice Louis, è «una questione di vita o di morte»).
inefficace, se non controproducente, il discorso sull’antifa scismo? Perché chi sta male economicamente ha votato a destra (o il Movimento 5 Stelle) e la sinistra non è stata in grado di raccogliere quella domanda di rappresentanza? Perché i governi di centrosinistra hanno attuato riforme di destra? Quanto dobbiamo temere, in prospettiva, la messa in discussione di diritti civili che diamo per acquisiti? E avanti così per venti, venticinque minuti. Finché non arri vano i carabinieri.
Paolo Di Paolo ScrittoreLoro ascoltano, domandano, prendono il microfono per esporre e condividere ama rezze e preoccupazioni. La gran parte di loro non ha votato per ragioni anagrafiche, ma ciò non impedisce di sentirsi coinvolti: perché non chiamiamo ultradestra quella di Meloni così come viene chiamata nel re sto del mondo? Perché il Pd non si è reso conto in tempo di avere sbagliato tutta la campagna elettorale? Perché è stato così
Vedo che parlottano con alcuni studenti. Vogliono sape re chi abbia autorizzato l’assembramento. Chiedono di sciogliere all’istante l’assemblea. Chiedono anche i docu menti. Un ragazzo risponde: non li ho. Lo invitano a se guirli. E con lui ne schedano altri quattro o cinque. A me uno dei militari dice: un conto sono le sue idee, con le qua li non sono d’accordo, un conto è la legge. Va bene, rispon do, ma se questo fosse un flash mob? E aggiungo che non si tratta di una protesta, ma di un’assemblea fatta fuori dalla scuola. Mi piacerebbe dire che andrebbe considerato un segno importante di partecipazione politica, la smenti ta dell’eterno luogo comune sui giovani disinteressati, apatici. Quelli presenti tengono il punto: in due o tre affer rano il microfono per invitare i compagni a non andarse ne, a restare, a continuare la discussione. Non si alza nes
SI PARLI DI POLITICA
tervento dei carabinieri. E i fatti restano i fatti: duecento ragazzi, in una piazzetta riparata e spopolata del centro storico di Roma, senza creare disagio, frastuono, si sono se duti a semicerchio per parlare del quadro politico post-e lettorale. Quelli più realisti del re azzannano, temendo che ci si sia riuniti per gridare al regime. Ma se avessero avuto la bontà di ascoltare gli interventi avrebbero constatato che quelli più duri sono stati formulati contro la sinistra, con tro le scelte e il linguaggio del Partito democratico. Quanto ai nobili e ipocriti (presumibilmente ignorantissimi) culto ri dello studio – quelli che vedono ogni occasione di didat tica alternativa come una perdita di tempo – mi pare siano intossicati da un qualunquismo inaridito e cinico. Sono, per l’appunto, gli stessi che additano le nuove generazioni come disimpegnate. E non riescono a cogliere l’oggettiva, simbolica forza di un raduno simile semplicemente perché non vogliono coglierla. In un Paese in cui il primo partito è quello degli astenuti, varrebbe la pena – così ho detto agli studenti – che iniziative simili si ripetessero in piazze e piazzette e strade più trafficate. Non per bloccarle, no. Ma perché funzionino da memento, da stimolo, da mostra iti nerante di una possibilità che abbiamo data per persa. Il
suno. I carabinieri restano schierati sul bordo della piazza, come le loro auto. La notizia delle forze dell’ordine all’assemblea en plein air comincia a circolare sui siti online; il collettivo, sui social, firma un te sto per sottolineare che «da anni svolgia mo iniziative, assemblee e collettivi in que sta piazza e mai le forze dell’ordine ci han no intimato di andarcene». Twitta una giornalista spagnola, twitta Rula Jebreal. È abbastanza perché parta il gioco delle parti e dei pregiudi zi. I cavillosi, i burocrati: ma l’assemblea era stata autoriz zata? I paternalisti: ma questi ragazzi perché non vanno a studiare? I duri e puri: chiamate i genitori. I didascalici: devono parlare di fascismo nell’ora di storia, non in piaz za. I sarcastici: poveri “sinistrelli” che sentono odore di re gime ma non hanno voglia di fare un cazzo… I questurini: è puerile ergersi a difesa delle istituzioni democratiche violando le regole di convivenza democratica, bisognava chiedere alla questura, è bene insegnare ai ragazzi il ri spetto delle regole e delle istituzioni. I nostalgici: ancora a parlare di antifascismo nel 2022?
C’è forse un filo di esagerazione in ciascuna di queste po sizioni. Ma c’è stato un filo di esagerazione anche nell’in
SUL VOTO
collettivismo. Il confronto aperto. Il vecchio – talvolta este nuante, più spesso formativo – dibattito.
Parlare di politica alla luce del sole! Che novità sarebbe? Fuori dai congressi, fuori dalle camarille, fuori dalle Leo polde, fuori anche dal Parlamento. Perché è giusto così. È sano così. “Discutiamo, discutiamo”, diceva il titolo di un corto di Marco Bellocchio del 1969. Lo si faceva troppo? Poi però abbiamo smesso. Lasciando che a parlare di politica fossero solo i ripetitivi ospiti dei talk show, da televisori ri dotti ad acquari rumorosi nelle cucine del nostro disincan to. Quelle in cui a mamma o a papà, magari interpellati da una prole nata meno apatica, scappa la frase più blasfema e più suicida: «Bimbo, io non mi interesso di politica».
Michela Murgia
Perché la parola cultura dà tanto fastidio alla destra
Quando sento la parola cultura metto mano alla pistola. La frase, scorretta e pare mai pronunciata da Goebbels, salta fuori spes so quando si parla del rapporto tra destra e mondo culturale, ma è una citazione a sproposito. Se è infatti del tutto logico che l’autoritarismo riconosca nella cultura il suo nemi co naturale, non è altrettanto auto matico che a farlo debba essere la destra in un sistema democratico. In qualunque ideologia ci si riconosca, dovrebbe infatti essere chiaro a tuttǝ che la democrazia è l’unico sistema di governo che si basa sulla necessità del dissenso. Il conflitto di posizioni non è un incidente che crea disarmo nia sociale, ma la ragione stessa del nostro sistema: potersi esprimere, specialmente contro il potere, senza essere fattǝ tacere e perseguitatǝ , nei regimi non è consentito. La pri ma libertà in una democrazia è quel la della parola contraria e per questo la cultura - intesa come l’insieme dei processi di sperimentazione dei con tenuti e linguaggi di una comunità - è la sua gemella naturale, perché offre spazi e strumenti di espressio ne al pensiero alternativo. Non illu diamoci: nessun potere, nemmeno a sinistra, vorrebbe sentire parole contrarie. Per questo esistono le leg gi che tutelano la libertà di espressio ne: chi ha scritto la Costituzione, il più grande atto collettivo di sfiducia verso il potere che l’Italia abbia mai prodotto, ha vincolato i poteri futuri ad agire in conformità ai valori de mocratici.
Chi nonostante questo non lo fa, rivela che la sua vera natura, in man canza di vincoli, sarebbe autoritaria e repressiva. Perché a perseguita
re chi esprime dissenso sono quasi sempre i politici di destra in Italia?
Perché la violenza, se non quella fi sica va bene anche istituzionale, è una componente metodica costitu tiva dei partiti post fascisti. Un buon esempio è quello del festival dell’A quila di tre anni fa, quando Pierluigi
Nell’ottobre del 2019 il sindaco del capoluogo abruzzese Pierluigi Biondi (FdI), sospese il festival che si doveva svolgere in città perché era contrario alla presenza di autori come Zerocalcare e Roberto Saviano. Nell’anno del decennale del terremoto il ministero della Cultura stanziava 700 mila euro per organizzare un festival culturale a L’Aquila incaricando, dopo una selezione, Silvia Barbagallo come direttrice artistica. Dopo vari mesi di lavoro e di confronto con il comitato che gestiva la manifestazione, l’evento venne cancellato a causa del conflitto aperto dal sindaco Biondi finalizzato a censurare alcuni nomi inseriti nel programma. Uno scontro che assunse anche toni pubblici offensivi e denigratori nei confronti di Barbagallo che fu pure attaccata pubblicamente da Giorgia Meloni. Dopo tre anni i fondi arrivano nelle disponibilità del sindaco Biondi per una kermesse dal titolo “Riscoprire L’Europa” che si svolgerà a L’Aquila dall’8 al 16 ottobre senza un confronto rispetto alle vicende del festival precedente.
Biondi, sindaco di Fratelli d’Italia, infastidito dal programma secondo lui troppo di sinistra (Zerocalcare e Roberto Saviano in particolare), so spese la manifestazione, defenestrò con insulti la direttrice artistica Sil via Barbagallo e non fece nemmeno finta di avere ragioni diverse dal de siderio repressivo: «Sì, in realtà non ce li voglio all’Aquila perché è una città plurale, una città nobile, aristo cratica, bella, che non merita questo genere di cose», disse ad Atreju, il raduno della destra giovanile del suo partito. Giorgia Meloni aveva un’oc casione per prendere le distanze dal metodo fascista del silenziamento del dissenso, ma lei, coerente coi suoi veri valori, difese il sindaco e li quido la manifestazione come «festa da centro sociale», così quest’anno il sindaco Biondi, con 800mila euro di soldi pubblici, fa un festival con un programma a lui più gradito.
Un caso unico? Per niente. Undici anni fa l’assessora regionale veneta Elena Donazzan di Fratelli d’Italia chiese l’espulsione dalle biblioteche scolastiche dei libri di una cinquanti na di autori a lei sgraditi, tra cui Wu Ming, Scarpa e Agamben, definiti cat tivi maestri. Il prossimo esempio non è lontano: il 15 novembre c’è il rinvio a giudizio di Saviano, reo di aver detto una parola contraria a Meloni e Sal vini sulla responsabilità dei morti nel Mediterraneo. Il primo gesto di Melo ni da presidente del Consiglio potreb be dunque essere quello di portare alla sbarra un intellettuale di fama internazionale che le ha espresso dis senso. A quell’udienza ci sarò anche io. Voglio vederla in faccia questa de stra che appena sente la parola cultu ra mette mano alla querela.
Invertire la rotta per salvare la scuola
In Italia ci sono 6 ricercatori ogni mille abitanti men tre la media europea è di 9. Un terzo di meno è una cifra impressionante. Vuol dire che in tempo di crisi ecologica, economica, sanitaria e sociale, aggravata dalla presenza di una guerra di cui non si vede la fine nel cuore dell’Europa, il nostro Paese non ha ancora compreso che lo sviluppo di conoscenze e competenze capaci di aprire nuove strade è essenziale, perché non c’è conversione ecologica né credibile contrasto alle disuguaglianze senza una più ampia diffusione di consa pevolezza e saperi da possedere a ogni età e in ogni strato sociale.
La spesa per l’istruzione è ferma da de cenni e non riesce a crescere fino al 5% del Pil, come giustamente pretende la rete di reti “educAzioni”.
è circa dell’11%.
Da almeno un trentennio la scuola, degradata da pro cessi di disinvestimento politico e culturale ancor prima che economico, ha smesso di essere ascensore sociale, fi nendo col certificare le disuguaglianze e determinare una sorta di profezia che si auto-avvera, perché nella scelta del tipo di scuole superiori da frequentare sono evidenti i con
OGGI IL SISTEMA DELL’ISTRUZIONE ALLARGA LE DISUGUAGLIANZE INVECE DI RIDURLE. SVILUPPARE COMPETENZE E CONOSCENZE È VITALE PER IL FUTURO DEL PAESE
E allora serve un vero e proprio ribalta mento politico e culturale nel modo in cui si affronta la questione educativa: gli investimenti in istruzione sono infatti indispensabili al rinnovamento del Paese perché ne sono presupposto. Sono infatti le disuguaglianze nell’ac cesso alle opportunità educative ad orientare molte di mensioni della vita fin dalla primissima infanzia, e il man cato accesso a una istruzione di qualità per tutte e tutti amplia e cronicizza le disuguaglianze.
I numeri della povertà educativa ci dicono che l’aver messo il sistema educativo in secondo piano ha avuto conseguenze negative non solo dal punto di vista della qualità culturale del Paese, ma anche della nostra eco nomia, avvilendo le capacità di crescita e, soprattutto, ostacolando la ricerca di modelli alternativi meno di struttivi, non più rinviabili.
A 50 anni dalla denuncia dei ragazzi di Barbiana a di sperdersi o a scivolare in percorsi scolastici non qualifi canti sono ancora le figlie e i figli dei poveri, insieme ai ra gazzi e alle ragazze più fragili o con background migrato rio. In questo modo la scuola rischia di perdere il suo ruolo costituzionale di argine alla discriminazione, nonostante l’impegno di tante e tanti di farne un luogo di incontro in terculturale capace di contrastare ogni forma di razzismo.
Le disparità geografiche nel tempo della pandemia sono ulteriormente cresciute perché nel Sud l’abbando no scolastico è tra il 15% e il 22% mentre nel Centro-Nord
notati di classe, aggravati dall’indecente presenza, in trop pi Istituti, di sezioni ghetto dove sono ulteriormente confi nati i più deboli e fragili, la cui sorte sembra segnata fin dalla prima adolescenza.
Che fare, allora? Innanzitutto, va aumentata la spesa pubblica in istruzione perché quella italiana è tra le più basse d’Europa, investendo sulla qualità della formazio ne iniziale e in servizio del corpo docente, ben oltre le piccole modifiche introdotte dall’ultimo governo, assai criticabili e del tutto inadeguate. Non rinnovare un con tratto di lavoro scaduto da anni mantenendo bassi sala ri, tollerare la presenza di un numero abnorme di preca ri e affidare il sostegno a insegnanti non qualificati per questo delicato compito sono segni tangibili della sotto valutazione dei problemi. C’è poi l’ingiustizia profonda che caratterizza la durata oraria della scuola di base, che vede il tempo pieno largamente presente nel Nord e qua si del tutto assente al Sud, condannando bambine e bambini meridionali a frequentare di fatto il corrispetti vo di un anno in meno di scuola in territori dove spesso l’offerta culturale è già povera.
Vanno potenziati e diffusi in tutto il Paese, come ci chiede l’Europa e come si è iniziato a fare con il Pnrr, seppure con forti limiti, i servizi 0-6 con politiche che sostengano la costruzione di nidi, rendano obbligatoria e gratuita la scuola per l’infanzia e portino a una mag
giore diffusione del tempo pieno dai 3 ai 14 anni, utiliz zando al meglio il personale, che non va diminuito no nostante la crescente denatalità.
Un altro intervento prioritario riguarda l’edilizia. È difficile infatti per una ragazza o ragazzo pensare che il mondo adulto creda all’importanza dello studiare se l’e dificio della scuola che frequenta è brutto e degradato. Ci sono buone linee guida per la costruzione di scuole innovative, ma ancora non si è messo mano alla legge sull’edilizia scolastica che risale incredibilmente ancora al 1975. E invece la costruzione o ristrutturazione delle scuole perché siano sicure, belle, accessibili a tutti e so stenibili, potrebbe costituire incentivo ed esempio per una più vasta rigenerazione urbana, che potrebbe vede re coinvolti attivamente studentesse e studenti.
È necessario inoltre trasformare i patti educativi di co munità in politica ordinaria di contrasto alla povertà edu cativa, facendo tesoro delle migliori esperienze in cui le scuole, in contesti difficili, sono state al centro di innova zioni che hanno coinvolto i comuni e diversi soggetti dell’impegno civico e del privato sociale, reagendo alla crisi educativa aggravata dall’emergenza sanitaria. Sperimen tare il duplice intreccio tra scuola e territorio e tra educa zione curriculare ed extra-curriculare si è visto che in molti casi ha aperto a nuove pratiche capaci di affrontare il cre scere delle fragilità, migliorando la scuola di tutti.
Insomma, l’educazione delle nuove generazioni, a partire dalla prima infanzia, deve tornare a essere obiet tivo e investimento strategico delle politiche perché la scuola pubblica torni ad essere il principale presidio di cittadinanza della nostra Repubblica.
Gli ultimi governi di destra non lo hanno fatto ed è be ne non dimenticare la sottrazione di 8 miliardi da parte del duo Tremonti-Gelmini, che penalizzò gravemente la scuola di base.
Il rischio concreto è che si vada verso una scuola che accresca i divari invece di colmarli e che la corsa verso l’autonomia differenziata, aggravi ulteriormente le disu guaglianze tra Nord e Sud in un tempo in cui ogni scelta lungimirante chiede, per ogni territorio del nostro Pae se, più formazione, più scienza e più cultura per affron tare i nodi di una crisi che pretende innovazioni radicali.
Al nuovo Governo va dunque chiesto un ribaltamento di priorità a partire da un uso sensato e non irrazionale dei fondi del Pnrr, visto che le risorse europee non sono un regalo, ma un debito che stiamo ulteriormente met tendo sulle spalle di figli e nipoti, altrimenti l’Italia non sarà solo uno dei paesi più vecchi al mondo, ma anche uno dei più egoisti.
Co-coordinatore
Disuguaglianze
DONNE IN LOTTA PER L’IRAN LIBERO
DI HAMID ZIARATI
È
martedì 13 settembre 2022. Mahsa ha 22 anni, la metà di quel li della Repubblica Islamica. Ha da poco superato l’esame d’ammissione all’università, l’incubo di tutti gli studenti del mondo. Fuorisede, non c’è alternativa. A quattro ore d’auto da dove è nata e vive. La sua lingua madre è curda e quella d’istru zione è persiana. Nuova città, nuovi amici, persino una nuova lingua, la lingua locale lì è il turco azero. Ora però Mahsa si trova a Teheran, nella Capitale. Un viaggio per fare un po’ di shopping prima di iniziare la nuo va vita. Dalla prossima settimana si dedicherà a realizzare il suo sogno: esse re una donna istruita e indipendente. Sa che richiederà grandi sacrifici. È una ragazza della sua generazione. Naviga sui social, l’unica finestra che le
permette di osservare il mondo. Oggi per l’occasione ha in dossato il suo vestito migliore; un poco di rossetto sulle lab bra, un foulard nero sulla testa e il ciuffo ribelle che le fuorie sce come a quasi a tutte le donne. Poco prima si è fatta foto grafare sorridente, seduta sulla metropolitana.
È tardo pomeriggio, le 18 passate. Poco distante dalla fer mata della metropolitana, Mahsa incappa in una pattuglia della Polizia morale. Da quando il conservatore Raisi è di ventato il presidente della Repubblica Islamica sono tornati più numerosi ad assediare le strade più frequentate: ti ferma no, t’insultano, ti caricano con violenza sulle camionette, ti traducono in commissariato, ti spaventano, e se ti va bene, col buio, quando hanno riempito la sala di donne «mal vela te o malvestite», arriva il predicatore di turno per un sermo ne collettivo sull’uso corretto dell’hijab. Come se i problemi che affliggono il Paese siano i capelli e l’abbigliamento fem minile e non la corruzione e la loro acclarata incapacità di governare e di gestirne le risor se. Alla fine paghi una multa in base al reato commesso, c’è il prezzario, e ti liberano. Re sti schedata per sempre.
Hamid Ziarati ScrittoreLa pattuglia è composta da due uomini e due donne. Hanno già caricato altre ragaz ze. Mahsa non vuole seguirli. Non ha fatto nulla di male. Ha l’accento curdo, un’aggra vante, fa parte della minoranza etnica da
Una manifestazione a Parigi in sostegno delle donne iraniane dopo l’omicidio di Mahsa Amini
sempre ostile alla Repubblica Islamica. Il fratello minoren ne prega gli agenti, li supplica, spiega che sono stranieri nella città. Mahsa ha paura che arrestino pure lui. Protesta. Resiste. Inutilmente.
È un attimo. Un istante che segnerà la storia di una nazio ne. Basta una frase e la mano armata della Repubblica Isla mica colpisce forte.
Torniamo indietro. Siamo a meno di un mese dalla vittoria della Rivoluzione del 1979, Khomeini è intento a instaurare una dittatura fondata su un pensiero unico, il Suo, identico a quello del clero teocratico e fondamentalista che lo circon da. A 14 secoli di distanza vuole una società non ispirata ma identica a quella dei tempi del Profeta. L’Iran in quel mo mento è un Paese secolarizzato, fuori dai luoghi di culto le donne sono libere di girare vestite come desiderano. Il diritto di famiglia stilato dalla monarchia è migliorabile ma le tute la. Svolgono tutti i lavori, anche quello del giudice che dopo verrà loro proibito. Scrivi dittatura e leggi sistema patriarca le. Il 7 marzo Khomeini mette in atto i suoi intenti e procla ma: «Negli uffici pubblici islamici non si deve commettere peccato. Le donne possono frequentarli ma solo indossando il velo. Non è un problema se ci lavorano, però indossino cor rettamente l’hijab». L’obbligo di portare il velo non è ancora legge dello Stato, lo diventerà da lì a poco, durante gli anni bui della guerra contro l’Iraq di Saddam: chiunque la violi è
punibile con 72 frustate. In un colpo solo Khomeini trasforma ciò che ritiene peccato in reato: la metà del cielo è costretta all’oscu rità, impegnata da quel momento in poi a lottare per riottenere i diritti perduti. Il gior no dopo, per celebrare la festa della donna, non molto lontano da dove ora Mahsa di scute con gli agenti, scoppia la prima grande protesta contro quella che da lì a poco si sa rebbe chiamata la Repubblica Islamica. Le donne partecipano numerose. Sono donne istruite, casalin ghe semianalfabete, in minigonna, con l’hijab, studentesse, lavoratrici. È un massacro. Il primo dei tanti. Vengono prese a sassate dai falangisti al soldo di Khomeini. Sfregiate in fac cia con il cutter. Arrestate. Torturate. Uccise. Gli uomini? Si tengono a distanza. La priorità in quel momento è protegge re la Rivoluzione. L’uomo che l’ha guidata con carisma non va contraddetto, i suoi adulatori hanno la mano pesante. Il collante che ha portato alla vittoria della Rivoluzione a suon di Allah-o akbar è pur sempre il flebile sentimento religioso presente in buona parte della popolazione. È il punto di non ritorno. La dittatura è servita.
conflitto. Khomeini stermina l’opposizione interna e muore una decade dopo quella prima protesta. Al suo posto i teo crati nominano Khamenei, non è un ayatollah, secondo le loro stessi leggi non potrebbe nemmeno coprire il ruolo di Guida suprema. Si fa passare per fantoccio nelle mani del suo più grande rivale, Rafsanjani. Attende il momento giu sto. Si dimostra negli anni a venire un falco, ha in mano i tre poteri esecutivi, dei pasdaran, delle milizie armate e dell’e sercito. Regna con la paura, il terrore, la morte. Etichetta tut te le proteste come rivolte organizzate dai nemici stranieri, dagli antirivoluzionari.
È una crepa. E segna il destino catastrofico della diga che non può più contrastare la spinta. È profonda. Mahsa vede tutto confuso. Il tempo è come se fosse rallentato. Le im magini sono sfocate, confuse. Barcolla. Cerca di sostenersi. Crolla. Non è la prima e non sarà l’ultima ragazza ad aver saggiato il pugno duro del regime, l’elenco è lungo e conti nua ad aggiornarsi ogni istante. Un’attivista civile però se gue il suo caso. La immortala in una foto che forse Mahsa non avrebbe mai postato sul suo profilo. Finirà su tutti i canali social. È sul letto di un ospedale, intubata, la testa fasciata, l’orecchio sanguinante, in coma. Dalla crepa in te sta al ritorno nella sua città natale passano 4 giorni. I suoi genitori decidono di seppellirla nel cimitero il sabato mat tina nonostante le minacce e le intimidazioni ricevute per ché la cerimonia funebre si svolga di notte. In silenzio. Sen za rumore. Le proteste però sono già cominciate. La gente accorre dalle altre città in solidarietà alla famiglia. Le stra de di accesso alla città vengono bloccate. Si crea una coda
L’OMICIDIO DI MAHSA AMINI E LA RIVOLTA CHE RIPRENDE IL FILO DELLA BATTAGLIA PER I DIRITTI REPRESSA A PARTIRE DAI MASSACRI DEL 1979. L’APPELLO DELLO SCRITTORE IRANIANO
chilometrica. Dopo aver coperto il suo corpo di terra, una ragazza urla: «Donna, vita, libertà» in curdo. Il grido di chi si spezza ma non piega la testa. Coraggiose. Resistenti. «Morte al dittatore e alla Repubblica Islamica» è l’eco che si alza. Mahsa non poteva saperlo. Inconsapevole vittima e simbolo della lotta. Questa volta è lei a segnare il punto di non ritorno. Lei ad aggregare il popolo. Ora il pensiero uni co è: il Paese sarà libero se le sue donne saranno libere, il Paese sarà democratico solo se le sue donne avranno gli stessi diritti degli uomini.
Seguiteranno tante altre proteste, linciaggi, torture, morti, e 44 anni di schizofrenia comportamentale nella società ira niana, perché la vita privata e quella pubblica spesso sono in
Il massacro è in corso. Non lasciamole sole ancora una volta. Non lasciamoli soli in questa battaglia per la demo crazia. Aiutiamoli in nome di #MahsaAmini. È una rivolu zione. È donna.
TRUMPIANI IN FESTA
GIORGIA UNA DI NOI
È
bello vedere sul palcoscenico internazionale donne come noi, che sono madri, imprenditrici, che mal sopportano il vittimismo. Sono poche quelle che lottano per preservare la famiglia e per non lasciare che tutto venga deciso dalle élite mondiali». Wendy Rogers, senatrice statale ultraconservatrice dell’Arizona, ci risponde compiaciuta, quando le chiediamo perché sia così entusiasta della vittoria di Giorgia Meloni alle elezioni del 25 settembre.
Il suo nome spunta tra le decine di commenti di politici e personalità della destra americana che plaudono alla leader di Fratelli d’Italia. La maggior parte appartiene a quella che qui in Usa definiscono “Maga country”, la fetta di nazione popolata dai sostenitori repubblicani più fedeli all’ex presi dente Donald Trump e al mantra “Make America Great Again”. Più cauti i moderati del Gop, che preferiscono aspettare Meloni sul campo di governo.
«È bene precisare che un numero cospi cuo di coloro che scrivono di questi argo menti, in realtà sa poco e niente del vostro Paese, della sua storia», mette in chiaro Ma bel Berezin, docente di sociologia alla Cor nell University. Eppure, sono bastate poche parole ripescate da un discorso del 2019, quello tenuto al Congresso mondiale delle famiglie di Vero na, a consacrare Meloni come l’eroina della “far-right”, il vento nuovo arrivato dall’Europa che (sperano) riprenderà a soffiare anche da queste parti, dopo gli anni di presidenza Biden.
Nei giorni scorsi a postare, con i sottotitoli in inglese, il vi deo in cui la leader di FdI difende fieramente Dio, patria e famiglia, è Greg Price, stratega di una società di consulenza politica conservatrice. L’effetto è dirompente. In pochissimo
tempo l’intervento è stato ritwittato oltre 65 mila volte, in cassando più di 200mila like.
«In America in questo momento c’è un movimento in con tinua crescita chiamato nazionalismo cristiano bianco. Le parole di Meloni sono ovviamente musica per le orecchie di molte di queste persone», spiega Berezin.
