VELOCE DIGITALE
Se è la tua banca, la riconoscisubito
Prima Pagina
Alla ricerca del Pd perduto
A Conte ora il Sud sta stretto AntonioFraschilla
Homo melonianus SusannaTurco
L’altra destra che ci aspetta FedericaBianchi
Germania col fiato sospeso ChristianeLiermannTraniello
Donna, vita, libertà colloquioconShirinEbadidiSabinaMinardi
Né merce né vittime ChiaraValerio
L’Afghanistan di Putin PhilipShort 42 Russi riluttanti sfidano lo Zar GiuseppeAgliastro 46 Nel Donbass che si è rassegnato SabatoAngieri 50 Bombardati da un software FabioChiusi 54 Ci vogliono nuove regole e bisogna fare presto colloquioconBrankaMarijan 56 L’ultimo miglio di frontiera BiancaSenatore 58 Baby migranti, soli e a perdere EricaManna 62 Il percorso a ostacoli per l’assistenza sanitaria SilviaAndreozzi 65 Mps, salvataggio infinito VittorioMalagutti 66 Pnrr, miliardi a rischio EugenioOccorsio 70 Il partito del cemento PaoloBiondani
Ingiustizia ambientale LucianaGrosso 80 L’ostaggio, un poliziotto cortese EnricoBellavia
Idee
Un patto spezzato
EmanueleCoccia
Cuori selvaggi GaiaManzini
Avventura nell’anno della tigre ValeriaVerbaro
Resa dei conti con utopia WlodekGoldkorn
Cervello sotto attacco colloquioconKiaNobrediEmanueleCoen
Piccolo mondo inquieto AishaCerami
Avatar mi ha cambiato la vita colloquioconZoeSaldanadiClaudiaCatalli
Storie
contese a Gerusalemme Est, dietro
segreto di mio padre Ss a Marzabotto
Sulla pace del gas soffia il vento jihadista
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La parola
reazione
Una morte assurda per un arresto che ha del folle, una ragazza che avrà per sempre 22 anni perché indossava il velo in modo illegale, immorale, sovversivo. E le donne reagiscono, finalmente, rifiu tando di sottostare a leggi che ricordano lapidazioni, tagliando i capelli, urlando la loro indignazione, non permettendo che un altro corpo venga seppellito dal la morale di uomini e donne (poche) che hanno fatto dell’immoralità la loro ban diera. Accade in Iran e protestano in Ita lia, com’è giusto che sia. Quell’Italia che s’identifica, nello stesso momento, agli occhi del mondo come profondamente reazionaria, che odia il velo ma dice no agli immigrati, che bolla gli altri come retrogradi perché calpestano le donne ma non riconosce a quelle stesse donne pa ri diritti se sono omosessuali (per ugua glianza uso lo stesso metro di giudizio anche per gli uomini, indegni di essere padri se gay). E forse, pia speranza, non si accorgono neppure di quanta incoe-
renza portano con sé: gli sbagliati, i di versi sono gli altri, sempre gli altri. Biso gno di nuovo che avanza: il corpo è mio e lo gestiscono gli altri. Con quale corag gio il dizionario accomuna due istanze diametralmente opposte? Il coraggio di chi sfida regole misogine e patriarcali e la viltà di chi vuol fare sprofondare l’I talia nell’inciviltà dei diritti negati? Con la complicità di chi ha abbandonato il campo, perdendosi in rivalità narcisisti che e lasciando che la guerra tra pove ri divampasse. Le donne reagiscono in piazza e chiedono diritti per svelare altre donne, ma nel chiuso delle urne han no pensato che alcune donne vengono tuttora perseguitate perché chi ama in filarsi nei letti altrui ha deciso che hanno meno diritti delle identiche donne eterosessuali? Chi si taglia i capelli non può essere la stessa persona che s’indigna per un episodio di Peppa Pig in cui due donne sono madri, vero? A ognuno la propria reazione, per favore.
Il Pd è sconfitto, esausto, isolato ma una sinistra è necessaria
Un lettore, più addolorato che arrabbiato, ha scritto a L’Espresso: «Oggi fare la sini stra è molto più difficile poi ché paradossalmente nel tempo delle maggiori ingiustizie sociali non se ne sente più la necessità».
La società si è rivelata molto diversa da come l’avevano immaginata i progressisti. Un partito veramente rinnovato non può non assumersi il compito di ascoltare e rappresentare le categorie più deboli
Il popolo della sinistra vuole cam biamenti.
L’elezione di un nuovo segretario dei democratici, conseguente alle dimis sioni di Enrico Letta, può essere solo il primo passo in direzione di un rafforza mento sociale, culturale e politico del Pd e della sinistra. Il risultato delle ele zioni del 25 settembre parla chiaro. C’è grande sfiducia a sinistra, una sfiducia che nasce innanzitutto da una crisi di identità. La sinistra non sa più bene co sa vuole, non riesce più a dire in positi vo che cosa e dove vuole andare. È una sinistra che non rispecchia i problemi sociali e territoriali in cui vivono o lavo rano i propri elettori, ma soprattutto i cittadini. Non si tratta solo di chiarire meglio i programmi, la sinistra ha biso gno di ritrovare le grandi questioni di principio, e di tornare a crederci.
Occorre ricominciare da un’interpre tazione realistica della società. Spero che questo sia il compito princi pale che si darà il prossimo congresso del Pd: capire la società, quella che si è rivelata così diversa da come i progres sisti l’avevano immaginata. C’è una sfi da da lanciare, a sinistra, e riguarda proprio il voler rispecchiare il territorio e i problemi che vengono posti alla po
litica. Per poter dare soluzioni alle esi genze di chi ha problemi occupazionali o di chi abita non solo nel centro delle città, ma soprattutto nelle periferie, do ve si conquista, voto su voto, il consen so. Voglio ripetermi: è la politica dei piccoli passi e delle grandi mete.
È una sinistra «provata», dove «pro vata» significa: l’abbiamo «provata», «sperimentata», ora sappiamo davve ro com’è, non ci resta davvero più niente da scoprire, il tempo delle illu sioni è finito, dobbiamo ripartire dalla dura realtà; oppure «affaticata», «esaurita», anzi «esausta». Insomma, il fondo del barile è stato raschiato. Il Pd dopo tanti anni al governo, ha smesso di sapere come si vince, e forse anche di desiderarlo. Le responsabilità sono politiche, non sociali né antropo logiche. Metà del Paese, forse, si è “me lonizzata”; ma metà, almeno, reagisce in modo scomposto. E quindi, per tor nare alla domanda iniziale del lettore, serve una «sinistra» all’Italia? Il Paese è a un avanzato livello di sviluppo, ma con perduranti gravi squilibri econo mici, sociali, strutturali e di organizza zione del sistema politico, ed è in una fase in cui aumentano le esigenze di rappresentanza sociale delle categorie deboli, che vanno dal pensionato al giovane precario. Non può non esiste re un partito (anche se il termine è sta to ormai eliminato) che si assuma di chiaratamente questa rappresentan za, in termini diversi, più dinamici, di quelli sindacali.
RICERCA
Dopo il voto
x presidente e fondatrice del Partito democratico, più volte ministro di ri lievo, un quarto di secolo alla Camera, osservatrice distante e però sempre at tenta.
Rosy Bindi, il Pd è un partito nato male?
«A mio avviso è nato trop po tardi e troppo presto». Perché troppo tardi?
«Il momento propizio era nel ’96 con l’e sperienza e la vittoria dell’Ulivo guidato da Romano Prodi. C’era l’occasione di consolidare un’intuizione politica, sfrut tare quel vento, unire davvero le forze, non ricadere nella logica degli interessi di parte e dare vita a un soggetto politico nuovo, plurale, espressione delle culture politiche della sinistra comunista e so cialista, cattolico democratica, ambien talista e liberal-democratica. Invece ci furono resistenze nei partiti, prevalsero
NON C’È STATA UNITÀ CONTRO LA DESTRA È COLPA DI TUTTI, NON SOLO
CAMBIARE SEGRETARIO CON
l’individualità, i benefici immediati, la scarsa lungimiranza, e cadde il governo travolgendo l’Ulivo». Perché troppo presto?
«Nel 2007 ci fu fretta poi di siglare un accordo tra le classi dirigenti per contra stare il berlusconismo che non concedeva tregua. Per la fretta e le ansie dei vertici non ci fu la vera costruzione di un proget to. Non ci fu una elaborazione culturale. Per questo motivo il partito, privo di ra dici profonde, è stato esposto ai continui assalti delle correnti. Così Matteo Renzi l’ha potuto scalare con rapidità e relativa facilità. Le radici profonde si formano con la visione, i programmi, la formazione delle classi dirigenti e l’organizzazione». Non ci si è ravveduti nemmeno dopo la seconda segreteria di Renzi. «No, perché la stessa classe dirigente che
lo aveva appoggiato, di gran slancio, ha sostenuto con altrettanto slancio un altro segretario e un altro ancora. Non si sono interrogati mai sulla mutazione genetica che il partito aveva subito e sull’immagi ne che trasmetteva agli elettori. Le conse guenze di oggi non ci possono sorprende re. Erano più che prevedibili». Com’è successo che un partito genera to da solide culture popolari - quella comunista e quella de mocristiana - sia percepito indifferente e stra niero nelle periferie e nelle fabbriche?
Carlo Tecce Giornalista«Perché ha presto smarrito le proprie radici popolari, la capacità di stare in stra da e la coerenza con le sue origini. Il Pd ha dimentica
to di essere il custode di una tradizione di alcuni (non tutti) protagonisti del comu nismo italiano e, non ce lo scordiamo mai, della sinistra democristiana. Queste ca ratteristiche imponevano al Pd un dialo go costante con le periferie della società, una lotta incessante alle diseguaglianze. La mancata attitudine a rivolgersi ai più deboli è un limite di questa stagione. La politica non riesce a interpretare le pau re, le angosce, la solitudine dei cittadini, non è coinvolta nel loro quotidiano, non è vista come fonte di soluzioni, semmai di problemi o semplicemente inutile e su perflua. Questa perdita di empatia tra la politica e la gente spiega l’astensionismo e lo spiega soprattutto a sinistra». L’attuale classe dirigente dem ha go vernato 11 degli ultimi 12 anni senza vincere mai nelle urne. Quanti danni al
Prima Pagina
GOVERNO
Rosy Bindi, tra Pierluigi Bersani (a sinistra) ed Enrico Letta durante un Consiglio dei Ministri del 1999
partito ha causato l’abitudine al potere e come si cura in maniera efficace?
«Il Pd è visto come il partito dei ministeri e delle poltrone, e si deve chiedere perché. Io però sono più indulgente. Davvero il Pd si è comportato da partito responsabile e istituzionale, si è caricato colpe altrui e non ha mai abbandonato la nave, cioè il Paese. Certo che al Pd conveniva vota re, per esempio, dopo la fine del governo Berlusconi nel 2011. Invece sostenne l’ese cutivo tecnico di Mario Monti, si prese la sua porzione di responsabilità di fronte a manovre di bilancio devastanti per il tes suto sociale. Quella scelta, più o meno ob bligata, fu pagata dal Pd nel 2013 e spinse oltre il 20 per cento i Cinque Stelle. Negli ultimi 25 anni l’opposizione ha premiato, governare no».
Letta ha convocato il congresso che di fatto posticipa di qualche mese le sue dimissioni e ha sottolineato che si do vrà “riflettere” su chi è il Pd e chi vuole essere il nuovo Pd. Per farla breve: cosa deve essere il nuovo Pd?
«Io non sono neanche più iscritta al par tito, ma rimango fedele a una mia idea da diversi anni. Ne accennai già dopo il fallimento elettorale di Renzi nel 2018. In poche parole: il Pd deve mettersi a dispo sizione e ricostruire la sinistra plurale in Italia».
Il campo largo, un Ulivo nipote, un centrosinistra.
«Con i cartelli appesi non si va lontano. A Letta viene imputata la colpa di non aver organizzato un blocco contro la destra, ma le colpe sono di tutti. Quelli che hanno fatto in modo che la rottura fosse inevita bile e quelli che hanno rotto senza esitare.
CACCIARI
Massimo
I Cinque Stelle esultano per essersi salva ti, si sono finalmente collocati a sinistra e mi fa piacere perché hanno sciolto il loro enigma, però non è sufficiente. La Sinistra e i Verdi si sentono appagati dal 3 per cen to abbondante, ma restano espressione di una sinistra minoritaria. Il Pd corre spe dito verso il congresso, reagisce senza fa re un’analisi della sconfitta, ma non basta allestire l’investitura di un ennesimo se gretario e affidarsi ai rituali di congresso per riproporsi agli italiani con credibilità. Sarebbe accanimento terapeutico».
O il Pd completa la sua fondazione o non ha più senso di esistere?
A CONTE ORA IL SUD STA STRETTO
DI ANTONIO FRASCHILLA
«Non siamo solo il partito del Sud e del reddito di cittadinanza, che dobbiamo difendere dal prossimo governo. Adesso dobbiamo crescere al Nord e lavorare pancia a terra per radicarci e ricostruire il Movimento anche in Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia Romagna e Toscana». Nelle ore e nei giorni immediatamente successivi all’esito elettorale, Giuseppe Conte riunisce più volte il suo staff per tracciare la linea, il percorso da seguire. Il messaggio è semplice: non vuole rimanere schiacciato dalla definizione di capo del partito del Mezzogiorno, di «Masaniello dei percettori di reddito di cittadinanza che preferiscono il divano al lavoro». Un messaggio che purtroppo ripete anche un pezzo del Pd a partire dal governatore campano Vincenzo De Luca semplificando questioni molto più complesse sul voto nelle regioni povere, tra le più povere d’Europa tra l‘altro. Ma di certo c’è che l’ex presidente del Consiglio, dopo aver raccolto messe di voti proprio nelle regioni meridionali, anche se comunque in calo rispetto al trionfo di cinque anni fa, ha già chiara la strategia per i prossimi mesi: «Dobbiamo fare breccia nel mondo dei piccoli artigiani e dei commercianti, abbiamo praterie davanti a noi perché questo popolo è disorientato e senza riferimenti, tanto da aver votato
Antonio Fraschilla Giornalista«Io chiedo al Pd di andare oltre se stes so, superare le proprie contraddizioni e mettersi a disposizione di un cantiere che ricostruisca un campo democratico e progressista. Ciascuna componente del centrosinistra deve fare la propria parte. Rinunciare a qualcosa per conquistare insieme qualcosa di più importante e du raturo. Il centrodestra ha vinto, ma non è maggioranza nel Paese. Giorgia Meloni ha travasato in Fdi i vecchi consensi della Lega di Matteo Salvini e un pezzo è ar rivato da ex elettori Cinque Stelle, segno che l’espansione di quell’area politica non è stata totale e non è irreversibile. Anzi è contrastabile».
Il dilemma di questi giorni sono le can didature alla segreteria. Abbondano. E ce ne sono di ogni tipo. Ci si interroga: per il futuro il Pd deve cercare dentro
Fratelli d’Italia al posto della Lega ma per mancanze di alternative», ragiona Conte con i suoi fedelissimi. La mappa del voto oggi vede un pezzo del Paese, dalla Campania in giù, colorato di giallo. Il Movimento, secondo i dati elaboratori da Youtrend per la società di lobbying Cattaneo Zanetto, è la lista più votata in tutti i collegi meridionali ad eccezione di Salerno. E nel fronte del centrosinistra è avanti al Pd anche nel basso Lazio e in Sardegna. Il Movimento ha attratto il voto dei disagiati, dei disoccupati e dei giovani. Ad esempio, il voto dei disoccupati è andato in maggioranza, con oltre il 15 per cento a testa, a Fratelli d’Italia e al Movimento: inutile dire in quali regioni si trovano le percentuali maggiori di senza lavoro. Inoltre i 5 stelle hanno incassato molti voti nei grandi Comuni con più di 200 mila abitanti. A Palermo i candidati di Conte hanno vinto in due collegi con oltre 60 mila preferenze, di gran lunga il primo partito capace di battere tutta la coalizione di centrodestra messa insieme. A Napoli i volti dei 5 stelle hanno vinto in due collegi raccogliendo tra i 60 e gli 80 mila voti e doppiando le coalizioni di centrosinistra e centrodestra. Ma in generale il Movimento è andato bene nelle grandi città, soprattutto del Sud chiaramente: sono il primo partito a Bari, Taranto, Foggia, Lecce, appaiati quasi con Fratelli d’Italia a Reggio Calabria e a Caserta. Il partito del Sud sono loro, inutile giraci intorno. Se altrove i 5 stelle sono crollati
di sé un militante iconico com’era Me loni per la destra oppure deve guardar si attorno e coinvolgere un altro Prodi. «Nella mia prospettiva non va cercato il segretario del Pd, ma la classe dirigente del nuovo campo democratico e progres sista».
Sui motori di ricerca la domanda più ricorrente che la riguarda è: che fine ha fatto Rosy Bindi?
«Oggi vado a parlare di lotta alla mafia agli studenti con l’Arci e la Cgil. Difendo la sanità pubblica con la mia associazio ne. Studio, leggo, faccio conferenze, addi rittura per le Acli di Bergamo commento il Vangelo del giorno. La politica la faccio così. Non si deve far parte di una direzio ne di 400 persone per farla. La passione non si spegne».
Il leader dei Cinque Stelle Giuseppe Conte
nei consensi rispetto a cinque anni fa, nel Mezzogiorno in fondo hanno tenuto botta mantenendo una media superiore al 20 per cento. Adesso l’obiettivo di Conte è far tornare il Movimento un partito nazionale. Sì, ma come? Con quali uomini? E, soprattutto, con quale messaggio? L’avvocato del popolo ha già in mente un piano, perché analizzando il voto del 25 settembre emergono grandi spazi per fare breccia in un Nord che non si fida più della Lega e che non ha mai votato così tanto Fratelli d’Italia. Per prima cosa Conte vuole fare a breve un tour nei grandi centri delle regioni del Nord per incontrare associazioni di categoria di artigiani, commercianti e piccole imprese. Insomma, non andrà a parlare con i volti che si vedono a Cernobbio, ma proverà a seguire in fondo la stessa linea di pensiero tenuta al Sud: «Nel Mezzogiorno il tessuto sociale è composto da anziani, giovani e disoccupati che vanno aiutati e lo abbiamo fatto con reddito di cittadinanza e bonus nel periodo della pandemia. Nel resto del Paese esiste una filiera di piccole attività in grande difficoltà alla quale occorre dare risposte come abbiamo già fatto con il superbonus: non dimentichiamoci che la regione che ha ricevuto più fondi da questa misura è stata il Veneto, e dobbiamo dirlo ogni giorno e comunicarlo in tutti i modi», ribadisce ai suoi in tutte le riunioni del dopo voto. Il presidente del Movimento ha già una lista di punti del programma del Nord, chiamiamolo così: «Dobbiamo rilanciare alcune misure avviate da noi e passate quasi sotto silenzio come il fondo di salvaguardia per le imprese in crisi, le agevolazioni per la creazione di cooperative di lavoratori per salvare imprese che stanno chiudendo. Poi dobbiamo difendere alcuni bonus, come quello edilizio, e rilanciare bonus per la transizione energetica delle piccole aziende. Oltre, chiaramente, a
L’INIZIATIVA
Stefano Disegni firma sei vignette da completare sul tema disuguaglianze e a sostegno della campagna di raccolta fondi “Insieme per la giustizia sociale e ambientale” del Forum Disuguaglianze e Diversità su Produzioni dal Basso. La seconda battuta vincitrice è di Gianni Ferraretto nella vignetta che pubblichiamo qui. Ogni settimana, per le prossime quattro settimane, una nuova vignetta di Stefano Disegni da riempire verrà pubblicata sul sito e sui canali social del ForumDD. Per partecipare con la propria battuta, bisognerà essere già sostenitori e sostenitrici della campagna del ForumDD o decidere di diventarlo senza nessuna soglia minima o massima (la donazione alla campagna è assolutamente libera). Tutte le informazioni sull’iniziativa e le modalità per partecipare su www.forumdisuguaglianzediversita.org
scelte immediate per far fronte al caro bollette. Dobbiamo ripetere come un mantra queste misure ovunque, attraverso consiglieri comunali, consiglieri regionali e deputati». Il presidente del Movimento vuole puntare su alcuni volti noti nelle regioni del Nord, come l’ex sindaca di Torino Chiara Appendino, ma anche su chi ha lavorato bene in Parlamento nella scorsa legislatura e non è stato ricandidato: dirigenti del partito che hanno costruito agende di lobbying interessanti, come l’ex senatore Steni Di Piazza, che per il Movimento ha tenuto i rapporti con il mondo del terzo settore e il sociale, anche dall’Emilia Romagna in su. Il vero obiettivo di Conte, se andrà in porto la missione al Nord, è quello di diventare il primo partito nel campo del centrosinistra, con una particolare attenzione al sociale e alle piccole aziende. Sfruttando temi cari alla sinistra e a un pezzo del Partito democratico che certo non si riconosce, a esempio, in scelte come quella di puntare sull’ex dirigente del Fondo monetario internazionale Carlo Cottarelli nelle scorse Politiche e forse anche alle prossime regionali in Lombardia. Nel frattempo però, interrotta del tutto la linea di dialogo con Enrico Letta, continua a parlare con l’anima ex Ds nei democratici, dal ministro Andrea Orlando a Goffredo Bettini e Pierluigi Bersani. Chissà, magari da qui ai prossimi anni se il Pd deflagrerà potrebbe essere il suo Movimento la grande casa del centrosinistra: senza parlare più dei progressisti e di progressismo, visto che non ha portato molto bene nel recente passato. Fantapolitica? Forse, ma intanto se il Movimento crescerà anche sopra Roma, Conte diventerà il riferimento politico per un intero campo. E potrà provare a giocarsi nuovamente la partita per tornare a Palazzo Chigi.
Non bastano le bandiere per costruire un’identità
Qualchetempofa, non ricor do quando e dove, Pippo Ci vati scrisse parole feroci sul Pd, nel quale aveva vissuto anche da parlamentare, e dal quale era polemicamente uscito. Ricostru iva in poche, amare righe gli errori e le occasioni perse di un partito che ai suoi occhi sembrava rifiutarsi di cambiare passo, riflettere sul presen te, immaginare un futuro diverso.
Ricordava dunque Civati che in po chi anni era più o meno successo che: il Pd aveva approvato una legge elet torale, l’Italicum, bocciata dalla Cor te Costituzionale; aveva prodotto il Rosatellum per battere i 5S che inve ce le elezioni le vinsero; dopo il flop del referendum Renzi, sul quale s’era già spaccato (ma non erano tutti ren ziani?), il Pd aveva mandato a Palaz zo Chigi Gentiloni in vista delle ele zioni del 2018, poi perse clamorosa mente; ha cambiato tre segretari, due dei quali - Renzi e Bersani - han no fondato un altro movimento e il terzo, Zingaretti, ha lasciato con di chiarazioni di fuoco contro il suo stesso partito; il quarto segretario, Letta, si è appena dimesso, quindici mesi dopo il suo ritorno a Roma da Parigi dove si era esiliato per il golpe Renzi del 2014 («Enrico, stai sere no»); su spinta dei 5S il Pd ha detto sì alla riduzione del numero dei parla mentari, con l’impegno di cambiare la legge elettorale, e invece ha lascia to lì dov’era il Rosatellum con il quale è ora stato umiliato da Meloni e 5S.
Ah, i Cinque Stelle. Qui siamo al ballo del qua qua. Nel 2013 il Pd vor rebbe l’alleanza, ma viene irriso (stre
aming Bersani-Grillo); nel 2018 rifiu ta ogni confronto con i grillini che scelgono la Lega e lasciano campo li bero a Salvini (Conte I); ma un anno dopo il Pd è al governo (Conte II, e poi Draghi) con Salvini e con Berlusconi, che fu Caimano. Per Zingaretti Conte era «il punto di riferimento di tutte le forze progressiste»; per Letta, che gli succede, è uno dei giocatori nel co siddetto “campo largo”. Poi i 5S fanno cadere Draghi e tutto cambia: no a Conte, sì a Calenda che firma un pat to finché qualche suo sponsor gli fa notare che con Bonelli e Fratoianni proprio non si può. Il resto è Meloni.
Dal 2011 (premier Monti) il Pd è stato al governo per dieci anni. Nel 2008 contava 12 milioni e rotti di voti; nel 2018 la metà, da domenica 25 set tembre 5 milioni e 200mila, altri 800mila in meno. Ora va al congresso per una «profonda riflessione» che avrebbe dovuto avviare almeno dopo la caduta di Renzi, certamente all’ar rivo di Letta. Ma ogni volta c’era un’e mergenza, un pericolo, e dunque la necessità di governare: in nome di una pur sacrosanta “responsabilità” il Pd si è fatto difensore del sistema, proprio mentre in tutta Europa mon tava la rabbia contro il sistema e arri vava la valanga populista.
Secondo un noto mantra, una crisi offre sempre un’occasione di rinasci ta. E vabbè. Ma non va sprecata, un congresso non deve servire solo a giustificare un nuovo leader e a sce gliere tra Conte e Calenda. Quando nel 2007 Veltroni diede vita al Pd, il buon Emanuele Macaluso bollò l’o perazione come «una fusione a fred
do». Intendeva dire che per tenere insieme post Dc e post Pci prima si deve chiarire bene cosa si è e cosa fa re, ma solo dopo aver condiviso una lettura dei cambiamenti della so cietà, della missione del partito, scel to un posizionamento sociale e perfi no le riforme, anche istituzionali, che si vogliono (nei dettagli, però, non a colpi di slogan).
Cercasi identità. Politica, sociale, culturale. Forse il simbolo più forte della débâcle 2022, che tutto riassu me come in una metafora, è la scon fitta di Emanuele Fiano, figlio di un sopravvissuto di Auschwitz, battuto a Sesto San Giovanni, l’ex Stalingra do d’Italia, da Isabella Rauti, parla mentare super meloniana, figlia di Pino Rauti, già fondatore di Ordine Nuovo e segretario del Msi; o quello di Sant’Anna di Stazzema, luogo nel 1944 di una delle più feroci stragi na zifasciste, dove domenica Fratelli d’I talia e centrodestra hanno superato rispettivamente il 32 e il 49 per cento. Ecco. I valori, la memoria, il segno antifascista devono restare decisi e intatti, e ci mancherebbe, del resto sono a fondamento della Costituzio ne sulla quale Meloni dovrà presto giurare, ma non possono essere più considerati l’unico segno con il quale ci si distingue e si vince, quasi costi tuissero – si può osare? – una rendita di posizione. È doveroso sventolare le bandiere del proprio Pantheon, ma esse devono ispirare e rinvigorire un’identità che nel giorno per giorno si deve nutrire anche di altre scelte. Altrimenti c’è solo un glorioso passa to e un triste declino.
Giorgia Meloni, presidente di Fratelli d’Italia
che verrà
Da pensarsi eroe ragazzino come Atreju ad atteggiarsi a lady di ferro come Mar gareth Thatcher il passo è lungo: un 25 settembre basterà a colmarlo? Inizia l’e ra Giorgia Meloni e del partito di mag gioranza più a destra della Repubblica e la prima sorpresa, vista la prevedibilità dell’esito elettorale, è stata sorprender si: io, tu, noi tutti – diceva il noto cantautore. Sorprendersi e spaventarsi. Per l’impresa in sé, o per chi la conduce, di pende dai ruoli. «Tutte le paure portano a Roma», titolava ad esempio Libération, nel ruolo suo. Mentre, nell’altro ruo lo, Meloni, timorosa, si fiondava subito in ritiro spirituale a studiare da premier: e già questa sparizione è un segno dell’Era Nuova, impronta secchiona dell’homo melonianus (si potrebbe dire «mulier meloniana», o «domina», o addi rittura «mater», ma la leader di Fdi non ama le declinazioni al femminile e anche questo è Zeitgeist: segnarselo). A tutti, altro segno, la/il probabile premier ha vietato di festeggiare la vittoria. Per carità. Niente «caroselli», trenini a piazza del Popolo, schiamazzi. Non il giorno dopo, quando i Lollo brigida e i Donzelli, luogotenenti spediti alla conferenza stampa sull’analisi del voto a fare i leader al posto della lea der – si fosse trattato di un uomo, mai sarebbe successosembravano dei monaci in debito di sonno che si sforzavano di fare gli statisti (c’era anche il capogruppo al Senato, Luca Ciria ni, detto amabilmente dai Fratelli «l’Inuti le»). Interviste a paginate intere, ministeri in prospettiva (per «Lollo» magari in una fase due, per non dare troppo nell’occhio) ma niente festa. Anche alle tre e mezzo di notte: dopo la vittoria e i discorsi, i militan ti di Fratelli d’Italia sono entrati alla spic ciolata nel comitato elettorale all’Hotel Parco dei Principi a festeggiare senza far rumore; e le bolli cine, apparentemente bottiglie di Valdobbiadene superio re, sono state portate nel privé dei quadri di partito quasi in punta di piedi, a tre per volta per non dare nell’occhio. Sì Meloni, no party. Segno dei tempi. E forse è ancora vivo, tra di loro, il ricordo di quando nel 2008 vinse Gianni Aleman no a Roma e gli aennini dovettero fare la corsa ad abbattere le braccia tese sulla terrazza del Campidoglio, tirarle giù al grido metaforico: «Fiuggi, per pietà».
“FACCIAMO VEDERE CHE NON SIAMO DEI MOSTRI”, È LA RACCOMANDAZIONE. I MAGGIORENTI INTANTO LIMANO LA LISTA DEI MINISTRI E DEGLI UOMINI DA PIAZZARE NEI POSTI CHIAVE
Susanna Turco GiornalistaPer la vera festa, il battesimo del nuovo, s’è dovuto at tendere qualche giorno: il primo weekend dalla Vittoria (30 settembre-2 ottobre), all’Hotel Quirinale s’è raccolta l’interna zionale dei conservatori, per tre giorni su “Italian Conservatism. Europe, Freedom, Identity”, organizzato da Nazione Futura, Fondazione Tatarella e “The European Conservative”. La prima adunata a dare il segno eloquente che il nostro Paese – bella sensazione - è diventato una specie di faro
per gli estremisti di tutta Europa: dall’Ungheria al Porto gallo, dalla Polonia alla Svezia passando per la Spagna. Tutto un programma. Accorrono infatti lo spagnolo Vox nella persona di Jorge Buxadé Villalba, il vice di Abascal; il direttore politico Balász Orbán, braccio destro del pre mier ungherese; l’ex capo dei democratici svedesi, Mat tias Karlsson; André Ventura, presidente dell’estrema de stra portoghese di Chega!; il presidente del Danube insti tute, già consigliere della Thatcher, John O’ Sullivan. E poi americani, israeliani, europei: una rete che sbarca in Ita lia. «The italian Right just scored an EPIC victory. That’s why I’m addressing the conference on Italian Conservati sm in Rome next weekend. We’ll talk about sovereignty, family policy, good government -& the emergent postlibe ral, multipolar order. See you in Rome», è il tweet che ha fissato in alto nella sua pagina Gladden Pappin, professo re all’Università di Dallas e cofondatore della rivista Ame rican Affairs (a proposito di Zeitgeist: chi non ha un abbo namento se lo procuri), salutando la «vittoria epica» di Fdi. «Vogliamo lanciare idee per il governo, ora che si apre
STATO MAGGIORE
una stagione nuova, ma anche unire sensibilità diverse, per far vedere che esiste un mondo culturale, politico, me tapolitico, profili sempre istituzionali coi quali dialoghia mo, far vedere che insomma non siamo dei mostri», rac conta l’editore e organizzatore Francesco Giubilei, 30 an ni, a sua volta discreto esempio di homo melonianus, tut to intrapresa, cultura, incarichi e relazioni.
Potevano mancare gli italiani? Certo che no. Ed ecco, nel primo battesimo pubblico del nuovo mondo che co manda, s’affollano a parlare di conservatori tanti che sono in predicato per diventare ministri e sottosegretari o di rettori o responsabili dipartimenti, o quanto meno maître à penser – sarebbe il minimo. Dal vicepresidente di Ecr Raffaele Fitto al consigliori meloniano Guido Crosetto, gli ambasciatori ed aspiranti ministri degli Esteri Giulio Ter zi di Sant’Agata (in pole) e Stefano Pontecorvo fino all’eu roparlamentare Vincenzo Sofo, marito di Marion Maréchal-Le Pen, al vicesegretario Lorenzo Fontana (uni co leghista in panel), campione dell’ala cattolico tradizio nalista del Carroccio, agli eterni Vittorio Sgarbi e Daniele
Capezzone. Per andare poi al meglio che la destra possa offrire sul fronte del pensiero intellettuale e giornalistico: il presidente del comitato scientifico della fondazione di An e probabile prossimo direttore generale (o anche solo delle fiction) Rai Giampaolo Rossi, al direttore del Tg2 Gennaro Sangiuliano che dicono prossimo al trasloco al Tg1, a Paolo Petrecca direttore di Rainews 24 anche lui da to in ascesa, a Gian Marco Chiocci, direttore dell’Adnkro nos che non è certo destinato a restare indietro.