«L’Italia ha la sua Trump. Questa donna è impressionan te», scrive ad esempio l’ex pilota militare e autore ultracon servatore Buzz Patterson. «Discorso fantastico - twitta il se
natore del Kansas Roger Marshall - Speriamo che gli ameri cani si sveglino, per abbracciare la fede, la famiglia, la nazio ne». Per il senatore repubblicano del Texas, Ted Cruz, ex candidato alle primarie presidenziali, quel discorso di Melo ni è semplicemente “spettacolare”.
«In Italia, la vittoria di Giorgia Meloni ha dimostrato che gli italiani vogliono che il governo e il Paese lavorino per loro, non per i “burocrati di Bruxelles” - ha scritto su Fox News Callista Gingrich, ex ambasciatrice americana in VaticanoÈ un momento storico per l’Italia. Meloni, madre cattolica, è pronta a diventare la pri ma Presidente del Consiglio donna in Italia (...) Con inflazione da record, aumento dei costi dell’energia ed economia in difficoltà, ha condotto una campagna incentrata sullo slogan “Prima l’Italia e gli italiani!”».
Meloni, da parte sua, aveva già preparato il terreno. Oltre ad essere stata ospite della National Prayer Breakfast, l’incontro di pre
ghiera multireligiosa e bipartisan che si tiene ogni anno a Washington, ha partecipato alla Conservative Political Action Conference, meglio nota come Cpac, il più importan te appuntamento per i conservatori americani. A febbraio, dallo stesso palco calcato da Donald Trump a Orlando in Florida, aveva stregato i repubblicani: «The only way of being rebels is to be conservatives». L’unico modo di essere ribelli, è essere conservatori.
«Crede in Dio, nel suo Paese, nella famiglia. Non mi sembra sia così tanto radicale. Ciò fa di lei una cristia na nazionalista. Il peggio del fascismo, no?», si chiede ironico in radio l’amico della prima ora Steve Bannon, controverso ex consigliere di Trump, parlando di “Giorgia”. Il riferimen to è ai tanti articoli allarmati dei media mainstream, come Washington Post e New York Times, in cui le parole fascismo e post-fascismo compaiono insistentemente. Il campo è italiano, ma a scontrarsi so
L’Italia vista dagli Usa
no ancora una volta le due anime d’America. «Tutto viene elaborato attraverso la lente della politica interna statuni tense», ci fa infatti notare Jacob Kirkegaard, esperto del Pe terson Institute for International Economics.
Da una parte c’è l’ala destra del partito repubblicano che si sente minacciata non solo dalla presidenza Biden, ma anche dal sistema di valori liberal, dalle teorie sul gender, dai diritti gay e trans, dalle insidie della critical race. Minac ciata, nonostante le recenti vittorie consumate sui banchi della Corte Suprema a maggioranza conservatrice, come il ribaltamento della sentenza Roe vs Wade che garantiva a livello federale il diritto all’aborto. Dall’altro lato della bar ricata, ci sono i democratici, feriti dalla presidenza Trump, indignati dopo l’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021, che guardano con apprensione alla vittoria di Meloni, «chiaramente a capo di un partito che nasce dal neo-fasci smo», sottolinea Kirkegaard. Anche in vista delle prossime elezioni presidenziali del 2024.
«Se Biden dovesse decidere di correre per un secondo mandato, uno dei pilastri su cui poggerà la campagna eletto rale, sarà proprio quello di presentarsi come un baluardo contro il fascismo. Ed è chiaro che l’autoritarismo è incarnato da Trump».
E difatti, nonostante le posizioni ufficiali della Casa Bianca, che si è impegnata a la vorare «con il nuovo governo italiano sull’intera gamma di sfide globali condivi se», Biden ha avuto toni meno rassicuranti, parlando a una raccolta fondi dell’Associa zione dei governatori democratici a tre giorni dal voto italiano. «Avete appena vi sto cosa è successo in Italia con le elezioni. Avete visto cosa sta accadendo in tutto il mondo. Non possiamo essere otti misti nemmeno su ciò che sta accadendo qui», ha detto.
Prima Pagina
I dem potrebbero perdere la maggioranza, già stretta, al Congresso rischiando la paralisi.
Nonostante le ansie dei progressisti sul futuro dei diritti civili in Italia, con una guerra in corso nel cuore dell’Europa la principale preoccupazione oltreoceano rimane la politica estera. Washington come da prassi non si esprime sulle que stioni interne e rimane in attesa di giudicare Meloni alla pro va dei fatti. Le sue posizioni su Nato, Europa e sostegno all’U craina sono chiare, in dubbio però sembra esserci la tenuta sul lungo periodo. «Gli Stati Uniti di Biden sostengono l’U nione Europea. In questo momento sia Usa che mercati fi nanziari aspettano che Meloni sciolga il nodo sui ministri della sua squadra di governo, per capire se avranno intenzio ne di cooperare», riflette Max Bergmann, direttore del Pro gramma Europa del think tank americano Center for Strate gic and International Studies (Csis). «L’auspicio è che davve ro l’unità della Ue resti salda. Nessuno dimentica le relazioni passate con Viktor Orban; il timore è che l’Ungheria possa cercare in futuro di bloccare le sanzioni contro la Russia. Ec co, credo che gli Usa temano la possibilità di un’asse italo-un gherese capace di bloccare le azioni dell’Unione Europea», spiega Bergmann, che alle spalle ha una lunga esperienza al Dipartimento di Stato dove è stato anche speechwriter e consigliere dell’ex Segretario John Kerry.
Apprensione anche per le prime mosse del futuro governo Meloni in campo economico. «Ci si interroga sul corso che prenderà l’Italia, se si scontrerà con la Ue sul Recovery Fund, incredibilmente importante per la crescita del Paese. Wa shington teme un approccio che possa causare instabilità nei mercati». Allargando il campo, la paura più grande rima ne la tenuta dell’alleanza transatlantica. «Preoccupa l’ascesa dei partiti di estrema destra in Europa. In Svezia hanno vinto i Democratici Svedesi e in Francia Marine Le Pen ha ottenuto buoni risultati. Questi, potrebbero diventare attori determi nanti in futuro, quando si tratterà di sostenere ancora l’U
L’AMMINISTRAZIONE BIDEN ASSICURA “COLLABORAZIONE”. MA RESTANO GLI INTERROGATIVI SULL’ATTEGGIAMENTO VERSO L’EUROPA E SULLA TENUTA DEI CONTI PUBBLICI
Puntare sulla democrazia a rischio, per il presidente in ca rica «è una chiara strategia politica, serve a mobilitare gli elettori democratici, a spronarli a votare già nelle prossime elezioni di metà mandato», dice Kirkegaard. La posta in gio co è altissima perché a novembre gli elettori saranno chia mati alle urne per rinnovare la Camera e un terzo del Senato.
craina, di aumentare le spese militari o di lavorare con gli Usa», continua l’esperto. Altra importante questione, con clude, è il vuoto lasciato dall’ex presidente Mario Draghi nella comunità internazionale. «Il fatto che non sia più par te del governo ha provocato straniamento. È stato un per sonaggio chiave nella costruzione delle sanzioni alla Rus sia. Sarebbe stato difficile per chiunque rimpiazzarlo, al meno dal punto di vista degli Stati Uniti».
IL PAZIENTE INGLESE LABOUR RISANATO
DI LUCIANA GROSSO
Dio salvi il Re e, tanto che è da quelle parti, dia una mano anche ai suoi sudditi.
Sì, perché al momento, non si capisce chi altri potrebbe salvarli, i britannici. Il loro Pae se, fino a una manciata di anni fa, sembrava una potenza inarrestabile, capace di rialzarsi dopo ogni sconfitta, senza farsi abbattere da nessuna crisi, da nessuna guerra, da nessuna paura.
Poi qualcosa si è rotto.
Prima (parliamo della metà degli anni ’00) c’è stata la frat tura tra i ceti operai e il New labour di Tony Blair, che ha scar dinato la sinistra inglese (secondo un paradigma che, con il tempo e con varie declinazioni, si è ripetuto quasi identico anche negli Stati Uniti, in Francia e in Italia); poi c’è stata la fiducia in David Cameron, volto giovane e innovatore della destra conservatrice britan nica; poi, ancora, dopo qualche anno, sgreto latosi anche il consenso di Cameron, c’è sta to il rimbalzo verso il populismo iconoclasta e trumpiano: così sono arrivati il successo dell’Ukip di Nigel Farage e di Brexit. Un dera gliamento che la politica inglese ha cercato di governare come ha potuto (cioè poco e male). La sinistra, affidandosi a Jeremy Cor byn, un leader segretamente favorevole a Brexit (anche se non poteva dirlo apertamente, perché alla guida di un partito europeista) che, per non restare incastra to nel dibattito sull’Europa, provò a spostarne l’attenzione sul suo programma radicale e in odor di sociali smo. Il risultato, elettoralmente parlando fu però disastroso: la peggior sconfitta del La bour dal 1935: appena il 32 per cento dei con sensi alle elezioni del 2019.
Luciana Grosso GiornalistaLa destra invece, provò a venire a capo del vaso di Pandora che lei stessa aveva aperto appoggiando Brexit, prima con Theresa May (europeista che si era comunque data il com pito di sciogliere il nodo dell’uscita dall’Ue
nel modo più potabile possibile) e poi con Boris Johnson, lea der, allo stesso tempo maldestro e carismatico, del fronte del Leave e trionfatore delle elezioni del 2019.
Ora, finita dopo nemmeno tre anni la leadership di John son, il Regno Unito si ritrova nel bel mezzo della tempesta perfetta della crisi dell’energia, con un nuovo governo (il quarto in dodici anni, una bazzecola per noi italiani, una co sa da mal di mare per gli inglesi, abituati a governi lunghi e stabili), guidato da una nuova leader che nessuno conosce e di cui nessuno, davvero, si fida.
La leader scelta (piuttosto a sorpresa) dal partito dei Tory per guidare il Paese fuori dai marosi di questa crisi è stata Liz Truss, ex ministro degli Esteri di Boris Johnson, e (pur troppo) personaggio noto più per le sue gaffes che per la sua
STARMER:
SFRUTTATO
incisività in politica. Per questo, quando si è insediata, il mondo, il Regno Unito e il suo stesso partito, la guardavano con grande cautela e malcelata diffidenza. I sondaggi di po polarità, del resto, la davano a livelli infimi: appena il 12 per cento degli inglesi diceva di averne una buona opinione. Poi, dopo poche ore l’avvio ufficiale del suo governo, il mon do intero degli inglesi è crollato, travolto dalla morte (quasi inconcepibile) di Elisabetta II: erano più di 70 anni che il Re gno non si trovava alle prese con la morte di un sovrano; erano più di 70 anni che il Regno non si trovava privo della guida, formale sì ma, perciò stesso, sostanziale, della Regina più longeva e popolare della sua lunga storia. Così per dieci giorni gli occhi dei britannici e del mondo hanno guarda
Il leader del partito laburista Kier Starmer alla conferenza del partito a Liverpool il 28 settembre scorso
Prima Pagina
to a Buckingham Palace e non a Dow ning Street.
All’indomani dei solenni funerali, però, la realtà si è fatta ritrovare esattamente lì dove la Regina l’aveva lasciata: il Regno era ancora alle prese con una crisi enorme e, per giunta, a guidarlo c’era una leader confusa e senza seguito che, al suo esordio esecutivo, dopo i giorni del lutto, ha ben pensato di lanciare una sua modifica della legge di bilancio, basa ta su un corposo taglio delle tasse in deficit. In teoria, la decisione, avrebbe dovuto porta re in alcuni mesi al rilancio dell’economia. In pratica ha portato in poche ore a un tracollo della sterlina, al panico sui mercati, al disdo ro dell’Fmi e al massimo storico dei titoli di stato Gilt inglesi dai tempi della crisi del 2008. Insomma un disastro. Un disastro così disastroso che dopo appena una set timana, e dopo aver difeso a spada tratta la sua legge di “mini budget” Truss, lo scorso lunedì, ha dovuto rimangiarsi tutto e cancellare il suo piano.
Una disfatta, economica ma soprattutto politica, le cui conseguenze sono difficili da prevedere (la maggioranza Truss cadrà? Il suo sarà il governo più breve della storia d’In ghilterra? Un nuovo avvicendamento alla guida della mag gioranza Tory porterà a elezioni anticipate?) ma che hanno già portato un effetto forte e chiaro: l’impennata nei sondaggi del partito laburista. In realtà, la crescita del Labour non è da attribuire solo alla pessima guida di Liz Truss e (seppur in maniera diversa) di Boris Johnson. Il partito della sinistra in glese gode di buona salute nei sondaggi da almeno un anno. Partiti dal minimo storico racimolato nel 2019 da Jeremy Corbyn (popolarissimo tra le fila della sinitra più radicale, inviso a tutti gli altri), i laburisti, dopo quella sconfitta hanno fatto un duro e capillare lavoro di rifondazio ne, dalle basi. (Se qualcuno del Pd ci legge, prenda appunti).
L’elezione a leader dell’avvocato Sir Keir Starmer è coincisa con una ricostruzione del partito e con un sapiente lavoro di ricucitura delle sue due anime: da un lato i sindacati e l’ala corbiniana del partito (detta “Momentum”); dall’altro gli eredi della stagione vittoriosa, ma centrista, del blairismo.
Starmer che per storia personale si collocherebbe in teoria dal lato blairiano della barricata, ha saputo tenere insieme le cose. Ha saputo mostrarsi credibile a entrambe le ali del par tito. Si è mostrato come un leader laburista, e non come un leader corbinista o blairiano.
Lo ha fatto in vari modi: prima di tutto ha chiuso una volta per tutte l’eterno dibattito su Brexit dicendo ai suoi e a chiun que volesse ascoltare che, piacesse o no, Brexit ormai era co sa fatta e la sfida era farla funzionare dal momento che che il tempo per discuterne era ampiamente scaduto. Poi ha rinne gato gli aspetti più muscolari e mercatisti del blairismo,
La sinistra britannica
aprendo alla necessità di sostenere la sanità pubblica e la transizione verde. Infine ha chiuso i conti con gli aspetti più tossici e re spingenti del corbynismo, da più parti tac ciato di populismo e di antisemitismo. Tre operazioni che sono servite soprattutto a una cosa: disinnescare le faide interne per costruire un partito compatto e credibile. «Troppi dei nostri membri e sostenitori pen sano che vincere una discussione interna al partito laburista equivalga a cambiare il mondo», ha dichiarato a Financial Times: «Ma non è così. Dobbiamo diventare reali».
Così, una volta riuscito nell’impresa (piut tosto ardua, in realtà) di tagliare le ali estre me del partito e di serrare le fila attorno all’i dea di un programma che non sia tanto identitario quanto credibile e utile agli inglesi, Starmer ha preso la sua scalata, lenta ma inesorabile, nei sondaggi. Partito da un quasi incol mabile divario 44/32 per cento a tutto vantaggio dei Tory, Starmer ha messo insieme il suo nuovo consenso punto dopo punto, fino ad arrivare, oggi, a un vantaggio monstre che al cuni (la quotata agenzia inglese YouGov) quantificano in ad dirittura 33 punti: 54 a 21 per cento.
Certo, Starmer non ha fatto tutto da solo: una grossa ma no gliel’hanno dato sia l’insipienza pasticciona di Boris Johnson sia la protervia disastrosa di Liz Truss (dei 30 punti di vantaggio, dieci sono arrivati solo nell’ultimo mese). Ma il principale merito di Starmer è stato quello di farsi trovare pronto nel momento in cui, finalmente, il vento è girato. Ha usato i mesi a sua disposizione per lenire le ferite di un par
DAL
NEGATIVO
CRISI ECONOMICA
tito diviso, per eliminarne le bizze in odor di socialismo o di liberismo, entrambe respingenti per l’elettorato, per far di gerire ai suoi il boccone amaro di Brexit e parlare d’altro. Per mettere in piedi un partito adulto, insomma, che ha fatto i conti con il passato, che ha espiato le sue colpe e che è pron to, di nuovo, a governare. Certo, da qui alle elezioni manca un’epoca. Il prossimo voto, a meno di colpi di scena, è previ sto per la fine del 2024 e in un anno e mezzo le cose fanno in tempo a cambiare altre cento volte. Ma Starmer, a differen za di chi lo ha preceduto, potrebbe presentarsi alle elezioni rappresentando non solo la sua corrente, ma un partito in tero. Un vantaggio non da poco.
UN REDDITO DA CAMBIARE
DI VITTORIO MALAGUTTI E GLORIA RIVA
Si chiama reddito di cittadinan za. È l’arma di distrazione di massa confezionata dalla poli tica a uso e consumo del popo lo elettore. Obiettivo: spostare l’attenzione dall’inflazione che divora i salari, dalle bollette impazzite, dal le imprese che non ce la fanno. Che farà il nuovo governo? Davvero l’alleanza di cen trodestra cancellerà la misura di sostegno al reddito dei più poveri così come promes so prima del voto? A urne appena chiuse, Francesco Lollobrigida, cognato e braccio destro della premier in pectore Giorgia Me loni, si è affrettato a ribadi re un concetto più volte espresso nelle settimane precedenti. «Senza dubbio si andrà verso l’abolizione del reddito di cittadinan za», ha tagliato corto Lollo brigida, aggiungendo, per addolcire la pillola, che sa ranno dati «sostegni ade guati a chi non può lavora re». Matteo Salvini, al soli to, la spara grossa via so cial. Due tweet in poche ore, tra domenica 2 ottobre e il lunedì successivo, per invocare «controlli a tappe to» sui «furbetti che tolgo no soldi a chi ne ha davvero
NORD SVANTAGGIATO, POVERI IGNORATI, INSERIMENTO AL LAVORO FALLIMENTARE. IL SOSTEGNO DI CITTADINANZA ANDREBBE RIFORMATO MA LA DESTRA VUOLE ABOLIRLO
bisogno». Anche Beppe Grillo non rinuncia a una provocazione e sul suo blog chiama «a rapporto le Brigate di cittadinanza (...) per aiutare la comunità».
Amplificata dai megafoni della propa ganda, la lotta ai presunti finti poveri diven ta la madre di tutte le battaglie. Un argo mento retorico che porta voti e consensi. Lo sanno bene anche a sinistra. E infatti Stefano Bonaccini, uno dei pretendenti alla segreteria Pd, all’indomani della sconfitta elettorale è tornato in tv per ribadire quan to afferma da tempo. «Il reddito di cittadi nanza va radicalmente cambiato», dice Bo naccini. Su tempi e modi della riforma nep pure una parola, ma lo slogan serve a gua dagnare spazio nella bolla mediatica della politica nostrana. Intanto, le cronache di questi giorni raccontano di un Paese sull’or lo di una pesante crisi economica che il nuovo esecutivo sarà costretto ad affronta re con provvedimenti d’emergenza, a co minciare dagli aiuti per chi non riesce a
Politiche sociali
pagare le bollette, per un totale di oltre 30 miliardi. E allora sembra complicato, quantomeno politicamente, dare un taglio netto a una misura che, come ha rilevato l’Istat nel suo ultimo rapporto annuale, ha salvato dalla povertà più di un milione di italiani. È più probabile che la nuova mag gioranza di governo si accontenti di aggiu stamenti marginali, qualcosa che dia una sforbiciata al capitolo di spesa dedicato al reddito di cittadinanza. In questo modo, ol tre a recuperare risorse, il centrodestra riu scirebbe a dare in pasto alla platea dei suoi elettori un provvedimento in linea con le promesse della campagna elettorale.
Un primo obiettivo potrebbe essere quel lo di portare da due a uno il numero massi mo di offerte di lavoro che ogni assistito può rifiutare senza vedersi revocato il sus sidio di Stato. I dati pubblicati dall’Inps se gnalano che solo il 46 per cento di chi rice ve il reddito di cittadinanza è attivabile al lavoro ed è quindi tenuto a presentarsi ai centri per l’impiego. Dalle statistiche si sco pre però che meno della metà di questi po tenziali occupati risulta effettivamente pre sa in carico dalle strutture pubbliche chia mate a incrociare domanda e offerta di la voro. Queste strutture, è il parere unanime di studiosi e politici, andrebbero completa mente riformate (e rifinanziate) per render le davvero efficienti. Una riforma che, però, ha il difetto di richiedere tempo e denaro.
Sulla carta, appaiono ancora più compli cati gli interventi che invece mirano a ta gliare la spesa rivedendo le condizioni di accesso al beneficio. In base all’ultimo rap porto dell’Inps, aggiornato a fine agosto, sono 1,18 milioni le famiglie che ricevono il reddito di cittadinanza, per un totale di cir ca 2,5 milioni di persone coinvolte. L’asse gno medio è pari a 580 euro mensili, ma a fine 2021 erano circa 200 mila gli assistiti che percepivano almeno 800 euro al mese. La spesa complessiva per il 2022 toccherà gli 8 miliardi di euro, per un costo comples sivo, a partire dall’aprile del 2019, di poco superiore ai 25 miliardi.
Il problema - come confermano statisti che e casi concreti - è che l’assegno garanti to dallo Stato diventa in molti casi un di sincentivo a trovare un impiego. Spiega l’economista dell’Ocse, Daniele Pacifico: «Poniamo che un single percepisca seimila euro l'anno di reddito di cittadinanza e che
gli venga offerto un lavoro da 500 euro al mese. Difficilmente deciderebbe di accet tarlo perché perderebbe integralmente il sussidio pubblico». La proposta della com missione presieduta dalla sociologa Chiara Saraceno, incaricata lo scorso anno dal go verno Draghi di analizzare lo strumento di sostegno alla povertà, era proprio quella di continuare a sostenere il percettore con una quota, seppur minima, di reddito di cittadinanza per invogliarlo ad accettare l'offerta di lavoro. Nel caso raccontato dall'economista Pacifico, una decurtazio ne del 50 per cento dell’assegno di Stato (anziché del 100 per cento) avrebbe con sentito a quella persona di arrivare a un reddito annuo di novemila euro, incenti vandola a mettersi al lavoro e diminuendo allo stesso tempo la spesa a carico delle casse pubbliche.
Ma a chi va esattamente il reddito di cit tadinanza? Secondo una recente inchiesta della Caritas, il provvedimento varato nel 2019 dal governo gialloverde aiuta solo il 44 per cento delle famiglie in povertà asso luta. E una ricerca di Massimo Baldini, pro fessore dell'Università di Modena, rileva
SEMPRE PIÙ POVERI
CON L’INFLAZIONE
Massimo Baldini, professore di Politica economica all'Università di Modena e Reggio Emilia, esperto di politiche di contrasto alla povertà, quanto sta pensando l'aumento dell'inflazione sui poveri?
«Prima della crisi inflazionistica l'Istat stimava due milioni di famiglie in povertà assoluta, cioè che non hanno risorse sufficienti per acquistare un paniere minimo di beni. Partendo da quei dati e considerando un'inflazione all’8 per cento si calcola che il numero di famiglie scivolate in povertà assoluta si attesta attorno alle seicentomila unità. La quota di nuclei in povertà passerebbe dal 7,5 per cento al 10 per cento. Le più colpite sono le famiglie numerose».
In media le famiglie a basso reddito sono più o meno colpite dall'inflazione?
Prima
che il 36 per cento dei beneficiari non è po vero, una quota che sale al 51 per cento se si considerano i dati della Banca d'Italia. Tra gli esclusi ci sono stranieri, lavoratori, fami glie con figli a carico e persone che risiedo no al Centro Nord con case di proprietà. Al contrario, tra i beneficiari che non avrebbe ro bisogno del sussidio troviamo famiglie con anziani, persone con disabilità, single che non lavorano e famiglie del Sud. «Que sto significa che non di rado la misura sba glia mira», dice Cristiano Gori, professore all’università di Trento e responsabile scien tifico dell’Alleanza contro la povertà. «Per lopiù - spiega Gori - non si tratta di frodi, ma di errori nel disegno della misura, perché il reddito di cittadinanza è stato costruito in modo da andare, in parte significativa, a persone con difficoltà economica che però non sono povere e, dunque, dovrebbero es sere aiutate in altro modo».
I numeri descrivono una realtà che pena lizza soprattutto il Nord. In Piemonte, Lom bardia, Veneto, è più probabile che vi siano famiglie povere che non ottengono il sussi dio. Questo accade perché le soglie econo miche di accesso stabilite dalla legge sono
uguali per tutto il Paese, mentre non si con sidera che il costo della vita nelle regioni settentrionali è più alto che nel resto della Penisola. E così succede che al Nord solo il 37 per cento delle famiglie in povertà asso luta riceve il reddito di cittadinanza, men tre nel Centro siamo al 69 per cento e al Sud si arriva al 95 per cento.
Un fatto è certo, a questo punto. Così co me è congegnato adesso, il reddito di citta dinanza finisce per tagliare fuori un gran numero di persone che si trovano in una situazione di bisogno, a volte anche estre mo. «Servono criteri nuovi per stabilire chi davvero andrebbe aiutato», osserva Ma rianna Filandri, che insegna Sociologia del le diseguaglianze economiche e sociali all’università di Torino, autrice del saggio “Lavorare non basta”, tra pochi giorni in li breria. «Le nuove norme - dice Filandriandrebbero studiate per fare in modo che l’intervento dello Stato includa anche molti poveri che ne avrebbero diritto». Insomma, tutto il contrario di quanto, almeno a paro le, sembra intenzionate a fare la nuova maggioranza di governo.
«Sono le più colpite. Perché l’energia e i generi alimentari, che sono i beni e i servizi coinvolti nel forte incremento dei prezzi, sono una quota maggiore della spesa delle famiglie povere rispetto alla media dei nuclei italiani. Acqua, elettricità e combustibili valgono il 12 per cento della spesa media degli italiani, una quota che sale al 15 per gli operai, al 20 per cento per le famiglie con un membro disoccupato, al 23 per gli straniero. Gli alimentari sono il 17 per cento della spesa dei dirigenti, il 22 per cento per gli operai. Di fronte a questo incremento dei prezzi, per mantenere costante il tenore di vita, i più poveri dovranno spendere di più per i generi di prima necessità, ma non avendo a disposizione risparmi dovranno tagliare altre voci di spesa». Quindi il reddito di cittadinanza continua a essere uno scudo necessario?
«Sta avendo un ruolo essenziale nel contrastare la prolungata stagnazione dell’economia italiana che perdura dalla crisi del periodo 2008-13. Una misura di questo tipo è essenziale, anche se ha diversi problemi».
Quali?
«I principali sono la scarsa possibilità di controllo da parte dei comuni nell'attribuzione del beneficio e il fallimento
nel reinserimento lavorativo dei beneficiari. Tanti non hanno avuto alcun contatto con i centri per l’impiego. Ci sono anche problemi nel disegno della misura che potrebbero essere superati con una riforma complessiva. Le regole per l’accesso al Rdc e la definizione del sussidio sono uniche in tutto il paese, ma le famiglie che risiedono al Nord devono affrontare un costo della vita superiore e hanno anche costi maggiori di riscaldamento. Sarebbe più equo riconoscere queste differenze. Si potrebbe, ad esempio introdurre un'integrazione al Rdc per chi vive in zone con temperature più basse. Applicare regole uniche a realtà diverse produce iniquità». È vero che il reddito di cittadinanza è un disincentivo a trovare lavoro?
«Il Rdc è pensato come sussidio temporaneo per chi non lavora, ma in molte famiglie povere ci sono già lavoratori, che però hanno un salario molto basso o occasionale. Del resto è vero che ogni euro guadagnato con il lavoro riduce di quasi un euro il Rdc e questo disincentiva il lavoro. Bisognerebbe pensare a un sussidio che lo incentivi, ad esempio abbassando di molto il tasso di riduzione dell’importo quando il reddito da lavoro aumenta». G.R.
Giovani che non lavorano palla al piede per il futuro
L’
Italia rischia di non riuscire a rilanciare dopo la crisi sa nitaria la propria economia e alimentare i propri processi di sviluppo, cogliendo le opportunità della transizione verde e digitale, soprattutto per carenza di energia. Da troppo tem po da noi risulta, infatti, scarsa, disper sa, utilizzata in modo poco efficiente la risorsa più importante e strategica per far funzionare un Paese e mantenerlo competitivo a livello internazionale. Questa risorsa energetica è costituita dai giovani ben preparati e qualificati.
È scarsa perché di giovani ben forma ti ne abbiamo meno rispetto agli altri paesi con cui ci confrontiamo. L’inci denza degli under 30 sulla popolazione italiana non arriva al 28% ed è il valore più basso in Europa. Tra le più basse è anche la quota di laureati in età 30-34 anni: sotto il 27% contro una media eu ropea oltre il 40%. È energia dispersa perché presentiamo un saldo negativo cresciuto nel tempo tra giovani con alte qualifiche che vanno a cercare migliori opportunità all’estero rispetto a quelli che attraiamo, come ben documentato nel Rapporto Bes 2021.
L’utilizzo poco efficiente della risor sa giovani è misurato dalla percentuale di Neet: nella fascia 25-29 coloro che non studiano e non lavorano sono qua si il 30% ed è, di nuovo, il dato peggiore tra i paesi membri dell’Unione euro pea, con un divario che non si è ridotto nel tempo ed è anzi ulteriormente peg giorato con l’impatto della pandemia. La bassa valorizzazione in Italia del ca pitale umano delle nuove generazioni porta inoltre ad un maggior rischio di sottoccupazione e di trovarsi nella con dizione di working poor. Tutto questo ha poi ricadute sulla realizzazione dei
progetti di vita, come testimonia l’età media al primo figlio che risulta la più tardiva in Europa.
Il processo di miglioramento della condizione delle nuove generazioni non parte però da zero. Per risollevare l’economia italiana e mettere le basi di una nuova fase di sviluppo con nuove opportunità per i giovani sono disponi bili finanziamenti di entità del tutto ine dita, ottenuti dai governi precedenti at traverso il fondo Next Generation Eu. Il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) che contiene i progetti da finan ziare attingendo da tale fondo ha otte nuto l’anno scorso il via libera dalla Commissione europea. Alla nuova legi slatura e, quindi, al nuovo Governo è affidato il compito cruciale di una con creta ed efficace realizzazione, visto che i finanziamenti concessi devono essere utilizzati entro il 2026.
Il Pnrr destina investimenti rilevanti all’istruzione e alla formazione profes sionale, al rafforzamento delle compe tenze di base e avanzate, alle politiche attive del lavoro, al sostegno dell’im
prenditoria giovanile nei settori più in novativi. Non esistono quindi più alibi sulle risorse ed esiste un piano da cui partire, che può eventualmente essere precisato e rafforzato.
Chi si assume in questa fase storica del Paese la responsabilità di governo ha ora soprattutto l’impegno di rendere trasformativi questi strumenti nelle vi te delle persone e nel percorso di svilup po del Paese, attraverso un’efficace im plementazione su tutto il territorio e a partire dalle realtà sociali più svantag giate. Tutto questo richiede un sistema trasparente di monitoraggio e verifica dei progetti finanziati, che ci aspettia mo venga realizzato da parte del nuovo esecutivo in coerenza con la “valutazio ne dell’impatto generazionale delle leg gi e degli interventi pubblici”, come esplicitamente promesso sia nel pro gramma elettorale di Fratelli d’Italia sia in quello dell’intera coalizione che ha vinto le elezioni.
* Professore di Demografia e Statistica Sociale all’Università Cattolica di Milano
l
futuro del lavoro prende forma in due scenari possibili. Uno idilliaco, o quasi. L’altro, infernale.
Nel primo, tutti avremo più tempo libero e ci penseranno robot – di tipo meccanico o software – a fare il “lavoro sporco”. Quello noioso, pericolo so o usurante per noi umani. L’uso dell’intelligen za artificiale nelle aziende, inoltre, sbloccherà la produtti vità che ristagna da decenni in Occidente, favorendo la crescita dei salari.
Nel secondo scenario, tutto l’opposto. L’automazione farà saltare del tutto i rapporti di forza tra lavoratori e im prenditori, permettendo a questi ultimi di ridurre i salari in nome del profitto. Quasi tutti avranno un lavoro mal paga to. Le diseguaglianze, già da tempo in crescita, arriveranno alle stelle. Fino a scatenare una crisi dei consumi che dan neggerà l’intera economia.
La differenza di esito tra il primo e il secondo scenario la faranno le politiche sociali degli Stati.
È una tesi contenuta in un libro uscito in Italia da qual che settimana, “Il dominio dei robot”, di Martin Ford, infor matico e imprenditore statunitense già autore di “Il futuro senza lavoro” (entrambi per il Saggiatore). Ford in realtà sposa preoccupazioni e soluzioni politiche esposte, con crescente frequenza, da numerosi esperti negli ultimi anni (anche se Ford comunque offre qualche elemento nuovo nelle proposte).
«Il digitale finora non ha creato problemi occupazionali – anzi – perché è complementare alle nostre facoltà uma ne. Non vi si pone in competizione. Al contrario dell’intelli genza artificiale che sempre più si mostra capace di sosti tuirci nelle competenze manuali e cognitive», riassume a L’Espresso Stefano Scarpetta, direttore per l’impiego, il la voro e gli affari sociali all’Ocse, la storica organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico.
«L’innovazione tecnologica sta aumentando la destrezza e la mobilità dei robot, fattori che sono sempre stati i loro grandi limiti nei posti di lavoro», aggiunge a L’Espresso Ford. «Di conseguenza gli esperti prevedono che molte fab briche saranno tutte automatiche nel 2030. Jeff Bezos (capo di Amazon, Ndr.) ne ha già fatta una», continua.
Al tempo stesso, i software con intelligenza artificiale (Ia) riescono a simulare competenze umane in un numero crescente di ambiti, come contabilità, pianificazione di ri sorse, perizie. Studi della Stanford university, Brookings
Prima
institution e Mit technology review tra il 2021 e il 2022 no tano che dopo la pandemia l’intelligenza artificiale ha co minciato con forza a prendere varie funzioni tipiche dei “colletti bianchi”, risparmiati invece dalla precedente on data di automazione, che ha riguardato quasi solo fabbri che e agricoltura.
Il fenomeno accelera. Il noto osservatorio McKinsey pre vede che 45 milioni di posti di lavoro negli Usa saranno so stituiti dall’automazione entro il 2030; prima della pande mia la sua stima era di 37 milioni.
«Sono d’accordo con l’economista Larry Summers, se condo cui l’Ia può portare al 25-30 per cento la disoccupa zione reale negli Stati Uniti entro il 2050», dice Ford.
«Al momento l’avanzata dell’Ia è lenta e non c’è impatto quantitativo sull’occupazione; insomma non sta creando disoccupati», dice Scarpetta. Lo conferma, per l’Italia, uno studio 2021 dell’Inapp, dell’Università di Trento e dell’Isti tuto di statistica della Provincia di Trento (Ispat).
«Sì, ma vediamo già un impatto qualitativo, con la spari zione di alcune categorie professionali, quelle dotate di basse competenze. Ad esempio in fabbrica», dice Scarpet ta. «E l’impatto sarà rapido e ampio non appena la tecnolo gia maturerà al punto giusto», continua: «Allora potrebbe ro sparire ad esempio gli autisti di camion, che dotati di Ia si guideranno da soli. E nei call center sarà tutto automatiz zato almeno al primo livello di assistenza. Teniamo conto che solo il 10 per cento delle competenze umane sarà non replicabile dall’Ia nel lun go periodo, secondo lo studio Ocse Piaac», aggiunge Scarpetta..
«Gli esperti concordano che l’Ia potrà fa re tutto come noi (e a costi più bassi), eccet to per poche funzioni lavorative», dice Ford. Quelle che richiedono «capacità rela zionali o creatività, intuito. O quelle ad alta specializzazione e dove è necessario ana lizzare il contesto in modo olistico prima di decidere», aggiunge Ford. Salvi insomma i lavori di alta managerialità, quelli sanitari (dottori, infermieri…), artisti ci; gli insegnanti, gli scienziati e pochi altri.
Alcuni economisti sono ottimisti. McKinsey stima che lo sviluppo dell’Ia creerà nuovi lavori, come avvenuto finora con il digitale; e che i lavoratori sostituiti dalle macchine potranno ricevere una formazione per passare a nuove mansioni. Non così ottimista il Fondo monetario interna zionale che in uno studio del 2021 prevede l’aumento delle diseguaglianze nei prossi mi anni per colpa dell’automazione.
Bisogna prima di tutto riconoscere che siamo davanti a qualcosa mai successa nel la storia dell’umanità. «L’automazione ha spostato i lavoratori dall’agricoltura alla fabbrica nel corso di un secolo. E dopo li ha spostati dalle fabbriche ai servizi. La tecno logia ha creato più lavori di quanti ne ha
Prima Pagina
L’intelligenza artificiale
distrutti grazie alla nascita di interi nuovi settori», dice Ford: «Ma stavolta tutti i settori sono colpiti dal progresso tecnologico, per via delle capacità dell’Ia», aggiunge.
Secondo punto, «i nuovi lavori creati dall’Ia saranno ad alta specializzazione, quindi per poche persone. E quelli risparmiati dall’automazione richiedono competenze che non tutti possono avere. Non è detto ad esempio che un ca mionista vada bene come insegnante o in fermiere, pure se lo si volesse formare in tal senso. È anche una questione di talenti e vocazioni personali. I lavoratori più anziani inoltre avranno più difficoltà ad adattare le proprie competenze», dice Ford.
Insomma, Ford crede che ci sarà in gene re meno lavoro da fare nel mondo. Allora, oltre alla formazione dei lavoratori e a una riforma scolastica, sarà necessaria un qual che reddito universale di base (Ubi, Univer sal basic income). Erogato dallo Stato, per chi non riuscirà a lavorare o a guadagnare abbastanza.
re tutto il giorno sul divano a vedere la tv».
Ma come trovare i miliardi necessari a finanziare l’Ubi? Ford non ha dubbi: «Nuove tasse, alle aziende. Contraltare degli extra profitti ottenuti grazie all’automazione. Obietti vo è evitare che quei profitti aumentino le diseguaglianze; meglio invece trasformarli in soldi nelle tasche della gente e così alimentare i consumi».
IL DIBATTITO SI ACCOMPAGNA ALL’IDEA DI UN REDDITO MINIMO PER TUTTI DA FINANZIARE CON TASSE SUGLI EXTRAPROFITTI DELL’AUTOMAZIONE. IN CALIFORNIA SI SPERIMENTA GIÀ
Non è una tesi nuova, se ne parla da anni e tra i primi proponenti (dal 2012) ci sono i due economisti del Mit Erik Brynjolfsson e Andrew McAfee.
Ford tuttavia propone una particolare forma di Ubi, per ché «bisogna evitare di scoraggiare la ricerca del lavoro». L’idea è quindi di dare l’Ubi a tutti (non solo ai disoccupati), anche come un extra sull’eventuale stipendio (fino a una cifra massima complessiva). C’è così anche il vantaggio di rimediare all’impatto negativo che l’Ia avrebbe sia sull’oc cupazione sia sui salari. Ford propone inoltre «di aumenta re l’importo dell’Ubi a chi si impegna nella ricerca del lavo ro, nello studio o formazione». E «se qualcuno non riesce proprio a trovare lavoro, in un mondo dominato dalle mac chine, dovrebbe avere diritto a un Ubi migliore anche solo perché si prende cura di anziani, fa volontariato, studia o si dedica ad attività artistiche. Sarà pur sempre meglio di sta
Una sfida sarà calibrare le tasse in modo da non ostaco lare l’adozione dell’Ia, che pure promette vantaggi in termi ni di innovazione del lavoro, della società e maggiore pro duttività. L’umanità ha bisogno non di eliminare l’intelli genza artificiale, ma di dirigerla per il bene comune, come stabilito anche dalla Commissione europea. Ford si dice ottimista nel lungo periodo, «alcune piccole città califor niane hanno cominciato a sperimentare l’Ubi, promosso anche da alcuni politici come il democratico Andrew Young; bisogna continuare i test su piccola scala e poi lan ciarlo a livello nazionale». Ma Ford è pessimista nell’imme diato. «Prevedo che la politica affronterà il problema solo dopo una grossa crisi occupazionale, sociale ed economi ca». Ford nota che il dibattito sull’Ubi è viziato dalla fazio sità: i repubblicani negli Usa sono, per partito preso, ostili a forme di reddito universale. Una storia che agli italiani ri sulterà familiare.
Famiglia e lavoro
IL MESTIERE DEL GENITORE
DI MARGHERITA ABIS
Come si esce da uno stereotipo? Cosa ci tiene ancorati a un ruolo, a un compito, e come si possono ribaltare gli schemi, come quelli che ingombrano il campo della genitorialità e del la famiglia? Partiamo da un dato: in Italia la percentuale Istat di donne con un figlio che lavorano è al di sotto della media europea. Tra i Paesi con le statistiche più incoraggianti ci sono invece Germania, Fran cia e Spagna, dove conciliare il ruolo di genitore con quello professionale sembra essere meno problematico.
Spesso in Italia resiste la visione secondo cui la madre è la casalinga disperata che effonde i suoi respiri esclusivamente per la creatura che ha portato in grembo e che non ha altre ragioni per vivere e affermarsi. Mentre il padre, solo rara mente, può mettersi a disposizione delle esigenze della casa e della famiglia. Quando lo fa viene definito “mammo” o “baby sitter”; ma per il resto, la sua figura as sume più che altro i contorni di un allenato re di calcio o all’occorrenza quelli di un istruttore di scuola guida.
Ed è proprio nel mondo del lavoro che questi schemi trovano riscontro. Annuncia re una gravidanza in ufficio può innescare tutta una serie di spiacevoli reazioni a cate na. Ma non è ovunque così e, soprattutto, non deve necessariamente continuare a es serlo. «Diventare genitore in Francia è un’e sperienza molto diversa rispetto che in Italia, anche se non voglio generalizzare», spiega Clio Franconi, nata in Italia e trapiantata a Grenoble, e professionista nel campo dell’edu cazione positiva, un approccio alla genitorialità basato sul rispetto dei bisogni del bambino: «Quando sono rimasta in cinta vivevo e lavoravo in Francia e temevo di dover tenere nascosta la gravidanza sul lavoro, di essere discriminata o di dover dimostrare, al mio ritorno, che ero all’altezza del mio ruolo professionale. Invece l’approccio dei miei colleghi e ca
pi è stato decisamente più sereno, rispetto a quello a cui si è abituati in Italia».
Una chiave di lettura può essere trovata nei sussidi per la maternità che arrivano dallo Stato e in tutta una serie di agevolazioni e aiuti. «Non è indispensabile l’appoggio dei nonni come in Italia: ce la si può cavare molto più facil mente, anche se non significa che qui sia tutto idilliaco». Dalle sovvenzioni dallo Stato francese per baby sitter a do micilio, fino all’ampia disponibilità di posti al nido e per i
L’aula dei giochi e dello studio all’interno di una scuola privata italianaPrima Pagina
servizi di doposcuola. Per le neo mamme sono previsti ci cli di incontri a domicilio con l’ostetrica, rimborsati dal servizio sanitario nazionale, e vi è una diversa gestione del congedo di maternità, che pesa meno sul datore di lavoro. «La natalità in Francia è molto più alta, quindi ci si chiede: è così perché ci sono sostegni adeguati o viceversa?», pro segue Franconi.
Tra le differenze anche il fatto che la maternità obbligato ria in Francia duri 4 mesi. «Può sembrare poco ma questo fa sì che diventi tutto più fluido, il periodo di congedo, il ritorno: viene tutto vissuto con maggiore serenità dall’azienda. Assentarsi per una maternità diventa un fatto molto più normale». Come del resto dovrebbe es sere. In Italia c’è da un lato la fretta di tornare al lavoro per dimostrarsi all’altezza ma dall’altro, se si rientra troppo presto, suben trano il senso di colpa e la preoccupazione di essere cattive madri.
Franconi, che si occupa da tempo di genitorialità e ha due figli, tenta quotidianamente di dare una spiegazione a questi meccanismi. Nel 2020 ha lanciato il Summit di edu cazione positiva, per aiutare i genitori a gestire lo stress e la fatica educativa. Ora andrà in scena la quinta edizione: dal 24 al 28 ottobre si terrà online un’iniziativa dedicata alle famiglie con bambini dai cinque agli undici anni e che coinvolgerà una trentina di esperti del settore (per iscri versi: summit-educazione-positiva.com). «Ho cercato una chiave alla portata di tutti. In Italia si discute poco di edu cazione positiva, mentre in Francia o nei Paesi anglosasso ni queste tematiche hanno più spazio», precisa. Discutere e condividere di più, insieme alla disponibilità di sussidi e servizi per le famiglie, contribuisce a un’inversione di rotta e a un cambio di mentalità.
Tutto ciò normalizza anche la partecipazione dei papà alla vita familiare. «La disparità sul posto di lavoro esiste anche in Francia ma in generale c’è più equità. Se accompa gni i bambini a scuola o segui le riunioni con gli insegnanti, troverai in egual numero madri e padri. Di conseguenza, vedrai abitualmente madri e padri uscire prima dal lavoro per seguire gli impegni dei figli. Quando iniziano a farlo i colleghi, e per primi i capi, ti senti di poter fare lo stesso e diventa la normalità».
In Italia è comune pensare che il rendimento debba ne cessariamente corrispondere a un impegno totalizzante. Più stai in ufficio, la sera e nei weekend, più sei meritevole. Più togli tempo alla tua vita privata e sociale, più ti dimostrerai in grado di gestire lo stress e un elevato carico di lavoro. Ma a renderci meritevoli non è certo il fatto di occupare una sedia e accumulare ore di straordinario.
«In Francia non è questo a fare la differenza e incidere sul la carriera. Ci sono capi che sono diventati tali lavorando part time. Qualunque professionista, al di fuori del classico orario da ufficio 9-18, non ti riceve. In tanti uffici, il mercole dì pomeriggio non si lavora. Riuscire a dare spazio alla no stra vita privata non è un demerito, anzi ci arricchisce e ci farà aumentare l’energia da mettere sul lavoro».
Essere capaci di osservarsi e rimettersi in discussione può servire anche a ribaltare i ruoli in casa. «Apriamo un dialogo con il partner e chiediamoci perché, ad esempio, sono sempre io a portare i bambini alle visite mediche», aggiunge la formatrice: «Tante cose le facciamo per abitu dine o perché abbiamo acquisito un modello. Magari però ci pesano più di quanto peserebbero al partner e, viceversa, scopriamo che lui si sta trascinando un altro compito che non gli piace. Ciò implica anche la disponibilità a lasciare andare il bisogno di controllo. Mai dare per scontato che i ruoli debbano essere fissi».
L’educazione positiva tratta tanti di questi temi. Come l’importanza dell’assertività: riuscire a chiedere, a esprimere i propri bisogni senza che ciò venga visto come aggressività. «A chiedere un aumento, ad esempio, sono quasi sempre gli uomini e raramente le donne; ci sono statistiche che lo di mostrano. Idem per gli annunci di lavoro: la donna ri
I bambini a lezione con il loro insegnante nella scuola materna di Molières, in Francia
sponde solo se sa di essere in possesso di ogni requisito richiesto. All’uomo basta possederne il 75 per cento per sen tirsi sicuro di sé. Sono schemi che ci portiamo dietro dall’in fanzia». Le bambine non possono mai perdere la calma, o si dice loro «guarda come diventi brutta quando ti arrabbi». I maschi, al contrario, possono arrabbiarsi ma non piangere o faranno la figura delle femminucce.
«Si insegna fin da piccoli a reprimere le emozioni, smi nuendo la verità dei bambini e delle bambine, con frasi come “è impossibile che tu abbia caldo”». Da quel momento inizia la ricerca di compiacimento degli altri, per non sentirci al lontanati e abbandonati. In questo è sempre importante la consapevolezza.
«La consapevolezza è fondamentale in ogni aspetto della genitorialità, anche nel modo che abbiamo di relazionarci con Internet. È facile cadere in un uso poco consapevole dei social o farsi catturare». Un effetto molto comune della mente umana è quello del confronto, che rischia di essere perennemente inadeguato di fronte a modelli di maternità perfetta. «Bisogna però guardare ai social come a un film, sapendo che si tratta di una costruzione narrativa. Dobbia mo essere consapevoli anche quando scegliamo di condivi dere la foto di nostro figlio. Non c’è necessariamente una modalità giusta e una sbagliata, l’importante è conoscere ed essere informati sui rischi che comporta. Una soluzione può essere quella di coprire il volto del bambino o chiedere direttamente a lui, quando diventa più grande, se sia d’ac cordo o meno. I bambini non sono tutti uguali: qualcuno è più sensibile e può soffrire per questa esposizione, può sen tirsi schiacciato dai commenti altrui». È una questione di specificità, che riguarda la sfera del consenso, del dialogo, dell’empatia e della fiducia in sé. Per uscire da una menta lità, a volte basta iniziare.
Famiglia e lavoro
SENZA GIRI DI BOA DI BIAGIOTTI DONNE CONTRO LE DISPARITÀ
«Un racconto di resistenza, non lamentoso». Così la giornalista Francesca Biagiotti racconta a L’Espresso “Senza giri di boa”, un’antologia che raccoglie i racconti di 17 donne e delle loro esperienze nel mondo del lavoro. Le loro storie, nel libro edito da Paper First, si intrecciano a quelle delle giornaliste che le hanno intervistate e si fanno vissuto in cui molte in Italia potranno riconoscersi.
Il libro nasce da una campagna social, come reazione alle parole pronunciate dall’imprenditrice Elisabetta Franchi. «Le donne le prendo dopo quattro giri di boa. Sono tranquille e lavorano di più». Il lancio di un hashtag, #senzagiridiboa, è stato il principio di una condivisione. «Ci sono arrivate oltre un centinaio di mail di persone che si sono riconosciute nel nostro dissenso. C’era chi aveva rinunciato ad avere un figlio, chi aveva atteso troppo. C’erano donne che erano state discriminate una volta rimaste incinte, altre che sono state licenziate. Abbiamo capito che dovevamo trovare uno sfogo a quelle testimonianze». Così, con uno sforzo corale, il gruppo di giornaliste ha contattato alcune delle donne che avevano scritto loro e insieme hanno raccontato un pezzo di società.
Il libro, però, non parla solo alle donne delle donne. Ciò che accade alle lavoratrici italiane «accade a tutti, ha delle ricadute importanti sulla società». Basta pensare ai dati sulle nascite che sono in crollo costante. «L’Istat ci dice che se negli anni Sessanta c’era un anziano per ogni bambino, oggi siamo a cinque anziani per ogni bambino». Rettificare le discriminazioni di genere sul posto di lavoro è importante per le donne che potranno, se vorranno, vivere serenamente la propria maternità senza aver paura delle ricadute sulla propria carriera, ma conviene anche alla società che non dovrà rinunciare alle sue “risorse femminili”».
Come fare? «I modelli da copiare ci sono già, a partire da quello spagnolo». Lo Stato deve far sì che per le aziende non sia vantaggioso preferire un uomo a una donna adottando, ad esempio, sistemi di congedi parentali equiparati. Si tratterebbe di attuare la Costituzione che prevede la rimozione degli «ostacoli oggettivi per la parità effettiva sul mondo del lavoro».
(Silvia Andreozzi)“Senza giri di boa” di Francesca Biagiotti, edito da Paper First
Ultima chiamata per la Sanità pubblica
Alcuni hanno osservato che l’espressione “gover no di centro destra” non è corretta ma secondo me non sarebbe corretta neanche quella che definisce l’attuale governo semplicemente di “destra”. Meglio sarebbe parlare di “destre” al plurale quindi di “governo di destre”. Questa espressione, ha il vantaggio di farci comprendere non solo le diverse “weltan schauung” che esistono nella coalizione di governo, ma anche e soprattutto le profonde differenze strategiche e segnatamente le lo ro conseguenze pratiche e materiali sulla vi ta ordinaria di decine di milioni di persone. Prendiamo la sanità. Cosa accadrebbe al po polo italiano se l’onorevole Meloni affidasse l’incarico di “ministro della Salute” a Forza Italia, o alla Lega ?
vanti alla malattia sono diversi) fine dell’art 32. Se l’incarico di ministro della Salute, invece, fosse dato a Fratelli d’Italia, il partito della Meloni, la musica potreb be cambiare radicalmente. La “destra sociale”, rispetto alla Sanità, ha valori di riferimento completamente an titetici a quelli di Forza Italia e della Lega.
L’AUTONOMIA DIFFERENZIATA DELLA LEGA E IL “PRIVATISMO” DI FORZA ITALIA AVREBBERO CONSEGUENZE DISASTROSE. LA DESTRA DI MELONI DOVREBBE OPPORSI AGLI ALLEATI
Se l’incarico fosse affidato a Forza Italia, siccome le poli tiche sanitarie di questo partito sono del tutto sovrappo nibili a quelle neoliberiste del Pd, quelle, tanto per inten derci, che hanno messo in ginocchio la sanità pubblica, è come se per estensione la Meloni affidasse il ministero della Salute di nuovo a Speranza, cioè al Pd. Se fosse così la sanità pubblica continuerebbe ad essere privatizzata, ri ducendo ancora di più i diritti delle persone, sicuramente ci terremmo l’obbrobrio delle aziende e il sistema pubbli co sarebbe condannato non solo a regredire ma anche a indebitarsi con il Mes perché per problemi di sostenibilità si sarebbe costretti a rifinanziare il sistema che c’è senza rimuovere una sola delle sue tante contraddizioni. Ricor dochenelnostroPaese,apropositodisostenibilità,laspe sa sanitaria privata è finanziata interamente dal pubblico. Se l’incarico invece fosse affidato alla Lega dalla padella si passerebbe alla brace. La Lega vuole il regionalismo differenziato cioè cancellare il servizio sanitario nazio nale e sostituirlo con un arcipelago di autarchie sanita rie regionali, in modo tale che alla fine, a regime, ogni regione si finanzierebbe il proprio sistema sanitario con il proprio Pil. Se in questo modo le regioni più povere perdono il diritto di curarsi, non importa. Ciò vorrebbe dire: fine dello Stato centrale che perderebbe le sue tra dizionali titolarità, fine del sistema solidale e universale quindi fine del principio di uguaglianza (i cittadini da
In ragione del principio di giustizia sociale, del valore in discutibile dello Stato nazionale e sovrano, in ragione del primato antiliberista del pubblico, la Sanità, con la “destra sociale” potrebbe restare pubblica solidale e nazionale. La Meloni, quindi, se vuole che il suo governo non passi alla storia come lo sterminatore dei poveracci farebbe bene a tenersi stretta la Sanità pubblica. Sia chiaro che, dato lo stato pessimo in cui si trova oggi la sanità pubblica, per salvare il salvabile, ormai è inevi tabile mettere mano a quella che da tempo ho definito una “quarta riforma”.