«Facciamo vedere che non siamo mostri» parrebbe in effetti in cima alle preoccupazioni attuali dell’homo me lonianus, come s’è visto pure dall’evidenza che la leader ha voluto dare al tweet di congratulazioni Volodymyr Ze lensky, dopo aver passato sotto silenzio i complimenti, ben più tempestivi, provenienti da leader indicati a suo tempo come modelli dalla capa di Fdi: Santiago Abascal di Vox, Marine Le Pen, l’ungherese Orbán ovviamente. Peccato, insomma, che nonostante gli sforzi si cada sem pre nel verso degli estremisti: altrettanta evidenza che al presidente ucraino proprio il quartier generale di Fdi ha voluto infatti dare al tweet di risposta di Meloni al primo ministro indiano, il nazionalista indù Narendra Modi, già militante in gioventù dell’organizzazione paramilitare di estrema destra Rss (disciolta per tre volte), e poi noto, da governatore del Gujarat, per lo stile dispotico, le forti limi tazioni della stampa, la tolleranza nei confronti della vio lenza. «We look forward to working together to stren gthen our ties», ha scritto Modi a Meloni. Ma sì, rafforzia mo i legami. «Bisogna lavorare a ricucire, con pazienza», sussurra pacato Adolfo Urso, possibile sottosegretario
Prima Pagina L’Italia che verrà
con delega ai Servizi, a proposito delle morbidezze su Viktor Orbán.
L'ambiguità, come ha ben osservato anche il Financial Times, è una cifra denotativa di Giorgia Meloni e del me lonismo. Ambiguità, ambivalenza, un pizzico prima della contraddizione palese. Del resto si parla di un partito che a Predappio ha preso il 36,6 per cento, meno della Lega, che nel 2019 aveva fatto 40: insomma sul filo del tutto e del contrario di tutto persino lì.
Ed ecco, proprio nei giorni in cui massimo è l’impegno per la formazione del possibile governo, e quindi la respon sabilità, il draghismo, la cautela e la carezza ai mercati, comparire concetti perfettamente meloniani, come la pro gressività della flat tax - che è un po’ come descrivere un mare in salita - raccontata da Maurizio Leo, responsabile economico di Fdi in pole position per diventare ministro delle Finanze nello spacchettato Mef (l’E conomia potrebbe restare a Daniele Fran co, individuato come vittima sacrificale della pax Draghi-Meloni viste le resistenze di Fabio Panetta). Avanti pure a un ministe ro dell’Energia che faccia a pendant al va gheggiato (e vagamente mussoliniano) «ministero del Mare». Oppure ecco l’assicurazione di non voler toccare la legge 194 che convive con quella di «non conoscere alcuna donna che non abbia potuto abortire per via degli obiettori di coscienza», offerta da Meloni nell’in tervista con Lucia Annunziata; o ancora con il simpatico lapsus della neoeletta Lavinia Mennuni che, dopo aver quantificato con Radio24 in «sei milioni» i «bambini non nati con la 194», ha osservato come negli ospedali i medici non obiettori ci vadano collocati: «Finché c’è la normativa che prevede l’interruzione della gravidanza, è chiaro che ci
debbano essere strutture adeguate». Laddove è nell’avver bio il colpo di genio: «Finché». Uno dei punti qualificanti della campagna elettorale è stato d’altronde il taglio al Red dito di cittadinanza che però dovrà per forza convivere so prattutto nei primi tempi con il mantenimento del Rcd, al meno per alcune fasce più deboli, in omaggio a una tradi zione più da destra sociale che Meloni non può dismettere, soprattutto se vuole conquistarsi un po’ di meridione: il Reddito dunque ci sarà, «finché non sarà tagliato». Anche sull’immigrazione, per dire, ci si andrà piano: l’autunno-in verno non certo è la stagione dei blocchi navali, tanto più visto che il Nord est imprenditoriale appena conquistato alle ragioni di Fdi reclama manodopera. Sarà dunque tutto
L’AMBIVALENZA SUL FILO DELLA CONTRADDIZIONE SARÀ IL LIMITE CON IL QUALE FARE I CONTI SU TEMI COME L’IMMIGRAZIONE, LA 194 E IL WELFARE
A PARTIRE DAL REDDITO DI CITTADINANZA
un camminare sul filo di lana, per l’homo melonianus. Stu diando Chesterton, Scruton, ma anche Prezzolini. Un au tentico mito di questa destra e in effetti assai al passo coi tempi, essendo in effetti per certi versi il contrario dell’i dentitarismo e del patriottismo: uno che ha lasciato il Pae se poco dopo l’inizio del regime fascista e che poi salvo una breve parentesi è finito a vivere a Lugano, in Svizzera, tor nando in Italia in pratica solo per comprare l’insalata. Il prototipo del fratello d’Italia, per così dire.
La sorpresa di Macron l’entusiasmo di Le Pen
naggio politico «al di là dei confini di partito», mentre la seconda non perde occasione per affermare nei comizi di essere l’incarnazione della destra. La prima ha messo da parte tutti i temi di società (matrimonio omossessuale, eutanasia…), la seconda fustiga la “lob by Lgbt”. Infine, la prima ha concluso prestiti bancari con banche russe e af fermato più volte la sua ammirazione per Vladimir Putin, mentre la seconda si proclama atlantista e in favore del le sanzioni contro la Russia. Resta un punto in comune: entrambe hanno se guito lo stesso sforzo di moderazione (almeno in apparenza), con l’obiettivo di rassicurare i partner ufficiali.
Meloni. Sei lettere e un viso che i francesi hanno scoperto in questo mese di settembre, in occasio ne della campagna elettorale italiana. Nessun personaggio politico, dopo Silvio Berlusconi, ha destato così tanto interesse dal nostro lato delle Alpi. Chi è Giorgia Meloni? Quanto è radicale?
Comesiposizionarispettoalfascismo?
Dal punto di vista della classe politica francese, invece, la Meloni era già co nosciuta, soprattutto come presidente del gruppo europeo dei conservatori (Ecr) ma anche come quella che era riuscita, in un paio d’anni, a superare Matteo Salvini, che sembrava da noi le ader incontestabile dell’estrema destra italiana. Dalla Le Pen a Macron, nessu no aveva previsto il meteorite Meloni, soprattutto non così presto. All’Eliseo, i consiglieri di Macron han no seguito trattenendo il respiro la campagna della leader di Fratelli d’I talia, sperando in un calo dei sondaggi, che non è mai avvenuto. Tra il confron
to duro con l’Italia (secondo partner commerciale del paese) e “la ragione di Stato”, Emmanuel Macron sarà co stretto a scegliere la seconda strada, che consiste nel cercare i rari punti di minima intesa con il prossimo gover no, senza troppo entusiasmo. Lunedì pomeriggio, ha lanciato un appello a «continuare a lavorare insieme».
Anche Marine Le Pen ha seguito con interesse la campagna di Giorgia Me loni. «Il popolo italiano ha deciso di riprendere in mano il proprio destino», ha dichiarato compiaciuta la presiden tessa del Rassemblement national. Ma in privato, la figlia di Jean-Marie Le Pen non sa se lamentarsi della sconfitta di Matteo Salvini, il suo alleato ufficiale, o festeggiare la vittoria della sua “ge mella diversa”. Certo, entrambe sono bionde, radicali, sovraniste, e promuo vono politiche durissime nei confronti degli stranieri. Ma hanno anche delle differenze sostanziali. La prima ha scelto da anni di definirsi un perso
Colui che sogna veramente un desti no simile a quello della Meloni si chia ma Eric Zemmour. Ma l’ex giornalista, diventato in una stagione candidato all’elezione presidenziale (con il 7% dei voti nell’aprile del 2022) dimenti ca che Giorgia Meloni non è per nien te una principiante, e che il successo elettorale di FdI sfrutta il radicamento sociale di An e del Msi. In primavera, ha inviato uno dei suoi parlamenta ri a incontrare Giorgia Meloni, Carlo Fidanza e Vincenzo Sofo (il marito di Marion Maréchal), in un luogo segreto, per negoziare un’ipotetica adesione al gruppo europeo.
I membri del partito di destra Les Républicains sono, a quanto pare, troppo impegnati a sopravvivere po liticamente per occuparsi seriamente di quello che succede sullo scenario politico estero. Come Forza Italia, sono passati in meno di dieci anni dall’esse re un partito di governo ad un movi mento politico in via d’estinzione.
da
L’ALTRA DESTRA CHE CI ASPETTA
DI FEDERICA BIANCHI
muri sono destinati a crollare. Materiali o imma teriali che siano. Come nell’antica Roma o nella moderna Germania, così oggi a Bruxelles. Il cor done sanitario eretto due anni e mezzo fa dai tre grandi gruppi politici europei - popolari, socialisti e liberali - per arginare le destre nelle decisioni co muni alla fine non ha retto. La vittoria politica di Giorgia Meloni certifica e corrobora lo spostamento a destra dell’e lettorato europeo iniziato nella scorsa legislatura e conti nuato nell’attuale con qualche cambiamento di rotta, che ne ha facilitato l’ascesa.
Prima dello scoppio della pandemia erano i partiti di estrema destra del gruppo “Identità e Democrazia”, dalla Lega di Matteo Salvini al Rassemblement National di Ma rine Le Pen, ad aumentare nei consensi e a mettere in cri si i grandi partiti tradizionali. Contro il loro spirito sovra nista, dopo le ultime elezioni europee era stata creata la cosiddetta “maggioranza Ursula”, dal nome della leader della Commissione europea, che avrebbe dovuto impedir gli di influenzare le istituzioni europee e allontanarle dal cammino federale.
A dire la verità fino a qualche mese fa la missione sem brava compiuta. A capo della Germania il socialista Olaf Scholz aveva preso il posto della granitica Merkel, margi nalizzando gli estremisti dell’Afd, crollati nelle urne. In Francia Emmanuel Macron era riuscito ancora una volta a sconfiggere Le Pen nella corsa alla presidenza. In Spa gna il socialista Pedro Sánchez aveva battuto una destra divisa tra popolari ed estremisti di Vox. Infine, in Italia, non solo Matteo Salvini aveva inanellato un errore politi
co dietro l’altro, annullando ogni carica eversiva della Le ga, ma Mario Draghi aveva reso lo Stivale addirittura il ti moniere d’Europa. Il sovranismo sembrava domato.
Invece in tutti questi mesi a essere largamente sottovalu tato è stato il gruppo dei conservatori di Ecr (European conservatives and reformists), quello di cui Meloni è da due anni presidente e da cui molto ha imparato. Soprattutto nel calibrare messaggi ed entusiasmi. Dopo l’uscita dei Tories in seguito alla Brexit, Ecr era considerato inutile, al punto che l’anno corso circolavano voci di una sua fusione con “Identità e Democrazia” per formare il «partitone dell’op posizione sovranista». D’altronde i numeri dei suoi membri erano piuttosto esigui, con i polacchi del Pis, il partito di governo, che la facevano da padroni solitari.
Ma prima la caduta politica di Salvini e Le Pen e poi la guerra russa contro l’Ucraina hanno cambiato le carte in tavola. Tanto Id è un gruppo pro-Putin quan to Ecr è saldamente schierato per la totale in dipendenza degli ex Paesi sovietici. La Polo nia, da paria antidemocratico in tandem con l’Ungheria, è diventata l’ultima linea del fron te europeo contro la Russia: la nazione che ha proporzionalmente fornito più armi all’eser cito ucraino e più assistenza ai profughi, ca pofila della resistenza europea, favorevole ad ogni sanzione proposta dalla Commissione, il
suo tradizionale filoatlantismo appuntato all’occhiello.
Sotto traccia i partiti del gruppo dei Conservatori han no aumentato il proprio peso politico. La presidenza di turno dell’Unione è nelle mani del ceco Petr Fiala, leader del Partito Civico Democratico. In Lettonia le mosse di Putin hanno dato ragione alle istanze dell’Alleanza nazio nale. In Svezia il mese scorso i Democratici sono diventati il secondo partito nazionale e avranno influenza nel go verno, dunque in sede di Consiglio europeo. In Spagna, Vox è il terzo partito e i Popolari, dati al primo posto, non escludono più un’alleanza con loro dopo le elezioni della prossima primavera, se i sondaggi fossero confermati.
tori in Italia, diventa un’opzione non più ipotetica il disfa cimento di un’Europa federale e la costruzione di un’Euro pa dei governi, tenuta insieme soltanto dalle esigenze di una cooperazione utilitaristica che varia nella geometria a seconda dei dossier, e che non incide affatto sulle strut ture politiche nazionali. Proprio nel momento in cui la Commissione europea e la Germania aprono alla possibi lità di cambiare le regole del voto per eliminare su alcuni dossier quello all’unanimità, i Paesi dell’Est, che temono di contare sempre meno, hanno motivo di sperare che, grazie all’appoggio dell’Italia, terza maggiore nazione eu ropea sia per demografia sia per ricchezza economica, po tranno opporvisi con successo. «Fare meno e fare meglio» e «trattamento uguale di tutti gli Stati membri» sono gli slogan principali del gruppo europeo, gli stessi che Meloni ha ribadito durante la sua campagna elettorale quando diceva che non esistono stati di serie “A” e di serie “B”, pa ladina in fieri di un’Europa orientale che a lei adesso guar da per ottenere a Bruxelles quella credibilità che le posi zioni sovraniste le hanno finora impedito.
In questa riscossa della destra i costruttori del cordone sanitario hanno avuto però una buona dose di responsa bilità. Per anni la Commissione ha accettato qualsiasi tipo di compromesso, sia con la democrazia illiberale di Victor Orbán, sia con la Polonia, sua fedele seguace, con il risul tato di avvalorare la tesi che un’altra idea di democrazia è non solo possibile ma anche lecita. L’indipendenza della stampa, della magistratura, delle Ong nei fatti non è più il prerequisito dell’appartenenza all’Unione. La tutela dei diritti civili e sociali più avanzati, per cui l’Europa è anco ra baluardo nel mondo, sta diventando negoziabile: dall’a borto alla piena inclusione della comunità Lgbtq. Unghe ria e Polonia, facendosi reciprocamente sponda e ponen do veti strumentali, hanno sempre ottenuto ciò che vole vano, ancora oggi con i piani di recupero e resilienza. La Polonia, in virtù della sua ferrea opposizione alla guerra russa contro l’Ucraina, ha ottenuto il via libera al Pnrr, con condizioni parziali. L’Ungheria, appena definita dall’Eu rocamera «non più una democrazia», ha sì ricevuto la so spensione di 7,5 miliardi dei fondi di coesione per corru zione e nepotismo ma ha già consegnato una proposta di riforma che la Commissione potrebbe, come al solito, va lidare in camera caritatis. Tanto più che ora a difenderla ci sarà Meloni.
Federica Bianchi GiornalistaSe gran parte di questa riscossa della destra dura dovrà aspettare le elezioni del 2024 per riflettersi tra le fila del Parlamento europeo, è chiaro che la vittoria della leader di Ecr in Italia, Paese fondatore dell’Unione e culla del fa scismo, sta galvanizzando gli animi e of frendo una nuova prospettiva. Partita da percentuali insignificanti e ampiamente ignorate, Meloni è diventata di fatto il nuovo, inatteso volto della destra europea, arrivando, con la velocità che solo un Pae se volubile e politicamente disperato co me l’Italia può offrire, lì dove ha puntato per una vita la signora Le Pen. Con l’affermazione degli ultra conserva
Anche in Parlamento la tendenza ad accettare questo spostamento a destra di valori, persone e obiettivi è inizia ta da mesi. Pur di non perdere la leadership, il gruppo dei popolari (centro-destra) , forte della debolezza decisiona le dei socialisti, ha aperto le porte al lettone Roberts Zile di Ecr, nella squadra dei 14 vicepresidenti, sottraendo il posto ai Verdi e facendo presagire future alleanze con i conservatori. Come se la destra tradizionale non bastasse più ai cittadini europei in cerca di volti politici nuovi, pre sagi di nuovi orizzonti.
GERMANIA COL FIATO SOSPESO
Preoccupano i toni antitedeschi di Giorgia Meloni. Ma si confida che l’Italia non vorrà rinunciare agli aiuti comunitari
DI CHRISTIANE LIERMANN TRANIELLONelle elezioni parlamentari gli elettori italiani hanno in larga misura confermato, se non accentuato, le più diffuse prognosi pre-elettorali, ri guardanti in particolare una bassa affluenza alle urne, segnata in parti colare dell’assenteismo di molti giovani elettori, dalla dichiarata indecisione di mol ti circa il loro voto, ma soprattutto dalla sen sazione diffusa di una notevole avanzata, nella coalizione formata dai partiti della Destra, del partito di Giorgia Meloni.
Il 25 settembre Meloni ha raccolto molti più voti della somma di quelli raccolti dai suoi due alleati. I commentatori tedeschi leggono questa straordinaria ascesa di Fra telli d’Italia sia come conseguenza della dif fusa e crescente ostilità di una parte rilevan te dell’elettorato italiano verso la classe po litica, la “casta”, sia come segno di un decli no e impoverimento inarrestabile della classe media. Nonostante la sua lunga car riera politica Meloni sarebbe riuscita a pre sentarsi come personalità anti-establish ment, appropriandosi dell’eredità anti-par titica dei 5 Stelle.
L’AUTRICE
Christiane Liermann Traniello ha studiato storia, filosofia e letteratura italiana in Germania e in Italia. Specializzata nelle relazioni tra Italia e Germania, assume la funzione di Segretario Generale del “Centro italo-tedesco Villa Vigoni per il dialogo europeo” dal 2018
A Meloni, secondo i media tedeschi, ha molto giovato l’immagine di chi si dà da fare per la “piccola gente”. Nel vocabolario poli tico tedesco esiste il termine “Kümmerer”, che indica colui che ascolta i bisogni e le preoccupazioni dei ceti a rischio. In effetti Meloni sembra aver ottenuto la fiducia di tanti italiani con stipendi che perdono valo re a causa dell’inflazione e, più di recente, dell’esplosione dei costi dell’energia, e via discorrendo. I tedeschi si chiedono quanto la biografia di Giorgia Meloni la colleghi al fascismo e alla sua storia. Questa è una do manda cruciale.
Ovviamente i commentatori tedeschi non hanno potuto evitare di alludere alla coinci denza della sua prorompente vittoria eletto rale con i 100 anni esatti dalla marcia su Ro ma, ma forse più come uno scoop giornali stico. Certo, lascia perplessi in Germania la mancanza di un netto distacco dal fascismo storico. D’altra parte non si può dimenticare l’attitudine di molti italiani a leggere il fasci smo con una certa indulgenza.
Che cosa dunque aspettarsi da parte de gli europei? Certamente la critica nei con fronti dell’Ue ha portato voti alla Destra,
anche se l’Italia è destinataria della più grande fetta del “recovery fund”. Vista con occhi tedeschi tale costellazione appare contraddittoria e inspiegabile. I partiti del la Destra tuttavia non dicono esplicita mente di essere nemici dell’Europa, so stengono piuttosto di rifiutare l’Europa così come è adesso, senza, però, offrire un programma di ricostruzione al di là dello slogan di un’Europa delle patrie.
Meloni ha osato dare voce ad un senti mento diffuso tra gli italiani: dice di serba re un’avversione verso i tedeschi. Trasgre dire un tabù del genere è considerato poco elegante, ma populisticamente efficace, in quanto dà ragione al bisogno di ostentare autonomia.
In questo senso si possono leggere i di scorsi di Meloni che spaventano l’Europa dove sembra favorire l’“Orbanizzazione” dell’Unione europea. Tuttavia staremo a vedere se un governo dell’estrema Destra saprà abbassare i toni anti-tedeschi, e la re torica del “prima gli Italiani”, quando le op portunità e i fondi del Recovery plan lo ri chiederanno.
È dubbio tuttavia che un tale governo sia
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IL TEMA
In Germania, la vittoria della Meloni viene percepita come conseguenza di un declino della classe media e della solita ostilità dell’elettorato italiano verso la politica. Una grande preoccupazione rappresenta il collegamento (in)diretto al fascismo e l’avversione aperta verso i tedeschi. La mancanza di un netto distacco dal fascismo storico italiano stupisce la Germania oggi più che mai. Si aspetta con il fiato sospeso la formazione del nuovo governo in Italia
il più adatto a realizzare il duplice obiettivo - verde e digitale - richiesto dal Fondo per la ricostruzione. D’altra parte, i rapporti economici tra Italia e Germania negli ulti mi anni sono cresciuti a livelli record. Tra i due paesi esiste una catena di interscam bio di singolare intensità. Ogni atto di un nuovo governo teso a ridimensionarla in quieterebbe i mercati finanziari facendo risalire lo spread.
Dalla Germania si guarda ora con il fiato sospeso alla formazione del nuovo gover no in Italia. Da un lato è evidente che, dato il peso dell’Italia in Europa (“too big to fail”) ogni nuovo governo possiede una po tente capacità di pressione sui partner eu ropei; dall’altro, il flusso dei fondi è legato a condizioni ben definite. Gli ottimisti spera no che, secondo l’antica dottrina italica, ogni carica politica educhi alla moderazio ne e che il 68° governo italiano non voglia correre il rischio di far perdere al Paese quel peso che l’Italia (anche in ragione del la Brexit) aveva conquistato a livello euro peo e, in modo particolare, nella triangola zione con la Francia e la Germania.
Salvini: o vicepremier o al Grande Fratello Vip
La destra di governo sta decidendo il destino di Matteo Salvi ni: o vicepremier o concorrente del Grande Fratello Vip, dove almeno è favorito dai sondaggi per la vittoria finale. L’unica cosa certa è che non sarà interpellato. Gli altri concorren ti hanno fatto sapere di non gradire la sua partecipazione, a causa dei modi bruschi e della masticazione rumorosa. Nel frattempo i media italiani stanno approfondendo, senza trascurare alcun dettaglio, il futuro politico del Paese, con una approfondita analisi dei programmi della nuova premier. Cambierà palestra? In quale bar ordina il cappucci no e il maritozzo? In quale tintoria porta le camicette? Quali sono i suoi cibi preferiti? Infine, abolirà la Costituzione?
La palestra I clienti della palestra “Nando Fitness” sono preoccupa ti: da una settimana non riescono più a entrare a causa della folla di giornalisti. Nando Marinacci, personal trainer di Giorgia, esasperato dal capannello mole sto ha tentato di menare i cronisti, ma è stato trattenuto dai suoi collaboratori: la destra ormai ha responsabilità di gover no, deve rinunciare ai modi schietti del passato anche a costo di dover voltare le spalle alla tradizione, fatta di vigore fisi co e ardimento. Ammessi all’interno della palestra, i giornalisti hanno potuto appu rare che Giorgia preferisce gli addominali ai piegamenti, e quando è sulla cyclette ascolta, alternandoli, i Pink Floyd o il Co ro dei Colli Laziali, diretto dal cognato Lollobrigida. Tutti i clienti assicurano, comunque, che «Giorgia è una di noi: dice buongiorno e buonasera e non ha mai in timato a nessuno di tacere perché lei sarà capo del governo».
Il bar Tutti i clienti del bar della signora Nanda concordano: «Giorgia è una di noi, saluta quando entra e quando esce e non l’abbiamo mai vista mescolare il cappuc cino con le dita: usa il cucchiaino, come un cliente qualunque». Preferisce il mari tozzo integrale, e la signora Nanda le farà recapitare a Palazzo Chigi il maritozzo preferito, che è uguale a tutti gli altri ma ritozzi del bar perché Giorgia, conferma sorridendo Nanda, «è come noi. Non ha
mai preteso maritozzi speciali, si accon tenta di quelli ordinari».
La tintoria La tintoria della signora Nanda, che con il marito Nando si alterna al ban cone ormai da trent’anni, è in affanno: «Se continuo a parlare con voi - dice Nanda ai giornalisti - dove lo trovo il tempo per stira re le camicie?». In via riservata, confida che Giorgia indossa prevalentemente pantaloni e camicette, «proprio come tutti noi. Una persona normale, alla mano, non l’ho mai vista portare qui da noi un’uniforme della Wermacht, o uno scafandro da palombaro. Solo camicie e pantaloni».
La camiciaia Chi non conosce Nanda, la camiciaia di Mostacciano? Quando si af faccia al balcone, cantando le canzoni di Gabriella Ferri, tutto il quartiere la saluta. È lei che confeziona da sempre le camicette di Giorgia, quasi tutte bianche o azzurre, «pro prio come quelle che mettono tutti», spiega Nanda, che conosce Giorgia da quando sono bambine. Nel quartiere si dice che abbiano anche avuto un fidanzato in comune, un certo Nando, che lasciò entrambe con la scu sa che doveva partire per il militare, anche se il servizio di leva era stato già abolito da vent’anni. Ma la notizia non è ancora stata verificata.
Le reazioni internazionali Marine Le Pen, ormai quasi ottantenne, reduce da sedici sconfitte elettorali consecutive, al la notizia del trionfo di Giorgia si è tolta la vita, lasciando un biglietto: «com plimenti a quella schifosa».
Icona pop Giorgia è un’icona pop, spiega il sociologo Levi-Pumpkin, ormai naturalizzato italiano. «Nessuno sa esattamente che cosa voglia dire, però lo dicono tutti, dunque lo dico anche io». Dopo Kim Kasrhadian, o Kardashian, o Karkastian, sa il diavolo come si scrive, dopo Totti e Ilary, dopo Lady Gaga, è il turno di Giorgia. «Durerà circa per cinque anni, poi gli italiani decideran no la prossima icona pop. Secondo i sondaggi, hanno buone possibilità Totti e Ilary. Tra l’altro si servono nella stessa tintoria di Giorgia. Governeranno in tandem, il senso di responsabilità è più forte dei dissapori».
I media si occupano soprattutto di Giorgia Meloni. Cambierà palestra? In quale bar ordina il maritozzo? Infine, abolirà la Costituzione?
Una ragazza tra le proteste davanti al consolato iraniano di Istanbul, il 21 settembre
strappato
Esclusivo / Il velo strappato
spettami qui, torno tra po co, dissi all’autista. Con trollai nello specchietto retrovisore che il foulard coprisse bene i capelli, ma non avevo di che preoccu parmi: era incollato alla fronte dal caldo...».
Una cosa ha sempre detto Shirin Ebadi, premio Nobel per la Pace nel 2003: «La mia storia è la storia dell’Iran». E a rileggere l’in cipit della “Gabbia d’oro” (Bur), romanzo su tre fratelli nell’incubo della rivoluzione ira niana, scritto in prima persona da una delle più carismatiche figure del nostro tempo, la sua storia continua a combaciare con quel la del suo Paese. Per un velo messo male è morta Mahsa Amini, ragazza di origini cur de in viaggio a Teheran: un velo che scivola va rovinosamente, come accade a tutte le donne occidentali in visita in un luogo sa cro all’Islam, quando sono temporanea mente costrette a indossare l’hijab.
Il 13 settembre scorso quel pezzo di stof fa è costato la vita alla ventiduenne perché non copriva del tutto i capelli: prelevata dalla polizia morale del regime islamico è
PAESE È COME UN FUOCO CHE COVA
QUESTA CENERE E
DIVAMPARE LE FIAMME”
stata restituita dopo tre giorni alla famiglia senza vita. Ma questa volta le iraniane han no detto basta, e innescato una rivolta il cui esito è ancora da scrivere.
libertà». Oggi, esattamente come nei rac conti di Ebadi.
«La nobile Persia, lo sventurato Iran. Ar rivavamo lente come una migrazione da ogni parte. Madri, mogli, sorelle. Erano di verse in tutto, ma avevano tutte lo sguardo fiero e senza lacrime. I morti si piangono solo a casa», scandisce il romanzo.
Nata a Hamadan nel 1947 e cresciuta a Teheran, Ebadi è stata la prima donna ma gistrato dell’Iran, prima persona del suo Paese e prima musulmana a ricevere un Nobel. Nel 1979, dopo la rivoluzione islami ca, è stata costretta ad abbandonare la ma gistratura. Per il suo impegno legale prose guito a favore dei bambini, delle donne di scriminate, degli scrittori messi al bando, di persone sottoposte a violenze, ha subito minacce e persecuzioni. Dal 2009, dopo un’irruzione nel suo appartamento e un mandato d’arresto, vive in esilio a Londra.
Sabina Minardi GiornalistaCentinaia, migliaia di donne, madri con i figli, studentesse e ragazze per lo più gio vanissime si sono riversate nelle strade della capitale e rapida mente in quelle di almeno un centinaio di città, mani festando contro quel sim bolo potente di costrizioni praticate sul corpo delle donne specialmente: strappandolo, bruciandolo e urlando il più incendiario degli slogan: «Donna, vita,
È da lì che risponde a L’Espresso, mentre segue con attenzione le notizie in arrivo. Senza traccia di sorpresa: «L’ho detto mille volte: l’Iran è come un fuoco che cova sotto le ceneri, qualunque cosa poteva fare alza re questo fuoco, ed è successo».
L’Iran brucia. Mentre scriviamo sono al meno 76 i morti, compresi 4 bambini e 6 donne, secondo la Ong Iran Human Rights. Una ventina i reporter arrestati, migliaia le persone in galera. Arrestata l’attivista Fae zeh Hashemi, figlia dell'ex presidente Raf sanjani. Resta in carcere la giornalista di “Shargh” Nilufar Hamedi, fermata a Tehe ran per aver dato la notizia della morte di Mahsa Amini, e con lei la fotografa Yalda Moayeri. Da Karaj non si fermano le prote ste per l’uccisione di Hadis Najafi, e poco importa che non sia la ragazza bionda che ha fatto il giro del mondo mentre si legava i capelli. Aveva vent’anni, è morta trucidata dalla polizia mentre rivendicava vita e li bertà. «Non sono Hadis Najafi», dice ora
Prima
LA RABBIA DEGLI IRANIANI
Da sinistra, in senso orario: una ragazza si taglia i capelli durante le proteste, un gesto ricorrente in questi giorni, in segno di lutto per Mahsa Amini e di dissenso contro il regime; manifestanti bloccano le strade di Teheran. Al centro: Sherin Ebadi, premio Nobel per la Pace 2003
alla Bbc farsi la ragazza del video diventato virale: «Ma combatto per tutte le Hadis e le Mahsa. Non abbiamo paura di essere ucci se». Nelle piazze e sui social donne di tutto il mondo si tagliano i capelli in segno di lut to e di dissenso, intonano “Bella ciao”. «Per 43 anni questo regime non ha rispo sto alle richieste del popolo e l’Iran si è tra sformato sempre di più in un fuoco arden te, che covava sotto le ceneri», prosegue Ebadi: «L’uccisione di Mahsa per mano del la polizia morale ha scoperchiato questa cenere, ha sparso via tutto ciò che la rico priva e ha fatto divampare le fiamme. Ma qualunque cosa, a questo punto, poteva incendiare l’Iran: perché per 43 lunghissimi anni questo regime ha ignorato le richieste del suo popolo». Al contrario, ha continua to a vessarlo. E le donne, che l’ayatollah Khomeini aveva da subito considerato principale ostacolo al suo progetto teocra tico, ne hanno fatto più di tutti le spese, co me ha appena ricordato su Le Monde la scrittrice Sorour Kasmaï (“Enemi de Dieu”): nel febbraio del 1979, ancora prima dell’i stituzione della Repubblica islamica dell’I ran, fu imposto il velo obbligatorio
Esclusivo / Il velo strappato
dall’oggi al domani. «Nel giro di una not te le donne persero tutti i diritti a loro riconosciuti dal diritto di famiglia, compreso l’affidamento dei figli in caso di divorzio o la libertà di viaggiare senza il consenso del marito. Le donne furono immolate sull’alta re dell’onore degli uomini, della società, dello Stato». Quelle stesse donne che una mostra celebra con sorprendente coinci denza al Barbican Centre di Londra: “Rebel Rebel”, dedicata a emblemi di emancipa zione e intraprendenza, tra il 1925 e il 1979. Cosa è accaduto dopo Shirin Ebadi non ha mai smesso di denunciarlo: «Il mio scopo nel lo scrivere è rendere testimonianza di ciò che il popolo iraniano ha sopportato», annota in “Finché non saremo liberi” (Bompiani): «Leg gendolo, vedrete come uno Stato di polizia può influire sulla vita delle persone e gettare le famiglie nella disperazione. Se un governo può comportarsi in questo modo con una donna premio Nobel per la pace, che ha ac cesso ai media internazionali e che è un avvo cata con una profonda conoscenza del siste ma legale del Paese, potete immaginare cosa faccia con gli iraniani comuni. Sono costretta a condividere la mia storia in nome dei molti
di CHIARA VALERIO
Né merce né vittime
Che non basti essere una donna per avere qualcosa in comune con un’altra donna è evidente a tutte le donne e, credo, anche al resto del mondo (infatti, di madre, ognuno ha la sua). Se si segue – consiglio caldamente – il pro filo Instagram “ladonnaacaso” si capisce bene perché e come “donna”, più specificamente “una donna”, sia diventata un’en tità che cancella l’individuo. E viene utilizzata, volta per vol ta, come spauracchio, foglia di fico o belletto per mostrare a noi stessi che il mondo è ugualmente accogliente per gli uo mini e per le donne. E dimostrare che le battaglie femministe sono battaglie di retroguardia perché il mondo è già simme trico rispetto al genere. Cosa che, ciascuna di noi sa, e se non sa, intuisce, e se né sa né intuisce, lo imparerà, è falsa. Una donna nello spazio, una donna alla direzione di una agenzia di stampa, una donna premier. La donna a caso come, appun to, sul profilo Instagram. Il problema logico di assommare sotto una sola etichetta individui differenti per cultura, geo
iraniani senza volto, prigionieri politici e per reati di opinione che si trovano oggi nelle car ceri dell’Iran. Giornalisti, attivisti dei diritti delle donne e studenti, che invece di studiare languiscono nelle celle. Senza mai perdere la speranza di un cambiamento».