Tradurre la “dottrina sociale” della destra in una “quarta riforma” spazzando via le controriforme neoliberali del Pd fatte in questi anni, per la Meloni, ma per chiun que altro, non sarebbe un’impresa facile. Per salvare la sanità pubblica le servirebbe proprio quel pensiero ri formatore che il Pd in questi anni ha sistematicamente ignorato e negato considerandolo addirittura un pen siero nemico, solo perché metteva in pericolo quella che Foucault ha chiamato la “microfisica del potere”. Non si dimentichi mai che i tre quarti di un qualsiasi bilancio regionale è costituito dalla spesa sanitaria. Ma perché la Meloni, sulla Sanità, a parte sventare sul nascere le brutte intenzioni delle altre “destre”, do vrebbe fare della salute del nostro Paese uno dei suoi principali cavalli di battaglia? Perché ormai, soprattutto
dopo la pandemia, la salute è diventata nella coscienza della gente, una questione prioritaria esattamente come la pace, la sostenibilità ambientale, la crescita economica, il lavoro. L’importanza strategica della Sanità è anche fa vorita da un mucchio di fattori tipici del nostro tempo (in vecchiamento, cronicità, maggiore attesa di vita, maggio re efficacia della medicina). L’importanza strategica della Sanità il Pd purtroppo non l’ha mai capita. Anzi con le sue politiche miopi ha finito con il ridurre la grande questione politica del “destino delle persone” a un problema pura mente amministrativo e gestionale. Uno sbaglio politico folle. Ma uno sbaglio che la Meloni se non fa attenzione rischia di procrastinare e di peggiorare. Oggi quel potere che i filosofi chiamerebbero “escatolo gico” (escatologia è la dottrina che si occupa del destino dell’uomo), e cioè il controllo della finitudine umana, quella che ,nel mito, prima era solo della divinità, oggi, attraverso la scienza, è in mano alla politica.
È la politica che oggi può decidere di azzerare le liste di attesa della Asl, che può decidere migliori cure primarie, ospedali ben organizzati, servizi di qualità, in sintesi che può decidere come curare i propri cittadini.
Oltreaciòlapoliticaoggipuò,sevuole,controllareedistri buire la salute come opportunità di benessere per le perso ne e per le comunità. Un’altra follia del Pd è stata quella di aver del tutto abbandonato a favore di uno stupido azien
dalismo sanitario il progetto di prevedere, predire, preve nire le malattie. Cioè il progetto di offrire alle persone oltre che buone cure anche buone condizioni di salute.
L’ultima proposta di Speranza (Sistema Nazionale Pre venzione Salute) nonostante che le nuove norme costi tuzionali invitino a superare le divisioni tra ambiente, salute ed economia, resta drammaticamente arretrata. La pandemia ha travolto i nostri scalcinati sistemi di pre venzione e Speranza e il suo inconcludente Pnrr sembra non essersene accorto.
Quindi nel caso in cui la Meloni, a parte entrare nella storia come prima donna premier, volesse anche cam biare la storia, per lei, a proposito di salute, sarebbe suf ficiente riuscire, laddove la sinistra di governo ha clamo rosamente fallito: offrire a milioni di persone ben altri destini. È un progetto possibile e fattibile quindi tutt’al tro che utopico. Basta pensarlo.
Ma se la Meloni affiderà la grande questione della salute a certe “destre” questo progetto di fatto sarà impossibile perché non potrà mai essere pensato. Oggi è possibile cambiare la storia cambiando i destini degli uomini.
* Insegna presso la facoltà di medicina dell’Università di Tor Vergata di Roma Logica e filosofia della scienza e sociologia dell’organizzazione sanitaria
SALUTE MENTALE,
l 10 ottobre di ogni anno psicologi e psichiatri, associazioni e azien de, riempiono le agende con con vegni, pubblicazioni di rapporti, incontri. Anche in Italia la Gior nata mondiale della salute men tale desta l’attenzione dei media e della politica, soprattutto dopo la pandemia. Lo slogan più gettonato è: «Non c’è salute senza salute mentale». Difficilmente, però, sentiremo dire che non c’è salute mentale senza assunzione di personale.
«Abbiamo bisogno di persone formate che siano motivate a lavorare in questo settore e abbiano il tempo sufficiente per poterlo fare, perché se fuori dalla porta c’è una coda di venti persone, sarà impos sibile conoscere in dettaglio le storie dei singoli pazienti». Fabrizio Starace è uno psichiatra, dirige il Dipartimento di salu te mentale di Modena e presiede la terza sezione del Consiglio superiore di Sanità. Ha fatto un calcolo: come minimo, ai ser vizi che la nostra sanità pubblica dedica a chi ha un disagio mentale mancano 4.600 operatori, tra psichiatri, psicologi, infermieri, educatori e al tre figure. È una sottosti ma: il conto è eseguito sul la base degli standard de finiti nel 1999 dal Progetto obiettivo salute mentale, documento ufficiale nel
Jessica Masucci GiornalistaALE, CURE A METÀ
Il diritto all’assistenza
quale è scritto che dovremmo avere un operatore ogni 1.500 abitanti. Stando agli ultimi dati del ministero della Salute ce ne sono 28.807 ma ne dovrebbero essere all’incirca 33.400, e questo secondo gli standard di 23 anni fa. Con questi nume ri, secondo un’altra stima di Starace e del la Siep (Società italiana di epidemiologia psichiatrica), è possibile offrire una ri sposta adeguata solo a poco più della metà delle persone con problemi psicolo gici o psichiatrici. A farne le spese sono soprattutto i centri territoriali. L’effetto si ripercuote sulle famiglie. «A Cagliari città ci sono tre centri di salute mentale, ma nel sud della Sardegna ci sono luoghi dove le persone devono percorrere chilo metri per raggiungere il primo servizio disponibile». A raccontare questa storia sarda di accorpamenti e scelte politiche è Gisella Trincas, presidente di Unasam, Unione nazionale delle associazioni per la salute mentale, che riunisce le associa zioni dei famigliari dei pazienti. Ventiset te anni fa per sua sorella ha fondato insie me ad altri Casamatta, una piccola comu nità dove abitano sette persone con pro blemi di salute mentale, in un condominio a Cagliari centro.
Guardando al numero degli operatori, alcune regioni sono messe molto peggio. «Nell’ordine sono la Basilicata, l’Abruzzo, e la Calabria e l’Umbria a pari merito; la Basilicata rispetto al valore nazionale, già inferiore a quello che dovrebbe essere, ne ha il 50 per cento in meno», spiega Stara ce. La parte alta della classifica è invece tutta sbilanciata dalla Toscana in su. E i divari regionali esistono anche per le atti vità delle associazioni e dei volontari. Lo conferma Stefano Cecconi, del Coordina mento nazionale per la salute mentale, nel quale confluiscono oltre un centinaio di associazioni varie: «C’è un gap tra nord e sud molto forte come in tutto il resto del terzo settore». Ma possiamo sapere se le persone stanno meglio dopo essere state in cura presso i Dipartimenti di salute mentale italiani? Starace risponde secca mente di no: «Non ci sono indicatori di esito raccolti di routine dal sistema infor mativo nazionale». E servono risorse umane anche per la continuità assisten ziale: solo una persona su quattro dimes sa dopo un ricovero per motivi psi
RAGAZZI ISOLATI IN CASA GRUPPI DI AIUTO PER GENITORI
DI MARCO BENEDETTELLI
È iniziata con un padre e la sua richiesta di aiuto: «Mia figlia non esce più dalla sua stanza. Potete attivare un gruppo anche per noi genitori?». Era il 2019, già prima del Covid-19, quando l’uomo si è rivolto all’associazione Ama che a Trento organizza i gruppi di auto mutuo aiuto, incontri comunitari nei quali una decina di persone che condividono lo stesso problema dialogano e si confrontano. A ricordare l’episodio è Miriam Vanzetta, coordinatrice dell’associazione Ama. Alle prime riunioni si sono presentate cinquanta persone che temevano di avere un figlio “hikikomori”, come dagli anni 80 si è iniziato a chiamare in Giappone i ragazzi che scelgono di isolarsi in casa. Oggi di gruppi per genitori con figli ritirati ne sono attivi due e un terzo è in arrivo. In Trentino, secondo il servizio sanitario locale, i ragazzi che vivono questo problema sono seicento. Ma il disagio ha una vasta eco in tutta Italia. E Ama dagli anni 90 è punto di riferimento nazionale per il movimento dell’auto mutuo aiuto, ha contribuito in varie regioni all’attivazione di numerosi gruppi su elaborazione del lutto, gioco d’azzardo, dipendenze o disturbi alimentari. Ora è emersa una nuova urgenza sociale. «Vicenza, Bologna, Ancona, Palermo. Da più città ci chiedono qual è la strada per avviare gruppi ama dedicati a genitori di ragazzi ritirati, secondo quella che è la nostra esperienza. Forse il Covid-19, anche in questo caso, ha fatto da detonatore d’un disagio latente», spiega Miriam Vanzetta. Una sofferenza – attenzione, non una patologia riconosciuta – tanto estesa quanto invisibile. Sono più di centomila i giovani isolati in Italia, secondo le stime di Hikikomori Italia, che insieme a Hikikomori Italia Genitori organizza dal 2017 una cinquantina di gruppi di auto mutuo aiuto, in presenza e online, capillarmente presenti in quasi tutte le regioni, dieci solo nel Lazio. Senza contare il gruppo Facebook che viaggia verso i quattromila genitori iscritti. Spiega Marco Crepaldi, psicologo e presidente fondatore: «Riceviamo dai genitori fino a dieci richieste di aiuto al giorno. Collaboriamo con cinquanta psicologi e abbiamo un referente per ogni regione. La nostra rete lavora anche per chiarire degli aspetti di questo disagio che ha vari gradi di estremizzazione». Anche a Forlì è attiva l’associazione Ama Hikikomori, nata un anno fa dalla spinta di genitori e psicologi, con due gruppi in Romagna e uno a Bologna. «Grazie a un questionario somministrato tra 290 genitori abbiamo tracciato un primo profilo dei ragazzi e delle loro famiglie», aggiunge Crepaldi. Ne è uscito che al 90 per cento dei casi i ritirati sono maschi, l’età media è sui 20 anni ma il problema può manifestarsi
intorno ai 15. I ragazzi hikikomori sono in genere studenti brillanti e dotati, inclini all’anticonformismo, rigidi ai compromessi e molto sensibili. Non sono rari casi più cronici di trentenni. Le famiglie, almeno quelle che arrivano ai gruppi d’auto mutuo aiuto, appartengono al ceto medio alto e hanno un livello di istruzione elevato, dimostrano di saper analizzare in profondità il disturbo adattivo. Aggiunge Giulia Tomasi, psicoterapeuta per l’associazione Ama: «Il problema si ripresenta in quelle case dove si proiettano sui figli aspettative più pressanti. Succede in particolare per i ragazzi. Ma aumentano anche le ragazze hikikomori. Il passaggio delicato è tra l’infanzia, dimensione protetta, e l’adolescenza dove ci si inizia a rapportare con l’aggressività di un mondo ormai iper individualistico». Ai gruppi partecipano in prevalenza madri mentre gli uomini, se si uniscono, restano sullo sfondo. Facilitatori e psicologi raccontano di genitori afflitti da un senso di colpa insostenibile, che confidano al gruppo di averle provate tutte: sgridate, punizioni, urla. Molti si avvalgono già di uno psicoterapeuta. Andare al lavoro la mattina e vedere altri giovani in attesa del bus per la scuola dà il tormento. Il futuro, anche economico, del figlio chiuso nella stanza che non studia e non lavora li angoscia, in tanti hanno attivato assicurazioni per la vita. La vergogna è tale che il loro ragazzo ritirato può diventare un segreto inconfessabile persino agli amici intimi. Ci si sente giudicati, etichettati. Ci sono genitori che si mettono in disparte come degli hikikomori, niente più cinema o passeggiate in montagna. Si vive in funzione del proprio figlio. Quando si approda a un gruppo di auto mutuo aiuto però si può provare sollievo. Ci si ritrova fra persone che
condividono lo stesso orizzonte e si lenisce il senso di isolamento. Attraverso il dialogo nelle riunioni mensili o bisettimanali si comprende che il problema non è di origine educativa ma nasce da un malessere psicologico. Osserva Chiara Illiano, psicologa e psicoterapeuta, coordinatrice area psicologica Hikikomori Italia: «C’è maggiore ascolto e fiducia reciproca se sono le madri a scambiarsi consigli sui figli. Lo psicoterapeuta talvolta è percepito come un professionista lontano dalle dinamiche familiari e i suoi indirizzi vengono respinti». Ancora, ci sono genitori che vedono i propri ragazzi sempre incollati allo schermo e finiscono per attribuire la colpa del ritiro sociale alla dipendenza da Internet. Ma non è così, spiegano gli psicologi e operatori intervistati. Le chat e i social, sono spesso gli unici canali verso l’esterno, troncarli aggrava l’isolamento. E nei gruppi il confronto serve a capire che l’abuso del virtuale, quando c’è, può essere la conseguenza del ritiro, e non la sua causa. Inoltre chi soffre di Gaming Disorder, patologia riconosciuta dall’Oms, a differenza dell’hikikomori non sente ansia a uscire per strada. Non c’è solo il digitale poi, molti passano le ore immersi nei libri, film, serie tv, anche in attività artistiche. Elisabetta Migliore e Livia Bussalai sono le due facilitatrici di uno dei gruppi ama di Trento per genitori: «Vediamo che madri e padri si confrontano molto su come ricostruire il dialogo coi figli». L’incomunicabilità può arrivare a stati d’ansia forti e porte chiuse a chiave,. Giovani che invertono il ciclo del sonno pur di non incontrare nessuno in casa, e escono dalla stanza solo di notte. Una ragazza alla ricerca di isolamento estremo dormiva dentro il proprio armadio. Eppure, col dialogo anche attraverso la porta chiusa è possibile lentamente aprire degli spiragli. «La prima prassi che diffondiamo è di non colpevolizzare il ragazzo, di non tormentarlo per i fallimenti scolastici o lavorativi. I genitori devono invece costruire grazie all’ascolto un ponte tra la porta della camera e del portone, tra lo spazio domestico e il fuori, così che il figlio le varchi entrambe», spiega Elena Carolei, presidente di Hikikomori Italia Genitori. È bene che si dimostrino comprensivi, affinché il ragazzo abbassi la guardia e torni per esempio a mangiare con un po’ di calma assieme alla famiglia, senza consumare il pasto in due minuti e scappare il prima possibile dagli sguardi di condanna e preoccupazione, o, peggio, farsi lasciare il piatto davanti alla porta. Se l’ambiente si rasserena il giovane lentamente, forse, può aprirsi. Magari torna a fare piccoli lavoretti in casa, di cucina, o si ferma a conversare sul divano. A quel punto può uscirsene con una domanda, un desiderio che riapre al mondo esterno, come quello che ha raccontata una mamma: «Un giorno all’improvviso mio figlio mi ha guardato e mi ha detto: vorrei andare a vedere il mercato dei fumetti. E così siamo tornati per la strada. Assieme».
chiatrici viene vista dai servizi territo riali entro 30 giorni. L’inefficienza è cer tamente un problema di soldi ma non solo, ha un aspetto marcatamente politi co, di scelte. In vista dell’ultima tornata elettorale, alcune associazioni lombarde hanno scritto una lettera aperta ai partiti politici. Uno dei firmatari è Paolo Mac chia, presidente della Rete utenti salute mentale Lombardia. Si occupa anche di supporto tra pari, aiutando chi ancora deve compiere certi passi nel suo percor so di terapia. «L’alchimia che si genera tra due persone che hanno un vissuto simile innesca un meccanismo di fiducia e spe ranza». Paolo Macchia e la sua associa zione vogliono espandere la propria rete a livello nazionale e ha visto negli ultimi tempi una maggiore apertura al dialogo, a partire dallo stesso ministero.
Tuttavia, i programmi elettorali dei partiti per le ultime elezioni prevedevano poco o niente e senza mai indicare le co perture necessarie. A parte lo psicologo di base, declinato in varie forme. Di fatto, se il quadro dei servizi offerti ai pazienti psichiatrici è allarmante, quello dell’in tervento pubblico destinato al benessere psicologico dei cittadini e alla prevenzio
LE STRUTTURE
La Struttura residenziale terapeutico-riabilitativa per trattamenti comunitari estensivi (Srtre) a Roma. In alto a sinistra, la clinica psichiatrica privata Villa Maria Pia e, a destra, il reparto psichiatrico dell’ospedale San Filippo Neri, sempre a Roma
ne è ancora peggio. «Gli psicologi di base potrebbero svolgere una funzione di salu te pubblica molto importante, anche per correggere alcune deformazioni del siste ma attuale, nel quale la psicoterapia è presente solo nel mercato privato», dice Matteo Bessone, psicoterapeuta e co-fon datore dello Sportello TiAscolto. Presen te a Torino, Milano, Bolzano, Lecce e Bo logna, si rivolge a bambini, adolescenti e adulti, proponendo psicoterapia a prezzi calmierati e interventi sul territorio: «Sempre più spesso veniamo sfacciata mente contattati da alcune Asl che ci chiedono se possiamo fare il lavoro al po sto loro».
IL SORRISO AMARO
BEFFATO DAI SONDAGGI LULA AL BALLOTTAGGIO.
DELLA CORRUZIONE GRAVA ANCORA
PARTITO. BOLSONARO HA SOLDI, POTERE
CONSENSO MENTRE LA SINISTRA ARRANCA
DI TUTTO IL CONTINENTE
DI DANIELE MASTROGIACOMO DA RIO DE JANEIRO
l risveglio è brusco, una doccia fredda. Come un brutto sogno, ma è la realtà. Per la sinistra brasiliana raccolta attorno a una coalizione di dieci partiti e sigle, dal centro destra ai verdi, il successo di Luiz Inácio Lula da Silva (76 anni) al primo tur no delle elezioni per il futuro presidente, è una vittoria amara. Ha incassato 57 milioni di voti. Tanti, il 48,43 per cento dei 156 mi lioni che si sono recati ai seggi. L’ex operaio tornitore, leader del sindacato metalmec canici, per due volte presidente del Brasile, tra i Grandi del Sud del mondo, quello dei poveri, della scuola per tutti, del cibo a ta vola almeno una volta giorno, quello del serbatoio delle materie prime che alimen tavano la locomotiva cinese, ha raccolto il più alto numero di preferenze. Ma non è bastato. Ha mancato il colpo che accarez zava in segreto e che non osava svelare. Strappare subito lo scettro del potere e of frire nuove speranze a un Paese triste e di viso, prigioniero di rancori e di rivalse frustrate.
I sondaggi, i grandi col pevoli delle elezioni più sentite da quando è tornata la democrazia (1986), da giorni annunciavano il trionfo del vecchio leone.
Era giunto il momento del riscatto. Il culmine di una
rimonta: dalla gogna in tv di un processo per corruzione, ai 580 giorni di carcere du ro, fino all’annullamento delle sentenze e lo slancio verso la nuova candidatura alla guida del Paese. Il responso delle urne è stato diverso. La destra di Jair Bolsonaro, una destra estrema, violenta nelle parole e ossessiva sui nemici da combattere, si è ri velata più forte del previsto. Gode ottima salute, nonostante le critiche mosse negli ultimi quattro anni al suo leader. Per le frasi taglienti, le battute feroci, la nostalgia di una dittatura (1964 -1985) che tutti hanno cancellato, la gestione disastrosa del Co vid-19, i 640 mila morti per la pandemia, i vaccini negati, le mascherine osteggiate, la cultura delle armi, la negazione dell’identi tà di genere, la difesa delle milizie paramili tari nelle favelas, dei soldati e della polizia nelle stragi, lo scempio dell’Amazzonia. Ammette all’Espresso Jean-Jacques Kour liandsky, ricercatore presso l’Iris, docente di Storia e direttore dell’Osservatorio sull’America Latina della Fondazione Jean Jaurès a Parigi, uno dei massimi analisti del Continente: «Gli istituti di sondaggio han no giocato un brutto scherzo a Lula. È arri vato primo, ma visto lo scarto di punti che le rilevazioni gli assegnavano rispetto al suo avversario, questo primo turno è sem brata una vittoria di Pirro. Il presidente uscente, con i suoi seguaci, possono al con trario raccogliere nuove energie e un vi
DEL LEONE FERITO
gore importante per il ballottaggio». Dietro la forza di Jair Messias Bolsonaro (67 anni) ci sono una montagna di quattri ni e una collaudata macchina della propa ganda. C’è anche quel netto rifiuto nei con fronti del fondatore del Pt che contagia ol tre la metà dell’elettorato. Sono passati dodici anni dall’ultimo e secondo governo Lula (2002-2012) e il marchio della corru zione resta impresso. La tempesta provo cata dallo scandalo Odebrecht, dal nome del ceo della più grande holding delle co struzioni brasiliana in America Latina, ha trascinato nella polvere mezzo gruppo di rigente del partito e travolto lo stesso lea der. L’uomo che vuole far «sorridere» di nuovo il Brasile, ridare speranza e felicità a un popolo afflitto dalla “saudade”, è dovuto partire in difesa. Si è scusato davanti a un pubblico che lo ascoltava e guardava con sospetto. Ha ammesso le tangenti del suo partito. Lo ha detto con umiltà e pieno di vergogna. Ma non è bastato. Restava viva nella memoria di tutti la storia del triplex, l’attico con vista sul mare, ricevuto, secon do l’accusa, in cambio di un appalto pubbli co. Un caso controverso, mai provato pie namente. Lula si è sempre dichiarato inno cente. Passare per un corrotto lo umiliava. Era una ferita insopportabile. Non ha colpe personali. Sapeva, probabilmente, quanto accadeva nel suo Partido dos Trabalhado res, ma faceva finta di niente.
Striscioni con il volto di Lula in vendita per le strade di Rio de Janeiro
È stato condannato a 10 anni aumentati a 17 in appello. Una pena esemplare, esage rata, dubbia secondo centinaia di giuristi, intellettuali, premier, ex capi di Stato che gli hanno offerto la loro solidarietà. È finito in prigione. È sprofondato nel pozzo dell’infamia, trattato come un volgare la dro, nel momento peggiore della sua vita politica e umana. È morta la sua seconda moglie, da sempre compagna di lotta e di ideali, gli è stata negata la possibilità di partecipare, in manette, ai funerali del suo più caro nipote, ha dovuto rinunciare a
Le elezioni in Brasile
candidarsi come presidente nel 2018. Diciotto mesi durissimi. Solo grazie a una sentenza della Corte suprema federale, che ha riconosciuto un conflitto di competen za tra uffici giudiziari, le sue condanne so no state annullate. Merito anche del sito investigativo The Intercept Brasil che ha pubblicato gli screenshot delle chat segrete su Telegram tra Moro e il pool dei pm nelle quali il giudice incitava i colleghi a trovare elementi di prova contro l’imputato eccel lente, indicando dove e come. La sua man cata imparzialità, come previsto dalla pro cedura, era inciampata su un chiaro spirito persecutorio.
Il clima stava cambiando. Jair Bolsonaro aveva vinto a mani basse contro un Fer nando Haddad, braccio destro di Lula, get tato all’ultimo nell’arena al posto del capo in prigione. Governava con il vento in pop pa. I sondaggi lo davano in ascesa. Il Brasile inneggiava al suo “mito”. L’ex capitano, il deputato che per 22 anni aveva presentato una sola proposta di legge, che tutti consi deravano una specie di macchietta, si con fermava l’uomo del rilancio politico e mo rale. Con lui, la destra aveva espresso una forza inaspettata. Raccoglieva l’insofferen za diventata disprezzo per i 12 anni di do minio ininterrotto del Pt. Ben oltre la metà dei brasiliani aveva finito per odiare Lula e tutto quello che significava. Aveva dimenti cato i milioni di poveri sfamati, il diritto per tutti all’istruzione, all’assistenza sani taria, la difesa del salario minimo, gli aiuti della Bolsa Familia che restituivano dignità anche agli ultimi.
In Brasile si respirava aria sempre più te sa, si denunciava un chiaro clima da fasci smo. Solo la giustizia difendeva i suoi con fini da un potere che li infrangeva con la forza. Gli equilibri istituzionali traballava no. La violenza diffusa era diventata selet tiva. Con gli omicidi politici, come quello dell’attivista femminile Marielle Franco, deputata regionale a Rio de Janeiro. E raz ziali, come le stragi di ragazzini di colore nelle favelas. Il nuovo alfiere dell’ordine e della lotta al comunismo si era trasformato in oppressore. Ogni critica respinta, aperto sostegno all’agrobusiness, alle invasioni di terre indigene per gli allevamenti e coltiva zioni intensive, allo sfruttamento delle ri sorse in Amazzonia da parte di razziatori illegali e industrie energetiche. Solidarietà
Prima
ai militari e alla polizia invitati a sparare per primi, il culto delle armi da contrap porre alla pacificazione nelle sterminate periferie. Il sostegno alle chiese evangeli che, grazie alla terza moglie, Michelle, fe dele da sempre della potente Chiesa uni versale di Dio, per ricambiare i voti decisivi alla sua elezione.
IL PRESIDENTE
I sostenitori del presidente brasiliano Jair Bolsonaro durante la 45a fiera agricola Expointer a Esteio, Brasile, nel settembre scorso
Bolsonaro ha finito per attribuire un va lore mistico alla sua missione. In sella alla moto, protetto da stuoli di centauri, radu nava i suoi fan davanti al Parlamento, li in citava ad attaccare il Palazzo che gli impe diva di governare. Lanciava strali sulla Cor te suprema che indagava sul potere econo mico accumulato dal suo clan familiare. Si appropriava della bandiera verdeoro per nazionalizzare i sentimenti, cresceva con le fake sui social, rifiutava ogni confronto. Era il Bene contro il Male. Contro i diritti civili, le identità di genere, il disprezzo per i gay e i trans, il fastidio per i media sempre pronti a criticare. Era affascinato da Do nald Trump. Lo emulava in tutto. Lo ha fat to anche in queste elezioni, contestando il voto elettronico, in vigore da 26 anni senza mai una sbavatura, minacciando di rifiuta re il risultato se fosse stato sfavorevole. I dati gli hanno restituito quella sicurezza che i sondaggi avevano intaccato. È arriva to dietro Lula ma la sua è una vittoria. Ricorda ancora Kourliandsky che ci ac compagna in questa rievocazione, che «la sinistra brasiliana è stata sempre minorita ria in Parlamento, anche durante gli anni di Lula dal 2003 al 2011. È una realtà presente in tutta la sinistra latinoamericana. Nono stante i successi delle presidenziali, dal Perú alla Colombia, passando per l’Argentina e il Cile, la destra ha ancora la forza per imporsi. I peronisti hanno perso le elezioni di metà mandato l’anno scorso in Argentina. La Co stituzione di sinistra, sostenuta dal presi dente Gabriel Boric, è stata bocciata dagli elettori cileni. Pedro Castillo è presidente del Perú da un anno ma fatica a governare.
Gustavo Petro che guida la Colombia dal 7 agosto si è reso conto che il Parlamento è dominato dalla destra. Sa che deve agire in fretta e bene prima che i conservatori, i libe rali e il Centro democratico gli rendano la vita dura. Il contesto non è solo presente in Brasile. Riguarda tutta l’America Latina, e forse ben oltre: la stessa Europa».
LA SFIDA GLOBALE
DI FEDERICA BIANCHI
Mao Tse Tung non l’avrebbe scelto come successore. Per anni è stato considerato dai colleghi debole e inefficace, e proba bilmente non avrebbe avuto una carrie ra nel partito non fosse stato per la sua profonda devozione alla causa e per lo zelo e gli auspici continui del padre Zhongxun, compagno di rivoluzione di Mao, e della madre Qi Xin. Ma oggi Xi Jin ping è considerato da molti, da se stesso innanzitutto, l’erede diretto del Timoniere. Colui che, a un secolo dalla fon dazione, è l’unico a potere offrire al Partito comunista ci nese una seconda giovinezza, indispensabile per salvarlo
dalla fine ingloriosa toccata all’omologo partito russo negli anni Novanta. Ed è così che si accinge a chiedere e ottenere dalla Ventesima edizione del Congresso del Partito comu nista che inizierà il 16 ottobre a Pechino un terzo, inedito mandato quinquennale alla guida della Cina. Nel farlo, in frangerà la consuetudine della regola dei due mandati e si preparerà a restare al potere oltre i 12 anni del leggendario Deng Xiaoping, il leader che negli anni Ottanta ha dato av vio alla crescita economica. Ma Xi non è un presidente co me gli altri e nemmeno la Cina assomiglia più al Paese per cui aveva organizzato il debutto sulla scena mondiale con i Giochi olimpici del 2008.
Xi è un leader intrinsecamente ideologico, indurito dalla controrivoluzione maoista in tenera età, oggi convinto che il potere si regga soprattutto su una forza esercitata senza alcuna esitazione. Gli anni in cui il padre era stato spedito in prigione nonostante fosse stato uno dei fondatori della Cina moderna e la madre rifiutava il cibo al figlio affamato per non contravvenire alle regole di Mao, non lo hanno al lontanato dal credo maoista. Al contrario, hanno rafforza to in lui la convinzione che un Partito forte e spietato sia l’unico modo per assicurare l’ordine interno e la suprema zia di Pechino al di fuori dei confini.
Federica Bianchi GiornalistaAttento osservatore del passato, con l’e volversi della sua carriera non si è dimenti cato che la principale ragione per cui gli studenti e i lavoratori protestavano a Tie nanmen non era la dittatura - la maggio ranza non aveva idea di cosa fosse la de mocrazia - ma la corruzione, che era cre sciuta nel Paese di pari passo con la ric chezza. La lotta ad una corruzione in piena apoteosi nel decennio scorso è diventata
insieme il suo obiettivo principale e l’arma con cui elimi nare gli avversari scomodi. Così Bo Xilai, il potente leader di Chongqing e membro del Politburo, anche lui figlio di un membro della leadership cinese, unico vero rivale, è fi nito in carcere a vita per corruzione nel 2013, l’anno dopo l’elezione di Xi. Da allora il nuovo presidente cinese non si è più fermato: una purga dopo l’altra ha eliminato senza incertezze tutti i suoi avversari politici tra gli applausi di un popolo che lo acclamava per la sua lotta contro «il mar ciume» delle élite. Di queste ha fatto parte tutta la vita ma si è sempre presentato come il leader «con la faccia sporca di cacca di cavallo» per il lavoro svolto nei campi da ragaz zo, l’uomo del popolo, colui che ha rimpiazzato festini uf ficiali costosissimi con cene di al massimo quattro portate e una zuppa. Mentre a Pechino e a Shanghai faceva fuori i nemici, nello Xinjiang Xi lanciava la più grande persecu zione etnica della Cina moderna contro il popolo degli ui guri. «Dobbiamo usare gli stessi metodi degli americani» contro i terroristi islamici, aveva esordito per poi arrivare alla costruzione di veri e propri campi di concentramento e tortura, come riconosciuto recentemente dalle Nazioni Unite. In soli 10 anni ha poi costruito quello che oggi è considerato lo stato digitalmente più sorvegliato del pia neta: la sopravvivenza del Partito è superiore a quella di
Prima
DI XI LO SPIETATO
bale basato sul dollaro è insostenibile per Pechino. La di sfatta della Russia in Crimea, come la caduta dell’impero sovietico negli anni Novanta, le sta indicando ancora una volta la strada da non percorrere. Ma proprio quest’anno i parametri stanno cambiando: la Cina non è più un Paese in crescita sfrenata. Complice la politica del Covid-zero volu ta da Xi, che ha sopravvalutato la tecnologia cinese e non può permettersi la marcia indietro, la sua crescita econo mica non raggiungerà il 3 per cento, un terzo di quella degli ultimi dieci anni e il valore più basso degli ultimi 30 anni. C’è poi il collasso in corso del settore immobiliare, che da solo vale oltre un terzo della ricchezza nazionale e che per anni ha garantito un flusso costante di denaro nelle casse del Partito a spese dei contadini. La popolazione cinese, fonte un tempo inesauribile di manodopera a basso costo, ha poi iniziato proprio quest’anno a diminuire, parabola inevitabile dopo decenni di politiche del figlio unico, oggi difficilmente reversibili da parte di una classe media che non vuole sacrificare per i figli il proprio tenore di vita. Po co effetto sta avendo il richiamo ai valori della politica tra dizionale di un presidente paternalista e misogino che ve de le donne come «angeli del focolare». Dovrà essere la
qualunque individuo. Anche perché nella filosofia di Xi, il cui studio è obbligatorio nelle scuole, proprio l’individualismo sfre nato è il male che ha portato al disfaci mento dell’impero degli Stati Uniti, «il ne mico» da battere. Coerentemente, Xi ha ridotto l’anno scorso la ricchezza finanzia ria delle big tech cinesi: il credo politico non può essere messo in discussione dalle ragioni economiche di nessuno.
SI PREPARA AL TERZO MANDATO.
NEL SOLCO MAOISTA TIENE LA CINA CON PURGHE, POGROM E CYBERSPIE. MA LA CRESCITA FRENA. E IL RILANCIO DI IMMAGINE PASSA PER TAIWAN
Il Paese che si accinge a governare senza limite tempo rale è però molto più ricco, popoloso, nazionalista e auto sufficiente di quanto non fosse 15 anni fa. Il suo prodotto interno lordo è cresciuto dai 4mila miliardi del 2008 ai 14mila miliardi di oggi e in vent’anni metà della popolazio ne di 1,4 miliardi di abitanti si è sollevata al di sopra della soglia della povertà. La Cina di Xi è abbasta forte per non temere più le sue ambizioni e reclamare la leadership glo bale. Per farlo, non solo Xi invia attraverso i suoi ambascia tori messaggi chiari ai quattro angoli del globo ma sta co struendo una nazione-fortezza che non debba dipendere dal commercio estero e che sia in grado di produrre in ca sa la tecnologia di cui ha bisogno. Una nazione non ricat tabile. In questo quadro anche il sistema finanziario glo
crescita tecnologica a correre in soccorso dell’economia. E, nei piani di Xi, dovrà farlo in fretta per non dovere affronta re la rabbia popolare. Ma l’obiettivo ultimo del Nuovo Ti moniere, quello che dovrebbe concludere la rivoluzione intrapresa da Mao un secolo fa, potrebbe venire in soccorso alle mancanze di un’economia più grande ma più fragile. La conquista di Taiwan potrebbe diventare nel prossimo quinquennio il fiore all’occhiello dell’eredità di Xi: il segno della ritrovata potenza dell’Impero di Mezzo, concretizza zione di quella rivincita contro le potenze ostili che i cinesi hanno imparato fin dalla più tenera età a considerare come necessità imprescindibile. Sinonimo stesso di splendore epocale. Costi quel che costi.
1978
Ufo sugli Appennini
Torna con un nuovo romanzo il collettivo di scrittori bolognesi. E riflette su libertà e rivoluzione tra astronavi e alieni. Il risultato? Un affascinante oggetto narrativo non identificato
colloquio con Wu Ming di Sabina Minardi illustrazione di Manfredi Ciminale
dei Settanta
M
arziani, per primi, sono stati loro: quando, oltre vent’anni fa, piombarono sul pianeta editoria decisi a scompigliarlo un po’. Senza neppure un nome, o cinque in una sigla so la – Wu Ming – colonizzarono di visioni e di ideali, a partire da quel tributo ai dissidenti cinesi evocato dall’ideogramma, scaffali sempre più ampi: con libri come “Q” e “Al tai” firmati col nome multiplo di Luther Blissett, romanzi come “Manituana” e “L’ar mata dei sonnambuli”, tanti racconti e sto rie da solisti. Intanto, il collettivo cresceva, diventava una costellazione di progetti, riu niti dalla Wu Ming Foundation. Ora che la formazione originaria è approdata al nu mero ideale, tre - Wu Ming 1-Roberto Bui, Wu Ming 2-Giovanni Cattabriga e Wu Ming 4-Federico Guglielmi – navicelle spaziali e forme di vita intergalattiche diventano au tentiche protagoniste del loro ultimo ro manzo. Insieme a un anno, il 1978, che è stato record di avvistamenti alieni sul terri torio italiano.
“Ufo 78”, in uscita l’11 ottobre per Ei naudi, ripercorre quella complessa stagio ne. Tra musica e politica, repressione e
Ho visto un Ufo”. Nelle case giravano libri di Peter Kolosimo come “Astronavi sulla prei storia”. Erano anche gli anni di Atlas Ufo Robot e di Mazinga, di un immaginario che è arrivato fino agli anni Ottanta ma che a partire da quel momento ha cambiato la storia dei cartoni animati e ha permeato la fantasia di un’intera generazione. Il 1978 è anche l’anno in cui arriva al cinema in Italia
lotta armata, memorabile per il Paese. E per l’ufologia.
In alto: manifestazione femminista a favore dell’aborto, nel 1978; a Roma, in via Caetani, la Renault con il corpo di Aldo Moro
Il 1978 fu davvero un anno d’oro per i cacciatori di misteri, in cielo e in terra. Duemila avvistamenti di dischi volanti nei cieli del Belpaese. Mentre Eugenio Finardi cantava: “Extraterrestre porta mi via, voglio una stella che sia tutta mia. Extraterrestre vienimi a cercare, voglio un pianeta su cui ricominciare”. Che ricordi personali avete? «Eravamo piuttosto piccoli, ma come tutti i bambini di quegli anni fortemente sugge stionati dall’idea di queste creature miste riose. Gli ufo erano davvero ovunque: nei titoli dei giornali, che riportavano notizie di avvistamenti. Allo Zecchino d’oro c’era una canzone intitolata “Uffa gli Ufo”. Persi no Franco Franchi ne incise una, “Mamma!
“Incontri ravvicinati del terzo tipo” di Ste ven Spielberg, inaugurando un interesse sugli alieni buoni che culminerà con “E.T”. Anche nel tempo della pandemia c’è sta to un picco di flap, cioè di avvistamenti di ufo. Come si spiegano concentrazioni simili in certi periodi?
«Le luci in cielo ci dicono qualcosa di noi e della situazione in cui ci troviamo. Durante il lockdown del 2020 eravamo chiusi in ca sa. Guardare il cielo è sempre un atto di li berazione, un gesto per ampliare gli oriz zonti o prendersi una pausa dal tran tran quotidiano: lo associamo all’idea di uscire da uno stato di costrizione, se non proprio di oppressione. Guardare il cielo è un gesto di libertà. Non c’è da sorprendersi che dal 2020 in avanti gli ufo siano ritornati in auge. È vero, ci sono congiunture in cui si guarda
Gli extraterrestri erano ovunque: al cinema, nei cartoni animati, nella musica. Duemila gli avvistamenti registrati solo in un anno
L’ANNO DEI MARZIANI
il cielo più spesso e si vedono luci che non siamo in grado di spiegare e alle quali attri buiamo i più diversi significati. Ma hanno sempre a che fare con i bisogni di quel pre ciso momento storico, sia a livello indivi duale che dell’intera società». Il vostro libro è nato nel tempo della pandemia?
«No, noi lo stavamo già scrivendo, anzi l’i dea è dei primi anni Zero. Eravamo già sin tonizzati su questi oggetti non identificati che ci spingono a interrogarci sulla nostra identità».
Quella del 1978 era una società in pro fondo cambiamento. Ci furono fatti col lettivamente traumatici come l’uccisio ne di Aldo Moro o il susseguirsi di tre papi in Vaticano, l’eroina che travolgeva i più giovani. Ma anche manifestazioni femministe, lotte decisive per l’aborto, conquiste per la salute mentale. In que sto clima di fermento di ideali, e di fatti inquietanti e irrisolti, spuntano guarda caso gli ufo.
«Gli anni Settanta furono l’ultima grande stagione di riforme spinte da lotte sociali e da conflitti: una cosa alla quale non assi stiamo più da tempo. Da un lato oggi può
“Ufo 78” di Wu Ming (Einaudi, pp. 520, € 21) racconta la grande ondata di dischi volanti sull’Italia nel 1978. Tra scout svaniti nei boschi, un monte con tre cime che custodisce antichi misteri e una girandola di personaggi alle prese con fatti inspiegabili.
esserci una certa nostalgia verso quel tem po. Ma anche la spinta a interrogarci sul perché non si è mai più verificata una sta gione simile: se mettiamo in fila le riforme di quegli anni, nel giro di pochissimo si ot tenne quanto non si è riuscito a raggiunge re in vent’anni. Non solo. Anche dal punto di vista culturale è stata una stagione stra ordinaria: la cultura dal basso, under ground, è un altro aspetto di cui si sente la mancanza. Oggi intorno a noi ci sono tante piccole sacche mainstream. Che non ap prodano mai a una vera controcultura». Non abbiamo fatto del tutto i conti con la conflittualità sociale degli anni Set tanta. È questa, forse, la ragione per la quale a quell’epoca torniamo di conti nuo, al cinema e attraverso i libri?
«La conflittualità di quegli anni è stata ar chiviata rapidamente perché mezza gene razione è morta di eroina, o è andata in In dia o è finita in galera. Ma restano ancora tantissimi nodi da sciogliere. Nonostante siano continuamente esplorati e rievocati, gli anni Settanta rimangono un irrisolto, un buco nero. E noi ci muoviamo lungo i bordi di quella voragine».
Viviamo un tempo di complottismi con
dei Settanta
In alto, in senso orario: cartellone stradale di un disco degli Ufo, a Los Angeles; “Incontri ravvicinati del terzo tipo”; Ufo Robot
tinui e diffusi, alimentati dalla Rete. Possiamo ancora prenderli sul serio?
«I complotti ci sono e ci sono sempre stati. Perché ci sia un complotto le condizioni sono semplici: è sufficiente che più perso ne si mettano d’accordo, all’insaputa di un’altra, per nuocerle. I complotti avven gono in ogni ambito: in un collegio di do centi, nella giuria del Premio Strega, nel crimine organizzato, nella politica, nelle redazioni dei giornali. I complotti sono in realtà una cosa molto banale sulla quale vengono costruite fantasticherie. Riguar do agli anni Settanta i complotti si spreca no. E se non riusciamo a fare i conti con quel tempo è perché continuiamo a pen sare che fosse tutto manovrato: dal Kgb, dagli americani, c’è una dietrologia che impedisce ancora oggi di capire le reali di
namiche di quella stagione. E gli ufo di ventano una sorta di allegoria: si cerca di trovare fantomatici agenti che stanno die tro, per non vedere la realtà che c’è davan ti, sotto i nostri occhi».
Ma voi vi sentite ancora gli alieni dell’e ditoria?
«Sì, ci sentiamo ancora molto alieni. “Fun zioniamo” in modo diverso da tanti altri au tori: non andiamo in televisione, non ci fac ciamo fotografare né riprendere, apparia mo dal vivo solo durante le nostre presen tazioni, non prendiamo parte a dibattiti e controversie. Ci esprimiamo con i libri e nel nostro blog. Da questo punto di vista ci sen tiamo ancora outsider e alieni. A modo no stro siamo riusciti a non fare troppe media zioni al ribasso. E questo ci rende extrater restri, extradimensionali».
Ci sono, nel mondo editoriale attuale, altri alieni in circolazione?
«Ovviamente ce ne sono ancora, è vero però che gli autori si devono adattare a diktat sempre più forti. Abbiamo l’impres sione che la spinta all’omologazione sulle generazioni più giovani di noi sia più incisi va di quanto non fosse nei nostri venti anni. E comunque noi avevamo a disposizione
Gli algoritmi regolano anche la cultura. Così finiamo per vedere sempre cose simili. Senza possibilità di trovare qualcosa di imprevisto e sorprendente
sacche di alienità nelle quali identificarci: il punk, il dark, o altri strani personaggi con i quali sentirci un po’ extraterrestri. Oggi la pressione a fare come tutti è aumentata in maniera terrificante. La potremmo chia mare forza di gravità terrestre: che trattie ne, e anzi schiaccia».
E chi c’è dietro questa forza?
«È regolata da algoritmi che spingono ad adottare precisi modelli estetici e comuni cativi. Algoritmi dei social, prima di tutto, o di YouTube, che ti spingono a fare e a vede re sempre cose molto simili. In un ambiente con meno indicatori era più facile andare fuori strada e, deviando, scoprire cose che non si stavano cercando. Con gli algoritmi che regolano anche la cultura, la serendipi ty, la possibilità di trovare qualcosa di im previsto e di sorprendente, è sempre più difficile. Quando accade però è ancora più interessante. Un miracolo laico».
Tra chi resiste - case editrici indipen denti, autori che come voi non si fanno condizionare dal mercato – si può rin tracciare un “New italian epic”, come definivate quel particolare tipo di nar rativa metastorica che accomunava una precisa generazione di scrittori?
«Ciò che è proseguito, rispetto al memo randum del New italian epic, è la tendenza all’ibridazione, all’oggetto narrativo non identificato. L’ibridazione è una modalità di scrittura alla quale molti autrici e autori fanno ricorso, quando sentono le gabbie del romanzo, dei generi, troppo strette: for zandole scoprono, appunto, l’oggetto nar rativo non identificato. Un esempio può essere la trilogia di “M” di Antonio Scurati, che lui ha chiamato romanzo documenta rio, romanzo di non finzione».
Anche “Ufo 78” è un oggetto narrativo non identificato?
«Sì, perché simula il romanzo d’inchiesta, contiene testimonianze, c’è la bibliografia e anche il follow-up dell’inchiesta. Se non ci fosse scritta la parola “romanzo” in coperti na, un lettore – magari straniero - potrebbe scambiarlo per un reportage narrativo, o per un lungo testo d’inchiesta che usa le tecniche letterarie».
Il monte Quarzerone, antri inesplorati, piccoli centri della Lunigiana più noti perfunghiecastagnechepercreaturein solite...Illibroèambientatoinunacurio sa interzona d’Italia, neanche troppa no ta. Non è certo una scelta casuale. «No, ovviamente. È un territorio ibrido. Non si capisce bene, volutamente, in che regione ci troviamo: è un po’ Liguria ma an che un po’ Emilia e un po’ Toscana. Tutto insieme. C’è una Lunigiana molto credibile, grazie a un consulente che abbiamo avuto durante la scrittura. Ci siamo ispirati in ge nerale all’Appennino e abbiamo voluto cre are un’interzona dove potesse succedere qualcosa di particolare e misterioso». Le elezioni hanno appena fotografato un’Italia nuova, per certi aspetti an ch’essa aliena. Che cosa vi aspettate? «Auspichiamo grande conflittualità socia le. I segnali c’erano già prima delle elezio ni, con la ripartenza dello sciopero globale del clima. C’è una radicalizzazione sensata e importante di una nuova generazione di giovani, che la pandemia aveva frenato e che ora è in ripartenza. Ragazzi che non si sono fatti condizionare dalla campagna elettorale e che hanno mantenuto autono mia di discorso. Ci aspettiamo una conflit tualità sociale all’altezza della sfida, capa ce di immaginare per il Paese scenari dav vero nuovi».
Borghi che rinascono
Il bello
Nuovi musei,
mostre. Bellano, il paese di Andrea Vitali, punta sulla cultura per
Q di quel ramo del lago
il passato
la
si
uel ramo del lago di Co mo, che volge a mezzo giorno, tra due catene non interrotte di monti, tutto a seni e a golfi…». Non ha bisogno di pre sentazioni il ramo di Lecco del lago, meno nobile di quello occidentale, dove si trova la sontuosa residenza di George Clooney per in tenderci, la settecentesca Villa Oleandra a Laglio. Il ramo orientale è meno blasonato del dirimpettaio ma non meno importante, tanto da finire nel celebre incipit de “I promessi sposi” di Alessandro Manzoni. Si trova qui Bel lano, bel borgo di 3.500 anime adagiato sull’acqua, che ora prepara la ri scossa, per superare il passato manu fatturiero e trovare una nuova identi tà puntando su cultura, arte e turismo
(auspicabilmente) di qualità.
Tra vicoli, chiese e piazze qui si pas seggia tra progetti in cantiere, rac chiusi sotto il titolo “Bac-Bellano Arte Cultura”: stanno prendendo forma il Muvi-Museo Giancarlo Vitali, nella casa del parroco, spazio espositivo permanente dedicato al grande pitto re scomparso nel 2018 a 89 anni; il MAMA – Museo di Arte Moderna Al viani, negli spazi dell’ex cotonificio Cantoni, monumentale edificio tardo ottocentesco di 8mila metri quadrati su quattro piani, simbolo dell’epoca d’oro del tessile, che secondo i piani verrà restaurato entro il 2024; il re stauro della chiesa di san Nicolao, con un ciclo di affreschi realizzato dal Ma estro di Bellano tra fine Trecento e ini zio Quattrocento.
Un modello di riqualificazione che
Veduta dall’alto di Bellano, in provincia di Lecco, sul lago di Como
chi passa. A volte sono colpi di culo», chiosa Vitali con una battuta, mentre sorseggia un caffè nello Spazio Circo lo, che un tempo accoglieva il Circolo dei lavoratori e oggi mostre d’arte contemporanea. Nella sala illuminata dal sole, su una parete campeggia il quadro “Il teatrino” di Giancarlo Vita li, che porta lo stesso cognome di An drea ma non sono parenti. È lo scrit tore il cantore di questa zona: «L’epi ca del lago? La trovi due spanne sotto la superficie dell’acqua: il mondo di sotto si è rivelato durante il lockdown, il lago disabitato da yacht e barche sembrava raddoppiato, poetico, inef fabile. Sembrava parlasse», aggiunge con ironica malinconia Vitali, che do po lo scoppio del Covid-19 ha ripreso a fare il medico per le vaccinazioni e tuttora dà una mano ai suoi compae sani. «Scusate, devo visitare una si gnora che ha mal di pancia da due giorni. Senza vederla non posso fare una diagnosi», aggiunge prima di scappare a Pino, a pochi chilometri da Bellano.
potrebbe fare da apripista in un Paese con un patrimonio artistico a dir poco trascurato. “Il paese degli artisti” reci ta lo slogan che accompagna il rilan cio del borgo, che negli ultimi anni ha collezionato una serie di riconosci menti, tra cui la Bandiera Arancione del Touring Club Italiano. Etichette che potrebbero renderlo simile a tan ti, con la differenza che qui gli artisti abitano davvero – donne e uomini, scultori, pittori, fotografi, direttori d’orchestra di fama internazionale come Roberto Gianola, figlio di Ange lo, per oltre 40 anni maestro della banda del paese, scomparso di recen te – e guidano la trasformazione, fan no squadra con il sindaco, il parroco, la sovrintendenza e altre istituzioni.
A Bellano ha costruito la propria carriera Andrea Vitali, 66 anni, autore
di bestseller come “Olive comprese”, “Almeno il cappello” (Garzanti) e dei romanzi sui casi del maresciallo dei carabinieri Ernesto Maccadò. Bella nese con radici forti nella sua terra e scarsa propensione al viaggio, il “du tur”, come lo chiamano i compaesani visto che per un quarto di secolo ha fatto il medico condotto prima di de dicarsi del tutto alla scrittura, nel suo paese ha ambientato gran parte dei suoi romanzi. Oggi accompagna gruppi di lettori in un tour nei luoghi popolati dai suoi personaggi dai nomi bizzarri: Sigismondo, Gaspare, Orte lia, Diomira.
«Le mie storie nascono qui, l’uma nità, i vezzi, i caratteri, i modi di fare. Basta restare per un po’ seduto su una panchina, non puoi immaginare cosa ascolterai, cosa ruberai dai discorsi di
In queste settimane allo Spazio Cir colo è allestita la mostra “La scena dell’arte” (fino al 6 novembre), a cura dello scultore Velasco Vitali, figlio del pittore Giancarlo Vitali. Si tratta del primo progetto diffuso di arte con temporanea sul lago di Como, che connette le due sponde storicamente diverse: a Villa Carlotta a Tremezzina è allestito “Il teatro segreto”, in cui Antonio Marras e Ferdinando Bruni giocano con gli spazi della villa mo strando objets trouvés, quadri, scul ture, manichini, bauli di scena; qui a Bellano invece, nello Spazio Circolo, nella sezione “Straniamenti” viene esposta una raccolta di bozzetti per scenografie, installazioni, costumi, locandine e studi di scena. Una sorta di paesaggio teatrale con alcuni pezzi straordinari come la maschera di mi notauro realizzata da Mimmo Paladi no nel 2019 per “Il ritratto di Dora M”. Anche Velasco è coinvolto nella rige nerazione di Bellano ma ci va con i piedi di piombo: «Se non vedo acca dere le cose sotto gli occhi non ci cre do. Ma non sono scettico: la mia
Borghi che rinascono
filosofia è “un pezzo di lavoro al giorno”, altrimenti diventa un vacuo racconto politico, immaginifico». Oggi lo Spazio Circolo, di proprietà comunale, è affidato ad ArchiViVitali, associazione culturale che ha come finalità la conservazione, la tutela e la promozione di Andrea Vitali, Gian carlo Vitali e Velasco Vitali. A coordi nare gli archivi è Sara Vitali, figlia di Giancarlo e sorella di Velasco, che si occupa di comunicazione da una vita e ha fondato la casa editrice Cinque Sensi a Lucca, dove abita per diversi mesi l’anno. È lei l’anima del progetto di rinascita del borgo: coinvolge gli at tori del territorio pubblici e privati, parla con artisti, sindaco, banche, fondazioni, anche con il parroco, don Emilio Sorte, e ogni volta trova la qua dra. «Il nostro è un lavoro di ricon nessione tra realtà esistenti, un lavo ro rispettoso di persone, luoghi, iden tità. Sarà interessante se riusciremo a coltivare giovani generazioni in grado di animare e tenere in vita il proget to», sottolinea Sara Vitali prima di varcare la soglia dell’ufficio del sinda co Antonio Rusconi, 43 anni, riconfer
mato l’anno scorso e sostenuto da una lista civica di giovanissimi. Da sei anni guida la transizione di Bellano. «Quando sono stato eletto il paese era un po’ sfilacciato, spento, il nostro obiettivo era creare un movimento che unisse cittadini, associazioni, operatori economici per rilanciare il paese degli artisti», dice il sindaco nella sua stanza affacciata sul lago, tra un quadro di Giancarlo Vitali, “Lo stemma comunale”, e un busto del poeta Tommaso Grossi. Il primo cit tadino snocciola qualche cifra: da un bilancio iniziale di 2,6 milioni di euro il Comune è passato a quello attuale di 15 milioni, soldi trovati attraverso bandi regionali, statali, comunitari e finanziamenti privati. È sua l’intuizio ne che l’orrido di Bellano, la grande gola attraversata dalle acque che si
In senso orario: il sindaco di Bellano, Antonio Rusconi; Andrea Vitali; Sara Vitali; uno scorcio del paese illuminato; la sede degli ArchiViVitali a Bellano; una immagine della mostra “La scena dell’arte” nello Spazio Circolo
insinua tra le rocce, non fosse una “tassa da pagare” come dicevano gli amministratori prima di lui, ma una formidabile attrazione turistica. E così ha fatto, portando gli ingressi da 1.800 ai 190mila del 2022. E già da qualche anno si svolge “Il Bello dell’Orrido”, ciclo di incontri culturali a cadenza mensile, condotti da Ar mando Besio, con ospiti italiani e in ternazionali. Tra i prossimi Francesco Costa (9 ottobre), Paolo Cognetti (26 novembre), Marco Balzano (17 di cembre).