Tre nomi, di donne, per tutti: Nasrin So toudeh, una delle più note avvocate dei di ritti umani, arrestata più volte anche per aver difeso ragazze senza velo, condannata a 38 anni di carcere; Narges Mohammadi, anche lei avvocata, condannata a 10 anni; la giornalista Masih Alinejad, che nel 2014 lanciò on line “My stealthy freedom”, con foto di ragazze decise a liberarsi dal velo.
E gli uomini, Shirin Ebadi, dove sono? «Oggi gli uomini procedono insieme alle
DONNE IN PRIMA FILA
La giovane Hadis Najafi, 20 anni, uccisa a Karaj vicino Teheran, mentre manifestava per Mahsa Amini. Sotto: le donne tengono in mano il ritratto della ragazza di origine curda, uccisa a Teheran dalla polizia morale, che ha dato il via alla rivolta
donne, esattamente al loro fianco», assicu ra: «Il problema adesso non è più la prote sta contro l’uccisione di una giovane donna che, come le dicevo, ha scoperchiato le ri chieste del popolo. Oggi il popolo, tutto il popolo, vuole soltanto una cosa: la caduta del regime». Lo urla nelle piazze, lo scandi sce in faccia ai militari su strade improvvi sate trincee. La lista dei sostenitori, intan to, cresce. Asghar Farhadi, regista di “Una separazione”, ha lanciato un video-appello: «Avrete ascoltato le notizie dall'Iran e visto immagini di donne progressiste e coraggio se che guidano le proteste per i loro diritti umani insieme agli uomini. Lottano per di ritti semplici ma fondamentali che lo Stato nega loro da anni. Rispetto profondamente la loro lotta per la libertà. Sono orgoglioso delle donne potenti del mio Paese e spero sinceramente che attraverso i loro sforzi raggiungano i loro obiettivi. Invito tutti co loro che credono nella dignità umana e nel la libertà a essere solidali con le donne e gli uomini potenti e coraggiosi dell'Iran». Eba di con un gruppo di avvocati iraniani ha indirizzato alle Nazioni Unite una dichiara zione chiedendo di affrontare adeguata
“GLI UOMINI PROCEDONO INSIEME ALLE DONNE, AL LORO FIANCO. OGGI IL POPOLO, TUTTO IL POPOLO, VUOLE UNA COSA SOLTANTO: LA CADUTA DEL REGIME”
Prima
grafia, classe sociale e credo politico è che l’etichetta diventa l’unica cosa che importa. Così, per esempio, di Giorgia Melo ni, leader del partito che ha raccolto il maggior numero di consensi nelle scorse politiche, segnaliamo prima di tutto che è una donna. Finalmente l’Italia avrà una donna premier.
Questa riduzione, a rifletterci bene, è una forma di porno grafia. In senso proprio, perché è la riduzione di un essere umano ai suoi genitali, e in senso lato perché è l’ostensione ri petitiva di un particolare. La ripetizione, che segue un certo ritmo, più o meno concitato, è caratteristica della pornografia.
Ciò accade in un mondo che possiamo vagamente definire Occidente nel quale “donna” è una caratteristica merceologi ca. Le etichette, d’altronde, sono proprie delle merci. Sulle etichette si possono leggere composizioni, provenienze, data di confezionamento e data di scadenza. Donna, oggi, da noi, è una etichetta avvenente, un buon brand. Ci vogliono le don ne nei ruoli dirigenziali come il basilico nella pasta col pomo doro, non è necessario, ma il piatto si presenta meglio, e ades so il gusto è questo.
In un mondo che possiamo vagamente definire non-Occi dente, essere donna, può costare, come è successo ad Hadis Najafi, sei colpi di proiettile tra il collo e il volto, perché ti stai raccogliendo i capelli sulla testa. Stai protestando legandoti i capelli perché Mahsa Amini, anni 22, è stata arrestata e ucci sa qualche giorno prima perché indossava il velo in un modo
ritenuto non conforme. Ti leghi i capelli e ti sparano e il coro dell’Adelchi di Manzoni canta per la morte di Ermengarda (atto IV, scena I) “Sparsa le trecce morbide/Sull’affannoso petto,/Lenta le palme, e rorida/Di morte il bianco aspetto,/ Giace la pia, col tremolo/Sguardo cercando il ciel.”, e noi che abbiamo fatto le scuole dell’obbligo, come si diceva una volta, cantiamo appresso al coro. Donna, oggi in Iran, non è un buon brand, non è una etichetta avvenente.
Nell’Occidente dove donna è una buona etichetta, Giorgia Meloni può consentirsi di postare un breve video in cui regge un melone per mano pronunciando stentorea la frase «E ho detto tutto». Nel non-Occidente dove una giovane donna viene uccisa perché si raccoglie i capelli, altre donne giovani o meno giovani postano brevi video o immagini dove si tagliano i capelli.
La scorsa settimana ho scritto su “La Repubblica” che i so cial possono aiutarci a ricordare che la lotta, la protesta, la rivoluzione hanno una grammatica scandita da gesti rituali. Tamburi e trombe prima e durante la battaglia, slogan dei cortei di studenti, lavoratori e sindacati. Ci penso, e poi penso ai TikTok delle donne iraniane. Ci somigliano, sono la stessa cosa, hanno la stessa funzione: ricostituire una grammatica di lotta. I meloni tenuti in mano invece no, non hanno alcuna funzione. Gesti privi di senso e funzione da parte di chi si è candidato a guidare un Paese.
mente il comportamento «illegale e subu mano» di repressione. I firmatari chiedono indagini indipendenti, il ritiro degli amba sciatori dall’Iran e l’istituzione di un comi tato di avvocati a difesa dei detenuti.
«Cosa si può fare? I governi occidentali de vono sanzionare e boicottare chi uccide e viola i diritti umani in Iran come, per esem pio, è stato fatto con i sostenitori di Putin, dopo che ha attaccato l’Ucraina», dice la No bel: «Le proprietà delle persone vicine a Pu tin sono state confiscate e congelate, come è avvenuto per esempio con il club di calcio del Chelsea. Perché non si fa la stessa cosa con i membri del regime iraniano che hanno pa recchie proprietà sparse per tutta Europa? Si sa benissimo chi sono, perché non si agisce in questo modo? Noi chiediamo all’Europa che si faccia la stessa cosa con i guardiani della rivoluzione islamica, i pasdaran, che opprimono il popolo iraniano». Unione eu ropea e Stati Uniti stanno valutando ulteriori sanzioni contro il regime iraniano e come ri spondere alla richiesta di comunicare col mondo: con la Rete bloccata sta diventando difficile. Elon Musk ha annunciato l’attivazio ne di Starlink, Internet satellitare.
«La situazione dei diritti umani da quando ho ricevuto il Nobel è molto peg giorata», ammette Ebadi, quando le si fa notare la spinta che il suo riconoscimento ha dato alle donne. Un lavoro incessante che ha ispirato un docufilm, “Shirin Ebadi: Until we are free” di Dawn Gifford Engle. «Voglio ricordare che tre anni fa, in autun no, la gente è scesa in piazza perché il prez zo della benzina era triplicato nell’arco di pochissimo tempo. Il regime iraniano per cinque giorni ha “staccato” Internet e ha ucciso la gente per la strada con armi di guerra. In quelle circostanze 1.500 persone sono state ammazzate. È stata uccisa gen te che voleva pane e lavoro. In Iran c’è mol ta povertà e disoccupazione e la situazione è andata peggiorando», aggiunge Ebadi. Fino alla rivolta in corso: che non sarà co me tante altre, notano gli osservatori del Paese. «Ascoltate la gente», inizia a dire qualche anziano ayatollah, come Hossein Nouri Hamedani. Il partito riformista ira niano, l’Unione popolare dell’Iran islami co, chiede l’abolizione della legge sul velo obbligatorio e la fine delle attività della po lizia morale. Per Ebadi è troppo tardi.
Esclusivo / Il velo strappato
«Khatami e i riformisti sono un passo in dietro dal popolo. A questo punto la richie sta del popolo non riguarda più soltanto il velo: la gente vuole che il regime vada via». È la presa di coscienza di una nazione inte ra. Fariborz Kamkari, regista de “I fiori di Kirkuk”, l’ha detto tra i primi chiaramente: «Non è una rivolta come tante, questa è una rivoluzione». Che cosa succederà, Shi rin Ebadi? Su Le Point ha scritto di osser vare i fatti con speranza. «So solo che ades so la polizia e anche le forze più repressive sono esauste, perché le proteste stanno dilagando in tutte le città. E in ogni città la gente non si ferma in un punto preciso per manifestare, ma si distribuisce in varie zo ne, a sorpresa, e ovunque urla che non vuo le più questo regime. La situazione è iden tica in più di cento città. La polizia non rie sce a fronteggiare le proteste. Nonostante siano morte parecchie persone e più di mille siano state arrestate, il popolo è tutti i giorni per la strada. E continuerà a farlo». Con lo spirito indomito che ha nutrito la letteratura: dall’indimenticabile “Leggere Lolita a Teheran” di Azar Nafisi alle pagine di Marina Nemat, Marjane Satrapi,
“I GOVERNI OCCIDENTALI DEVONO SANZIONARE CHI VIOLA I DIRITTI UMANI. BISOGNA AGIRE CONTRO LE PROPRIETÀ DEI PASDARAN COME SI È FATTO CON QUELLE DEI RUSSI PIÙ VICINI A PUTIN”
SIMBOLO DI REPRESSIONE
Donne velate con il ritratto del presidente Ebrahim Raisi in mano, in una contromanifestazione in favore del governo, davanti all’università di Teheran
Maryam Madjidi, Abnousse Shalmani, Négar Djavadi. Donne esuli che non hanno mai staccato lo sguardo dal loro Paese: confidando in quelle ragazze che, centime tro dopo centimetro, spingevano indietro i loro veli. Studiavano: più del 65 per cento degli universitari sono femmine. E oggi prendono in mano, insieme al velo svento lato, il loro futuro. Finché non saranno li bere. Come Ebadi: «È per amore dell'Iran e del suo popolo, delle sue potenzialità e del la sua grandezza che ho intrapreso ogni singolo passo di questo viaggio. E so che un giorno gli iraniani troveranno la loro stra da per la libertà e la giustizia».
Traduzione di Ella MohammadiGuerra e geopolitica
L’AFGHANISTAN DI PUTIN
SHORT
ue domande chiave domi nano il dibattito sulla guer ra scatenata da Vladimir Putin in Ucraina poco più di sette mesi fa. Come finirà?
Perché l’ha iniziata?
La seconda domanda è più facile da af frontare della prima, anche se non ha ne cessariamente risposte semplici. È impor tante tentare, tuttavia, perché se non capia mo perché Putin abbia ordinato l’invasione e ciò che sperava di ottenere, diventa molto più difficile valutare come si arriverà alla fine del conflitto.
In Occidente, il consenso sulle ragioni dell’invasione russa è solo parziale, e lo stesso Putin ha suggerito varie spiegazioni contrastanti. Gli obiettivi dell’invasione re stano incredibilmente va ghi. Ciò che alla fine ogni parte deciderà di concede re per concludere il conflit to dipenderà dalla situazio ne sul campo di battaglia.
Ciò detto, Putin aveva chiaramente due distinte serie di criteri nel decidere di lanciare la guerra. Uno ri
guarda l’Ucraina in quanto tale, l’altro ha a che fare con gli Stati Uniti e con il ruolo do minante che essi svolgono in Europa.
Putin è fissato con l’Ucraina fin dalla metà degli anni ’90, se non addirittura da prima. L’indipendenza ucraina, a suo vedere, è stata fasulla dall’inizio. Negli ultimi venti anni, la sua rabbia è solo aumentata. Ci sono stati litigi continui sul debito relativo al petrolio e al gas. La Rivoluzione arancione nel 2003, che i russi ritengono sia stata incoraggiata dagli Usa, portò all’espulsione del governan te filo-russo e alla sua sostituzione con una figura pro-occidente. Quattro anni più tardi, la Nato annunciava che l’Ucraina sarebbe di ventata un suo membro, superando così quella che l’ambasciatore degli Stati Uniti a Mosca, Bill Burns, definì allora «la più rossa delle linee rosse della Russia». Seguirono la rivolta di Maidan, l’annessione della Crimea e il conflitto nel Donbas.
Su questo sfondo, l’invasione dell’Ucraina può essere vista come il seguito logico di quanto accaduto prima: un gioco di potere postcoloniale nel quale la Russia tenta di preservare il suo ruolo imperiale di leader del “mondo russo” dopo che l’Unione Sovie tica, il suo “impero”, è crollato.
Questo è stato certamente uno dei fattori della decisione di Putin. Tuttavia, anche il momento ha avuto un suo peso. Putin sta per compiere 70 anni. Da quando ha iniziato il suo quarto mandato nel 2018, si è trastulla to con l’idea di dare avvio a una transizione politica verso la prossima generazione di di rigenti politici. Se, arrivato il momento, Pu tin sarà effettivamente disposto a lasciare il suo incarico e designare un successore è
Guerra e geopolitica
tutt’altra faccenda. Dal suo punto di vista, invece, sottomettere l’Ucraina o, come lui preferirebbe dire, riportarla all’ovile russo, sarebbe un risultato incoronante della sua carriera e lo rafforzerebbe notevolmente se decidesse di farsi da parte lasciando il posto a un suo pupillo.
Le cose sono andate diversamente.
Nellanciarelasuafuorviatainvasione,Pu tin ha contato - errore catastrofico - su tre elementi. Innanzitutto, che il governo di Ze lensky abbandonasse Kiev e fuggisse in esi lio, cosa che non ha fatto. Ha sottovalutato la resistenza ucraina. Ciò non vuol dire che Pu tin si aspettasse che l’esercito russo sarebbe stato accolto con i fiori - questo è sempre stato un mito - ma certamente non anticipa va che contro di lui si alzasse una nazione in armi. Infine, ha esageratamente sopravvalu tato le capacità dell’esercito russo.
Di quest’ultimo dato, può solo incolpare sé stesso. Nel 2007, il suo allora ministro del la Difesa, Anatoli Serdjukov, intraprese un programma di riforma militare di vasta por tata. Quattro anni dopo, tuttavia, Putin gli ordinò di fermarlo temendo che se gli uffi ciali più giovani fossero stati autorizzati a prendere l’iniziativa, le Forze armate russe sarebbero diventate troppo indipendenti. Sotto il successore di Serdjukov, Sergej Shoi gu, la corruzione riprese a fiorire e l’esercito tornò al vecchio e inefficace stile di forza in disciplinata, dispersa e mal equipaggiata per combattere una guerra moderna.
Oltre all’obiettivo di soggiogare l’Ucraina, l’invasione aveva anche ambizioni geopoliti che più vaste.
Dopo il crollo dell’Unione Sovietica nel 1991, i russi si erano mostrati euforici davan ti alla prospettiva di relazioni e partenariati con l’Occidente. Gli intellettuali, in partico lare, avevano immaginato una nuova era di prosperità e libertà. Quando tutto ciò non si materializzò, la popolazione russa si sentì imbrogliata. Come diceva Anatoli Sobchak, sindaco di San Pietroburgo e uomo carisma tico per la sua apertura alle idee di democra zia e libertà: «L’America ha speso miliardi nella lotta contro il comunismo, eppure ora non riesce a trovare risorse per sostenere una democrazia che ha rovesciato il comu nismo». L’amarezza era comprensibile. L’Oc cidente trascurava l’aiuto necessario. L’eco nomia è scesa in picchiata. Far parte della maggioranza dei russi voleva dire essere po
IL LIBRO
“Putin. Una vita, il suo tempo”, di Philip Short, Marsilio, 922 pagime, 34 euro. Short è stato a lungo corrsipondente della BBC da Mosca. Autore di importanti biografie
vero, molto povero o indigente. Il crimine raggiunse proporzioni eccezionali. La so cietà aveva perso ogni ammortizzatore e il paese era in ginocchio.
Contrariamente alle rassicurazioni date ai russi in precedenza, nel 1993 il presidente Clinton annunciò che la Nato avrebbe co minciato a espandersi verso i confini della Russia. Ancora una volta, i russi si sentirono imbrogliati.
Come nella Repubblica di Weimar, quan do l’iperinflazione successiva alla Prima guerra mondiale spianò la strada all’ascesa di Hitler, le disillusioni degli anni ’90 hanno lasciato tracce durature tra i russi.
Il parallelo, tuttavia, deve finire qui, per ché Putin non è Hitler. È un fatto, tuttavia, che il rancore accumulatosi durante gli anni di Eltsin prima e durante la sua presidenza dopo, sommato a una crescente convinzio ne che gli Stati Uniti abbiano sistematica mente ignorato gli interessi della Russia e che avrebbero continuato a farlo se non si andava a un confronto diretto con loro, han no posto le basi per gli eventi successivi.
Questo potrebbe essere il più grande erro re di calcolo di Putin rispetto a tutti gli altri. Se egli fallisse in Ucraina, la qual cosa inizia ad apparire possibile, seppure affatto certa,
Prima
per buona parte il fallimento sarà imputabi le all’avere sottovalutato la capacità degli Stati Uniti di raggruppare e tenere insieme l’alleanza occidentale.
Al riguardo, ci sono inquietanti paralleli smi con l’invasione sovietica dell’Afghani stan nel 1979. Non solo i dirigenti russi han no ora ripetuto gli errori commessi allorainviando una forza di invasione troppo pic cola per riuscire nel compito programmato - ma anche allora la reazione statunitense fu molto simile. Umiliati dall’occupazione dell’ambasciata Usa a Teheran da parte di militanti islamici, il presidente Carter volle mettere in chiaro che gli Stati Uniti non era no disposti a subire prepotenze. Sostenere i mujahidin contro le truppe sovietiche in Af ghanistan si era rivelato il modo perfetto per dimostrarlo. Nel 2021, è stato il turno degli Usa di intraprendere un ritiro caotico e umi liante dall’Afghanistan. Per l’amministrazio ne Biden, sostenere l’Ucraina contro la Rus sia è stata la risposta ideale. Il messaggio, come prima, era ora che con gli Stati Uniti non si può fare i prepotenti.
L’obiettivo di Putin non è stato semplice mente quello di neutralizzare l’Ucraina, ma anche di dimostrare che gli Usa non sareb bero stati in grado di prevenirlo. La relazione
PRESIDENTE
Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky. A sinistra: manifestazione a Mosca a favore dell’occupazione della Crimea
dell’Ucraina con la Nato è stata un pretesto, non la causa immediata.
Ed è proprio ciò che renderà questa guerra così difficile da concludere. Sarebbe già difficile se si trattasse soltanto di un conflitto regionale: sia Russia che Ucraina hanno tracciato linee rosse molto difficili da riconciliare. Ciò che ne verrà fuori ora è inoltre anche impigliato in una grande ri valità di potere. Se gli Usa non fossero in grado, o alla fine non fossero più disposti a mantenere l’attuale corso e proteggere l’in tegrità territoriale dell’Ucraina, dannegge rebbero irrimediabilmente la propria cre dibilità in Europa. Paesi quali la Polonia e gli Stati Baltici, che vedono la Russia come una minaccia esistenziale, inizierebbero a dubitare delle garanzie statunitensi. La Ci na, che a lungo termine è una sfida nel mondo molto maggiore per la leadership statunitense di quanto la Russia non lo sarà mai, trarrà le sue conclusioni. A Taiwan ci sarebbe da tremare.
In sostanza, se agli Stati Uniti occorre prevalere, lo stesso vale per Putin. Per giu stificare l’invasione - e l’enorme perdita di vite umane - Putin deve almeno espandere la sua presa sul Donbas e controllare il pas saggio di terra alla Crimea.
L’Ucraina si trova tra l’incudine e il martello.
Putin pensa che anche se l’operato del suo esercito continuerà a essere insoddisfacen te, il tempo sia dalla sua parte e che la deter minazione occidentale vacillerà. D’altra par te, un fattore è quanto ferocemente gli ucrai ni continueranno a combattere, e un altro quanto terranno l’unità e la coesione occi dentale. Questo a sua volta potrebbe dipen dere in gran parte da quanto sarà profonda la prossima recessione globale e dall’evolu zione della politica statunitense da qui alle elezioni presidenziali nel 2024.
(Traduzione di Marina Parada)
MOSCA PENSA CHE LA COESIONE OCCIDENTALE ALLA FINE VACILLERÀ. MA UN CEDIMENTO AMERICANO AVREBBE GRAVISSIME CONSEGUENZE IN EUROPA. E ANCHE A TAIWAN
Guerra in Ucraina / La rivolta
RUSSI RILUTTANTI
SFIDANO LO ZAR
DI GIUSEPPE AGLIASTRO DA MOSCA
M
igliaia di uomini russi – i nostri padri, i nostri fratelli, i nostri mariti – saranno gettati nel tritacarne della guerra. Per co sa moriranno? Per cosa piangeranno ma dri e bambini?». È con queste parole che il movimento d’opposizione Vesná ha invi tato i russi a scendere in piazza contro la mobilitazione ordi nata da Vladimir Putin: un appello che ha riacceso le prote ste pacifiche contro l’atroce invasione dell’Ucraina e che ri flette i timori di tanti russi di essere mandati in guerra come carne da cannone. La polizia russa ha represso le manifesta zioni con ondate di arresti e brutalità. L’Ong Ovd-Info, spe cializzata nel monitorare gli arresti di matrice politica, stima in più di 2.200 le persone fermate per aver partecipato ai cor tei del 21 e del 24 settembre contro la chiamata alle armi: manifestanti pacifici, trascinati nelle camionette della poli zia solo per aver avuto il coraggio di criticare un ordine di Putin. Solo per aver osato espri mere la propria opinione.
RECLUTAMENTO IMPOSTO DA PUTIN
Sabato 24 settembre il cielo è nuvoloso, a tratti piove. A Mosca i manifestanti si sono dati appuntamento alle 17 ai piedi del monu mento al drammaturgo Aleksandr Griboye dov, su viale Cistoprudniy. Per sicurezza, il luogo di ritrovo è stato comunicato con po che ore di anticipo. Quando la gente arriva, gli agenti comunque già presidiano la zona e cominciano subito ad arrestare: donne, uomini, ragazzi e ra gazze vengono fermati alla spicciolata. Un giovane viene tra scinato con le mani piegate dietro la schiena, altri vengono afferrati per le braccia e per le gambe e portati via di peso. Molti poliziotti sono membri delle forze speciali Omon. Sono alti, fisicamente ben piazzati. Indossano una sorta di arma tura: caschi, giubbotti protettivi, parastinchi, paraspalle e gomitiere. Ma i manifestanti sono pacifici. Una giovane ra gazza sale velocemente in piedi su una panchina. Ha il tempo
LE PIAZZE: “NON SIAMO
DA CANNONE”. MIGLIAIA DI
E ARRESTI. E COME RITORSIONE
L’ARRUOLAMENTO FORZATO
di urlare: «Non siamo carne da cannone!», poi viene subito fermata. Ci sono state proteste anche in altre città della Rus sia. Il New York Times racconta che a Tomsk un uomo si è piazzato in mezzo al traffico ripetendo continuamente agli automobilisti l’augurio: «Una vita di pace ai nostri figli», mentre a Novosibirsk gli agenti hanno arrestato decine di persone che si erano prese per mano e facendo un girotondo avevano intonato una vecchia canzone contro la guerra. La Reuters riporta invece immagini che mostrano degli agenti
che bloccano a terra dei manifestanti e sferrano un calcio a uno di loro prima di portarli nelle loro camionette. Un uso spropositato e ingiustificato della forza bruta contro i mani festanti è stato segnalato anche nel primo giorno di protesta. Quel 21 settembre in cui Putin ha sconvolto mezzo Paese an nunciando la mobilitazione dei riservisti ci sono stati quasi 1.400 fermati - tra cui molte donne - e Amnesty International denuncia che un dimostrante ha riportato la frattura di un braccio dopo essere stato picchiato dalla polizia.
Giuseppe Agliastro GiornalistaTra i manifestanti c’è chi stringe in mano un cartello con la scritta «Net moghilizáts ii». È un gioco di parole: «Net mobilizátsii» significa «No alla mobilitazione» Ma «mo ghíla» in russo significa «tomba». È insom ma un secco «no» alla decisione di Putin di mandare altri cittadini russi a morire nella sanguinosa guerra in Ucraina che lui ha sca tenato e nella quale sono già state uccise de cine di migliaia di persone, tra cui tantissimi
Agenti di polizia arrestano un manifestante durante una protesta a Mosca
civili. A Mosca il corteo parte di sera dallo Stariy Arbat, una via del centro storico ricca di negozi e bar. «Mandate Putin in trincea!», urlano i manifestanti. «No alla guerra!». Alla fine della serata, i fermi nella capitale russa saranno ben 538, a San Pietroburgo 480. Ma ci sono anche 49 arresti a Yekate rinburg, 30 a Perm, 26 a Celyabinsk, 23 a Ufa.
Per protestare nella Russia di Putin occorre coraggio. Non solo perché si rischiano manganellate. Subito dopo il decreto di mobilitazione, la procura generale russa tuonava minac ciosa che chi fosse sceso in piazza avrebbe rischiato fino a 15 anni di reclusione per la nuova legge sulla «diffusione di in formazioni false» sulle forze armate: una legge “bavaglio” che in pratica proibisce qualunque tipo di critica contro l’aggres sione all’Ucraina e per la quale sono stati arrestati oppositori di primissimo piano come Ilya Yashin e Vladimir Kara-Mur za, mentre un altro noto dissidente, Alexey Gorinov, è stato condannato a quasi sette anni nel processo d’appello. L’Ong Ovd-Info e alcuni giornali indipendenti riportano che ad al cuni manifestanti è stato consegnato l’ordine di chiamata
Guerra in Ucraina / La rivoltaPrima Pagina
Manifestanti fermati all'interno di un autobus della polizia durante una protesta nella Piazza Rossa
alle armi in commissariato, subito dopo l’arresto. Il Crem lino si è limitato a rispondere che «questa pratica non è ille gale». Se le cose stanno davvero così, si tratterebbe non solo di un uso punitivo della mobilitazione con tro chi ha il coraggio di opporsi al regime, ma anche di una forma di intimidazione verso coloro che vorranno protestare in futuro contro la guerra. Non è chiaro quante perso ne saranno chiamate sotto le armi a causa della mobilitazione, definita «parziale» dal le autorità russe. Il ministro della Difesa Ser gey Shoigu parla di 300 mila riservisti, ma fonti sentite dai giornali Novaya Gazeta Eu ropa e Meduza alzano la cifra rispettivamen te fino a un milione e a un milione e duecentomila richiama ti. Il portavoce di Putin smentisce, ma il paragrafo del decre to che riguarda il numero di soldati da mandare al fronte viene tenuto segreto.
la Georgia o la Turchia, dove i cittadini russi possono entrare senza visto. La mobilitazione ha anche provocato reazioni violente. A Ust-Ilimsk, in Siberia, un uomo ha sparato a un ufficiale di un centro di reclutamento, ferendolo. Diversi cen tri di reclutamento sono stati incendiati o attaccati con le molotov.
La propaganda del Cremlino irrompe prepotentemente nelle case dei russi attraverso la televisione dipingendo l’atro ce guerra in Ucraina come una «operazione speciale» per «denazificare» il Paese vicino. Menzogne ovviamente, che però fanno presa su alcuni strati della popolazione. Nel quar tiere di Shcherbinka, nell’estrema periferia sud di Mosca, qualcuno ha disegnato in rosso su una recinzione di metallo la “Z” ormai divenuta il famigerato simbolo dell’aggressione all’Ucraina. Un’altra “Z” rossa compare su un blocco di ce mento poco lontano, ma è stata cancellata con una X da chi si oppone alla guerra. Adesivi con la “Z” fanno capolino dai lunotti di alcune auto, ma sui muri di Mosca ci sono anche slogan contro l’invasione: «La guerra è un assassinio», recita uno di questi nella zona del centro espositivo Vdnkh.
Nei primi sei mesi di conflitto, da febbraio ad agosto, in Russia si sono registrati almeno 224 procedimenti penali contro chi ha condannato l’invasione e almeno 16.347 perso ne sono state fermate nelle proteste: i numeri sono sempre di Ovd-Info, che sottolinea però come la maggior parte dei fermi si sia registrata nel primo mese del conflitto, cioè pri ma che fosse approvata la legge “bavaglio” che di fatto preve de pesantissime pene detentive per chi condanna la guerra.
La mobilitazione però ora ha riacceso le proteste. I giorna li locali riferiscono che in Daghestan domenica scorsa si so no registrati violenti scontri tra manifestanti e polizia, e la
SEGRETI I NUMERI DEI RISERVISTI.
LA CHIAMATA ALLE ARMI VIENE
GESTITA DISCREZIONALMENTE. NELLE STRADE LA LETTERA X DEL DISSENSO CONTRAPPOSTA ALLA Z DELL’INVASIONE
La mobilitazione pare aver scatenato una vera e propria fuga dal Paese di migliaia di persone, 260 mila secondo fonti di Novaya Gazeta Europa, prima di tutto uomini che temono di essere reclutati. Imedia russi e internazionali riferiscono infatti di lunghe file di auto in uscita dalla Russia e di un no tevole aumento della richiesta di biglietti aerei verso l’estero con conseguente impennata dei prezzi. Molti voli dalla Rus sia sono stati cancellati dalle sanzioni per l’invasione dell’U craina, ma restano i collegamenti con Paesi come l’Armenia,
Bbc segnala un video in cui un uomo arrestato dà una testa ta a un poliziotto e viene poi picchiato. Secondo Ovd-Info a Makhachkala sono state fermate più di cento persone e gli agenti hanno usato pistole stordenti e manganelli. Alcuni at tivisti sostengono che le autorità stiano mandando al fronte le persone pescando in modo sproporzionato dalle regioni più remote e da quelle in cui sono presenti importanti mino ranze etniche, come il Daghestan, da dove secondo la tv bri tannica provenivano almeno 301 soldati russi morti in Ucraina: un numero che supera quello di tutte le altre zone della Federazione. Ma, purtroppo è probabile che le persone che hanno perso la vita siano molte di più.