Tutto si trasforma, sta per cambiare pelle anche un altro simbolo di Bella no, l’ex cotonificio Cantoni, gioiello ottocentesco di archeologia industria lecosteggiatodaltorrentePioverna.Ai tempi d’oro ci lavoravano mille perso ne, quasi tutti avevano un parente o un amico in fabbrica. Negli anni Ottanta ha chiuso definitivamente. «Dal pun to di vista dell’immaginario era un cro cevia incredibile, lì dentro possono es sere nate infinite storie», sottolinea Andrea Vitali, che ha ambientato il ro manzo “Il meccanico Landru” (Gar zanti) nello stabilimento acquistato di recente dalla Fondazione Getullio Al
viani. Nel giro di un paio d’anni diven terà un museo con oltre 4mila opere d’arte contemporanea (tra gli altri di Alexander Calder, Lucio Fontana, Yaa cov Agam), centro studi, giardino pen sile e albergo, per un investimento complessivo di 30 milioni di euro. «L’i dea è rivitalizzare un luogo abbando nato per ridare vita a una comunità, non solo a un edificio. Il nostro riferi mento è il Dia Beacon di New York, museo di arte contemporanea in una ex area industriale», spiega Pamela Dell’Oro, architetta e direttrice artisti ca della Fondazione Alviani.
La sensazione, passeggiando per Bellano, è che nel giro di un paio d’an ni nulla sarà più come prima. Un bor go a un bivio, che da un lato punta su arte e cultura e dall’altro deve evitare gli eccessi del turismo di massa che affligge l’altra sponda del lago di Co mo. Sfida non facile, visto che oltretut to nel borgo verrà ambientata la serie tv (Rai Fiction) incentrata sulle vicen de del maresciallo Maccadò: Andrea Vitali sta collaborando alla stesura della sceneggiatura dei primi quattro episodi. E già c’è chi teme “l’effetto Montalbano”, Bellano come Vigata (la spiaggia di Punta Secca, nel Ragusa no) invasa dai visitatori.
Prima che tutto cambi, ha già il sa pore di un Amarcord “Il ritratto di Bel lano” di Andrea Vitali e l’amico di una vita Carlo Borlenghi, che da sempre fotografa le regate in giro per il mon do. Con il Covid-19 si è dovuto ferma re e ha messo in posa l’intero paese, tra marzo e agosto di quest’anno, per immortalare in bianco e nero i volti dei suoi abitanti. Il sindaco, il farmaci sta, il parroco, il vicino di casa, tanta gente comune, donne, uomini, bambi ni. Una galleria di 1.500 ritratti che dal 25 novembre verranno esposti in tutto il paese: sulle facciate dei palazzi, sui muri del cotonificio, sulle scuole. «Non è una questione di campanili smo», dice Borlenghi: «Vogliamo rac contare Bellano, lasciare questa testi monianza anche per le generazioni future. Raccontare la normalità e la straordinarietà del nostro paese».
sotto i riflettori
di Fabio FerzettiA sinistra: una scena del film “Rapiniamo il Duce” di Renato De Maria. In alto: un frammento del film “Daniel Pennac: ho visto Maradona!” di Ximo Solano
S
arà una Festa, anzi un Festival, “plurale e diffu so”, parola del neopresi dente Gianluca Farinelli, il direttore della Cinete ca di Bologna che da an ni organizza nella sua città con cla moroso successo “Il Cinema Ritrova to”, calato a Roma per dare slancio al nuovo corso con la neodirettrice Pao la Malanga. Archiviato con particola re malagrazia l’ultimo direttore, An tonio Monda, tornano i film in Con corso, come da più parti si reclamava da tempo, e stavolta sarà un concorso certificato dalla Fiapf (Fédération In ternationale des Associations de Pro ducteurs de Films), perché «Roma non è Venezia, né Cannes, né Berli no», ma merita di piantare la sua ban dierina sulla mappa internazionale dei Festival (che poi riesca a trovare davvero, e finalmente, un suo ruolo è la sfida di quest’anno). Anche se i tito li in gara sotto l’insegna di “Progres sive Cinema - Visioni per il mondo di domani” saranno 16 in tutto, tra cui sei sono opere prime e sette sono fir mati da donne («ce ne siamo resi con to solo dopo», giura la direttrice), due segnali positivi.
Infine, saranno 11 giorni (13-23 ot tobre) carichi di memoria, cinemato grafica e non, perché Roma è una delle capitali mondiali della Settima arte e questa è la fiche principale gettata nel piatto di un rilancio che vuole agire su due piani paralleli ma comunicanti.
Da un lato infatti bisogna rilancia re con tutti i mezzi la visione su gran de schermo, contrastando quella ten
denza alla desertificazione delle sale che è particolarmente devastante in Italia ed è il segno più vistoso di una caduta, simbolica e reale, del deside rio di cinema nel nostro Paese (cine ma vero, non imbastardito da esigen ze televisive e promozioni più o meno sfacciate “del territorio”, cioè turisti che). Dall’altro occorre sostenere il profilo culturale non proprio esal tante di una città che ha molto da of frire anche in termini di produzione, basti pensare a Cinecittà. Soprattut to adesso che il boom delle piattafor me ha moltiplicato in modo esponen ziale i titoli prodotti in ogni ambito e genere (film, serie, documentari...). Costringendo tutto l’audiovisivo a uno sforzo di riorganizzazione es senziale per cavalcare un’onda senza precedenti.
Ed ecco la manovra a tenaglia di Fa rinelli e Malanga. Se in gara si vedran no gli autori di domani, non manca una sezione intitolata “Grand Public” destinata ai titoli di più sicuro richia mo. L’operazione è ad alto rischio: i film capaci di coniugare davvero qua lità e intrattenimento sono sempre più rari di questi tempi. Tra quelli scelti dalla Festa, dopo “Il colibrì” di France sca Archibugi, dal romanzo di Sandro Veronesi, destinato alla serata di aper tura, “Grand Public” proporrà grandi nomi come l’inglese Stephen Frears con “The Lost King”, eccentrico giallo archeologico sulle tracce dei resti di re Riccardo III. Il turco-tedesco Fatih Akin firma “Rheingold”, niente Nibe lunghi ma curdi, rapine e avventure in un indiavolato on the road che ri
Anteprima sul festival
A lato: Robert De Niro in “Amsterdam”.
Sotto: “War, la guerra desiderata” di Gianni Zanasi. Nell’altra pagina, in senso orario: il film
“Astolfo” di Gianni Di Gregorio; “La cura” di Eleonora Grilli; Pierfrancesco Favino ne “Il colibrì”
scrive Wagner a ritmo di rap. Men tre David O. Russell, autore del geniale “Il lato positivo”, dirige “Amsterdam”, altro giallo storico in cui nulla è mai come appare, forte di un supercastChristian Bale, Margot Robbie, John David Washington, Chris Rock, Mi chael Shannon, Zoe Saldana, Robert De Niro - destinato speriamo a mette re in ombra le recensioni finora non esaltanti.
Ambiziosi, assai diversi e non sem pre robustissimi anche gli italiani di “Grand Public”. Gianni Di Gregorio riscopre l’amore e i piccoli borghi in “Astolfo”. Roberto Andò (“La stranez za”) ripercorre la genesi di “Sei perso naggi in cerca d’autore” unendo Pi randello a due becchini (Toni Servillo e Ficarra e Picone). Michele Placido insegue “L’ombra di Caravaggio” con un cast internazionale. Gianni Zana si propone una commedia surreale ma non troppo mettendo l’Italia in guerra con la Spagna (“War - La guer ra desiderata”). Renato De Maria manda un gruppo di malavitosi mila nesi a rubare l’oro di Mussolini (“Ra piniamo il Duce”, la riscrittura del Novecento è un tema ricorrente quest’anno). Mentre Edoardo Falcone adatta il “Canto di Natale” di Dickens alla fisionomia e alla filosofia quirite di Marco Giallini (“Il principe di Ro ma”). E Alessandro Aronadio lavora addirittura sui paradossi temporali in “Era ora”.
C’è poi una fastosa retrospettiva dedicata a Paul Newman e Joanne Woodward, con 15 titoli tutti da rive
dere o da scoprire per la prima volta al cinema, da “Butch Cassidy” a “Lo spaccone”, da “Missili in giardino” a “La donna dai tre volti”. Passando per quel “Mr. & Mrs. Bridge” che ci porta all’altro omaggio di quest’anno: Ja mes Ivory, il grande regista america no di film letterari come “Camera con vista”, “Maurice”, “Quel che resta del giorno”, tutti in programma a Roma insieme a un nuovo documentario na to dal ritrovamento di vecchie bobine girate in Afghanistan nel 1960, “A Co oler Climate”, in cui Ivory, classe 1928, torna agli inizi della sua carriera, all’incontro artistico e personale con Ismail Merchant. E a una Kabul terri bilmente diversa da quella di oggi.
Anche se com’è naturale omaggi e retrospettive sono la parte più facile. LesfideveresonoilConcorsoeletante sezioniparallele.Ingaragliunicinomi noti sono Jennifer Lawrence, protago nista e produttrice di “Causeway”, de butto di Lila Neugebauer sui reduci di
guerra. Gabriel Garcia, figlio di Garcia Marquez, già autore di “Le cose che so di lei”, di ritorno con “Raimond & Ray”, due fratellastri (Ethan Hawke e Ewan McGregor)aifuneralidelpadre.L’alge rina Mounia Meddour, la regista di “Papicha”, con la ballerina mutilata “Houria”. Il Francesco Patierno di “La cura”,ovvero“Lapeste”diCamusgira ta a Napoli durante la pandemia con il meglio del teatro partenopeo sul set. E la coppia Margaret Qualley/Chri stopher Abbott di “Sanctuary”, lei do minatrix, lui cliente ricco e pronto a ogni umiliazione, o forse no.
Tutti film che hanno bisogno del concorso e magari di un premio per imporsi (molto interessanti sulla carta anche il palestinese “Alam” cioè “Ban diera” di Firas Khoury, e il franco-u craino “Shttl”, scritto proprio così in omaggio a Georges Perec, esordio dell’argentino Ady Walter che ha rico struito a 60 chilometri da Kiev un per fetto shtetl anni Quaranta donandolo
Non manca la sezione “Grand Public”. Operazione ad alto rischio: i film capaci di coniugare qualità e intrattenimento sono sempre più rari di questi tempi
poi all’Ucraina per farne un museo prima che finisse distrutto dalla guer ra). Ma Roma, come Londra o Berlino, vuole il pubblico, dunque gioca su tutti i tavoli. Ed ecco “Best Of 2022”, 11 ante prime dai festival internazionali con titoli come “Triangle of Sadness” di Ruben Ostlund, palma d’oro a Cannes; “Mamma contro G.W Bush” dell’im prevedibile tedesco Andreas Dresen, due premi alla Berlinale; “Cut! Zombi contro zombi”, remake di un cult giap ponese firmato da Michel Hazanavi cius. Ma anche “Klondike” dell’ucrai na Maryna Er Gorbach, scoperto al Sundance prima della guerra e am bientato nel Donbass del 2014, dove una coppia si divide per il diverso at teggiamento con cui si confrontano agli invasori russi.
Mentre le proposte più varie e tal volta nuove stanno in Freestyle, 25 titoli fra i quali si trova letteralmente di tutto. “Jane Campion, la fem me-cinéma”, documentario di Julie
Bertuccelli sulla grande regista neo zelandese, e due puntate (su dieci) della serie “Django” diretta da Fran cesca Comencini, con Matthias Scho enaerts nei panni del pistolero creato da Sergio Corbucci. Tre episodi della serie su Lillo diretta da Eros Puglielli, e tre puntate di quella che il grande artista sudafricano William Kentrid ge ha dedicato al proprio lavoro, “Sel f-Portrait as a Coffee Pot”. Un esordio vagamente beckettiano scritto dai fratelli D’Innocenzo e girato sul Teve re, “Bassifondi” del videomaker Trash Secco. Una commedia noir e surreale, “La California” di Cinzia Bomoll, scritta dalla regista con la mai troppo rimpianta Piera Degli Esposti, di cui sentiremo anche la voce.
Perché non siano in Freestyle ma tra le Proiezioni speciali anche “Les Années Super 8” di Annie Ernaux e David Ernaux-Briot, e “Polanski, Ho rowitz. Hometown”, con il grande re gista e il grande fotografo in dialogo
in una Cracovia “che sembra Di sneyland”, resta un mistero. In com penso tra i titoli di Freestyle troneg gia l’evento cinèfilo della Festa: “The Last Movie Stars” di Ethan Hawke, una full immersion dell’attore ameri cano tra le carte e le immagini di Paul Newman e Joanne Woodward, sei episodi per 441 minuti ricchi di scoperte, testimonianze e sequenze dai loro lavori più celebri. Una di quelle cose che si possono fare solo negli Usa dove vige il “fair use”, ovve ro il diritto di antologizzare brani di film di grande valore commerciale per ragioni culturali, contrariamen te a quanto accade in Italia dove ope razioni simili sono possibili solo a patto di acrobatici sotterfugi o esose trattative con i proprietari dei film. Sarebbe bello se i tanti documentari in programma a Roma riportassero a galla anche questo tema. Ma non fac ciamoci illusioni.
Ho sempre insegnato ai miei studenti che la pri ma cosa che bisogna fare è sopravvivere. Io sono una sopravvissu ta». Esther Newton, che vive i suoi ottantadue anni con un’ener gia e una luce prodigiose, è stata una pioniera degli studi antropologici sul genere, mettendo in discussione i pre supposti dello status quo sulla sessuali tà. Icona vivente del mondo butch, ter mine nato nel XX secolo per indicare una lesbica con atteggiamenti e abbi gliamento socialmente classificati co me mascolini. Alla butchness ha dedi cato tutta la sua vita, combattendo nei suoi saggi l’idea di naturalità del binari smo sessuale e dell’eterosessualità. Le sue pubblicazioni (ancora inedite in Italia) hanno rivoluzionato lo sguardo del mondo sulla comunità Queer. Arri va in Italia per la prima volta grazie alla XIV edizione di Some Prefer Cake – Bo logna Lesbian Film Festival, il festival di cinema lesbico di Bologna creato da Luki Massa e Marta Bencich, che si è svolto a Bologna dal 23 al 25 settembre. Nel corso della rassegna è stato proiet tato in anteprima “Esther Newton ma de me gay” (USA, 2022), documentario diretto dalla regista Jean Carlomusto: «Volevo raccontare una sopravvissuta, una persona che continua a fiorire e ci indica il posto dove andare. Dare uno spazio a Esther sullo schermo è un ono re perché la vita di Esther ha creato così tanti spazi per noi, spazi queer e ha reso la nostra vita possibile». Questa è la prima intervista che l’antropologa lesbica che ha rivoluzionato e influen zato attivisti e studiosi di tutto il mon do rilascia in Italia. «Dove c’è ancora molto da fare», dice con un sorriso nel la voce: «Non si rendono conto di quan to siamo meravigliosi».
Esther Newton lei ha lottato affinché le lesbiche, in particolare quelle ma scoline, avessero uno spazio all’in terno della teoria femminista. Cosa pensa oggi delle retoriche che vo gliono escludere dal femminismo gli uomini trans e le donne trans?
«Se le donne che pongono obiezioni alle persone trans sono simili alle donne che
Non siamo
l’eccezione
Pioniera degli studi di genere, l’antropologa americana ha contribuito con le sue battaglie a cambiare lo sguardo sulle persone queer.
Ma di sé dice: “Sono una sopravvissuta”
colloquio con Esther Newton di Simone Alliva
della comunità arcobaleno. Qual è il progresso più importante?
L’antropologa americana Esther Newton. A destra: Atlantic City, una dimostrante con una enorme silhouette in mano, protesta contro il concorso Miss America 1968
lo fanno qui in America, cioè femmini ste non persone di destra, comprendo le ragioni storiche. Comprendo la difficol tà nel cambiare visione. Ma dovranno farlo. Le lesbiche mascoline hanno sem pre fatto parte della cultura lesbica, so prattutto nell’America che conosco me glio e anche gli uomini trans. C’è una sorta di spazio maschile/mascolino per le persone che sono nate donne. Uomini trans e lesbiche mascoline (Ndr: cioè Butch, come si dice in gergo) sono parte dello stesso continuum». Ha sempre detto che il suo sguardo da antropologa era rivolto sul “suo” pubblico. Il suo lavoro è sempre stato un modo per far progredire le cause
«Sono una persona di 82 anni che ha fat to coming out nel 1959, posso dire che abbiamo fatto enormi progressi, im mensi. E grazie ai nostri sforzi. Attra verso gli sforzi dei primi gruppi “omofi li” prima di Stonewall, e ovviamente dopo Stonewall. La cosa più importan te forse è stata quella di avere persone queer in posizioni di potere - o meglio avere persone queer progressiste che siano out, quello è molto importante. C’è anche un sacco di letteratura, di studi, adesso ed è pazzesco. Ma vorrei aggiungere una cosa».
Prego.
«Siamo ancora piuttosto marginalizza ti, in molti modi. Non siamo veramente al punto in cui le persone etero e le per sone cisgender si rendono conto di quanto siamo meravigliosi e di quale gigantesco contributo abbiamo dato all’umanità noi persone queer, in Occi dente e in tutto il mondo».
Ha citato i moti di Stonewall, fondamentali per il movimento Lgbt. Ep pure racconta che il momento che le ha cambiato la vita è stata la protesta organizzata dal Movimento di libe razione delle donne contro Miss America nel 1968.
«Assolutamente. Non mi sono mai sen tita, o mai identificata con le altre don
ne. Mi vedevo come un’eccezione e pensavo di non avere niente in comune con la maggioranza. E durante la prote sta di Miss America mi sono resa conto che c’era un gruppo di donne che stava protestando per la nostra situazione, inclusa la mia. Il Movimento femmini sta non ha accettato le lesbiche fin da subito, attenzione, anzi quello è succes so dopo e grazie allo sforzo delle attivi ste lesbiche. Ma quella protesta ha se gnato una svolta in generale che guar dava al femminismo e alla terribile e li mitata posizione in cui si trovavano le donne. Per me una vera rivoluzione. Questa probabilmente è anche la ra gione per cui mi identifico ancora co
me donna e non ho mai seriamente considerato di diventare un uomo trans o qualcosa del genere».
In un’epoca in cui l’antropologia si limitava allo studio di culture lonta ne, lei ha utilizzato l’approccio etno grafico per studiare le culture delle drag queen nei drag bar del Midwest.
Da qui è nato “Mother Camp: Female Impersonators in America”(1972).
Cosa l’ha spinta a studiare questo fe nomeno, oggi globale?
«Sì, mi sentivo come se fossi stata anche io una drag queen nei primi anni della mia vita, che stessi impersonando una donna, che non fossi realmente una donna. Non che fossi un uomo eh, ma
ero così diversa dalle altre. Quindi, sì, mi identificavo con le drag queen in quel senso. E amavo le performance, lo spet tacolo. Quando ho iniziato la mia ricer ca le drag queen erano davvero in prima fila – drag queen e persone che ora pro babilmente oggi si identificherebbero come donne trans – occupavano le pri me file della rabbia e della ribellione contro l’oppressione verso le persone gay. Ero affascinata da ciò. E c’erano ra gioni di classe anche dentro la comuni tà drag. Vedevo come le drag queen fos sero criticate dalla maggior parte della comunità gay e allo stesso tempo amate e adorate».
Adesso il mondo è cambiato, pensia mo a RuPaul’s Drag Race. Program mi tv, film, libri, musica.
«Una cosa importante è che RuPaul e l’intero franchise forniscono alle perfor mer drag un modo per sopravvivere, per guadagnare. Ma tutto questo può diven tare complesso, come quasi tutto sotto il capitalismo. Perché da un certo punto di vista è anche svilente. Si sta perdendo la connessione tra il drag e il resto della comunità queer. Ma confesso che quan do studiavo il drag nessuna poteva pen sarediandareintelevisioneorecitarein un film. Adesso ci sono anche le letture in biblioteca delle drag queen per bam bini e ciò è fantastico».
Nei suoi studi ricorre spesso la paro la “sopravvivere”. Nel documentario dice che il «Camp è un atto di ribel lione contro l’oppressione». Viviamo un tempo difficile, anche per la co munità Lgbt. Qual è la chiave per so pravvivere?
«Organizzarsi politicamente. Tutto quello che abbiamo guadagnato l’ab biamo fatto grazie all’attivismo politi co, agli ideali, all’immaginazione di es sere un giorno liberi. Quindi organiz zarsi politicamente è cruciale e dopo Stonewall è diventato connaturato alle nostre comunità. E poi l’amore: dobbia mo amare noi stesse, fare creazioni co me questo film generato dal rispetto, rispetto per noi stesse, per le nostre amiche e le nostre relazioni. Le nostre relazioni sono le fondamenta della struttura sociale».
Opera lirica
Petra Lang, una delle maggiori cantanti liriche viventi, per la prima vol ta nella sua lunga carrie ra interpreterà l’assassi na di Agamennone nella straordinaria tragedia in un atto di Ri chard Strauss, “Elektra”, che il 18 otto bre aprirà la Stagione sinfonica dell’Ac cademia nazionale di Santa Cecilia a Roma. «Solo adesso è arrivata la giusta voce e il tempo giusto per questo ruo lo», dice. Quindi chiude gli occhi, don dolandosi appena sulla sedia.
Petra Lang, acclamata in tutto il mondo per le sue interpretazioni wa gneriane e mahleriane (ha vinto due Grammy e ha lavorato con i più grandi direttori d’orchestra degli ultimi qua rant’anni) è portatrice di un dono che protegge da sempre, come fosse un or gano vitale: una voce scura e carnosa capace di sussurrare, di declamare, di volteggiare. Una voce in grado di dare vita a personaggi meravigliosi e spesso complessi, che lei rende indimentica bili. Ed è anche una donna simpatica, umile e terribilmente decisa.
«Sono arrivata alla mia età facendo piccoli passi ben calibrati. Perché per cantare fino alla fine del mio tempo ho dovuto combattere contro la fretta».
Ha i capelli biondi raccolti in una piccola coda, e sorride, sorride sem pre, con la dolcezza di una donna se rena, che ha visto realizzati i propri sogni, anche quelli che sembravano impossibili.
E anche questo sogno si compie, quindi. Cosa pensa del suo perso naggio: una donna vittima e carne fice, con un destino infelice segna to, già prima della nascita, dalla vendicativa dea Afrodite.
«Esatto, una donna ingabbiata in una vita in fondo già scritta. Crudele, sì, ma anche tormentata, sofferente, piena di odio. Non bisogna dimenticare che Agamennone è uno dei più grandi as sassini della mitologia greca. Un uomo violento che non solo le ha ucciso il primo marito e il figlio, ma ha sacrifi cato la loro figlia Ifigenia per placare le ire di Artemide. Quindi la vendetta della regina di Micene ha motivazioni
La musica cura il tempo
La voce scura, carnosa. L’esperienza. E la sua lotta contro la fretta. Per la prima volta la grande cantante interpreta “Elektra” di Strauss. “Adesso è arrivato il momento”
colloquio con Petra Lang di Aisha Cerami
fondate. Certo, l’omicidio non si giusti fica. Infatti lei stessa è schiacciata dai sensi di colpa».
La colpa dell’adulterio, la colpa di aver ucciso il marito, ma anche la colpa di aver cacciato il figlio Ore ste, testimone dell’omicidio del pa dre. Insomma, davvero un ruolo pieno di sfaccettature. Come si è preparata a una sfida del genere?
«Da un punto di vista canoro mi sono affidata a mio marito, che per fortuna è pianista e insegnante: questo mi per mette di studiare dentro casa, con molta libertà. Spero che Pappano ap prezzerà la mia preparazione “dome stica”! Per quanto concerne l’aspetto psicologico, sono molto aiutata dalla musica. Il mio personaggio ha più o meno cinquant’anni. Oggi avere cin quant’anni vuol dire essere ancora re lativamente giovani, ma nel 400 a.C. i cinquanta erano l’età del declino. Strauss ha fatto qualcosa di geniale: raccontare l’età avanzata della donna
componendo arie che, nella loro co struzione melodica, ricordano l’affan no, la mancanza di respiro tipica degli anziani. Ma un altro aspetto mi ha per messo di comprendere bene Clitenne stra: un’esperienza personale. Nell’E lektra la figlia vendicatrice vede la vec chia madre arrancare, sfiancata da una vita piena di dolore. La vede debo le, spaventata. Tale sguardo pietoso è, per Clitennestra, un altro dolore da mandare giù. Un’umiliazione, la vergo gna della dipendenza, che la porterà a sviluppare sentimenti competitivi e astiosi. Queste emozioni, fino a prima della pandemia, non le avrei capite così a fondo. Invece, purtroppo, mia mamma, ultraottantenne, è molto ma lata e soffre di Alzheimer. Durante la reclusione mi sono occupata di lei e non è stato facile per nessuna delle due… Ho davvero conosciuto quei sentimenti che ora mi sono utili per entrare nella parte». Suo padre non l’ha mai incoraggia
ta nella sua passione. Ma il destino ha deciso per lei. «Sì, incredibile fortuna. Mio padre non era assolutamente convinto che io po tessi fare la cantante lirica. Conosceva molto bene l’ambiente perché lavorava come tecnico all’Alter Oper di Franco forte e quindi gli pareva impossibile che io, la sua dolce piccola figlia, fossi in grado di affrontare un mondo tanto combattivo e faticoso. Quando venne per la prima volta a sentirmi sul palco rimase sconvolto. Mi disse che non era riuscito a ritrovare la sua bambina. Che ero irriconoscibile. Poi, con il tem po e dopo tanto scetticismo, ha accet tato la cosa, e credo anche che ne fosse molto fiero. Vero è che se il merito non è suo non è neanche solo mio. All’epo ca studiavo violino per diventare inse gnante e avrei dovuto scegliere altre due materie complementari. Optai per la viola e il pianoforte. La segretaria commise un errore. Mi iscrisse al corso di canto. Io, che amavo cantare più di
ogni altra cosa, ne approfittai e ne ri masi catturata per sempre. Quella svi sta ha aperto la porta al mio sogno più grande».