Guerra in Ucraina / L’occupazione
NEL DONBASS CHE
E
N
DI SFOLLATI
on esiste nessuna situazione a cui l’uomo non possa adattarsi, specialmente se vede che tutti quellichelocircondanovivonoallostessomo do»,scrivevaTolstojinAnnaKarenina.Questa frase si impone al pensiero quando si ascolta no le storie degli abitanti dei territori contesi del Donbass o di quelli appena liberati di Kharkiv. A un certo punto anche la stanchezza, la paura, la sofferenza e la disillu sione sul futuro lasciano il posto alla necessità di continuare a vivere, così come è stato per centinaia di migliaia di ucraini dal 24 febbraio a oggi. La fame, in modo particolare, aiuta e acceleraquestoprocessoditragicanormalizzazionedeibiso gni.Cosìinterefamigliedisfollatisimettonoinfiladifronteai tendoni di distribuzione degli aiuti umanitari dei russi nelle cittàoccupate,consegnanoidocumentiperessereidentifica tieringrazianoconsorrisiassentichiprimalihabombardati. Succede a Kherson, succedeva nei villaggi delle zone di Khar kiv, a Mariupol e nel Lugansk. Il servizio stampa dell’esercito di Mosca e le televisioni russe spesso riprendono questi mo menti per provare in patria e all’estero la magnanimità delle forze di occupazione. Il che non costituisce nulla di scandalo so, lo fanno tutti gli eserciti in terra straniera, dopo le bombe viene il pane. Altrimenti come si potrebbero giustificare locu zioni altisonanti come «guerra per esportare la democrazia» e «operazione speciale a difesa degli oppressi da un regime autoritario»? Ma quelle stesse immagini non solo segnano uno dei punti più bassi della prepotenza dell’uomo sui suoi simili, ci consegnano an che un quadro plausibile del prossimo futuro qui in Ucraina.
Sabato Angieri Giornalista«Il mio vicino di casa - racconta Evgeneha tre figli e già prima della guerra svolgeva lavori saltuari, dopo tre settimane di occupa zione aveva dato fondo a tutte le scorte pre senti in casa e così ha iniziato a chiedere ai militari russi». Evgene è un uomo di 55 anni
La scoperta di una fossa comune nella città liberata di Izyum. Le autorità ucraine hanno confermato che sono stati sepolti 400 corpi, la maggior parte civili
Prima
SI È RASSEGNATO
di un paesino appena fuori Kharkiv, quando è scoppiata la guerra si è trasferito in campagna a Vovchansk da alcuni pa renti. «È vero che era più vicino al confine, ma almeno lì ave vamo l’orto, una casa più grande e in campagna credevo che sarebbe stato più facile resistere». Quasi subito si capisce che per lui era una questione d’orgoglio, anche se non lo dice esplicitamente, fin dall’inizio aveva deciso che non avrebbe chiesto niente agli «occupanti». «I negozi di alimentari han nochiusoquasisubito,siaperchénoiresidentiabbiamocom prato tutto il possibile, sia perché i russi hanno confiscato la merce che rimaneva, chi aveva ancora qualcosa se la teneva per sé». Così si è diffuso il contrabbando e il mercato nero. «C’erano dei bastardi che andavano con la macchina oltre il confine (Vovchansk dista solo pochi chilometri dalla frontiera con la Russia, ndr) e compravano i prodotti più scadenti e più economici possibile in rubli per poi rivenderli a noi in grivna a cinque, dieci volte tanto». I militari li lasciavano passare? «Sì, sono di quelli che non importa chi comandi riescono sempre a trovare il modo di corrompere qualcuno». «Comunquecontinua Evgene - preferivo comprare le cose da questi scia calli che dai russi stessi». E poi qualcun altro aveva trovato anche un modo per smerciare denaro, «gli consegnavamo la carta di credito o i codici e andavano, sempre con il permesso di qualche soldato compiacente, nelle città vicine dove c’era qualche filiale bancaria ancora aperta a ritirare». Su queste operazioni prendevano delle commissioni da usura: «Su mille grivna, ad esempio, se ne tenevano almeno 300… ma non c’era alternativa». E i militari come si comportavano? «Una volta sono stato fermato: mi hanno chiesto perché non mi avevano mai visto alla distribuzione degli aiuti; non potevo rispondere che avevo delle scorte perché sicuramente avrebbero preteso di entrare in casa per poi rubarle, se avessi parlato del mercato nero forse mi avrebbero arrestato, così ho detto: “Abbiamo l’orto”. Mi hanno accusato di essere un nazionalista ucraino e hanno preteso di vedere il mio cellulare. Gli ho detto che non l’avevo ma non ci hanno creduto. “Che cavolo me lo porto a fare se è scarico? Non abbiamo la corrente in casa, lo sapete. E poi non c’è linea da quando siete arrivati voi, non potrei co munque comunicare con nessuno”». Ci hanno creduto e l’hanno rilasciato dopo averlo identificato ma, purtroppo per lui, aveva appena preso dei soldi dal contrabbandiere e glieli hanno sequestrati.
Poi, intorno alla metà di settembre la situazione è cambia ta. I militari russi hanno iniziato a entrare nelle case e nei ne gozi e «hanno rubato tutto quello che potevano, lavatrici, computer, televisioni, vestiti». Caricavano tutto sui camion
Prima Pagina Guerra in Ucraina / L’occupazione
e sulle macchine (rubate anche quelle) e non pensavano alle armi. «Due giorni prima che entrassero i soldati ucraini si sono presi anche le biciclette e sono scappati». Evgene ag giunge che hanno lasciato persino un carro armato e diversi lanciarazzi che lui sostiene di aver visto. I contrabbandieri se ne sono andati con loro.
Come Vovchansk decine di altri villaggi, centinaia di chilo metri quadrati sono stati riconquistati dall’esercito ucraino. Non dappertutto è stato semplice come nel paese di Evgene, ma la manovra era ben studiata e le forze adeguate. I russi si
fugato ogni dubbio. Allo stesso modo, Balaklija, Shevchenko ve e quasi tutta Kupjansk sono state riconquistate e ora i sol dati ucraini stanno per tentare il colpo di mano definitivo: la riconquista di Lyman in Donbass.
Com’è ovvio, Kiev sta cercando di assicurarsi il controllo di alcuni quadranti strategici prima che Mosca riesca a riorga nizzarsi. Uno di questi è l’area dei fiumi che attraversano l’o blast di Kharkiv e scendono nel Donbass. Nelle ultime setti mane era abbastanza frequente incrociare sull’autostrada verso Izyum e le aree liberate delle colonne di mezzi corazzati militari che trasportano a rimorchio dei vecchi motoscafi mi litari, plausibilmente destinati alle operazioni sui fiumi Oskil e Siversk. Sul primo gli ucraini sono avanzati lungo due diret trici: hanno attraversato il fiume a Kupjansk costringendo i russi a ritirarsi sulla sponda orientale del fiume e si sono spin ti verso est dalla città di Oskil, riconquistando Yatskivka pri ma di spostarsi verso sud-est e riprendere il controllo di Olek sandrivka e Krymky Donetsk. Tali spostamenti sono molto significativi perché mettono a repentaglio la linea difensiva russa sul fiume e potrebbero obbligare gli invasori a ritirarsi anche da questi piccoli villaggi verso la regione di Lugansk.
Il Siversk, invece, disegna molte anse prima di passare tra Severodonetsk e Lysychansk, il che rende fondamentale il suo controllo. L’esercito ucraino è riuscito a riconquistare Bilogo rivka, dove il fiume è più stretto e il passaggio da sponda a sponda agevole. Da qui ora potrebbero avanzare in tutte le direzioni, ma soprattutto verso est, dove si trova Lysychansk.
DELL’ESERCITO DI KIEV
sono ritirati disordinatamente e hanno abbandonato anche dei territori che gli erano costati mesi di sforzi e dure batta glie. Come Izyum, un centro di grande importanza strategica a metà strada tra la capitale del Donetsk ucraino, Kramator sk, e Kharkiv. Quasi nessuno dei giornalisti e degli analisti in ternazionali credeva possibile un’avanzata così fulminea e vittoriosa dell’esercito ucraino. Izyum è troppo importante per la conquista del Donbass, che rimane un obiettivo prima rio di Putin, e per esercitare pressione sul territorio di Khar kiv, si diceva. Eppure le colonne ucraine sono entrate nella cittadina il 10 settembre, dopo oltre 5 mesi di occupazione russa. Possibile che in tutto quel tempo lo stato maggiore di Mosca non fosse riuscito ad approntare delle difese sufficien ti a tenere il controllo dell’area? La prova della realtà ha poi
Intanto prosegue il tentativo di accerchiamento di Lyman, centro bersagliato per mesi dall’artiglieria russa e poi final mente occupato a fine primavera. Da qui gli artiglieri di Mo sca bombardano Slovjansk e Kramatorsk e quindi il suo con trollo è di fondamentale importanza strategica. Dopo aver riconquistato Svyatogirsk gli ucraini sono riu sciti con una manovra lampo a liberare Yarova. La ritirata russa sarebbe stata talmente scom posta da permettere agli ucraini di spingersi fi no alla periferia di Drobysheve, l’ultimo villag gio a est prima di Lyman. Del resto, anche da sud-ovest, ovvero da Slovjansk, gli ucraini stan no guadagnando terreno con l’obiettivo palese di circondare la cittadina. Tuttavia, il compren sibile entusiasmo che la riscossa ucraina nell’est ha diffuso tra i militari e la popolazione civile è stato spezzato dal di scorso di Putin del 21 settembre. La mobilitazione dei riservi sti e i referendum nelle zone di Kherson, Zaporizhzhia, Lu gansk e Donetsk hanno fatto ripiombare i residenti nello sconforto. In molti si erano illusi che la cacciata dei russi oltre il confine coincidesse in qualche modo con l’appressarsi della fine del conflitto. Una nuova speranza aveva rotto l’abitudine tremenda di cui parlavamo in apertura. Ma come una man naia la realtà della guerra ha ricacciato nuovamente ogni aspettativa nelle tenebre dei mesi a venire e il rischio che la nuova condizione sarà peggiore della precedente è la più tre menda delle torture per chi vive qui. .
BOMBARDATI
Edifici
NEL CONFLITTO IN UCRAINA È STATA USATA
ARTIFICIALE. FINORA PER INDIVIDUARE SOLDATI NEMICI E VITTIME. MA PRESTO SI POTREBBE ARRIVARE AD ARMI IN AZIONE SENZA IL CONTROLLO UMANO
Pensi all’intelligenza artificiale in guerra e viene in mente Termi nator, Guerre Stellari: eserciti di robot killer che, implacabili e privi di emozioni, uccidono tut to quello che sono programma ti per uccidere. Ma l’invasione russa dell’U craina, all’alba del settimo mese del conflitto, rivela un volto più subdolo e complesso per l’Ia fuori e dentro il campo di battaglia. Meno visibile e appariscente, ma tentacolare, ca pace di rendere “intelligenti” ben più che le sole armi – di cui peraltro non c’è finora rea le traccia in Ucraina – e diventare piuttosto una sorta di cervello digitale per processare la guerra in modo più efficiente. «Sia l’Ucrai na che la Russia hanno usato e usano sistemi di Ia a supporto delle azioni militari», spiega Mariarosaria Taddeo, vicedirettrice del Digi tal Ethics Lab dell’Oxford Internet Institute, e tra le massime esperte internazionali di eti ca e armi intelligenti. Ovvero, dice, «per la logistica, per l’analisi di dati a supporto di decisioni tattiche e strategiche, per analizza re grandi quantità di dati ed estrarre infor mazioni di intelligence». Si pensi al ricorso a forme di analisi automatica del linguaggio naturale per analizzare, tramite software in telligenti come Primer, le comunicazioni in tercettate di soldati russi; all’identificazione di fosse comuni, da Mariupol a Bucha, trami te l’analisi a base di Ia delle immagini prove nienti da oltre 90 satelliti in orbita grazie a contractor come Maxar, BlackSky e Planet; ancora, alla piattaforma Spectra AI usata per mappare e stabilire, giorno per giorno, l’enti tà dei danni subiti da ogni singolo edificio delle principali città ucraine durante il con flitto.
Il ministro ucraino per il Digitale, e vice premier, Mykhailo Fedorov, raggiunto dall’E spresso via mail conferma: «Usiamo l’Ia e al tri strumenti tecnologici contro l’aggresso re». Usi che non coinvolgono armi autono me, per ora, ma che mirano piuttosto a «fare
breccia nella propaganda russa». Se il regi me di Vladimir Putin cerca di vendere il mito della “operazione speciale” senza vittime o quasi, ecco Fedorov e i suoi usare l’Ia per «cercare i profili social di soldati russi dece duti e dare notizia del decesso ad amici e pa renti»; o ancora, per scovare l’identità dei soldati-saccheggiatori che approfittano del conflitto per rubare tutto quello che trovano e spedirlo in patria. «Ne abbiamo identificati a centinaia», dice Fedorov, che snocciola inediti dati derivanti dall’uso della contro versa tecnologia di riconoscimento facciale di Clearview Ai: delle oltre 300 foto di “occu panti uccisi” ricevute tramite canali Tele gram e dal campo di battaglia, scrive, la mag gior parte è stata identificata. Fedorov e i suoi hanno poi reperito anche «14 mila pro fili di loro amici, parenti e conoscenti su so cial come Facebook, Instagram e i russi Vkontakte e Odnoklassniki», che sono poi stati contattati da volontari (questa volta, umani) per comunicarne la morte. «Tutti i russi», spiega Fedorov, «devono conoscere la verità sulla guerra in Ucraina». Il giovane mi nistro-startupper associa insomma l’uso dell’Ia in guerra a una funzione di disvela mento, di trasparenza, e la democratizzazio ne degli strumenti “intelligenti” – ormai a misura di app su un qualunque smartphone – sembra nelle sue parole il preludio a forme di resistenza digitale di massa in cui l’artifi ciale e l’umano operano insieme, in modo partecipato e “dal basso”, per sconfiggere l’invasore. Nel Fedorov-pensiero, è una con trapposizione tra il passato dell’imperialismo e dei carri armati, incarnato dalla Rus sia, e il presente della “nazio ne digitale” capace di difen dersi con i dati e la tecnolo gia. «La guerra moderna», dice, «richiede soluzioni moderne. E la tecnologia è la migliore soluzione con
Guerra e tecnologia
tro i carri armati». Per esempio, quella che consente all’Ucraina di utilizzare con successo velivoli a guida autonoma – i droni – per operazioni di ricognizione e sorve glianza, e anche per colpire il nemico. Non, tuttavia, in completa autonomia. O non an cora: «l’Ia nei droni ci aiuta a identificare i bersagli», rivela infatti Fedorov, «ma la deci sione finale, quella di colpire un bersaglio, è riservata ancora a un essere umano». Non per molto, tuttavia, dato che secondo il mini stro ucraino «le guerre del futuro saranno guerre tra droni e robot, il più automatizzate possibile, così che non debbano venire ster minate masse di persone. Ed è un futuro non lontano». Anche l’aggressore, la Russia di Pu tin, non sembra pensarla diversamente. E se è noto che già un lustro fa il presidente russo dichiarasse convinto che l’Ia «è il futuro non solo per la Russia, ma per tutta l’umanità», e che a suo dire «chiunque diventerà leader in questo campo diventerà il padrone del mon do», è forse meno noto che ciò comporta, nella visione strategica russa per il futuro del conflitto, una sorta di inevitabilità dell’auto mazione totale.
Già nel 2013 il generale Valerij Gerasimov, nel saggio che avrebbe battezzato l’omoni ma e controversa “dottrina”, si diceva con vinto che «il campo di battaglia di domani sarà pieno di robot che camminano, striscia no, saltano e volano». E a maggio dello scor so anno la propaganda del ministro della Difesa, Sergej Shoigu, annunciava la creazio ne di robot-soldato «capaci di combattere da soli», proprio come nei film di fantascien za. Come questo si sia tradotto tuttavia in fatti, nel conflitto in corso, è materia di di scussione. I russi vantano per esempio l’uti lizzo di mine chiamate Pom-3, che sarebbero capaci di distinguere tra civili e militari, e tra militari amici e nemici, proprio grazie all’Ia. Ma è così? «Nessuna forma di macchine le arning è sofisticata al punto di funzionare in modo affidabile in zone di guerra, e non c’è alcuna prova che esista oggi una Ia sofistica ta al punto di distinguere chiaramente un civile e un militare», risponde scettica Elke Schwarz, che insegna “Tecnologia, politica e guerra” all’Università Queen Mary di Londra. La Russia starebbe però impiegando robot autonomi per sminare terreni, chiamati Uran-6; pronto all’uso sarebbe anche un vei colo di terra autonomo dotato di missili anti carro e lanciarazzi, l’Uran-9, ma al momento
gli usi più consistenti dell’Ia sembrano riser vati alla propaganda e alla “guerra informati ca”: per automatizzare i processi coinvolti nei cyber-attacchi, per creare “deepfake” o, tramite il nuovo sistema Oculus finanziato dal Roskomnadzor, l’autorità per le comuni cazioni russa, scandagliare con reti neurali foto, video e testi sui social network a caccia di propaganda Lgbt (vietata), ma anche con tenuti riconducibili dalle autorità a estremi smo, terrorismo, manifestazioni illegali, mancanza di rispetto nei confronti della so cietà, e perfino metodi di produzione di dro ghe o vendita di armi, scrive Kommersant. Se si pensa al riconoscimento facciale nella me tropolitana russa, usato per identificare e arrestare i contrari alla guerra, si comprende come l’Ia possa svolgere una funzione anche interna, di mantenimento della repressione nel regime di Putin. Resta tuttavia il dubbio sulle armi autonome: ammesso non ci siano, significa non ci saranno? Paul Scharre, auto
CI VOGLIONO NUOVE REGOLE E BISOGNA FARE PRESTO
COLLOQUIO CON BRANKA MARIJAN
Lo scorso marzo, la ricercatrice senior dell’istituto per la pace Project Ploughshares, Branka Marijan, ha scritto su Scientific American che l’aggressione Russa «sta diventando un disgraziato precedente» per capire il futuro dell’Ia in guerra. L’Espresso l’ha raggiunta per chiederle cosa abbiamo imparato da questo “precedente”, nei primi sette mesi del conflitto. Marijan, l’AI si è dimostrata perlopiù benefica o dannosa? «Non abbiamo ancora un quadro completo degli usi e degli effetti dell’Ai sul conflitto. La mia preoccupazione è che in Ucraina vengano messi alla prova nuovi armamenti intelligenti. Per ora non c’è conferma che ciò sia avvenuto. Ma più il conflitto va per le lunghe più è probabile ne aumenti la seduzione. La Russia potrebbe pensare che tecnologie di questo tipo le darebbero un vantaggio competitivo, e finire per farvi ricorso anche qualora non fossero ancora pronte per l’uso sul campo. Un aspetto spesso trascurato della guerra in Ucraina è poi che i dati prodotti durante il conflitto saranno usati per addestrare i sistemi russi a base di Ai. Quei dati sono cruciali
Prima Pagina
per il training, dato che non sono il risultato di simulazioni ma di informazioni provenienti da reali e recenti operazioni sul campo».
Quali tra gli usi dell’Ai che ha testimoniato nel corso dell’invasione sono più problematici?
«C’è stato un certo dibattito sul possibile uso di un drone autonomo, il drone kamikaze Kub-Bla. Tuttavia, non è chiaro se il drone funzioni davvero in modo del tutto autonomo o anche solo se disponga di una Ai adeguata per farlo. La mancanza di norme e regole sul funzionamento di armamenti con funzionalità autonome è ancora più preoccupante dato il disprezzo delle vite dei civili testimoniato durante l’invasione».
Davvero non c’è alcun quadro normativo di riferimento?
«Al momento non esiste un quadro normativo che regoli l’uso dell’Ai in contesti di guerra. Certo, il diritto umanitario internazionale si applica, ma non basta. La sfida cruciale è che le leggi e regole esistenti danno per scontato che un essere umano controlli i sistemi che vengono utilizzati. Ma chi è responsabile, nel caso in cui invece un sistema sia in grado di prendere decisioni davvero autonome, da sé? Attualmente, nessuno». La guerra in Ucraina rende ancora più urgente regolare l’uso di armamenti intelligenti?
«C’è un bisogno urgente di sviluppare regole per l’uso dell’Ai in guerra, prima che sia un qualche evento catastrofico a costringerci a farlo. Naturalmente anche sviluppare un insieme di regole preventive non è privo di rischi, ma gli Stati
re dell’essenziale “Army of None. Autono mous Weapons and the Future of War”, pur scettico sull’attuale ruolo dell’IA nel conflitto – «se togliessimo l’Ia dalla guerra in Ucraina non cambierebbe molto», ci dice – non ne è affatto convinto. Anzi: gli esperti sembrano concordare sulla convergenza di svariati fat tori abilitanti. Una crescita vertiginosa delle capacità di calcolo; costi sempre inferiori; e, soprattutto, il fatto che questa guerra sta for nendo a Russia, Ucraina e al resto del mondo i dati per addestrare, con operazioni e strate gie reali, i sistemi intelligenti del futuro. An che se pure qui c’è un caveat: che «i sistemi di Ia usano i dati del passato per inferire qual cosa sul presente e il futuro, e in questo con testo potrebbero non essere validi», dice Schwarz. La guerra, insomma, è una questio ne sociale – non tecnologica. Vincerla sem bra ancora troppo complesso anche per il più sofisticato degli algoritmi.
possono comunque cominciare a posarne le fondamenta. Le discussioni in sede Onu, per quanto lente, sono state comunque importanti; ora tuttavia c’è bisogno di azioni concrete. Senza norme e regole tra Stati c’è il rischio di escalation del conflitto, o che queste armi proliferino anche tra gruppi armati non afferenti allo Stato».
Queste regole dovrebbero stabilire anche una differenza tra usi problematici ma ammissibili e usi che invece vanno messi al bando?
«Gli Stati dovranno accordarsi su certi limiti e stabilire diverse categorie di rischio. Per esempio, andrebbero proibiti i sistemi che identificano bersagli senza alcun significativo controllo umano. Allo stesso modo andrebbero proibiti usi “intelligenti” di armi già proibite, nucleari, chimiche o biologiche. Dovrebbe inoltre venire considerato l’impatto di questi sistemi sui civili e le infrastrutture civili». Ma esiste una buona strategia per contenere la corsa agli armamenti intelligenti?
«Alcuni tra i più importanti tecnologi e scienziati al mondo si sono espressi molto chiaramente sul bisogno di regole contro l’abuso dell’AI in guerra, e ne servono altre ancora. C’è bisogno che chi sviluppa queste tecnologie continui a manifestare in pubblico le proprie preoccupazioni. Ciò che manca sono la volontà e la leadership politica degli Stati. Smuovere quella volontà politica è cruciale». F. C.
Le rotte dei migranti
L’ULTIMO MIGLIO DI FRONTIERA
DI BIANCA SENATORE DA OULX
FOTO DI MICHELE LAPINI E VALERIO MUSCELLA
l paesaggio montano di Oulx, a 1.100 metri, toglie il fiato per la bellezza. Ma a volte anche per un altro motivo. Non lo stupore, ma la fatica, la paura e il gelo spezzano il respiro dei migranti che provano ad attraversare la fron tiera del nord ovest italiano, a pochi km dalla Francia. Non è ancora finito settembre e al mattino la temperatura già tocca gli zero gra di. Al rifugio, una struttura comprata ai Sale siani e gestita da una rete di associazioni, ci sono una settantina di persone, tra uomini, donne e bambini. «Non hai freddo?», chiedia
mo a un ragazzino in t-shirt. Arriva dalla Si ria, è sbarcato in Calabria e ha attraversato tutta l’Italia durante l’estate. Ora che è in montagna, non ha i vestiti adatti. «Adesso va do a chiedere una felpa», dice indicando la struttura.
Al pian terreno del rifugio c’è una stanza guardaroba con cappotti, pantaloni, maglio ni. Ogni cosa è stata donata dalla società civi le ed è a disposizioni dei migranti che voglio no lasciare l’Italia attraversando le monta gne. «Tesoro, se vai su con queste ciabattine,
ti congeli i piedi e ti fai male, prova queste», dice Sofia Pressiani, porgendo al ragazzo un paio di stivali. Lei è una delle volontarie che gestisce il rifugio e insieme agli altri cerca di tenere il conto degli arrivi. «Non è semplice, perché il turnover è quotidiano», spiega So fia: «Alcuni arrivano alle tre del mattino, altri partono senza avvisare. Quindi, il calcolo non torna mai precisamente». Al rifugio di Oulx nessuno si ferma più di una notte, a meno che non abbia qualche problema fisico che risol vono subito Rainbow for Africa e Medu, me dici per i diritti umani. Or mai quasi alla fine del tragit to, l’urgenza di arrivare è più forte di qualunque altro im pulso umano. Bastano 10-12 ore di riposo e poi tutti pro seguono la marcia, per quell’ultimo miglio. «I flussi sono cresciuti nell’ultimo periodo. A luglio, ci sono sta
ti 710 arrivi, ad agosto 843 e al 16 settembre siamo già a 677. Il che vuol dire che, probabil mente, chiuderemo superando le mille perso ne», spiega Rita Moschella, un’altra delle vo lontarie del rifugio.
A Oulx arrivano molti di coloro che sbarca no a Lampedusa o in Calabria, ma arrivano anche i migranti che percorrono la rotta bal canica e che voglio andare in Francia o in Germania. Arrivano a pezzi al rifugio e hanno bisogno di essere curati, di dormire. Poi ripar tono e prendono l’autobus per Claviere. Da lì si arrampicano sulle montagne e provano a scavallarle, per poi raggiungere Briancon, in Francia. «Se ci riescono, il viaggio poi prose gue abbastanza facilmente. Ma spesso i mi granti vengono fermati dalla polizia di fron tiera e vengono rimandati indietro», raccon ta Piero Gorza, antropologo culturale che vi ve praticamente da sempre a Oulx e conosce bene quella rotta migratoria. «Le guardie di frontiera respingono soprattutto i più vulne
Due famiglie afghane percorrono di sera la strada che da Claviere porta ai sentieri che oltrepassano il confine italo-francese in direzione di Monginevro. In alto, due migranti marocchini lungo il sentiero che porta al confine
rabili, coloro che magari hanno problemi fisi ci e sono lenti oppure puntano le famiglie con bambini», spiega ancora Piero. Attraversare le montagne tra Italia e Francia è micidiale. I pendii sono appesi, la strada è lunga e difficile già normalmente, in estate per esempio. Fi gurarsi in inverno, con -20 gradi e la neve che rallenta il cammino. In due, quest’anno, sono morti. «Succede spesso che i ragazzi arrivino qui con una mappa e sanno che un amico ha fatto questo percorso. Non si rendono conto, però, che è molto diverso farlo in inverno. Possono morire, non solo di freddo, ma anche sotto le slavine. Per questo li attrezziamo, af finché almeno non crepino congelati», spiega Sofia Pressiani. Soprattutto di notte. I mi granti iniziano a muoversi durante le ore di buio, per cercare di sfuggire ai controlli. Ma è proprio allora che la polizia li intensifica ed è pronta a respingere.
È un paesaggio dalle caratteristiche ambi valenti, quello della valle di Susa. Di giorno è paradiso per escursionisti, sciatori, vacan zieri. Di notte diventa teatro di una caccia all’uomo, senza pietà. La polizia si apposta dietro ai piloni degli impianti sciistici e scru ta le montagne con binocoli termici. Poi ci sono i droni, che riescono a individuare per sone anche sotto la vegetazione. Il 19 set tembre scorso, è stato firmato un accordo che prevede pattuglie miste di carabinieri e componenti della gendarmeria francese proprio nelle zone di Oulx e di Susa. Sono già al lavoro in questi giorni, sia nell’Alta Val le, sia sul versante transalpino, in Alta Savoia. Ed è solo l’inizio. «Siamo preoccupati per la vittoria di Giorgia Meloni», dicono gli ope ratori del rifugio. «Ci stiamo già preparando ad un aumento delle denunce per immi
grazione clandestina, alle retate, agli sgomberi». L’organizzazione del centro è una macchina perfetta che è sempre pronta ad assistere chi ne ha bisogno. «Non ci lasce remo intimidire. Continueremo, perché l’u manità, il diritto di esistere, la dignità nes sun risultato elettorale le potranno mai spazzare via». Preoccupate anche le asso ciazioni che cooperano con il rifugio di Oulx. Dall’altro lato della montagna, a Briancon, infatti, c’è “Terrasses solidaires”, un gruppo cui i migranti che arrivano possono rivolger si per chiedere aiuto. È lì che avviene lo scambio delle scarpe. «Quando i migranti arrivano a Oulx, noi gli diamo gli scarponi o i doposci . E non appena arrivano a Brian con, li lasciano lì per indossare scarpe nor mali. In questo modo, l’attrezzatura da mon tagna può tornare a noi, per essere riutiliz zata», spiega ancora Sofia. Un piccolo gesto di solidarietà e forse anche simbolo di un’u manità in grado di resistere e rinnovarsi.
Mentre siamo al rifugio, un gruppo di mi granti chiede dei giacconi, dei calzettoni pe santi e una sciarpa. L’indomani prenderanno l’autobus per Claviere. «Voglio andare in Ger mania, c’è la mia famiglia e sono sei mesi che sono in giro», dice un ragazzetto, poco più che maggiorenne. «Mi è caduta una bomba in testa e sono vivo per miracolo. Sono rima sto in Siria per un po’ ma la situazione era tremenda e non c’era lavoro. Sono dovuto scappare via». Uno sguardo malinconico e un sorriso a mezza bocca. Lo ritroviamo il giorno dopo sul pullman che percorre quei pochi km, fino alla frontiera. In quei 25 mi
Due ragazzi marocchini siedono al tavolo della mensa di Terrasses solidaires a Briancon in Francia
Le rotte dei migranti
nuti di viaggio, i migranti sono in silenzio, quasi in raccoglimento, perché sanno che si gioca tutto lì il loro destino. Col naso schiac ciato al finestrino ci sono anche due bimbe siriane, non avranno neanche quattro anni e dovranno scarpinare per chilometri in salita, col buio. Lo stesso dovrà fare la ventunenne libica che ha con sé un bimbo di 11 mesi in braccio e un figlio in arrivo nella pancia. È arrivata al centro talmente distrutta che ha dormito per 12 ore di fila, senza neanche mangiare. E quando alla fine si è alzata dal letto si è sentita male. È dovuto intervenire il medico, per poi capire che è fortemente ane mica e mal nutrita. Il suo piccolino no, con una serafica dolcezza passa di braccio in braccio, sorridendo a tutti come se ci cono scesse da anni. «Qui si intrecciano storie e vissuti», spiega Piero Gorza. «E si sperimen tano sulla pelle diverse dinamiche: quella dell’inclusione e dell’esclusione e quella del guadagno e della perdita».
Anche a Oulx, come in tutte le altre frontie re europee, si toccano con mano le disugua glianze e l’incongruenza delle politiche mi gratorie. L’incremento degli arrivi a Oulx è legato all’aumento degli sbarchi durante l’e state. Quando, come abbiamo raccontato su queste pagine, flussi di migranti sono stati quasi spinti verso l’Europa, senza nessun tipo di impedimento. Guarda caso, lo stesso è av venuto parallelamente lungo la rotta balcani ca. Al rifugio sono arrivati degli afghani che sono riusciti a fare tutto il percorso in meno di 50 giorni. Niente rispetto ai cinque mesi di
LA TRAVERSATA CON IL BUIO PER SFUGGIRE AI CONTROLLI MA GLI AGENTI DISPONGONO DI VISORI E DRONI. “ORA TEMIAMO UN’ALTRA STRETTA CON RESPINGIMENTI E DENUNCE”
media che prima di questa primavera servi vano per passare di Paese in Paese, dalla Bul garia all’Italia. «Ora che ha vinto la destra, le cose potrebbero cambiare di botto anche se non siamo sicuri che i flussi diminuiranno», spiega un operatore umanitario. Aumente ranno certamente i morti, i muri e gli affari per i trafficanti.
BABY MIGRANTI,
DI ERICA MANNA
Mohamed D. non è più mi norenne, non è più solo: ha vent’anni ed è già vec chissimo. È arrivato in Ita lia cinque anni fa, su un barcone. Era partito dalla Costa d’Avorio insieme a un amico: «Mi ha pagato il viaggio, l’ho visto morire in mare», ricorda. Oggi Mohamed lavora come secon do chef in un ristorante nel centro storico di Genova, e con l’associazione Defence for children dà una mano a chi sta passando quello che ha vissuto lui. Ma questa è la fine della storia: per arrivarci ha attraversato tut te le caselle del percorso a ostacoli di un mi nore straniero non accompagnato in Italia. Ha dormito su una panchina, ha mangiato alla mensa dei poveri. È stato portato in que stura, preso in carico dal Comune e finito in un albergo nella zona dello spaccio, in via Pré, perché i posti in accoglienza erano satu ri: «Stavamo in giro tutto il giorno. Se vuoi rovinare la tua vita è molto facile. La mia for tuna è stata trovare la mia tutrice, che io chiamo mamma Tutina: mi ha dato tanto. Ed è andato tutto bene». Ma non va sempre tut to bene, per un minore straniero non accom pagnato che arriva in Italia: per legge la presa in carico spetta ai Comuni, ma il sistema sta andando in tilt. E non perché i numeri – sep pur in crescita, con la ripresa degli sbarchi e i nuovi flussi dall’Ucraina – siano esorbitanti: secondo il report mensile del ministero del Lavoro e delle Politiche sociali aggiornato al 31 luglio, sul territorio sono oltre 16 mila. A gennaio era no 11.500. La loro protezio ne in Italia è garantita da una legge tra le migliori a li vello europeo, la 47 del 2017: che, però, viene applicata in parte e in modo disomoge neo. La concentrazione nel le grandi città, la cronica in
sufficienza di posti Sai (il sistema accoglien za integrazione che garantirebbe una presa in carico più strutturata), la carenza di pro getti educativi, il pantano burocratico che rende lenta e tortuosa l’assegnazione di tuto ri legali rischiano di trasformare questi ra gazzi molto vicini alla maggiore età in fanta smi urbani. E di innescare fratture sociali. Come è accaduto a Milano, la città con la maggiore concentrazione: 1.200 a fronte di 400 posti Sai. «Siamo schiacciati su un ap proccio emergenziale, il rischio che si accen dano micce è fisiologico», spiega Lamberto Bertolé, assessore al Welfare del Comune di
IL SISTEMA DELL’ACCOGLIENZA È SATURO E GLI ARRIVI IN AUMENTO PER EFFETTO DELLA
Erica Manna GiornalistaMilano. Come succede a Genova, dove il te ma è diventato un caso: oltre 400 minori, l’80 per cento in più rispetto all’anno precedente, l’allestimento in fretta e furia di centri di ac coglienza che provocano la sollevazione di un quartiere dopo l’altro, scontri e risse, tan to che la giunta di centrodestra del sindaco Marco Bucci ora invoca aiuti dal Viminale.
A causa della guerra, la maggior parte dei minori stranieri soli oggi proviene dall’U craina: 5.577, al 31 luglio. Un flusso paralle lo che si è andato a sovrapporre a quello degli sbarchi, che resta sempre il principa le: sono 1.066 i minori soli arrivati in Italia a luglio con i barconi, come Mohamed. Sul territorio si trovano poi soprattutto egizia ni (2.842), seguiti da tunisini (1.382) e alba nesi (1.327). Stando agli ultimi dati ministe riali, è la Sicilia la regione che ospita di
SOLI E A PERDERE
Nuovi cittadini
più (3.045), seguita dalla Lombardia, con 2.875. Un’accoglienza che ricade tutta sulle spalle dei Comuni: perché nonostante a livello nazionale la rete Sai sia stata am pliata – a giugno per i minori i posti erano 6.634, la concentrazione più alta in Sicilia con 1.716 - la coperta è sempre corta. Così accade che ad Agrigento le accoglienze Sai siano 112 e i ragazzini 1.200: come a Milano. «Una sproporzione rispetto alla reale capa cità di un territorio che rende impossibile una presa in carico adeguata», spiega Pip po Costella, direttore di Defence for chil dren international, associazione che ha re alizzato il secondo rapporto nazionale sull’applicazione della legge 47 del 2017.
A Milano il primo filtro, la porta di accesso al sistema è in viale Sarca. Molti si presenta no qui con un bigliettino in tasca, con su scritto il nome del centro di accoglienza do ve pensano di essere destinati: effetto del passaparola. «Perché così tanti da noi? Quando un sistema offre risposte diventa più attrattivo e i numeri crescono». Lamber to Bertolè, un passato da operatore sociale e
LA GRAN PARTE DEI MINORI NON ACCOMPAGNATI HA 17 ANNI. CON LA MAGGIORE ETÀ SI APRE IL BARATRO. E LE RETI CRIMINALI SONO IN AGGUATO
NUOVA FORZA LAVORO
da insegnante, nella giunta di Beppe Sala si è trovato a ricoprire nell’ultimo anno un ruolo complicato. Perché a Milano gli arrivi sono cresciuti a livelli esponenziali. «La mia prio rità è non lasciare fuori nessuno, il carico sulle spalle del Comune è alto: e non è solo un tema economico. La quota di rimborso agli enti è aumentata: dai 45 euro per mi grante al giorno siamo passati, in estate, a 60. Ma il punto è che la concentrazione nelle grandi città impedisce di seguire con qualità le persone. Ogni regione dovrebbe distribui re meglio gli arrivi su tutto il territorio».
A Genova, nel sestiere del Molo al porto antico, c’è un edificio imponente: nato co me asilo notturno per persone senza dimo ra ai primi del Novecento grazie alla dona zione di Luigi Massoero. È qui, all’ex Mas soero, che il Comune durante l’estate ha si
GLI SBARCHI
Nuovi arrivati sbarcati a Vibo Valentia dopo un’operazione di soccorso in mare. Accanto agli arrivi dalle rotte via mare dei migranti, per i minori soli l’impennata è legata alla guerra in Ucraina
stemato in via temporanea una ventina di minori stranieri non accompagnati. Dopo una serie di furti, assemblee serali infuoca te indette dai residenti della zona e l’episo dio di un cittadino armato di spranga che minacciava di fare irruzione perché soste neva che alcuni ospiti avessero molestato la figlia, il centro è stato sgomberato e i mi nori spostati. Dove? In centri analoghi alle stiti in altri quartieri, dove puntualmente si sono accese proteste a effetto domino. «Non possiamo andare avanti così, abbia mo bisogno di strutture di prima accoglien za governativa», sbotta la neoassessora ai Servizi sociali Lorenza Rosso.
Il chiostro fiorito, il giardino, il ponte San Giorgio incorniciato dalla finestra, come una cartolina: sembra un collegio, la comu nità di prima accoglienza Terra e quella di emergenza Il Campetto, quaranta posti in tutto nell’ex convento dei Cappuccini dove il Ceis - Centro di solidarietà Genova onlusha aperto da pochi mesi un centro. I ragazzi giocano a biliardino, il laboratorio creativo è tappezzato di disegni: riesce difficile imma ginare che anche qui ci sono state tensioni, un operatore è stato minacciato con il coltel lo da adolescenti poco più che bambini con vite dolorose alle spalle. «Vorrebbero lavora
re, hanno fretta di mandare soldi alle loro famiglie che si sono indebitate per farli par tire. Ma si scontrano con tempi infiniti: ospi tiamo ragazzi che dovrebbero restare due mesi e sono qui da febbraio perché le secon de accoglienze sono sature», dice Chiara Ca vallante, responsabile della comunità Terra. «Sono fragili dal punto di vista psichico, por tano i segni di percosse, è necessario il sup porto della sanità. E nel lungo periodo, co munità educative più idonee», spiega Enrico Costa, presidente del Ceis.
Il 43 per cento dei minori stranieri non accompagnati, in Italia, ha 17 anni. E la vi cinanza alla maggiore età rende tutto più complicato. «In partnership con il Comune e altre organizzazioni portiamo avanti un progetto post-18», racconta Monica Duri gon della cooperativa Esserci di Torino, che gestisce un centro per minori a Rivoli all’in terno della rete Nomis. Per evitare il salto nel buio dei diciotto anni, la cooperativa ha aderito al progetto nazionale Never alone, per portare all’autonomia lavorativa ed esi stenziale i ragazzi. Perché per questi bam bini già adulti l’infanzia è finita da un pez zo: ma è da maggiorenni che rischiano di perdersi. Soli, davvero.
IL PERCORSO A OSTACOLI PER L’ASSISTENZA SANITARIA
DI SILVIA ANDREOZZI
L’accoglienza sanitaria dei migranti sospesa tra enunciati e realtà è il tema su cui da anni batte la Società italiana di medicina delle migrazioni (Simm). L’argomento, precisa a L’Espresso Salvatore Geraci, membro della Simm, rimanda a uno dei «principi fondamentali sottoscritti dall’Italia nel 1991 con la ratifica della Convenzione dei diritti del fanciullo dell’Onu», un tassello di quel pacchetto di diritti umani che lo Stato si è impegnato a rispettare.
Il trattamento sanitario necessita ancora, nella pratica, di essere adeguato agli standard di rispetto dei diritti umani. «In Italia è praticamente impossibile entrare da migranti regolari. Quando si parla di irregolari dobbiamo pensare che sono persone a cui verrà riconosciuto il diritto a stare nel Paese», precisa il presidente della Simm.
Una norma del 2017 aveva stabilito che «i minori stranieri presenti sul territorio nazionale non in regola con le norme relative all’ingresso e al soggiorno sono iscritti al Servizio sanitario nazionale e usufruiscono dell’assistenza sanitaria in condizioni di parità con i cittadini italiani». Un principio disatteso però nella pratica. I motivi li elenca uno dei report prodotti dalla Simm. «Un esempio è costituito dall’impossibilità di poter procedere all’iscrizione al Sistema sanitario regionale in caso di mancata precedente assegnazione del Codice fiscale al minorenne». Fino a pochi mesi fa, infatti, il possesso del codice fiscale presupponeva il fatto di essere titolari di documenti che accertassero la regolarità del proprio soggiorno in Italia. Senza, però, era impossibile effettuare l’iscrizione al servizio del Pediatra di libera scelta se non attraverso il codice Stp (Straniero temporaneamente presente) che, in alcune regioni come la Lombardia, comunque non garantiva l’accesso al Servizio sanitario per i minori. Ai ragazzi e ai bambini stranieri che rimanevano esclusi dalla sanità pubblica italiana non rimaneva che rivolgersi a consultori e ambulatori medici gestiti dal volontariato. A fronte di un quadro normativo che al momento tutela sulla carta il minore straniero dal punto di vista sanitario, la maggioranza dei limiti pratici derivano dalla frammentazione della gestione sanitaria in Italia che rischia di rappresentare l’ostacolo anche alle nuove misure adottate dallo Stato.
Dopo numerose sollecitazioni, nell’estate 2022, infatti, è stata emessa dall'Agenzia dell'Entrate una «circolare esplicativa» sulla quale è esplicitato l’iter attraverso cui deve avvenire l’attribuzione del codice fiscale ai minori stranieri in Italia. Dal punto di vista della Simm adesso le Regioni hanno tutti gli strumenti per rendere effettivo il diritto alla tutela della salute per i minori stranieri. Rimangono dei dubbi, però, su come queste linee generali verranno recepite a livello regionale visto che «in Italia non si può più parlare di un unico Sistema sanitario nazionale, ma di tanti sistema regionali».
Economia e potere
MPS
SALVATAGGIO INFINITO
er traghettare verso un porto si curo il Monte dei Paschi di Siena non sono bastati 22 miliardi in 11 anni. Una montagna di dena ro inghiottita dal buco nero di conti perennemente in perdita, tra aumenti di capitale, aiuti di Stato, ribalto ni al vertice (quattro amministratori delegati nell’arco di un decennio) e solenni impegni mai mantenuti dalla politica. Con queste pre messe, la banca più inguaiata d’Italia si pre para a chiedere altri 2,5 miliardi di euro al mercato. Non ci sono alternative, quei soldi servono tutti e subito. E infatti, nei piani an nunciati da Luigi Lovaglio, il banchiere di lungo corso da otto mesi al timone dell’istitu to, l’operazione dovrà partire a metà ottobre per concludersi trenta giorni dopo. Difficile immaginare un periodo peggio re per affrontare gli investitori internazio nali. E la pioggia di vendite che nei giorni scorsi ha accolto in Borsa il raggruppamen to dei titoli Mps (uno ogni dieci) suona co me l’ultima conferma che il mercato scom mette al ribasso sul salvataggio, a tal punto che la Consob è stata costretta a disporre il divieto di vendita senza limite di prezzo per le azioni della banca.
Le incognite sul futuro dell’istituto, che non viaggia più in perdita ma deve rafforza re il patrimonio, vanno proiettate su uno scenario economico quanto mai instabile, con la crescita del Pil in frenata e una possi bile recessione nel primo trimestre dell’an no prossimo. Senza contare che proprio nelle prime settimane d’autunno, i mercati dovranno valutare il rischio Italia alla luce del cambio di governo e la probabile nomi na a Palazzo Chigi di Giorgia Meloni. Nono
stante la svolta accomodante di queste ulti me settimane, la leader di Fratelli d’Italia, a lungo populista, nazionalista e statalista in economia, dovrà impegnarsi ancora molto per cancellare dubbi e sospetti nei suoi confronti molto diffusi tra Francoforte (se de della Bce), Bruxelles, Londra e Washin gton, nel giro che conta della finanza inter nazionale. Il governo di Roma, dove a breve si insedierà la coalizione di centrodestra, quattro anni fa è stato costretto a prendere il controllo di Mps per evi tarne il crack. Nel 2018 il ministero dell’Economia mise sul piatto 5,4 miliardi per rilevare il 68 per cento circa del capitale dell’istitu to, un investimento andato in fumo quasi del tutto, vi sto che alle quotazioni di Borsa di questi giorni il
Prima
Monte vale poco più di 300 milioni. In man canza di un compratore a cui girare la sua quota, l’azionista pubblico non potrà fare altro che sborsare circa 1,6 miliardi per fare la sua parte nel prossimo aumento di capi tale ed evitare il flop dell’operazione.
Va detto che sul futuro dell’istituto gli al leati hanno dimostrato di avere idee quan tomeno ondivaghe se non confuse. Mauri zio Leo, il tributarista romano considerato una delle menti economiche di Fratelli d’I talia, meno di un mese fa aveva proposto di rinviare a tempi migliori l’aumento di capi tale, di sicuro a dopo le elezioni. Nel giro di poche settimane, forse in omaggio alla svolta moderata della leader del suo parti to, Leo ha corretto il tiro, spendendo qual che parola a sostegno dell’amministratore delegato Lovaglio. Per Matteo Salvini, inve ce, Mps dovrebbe diventare il perno di un’aggregazione bancaria più vasta con l’o biettivo per finanziare le piccole medie im prese. Una dichiarazione d’intenti che però è sempre rimasta tale, sospesa nel chiac chiericcio della politica, senza un piano preciso per dare sostanza all’operazione.
Datoperscontatol’appoggiodell’azionista pubblico, Siena dovrà comunque trovare il modo di raccogliere sul mercato gli altri 900 milioni indispensabili per completare l’au mento. Sarà difficile trovare adesioni nel po polo dei piccoli azionisti, giustamente sfidu ciati dopo un decennio di tosature. I soldi vanno quindi cercati altrove. E infatti, negli ultimi dieci giorni Lovaglio ha viaggiato tra Londra e New York per convincere i grandi fondi internazionali a scommettere sul risa namento della banca. In effetti, la stretta di politica monetaria decisa dalla Bce apre nuove prospettive di guadagno per tutti gli istituti. Dopo anni di tassi ai minimi storici, l’intero sistema bancario, Mps compreso, potrà quindi cavalcare l’aumento dei margi ni di guadagno dell’attività creditizia classi ca, cioè ricevere denaro e darlo in prestito. Come dire che la crescita dei ricavi potrebbe alla fine rivelarsi più sostanziosa di quanto previsto nel piano industriale 2022-26. Se condo il documento presentato nel giugno scorso ai mercati, i profitti della banca sene se dovrebbero passare dai 310 milioni del 2021 al miliardo circa del 2024, grazie anche ad alcune poste fiscali favorevoli. Va però considerato che nelle ultime settimane sono aumentate le incognite legate ad altre vo
ci di bilancio. La crisi economica che ha messo alle strette milioni di imprese e fami glie potrebbe far crescere di nuovo le soffe renze su crediti, di molto ridotte negli ultimi esercizi. E in caso di turbolenze sul fronte del debito pubblico, non è neppure da esclu dere una diminuzione del valore dei Btp in portafoglio, penalizzati dall’aumento dello spread.
Tra Pil in frenata e cambio della guardia a Palazzo Chigi, non è quindi una sorpresa che gli investitori internazionali non facciano la fila per sottoscrivere l’aumento di capitale proposto da Lovaglio. Finora le manifesta zioni d’interesse più rilevanti sono arrivate da due vecchi compagni di viaggio del Mon te: l’assicurazione francese Axa e la società di gestione del risparmio Anima. Entrambi vendono da anni i propri prodotti finanziari anche tramite la rete di filiali di Mps e sem brano disposti a investire sul futuro del loro alleato. «L’eventuale ingresso di questi sog getti nell’azionariato avverrà alle stesse con dizioni previste per gli altri investitori», ha messo in chiaro Lovaglio durante l’assem blea dei soci del 15 settembre scorso per re spingere i sospetti di possibili favoritismi. Non è da escludere, però, che strada facendo gli accordi commerciali tra l’istituto toscano e suoi due partner possano essere rivisti ed è difficile immaginare che al tavolo della trat tativa Axa e Anima non ne approfittino per far pesare il ruolo di finanziatori e migliorare la loro posizione contrattuale.
Economia e potere
Prendere o lasciare. Il tempo stringe e non ci sono molte alternative, a parte il rin vio di un’operazione che viene descritta come assolutamente necessaria per garan tire un futuro alla banca. Tra l’altro, a fine novembre, si chiude la finestra per i pre pensionamenti di circa 3 mila dei 21 mila dipendenti del gruppo bancario. Un esodo, con scivolo anche di sette anni verso la pensione, che assorbirebbe 800 milioni sui 2,5 miliardi ricavati con l’aumento.
È ancora aperto anche il confronto con la Commissione Europea che il 2 agosto ha concesso una nuova proroga all’Italia per privatizzare l’istituto, evitando le sanzioni per aiuti di Stato illegali. E siccome i com pratori latitano, l’azionista pubblico non può fare altro che prendere tempo con un nuovo aumento di capitale, nella speranza che il miglioramento dei conti trasformi
SUL MERCATO VANNO RACCOLTI 900 MILIONI. MA IL TITOLO È AI MINIMI STORICI E SUI CONTI PESANO LE INCOGNITE DELLA RECESSIONE E DELLO SPREAD
BANCHIERI
L’amministratore delegato di Mps Luigi Lovaglio. Sopra: la presidente della Bce Christine Lagarde
Mps in una preda appetibile per un’altra banca, italiana o straniera. Di certo il go verno non può permettersi un fiasco come quello dell’anno scorso, quando Unicredit fece saltare il tavolo della trattativa perché ritenne insufficiente la dote in denaro (si parlò di 7 miliardi) messa disposizione da Roma pur di concludere la vendita. All’epo ca, era ottobre del 2021, Fratelli d’Italia e Lega erano schierati contro la privatizza zione. Caso vuole che dieci giorni prima dello stop a Unicredit, il segretario del Pd Enrico Letta aveva vinto le elezioni supple tive a Siena conquistando un posto alla Ca mera in sostituzione dell’ex ministro Pier Carlo Padoan, nominato alla presidenza proprio di Unicredit. A quasi un anno di stanza, Letta sconfitto alle elezioni si pre para a uscire di scena. Ora comandano i suoi avversari di centrodestra, quelli che non volevano la «svendita» di Mps. Resta da capire se adesso Meloni e alleati saranno capaci di passare dagli slogan ai fatti.
I nodi del prossimo governo
PNRR MILIARDI A RISCHIO
DI EUGENIO OCCORSIO
Arischio i 23,8 miliardi per le fonti rinnovabili, da sempre un callo dolente per la destra. Sotto esame i 31,5 miliardi per le infra strutture della mobilità so stenibile, punto d’insofferenza per chi vuo le rallentare l’arrivo dell’auto elettrica. E poi i 155 milioni per il “Capacity building degli operatori culturali per gestire la tran sizione digitale e verde” gestiti dalla Dire zione creatività contemporanea del mini stero della Cultura, che solo a sentirla no minare alla Meloni viene l’orticaria. Per non parlare dei 300 milioni per Cinecittà su cui il ministro Franceschini aveva fatto una strenua battaglia. Ma anche sui 2,7 mi liardi per i borghi e i “piccoli siti culturali” il nuovo governo avrebbe, a sentire le voci
degli ambienti del centrodestra, qualcosa da ridire. Il Pnrr è in gioco. O almeno lo sarà se diventerà realtà uno degli slogan più roboanti e insistenti fra quelli con cui Giorgia Meloni ha vinto le elezioni: rivede re, anzi “riscrivere”, il Piano nazionale di ripresa e resilienza, il maxiprogetto euro peo da 191 miliardi di investimenti con cui l’Europa ci sta aiutando a riprenderci dalla crisi pandemica. Al quale il governo ha aggiunto “di ta sca propria” il Piano nazio nale per gli investimenti complementari, con risor se aggiuntive pari a 30,6 miliardi.
Più di 220 miliardi da spendere da qui a fine 2026, «troppi e troppo in fretta»,
riconosce l’economista Tito Boeri. «In re altà qualcosa da rivedere ci sarebbe», spie ga Andrea Boitani, economista della Cat tolica. «Tutta la parte degli investimenti in opere pubbliche, più della metà del totale per oltre 100 miliardi, ha un problema: è stata scritta a fine 2020, quando c’era da rilanciare l’economia schiantata dai lock down (in quell’anno il Pil italiano è sceso del 9%, ndr) e l’inflazione era a zero. Oggi è schizzata al 9% e gli aumenti dei costi sono esponenziali. Cemento, energia, trasporti, cavi di rame, tondini di ferro, tutto costa di più per lavori che per definizione sono plu riennali». Le clausole di revisione prezzi sono sostanzialmente scomparse dal no stro ordinamento dai tempi di Tangento poli, «ma che qualche revisione debba es serci visto che tutte le materie prime sono
lievitate, con punte inverosimili del 3 o 400%, e questo negli ultimi due anni, è giu sto e logico. Altrimenti c’è il rischio che si blocchi tutto».
Senonché gli agitprop di Fratelli d’Italia non sono mai scesi in tali dettagli di buon senso, ritenendo più efficace “sparare nel mucchio” del Pnrr. Adesso pare che la Me loni “ragionante” del post-voto stia ren dendosi conto che bisogna concentrare solo sull’aspetto rincari gli interventi sul Pnrr. Spiega l’economista Mario Baldas sarri, presidente dell’Istituto Adriano Oli vetti di Ancona, la scuola di formazione manageriale fondata nel 1967 da Giorgio Fuà: «Il problema dei rincari riguarda tut ta l’Europa. Al conto totale dell’intero pia no NextGenEu da 750 miliardi nei 27 Pae si, mancano già per l’inflazione e per gli
La demolizione dell’ultimo diaframma che completa il tunnel di Monte Aglio sulla linea ferroviaria NapoliBari
I nodi del prossimo governo
aumenti iperbolici dell’energia ben 300 miliardi». Ma chi dovrebbe metterli sul ta volo? «La via più lineare è una ristruttura zione finanziaria dell’intero NextGen che adegui i progetti ai costi, e magari allunghi le scadenze almeno fino al 2028. Ci sareb be il tempo per completare molte delle opere finanziate e chiudere la partita delle rivalutazioni, nonché per emettere i nuovi eurobond destinati appunto a integrare il piano».
Ecco cosa potrebbe chiedere il governo italiano, anziché elucubrare su chissà quali revisioni complessive. Le quali provoche rebbero solo l’effetto - come ha detto senza mezzi termini Ursula von der Leyen - di precluderci, almeno temporaneamente, le prossime tranche del Pnrr. Il piano peraltro già ha fatto sentire i suoi effetti positivi, come prova la crescita del 6,6 per cento l’anno scorso. Merito dell’anticipo da 25 miliardi versato da Bruxelles nell’agosto 2021 che è servito a completare 106 progetti entro la fine di quell’anno. Le successive tranche hanno cominciato ad essere legate agli adempimenti, cioè riforme e revisioni pro cedurali, scadenzate nel tempo. Dato che il governo Draghi è stato nei tempi previsti, è arrivata nell’aprile 2022 la tranche da 24,3 miliardi riferita ai 51 obiettivi conseguiti nella seconda metà del 2021. Infine, pochi giorni fa, è stata versata nel conto corrente del Mef quella di agosto da 24,1 miliardi, co me “premio” per aver centrato i 45 adempi menti del periodo gennaio-giugno di quest’anno. Ora la partita si complica per ché, oltre a risolvere la grana dei rincari, il governo italiano non deve perdere la battu ta e rendere operative le riforme già annun ciate: senonché leggi come quella sulla concorrenza (con le irrisolte questioni di balneari e tassisti) e il fisco, sono rimaste impantanate nell’ultima fase di Draghi per iniziativa proprio delle destre di governo (Lega e Forza Italia): ora Fratelli d’Italia do vrebbe miracolosamente imprimere una volontà politica per sbloccarle. E intanto, entro fine anno, risolvere questioni della portata di 8.764 assunzioni nella Giustizia o dell’upgrading dell’Agenzia nazionale per la cybersicurezza.
Il tempo stringe anche per la questione centrale, gli adeguamenti dei costi. Secon do l’Ance, ci sono diffuse perdite nei 23mi la cantieri aperti, con 160 miliardi di inve
191 mld
IL PNRR
Ammontare dei fondi di Bruxelles, alimentati con gli eurobond: 80 miliardi come dono, gli altri come crediti agevolati
30 mld
L’INTEGRAZIONE
Fondi che il governo italiano ha aggiunto al Pnrr, derivanti in parte da altri fondi strutturali Ue: il totale del pacchetto supera così i 220 miliardi
6 anni
I TEMPI
Periodo della graduale erogazione dei fondi del Pnrr (2020-2025), soggetti a periodiche verifiche
23,8 mld
La parte del Pnrr destinata alle fonti energetiche rinnovabili: è la singola voce più consistente ed è anche quella a maggior rischio di revisione dal nuovo governo
5 mld
LE SUPERSPESE
Oneri in cui sono incorse le aziende, fino al 30 agosto, per i maggiori costi dei materiali dovuti all’inflazione galoppante
stimenti in corso o già stanziati fra quelli del Pnrr e gli altri lavori “normalmente” avviati. Il governo Draghi ha previsto già dal primo decreto aiuti - pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 17 maggio 2022 - un accantonamento di 3 miliardi per le im prese impegnate nei lavori e alle prese con gli extracosti. C’era una precisa ripartizio ne: 1,5 miliardi per le opere già in corso e già aggiudicate, altrettanti per quelle che dovranno presto andare a gara. Visto che nella prima fase si sono mischiati lavori pubblici già previsti ed altri ex-Pnrr, era ri servata una quota di 700 milioni espressa mente per i lavori del Pnrr. Il totale del de creto aiuti (compresi i ristori alle piccole imprese, alle famiglie meno abbienti e via dicendo) era di 15,2 miliardi. Il 2 agosto c’è stato poi il decreto aiuti-bis, convertito in legge in extremis dal Parlamento uscente: del totale (15 miliardi) sono destinati al “fondo revisione prezzi” 1.300 milioni. Infi ne, è arrivato il decreto aiuti-ter da 14 mi liardi approvato dal CdM nell’ultima sedu ta prima delle elezioni e “consegnato” al nuovo Parlamento, dove non è ancora chiara la quota destinata alla revisione la vori. Per ora ci sono dunque 4,3 miliardi a disposizione per la revisione prezzi. Po
trebbero non bastare, e allora il governo Draghi ha creato un ulteriore strumento, il “Fondo per avvio delle opere indifferibili” dotato per ora di 7,5 miliardi da utilizzare da qui al 2026 sempre per i rincari sui lavo ri in corso. L’importante, «è non avere la pretesa di riscrivere l’intero Pnrr, che è un regolamento direttamente esecutivo nel diritto interno - puntualizza il costituzio nalista Giovanni Maria Flick - inserito in un pacchetto di interventi normativi in de terminati settori». In teoria, sarebbe possi bile che qualcuno sollevi questioni di legit timità su un punto, aggiunge l’ex presiden te della Corte Costituzionale, «ma si apri rebbe un complesso contenzioso fra Consulta e Corte di Giustizia europea qua le realisticamente mi pare improbabile che chiunque voglia sollevare».
Il crinale su cui viaggia qualsiasi revisio ne è stretto. «Il Pnrr mette a disposizione risorse per investimenti nel settore delle infrastrutture che sono mancate per de cenni», ricorda Pietro Salini, Ceo di Webu ild. «È la nostra opportunità e il suo im pianto e le scadenze vanno rispettate». In ogni caso, «per avviare e condurre una trattativa come la revisione del Pnrr - os serva l’economista Innocenzo Cipolletta -
Prima
occorrono persone in possesso non solo della lucidità necessaria e delle capacità negoziale, ma della competenza tecnica, della conoscenza dei complessi meccani smi finanziari pubblici, della credibilità internazionale del caso. Possiamo solo sperare che dai quadri del centrodestra emergano risorse del genere». È anche una questione di tempi. L’articolo 21 del rego lamento del Pnrr (approvato dal Parla mento italiano nel febbraio 2021), quello che parla di revisioni per circostanze stra ordinarie e oggettive «prevede che il go verno presenti alla commissione una ri chiesta ben articolata e motivata di modi fica del Pnrr, e già non ci vogliono due giorni», riprende Flick. «Le modifiche de vono essere motivate dall’impossibilità di realizzare in tutto o in parte il piano». La commissione acquisisce la richiesta e se la ritiene adeguata la presenta al Consiglio europeo entro due mesi. O forse più: «Se necessario - recita l’art. 21 - lo Stato inte ressato e la commissione possono conve nire di prorogare tale termine di un perio
L’AUMENTO DEI COSTI RIGUARDA TUTTA L’EUROPA. UN ADEGUAMENTO POTREBBE ESSERE NEGOZIATO, MA DOVREBBE ESSERE CONCORDATO E NON FRUTTO DI UNA DECISIONE UNILATERALE
Pannelli solari ad Agrate Brianzado di tempo ragionevole». Quando il Con siglio riceve finalmente la proposta, ha a sua volta un mese di tempo per pronun ciarsi. Dopodiché la modifica dovrebbe diventare esecutiva: se però ancora la commissione o lo Stato ritengono incon grua la decisione, hanno un altro mese di tempo per presentare appello. E si rico mincia. Inutile sottolineare, vista l’altissi ma discrezionalità che in ognuna di queste fasi hanno gli organismi comunitari, quan to siano essenziali il clima e la fiducia reci proca in cui si svolgeranno le trattative. Se ci si presenta con modi arroganti, le possi bilità che la procedura vada avanti si as sottigliano, se non altro per la crescente ostilità degli altri Paesi dell’Ue. Intanto i finanziamenti si fermano.
PARTITO
ITALIA IN PERICOLO
Aree edificate nelle zone a rischio di terremoti (a sinistra) e alluvioni (a destra): dal verde (sotto il 3 per cento) al giallo (57), arancione (7-9), rosso (9-15), granata (15-30) al nero (oltre il 30 per cento)
C’
è un partito in Italia che vince sempre le elezioni. Si presenta sotto diversi colori politici, quasi tut ti, esclusi il verde e il ros so vivo degli assessori urbanisti della Bologna di una volta, della primavera di Napoli dopo Mani Pulite, della Sardegna salva-coste. È il partito del ce mento. Un partito trasversale che domina da decenni il territorio nazionale, dalle grandi città alle coste di mari, fiumi e laghi, dai centri turistici alle periferie degradate. La sua forza, sotto tutti i governi, è misura ta dai numeri e tabelle che pubblichiamo in queste pagine. Sono dati oggettivi, non opi nioni: la quantità di terra, la superficie di suolo naturale, che ogni anno viene consu mata, sfruttata, ricoperta da una crosta ar tificiale di calcestruzzo e asfalto. L'Italia continua da più di mezzo secolo a essere cementificata a ritmi frene tici: in media spariscono ogni giorno 19 ettari di ver de. Più di due metri quadra ti al secondo. La specula zione edilizia non si è fer mata neppure quando il
LO SCEMPIO IN CIFRE
Percentuali di suolo consumato da cemento e asfalto: dal verde (sotto il 3 per cento) al giallo (5-7), arancione (7-9), rosso (9-15), granata (15-30) al nero (oltre il 30 per cento). In basso, gli ettari di verde cancellati in ogni regione dal 2006 al 2012 (linea arancione) e negli anni successivi fino al 2021 (blu). A sinistra, la cementificazione delle coste. (Dati Ispra).