Come ha fatto a proteggere così be ne la sua voce? Una voce che ha af frontato vari registri, dal contralto, al mezzosoprano, al soprano. Com’è possibile avere una tale estensione?
Lei ha note medie eccezionali, ma anche acuti sorprendenti. Come le note basse, sostenute senza sforzo. «Altra mia fortuna: gli insegnanti. Ho studiato con maestri straordinari: Ger tie Charleut, Ingrid Bjoner, Astrid Var nay, Angelo Forese. Tutti erano d’ac cordo sul fatto che avrei dovuto canta re i ruoli giusti nel tempo giusto, cer cando di non andare oltre i miei limiti.
Mi hanno insegnato la pazienza, la prudenza, atteggiamenti che mi han no aiutato a conservare la voce. Ange lo Forese, nonostante la potenza voca le, evitava ruoli troppo impegnativi».
Negli anni Sessanta, quando anda
va di moda un canto lirico poderoso, era davvero strano.
«Strano per chi pensa solo al successo immediato. Ma lui fu lungimirante. Scelse sempre ruoli di minore impatto perché la sua voce doveva mantenere la sua famiglia il più a lungo possibile. E così è stato. Io infatti consiglierei, a chi vuole intraprendere questa carrie ra, di non avere fretta. Di fare esperien za con vari generi musicali come la canzone, i Lieder, gli oratori. Variare mantiene flessibile la voce e allo stesso tempo si rischia meno di stancarla. Bi sogna stare comodi». E lei, con chi sta davvero comoda?
«Con Mahler. Ecco, Mahler è il mio ri poso, il nutrimento della mia anima. Mahler è curativo: un balsamo». Dove, se non sbaglio, canta da mez zo soprano, come con Bach e Be ethoven. E poi, nel 2012, ci propone ruoli da soprano drammatico. Insi sto, mi spieghi il trucco.
«Nessun trucco. Le note alte del mez zosoprano sono uguali alle note medio basse del soprano drammatico. Gli acuti li ho sempre avuti, ma ho deciso di permettermeli solo quando mi sono sentita pronta, quando l’età me lo ha concesso. Poi, arrivata la menopausa, ecco un altro cambiamento: si perdo no gli acuti e si cambia repertorio. Ri peto, la cosa fondamentale è seguire le proprie possibilità, senza forzare mai. Altra cosa fondamentale: lo stile di vi ta. Io do molta importanza anche all’a limentazione e a mantenere reattivi i muscoli del mio corpo. Anni fa, da ra gazza, ho avuto problemi di allergia da antibiotici. Ero sempre stanca. Ho co minciato così a seguire la medical the rapy, che ricorre a trattamenti fisiote rapici. Da allora non ho più smesso». Ha passato la vita a prendersi cura del suo dono. Cos’altro le piace fare?
«Amo molto insegnare ed essere di supporto ad altre cantanti. E mi piace occuparmi del mio giardino. Ora che non sono più così giovane finalmente potrò affrontare ruoli sempre meno ardui e proverò a occuparmi di altro, se ci riuscirò. Sono anche stanca di viaggiare continuamente»
Protagonisti
L’importante
è recitare
Ebbene sì, lo ammette pure lei: «Non conosco nean che io le date di uscita dei vari film che interpreto. Però mi arrabbio un po’ quando mi dicono che il successo è arrivato all’improvviso, qua si per caso, dimenticando, invece, che è il frutto di un lungo lavoro, di anni pas sati a recitare magari nei piccoli teatri, come è capitato a me». La chiacchie rata con Vanessa Scalera parte da qui, dalla sua vita piena di progetti, tra serie televisive e film in uscita, da “Romulus” o “Qui non è Hollywood” a “Filumena” e “Dall’alto di una fredda torre”. Prima, però, ci racconta come è nata la sua passione per la recitazione. «In manie ra molto naturale. Me ne sono innamo rata da ragazzina. Mi piaceva leggere, amavo le poesie, finché un giorno, a 19 anni, mi sono iscritta alla Scuola di tea tro “La Scaletta” e non ho più smesso». Prima il teatro - dal debutto con Massi mo Dapporto e Johnny Dorelli agli an ni di collaborazione con Filippo Gili e Francesco Frangipane - e poi il cinema con Marco Bellocchio, Nanni Moretti, Marco Tullio Giordana e non solo, fino alla serie televisiva di successo “Imma Tataranni – sostituto procuratore”. Partiamo dal teatro. Dalla provincia di Brindisi a Roma. Solo dieci anni fa la capitale era mol to diversa da oggi dal punto di vista culturale. C’erano più spazi aperti al le compagnie teatrali e luoghi in cui poter sperimentare, creare, pensare. «Sì, è così. Per anni ho recitato al Teatro Argot, con Francesco Frangipane e Fi lippo Gili. Avevamo fondato un compa gnia e lì ci sentivamo liberi di creare. Il mio è un percorso fatto di tanto teatro di ricerca. Non si capisce perché i teatri stabili non mi abbiano mai chiamata.
Al cinema, in tv, al teatro. Tra personaggi amati e nuove serie in arrivo, momento d’oro per l’attrice pugliese. Alle prese con donne forti, irriverenti. E scomode
colloquio con Vanessa Scalera di Francesca De Sanctis
A destra: l'attrice Vanessa Scalera, 45 anni. Sopra: una scena dalla seconda stagione di “Romulus”
Forse non ero nei giri giusti... Poi ho ini ziato a fare provini per il cinema e la tv e ho continuato a recitare lì». È importante per lei il contenitore? Voglio dire... cinema, teatro, tv, ha delle preferenze?
«No. Per me quello che conta è reci tare, che sia in televisione o in teatro l’importante è raccontare storie che mi gratificano».
Però a teatro ha recitato con produ zioni importanti, come “Lacci” di Domenico Starnone, con Silvio Or lando e la regia di Armando Puglie se, e “Autobiografia erotica”, sempre di Starnone, con Pier Giorgio Bel locchio e la regia di Andrea De Rosa.
Idee
«Marco Tullio Giordana è per me il primo grande maestro, a lui devo tan tissimo. È una mente viva, uno dei po chi intellettuali che abbiamo in Italia.
“Lea” è stato il primo film in cui ho recitato da protagonista e questo grazie a lui che ha avuto corag gio a scommettere su di me, ma anche su Alessio Praticò o Linda Caridi, pur non co noscendomi. Lui ha questo grande talento di riuscire a fidarsi degli altri, ama gli attori, ci crede, punta co raggiosamente su di loro. Lo ha fatto tante volte, da “I cento passi” a “La meglio gioventù”». Cosa sapeva di Lea Garo falo?
«Conoscevo la sua storia, ma non l’a vevo studiata a fondo, cosa che ovvia mente ho fatto per il film. Lea, vittima della ’ndrangheta, è un esempio per tante donne che non hanno avuto il coraggio di denunciare. Parlare di lei attraverso un film è anche un modo per arrivare ai ragazzi. Ab biamo portato “Lea” nelle scuole, i giovani sono sempre molto cu riosi e attenti».
È stato un grande successo anche la serie tv incentrata sul personaggio di Imma Tataran ni, nato dalla penna di Mariolina Venezia. Il 13 ottobre su Rai 1 ci sarà l’ultima puntata. Imma l’ha amata da subito?
«Come si fa a non amarla? Mi divertiva interpretare una donna così bizzarra...». È ormai pronto il film per la tv “Fi lumena”, regia di Francesco Amato, presto in onda su Rai1. Sarà Filume na Marturano, una bella sfida. E il pensiero va subito a Sophia Loren... «Lo so, e diciamo la verità: ci vuole co raggio, ma anche un po’ di incoscienza nell’interpretare un personaggio reso celebre da una grande attrice come lei. Ma ci sono dei testi che sono dei mera vigliosi classici, e quello di Eduardo lo è senza dubbio. Sta ad ogni attore o at trice dare un colore diverso. Credo che Eduardo appartenga a tutti, per questo chiunque potrebbe interpretarlo dan
do ogni volta una sfumatura nuova. In generale, mi piace confrontarmi con i personaggi della letteratura, come per “L’Arminuta”, trasposizione del roman zo di Donatella Di Pietrantonio, regia di Giuseppe Bonito».
Dal 21 ottobre, invece, la vedremo anche su Sky, nella seconda stagione di “Romulus”, la monumentale serie televisiva ideata e diretta da Matteo Rovere che verrà presentata in ante prima alla Festa del cinema di Roma il 14 ottobre. Altra bella sfida...
«“Romulus” per me è stata una sfida enorme. Non è stato facilissimo reci tare in protolatino. Ho studiato all’I stituto magistrale, quindi il latino lo conoscevo. Ma non era una materia in cui brillavo e comunque recitare è un’altra cosa. Però mi sono subito ap passionata, calarmi in questa lingua era un po’ come sciogliere un rebus.
Ma stavolta non avevo spazio per l’im provvisazione, se reciti in latino non puoi saltare una parola. Per questo ho lavorato molto di memoria. Ho stu diato tanto, mi sono presa del tempo. Per me è stata un’esperienza molto in teressante».
C’è molta attesa anche per la serie Disney+: “Qui non è Hollywood”, prodotta da Groenlandia. È vero che riguarderà il delitto di Avetrana?
«Si tratta di una serie tv in 4 episodi, con la regia di Pippo Mezzapesa. Sì, si basa sul delitto di Avetrana in cui perse la vita Sarah Scazzi. Era il 26 agosto del 2010. Sarah, 15 anni, uscì di casa e non tornò più. Fu ritrovata 42 giorni dopo in fondo a un pozzo. Io sarò Cosima Misseri, la zia di Sarah. La serie è tratta dal libro “Sarah: la ragazza di Avetra na” di Carmine Gazzanni e Flavia Pic cinni (Fandango Libri)».
E poi c’è il film d’esordio di Fran cesco Frangipane, “Dall’alto di una fredda torre”, da un suo precedente spettacolo teatrale...
«Sì, sarà il suo primo film. Era una produzione 2015 del Teatro Argot. Un dramma familiare, la storia di due fra telli alle prese con una scelta difficile». Tornerà a fare teatro?
«Lo spero, mi piacerebbe molto».
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RISCRIVERE LA SCRITTURA
Seminatori, padroni, servi, uomini e donne alle prese con gesti semplici: accendere lampade, riempire bot ti, rattoppare vestiti, separare la zizzania dal buon raccolto. Quell’umanità minore eppure indimenticabile, protagonista delle parabole più note dei Vangeli – il buon samaritano, il ricco stolto, il figliol prodigo -, rivive in un’an tologia di sedici racconti curata da Rita Pinci, Ritanna Ar meni e Carola Susani e illustrati da Cinzia Leone: “La Paro la e i racconti” (edito da Libreria Editrice Vaticana).
Le scrittrici, credenti o non credenti, cristiane o apparte nenti a fedi diverse, hanno colto la sfida di ispirarsi ciascu na a una parabola evangelica per rileggerla. Evelina San tangelo ha riportato in un contesto indiano la metafora del seminatore, Igiaba Scego ha trasferito la casa ben pian tata nella roccia nel “Bar del cugino O”, Elena Stancanel li ha tratto spunto dalla parabola del banchetto di nozze per scrivere un nuovo racconto intitolato “La tigre”. Storie che parlano alla contemporaneità, a loro volta intessute di piccole cose, capaci di esemplificare temi grandi.
Come quel chicco di grano destinato a morire per dare frutto, dal quale Mariapia Veladiano ha ricavato una sto ria intitolata “Donne”. Maria Grazia Calandrone incarna la parabola del figliol prodigo alla fine del lockdown del
La storia del gerarca Aurelio Padovani, leader del fascismo campano delle origini, le contraddizioni, gli scontri con il duce, fino alla morte del “ribelle in camicia nera” e il processo che ne seguirà, ricostruita dal giornalista e storico in occasione del centenario della marcia su Roma. Una vicenda finita nel dimenticatoio e ancora immersa nel mistero. E che, avvalendosi di atti processuali inediti e documenti d’archivio, rilegge l’intera storia del fascismo meridionale.
“IL GERARCA CHE SFIDÒ MUSSOLINI”
Gigi Di Fiore
Utet, pp. 377,€ 18
2020, “Uscire”. “E ti vengo a cercare”, di Na dia Terranova, nasce dal suggestivo insegna mento contenuto nella favola della pecorella smarrita. Grazie alla sensibilità e all’originalità di nomi come Viola Ardone (“Io sono la zizzania”) e Tea Ranno (“Il lusso dell’imprevisto”, rilettura dei lavoratori della vigna), Alessandra Sarchi (“L’insistenza” sull’amico importuno) e Emanuela Canepa ( che ha scritto “Piccole luci a Parma”, ispirandosi alle dieci vergini e alla loro lezione sul tempo dell’attesa), il risultato è una raccolta originale di racconti che illuminano e rendono accessibili temi potenti come la fiducia nella giustizia, la speranza, la necessità del corag gio, il significato dell’umiltà. Valori etici, prima che spirituali, che agiscono nelle nostre vite, arricchendole di senso.
“LA PAROLA E I RACCONTI” Autrici varie Libreria Editrice Vaticana, pp. 246, € 17
È forse la crisi urbana più urgente del nostro tempo l’estromissione degli abitanti e delle attività tradizionali di un quartiere per sostituirli con altri. La geografa e studiosa di questioni femminili (suo anche “La città femminista. La lotta per lo spazio in un mondo disegnato dagli uomini”) ha viaggiato da Toronto a Parigi, da Londra a New York per osservare il fenomeno e coglierne opportunità e impatti. Per un saggio colto e stimolante, che riflette sul neocolonialismo.
“LA GENTRIFICAZIONE È INEVITABILE
e altre bugie” Leslie Kern (trad. Elisa Dalgo) Treccani, pp. 293, € 24
Nel filone di bestseller come “La canzone di Achille” e “Il silenzio delle ragazze”, il primo capitolo di una trilogia che punta sull’emancipazione femminile nell’antica Pompei. In quella città che ferve di commerci, di vita, di lussuria, le ragazze del lupanare diventano le protagoniste di lotte contro il loro destino. Alleate e sorelle di donne schiave e di vittime di uomini senza scrupoli. In un elogio al coraggio e all’anticonformismo di grande modernità.
“LE LUPE DI POMPEI”
Elodie Harper (trad. Isabella Zani)
Editore,
Sedici autrici si confrontano con le parabole dei Vangeli. E danno vita a un’antologia attualissima
Crimine internazionale
Una profetessa esegue rituali juju per liberare le ragazze nigeriane dal rituale subito in Nigeria
Più affari che fede La tratta delle nigeriane passa per i pentecostali
Dalle indagini sui cult, le confraternite simili a cosche mafiose, emerge il ruolo delle chiese finanziate dai fedeli nella protezione dei traffici di Alice Facchini foto di Francesco Bellina
Pastori che invitano le vittime di tratta a non denunciare lo sfruttamento e a pagare il loro debito. Che ospitano gli incontri della rete criminale all’inter no delle loro chiese pentecostali. Che a messa tengono sempre un posto in prima fila per le “madame” o per gli affiliati alla mafia nigeriana. In Nige ria, alcuni pastori addirittura metto no in contatto i trafficanti con le don ne che poi vengono portate in Europa e costrette a prostituirsi. Quella delle chiese pentecostali è una zona grigia a metà tra legalità e illegalità: diverse associazioni, esperti e magistrati la raccontano come se fosse il segreto di Pulcinella.
«Nelle indagini, abbiamo riscon trato più volte che i soggetti affiliati si ritrovassero nelle chiese per fare le proprie riunioni», spiega il magi strato Stefano Orsi, già pm della Di rezione distrettuale antimafia, poi passato alla procura generale della Corte d’appello di Bologna: «Spesso i pastori provano a convincere le ra gazze sfruttate a non sporgere de nuncia, o comunque a trovare un punto d’incontro con la madame senza arrivare alla rottura. C’è una situazione di estrema contiguità, che fa pensare».
In numerose inchieste è emerso il coinvolgimento dei pastori penteco stali nel reclutamento delle ragazze
in Nigeria. La procuratrice del tribu nale di Catania Lina Trovato che da anni indaga sul fenomeno della trat ta, racconta: «I pastori mettono in contatto le ragazze con la madame e percepiscono un corrispettivo. Le ragazze vedono il pastore come una buona persona, si fidano e così en trano nella rete: lo abbiamo appura to varie volte con le intercettazioni, ma anche con le testimonianze di alcune vittime». Storie che vengono raccontate da fonti diverse ma che si assomigliano tutte, e che vengono confermate da varie associazioni su tutto il territorio nazionale, tra cui il progetto Oltre la strada, la coopera tiva Liberazione e speranza, il pro getto Maddalena e l’associazione Donne di Benin City.
Negli ultimi anni, alcuni pastori sono stati processati per aver messo in contatto le ragazze che frequenta vano la loro chiesa con le madame. In Nigeria, nel 2017, Endurance Ehio ze è stato arrestato per il presunto coinvolgimento nel traffico di ragaz ze in Russia. Nello stesso anno, in Sud Africa, il nigeriano Timothy Omotoso è stato imputato con quasi cento capi d’accusa, tra cui traffico di esseri umani, stupro e racket. In Francia, nel 2019, il pastore Stanley Omoregie, anche lui nigeriano, è sta to processato per aver trafficato set te ragazze tra i 17 e i 38 anni: è
Crimine
accusato di sfruttamento della prostituzione aggravata e schiavitù.
In Italia invece non c’è ancora stata un’indagine specifica sulle possibili complicità tra le chiese pentecostali e i trafficanti di esseri umani . Eppure, il nostro è il Paese che più di tutti in Europa ha perseguito i cosiddetti “cult”, le confraternite nigeriane, gra zie all’ordinamento che prevede degli strumenti speciali nella lotta alle or ganizzazioni mafiose. Da Torino a Catania, passando per Brescia, Bolo gna, L’Aquila, Castel Volturno, Paler mo, molti membri delle confraternite sono stati condannati per mafia.
Gianfranco Della Valle, re sponsabile del Numero verde antitratta, afferma che sulla questione delle chiese c’è un problema di omertà: «Il rapporto ambiguo tra le chiese pen tecostali e la tratta è molto simile a quello che c’era negli anni Ottanta tra la chiesa cattolica e la mafia italiana. Come allora, anche nelle chiese pen tecostali di oggi si riuniscono insieme a messa sia le vittime che i criminali, e i mafiosi in certi casi danno soldi per sostenere le attività religiose o per restaurare l’edificio».
Al mondo, oggi, ci sono più di 640 milioni di fedeli pentecostali: solo in Nigeria si contano più di 500 chiese, alcune delle quali hanno ramificazio ni anche in altri Paesi. In Europa, la rete Pentacostal european fellowship mette insieme 60 movimenti in 37 Pa esi. In Italia, i pentecostali sono il gruppo nigeriano maggioritario subi to dopo i cattolici, secondo il rappor to Immigrati e religioni in Italia.
I pastori nigeriani sono figure cari smatiche, con una forte leadership e una grande capacità di trascinare la comunità. Per diventare pastore biso gna sentire la chiamata dallo Spirito santo: basta un sogno, una premoni zione o un evento rivelatore, oppure riconoscersi poteri di guarigione o di premonizione, o anche ricevere l’in vestitura da un altro pastore. Anche le donne possono diventare pastore e aprire una propria chiesa. «In Italia
Assia, 30 anni, di Benin City, prostituta a Palermo. In basso, la casa degli sciamani a Benin city che hanno operato rituali vodoo contro le vittime. A destra, una donna durante una celebrazione cattolica
esistono due tipi di chiese penteco stali: quelle che dipendono dal quar tier generale in Africa, che sono una sorta di “succursale” della casa ma dre, e quelle che nascono spontanea mente da un nuovo pastore che im provvisamente riceve il dono dello Spirito santo», spiega Annalisa But ticci, antropologa esperta di religioni e diaspora africana della Georgetown University.
Ufficialmente, le chiese penteco stali vengono registrate come asso ciazioni che svolgono attività di cul to: questo dà la possibilità di fondar ne di nuove – e di chiuderle – con grande facilità. Per finanziarsi, que ste organizzazioni ricorrono alle of ferte dei fedeli: la più importante è la “decima”, che consiste in un decimo del proprio guadagno. «Ci sono pa stori che hanno anche un altro lavo ro e che non dipendono dalle offerte,
mentre altri contano sulle donazioni per mantenersi», racconta Butticci. La decima lega così la sopravvivenza delle chiese ai propri finanziatori. «I pastori hanno un certo interesse ad accogliere anche le madame o i membri dei cult, il cui apporto eco nomico è ben più determinante di quello delle donne sfruttate, visto che guadagnano molto di più», spie ga Nino Rocca, che è stato tra i fon datori del coordinamento antitratta Favour e loveth.
Oltre a questo, nel pentecostalismo vige la concezione protestante del successo economico come segno del la grazia divina: più sei ricco, più sei benvoluto dal Signore, a prescindere da quale sia la fonte dei tuoi guada gni. Stefania Russello, coordinatrice del progetto Maddalena della Casa dei giovani di Palermo, che fa parte della rete nazionale antitratta, rac
conta che un pastore una volta le ha detto di voler accogliere tutti nella sua chiesa: sia le pecore bianche che le pecore nere. «Io accompagnavo una ragazza che era entrata in un per corso protetto: il pastore mi disse che non avevo nessun diritto di consi gliarle di non frequentare più la chie sa solo perché lì c’era anche la sua ma dame. Successivamente offrì un lavo ro alla ragazza, e alla fine lei lasciò il nostro percorso. Adesso quella chiesa non esiste più».
Non tutti i pastori però sono ugua li: c’è anche chi denuncia le attività criminali e aiuta le donne a uscire dallo sfruttamento, mettendole in contatto con le associazioni antitrat ta. È il caso della pastora Princess Okokon, che ad Asti ha fondato la chiesa pentecostale Liberation foun dation international ministry: «Tante volte, durante la messa, ho racconta
to la mia storia: anche io avevo una madame, anche io mi sono dovuta prostituire, anche io sono stata pic chiata e minacciata. Alla fine mi sono ribellata e ho denunciato: io sono l’e sempio vivente che si può sopravvive re anche senza pagare il proprio debi to. Durante l’omelia dico esplicita mente di non trafficare esseri umani e di non compiere attività illecite: le madame si innervosiscono e se ne vanno, ma a me non importa». Nel 1999 Okokon ha aperto l’associazione Piam Asti, per supportare le vittime di tratta, dove oggi lavora come me diatrice.
Attualmente, il numero delle mi granti nigeriane che entrano in Italia è fortemente diminuito: i dati del Nu mero verde antitratta mostrano che il picco di entrate si è raggiunto nel 2016, con 11mila ingressi, per poi pas sare a 5.400 nel 2017, 324 nel 2018, 41
nel 2019, 82 nel 2020, e 215 nel 2021. Parallelamente, anche molte chiese pentecostali hanno chiuso o si sono trasferite altrove. L’emblema di que sta tendenza è la città di Castel Vol turno, dove è cresciuta una delle più grandi comunità nigeriane d’Italia, che fino a pochi anni fa ospitava più di 40 chiese pentecostali. «Oggi ne so no rimaste pochissime e allo stesso tempo non si vedono più donne che si prostituiscono in strada: viene spon taneo pensare che le due cose siano legate», afferma Vincenzo Ammalia to, giornalista de Il Mattino.
S
econdo alcuni, questa dimi nuzione potrebbe essere do vuta all’intensa attività di repressione dei gruppi crimi nali nigeriani che si è svolta negli an ni precedenti alla pandemia. «La ma gistratura era riuscita ad arrestare molte persone, e così probabilmente molto ragazze sono state spostate in altri Paesi d’Europa, dove l’organiz zazione criminale pensava di poter agire indisturbata», spiega la procu ratrice Trovato.
Quello che manca oggi, per contra stare in modo efficace la tratta di es seri umani e fare luce sul ruolo di al cune chiese pentecostali, è un coor dinamento che metta insieme i sog getti che si sono occupati negli anni, a vario titolo, di contrastare i gruppi criminali nigeriani. Lo spiega Fabri zio Lotito, che è stato coordinatore della Squadra anti tratta (Sat) di To rino e che oggi è consulente del comi tato Mafie straniere in Commissione parlamentare antimafia: «La mafia nigeriana è la quinta più potente al mondo, ma ancora si conosce pochis simo. È un fenomeno molto fluido, che cambia velocemente: è necessa rio costituire un gruppo specializza to con il compito di seguire da vicino queste attività criminose, altrimenti ogni volta le indagini devono rico minciare da capo».
Inchiesta realizzata in collaborazione con Irpi media grazie a un finanziamento di Free press unlimited
intensivi con
delle cavalle
non ferma le sevizie
Un cavallo salvato attraverso una confisca giudiziaria dalla Onlus Ihp per la tutela dei cavalli e portato a Volterra per le cure
Migliaia di cavalle gravide costrette ad abortire, molestate e picchiate. A ogni esemplare vengono prelevati fino a cinque litri di sangue a settimana nei primi giorni della gestazione: una tortura che serve per estrarre il Pregnant mare serum gonadotropin (Pmsg), un ormone utilizzato per produrre farmaci che vengono poi somministrati negli al levamenti intensivi per la produzio ne di carne in Europa, per indurre scrofe, bovini e ovini a essere fertili fin da subito dopo il parto, per fare più piccoli possibile da destinare alla macellazione.
È il mercato del sangue animale: un business che ha dato vita alle “blood farms” (fattorie del sangue) in alcuni Paesi americani, ma anche in Europa, in Islanda. Tra le piazze che accolgono questo prodotto com pare anche l’Italia: dopo una breve parentesi nella quale il ministero della Salute sembrava aver accolto le istanze per il divieto della sostanza - sollevate da parte di associazioni di settore e parlamentari - i farmaci derivanti dal Pmsg sono tuttora in commercio.
Ma andiamo con ordine: un’inda gine condotta fra il 2015 e il 2017 dal le Ong Animal welfare foundation (Awf) e Tierschutzbund Zürich (Tsb) mostra immagini terribili di cavalle maltrattate in Uruguay e Argentina: alle cavalle gravide viene prelevato in grandi quantità il sangue che sarà poi utilizzato per produrre il Pmsg. Le cavalle, stremate, con gravi pro blemi di salute, vengono fatte aborti re sistematicamente e manualmen te, e muoiono nei pascoli aperti sen za nessuna cura.
«Le cavalle malate, che dovrebbe ro ricevere cure, o l’eutanasia, non vengono curate, e sono tenute in vita per continuare a estrarre il loro san gue. Si stima che circa il 30 per cento delle cavalle muoia di stenti. Vengo no poi inviate al macello e la loro car ne potrebbe essere commercializza ta anche in Ue», spiega Sonny Richi chi, presidente dell’Italian horse
business
protection (Ihp), l’associazione per la tutela degli equini.
Le giumente in Uruguay e Argenti na, stimate in decine di migliaia, so no maltrattate e picchiate con basto ni, e vengono loro prelevati fino a 10 litri di sangue una o due volte a setti mana. Il prelievo avviene inserendo con violenza una cannula nella giu gulare degli animali. Dopo il prelie vo, a volte, le cavalle stramazzano al suolo non appena vengono liberate.
A gestire questo filone latinoame ricano è soprattutto l’azienda argen tina Syntex SA, che ha chiesto l’auto rizzazione all’immissione sul merca to europeo del preparato Fixplan, il cui principio attivo contiene proprio il Pmsg, attraverso la cosiddetta “procedura decentrata” in base alla quale ogni singolo Paese deve dare il proprio via libera.