Paolo Biondani Giornalista
Affari, politica e ambiente
Paese era bloccato per il Covid-19. E dal 2021 è ripresa alla grande, raggiungendo i livelli più alti dell'ultimo decennio: la crosta grigia è aumentata di oltre 69 chilometri quadrati in dodici mesi Questi dati, contenuti nel rapporto pub blicato nel luglio 2022 dal Sistema naziona le per la protezione dell'ambiente (Snpa), nascono dalla schedatura di migliaia di fo to aeree che documentano la progressiva cementificazione del nostro fragile territo rio. Sono le immagini del disastro di una nazione dove si costruisce ovunque, di soli to con tutti i permessi previsti da leggi e piani edilizi approvati dal partito trasversa le del cemento, ma contro ogni regola di buon senso. In Italia si fabbricano case e capannoni, strade e parcheggi anche nelle zone a più alto rischio di alluvioni, frane, terremoti, disastri ecologici. Anche a costo di rovinare le bellezze naturali, i patrimoni culturali, i paesaggi che rendono unico il nostro Paese. Un sacco edilizio senza fine, che ignora tante tragiche calamità già vis sute e i pericoli per il futuro, aggravati dal
CENTINAIA DI ETTARI DI NUOVI FABBRICATI, CAPANNONI, STRADE E PARCHEGGI ANCHE NELLE AREE A PIÙ ALTO RISCHIO DI ALLUVIONI, FRANE, TERREMOTI E DISASTRI ECOLOGICI
cambiamento climatico.
Nell'ultima campagna elettorale si è parla to poco di ambiente, nulla di consumo del suolo. Nell'Unione Europea, almeno finora, è diverso. Diversi atti della Ue imporrebbero anche all'Italia, che li ha firmati, di rallentare la cementificazione fino a bloccarla. Il suolo è un tesoro naturale, ha scritto e deliberato nel 2021 la Commissione di Bruxelles, che «deve essere tutelato e preservato per le ge nerazioni future», perché «è una risorsa li mitata: occorrono migliaia di anni per pro durre pochi centimetri di questo tappeto magico». Oltre a essere indispensabile per l'agricoltura, per garantirci cibo, legno e «ri serve di biodiversità», la Commissione evi denzia che le terre vergini «svolgono molte altre funzioni preziose, come la regolazione del clima, il disinquinamento dell'aria e
CASE A RISCHIO
Consumo di suolo in un’area «a pericolosità di frane» a Neviano degli Arduini (Parma): la foto aerea nel 2019 e a destra nel 2021
dell'acqua, il controllo dell’erosione, la difesa dai disastri idrogeologici». L'Europarlamen to ha quantificato i danni collegati al degra do dei suoli in «oltre 50 miliardi di euro all'anno». Eppure in Italia la cementificazio ne continua, anzi aumenta. Perfino dove è più pericoloso costruire.
Migliaia di case, fabbriche e centri com merciali sono stati edificati nelle zone a più alto rischio di alluvioni. I dati del rapporto, raccolti dall'Istituto nazionale per la prote zione e la ricerca ambientale (Ispra) e da tutte le Agenzie regionali (Arpa), mostrano che in Italia è stato «consumato», cioè ce mentato o asfaltato, il 6,4 per cento delle aree «a pericolosità idraulica molto eleva ta». E il 9,3 per cento di quelle «a pericolosi tà media». Con situazioni drammatiche. In Liguria risulta cementificato il 23 per cento dei terreni a massimo rischio di straripa mento di fiumi e torrenti. La minaccia di disastri idrici è diffusa anche in altre regio ni, dal Trentino al Veneto, dal Lazio alla Si cilia, dove è a rischio circa un decimo del suolo occupato da attività umane.
Il “dossier alluvioni 2022”, pubblicato dal Wwf mentre a Senigallia si contavano le vit time, sottolinea che il cambiamento clima tico, in Italia, sta aggravando i problemi
creati dalla cementificazione dei fiumi e dei terreni dove dovrebbero sfogarsi le piene. «Negli ultimi 50 anni circa duemila chilo metri quadrati di aree naturali di esonda zione hanno subito varie forme di urbaniz zazione», denuncia l'organizzazione ecolo gista: «Cemento e asfalto ostruiscono dal 3 al 25 per cento di tutte le sponde dei corsi d'acqua». Il rapporto Snpa-Ispra evidenzia che, nel 2021, sono diventati artificiali 361 ettari di «aree a elevata pericolosità idrauli ca» e altri 991 in zone «a rischio medio» di inondazioni.
Il boom edilizio si allarga anche ai terri tori minacciati dalle frane. Cemento e asfalto, oggi, occupano più del 4 per cento delle zone a rischio «elevato» o «molto ele vato» di smottamenti gravi. In Calabria si supera il dieci per cento, in Sicilia, Liguria e Umbria si arriva a quota 9. E il problema si sta aggravando: nel 2021 sono stati edificati altri 370 ettari di terreni franosi, di cui 78 a rischio «elevato» e altri 38 «molto elevato». Considerando anche le aree a pericolosità «media» o «moderata», oggi più di un deci mo del totale dei terreni edificati (oltre l'11 per cento) minaccia di franare sotto i piedi degli italiani.
La mappa dell'Italia, purtroppo, è segna
Prima
ta da vaste e popolose fasce di territori a rischio di terremoti. Ma anche qui ha vinto il partito del cemento. Nelle zone con «pe ricolosità sismica alta» o «molto alta» ri sultano edificati, in totale, ben 820 mila et tari di terreni. E nell'ultimo anno altri 24 milioni di metri quadrati di aree a massimo rischio di terremoti sono stati occupati da nuovi fabbricati, capannoni, strade e par cheggi, soprattutto in Campania, Calabria e Sicilia, seguite da Lombardia e Veneto.
Il consumo di suolo non risparmia nep pure i parchi nazionali, che in dodici mesi hanno perduto 75 ettari di suolo naturale, di cui 14 in Campania, 12 in Abruzzo, 11 nel Lazio. Il cemento avanza perfino nei siti na zionali più inquinati, con altri 82 ettari di suolo consumato, solo nel 2021, tra Porto Marghera, Sulcis e Casale Monferrato.
In Francia, Germania e altri Paesi euro pei ci sono leggi urbanistiche chiare e certe, che stabiliscono cosa e come si può costru ire, senza dover chiedere favori, e dove in vece non si può fare nulla, mai. In Italia in vece l'urbanistica è da sempre un gran ba zar delle licenze, piani regolatori e varianti, con regole che cambiano in ogni regione, provincia e comune, spesso insieme alle maggioranze politiche. Anche per questo, nelle statistiche giudiziarie, l'edilizia è il settore con i più alti tassi di corruzione e riciclaggio mafioso.
L'Espresso ha ottenuto dall'Ispra i dati completi degli ultimi 15 anni, divisi per re gioni, che permettono di valutare, indiret tamente, gli effetti sul territorio delle di verse maggioranze politiche. Nelle grandi città del Nord, in quasi tutta la riviera Adriatica dal Veneto alla Puglia, come da Napoli a Roma, mezzo secolo di boom ur banistico ha «saturato» il territorio, come scrivono i ricercatori. Ma in alcune di que ste aree il sacco edilizio prosegue. La Lom bardia è la regione italiana con più suolo artificiale (oltre 289 mila ettari, il 12,12 per cento), seguita da Veneto (11,90) e Campa nia (10,49). La stessa Lombardia ha consu mato più verde anche nel 2021, con 883 et tari, e precede Veneto (684), Emilia (658), Piemonte (630) e Puglia (499).
La provincia di Monza e Brianza ha il re cord nazionale di suolo artificiale: il 41 per cento del territorio, con un aumento di 40 ettari nell'ultimo biennio. Cemento e asfal to dominano anche le aree metropolita
ne di Napoli (35 per cento) e Milano (32). Nel 2021 è la provincia di Brescia che ha consumato più verde (307 ettari), seguita da quelle di Roma (216) e Napoli (204). L'E spresso nel 1955 pubblicò un'inchiesta sui «palazzinari» con un titolo storico: capita le corrotta, nazione infetta. Oggi la città metropolitana di Roma è la più cementifi cata d'Italia, con oltre 70 mila ettari di suo lo consumato.
Le coste sono le altre zone più colpite dalle speculazioni edilizie: in Italia è diven tato artificiale più di un quarto del territo rio a meno di 300 metri dal mare. In Liguria si raggiunge il 47 per cento, nelle Marche il 45, in Abruzzo, Emilia, Campania, Lazio, Puglia, Calabria e Sicilia si supera il 30. E l'attacco alle coste continua, nel 2021, so prattutto in Abruzzo e Marche.
Affari, politica e ambiente
FUOCO E ASFALTO
Foto aerea di una zona verde devastata da un incendio a Belvedere di Spinello, in Calabria, nel 2015. Dopo il rogo, il terreno non è più tornato naturale: come mostra l’immagine a destra, la stessa area è stata asfaltata e nel 2021 è occupata da un parcheggio (Foto estratte dal rapporto Snpa-Ispra 2022)
Dopo decenni di inerzia, nei mesi scorsi l'Italia si è impegnata con l'Unione Europea ad azzerare il consumo di suolo entro il 2030. I piani approvati dal governo Draghi (Pnrr e Transizione ecologica) prevedono il varo di una nuova legge urbanistica, con una regola base: basta cemento su terreni verdi, via libera solo alle ristrutturazioni. Anche per nuove opere d'interesse pubbli co, si dovrà azzerare il consumo netto di suolo, ripristinando altrettante aree natu rali. La riforma del febbraio scorso, che ha inserito la tutela dell'ambiente nella Costi tuzione, crea una cornice favorevole, come mai prima d'ora, a uno stop nazionale al sacco edilizio. Ora però resta da capire se l'agenda europea sarà confermata dalla nuova maggioranza di destra. O se invece vincerà ancora una volta il partito del ce mento, come nei governi di Silvio Berlusco ni, che legalizzò perfino gli abusi edilizi con i condoni del 1994 e del 2003. L'Ispra ha cal colato che, al ritmo attuale, in Italia spari ranno altri 570 chilometri quadrati di verde entro il 2030 e ben 1836 nel prossimo ven tennio. Possibile che a distruggere ciò che resta del territorio nazionale sia un partito che si chiama Fratelli d'Italia?
Un rom cammina tra i resti di una casa demolita in un sobborgo di Plovdiv in Bulgaria. In alto, un adolescente nel più grande deposito di rottami elettronici ad Accra, in Ghana
Prima Pagina
D
icono che i danni ambientali non facciano distinzione tra bianchi e neri, tra ricchi e poveri. E che se l’aria o l’acqua sono inqui nate, lo sono per tutti.
Probabilmente è vero. Ma non lo è del tutto.
Perché, statisticamente, le industrie e le discariche più inquinanti e pericolose, tendono a collocarsi in aree po polate da minoranze povere. E, in modo eguale e contra rio, le abitazioni vicine ai siti più inquinati e inquinanti, finiranno con l’essere abitate da persone che appartengo no a minoranze povere. Di come queste cose si intreccino e siano consequenziali l’una all’altra, si occupa una bran ca particolare dell’ambientalismo, che si chiama giustizia ambientale e che, a ben guardare, non ha niente a che fare con la tutela dell’ambiente. Ma con quella delle persone. Di giustizia ambientale, per esempio, si occupano gli atti visti della Cancer Alley, nello Stato americano della Loui siana: un tratto di 137 chilometri tra Baton Rouge e New Orleans, dove si concentrano circa 150 impianti e raffine rie petrolifere. Una quantità enorme, da cui proviene, tan to per farsi un’idea, il 25 per cento del to tale della produzione petrolchimica statu nitense. La popolazione della zona (circa 45 mila persone) è per lo più nera e, nel 16 per cento dei casi, vive al di sotto della so glia di povertà.
Oppure è il caso, celeberrimo, della città di Flint, in Michigan, che, sede della Gene ral Motors, fino agli anni ’80, è stata una delle città con la miglior qualità della vita d’America. Poi, quando l’auto è andata in crisi e l’incanto si è rotto, chi ha potuto (cioè le persone più benestanti) se n’è andato altrove, a studiare o a cerca re un altro lavoro: chi invece, per mille motivi non aveva la possibilità, i mezzi, o la forza di andarsene, è rimasto do v’era, in una città ogni giorno sempre più spopolata, deca dente e povera. Talmente povera da decidere, per rispar miare, di usare per le tubature della città l’acqua del fiu me locale. Che però conteneva livelli altissimi di piombo e che, in pochi anni, ha generato una delle peggiori emer genze ambientali d’America.
and Eastern Europe” di European Environment Bureau, ha censito alcune centinaia di luoghi malsani in cui vivo no le persone rom.
«In Romania circa la metà dei 621 mila rom vive vicino o direttamente nelle discariche. In Bulgaria l’89 per cento dei rom non ha accesso all’acqua; e in Macedonia sono stati segnalati diversi casi in cui i rom sono stati sgombe rati con la forza e trasferiti in aree industriali fortemente inquinate. Gli insediamenti rom sono spesso collocati vi cino a complessi minerari e industriali, ex basi militari e discariche. Inoltre, gli insediamenti rom fungono da de positi per gli scarichi di rifiuti altamente pericolosi prove nienti da città, industriali e minerari», scrivono i ricerca tori. Sempre lo stesso rapporto cita il fatto che «tra il 1999 e il 2013, le Nazioni Unite hanno ospitato circa 600 membri di famiglie rom, ashkali ed egiziane balcaniche, sfollati durante il conflitto in Kosovo, in campi costruiti su terreni tossici contaminati da piombo. I campi sono stati allestiti vicino al complesso industriale di Trepça, contenente una fonderia di piombo e tre bacini di raccol ta dei rifiuti. La struttura era nota per essere la fonte di
DAGLI USA ALL’AFRICA, DALL’EUROPA ALL’ASIA: SITI INQUINATI E DISCARICHE IN ZONE POPOLATE DA MINORANZE POVERE. È L’ALTRO RAZZISMO. E LE MALATTIE FIACCANO OGNI RESISTENZA
contaminazione da piombo e altre forme di inquinamen to tossico nell’area sin dagli anni ’70. Rapporti di avvele namento da piombo tra i residenti del campo erano dispo nibili già nel 1999 e nel 2000 sono state adottate misure protettive per prevenire l’esposizione al piombo per i sol dati di mantenimento della pace. Le misure preventive per i residenti rom non sono state prese fino al 2006. Si ri tiene che il piombo in sospensione abbia contribuito alla morte di diversi bambini e adulti».
Ma non serve andare fino in America per trovare legami piuttosto stretti e proporzionali tra povertà e inquina mento della zona in cui si vive. Basta pensare ai quartieri costruiti a ridosso delle zone industriali delle città come i Tamburi a Taranto oppure ai campi profughi e rom co struiti nelle periferie delle nostre città, tra scarti indu striali, acqui inquinate e copertoni. Il caso peggiore, al meno in Europa, è forse quello della maxi discarica-ba raccopoli di Pata Rat, in Romania, considerata la più grande d’Europa, dove vivono, da anni, ammassati tra i rifiuti, almeno 1.500 persone. Ma il caso di Pata Rat non è il solo. Anzi. Il rapporto “Pushed to the wastelands: Envi ronmental racism against Roma communities in Central
E se questa è la situazione nell’occidente di Stati Uniti e Europa, in Asia, in Africa e in America Latina le cose sono peggiorate dal fatto che, oltre al fortissimo inquinamento di acque, terreni e aria, dovuto per lo più alle attività di industrie occidentali si somma un costan te afflusso di rifiuti (specie elettronici) dall’Occidente. I rifiuti confluiscono (o so no confluiti per anni) in discariche enor mi, come quella di Agbogbloshie, un gi gante da 11 ettari ricoperti di rifiuti inqui nanti nel cuore di Accra, capitale del Gha na, a ridosso del quale sorge la baraccopoli di Old Fadama, dove abitano (per così dire) circa 40 mila rifugiati.
Luciana Grosso GiornalistaOgnuno di questi casi, preso singo larmente, rappresenta certamente una giustizia intollerabile ma non dà il quadro completo.
Per ottenerlo, il quadro completo, oc corre guardare dall’alto le mappe che so vrappongono la distribuzione delle fabbri che e delle discariche più inquinanti e in quinate con quella della popolazione. Se si sovrappongono, si nota che si ripete pres soché ovunque una condizione di sostan ziale e reciproca sovrapposizione tra mi seria ed emarginazione e insediamenti di siti inquinanti.
Clima / Il prezzo dei veleni
La
Sulla base di questa costante (e verosi milmente non casuale) sovrapposizione tra miseria e inquinamento e inquina mento e miseria è nato il concetto di “raz zismo ambientale”. Secondo la definizio ne che ne ha dato, nel 1982, ai tempi di una lotta per impedire l’insediamento di una discarica di rifiuti tossici a ridosso di una città povera e prevalente nera del North Carolina, l’attivista dei diritti civili Benjamin Chavis, il razzismo ambientale è una forma di razzismo sistemico, ossia una forma di razzismo silente ed implici to, non visibile nel suo manifestarsi, ma nei suoi effetti. In particolare, secondo Chavis, il razzismo ambientale si concre tizza nella «definizione delle politiche ambientali, l’applicazione di regolamenti e leggi, il deliberato targeting delle comu nità di colore per gli impianti di rifiuti tossici, l’approvazione ufficiale della pre senza pericolosa per la vita di veleni e in quinanti nelle nostre comunità e la storia dell’esclusione di persone di colore dalla leadership dei movimenti di ecologia».
di Accra. Sotto, il petrolchimico della Louisiana
LUNGO 137 CHILOMETRI TRA BATON ROUGE E NEW ORLEANS IN LOUISIANA, SI CONCENTRANO 150 IMPIANTI E RAFFINERIE PETROLIFERE. E LA POPOLAZIONE È PER LO PIÙ NERA
Opporsi a questa forma di razzismo è particolarmente difficile. Sia perché, per evidenti ragioni, più le comunità sono povere, meno sono aggregate e meno hanno capaci tà di fare pressione politica. Sia perché spesso, chi vive in aree inquinate, si ritrova ad affrontare problemi di salute (come tumori, asma, infezioni, debolezza cronica) che ne limitano di molto la resistenza, oltre che la volontà. Da ul timo perché la presenza delle minoranze povere, anche nei gruppi ambientalisti più sinceri e meglio intenzionati è estremamente limitata. Scrive New York Times che «sebbene le comunità nere sopportino le difficoltà spro porzionate della crisi ambientale, storicamente sono sta te escluse dal movimento ambientalista. Un sondaggio del 2018 condotto da Dorceta Taylor , professoressa pres so la School for Environment and Sustainability dell’Uni versità del Michigan, ha rilevato che i bianchi costituiva
no l’85 per cento del personale e l’80 per cento dei consigli di amministrazione di 2.057 organizzazioni non profit ambientali. L’anno scorso, un rapporto pubblicato da Gre en 2.0, una campagna di advocacy indipendente che esa mina l’intersezione tra questioni ambientali e razza, ha mostrato che le persone di colore costituivano solo il 20 per cento del personale di 40 organizzazioni non governa tive ambientaliste.
Così in questo quadro di paralisi che genera se stessa, e di indifferenza (più che di razzismo) sistemico, si innesta un altro (e relativamente nuovo) elemento, se possibile peggiore rispetto ai danni da inquinamento, ossia quello dei disastri ambientali. Uno studio condotto dalla Rice University e dall’Università di Pittsburgh, ha rilevato che, a parità di esposizione a disastri climatici, le contee bian che, dopo esserne state colpite, hanno sempre visto un aumento della ricchezza media; quelle a prevalenza afro americana o latina, invece no. E il giro ricomincia.
Politica e giustizia
L’OSTAGGIO
UN POLIZIOTTO CORTESE
DI ENRICO BELLAVIA
i può annientare un uomo tenendolo in vita? È sufficiente rovesciargli addosso un’accusa infa mante. Basta contraddire con un tratto di penna un’intera esistenza. Lasciare che lo spettro di una carriera finita, bollata con marchio di ignominia offuschi meriti e successi e agiti giorni e notti. Ba sta il confino in un limbo indefinito a sprecare le proprie ore.
Questa è la storia di un cacciatore diventato preda. Il ca pro espiatorio di una ir-ragion di Stato. È la storia del miglior poliziotto italiano passato per il calvario di una condanna per sequestro di persona. Reo di un crimine aberrante: «Lesa umanità mediante deportazione».
Un’enormità punita con cinque anni di carcere, tanto quanto basta a precludere il ritorno in attività. Ma è soprat tutto la storia esemplare di un testacoda politico-giudizia rio nel quale la gogna non è il mezzo ma il fine ultimo. La cronaca di un’impostura. La partitura di un teorema basato sul nulla. O quantomeno su nulla che sia stato dimostrato. L’ordito di una trama che restituisce un sacrificio, per giun ta inutile.
Questa è la storia di Renato Cortese, calabrese, classe 1964, entrato in polizia da funzionario nel 1991 e diventato dirigente generale dopo cinque lustri in prima linea. Capo della Catturandi della gloriosa Squadra mobile di Palermo, anima del gruppo Duomo che ha arrestato il superboss Ber
nardo Provenzano, alla guida della Mobile di Reggio Cala bria e di Roma, al vertice del Servizio centrale operativo, quindi questore a Palermo. E chissà cos’altro gli avrebbe ri servato il futuro: forse capo della Dia, la Direzione investiga tiva antimafia, trampolino di lancio, probabilmente, per l’empireo del Viminale.
Curriculum invidiabile e invidiato, titoli in abbondanza per puntare legittimamente ancora in alto. Lungo un percor so, certo, più accidentato della strada. Tra quei corridoi mi nisteriali dove i sussurri sono più minacciosi delle urla, la moquette più infida dell’asfalto e le ragioni di opportunità più subdole di un agguato. (…)
Il 21 ottobre 2020 Renato Cortese lascia Palermo «con il cuore spezzato», come scrive in una lettera aperta alla città che questo calabrese di Santa Severina sente come sua. (…) Poche ore prima, quella che era una carriera lanciata al massimo si è infranta sull’incredi bile sentenza del Tribunale di Perugia che ha ritoccato al raddoppio le pur dure richieste, 2 anni e 4 mesi, dell’accusa. E invece sono cinque anni per sequestro di persona, la macchia di una presunta macchinazione ri soltasi con una extraordinary rendition. Cin que anni che valgono l’interdizione dai pub blici uffici e lo spettro del carcere. (…)
Enrico Bellavia GiornalistaAnticipiamo
qui brani de “L’ostaggio” di Enrico Bellavia (Zolfo editore, 248 pagine, 17 euro), sul caso Alma Shalabayeva (a sinistra). Il processo ha assolto Renato Cortese (in alto), condannato in primo grado a 5 anni per sequestro di persona. Il 4 ottobre il superpoliziotto riceverà la cittadinanza onoraria di Palermo
Casal Palocco, Roma, martedì 28 maggio 2013, ore 24. Ven tisei agenti, un nucleo congiunto formato da poliziotti della Squadra mobile diretta da Renato Cortese e della Digos, di retta da Lamberto Giannini, futuro capo della polizia, entra nel parco di una villa elegante alla periferia Sud di Roma. Quartiere residenziale per l’alta borghesia, verde, abitazioni più che confortevoli, riparate oltre la cortina di muri e alberi, lascito dell’esercizio di stile della pianificazione razionalista, è oggi la naturale estensione della città che tende verso il ma re e si ritrova in pineta.
Lì abita Alma Shalabayeva (si pronuncia con l’accento sul la terza a: Shalabàyeva), nata in Kazakistan nel 1966. Nessu no la conosce però con il suo vero nome. Per tutti è Alma Ayan, nata in Centrafrica nello stesso anno. E così si presenta ai poliziotti, esibendo un passaporto dell’ex colonia france se, teatro delle crudeltà dell’autoproclamatosi imperatore Bokassa diventata un’incerta Repubblica, esposta ai venti cangianti delle pulsioni popolari e militari e al centro di un intenso traffico di documenti falsi. (…) La notte dell’irruzio ne a Casal Palocco i poliziotti però non sono interessati ad Alma Ayan e alle sue bugie. Cercano un latitante. Risponde al nome di Mukhtar Ablyazov, classe 1963. È un oligarca kaza ko, banchiere e sedicente oppositore del regime filorusso di Nursultan Nazarbaev, passato tempo dopo, nel 2019, nelle mani del delfino, il presidente Qasym-Jomart Tokayev, che
dopo un po’ ha rotto con il suo padrino, estromettendolo nel 2022 da presidente del Consiglio di sicurezza. (…)
Alma, dunque, non ha alcun titolo valido per rimanere in Italia. E poiché i kazaki di cono che è una loro cittadina, è lì che deve tornare. (…) Quando il carrello dell’aereo si stacca da terra, Renato Cortese non può sa pere ancora che un pezzo della sua vita se ne va via verso un Paese del quale sapeva molto poco. Da quel momento sarà lui l’o staggio. Incatenato a una storia surreale. Da poliziotto impavido diventerà un codardo che non ha esitato a sbarazzarsi di una po vera donna e della figlia per compiacenza verso i kazaki. (…)
Perugia, 9 giugno 2022, 20.17. «Assolti per ché il fatto non sussiste». Il silenzio è rotto da un brusio che si fa ovazione, dall’abbrac cio e dal pianto che è gioia. Scaccia dieci ore di tensione, due anni di purgatorio e nove di scartoffie e amarezze. Dissolve le ombre e li bera da un peso.
Il fatto non sussiste. Non c’è nulla, non c’è mai stato. E neppure questo processo d’Ap pello avrebbe dovuto esistere. Se non ci fosse stato quell’altro, il primo grado, nato da un’inchiesta che ha puntato sui poliziotti, sperando di dimostrare che avessero obbe dito a ordini infami, rendendosi complici di un crimine odioso. E invece? Funzionari e agenti hanno agi to secondo la legge, nessuna violazione, nessuna compia cenza, nessuna sudditanza a despoti stranieri.
Alma Shalabayeva ha mentito sulla sua identità e esibito un passaporto falso, poi ha amministrato con sapienza e astuzia il ritorno di immagine che ne è derivato. Con un gior no al Cie è riuscita nell’intento di smacchiare la biografia uf ficiale del marito. L’immagine di dissidente di Mukhtar Ablyazov è una sagoma che è servita a distrarre dalle vere ragioni che l’avevano indotto a fuggire dal Kazakistan: il te soro portato via da un Paese, il suo, ricco di materie prime da cui discendono fortune in mano a pochi. Un malloppo ora ben al sicuro nei paradisi fiscali.
Chi è stato tenuto in ostaggio in questa storia sono solo gli imputati, spinti giù nel girone dell’assurdo, lungo la rupe su cui rotolano le macerie del nostro sistema giudiziario, della politica e di certa informazione.
La giustizia, in questo caso, con la lentezza che le è pro pria, ha riparato all’errore, il che non cancella il danno pro dotto. Anzi, lo fa risaltare. Difficilmente, politica e informa zione faranno altrettanto. Confideranno sulla memoria labi le di un Paese che metabolizza tutto in fretta. Invece bisogna dire e ripetere che tutto questo è accaduto davvero. E non si può dimenticare. Non si deve.
Un patto spezzato
Il rapporto tra l’uomo e la natura è una storia d’amore in crisi. Riscopriamo l’eros, dice il filosofo di “Metamorfosi”: il pianeta è nostro compagno di vita
di Emanuele Coccia illustrazione di Valeria Suria
Ecologia
C’
è un’antica fiaba euro pea che, nella sua ver sione più conosciuta, è apparsa nella famosa raccolta di fiabe euro pee dei fratelli Grimm. Racconta la storia del rapporto tra una prin cipessa e un rospo: la principessa gioca e perde la sua palla d’oro in un pozzo. Un rospo la vede piangere e si offre di recuperare la palla in cambio della sua amicizia e della promessa di condivide re cibo e sonno: in breve, le chiede di spo sarsi in cambio del suo servizio. La princi pessa accetta perché pensa che il rospo non verrà mai a reclamare ciò che ha chiesto. Ma il giorno dopo l’animale lo fa e la bambi na ha paura. Il rospo continua a chiedere di consumare il rapporto: mangiare e dormire con la principessa. Dopo alcuni fermi rifiu ti, la principessa accetta, poiché il padre la costringe a mantenere la promessa minac ciando di punirla. È a questo punto che il rospo si trasforma in un principe e si scopre
Sopra: orso polare in Norvegia, Sabinebukta Bay. Sotto: Lake Elsinore, in California
che il motivo del suo aspetto animale è un incantesimo lanciato da una strega cattiva.
Sono state fornite infinite spiegazioni so ciali e psicoanalitiche per questo racconto. È stato giustamente visto come una giustifica zione ideologica per l’assoggettamento delle donne alla logica del patriarcato. Ciò che è interessante, tuttavia, è la logica che sta alla base dello scambio iniziale. Quando la prin cipessa perde la sua palla d’oro nel pozzo, il rospo confessa che tutto ciò che desidera non è né la ricchezza né il potere: vuole inve ce essere l’amico della principessa, il suo compagno di giochi, “sedersi con lei al suo tavolino, mangiare dal suo piattino d’oro, bere dal suo bicchiere a stelo, dormire nel suo lettino”. È questa la promessa di amore e intimità che lo spinge. La principessa accet ta per l’impossibilità di pensare alla realtà di questo desiderio d’amore: «Cosa va blate
rando questo stupido rospo, che sta nell’ac qua a gracidare coi suoi simili, e non può es sere il compagno di una creatura umana». Sarebbe difficile trovare un mito che riflet ta più accuratamente il nostro rapporto con il pianeta e, in generale, il tipo di relazione perversa che abbiamo con tutte le altre spe cie viventi. Abbiamo giocato a lungo, abbia mo scherzato, il pianeta-rospo si è offerto di darci una mano: in cambio vuole diventare il nostro compagno di vita. La principessa-u manità non lo vuole. Ha paura. È impossibile pensare all’amore tra un essere umano e un’altra specie. Possiamo pensarlo solo dopo aver considerato l’identità dell’altra specie come una forma di maledizione da cui dob biamo liberarla per poter trovare il nostro volto nel suo volto, per poter sperimentare una relazione d’amore intraspecifica. Le fia be tradizionali sono piene di questo tipo di
Per salvare l’ambiente bisogna abbandonare la retorica penitenziale, moralizzante, punitiva. E concentrarsi su come erotizzare questa relazione
UNITÀ DEL VIVENTE
morale sull’impossibilità di amare l’altra spe cie, che si conclude con una sorta di ingiun zione all’incesto intraspecie. Possiamo ama re solo all’interno della famiglia, quando condividiamo gli stessi geni.
D’altra parte, l’altro punto interessante è che l’amore e l’incesto diventano possibili solo attraverso la mediazione di un’autorità paterna: c’è un super-io punitivo, a cui biso gna obbedire, che costringe la principessa ad accettare il suo destino erotico. Anche in questo caso, è difficile trovare una descrizio ne più perfetta dell’ecologia contempora nea: possiamo amare il pianeta solo attra verso l’ingiunzione di un super-io e di una punizione. Possiamo amare il pianeta o le sue specie non perché ce ne siamo innamo rati, ma per spirito di penitenza. Mi sembra che la morale di questa storia oggi sia molto semplice: il problema ecologico è un proble
La vita riconducibile a un principio unitario, a una totalità di cui ogni cosa è compartecipe: è l’idea che il filosofo Emanuele Coccia ha esposto nel corso della rassegna “Fuoriclassico”, fino al 2 ottobre al Museo archeologico di Napoli. Intitolata “La natura e l’artificio”, la manifestazione ha riflettuto, attraverso voci di scrittori e scienziati, sui concetti di naturale e artificiale. Un’iniziativa prodotta dal Mann con l’associazione “A voce alta” e curata da Gennaro Carillo.
ma erotico. Abbiamo un problema - fisico ma soprattutto speculativo - che ci impedi sce di amare il pianeta e tutte le sue speciedi accettare la loro proposta di matrimonio. Il pianeta voleva giocare con noi, ci ha fatto una proposta e noi l’abbiamo respinto. Sia mo disposti ad amarlo solo se si trasforma in principe azzurro. Può sembrare un po’ inge nuo, ma è l’amore che genererà un nuovo rapporto con il pianeta. E un’erotica plane taria deve sostituire l’ecologia. Se vogliamo, la crisi ecologica che stiamo vivendo dovreb be essere letta come una relazione erotica e sentimentale in crisi. Certo, non c’è niente di più faticoso dello sforzo per far esistere un amore. Ma non c’è niente di più piacevole. L’ecologia deve abbandonare la sua retorica penitenziale, moralizzante e punitiva (“Ave te distrutto il vostro pianeta, lo avete ucci so”) e la sua libido di castrazione (“Rinunce rete a tutti i piaceri che avete creato”) per concentrarsi su come erotizzare le relazioni interspecifiche. Non è molto difficile: si trat ta fondamentalmente di trattare tutte le specie come trattiamo i nostri cani. E soprat tutto il contrario: lasciarci trattare come ca ni, come animali domestici, da ogni altra specie sulla Terra.