«Fixplan sta attualmente ottenen do l’autorizzazione all’immissione in commercio in diversi Stati mem bri dell’Ue. Alcuni Paesi come Irlan da, Germania, Francia e Spagna han no già rilasciato l’autorizzazione all’immissione in commercio, in al tri Paesi la procedura è ancora pen dente, come l’Italia o la Polonia», af ferma Sabrina Gurtner, project ma nager dell’Animal welfare associa tion di Zurigo. Il ministero della Salute italiano, ad oggi, non ha forni to nessuna informazione in merito, sorvolando anche sull’interrogazio ne parlamentare bipartisan promos sa, tra gli altri, dagli onorevoli Mi chela Vittoria Brambilla (Forza Ita lia), Patrizia Prestipino (Pd) e Man fredi Potenti (Lega Nord). L’Espresso ha sollecitato gli uffici competenti, anche con un Foia (Freedom of infor mation act), senza però ricevere ri sposta alcuna.
Grazie al contenuto di al cuni documenti (datati 2021) che abbiamo potuto consultare, a tutto ciò si aggiunge il fatto che l’azienda suc cursale, Syntex Uruguay SA, che ge stisce molti flussi di questa sostanza, non è presente in nessuna lista Ue.
Eppure Syntex è il più grande espor tatore di Pmsg e documenti doganali dimostrano che nel periodo fra gen naio e maggio 2017 le aziende Syntex Argentina e Syntex Uruguay hanno esportato in Ue un totale di 1,3 chili di Pmsg per un valore di oltre 10 mi lioni di dollari (il prezzo di 100 gram mi di polvere pura supera il milione).
«Con il Fixplan l’azienda Syntex punta a recuperare i clienti che han no smesso di acquistare l’ormone per altri farmaci che erano in commercio fino al 2018, a seguito delle proteste che si sono scatenate in Europa», ag giunge Richichi. In Italia, per esem pio, alcuni farmaci contenti l’ormone sonostatirimossidalmercato:Pg600, Gonasin, Syncrostim 500 e Ciclogoni na non sono più disponibili. Il Cro no-gest, il Folligon, il Gestavet e l’Ovi ser 500 sono invece sul mercato, e con ricetta di un veterinario si possono ancora acquistare. Le multinazionali che gestiscono questi farmaci sono la Msd Animal health e la spagnola Hi pra laboratories SA. Sola la prima ha risposto alle domande de L’Espresso, spiegando che la società «collabora solo con fornitori che operano in Eu ropa e che sono esperti nella raccolta del plasma sanguigno», sottolinean do anche che ad oggi non ci sono mai state «obiezioni specifiche del mini stero della Salute italiano». La Msd non ha specificato i Paesi di produ zione dell’ormone, ma intrecciando i dati forniti dalla Commissione euro pea e dalla Federazione europea dei veterinari è possibile notare come nel Vecchio Continente ci siano princi palmente due grandi hub di estrazio ne e lavorazione del Pmsg: Germania e, per l’appunto, Islanda. «La produ zione in Germania è molto ridotta, resiste un allevamento di sole 100 fat trici. Msd acquistava Pmsg in Uru guay, ma dopo le nostre pubblicazioni sui maltrattamenti è passata in Islan da nel 2017, e adesso è il maggiore ac quirente dello Stato nordico», svela Gurtner.
Secondo gli ultimi dati della Feder chimica Aisa (Associazione naziona le imprese della salute animale), il
valore di vendita dei farmaci - com preso il Pmsg - relativi alla sfera or monale degli animali che producono alimenti (animali da reddito), relati vo all’anno 2020 è di 8,8 milioni di euro; il fatturato totale dei farmaci per la salute animale del 2020 delle imprese associate è stato di 678 mi lioni di euro, quindi il mercato degli ormoni incide per l’1,3 per cento sul mercato totale.
Una cifra destinata però a cresce re, se si guarda il giro di affari degli altri Paesi europei e le previsioni dei produttori. In Islanda, infatti, secon do quanto riferisce il Partito Popola re (impegnato nella lotta contro que sto fenomeno), gli allevamenti di car ne da macello stanno lasciando il posto a quelli di estrazione del san gue dalle giumente. Anche per que sto motivo, molte aziende si sono ti
rate indietro dalla sponda latino americana (Msd su tutte), per conti nuare a fare affari direttamente nei confini europei con le fattorie islan desi. L’Islanda ospita circa 80.000 ca valli islandesi, 5.383 dei quali sono usati come “banche del sangue”. Ci sono 119 fattorie del sangue che ope rano nel Paese. Con le stesse identi che barbarie: i recinti degli alleva menti sono ricoperti da segni di mor si dei cavalli in preda al terrore; le giumente deambulano prive di forze e i loro feti giacciono inermi a terra.
L’azienda farmaceutica Isteka, proprietaria o subappaltatrice delle fattorie islandesi, non ha risposto al le nostre domande. Mentre il Partito popolare ha presentato al Parlamen to un disegno di legge che sollecita il divieto: «La maggioranza ha pur troppo respinto più volte la nostra
proposta, nonostante gli ultimi dati dimostrino che ogni cavalla può es sere dissanguata anche più di otto volte in una sola estate», spiegano i vertici del partito.
Nel frattempo, la Commis sione Ue si è detta «seria mente preoccupata», men tre il Parlamento europeo ha chiesto il divieto delle importa zioni dell’ormone. «Due milioni di cittadini hanno firmato una petizio ne per chiudere queste fattorie del sangue. Il Parlamento europeo ha in vitato la Commissione a vietare tut ta la produzione e tutte le importa zioni di Pmsg. E anche diversi Paesi dell’Ue, tra cui Austria, Paesi Bassi e Polonia, stanno sostenendo un divie to», spiega Anja Hazekamp, membro del Parlamento europeo. «Inoltre, il Parlamento europeo ha apporta to una modifica legale alle norme dell’Ue per i medicinali veterinari che obbliga legalmente la Commis sione europea ad adottare nuove mi sure sulle buone pratiche di fabbri cazione, tenendo conto del benessere degli animali. Tali misure, che non comprendono l’estrazione del san gue, devono essere adottate entro il 2025». Fino ad oggi la Commissione Ue non ha intrapreso alcuna azione per porre fine alle sofferenze dei ca valli nelle “blood farms”. Anzi, in un documento, visionato da L’Espres so, fa intendere che il divieto totale dell’importazione di Pmsg è una prospettiva pressoché impossibile. Nonostante le molteplici alternative che la scienza offre: «Il Pmsg non ha bisogno di essere utilizzato nell’alle vamento di suini e bovini perché esi stono almeno trentasei alternative sintetiche approvate, oltre ai metodi senza ormoni, ovvero le cosiddette misure zootecniche», confessa Gurt ner. Fattore che stride con un ulterio re principio in materia, quello delle 3R: replacement, reduction and refi nement, su cui si basa la direttiva Ue relativa alla protezione degli animali utilizzati per scopi scientifici.
CATTELAN E L’ELOGIO DELLA LEGGEREZZA
Non serve essere pesanti per raccontare la realtà. Come dimostra il conduttore su Rai Due
“Another love”, inno per caso per le donne in Iran
S
econdo il vecchio adagio quando sai fare bene una cosa è certo che verrai spostato a farne un’altra. Succede di continuo e quando si trat ta di televisione di Stato questa regola apparentemente non scritta diventa legge, incisa a caratteri cubitali nel bronzo del cavallo di viale Mazzini.
Come esempio a caso basti pensare ad Alessandro Cattelan. Cintura nera di conduzione agile, gli affidarono in tempirecentiunprogrammaimpoma tato di prima serata per poi criticarlo duramente, reo di essersi allontanato dal suo stile naturale. Ora che, dopo la prova multilingua dell’Eurovision, è tornato nei suoi panni più comodi in formato late night show, viene liqui dato con un “Bella forza, sta facendo quello che gli viene meglio, così sono capaci tutti”. Difficile uscirne. Eppu re l’ex ragazzo prodigio che ormai è un giovane uomo col fermacravatta, nel suo “Stasera c’è Cattelan” (su Rai Due) riesce a compiere un complesso lavoro di sottrazione come pochi altri sanno fare. Leva, elimina, toglie peso e spiegazioni superflue, non sottoli
nea, lascia che lo spettatore individui il proprio modo di seguire il senso del tutto, tenendo il dito sulla riga per non perdere il segno. E imbocca con agio la strada della leggerezza, quella in cui, per dirla con Italo Calvino che un po’ se ne intendeva, aiuta la tv (co me la letteratura) a “elevarsi rispetto alla pesantezza della re altà”. Così per tre volte alla settimana saltella senza sudare dal mec canismo del Rosatellum nella vasca da bagno con Emanuela Fanelli al razzismo spiegato bene da Lilian Thuram («A nove anni, con i primi insulti, sono diventato nero»). Sgonfia le inu tili polemiche social con due sole parole («È un’idiozia? E pazienza, mica l’ha detta Matta rella») e riduce il trash televisivo a una trova ta esilarante fino alle lacrime, perché ridere sul serio aiuta sempre a pensare un po’. Con le cuffie dietro le quinte diventa l’irresistibile gobbo pasticcione, che si prende le colpe dei deliri ormai virali passati sul piccoloschermo.Lasoubrettechesifa male con la spaccata in diretta? Colpa del gobbo pasticcione che le ha detto di buttarsi. Il concorrente sbruffone del quiz di Amadeus? È il gobbo che gli ha suggerito la parola sbagliata. E così via, le scene cult, le gaffe, il ci bo quotidiano con cui si nutre “Blob” diventano, nella gag di Cattelan, solo l’errore di un suggeritore incauto che scrive cose a caso. Insomma una cri tica televisiva feroce, ma leggera come una risata. Da vedere. Prima che ov viamente gli facciano fare altro.
Succede che per certe cose, per certe tragedie, non ci sia la giusta musica. E allora la si trova, come hanno fatto le donne che per solidarietà alle mostruosità che accadono in Iran, a partire dall’uccisione di Masha Amani, hanno postato video in cui si tagliano i capelli col sottofondo di una canzone di Tom Odell. E così, non volendolo essere, non essendo nata per questo, “Another love” è diventata la canzone giusta, solo perché a qualcuno è venuto in mente che i versi «and if somebody hurts you, I wanna fight, but my hands been broken one too many times, so I’ll use my voice, I’ll be so fucking rude, words they always win, but I know I’ll lose» che tradotti vogliono dire «se qualcuno ti ferisce voglio combattere, ma le mie mani sono state rotte una volta di troppo, e così userò la mia voce, e sarò maledettamente rude, le parole vincono sempre, ma so che perderò», perché già solo a leggerli questi versi fanno venire la pelle d’oca, figuriamoci a sentirli cantare mentre le donne manifestano contro la barbarie di un regime che non tollera le donne a volto scoperto. È un caso del tutto eccezionale di trasposizione di senso. Tom Odell non ci pensava neanche lontanamente, lo pubblicò nel 2013, fu il suo esordio, ed era un gran pezzo va detto, verosimilmente legato a un’idea di sofferti incroci di rapporti amorosi. Ma questo la dice lunga sul bisogno che abbiamo tutti di avere corrispondenze emotive, di poterci sentire uniti intorno a qualcosa, di piangere, soffrire e protestare insieme, di perderci in una canzone, in un film, in una immagine che ci rappresenti. Non c’è? Bene, allora andiamo a cercarla, e nell’infinito oceano dell’esistente
qualcosa di adatto la troveremo di certo, come è successo con “Another love”. Ma qualcosa di strano rimane. Com’è possibile che alla enorme massa di autori di musica e parole, a tutti quelli che oggi fanno musica non venga in mente di scrivere qualcosa su quello che accade? Perché non scatta l’urgenza di esprimersi? Oltretutto non mancano gli spunti, anzi per dirla tutta, i tempi del Vietnam e della Guerra Fredda al confronto con la situazione odierna sono un gioco da bimbi. Da decenni il mondo non offriva uno spettacolo così miserabile di se stesso, nella totale incoscienza di guerrafondai, governanti insensibili alla devastazione climatica del pianeta, regimi repressivi e misogini, un capitalismo che continua sempre di più ad arricchire i ricchi e impoverire i poveri. Com’è possibile che a nessun cantante venga spontaneamente la voglia di urlare la propria voglia di cambiamento, di pace, di giustizia? Non succede, e per questo non ci resta che andare a ripescare qualcosa che per dritto o per vie traverse, torni utile alla bisogna. Come “Another love”, inno per caso, in un mondo che fatica anche a esprimersi.
Scritti al buio/cinema FABIO FERZETTI
STORIE D’AMORE A RITMO DI DANZA
Protagonista del film di Klapisch la vera étoile dell’Opéra di Parigi. E il sogno di una generazione
Ci sono diverse ragioni per non perdere il nuovo film di Céd ric Klapisch, uno di quei regi sti-artigiani che si nascondono sem pre un po’ dietro ai loro film, come usava una volta, ma avrebbe molto da insegnare a nomi più blasonati. La prima è che racconta molte storie (e molte forme) d’amore in una. La seconda è che non lo fa solo con i mez zi del cinema ma con quelli della danza, clas sica e poi contempora nea, estraendo da corpi e movimenti emozioni intraducibili senza mai perdere il contatto con lo spettatore (non è un film per iniziati anche se il grande coreografo Hofesh Shechter oltre a interpretare se stesso firma musiche e numeri di danza a dir poco de cisivi).
La terza ragione è la ric chezza e l’affiatamento di un cast che oltre a fornire contesto e sottotrame rilancia,esalta,perfezionaisentimenti ingiococonl’umorismoelagraziaben noti agli spettatori di “Ognuno cerca il suo gatto” o “L’appartamento spagno lo”. Anche se centro e motore di tutto è sempre la danza. Dalla lunga sequen za iniziale (un vero pezzo di bravura, 15 minuti quasi muti tutti giocati su “La Bajadère” di Minkus e Petipa), alla scoperta dell’hip hop e poi della danza moderna, la giovanissima Marion Bar beau, vera ballerina dell’Opéra di Pari gi, perde l’amore, si gioca una caviglia, ritrova la fiducia in se stessa e forse un nuovoamoresempregraziealladanza. Così come saranno il rigore apollineo del balletto, ma soprattutto la follia dionisiaca della danza moderna, a far
finalmente capire al padre, vedovo e un po’ rigido (che attore Denis Podaly dès!), il mondo di sua figlia. Chiudendo un cerchio che a parole sembra quasi banale (caduta e resurrezione) ma sul lo schermo brilla di verità. Anche se poi nulla accade per caso. Da sempre appassionato di danza,
Klapisch ha dedicato tre anni di ri prese a un ritratto di Aurélie Dupont, étoile dell’Opéra. E conosce a memo ria i grandi musical hollywoodiani, che usa con l’attenzione e la libertà di chi sa cosa prendere da un’altra epoca per raccontare la propria. Lanciato un po’ in sordina come un film d’essai, in Francia “En corps” (così in originale) ha portato al cinema quasi un milione emezzodispettatori.Forseperchéalla fine non racconta solo la sua protago nista ma tutta una generazione, con i suoi sogni, i suoi linguaggi, i suoi con flitti. Padri compresi.
“LA VITA È UNA DANZA (EN CORPS)” di Cédric Klapisch
Francia-Belgio, 120’ aaabc
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RITORNO A ROMA, TRA DELUSIONE E SPERANZE
Cara Rossini, dopo quasi tre anni di assenza forzata per via della pande mia sono tornato a Roma. Ero abituato a andarci ogni anno, in genere a primavera o all’inizio dell’estate perché, pur conoscendo bene tutte le sue meraviglie, ogni volta mi trovavo a scoprire qualcosa di nuovo. Per esempio una piccola chiesa barocca nascosta tra i vicoli del rione Monti, una fontana cinquecentesca nel cortile di un palazzo o una piaz zetta fino ad allora ignorata. Ma in realtà la cosa che mi affascinava di più era ritrovare il già visto, guardarlo con gli occhi di sempre e sentirmi anch’io, che vivo in una provincia del nord, parte di questa città che è detta giustamente eterna. Invece che delusione! Tutto identico eppure diverso perché apparentemente abbandonato. Tutto più sporco e caoti co. Avevo letto di cinghiali che passeggiano nelle periferie, ma in pieno centro ho visto gabbiani che volteggiano indisturbati planando persino sui tavoli dei bar. Il traffico mi ha soffocato, un monopattino mi ha quasi investito. Ho rinunciato a visitare i miei monumenti preferiti per le file interminabili di turisti che nessuno disciplina. Ho trovato un po’ di pace solo a piazza San Pietro, ma di notte, e sono tornato con sollievo alla mia cittadina di provincia. Tornerò ancora il prossimo anno con la spe ranza che qualcuno abbia lavorato per cambiare le cose. Marino Ponzio
Lei ha visto poco, caro signor Ponzio. Non si è accorto delle auto in seconda fila perenne, con un bigliettino sul cruscotto che invi ta a chiamare il proprietario al cellulare, senza che qualche vigi le alzi almeno un sopracciglio? Non ha notato che sono sparite le botteghe artigiane per fare posto a centinaia di minimarket? Non ha inciampato in uno dei mille dehors, che tanto sollievo econo mico hanno portato a bar e ristoranti durante la pandemia ma che ormai sono postazioni stabili estese ben oltre i marciapiedi? Non ha visto il travertino di palazzi cinquecenteschi coperto impune mente da enormi pannelli di souvenir tra i quali spiccano, chissà perché, spille e oggetti con il particolare del pene del Davide di Mi chelangelo? Mi fermo qui perché amo troppo questa città per par larne soltanto male, ma anche perché la città detta “eterna”, come lei ci ricorda, trasmette ai suoi abitanti un senso di appartenenza che resiste a ogni degrado. Mi capita di passare spesso accanto ai ruderi del tempio di Diana e non c’è volta che non guardi gli sca lini su cui si accasciò Giulio Cesare pugnalato a morte. E ogni vol ta quei due millenni che ci separano mi sembrano un nonnulla. Mi chiedo se gli amministratori che si sono succeduti alla guida di Roma siano mai scesi a piedi per le strade a guardare, capire e provare qualche sentimento per la loro città. Lo fece soltanto Ignazio Marino che cercò di provvedere con la fretta del neofita e fu subito cacciato dai politici “veri”. Ma i romani resistono anche ai loro sindaci, provandoli tutti e aspettandone uno con le spalle tanto forti da vincere l’inerzia che avvolge e addormenta questa meravigliosa città.
Repubblica Italiana
In Nome Del Popolo Italiano
IL TRIBUNALE DI PALERMO - Sezione I Civile - in composizione monocra�ca in persona del giudice Cinzia Ferreri ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nella causa iscri�a al n. 6730 del Ruolo Generale degli affari contenziosi civili dell’anno 2016 vertente tra
CROCETTA Rosario (avv.� Vincenzo Lo Re e Michele Romano); A�ore Contro
GEDI Gruppo Editoriale S.p.a., già Gruppo Editoriale L'Espresso S.p.A., VICINANZA Luigi, MESSINA Pietro e ZOPPI Maurizio (avv.� Virginia Ripa di Meana, Vanessa Giovanne� ed Ercole Noto Sardegna); Convenu�
PQM
Il Tribunale di Palermo - I Sezione Civile - in composizione monocra�ca, ogni contraria istanza, eccezione e deduzione respinta, defini�vamente pronunciando, così provvede: revocata l’ordinanza pronunciata in data 23 dicembre 2016, nella parte in cui i convenu� sono sta� condanna� ex art. 8, comma 4 bis, d.lgs. n. 28/2010 al pagamento in favore dell’Erario della somma di € 1.686,00; accerta e dichiara la natura diffamatoria delle seguen� pubblicazioni: 1) ar�colo pubblicato sul sito web del se�manale “l’Espresso” il 16 luglio 2015 (an�cipatore di quello integrale poi pubblicato in formato cartaceo) con il �tolo “Il medico a Croce�a: <<La Borsellino va fa�a fuori come il padre>>”; 2) ar�colo pubblicato sul se�manale l’Espresso n. 29 del 23 luglio 2015, con �tolo e so�o�tolo “Me�amoci un Croce�a sopra <<Va fa�a fuori come il padre>>, gli dice l’amico chirurgo parlando di Lucia Borsellino. E lui non replica. L’interce�azione che imbarazza il governatore”; 3) nota pubblicata sul sito web del se�manale “l’Espresso” in data 16 luglio 2015 con �tolo “Croce�a e l’interce�azione sulla Borsellino. La Procura smen�sce, l’Espresso conferma”; 4) ar�colo pubblicato sul sito web del se�manale “l’Espresso” in�tolato “Caso Croce�a, l’Espresso conferma (di nuovo) tu�o” in data 17 luglio 2015 a firma di Luigi Vicinanza nella qualità di dire�ore responsabile del sudde�o periodico; 5) editoriale a cura del dire�ore responsabile e nota dal �tolo “L’interce�azione e il nostro lavoro” pubblica� nel n. 30 del se�manale “l’Espresso” del 30 luglio 2015; 6) ar�colo pubblicato sul sito web del periodico “l’Espresso” in data 31 luglio 2015 con �tolo “Caso Croce�a: a�acchi ipocri�, noi non ci s�amo. Cri�che oneste, noi rispondiamo”; condanna GEDI Gruppo Editoriale S.p.a., già Gruppo Editoriale L'Espresso S.p.A., Messina Pietro, Zoppi Maurizio e Vicinanza Luigi, in solido, al pagamento in favore di Croce�a Rosario, a �tolo di risarcimento dei danni, della somma di € 50.000,00, oltre interessi legali dalla data della presente decisione al soddisfo; condanna Messina Pietro, Zoppi Maurizio e Vicinanza Luigi al pagamento in favore di Croce�a Rosario della somma di € 2.000,00 ciascuno, a �tolo di riparazione ex art. 12 L. n. 47/1948, oltre interessi legali dalla presente decisione al soddisfo; dispone la pubblicazione della presente sentenza per estra�o, per una sola volta, sul se�manale “L’Espresso” a cura e spese dei convenu�, nel termine di trenta giorni dalla no�ficazione della sentenza, con facoltà per l’a�ore, in caso di ino�emperanza dei convenu�, di provvedervi dire�amente, con diri�o alla ripe�zione delle spese; rige�a ogni altra domanda; condanna i convenu�, in solido, alla rifusione a favore dell’a�ore delle spese del presente giudizio che si liquidano in € 8.977,00, di cui € 1.713,00 per spese, oltre spese generali, I.V.A. e C.P.A. come per legge. Così deciso in Palermo in data 03 aprile 2018
Putin sconfitto e i russi fuggono
Si tratta di un’operazione militare speciale. Niente di più. I dirigenti russi hanno battezzato (e declassato) così, fino a poco tempo fa, l’invasione dell’Ucraina indisciplinata, ribelle. Ades so, peggiorando la situazione, è diventata anche per loro, i russi, una guerra. Prima non meritava quel titolo. Ma l’espressione re sta comunque sottintesa. Se ne riconosce la natura, ma non si pronun cia ancora la parola. Di fatto Vladimir Putin ha accettato l’idea che è in corso una guerra, ma senza definirla tale. La grande Russia non può essere in guerra con una provincia insubordinata, al massimo può pro muovere una semplice “operazione”. Adesso è difficile negare che l’in tervento in Ucraina sia una guerra, come la chiama il resto del mondo. Oltre alle distruzioni e ai morti, ha isolato l’invasore, che è una poten za, non una contrada qualsiasi. Come numerosi paesi dell’Onu, i grandi asiatici, la Cina e l’India, in questa occa sione hanno evitato di dichiararsi aper tamente favorevoli a Mosca, pur essendo spesso al suo fianco. Nel discorso tenuto nella Sala di San Giorgio del Cremlino il 30 settembre in occasione della solenne cerimonia di annessione alla Russia delle quattro regioni ucraine (Donetsk, Lugan sk, Zaporizhzhya e Kherson), nelle parole di Putin, il confronto con l’Ucraina è con un nemico malefico, un ribelle, un tradi tore che non merita il rispetto delle regole internazionali. Lo zar dei nostri giorni ha fatto della nazione invasa una tenzone con l’Occidente, autore dei soprusi inflitti nei secoli alla Russia e ai Paesi poveri oggi definiti del terzo mondo. Una situazione che potrebbe giustificare l’impiego dei mezzi tattici nucleari.
Ma l’Ucraina è stata evocata soltanto all’avvio dell’intervento del capo della Fe derazione russa nella Sala di San Giorgio: l’argomento principale è stato l’Occiden te, sono stati gli Stati Uniti, l’Europa e i Pa esi loro alleati. E come tali subordinati. Il discorso del 30 settembre non ha rivelato i pensieri di Putin, li ha confermati. È stata una requisitoria che nell’insieme espri meva un conflitto per ora armato soltanto in Ucraina, ma suscettibile di sviluppi, an che nucleari. Il capo del Cremlino appog gia il suo potere sul vecchio Kgb sovietico
ribattezzato e ampliato. È l’organismo, la fortezza senza rivali nel Paese. La sua car riera Putin l’ha fatta lì. Le odierne angosce della Russia non sembrano esprimere op positori validi. Si tende piuttosto a pensa re, se ci saranno, a mutamenti all’interno dell’attuale potere. Per ora, tuttavia, no nostante le fughe in massa all’estero per evitare il servizio militare, le televisioni hanno parlato di una “felicità” che regna nel Paese. Una felicità simile a quella che suscitò l’annessione della Crimea.
Mentre il suo esercito in Ucraina incas sa sconfitte una dopo l’altra, e non ha nep pure osato assediare Kiev quando i carri armati russi erano alle porte, né controlla del tutto le regioni che si è annesso, con il solenne intervento al Cremlino Putin ha taciuto insuccessi reali e celebrato succes si immaginari. Le sue parole risuonavano nel Paese e nello stesso momento decine di migliaia di automobili, in gran parte occupate da giovani russi decisi a evitare la chiamata alle armi (trecentomila forse più sono stati destinati a rafforzare il ma landato corpo di spedizione in Ucraina), sostavano ai confini con i Paesi limitrofi, sempre meno disposti ad accoglierli. Le code alle frontiere hanno rivelato quanto la decisione di rafforzare il corpo di spedi zione in Ucraina abbia turbato la società russa. Era un chiaro segnale che la guerra in corso era destinata a durare, a crescere. E non escludeva una sconfitta russa. La grande cerimonia a Mosca per festeggiare l’acquisto forzato delle quattro regioni, non ancora del tutto controllate, e per contenere l’espandersi del malcontento con richiami patriottici, ha avuto il chiaro obiettivo di risvegliare la disciplina nella popolazione, in vista di un’ope razione che si annuncia più lunga e difficile del previsto. Putin pensava che il recupero dell’Ucraina sarebbe stato come l’annessione della Cri mea. I suggerimenti del Kgb facevano pensare che la popolazione ucrai na sarebbe stata più favorevole a un ritorno alla “madre” Russia. Ma le previsioni dei servizi di informazione non sempre si realizzano. Un se gnale preoccupante per Putin è che il conflitto ucraino provoca vampate di insubordinazione nella patria dell’aggressore. La sua.
Dopo le vittorie ucraine sul terreno, ancora più preoccupante per lo zar Vladimir è l’insubordinazione della sua popolazione