Cuori selvaggi
Galline, faine, cavalli. Sono i protagonisti di molti libri recenti. Che ci interrogano: che cosa è animale? E cosa è umano?
di Gaia ManziniStava sondando le profondità del la sua natura, in zone più antiche di lui, indietro nel ventre del Tempo. Era dominato dal genui no insorgere della vita, dalla ma rea dell’essere, dalla perfetta esultanza di ogni singolo muscolo, nervo e tendine perché in essi tutto smentiva la mor te, ardente ed esuberante com’era, e tutto si esprimeva nel movimento, volando con eu foria sotto le stelle e sulla faccia della materia morta e immobile...». Mentre sta guidando il branco di lupi, Buck– il cane protagonista del “Richiamo della foresta”, romanzo in realtà autobiografico di Jack London: uno tra i per sonaggi più belli della letteratura – prova d’un tratto l’estasi della vita. Ma l’estasi della vita è sempre un paradosso: è qualcosa che si prova solo quando dimentichiamo di essere vivi. È un retaggio primordiale che si risve glia, ma è anche la matrice profonda dell’esi stenza. La vita stessa nella sua essenza è sel vaggia. È animale. E gli animali ritornano nella letteratura degli ultimi anni ad abita re le pagine dei romanzi. Bernardo Zannoni, che ha appena vinto il premio Campiello con “I miei stupidi inten ti” (Sellerio), mette al centro della sua storia una faina zoppa che si chiama Archy. La sua
è una storia di formazione che parte da una considerazione capitale. Davanti al fratello Leroy che vorrebbe mangiarsi Otis (il più piccolo e più debole della cucciolata), Ar chy si rende conto che Leroy è più animale di lui. È la percezione di un’orribile differen za, un’agnizione che porta con sé angoscia. Come diceva Borges, tutte gli animali sono immortali, perché ignorano la morte. Non è il caso del nostro protagonista. Archy fa amicizia con le galline, a una dà persino il nome, la chiama Sara, e intanto si continua a chiedere cosa renda il fratello Leroy più forte di lui. Quando verrà venduto dalla madre a Solomon, la volpe usuraia che gli insegnerà a leggere e a scrivere a partire dalle Sacre Scritture, la formazione di Ar chy vivrà un momento decisivo: scoprire la morte, scoprire il tempo, venire a patti con il senso elegiaco della vita. Scoprire Dio. La forza di questa storia sta nel fatto che la tra sformazione della faina in un essere co sciente non è mai completamente irrever sibile. Un giorno, lottando per arrivare al cospetto di un cinghiale, Archy si rende conto di non essere così sereno dalla volta in cui era riuscito a uccidere una preda. In quel momento si sente senza dubbi, senza domande - il presente è ritornato a essere il
suo mondo per qualche attimo. Fuori dal presente non c’è nulla: in quel momento è un animale, è tornato a essere felice. Come felice è quando incontra Anja, anima ge mella – i loro istinti “si incastrano alla per fezione, ballano la stessa danza”: è il mira colo dell’amore, quando il tempo si fa pic colo e il mondo si nasconde, gli amanti si perdono l’uno nell’altra. La vita è tutta lì: in un’alternanza tra il senso della perdita e il ritorno dentro l’hic et nunc, il ritorno nel cuore selvaggio, nel retaggio atavico della nostra animalità. Scrivere di animali è in fondo un’operazione nostalgica. Un modo per tornare alle questioni radicali, ponen dosi a un’ironica distanza.
Su questo confine ambiguo si era già mosso Carlo D’Amicis in “Quando eravamo prede” (minimum fax, 2014). I protagonisti del suo romanzo si chiamano Alce, Agnello, Farfalla, Toro, Leone…; sono cacciatori, in dossano le pelli degli animali che predano e vivono in un luogo indefinito che potrebbe essere un’ambientazione preistorica o an che post apocalittica. Il Cerchio, luogo bo schivo dove si svolge la vicenda, evoca di continuo qualcosa che appartiene a ognu no di noi: il rapporto tra umanità e animali tà, tra civiltà e natura. Chi sono davvero i
BOSCHI E POLLAI
protagonisti di questo libro? Hanno sem bianze umane, sono una comunità appa rentemente antropomorfa, ma nel corso del romanzo suscitano in chi legge molti dubbi. Si tratta di uomini o di animali? E poi: che cos’è naturale, che cos’è umano? Anche in questa storia compare a un certo punto una Bibbia - il linguaggio che diventa Verbo. La stessa religione è luogo di ambi guità: pensare alla trascendenza è un’esi genza istintiva o appartiene a un’elabora zione intellettuale?
È come se gli animali fossero depositari di una verità che continua a sfuggirci e che for se non abbiamo voglia di guardare in faccia. Sicuramente depositario di tutte le verità che sfuggono a Zerocalcare è l’Armadillo (doppiato nella serie “Strappare lungo i bor di” da Valerio Mastrandrea). L’Armadillo che detta a Zero messaggi whatsapp ambigui: che non lo fanno esporre, lo tengono in una confort zone da cui si possono negare le pro prie vere intenzioni con la ragazza dei sogni. L’Armadillo che invita alla calma, tanto «se qualcosa deve succedere, succede comun que»; l’Armadillo che è la coscienza iper vigi le, puntigliosa, nevrotica: che beve caffè al buio e aspetta il ritorno del suo eroe solo per rimproverarlo di schivare la vita. E che, co me un Grillo Parlante, non ha alcuna nostal gia dell’istinto; anzi, odia l’istinto così come le ipocrisie; è incarnazione armadillica del super io. E per questo, divertente come nes sun altro animale antropomorfo.
“I miei stupidi intenti”, romanzo d’esordio di Bernardo Zannoni, edito da Sellerio (pp. 252, € 16), vincitore della sessantesima edizione del Premio Campiello. Sotto: “Quattro galline” di Jackie Polzin (Einaudi. Stile libero, pp. 200, € 17, trad. Letizia Sacchini). E “Animalia. Piccolo atlante letterario delle creature animali” (Bur, pp. 539, pp. 16,50) antologia di autori vari tra i quali Camilleri, Cognetti, Lagioia, Maraini.
Più umano degli umani è BoJack Horse man, il protagonista della serie Netflix (l’ul tima stagione è del 2020). “BoJack” è una serie di animazione per adulti che riesce a toccare senza retorica, attraverso la dimen sione animale del suo protagonista, il tema delicatissimo della malattia mentale. Il ca vallo BoJack, ex star di successo di una si tcom anni Novanta, è in preda alla depres sione, vittima di un circolo autodistruttivo. Ma non è l’unico: tutti possiamo ammalar ci, tutti possiamo essere colti dall’ansia, tut ti possono sentirsi terribili, tutti hanno paura di essere nocivi per gli altri. La malat tia mentale viaggia nella stanza attigua alla vita quotidiana di ognuno di noi e ha sfac cettature complesse e prismatiche. BoJack racconta la vita come una marea, un viag gio difficile che porta dallo stare male allo stare bene. La lotta continua per essere feli ci è lotta esclusivamente umana, ma at
traverso il corpo di un cavallo antropo morfo è più facile da dire, forse più para dossalmente accettabile.
Dagli animali antropomorfi agli animali nei quali ci specchiamo. Nel 2017 è uscita una raccolta di racconti di Megan M. Berg man: “Paradisi minori” (NN editore). Da un lato il mondo di Darwin, della lotta per l’esi stenza, così netto e preciso; crudele sì, ma senza sbavature. Dall’altro, quello degli uo mini: così mosso, aggrovigliato e confuso. E allora una consolazione possibile sta proprio nella zona grigia dove uno sconfina nell’altro. Un pappagallo che parla con la voce della madre persa per sempre; l’uomo della pro pria vita: un picchio dal becco avorio, anima le mitico che non ha mai visto nessuno; un lemure così simile a un figlio da ricordarci che siamo state capaci di essere madri…
Clarice Lispector, la grande autrice ucraina naturalizzata brasiliana, in un suo racconto – “Una gallina”, originalmente pubblicato in “Alguns contos” (1952) – parla di un pollo che per lo spavento di essere inseguito fa un uovo. La gallina come essere misterioso, “né amabi
Avventura nell’anno della Tigre
La solitudine del piccolo Balmani è quella di chi ha già perso tutto a dodici anni diventando adulto in fretta. È rimasto senza famiglia e senza casa dopo il terremoto in Nepal del 2015 e fugge dall’orfanotrofio, incapace di accettare il vuoto lasciato da un affetto che non esiste più. A colmarlo sarà l’incontro con un cucciolo di tigre, da lui ribattezzata Mukti, animale selvaggio e docile al tempo stesso, compagno di un viaggio rivelatore attraverso la giungla subtropicale, le luci di Kathmandu e i ghiacci dell’Himalaya.
È una storia di fantasia, la sua, interpretata dal giovane Sunny Pawar e ricostruita dal documentarista Brando Quilici nel film “Il ragazzo e la tigre”. Due visioni del cinema si incontrano ancora una volta dopo il precedente “Il mio amico Nanuk” (2014), fondendo la narrazione e l’esplorazione del reale in un genere ibrido, che mentre racconta riesce a insegnare. «Parlare oggi ai giovani è un grandissimo privilegio, per questo il film è rivolto ai ragazzi dai 6 ai 13 anni. È quella l’età in cui ci si innamora di una storia e la si ricorda per tutta la vita. Quando sei molto giovane e non hai prestabilito il cammino che vuoi fare, sei ancora una lavagna da disegnare e il cinema rappresenta lo strumento migliore per farlo, per sognare», afferma il regista. “Il ragazzo e la tigre” entra così da subito in un progetto di educazione ambientale attraverso il grande
le, né scontrosa, né allegra né triste, non era nulla, era una gallina”. Una gallina che pro prio per questa sua intrinseca modestia di venta la regina della casa.
Gli animali da pollaio sono al centro anche del romanzo “Quattro galline” di Jackie Pol zin, uscito per Stile Libero. La storia di una coppia, Helen e Percey, l’attesa di un trasferi mento, una vita ripetitiva e questa ossessione per le loro quattro galline, primi animali do mestici entrati in casa. Gloria, Gam Gam, Te stanera, Miss Hennepin County: galline quasi filosofiche da cui prendere ispirazione. Galli ne la cui morte è sempre improvvisa, e senza sofferenza per chi le circonda. Galline che ve dono solo ciò che percepiscono con gli occhi e per il resto hanno una vita piena di magia, a cominciare dal loro prodotto stupefacente: l’uovo. Galline che sono connesse al mistero perfetto della nascita, ma con la grazia dell’inconsapevolezza: quella che mai potrà avere la protagonista davanti alla sua mater nità mancata, abortita, non replicabile. Il ro manzo racconta una vita drammatica, ma senza clamore, spiata dal punto di vista delle
galline. “L’universo delle galline ha minaccia to di collassare nello stesso modo infinite vol te, però loro non se lo ricordano. Una gallina vive ciascun momento una sola e unica vol ta”. Non conosce il tormento dei ricordi né tantomeno quello della coscienza. È invinci bile.
Gli animali sono tornati, verrebbe da di re: diventano metafore, strumenti letterari. Che siano antropomorfi o presenze nella quotidianità dei protagonisti, rappresenta no un filtro innocente e purissimo per guar dare alla vita degli uomini. Sono il punto di vista privilegiato per recuperare la pietas nei confronti della nostra ordinarietà.
A sinistra: due immagini dal film “Il ragazzo e la tigre” di Brando Quilici
È un retaggio primordiale che si risveglia. Scrivere di animali è un modo per tornare alle questioni radicali dell’esistenza. Con ironia
schermo, supportato dalla campagna Wwf Save the Tigers Now, con l’obiettivo di duplicare il numero di questi esemplari felini, rimasti in poco meno di quattromila, entro il 2022.
Centrale perciò nel film è il rapporto simbiotico che si crea fra Balmani, Mukti e il bisogno di salvare qualcosa di prezioso e minacciato. «Il messaggio ambientalista è una conseguenza. Non è mai presente nei dialoghi, per esempio. Si vede e te lo ricordi. Affiora quasi come una reazione automatica». Importante è che quei ragazzi e quelle ragazze ai quali il film è destinato - e che non sono gli stessi che già militano tra movimenti come Fridays for Future, ma che ancora non sanno come avvicinarsi alla causa - abbiano modo di appropriarsene, di informarsi e di imparare. Anche per questo “Il ragazzo e la tigre” debutta per le classi scolastiche ospiti di Alice nella città, sezione indipendente della Festa del cinema di Roma (13-23 ottobre 2022), poco prima di uscire in sala.
La visione di Quilici rientra nel contesto pedagogico più ampio dell’apprendimento attraverso le immagini, lentamente inserito nell’offerta scolastica dopo la legge 107 del 2015 attraverso la formazione dei docenti o l’apertura di bandi per progetti esterni. Uno per tutti, “Scelte di classe”, portato avanti proprio da Alice nella città e in partenza anche in questo anno scolastico con
proiezioni e incontri fra alunni e professionisti del cinema. Si tratta di progetti fondamentali per trattenere la fascia di spettatori dai 6 ai 13 anni, soprattutto dopo che la pandemia ha fatto crollare la loro presenza in sala dal 67 al 9 per cento (secondo gli ultimi dati Istat relativi a 2020-21): un film come “Il ragazzo e la tigre” prova a farlo attraverso un’estetica mista, in equilibrio fra cinema del reale e racconto. «Ho avuto la fortuna di lavorare con uno sceneggiatore premio Oscar, Hugh Hudson, ma da documentarista sentivo il bisogno di uno storyboard per mettere insieme tutte le mie visioni. Ho portato con me anche l’operatore con cui lavoro da vent’anni, Doug Allan, esperto di wildlife, che è riuscito a catturare tutte le espressioni della tigre e il suo rapporto con il bambino». Il risultato è un film che esplora il contesto attorno a sé con lo stesso sguardo di Balmani, paziente e fiducioso, rispettoso di un mondo selvaggio che rimane sempre tale, a una distanza minima ma sensibile, indisturbata dalla presenza umana. I bambini imparano insieme al protagonista i concetti più semplici e i significati di parole nuove. Osservando scoprono che in Nepal la giungla convive con i ghiacci e che nel viaggio dall’una agli altri si cambia, si cresce e si fa tesoro di ciò che ha arricchito la propria strada.
Resa dei conti
con utopia
La riflessione sulla sconfitta di una generazione. L’abisso della guerra. La mancanza di buon senso. Krystian Lupa riparte da “Imagine”, il suo spettacolo ispirato alla canzone di Lennon
di Wlodek GoldkornA lato: una scena dello spettacolo teatrale “Imagine”, in programma il 15 e 16 ottobre (ore 15,00) al Teatro Storchi, a Modena, per Vie Festival. In alto: il regista teatrale polacco Krystian Lupa, 78 anni
K
rystian Lupa è uno dei maestri e riferimento di registi e attori di te atro del mondo intero e ora sarà in Italia, a Modena con un nuovo spettacolo “Imagine”, ispirato in ap parenza alla figura di John Lennon, in realtà una resa dei conti con le utopie del non lontano passato e una rifles sione (non disperata) sulla sconfitta di una generazione che voleva abolire frontiere, divinità celesti e forse gli stessi limiti degli umani. Non è la pri ma volta che il 78enne regista – che ha pure messo in scena testi di autori co me Musil, Dostoevskij, Rilke - gioca con icone pop. Memorabile il suo “Persona”, uno spettacolo su Marilyn Monroe così come il recente “Capri. L’isola dei fuggitivi”, ambientato nella villa di Curzio Malaparte , fra richiami a registi come Jean-Luc Godard e scrittori come Axel Munthe e al testo di “Kaputt”.
«“Imagine”, spiega il regista – e in tende la canzone di Lennon e non il ti tolo dello spettacolo - non è solo un inno di una generazione ormai invec chiata ma anche un simbolo della ca pacità di immaginare un mondo di valori diversi da quelli dominanti». Lupa nei primi anni Settanta era un hippie, aveva frequentato e fondato comuni non dissimili da quelle che esistevano nel resto dell’Occidente. E oggi? «Sono tornati i pericoli e i fanta smi di un passato che credevamo tra montato», risponde, «continuiamo a
disperdere il 90 per cento delle nostre energie nell’odio reciproco e nei con flitti fra popoli e nazioni. Forse noi umani non siamo ancora maturi per vivere in una vera democrazia, una de mocrazia globale, universale».
Alla questione della democrazia tor nerà. Intanto, non attende le domande in questa conversazione su Zoom, par la fitto fitto, come se avesse urgenza di trasmettere messaggi e sensazioni, e non sorride quasi mai. Racconta la genesi dello spettacolo: «Con i miei attori cercavamo di inserire nel testo – che parla di un gruppo di persone che riflettono su cosa sia andato stor to rispetto alle loro utopie degli anni Settanta - dei riferimenti all’attualità, alla situazione dei migranti al confine fra Polonia e Bielorussa, ai muri eretti in Europa. Ma ecco che Putin aggredì l’Ucraina. Eravamo sconvolti. Abbia mo pensato che non era possibile par lare dell’immaginazione al potere, dell’umanità nuova, di Lennon, senza un riferimento alla guerra». Come? «Affrontando la postura universale da maschio cavaliere della violenza». Sulla questione di genere e identità sessuale Lupa ha lavorato molto, an che per ragioni personali. Il regista è stato fra i primi nel suo Paese, la Polo nia (non proprio gay friendly) a di chiarare di essere gay. Prosegue: «Fi no a poco fa, nonostante tutto, abbia mo sperato che l’uomo fosse arrivato a uno stadio di sviluppo tale per cui uccidere un altro uomo fosse qualco sa di inaudito. Ma ecco che succe
Teatro come resistenza
de, in Ucraina, che degli uomini si ano obbligati a combattere e uccide re. Se fossi ucraino, probabilmente lo farei pure io, difenderei il mio Paese». Tace, e poi: «Ecco, la guerra ci ha ri portato in una situazione di smarri mento, difficilissima da comprende re e accettare. Ma dobbiamo stare con l’Ucraina, con chi è stato brutalmente aggredito. Ripeto: con i miei attori, abbiamo deciso che Putin, comunque dovesse entrare direttamente nel no stro spettacolo. Ma non dico di più, non faccio lo spoiler».
Si passa a parlare del modo in cui Lupa attraverso la sua narrazione crea i miti. Il regista interrompe: «I miti so no più forti della nostra coscienza. Crearli al teatro è il mio mestiere». Però pure la letteratura e in genere l’ar te creano miti. E il suo teatro è consi derato in Polonia come una forma di
resistenza contro l’omofobia, la xeno fobia, il nazionalismo. E allora la do manda è semplice: è il potere attuale a Varsavia a cercare lo scontro perché si sente minacciato, oppure ogni mito artistico è una forma di sovversione? Lupa cita Sartre: «Il filosofo disse che l’errore del potere è pensare di pagare gli artisti e comprarli, ma gli artisti, quelli veri, per natura sono dalla parte opposta». Obiezione. La storia è piena di esempi di artisti e letterati cantori delle peggiori dittature e dei più cor rotti poteri. Risposta: «Un artista vero cerca di cambiare lo stato di cose esi stente ma talvolta lo fa in un modo di cui non è conscio». E comunque quel lo che interessa al nostro interlocuto re non è tanto il rapporto fra potere e artista ma il teatro come fatto colletti vo con risvolti spirituali, Dice: «L’opera teatrale nasce dal desiderio delle per
sone di stare insieme e non è mai crea zione di un genio solitario». Riflette: «Forse noi teatranti siamo soltanto dei medium che intercettano i miti che vengono dal cielo. Ma se è vera questa mia ipotesi, il richiamo al sacro non deve essere intenzionale. L’eccesso dell’intenzionalità rende l’opera brut ta e noiosa».
Così quella che è cominciata come un’intervista su uno spettacolo e su te atro diventa una conversazione sulle cose fondamentali, il Bene e il Male e sulle nostre capacità di comprendere il mondo. Dice: «È venuto a mancare il buon senso, il sano buon senso», ripete, «C’è troppa irrazionalità». Prosegue: «Ma la mancanza di buon senso è stata nel passato la causa delle catastrofi: dal fascismo al comunismo realizzato». E poi, all’improvviso: «Però, non tutte le idee compromesse a causa di goffi ten
Sopra e sotto: due scene dello spettacolo teatrale “Imagine”. A lato: John Lennon e Yoko Ono. Nell’altra pagina: il tenore slovacco Pavol Breslik in scena per “Il flauto magico” di Mozart diretto da Lupatativi di ingegneria sociale sono da ri gettare e dimenticare. Forse abbiamo buttato via il bambino con l’acqua spor ca. E per quanto possano essere buoni e diventare sempre migliori gli strumenti della nostra democrazia non possiamo dire che questa sia la forma definitiva dei rapporti umani e sociali». Alla do manda: vuole riabilitare l’idea del co munismo? esita. Questa volta tace per un minuto. Poi: «No. Per ora voglio ria bilitare le idee espresse da John Len non». Ride, per la prima volta da quan do siamo collegati: «Le sue idee sono cadute assieme alla morte di una gene razione, morte di Aids e di malattie». Abbassa la voce: «È arrivato Satana e ha riportato tutto indietro. Sono torna ti fenomeni che pensavamo apparte nenti al passato e si stanno impadro nendo della nostra vita».
Ha parlato di Satana. Il Male fa parte
della natura umana? Risposta: «“Ima gine” racconta, come si diceva, l’incon tro di un gruppo di ex hippie con il loro ex guru. Nel secondo atto c’è un giova ne che esce fuori dal corpo del vecchio, un sognatore malato e depresso. Il gio vane vuole liberare il sogno. E va nel deserto come Sant’Antonio e come Cristo. Il deserto significa purificazio ne dell’anima e metamorfosi dell’uo mo. Ma Satana vuole impedire questa metamorfosi. Con i miei attori abbia mo riflettuto sul fatto che se Satana non esistesse, Sant’Antonio sarebbe solo di fronte al vuoto. La sua fortuna era l’esistenza del Diavolo. La santità è una lotta incessante con Satana». E ancora: «Nel cristianesimo è insito un errore: pensare che lottare contro il Male vuol dire fare del Bene. Ma io penso che non far Male non significhi fare del Bene».
Con questa enunciazione si potreb be chiudere la conversazione. Ma Lupa vuole tornare alla questione dell’im maginazione. «È quello che manca al “maschio di guerra”, la capacità di im maginarsi Altro e quindi l’empatia». Usa una parola in polacco che potreb be significare “cazzone” o semplice mente “bullo”. E a questa figura con trappone Yoko Ono, la compagna di Lennon. «La parola “imagine” è sua», dice. «Lei aveva un intuito da strega. Senza di lei lui non sarebbe diventato né pacifista né un specie di profeta. Certe cose bisogna essere capaci di immaginarle, non farle». Ma le utopie, i sogni di rendere felice l’intera umani tà hanno spesso portato agli incubi e alla violenza. Lo dice la Storia, obbiet tiamo. Risposta: «Guardi che una cosa simile l’ha scritta un teorico della de stra polacca, in polemica non noi. Di ceva che togliere con mezzi di costri zione dio, vita oltretomba, identità nazionale, significherebbe avere un mondo peggiore perfino da quello co struito dai nazisti». Ma poi anche dagli stalinisti, aggiungiamo noi. Risposta: «Sì, ma l’utopia di cui parliamo non si gnifica costrizione. Nessuno pensa alla distruzione delle Chiese o all’abolizio ne delle nazioni per decreto, ma invece alla magia delle parole. Pensi a “War is over” (canzone di John Lennon e Yoko Ono del 1971, durante la guerra del Vietnam, ndr). Ha fatto bene alle ani me, è stata più efficace nella lotta con tro quella guerra da ogni azione o pen siero violenti. Ed era frutto e strumen to di immaginazione».
Però, ecco, in conclusione, non ha paura di aver fatto uno spettacolo per i “boomer”, la generazione nata fra la fine della Seconda guerra mondiale e la seconda metà degli anni Sessanta e odiata oggi dai giovani? Lupa sorride per la seconda volta. «C’è il rischio di fallire. Ma per me e per gli attori questo spettacolo è una sfida di sincerità. Di ciamo cose intime senza il timore che raccontandole ci trasformiamo in no stalgici della nostra giovinezza. Sarà lo spettatore a decidere se siamo stati onesti e credibili».
“Forse noi teatranti siamo dei medium che intercettano i miti che vengono dal cielo.
Ma se questa ipotesi è vera, il richiamo al sacro non deve essere intenzionale”
La nostra mente
Il cervello è un meccanismo complesso, sorprendente, per certi aspetti sconvolgente. Che si adatta a eventi epocali e ca tastrofici come la guerra, la pandemia, la crisi climatica che spazza via case e vite umane. Anti cipa i cambiamenti e prevede come questi fatti incidano in modo tempora neo o duraturo sul comportamento de gli individui. Neuroscienziata di fama mondiale, Kia Nobre dirige l’Oxford Centre for Human Brain Activity, in Gran Bretagna, centro di ricerca di ec cellenza sulle attività cerebrali, e ha ap pena ricevuto ad Amsterdam il premio C.L. de Carvalho-Heineken 2022 per le scienze cognitive. Di recente, in occa sione de “Il Verde e il Blu Festival”, a Mi lano, manifestazione dedicata a inno vazione digitale, energia e sostenibilità, ha condotto il talk “One Health-Innova zione e cura: come cambia l’approccio alla salute e al benessere” insieme a Lu ciano Floridi, docente di filosofia ed eti ca dell’informazione all’Oxford Inter net Institute.
Che impatto hanno sulla psiche gli eventi catastrofici? «Colpiscono il corpo e la mente, sono fenomeni molto complessi e mettono in gioco differenti fattori. Il Covid-19 è molto diverso dalla guerra in Ucraina, soprattutto per noi che non combattia mo. È una malattia che colpisce il no strocorpoconeffettidirettisulcervello.
Grazie a studi su un numero elevato di pazienti, ora sappiamo che esiste un’ampia gamma di sintomi psicologici e psichiatrici associati al virus: stress, preoccupazioni, perdita di persone ca re. La guerra invece, per chi non la com batte direttamente, produce effetti in diretti come stress, paura e ansia, ma impatta anche sulla salute mentale e sul corpo. Per chi combatte, invece, causa altri tipi di danni: lesioni cerebra li traumatiche, lesioni fisiche traumati che e disturbo da stress post-traumati co molto grave».
Secondo le stime riportate dalla ri vista medico-scientifica The Lancet, per effetto della pandemia nel mon do si sono registrati circa 53 milioni di casi di depressione maggiore e 76
Cervello sotto attacco
Guerra, pandemia, emergenza climatica. Il nostro organo più complesso reagisce agli eventi catastrofici adattandosi. La grande neuroscienziata di Oxford spiega come
colloquio con Kia Nobre di Emanuele Coen illustrazione Emiliano Ponzi
milioni di casi di ansia generalizzata in più. È un calcolo al ribasso?
«Sono molto felice che questo tema ri ceva attenzione, in passato sarebbe sta to trascurato o banalizzato. Non è facile dire se si tratta di una stima al ribasso: probabilmente molte persone non so no in grado di segnalare i sintomi, per questo penso sia un calcolo prudente. In ogni caso, si registrano conseguenze psichiatriche e psicologiche molto gra vi del Covid-19 su individui che l'hanno avuto, ma anche su chi non è stato con tagiato ma ha sofferto di solitudine, pri vazione, perdita di socializzazione, an sia. Ma c'è un altro elemento finora tra scurato: i cosiddetti “effetti cognitivi”. Se si subisce un danno cerebrale a cau sadelCovid,questoinfluisceanchesul le funzioni di base, che consentono di interagire con la realtà di tutti i giorni, e sulla capacità di concentrarsi, fonda mentale per acquisire informazioni, imparare, memorizzare. Alcuni parla no di “nebbia cerebrale”, un effetto non ancora studiato, riconosciuto o quanti ficato malgrado sia importante. Basti pensare ai bambini e alla scuola». Lei è una neuroscienziata di fama
mondiale. Qual è l’approccio di que sta disciplina nell’analisi delle rea zioni adattative del cervello? «Buona parte degli studi che abbiamo svolto nel mio laboratorio tendono a sottolineare come il cervello non sia un organo reattivo. Nei libri di testo e nella mente della maggior parte delle perso ne istruite si è fatta strada la convinzio ne che al primo livello esistono i sensi, poi i diversi elementi si aggregano nel cervello, infine prende forma una rap presentazione mentale. In base a que sta concezione, coscienza e memoria sono il prodotto finale di un processo che si muove dall'esterno verso l'inter no. Ma questo è vero solo a metà: il no stro cervello, infatti, è ricco di esperien ze e le usa in modo adattativo per anti cipare cosa potrebbe accadere, cosa potrebbe succedere di nuovo, prepara le aree sensoriali che raccolgono infor mazioni rilevanti per guidare il nostro comportamento. Quando tutto questo funziona bene è incredibile: non è il cervello ad acquisire dati dal mondo esterno, ma mette insieme esperienze e informazioni sensoriali dall’esterno per creare percezioni e ricordi, prende
re decisioni. E lo fa in modo dinamico, anticipa i momenti, le cose: è un pro cesso molto proattivo, davvero sor prendente, direi strabiliante». Le reazioni cambiano a seconda dell’età o del genere? «Sì, assolutamente. Cambiano a secon da dell’età, del sesso, del livello di istru zione.Sonofattoridiun'equazionemol to complessa: nessuno ancora com prende come plasmare la resilienza, i fattori protettivi e la vulnerabilità. Alcu ni di questi elementi non sono biologici e fisiologici, ma culturali o dipendono dall’esposizione alla tecnologia. Anche se riscontriamo differenze tra uomini e donne, bambini e adulti, queste non vanno attribuite a fattori fisiologici o
biologici ma devono essere studiate nel quadro complessivo dei dati esperien ziali, genetici, fisiologici. Alcuni eventi catastrofici producono effetti molto acuti e gravi in termini di stress, ma il modo in cui gli esseri umani li affronta no varia in maniera sostanziale da per sona a persona. Nel caso della guerra, alcuni soffriranno di disturbo da stress post-traumatico e non saranno mai in grado di superarlo, altri saranno resi lienti e proveranno a comprendere i meccanismi che aiutano il cervello e la mente a superare le conseguenze a lun go termine».
Covid-19,guerrainUcraina,crisicli matica. Qual è l’evento più grave? «Metterei tutti e tre a un livello di “gravi
tà grave”, ma hanno implicazioni diver se. Ritengo comunque che il cambia mento climatico sia l’evento più grave: una crisi estrema ma continua, persi stente. Proprio per questo si tende ad affrontarla gradualmente, rimandan done la soluzione. E invece dobbiamo considerarla sia grave sia acuta. Avrem mo dovuto farlo un po' di tempo fa, ov viamente».
Cosa possono fare la psichiatria e le neuroscienze?
«Non parlerei solo di psichiatria, ma della famiglia di discipline che riguar dano la comprensione e il trattamento della mente umana - quindi psichiatria, neurologia e psicologia sperimentale. In primo luogo, dobbiamo smettere di stigmatizzare i problemi di salute men tale. Penso che la psichiatria e la psico logia stiano cercando di farlo e final mente si cominciano a riconoscere le implicazioni sulla salute mentale del Covid-19, delle guerre, dei cambiamen ti climatici».
Come può incidere la politica?
«Un ottimo passo sarebbe spendere più soldi per la salute mentale. Oggi, ad esempio, nel Regno Unito si stanno investendo ingenti risorse nelle neuro scienze e nella salute mentale. In pas sato, nonostante l’enorme peso di que sto fattore sulla qualità della vita, gli investimenti sono stati irrisori in con fronto alle malattie cardiovascolari o al cancro. C'è ancora molta strada da fare, ma ci stiamo muovendo nella di rezione giusta».
Sorprese editoriali
Piccolo mondo inquieto
Tre ragazzini. Una piccola comunità. E creature d’ombra che la avvolgono. In un romanzo uscito nel 2021. Da riscoprire
di Aisha CeramiÈ
tutto nero. E in mezzo al nero c’è questo bambi no…». Comincia così “Il buio non fa paura” di Pier Lorenzo Pisano: copertina verdina e il viso di un ra gazzo che osserva fuori dalla finestra. Lo apro e non smetto più di leggere. Ferma sulla sedia ho ingoiato un gio iello e, terminata la lettura, mi sono detta: Come mai questo romanzo deli cato e struggente non ha avuto suc cesso? Distrazione, forse. O forse solo sfortuna. Perché Pisano ha scritto una favola nera bellissima, e l’ha fatto da scrittore autentico.
Siamo in montagna, il cielo brioso cambia i colori del panorama, la gente dimora tra le pieghe dei colli, il bosco, disteso su un lato, bisbiglia suoni mi steriosi. E qui, in questo piccolo mon do dipinto con abilità, vive una fami glia allegra fatta di tre fratelli -il prota gonista Gabriele, Giulio e Matteo- e di due genitori gentili.
La gaiezza, che si riscontra nelle prime pagine, è fatta di giochi, rincor se, complicità. È una felicità piena zeppa di mamma, della sua pelle cal da, del suo sguardo rassicurante, dei suoi sorrisi aperti. Una mamma guar data dal basso verso l’alto. Una mam
“Il buio non fa paura” di Pier Lorenzo Pisano (NN Editore, pp. 176, € 16). Sopra: lo scrittore, regista e autore per il cinema e il teatro, al Premio Edoardo Kihlgren Opera Prima
ma minuta che appare altissima. E poi si immagina il profumo dei campi, la frescura del tempo che cambia, con le sue ombre che tinteggiano le giornate tutte uguali, ogni volta benefiche. Ma sia ben chiaro, chi legge non si trova sempre a distanza, ad ammirare un bel quadro dai lineamenti morbidi; no, spesso si avvicina quasi quanto un respiro sul viso. E allora finisce sotto il letto, al buio, con la stessa agitazione di Gabriele che teme e spera di dover subire un attacco di solletico. O sedu to a tavola a gustare la zuppa calda che straborda dai piatti. Addirittura, sente l’amore che invade ogni cosa, senza dichiararsi mai. E si sta bene, con questa famiglia. Eppure. Eppure, un’inquietudine già emerge nel bello. Come mai, visto che tutto va bene, io ho paura?
La verità è che io non sto solo leg gendo. Io sto vedendo. E quello che vedo è troppo vicino e troppo lontano. Lo scrittore ci sposta a suo piacimen to dentro e fuori, con loro e senza di loro, e lo fa con maestria, creando così un’agitazione simile a quella che si prova quando in barca ci allontania mo dal molo. Con la terra che diventa una linea sottile e il mare che ci mo stra ogni ruga del vento. Questo movi mento oscillante crea insicurezza, dif fidenza; sentimenti che Pier Lorenzo Pisano utilizza per prepararci al colpo di scena: la scomparsa della madre. Ed ecco il crollo. L’equilibrio dei per sonaggi cede e frana l’aspetto dei mondi: il mondo reale e il mondo inte riore, che era madre, padre, solidità, cura, si stravolgono. La terra perde co lore, le mura domestiche diventano tane dove nascondersi, la luce, impri gionata nelle lanterne e nelle case, te stimonia la paura. E in mezzo a questo dolore, che per gli adulti non può esse re che colpa di un mostro gigantesco e nero c’è, insieme ai fratelli, il giovane protagonista, che combattendo con la tenacia della speranza e con la fede nell’amore, trasformerà la paura in vi ta. Il buio, in pace.
Protagonisti
Avatar mi ha cambiato la vita
Da cassiera di fast food a star planetaria il pas so può essere breve. Ne è prova vivente l’attri ce Zoe Saldana, 44 an ni, statunitense di ori gini portoricane e dominicane, il cui nome a Hollywood fa rima da anni con successo al botteghino. Le nuove generazioni la conoscono come Ga mora, il personaggio di “Guardiani della Galassia” interpretato anche in “Avengers: Infinity War” e “Avengers: Endgame”, che insieme ad “Avatar” le hanno fatto ottenere il record di pri ma attrice della storia ad apparire in tre film campioni di incassi. Risale a tredici anni fa la sua esperienza nel fantakolossal ambientalista firmato James Cameron, che vinse tre Oscar e fece impazzire il botteghino, facen dosi pioniere del 3D al cinema. “Ava tar” è appena riuscito nelle sale, op portunamente rimasterizzato in 4k, in attesa del sequel “Avatar – La via dell’acqua” che arriverà al cinema so lo a dicembre. Saldana, appena ne parla, non nasconde l’emozione. «Non dimenticherò mai la telefonata di Cameron che mi ha cambiato la vi ta. Stavo cambiando il pannolino sporco di mia nipote, dall’altra parte della cornetta lui mi dice: “Voglio che sia tu a interpretare Neytiri”». Si rife risce alla principessa guerriera blu dalla coda lunga che abita su Pando ra e crede nell’armonia energetica del pianeta. «Una sorta di supermodella gigante di tre metri, dalle misure esa gerate com’è esagerato il suo cuore. A
ripensarci oggi provo una grande gratitudine». La lezione che le è ri masta scolpita addosso è «imparare a giocare: Neytiri doveva essere for midabile con l’arco e le frecce e io do vevo fare altrettanto. Mi sono allena ta a lungo, ho imparato le arti mar ziali, ad arrampicarmi, a sentirmi agile fisicamente, ma anche mental mente. Su quel set sono tornata bam bina, ho richiamato alla memoria gli anni in cui andavo a scuola per impa rare, senza avere la più pallida idea di cosa mi sarebbe stato richiesto». Una cosa la sapeva: doveva indossare tut ti i giorni una tuta ricoperta di senso ri per rendere al meglio la tecnica “motion capture” e trasferire all’ava tar virtuale i suoi veri gesti, espres sioni e movimenti. «In pratica entra vo ogni giorno in uno stanzone geli do, abbastanza anonimo, e avevo una telecamera che mi seguiva tutto il tempo, mentre correvo e parlavo la lingua del popolo Na’vi».
Un esercizio di fantasia ed esplora zione nell’immaginario, guidata pas
so passo dal suo mentore James Ca meron: «È sempre stato il mio idolo, è diventato un cineasta di riferimento per tutto il mondo, per me è stato un maestro. Non venivo da nessuna ac cademia di recitazione, sapevo solo ballare: sul suo set ho imparato tutto, specialmente a osare senza paura di sbagliare e non mettere mai freni alla mia immaginazione. “Avatar” è stata un’esperienza immersiva sensoriale, un viaggio magico impossibile da di menticare». Soprattutto perché le ha rivoluzionato la vita: «Nessuno di noi si aspettava l’enorme successo plane tario che il film ha avuto. Grazie ad “Avatar” sono stata in grado di co struirmi una carriera solida e uno sti le di vita tale da poter tuttora soste nere la mia famiglia, cosa che per noi artisti non è mai scontata. Da un punto di vista creativo mi ha fatto ca pire che c’è un mondo intero da esplorare dietro un personaggio, bi sogna andare sempre più a fondo, ri crearsi la sua storia, capire da dove viene e che cosa vuole veramente. Il
Con il fantakolossal di Cameron vinse tre Oscar. Con “Avengers” ha fatto impazzire i botteghini. Da cassiera di fast food a star di Hollywood: “Sono un’anomalia nel sistema”
resto lo fa un ottimo regista e una squadra di colleghi che tifano per te». Sul set si respirava un’atmosfera di stesa, che ha consentito a ognuno di loro di esprimersi in totale libertà. «Cameron, da regista curioso, gene roso e mai elitario qual è ci ripeteva che non esiste l’errore, esiste il prova re e il vedere dove il tentativo ci avreb be portati. “Se fate una cosa che vi sembra senza senso, fatela lo stesso: va bene anche non sapere, scopriremo insieme dove tutto questo ci por terà”». Dal cinema alla vita vera, Sal dana confessa di aver trasmesso molti di questi insegnamenti ai suoi figli Bowie Ezio, Cy Aridio e Zen, avuti con il marito italiano Marco Perego, spo sato nel 2013. «La mia vita è stata, fi nora, un’avventura incredibile, di gran lunga migliore di quanto avessi mai immaginato. Non capita a tutti quello che è successo a me, in termini profes sionali e di vita privata. Mi sento fortu nata e non do nulla per scontato».
Neanche i suoi quasi nove milioni di follower che la seguono sui social e con
cui condivide i suoi suc cessi e i suoi nuovi proget ti. Come la serie “From Scratch – La forza di un amore”, ispirata al bestsel ler del New York Times e di sponibile su Netflix a partire dal 21 ottobre, e il film “Am sterdam” dal cast stellare che esce al cinema il 3 novembre (vi recitano, tra gli altri, Robert De Ni ro, Christian Bale e Margot Robbie).
«A chi mi segue provo a trasmettere l’importanza di credere fino in fondo in quello che si fa, con umiltà ed onestà. Perché quando vuoi veramente qual cosa c’è il serio rischio che la ottieni, com’è successo a me». Il segreto? «Ar rendersi senza riserve al fatto di essere un’anomalia nel sistema, come sono stata io, che venivo dal nulla ed ero solo una ragazza del Queens che aveva tut to da imparare. Così ho fatto, lavoran do sodo e credendoci con tutta me stessa, e oggi ho una storia speciale da raccontare».
Sopra e in alto: due immagini del film “Avatar the way of water”. In alto a sinistra: Zoe Saldana, 44 anni
Bookmarks/i libri
IL VOLO DELLE MOSCHE
DI LAURA PUGNOHa appena vinto a Venezia il premio Bookciak Legge, concorso letterario che nasce dal più che decen nale premio Bookciak, Azione! Il cinema incontra la letteratura, “Ninna nanna delle mosche” (Fandango Libri), il quarto romanzo dell’autore e cantautore napole tano Alessio Arena, che a buon diritto potrebbe rientrare nell’indagine sugli scrittori e scrittrici expat pubblicata qualche tempo fa sulle pagine de L’Espresso. Arena, che è anche traduttore dal castigliano, si divide in fatti tra Italia, Spagna e Cile, dove per larga parte è ambien tato, negli anni Venti del Novecento, questo romanzo-ro manzo che intreccia vividamente, con fili di molti colori, amour fou, amour passion ma anche amore nel tempo e nella durata, emigrazione, religione e maledizione. Sarà il “mare aperto” dell’Atlantico quello che dovranno attraversare, sfuggendo all’accoltellamento o scappando letteralmente col circo, gli amanti proibiti Berto e Gregorio e chi a loro volta li ama, come la ninnanannara quasi cieca Serafina Canaria, moglie di Berto, che sembra condensa re nella voce, e trasmutare alchemicamente in dolcezza, il potere delle migliaia e migliaia di mosche che, da quando
Due punti di vista sulla stessa storia, due voci che reclamano ascolto e verità. Ma se al centro c’è la famiglia, difficilmente una avrà definitivamente la meglio. Due figlie divise tra un padre e una madre, ricoverata in un ospedale psichiatrico, e le loro reciproche accuse. Strattonate nel cuore, turbate nelle scelte da compiere, costrette a indagare il rapporto, incalzano la lettura, e consegnano lo sconfortante senso di colpa del dover prendere posizione.
“L’ACQUA PIÙ PROFONDA”
Katya Apekina (trad. Gioia Guerzoni) Bompiani,
gli amanti sono stati a forza separati, infestano a nugoli il remoto paese di Palmira in Lucania.
Proprio una di quelle mosche, nascosta in una di molte lettere d’amore, giungerà fino al Nord del Cile, all’officina Porvenir – parola che significa futuro – nel pieno del deser to di Atacama e delle sue miniere di salnitro, dando il via a una lunga catena di fughe e inseguimenti che potranno raggiungere la meta, o la preda, solo a patto di rivelarsi, an che, una forma di metamorfosi. E una prima metamorfosi “Ninna nanna delle mosche” l’ha già attraversata grazie al corto “Radici” della giovane regista Giulia Marilungo che vi è liberamente ispirato. I Bookciak sono infatti corti di giovani e giovanissimi film maker, ispirati a romanzi, graphic novel e racconti di au tori e autrici italiani contemporanei. E nell’edizione 2022, il Premio ha visto sul podio 6 giovani registe, un palmarès tutto al femminile.
Ci voleva una scrittrice che forza le parole, inventa le etichette, ibrida con lo sguardo biografia e immaginazione come Seminara, per raccontare l’eclettica pittrice, scrittrice, scultrice inglese. E il risultato è un viaggio funambolico tra i fatti e le visioni di questa donna, le peripezie, le sfide, i giochi e i deliri. Tra una seconda vita in Messico, il tormentato amore per il pittore Max Ernst, i soggiorni a Parigi e a New York. Sempre da autentica “dea della metamorfosi”
“LEONORA CARRINGTON”
Elvira Seminara
Giulio Perrone Editore,
La storica è venuta a mancare nell’aprile di quest’anno, lasciandoci in eredità un grande numero di libri che indagano il Medioevo soprattutto nella sua dimensione più privata: le donne, i bambini, la vita quotidiana. Protagonista di questo saggio riccamente illustrato è il letto, ora sontuoso o modesto, abbellito da cuscini o umile pagliericcio. Luogo di seduzione, di perdizione, di ristoro, per una rassegna divertita e colta del Medioevo sotto le lenzuola.
“A LETTO NEL MEDIOEVO”
Chiara Frugoni
“NINNA NANNA DELLE MOSCHE” Alessio Arena Fandango Libri, pp. 256, € 16
L’amore, la passione, la nostalgia di emigranti italiani. In un Cile intriso di fatica e di speranze
in
a
il culto religioso
la speculazione
L’appuntamento è quello di ogni venerdì, da più di dieci anni. Su un marciapiede at tivisti israeliani e internazio nali, dietro lo striscione ‘’#SaveSheikJa rrah”, su quello di fronte coloni israeliani. Entrambi i gruppi hanno bandiere e megafoni, fischietti, e si fil mano a vicenda coprendosi di insulti.
Benvenuti in un qualunque venerdì a Sheik Jarrah, sobborgo di Gerusalem me Est. Zona palestinese, secondo gli accordi del 1948, ma sotto occupazio ne militare dal 1967. A guardarsi attor no, circondati dalle baracche fatiscenti che 25 famiglie arabe sotto sfratto di fendono da anni, sostenute da una campagna internazionale, viene da chiedersi cosa ci sia da proteggere. Ep pure la zona è militarizzata, due milita ri israeliani sbucano tra i vicoli formati
dalle casette, chiedendo i documenti.
Nella primavera del 2021, all’improv viso, si era tornati a parlare di Sheik Ja rrah: un colono di quelli che hanno oc cupato le case vicine ai palestinesi ave va accusato gli arabi di aver dato fuoco alla sua macchina. Scontri e assalti alle case palestinesi, il deputato israeliano di estrema destra Itamar Ben Gvir che soffia sul fuoco e pianta una tenda che gli farà da ufficio nel cortile di una del le case palestinesi, la tensione che cre sce, fino a scatenare reazioni in tutta la Cisgiordania e nella Striscia di Gaza.
Poi di nuovo la solita routine di pres sioni e umiliazioni quotidiane, resi stenze e accuse reciproche. La storia inizia tempo fa: un movimento di colo ni ultraortodossi - Nahalat Shimon - ri vendica la proprietà delle case che le famiglie palestinesi abitano dalla fine
della Seconda Guerra mondiale, con certificati di proprietà riconosciuti dal le autorità giordane che avevano il con trollo di questa zona fino all’occupa zione israeliana del 1967. A motivarli, oltre alla rivendicazione delle terre, la presenza della tomba del rabbino Shim’on HaTsadik (così molti israeliani ed ebrei chiamano il quartiere di Sheikh Jarrah). Ma lo scenario sembra molto più complesso dell’ennesima operazione di esproprio alla quale si oppongono i circa 330mila palestinesi di Gerusalemme Est.
«Basta voler vedere. A Sheikh Jarrah bisogna solo guardarsi attorno per ren dersi conto che quelle 25 famiglie sono un ostacolo all’ennesima, immensa, speculazione edilizia». Non ha dubbi Ronit Levine-Schnur, docente presso la Harry Radzyner Law School e ricerca trice associata presso il G-City Institute for Real Estate dell’Università Reich man. Avvocata, urbanista ed esperta di diritto immobiliare e di uso del suolo. Nessuno meglio di lei poteva essere la consulente del team legale palestinese che difende le famiglie sotto sfratto. An che se ha pagato un prezzo alto, perché è israeliana. «Faranno l’ennesima puli zia etnica e la chiameranno “rigenera zione urbana”. Il business potenziale su quell’area è enorme e basta guardare per vedere che è tutto un cantiere. Il conflitto, qui, si nutre di bugie e mani polazioni. Gli stessi coloni, con il loro fanatismo, sono burattini nelle mani di interessi molto più grandi di loro. Gli viene lasciato il lavoro sporco e quando avranno queste terre vedranno sorgere palazzi con case e uffici che non po tranno permettersi. Qui a Sheikh Jarrah non si combatte solo per salvaguardare la memoria dell’identità araba di que sta città, ma anche per il futuro, perché Gerusalemme Ovest è ormai satura e la parte orientale della città è l’ultimo grande boccone del settore immobilia re. Ormai la guerra non fa più paura, or mai Israele ha il controllo: i fondi di in vestimento sanno che il valore di mer cato di Gerusalemme, con il suo simbo lismo, è unico al mondo». Per ora la situazione è congelata all’ultima deci sione della Corte Suprema israelia
na del 1 marzo 2022. Le famiglie pa lestinesi saranno considerate “affittuari protetti” e dovranno pagare un affitto simbolico a un’organizzazione di coloni ebrei fino a quando la questione non sarà definitivamente risolta. «Il proble ma resta, ma faremo quel che possia mo», dice Levine-Schnur, mentre un colono la insulta e la chiama traditrice e amica dei terroristi.
Una casa a Gerusalemme può arrivare a costare fino a 11mila euro al metro quadra to. Tanta domanda, poca of ferta, e il fatto che circa l’80% delle terre disponibili sono di proprietà statale e questo comporta un’asta che fa salire il prezzo. Guardando Gerusalemme Est, in condizioni abitative molto comples se, si potrebbe far fatica a capire questi prezzi. Clara Capelli, economista dello sviluppo, vive da anni a Gerusalemme Est. «Se si pensa alla “rigenerazione” di Gerusalemme Est, dove non si hanno permessi di costruzione nonostante la pressione demografica, il caso di New Gate è interessante. Ora è uno spazio vetrina, a cinque minuti da Damascus Gate, zona molto più popolare, ma la differenza è impressionante. Anche in termini di servizi di pulizia e raccolta rifiuti la frequenza è diversa. L’idea è quella di mettere “a valore” secondo logiche capitalistiche alcune parti del la città, mentre le altre vengono spin te sempre di più verso il margine, non fornendo i servizi essenziali». Lo stesso meccanismo di voluto abbandono del la parte orientale della città lo denuncia da anni Francesco Chiodelli, professore associato del Politecnico di Torino, che sullo spazio urbano di Gerusalemme ha scritto due libri dopo anni di ricerca sul campo. «Il conflitto è anche e soprattut to una questione di possesso del suolo. A Gerusalemme il conflitto è da sempre (ossia dal 1967) essenzialmente una questione di case. L’occupazione si è da subito materializzata nell’edificazione di interi quartieri residenziali per ebrei a Gerusalemme Est, più di 50mila case, che oggi ospitano più del 40% della po polazione ebraica della città, costruiti grazie al supporto pubblico. Costruen
Due ragazzini ultraortodossi osservano i manifestanti palestinesi. Nell’altra pagina: due dei luoghi dove i coloni hanno chiesto di costruire
do case (solo per popolazione ebraica, naturalmente) si raggiunge un duplice obiettivo: si occupa suolo e si installa popolazione nel territorio occupato. È una sorta di versione contemporanea della guerra di trincea: passo dopo pas so, giorno dopo giorno, di soppiatto, si sottrae terreno al nemico. Israele ha agito sulla città araba con un processo contrario. Le demolizioni sono la parte più vistosa e brutale di questo proces so, ma non la principale. L’azione prin cipale è stata impedire ai quartieri ara bi di espandersi, attraverso una serie di espedienti tecnici di matrice urbanisti ca (per esempio, negando l’emissione di permessi di costruzione). A ciò si ag giunga che la Municipalità ha pervica cemente praticato una politica di “ab bandono” dei quartieri arabi, evitando di costruire infrastrutture di base e
servizi. Così oggi si vive il paradosso che, nella città che Israele considera la propria capitale, ci sono interi quartie ri in cui manca il sistema fognario o la rete idrica. E, naturalmente, si tratta di quartieri palestinesi». Un’operazione che al “lavoro” sul campo delle istitu zioni, affianca il finanziamento dall’e stero. Spiega Capelli: «Gerusalemme è piena di targhe di ringraziamento ai filantropi. Poi c’è la finanziarizza zione della città e dell’edilizia come fenomeni globali. Un asset finanziario a Gerusalemme è molto lucroso, non solo per il brand della città, ma anche perché lo spazio è limitato, una “risor sa scarsa”. Semplificando, nell’econo mia contemporanea i grandi profitti si fanno in finanza, rendendo tutto un prodotto finanziario per transazioni, edilizia inclusa. Ma per mantenere il
volume di affari, la finanza richiede altra finanza, quindi in questo caso espansione edilizia. In uno spazio li mitato, ci si deve espandere dove si individua “spazio aggiuntivo”, ossia Gerusalemme Est, applicando quindi anche una logica coloniale.
Su Sheikh Jarrah insiste il pro getto Silicon Wadi, che mira nel lungo periodo a creare un polo tecnologico tra Sheikh Jarrah e Wadi al-Joz. Gli argomenti a favore so no sempre gli stessi: si “riqualificano” quartieri percepiti come degradati, si creano posti di lavoro, si attraggono persone con potere d’acquisto mag giore, turisti o ricchi residenti».
Conclude Chiodelli: «Israele estrae risorse ingenti dai territori che occupa e dalla popolazione che controlla. A
Gerusalemme questo sfruttamento economico assume anche la forma del la rendita immobiliare. Israele ha un mercato immobiliare da anni fuori controllo, con prezzi costantemente in vertiginosa ascesa (che causarono pro teste di massa in Israele nel luglio 2011). Il prezzo medio di un’abitazione a Tel Aviv è oggi superiore a un milione di euro. A Gerusalemme la situazione è un poco migliore, con prezzi medi di poco inferiori ai 700mila euro. L’au mento dei prezzi delle abitazioni nell’ultimo anno è stato del 15% circa. In questo quadro, lo sviluppo immobi liare è un settore incredibilmente red ditizio. Ciò vale naturalmente tanto per Gerusalemme Est quanto per Ge rusalemme Ovest. Tuttavia una quota rilevante delle aree di nuova espansio ne residenziale identificate dalla Muni
cipalità di Gerusalemme è localizzata, guarda caso, proprio a Gerusalemme Est. La necessità del governo di inter venire promuovendo l’edificazione di abitazioni a prezzi calmierati (nell’ot tobre 2021 il governo ha annunciato un piano per la costruzione di 280mila abitazioni entro il 2025), diventa un’oc casione per lanciare nuovi progetti di edificazione ebraica a Gerusalemme Est. Ancora una volta la colonizzazione assume le vesti di una politica urbana che, sulla carta, non ha matrice geopo litica, ma che, nei fatti, prosegue il pro cesso di ebraizzazione e de-arabizza zione della città».
Inizia a piovere, la manifestazione è finita, si arrotolano gli striscioni e si sciama lanciandosi minacce e gli ulti mi insulti, fino al prossimo venerdì.
Il 17 aprile 2002 due presidenti si incontrarono sotto le querce del Parco di Monte Sole. Carlo Aze glio Ciampi e Johannes Rau, in rappresentanza di Italia e Germania, presero la parola di fronte ai superstiti e ai familiari delle vittime del massa cro nazista che su quella terra aveva avuto luogo 58 anni prima. Udo Surer era allora un giovane avvocato tede sco residente nella cittadina di Lin dau dove suo padre si era fermato di ritorno, ferito, dalla seconda guerra mondiale. Quel giorno sentì alla ra dio il suo Presidente chiedere scusa, esprimere un «senso di profondo do lore e vergogna» pensando alle donne, ai bambini, agli uomini, 775, uccisi tra il 29 settembre e il 5 ottobre 1944 nella zona di Marzabotto. «Mi inchino di fronte ai morti» disse Rau, prima di ringraziare i presenti per «aver fatto diventare Marzabotto un luogo che non divide italiani e tedeschi» identi ficando gli avvenimenti di quei giorni con una «nostra storia comune, l’im pegno per un futuro di pace».
Il padre di Surer, Josef Maier, era morto dieci anni prima, nel 1992. Della guerra aveva parlato poco con i suoi figli. Udo sapeva che era stato un sol dato delle SS, ma poco altro. Ogni ri chiesta di chiarimento era seguita da reazioni di rabbia da parte di Maier. «Diceva sempre di aver sparato po chissimo. Un anno fa ho trovato una sua lettera del 1981 dove respingeva tutte le mie accuse, ma mi scrisse, “in guerra si fanno sempre i crimini” e non ha detto di non aver partecipato».
Udo, però, sapeva qualcosa degli an ni da soldato del proprio padre. «Sen tendo alla radio il Presidente Rau mi ricordai che era vicino a Bologna il luo go in cui si ferì e perse la gamba e mi venne in mente che ci dovesse essere qualche connessione. E questo mi ha spinto a iniziare una ricerca». Nel 2003, quando arrivarono i primi risul tati, Udo conobbe la verità.
«Mio padre era impiegato civile del le Waffen-SS già prima della guerra e quando il conflitto è iniziato è diventa to soldato delle SS». Dopo essere stato in Francia e in Russia Josef Maier arri
vò in Italia nel 1944. Il 4 giugno di quell’anno, a seguito dell’entrata delle truppe americane a Roma, era iniziata la ritirata dei tedeschi che si assestaro no più a Nord, lungo la linea gotica che attraversava in orizzontale la penisola dalla Toscana all’Emilia Romagna. Fu un’estate segnata da rappresaglie con tro civili. Sant’Anna di Stazzema, Vin ca, Marzabotto. Luoghi fuori mano, paesini di montagna, difficili anche da trovare senza guida, faticosi da rag giungere. Negli anni di conflitto erano diventati rifugi per sfollati che si erano sentiti al sicuro dagli orrori della guer ra, in quei mesi estivi del ’44 divennero teatro di eccidi di civili.
Udo Surer, che di quei posti non aveva mai sentito parla re, scoprì che la storia delle persone che li avevano abi tati durante la guerra era, in qualche modo, legata alla sua. «Mio padre ha partecipato a tutta la ritirata fino a Monte Sole. La sua unità militare era proprio la famigerata XVI divisione, era nel battaglione della morte guida to da Walter Reder. Il 18 settembre è
stato ferito vicino a Prunetta. Ho an che visto le ferite, erano abbastanza gravi, avrebbe potuto finire la guerra a quel punto ma è rimasto con la truppa volontariamente. Io e anche mio fra tello medico pensiamo che non sareb be stato in grado di salire fino a Monte Sole il 29 settembre. Comunque pochi giorni dopo, il 10 ottobre era di nuovo in combattimento, così si è procurato la ferita che è stata seguita dall’ampu tazione della gamba destra».
Per alimentare la sua ricerca, spinto dal bisogno di fare luce sulle menzo gne e le omissioni di suo padre, Surer iniziò nel 2004 a visitare quei luoghi della memoria. Prima a Marzabotto per le celebrazioni della strage, poi a Guardistallo e a Sant’Anna. Assistette ai racconti dei superstiti che proprio in quegli anni, dopo decenni di silenzio, iniziavano a testimoniare. Incontrò storici e studiosi e ricollegò la squadra SS di cui faceva parte suo padre ad altri eccidi, come San Terenzo e Vinca.
Dalla scoperta degli orrori a cui ave va partecipato Josef Maier, Udo rac conta di essere uscito «con un vuoto emozionale, non sentivo più niente»,
e, nella sua ricerca in giro per i luoghi della memoria in Italia non aveva ini zialmente intenzione di presentarsi ai superstiti perché, ricorda, «forse un po’ mi vergognavo».
Finché visitò San Terenzo, una pic cola frazione in provincia di La Spe zia. Cercando il monumento ai caduti di Valla si perse e chiese indicazioni a una persona che leggeva un libro se duta lungo la via. «Quando gli ho chie sto la strada quest’uomo mi ha do mandato perché volessi saperla. Ho esitato un po’ ma poi gli ho detto che mio padre era lì come soldato SS il 19 agosto. Lui rispose “bene che siete ve nuti”. Questo mi ha incoraggiato sem pre». L’uomo era Romolo Guelfi, so pravvissuto alla strage, che accompa gnò Surer al memoriale dove gli rac contò la sua storia.
«Senza aspettarmi di incontrare un sopravvissuto “ci sono caduto dentro così”. Da lì mi hanno invitato a tornare e così dal 2006 in poi sono sempre ve nuto ad agosto per la settimana delle ricorrenze». Negli anni Udo ha incon trato molti sopravvissuti. Con alcuni, come Celso Battaglia, superstite di
Vinca, ha stretto rapporti profondi. Da loro dice di aver imparato il «rispetto e la compassione» e di essere riuscito, grazie a questi incontri a «riempire con qualche emozione» il vuoto che aveva accompagnato la conoscenza.
Per le colpe del padre, però, non ha chiesto mai perdono. Farlo non sarebbe appropria to. Il perdono può essere dato solo a chi ha commesso l’azione e a chi, soprattutto, ha provato rimorso e pentimento. È una questione indivi duale, quasi privata, il chiedere e dare perdono. Ciò che Surer sente su di sé è, piuttosto, il peso di una responsa bilità che si deve concretizzare in im pegno civile.
«Responsabilità e colpa sono due cose diverse. Io sento certamente una responsabilità per questa storia fami liare, ma soprattutto credo ci sia la responsabilità dello Stato tedesco che, infatti, si è assunto il peso delle azioni del Terzo Reich». Se gli si chie de perché torni ogni anno nei luoghi dei massacri cui suo padre ha parteci pato Udo risponde che lo fa perché ne
ha bisogno, «ormai mi sento a casa, faccio sempre degli incontri belli, emozionanti. Finché avrò le forze di farlo, lo farò».
Dice anche di non voler dare un si gnificato al suo gesto, che «ognuno può decidere cosa significa per lui». Non è ritualità, però. L’impegno non si esaurisce e non consiste nella com memorazione. Quello è un momento, da declinare nella quotidianità.
Portare l’antifascismo nella vita di tutti i giorni significa, per Surer, pren dere coscienza del fatto «che non ci sono solo il bianco e il nero. Quindi differenziare, rendersi conto che non ci sono risposte semplici, avere un’o pinione solo quando c’è anche il sape re dei fatti. Oggi c’è tanta opinione ma poca conoscenza dei fatti». Significa anche fare attenzione a questi tempi difficili fatti di fatica quotidiana che acuisce la difficoltà a pensare lucida mente e porta alle divisioni interne. Perché «così si sviluppa anche il fa scismo che è solo una superficie ideo logica per giustificare tutta questa aggressione».
Sulla pace fragile dell’eldorado del gas soffia il vento jihadista
Trent’anni fa il negoziato che pose fine alla guerra civile ma ora, complici gli interessi legati allo sfruttamento delle risorse, si riaccende la tensione
di Vincenzo Giardina
Charlie Chaplin cammina verso l’orizzonte dopo quel le parole sussurrate a Pau lette Goddard, la “monella” della scena finale di Tempi moderni: «Su con la vita, non ti dare per vinta; ce la faremo». Un appello evocato il 4 ottobre 1992, il giorno della pace in Mozambico. Firmata però a Roma, proprio 30 anni fa, nella sede della Comunità di Sant’Egidio a Trasteve re, con una cerimonia trasmessa in diretta televisiva nel Paese africano, in un altro emisfero. A pronunciare quel «ce la faremo», immaginando i villaggi del Mozambico che si sa rebbero risvegliati l’indomani in un Paese che provava a rimettersi in cammino, era Mario Raffaelli, già sottosegretario agli Esteri nei gover ni di Bettino Craxi, Giovanni Goria e Ciriaco De Mita. Dopo aver pre sieduto la sezione italiana dell’Ong socio-sanitaria Amref, oggi è tornato in politica con Azione, ma in tanti lo ricordano per il ruolo di negoziatore in Africa. «La sera di quel 4 ottobre, ricevetti la telefonata di José Luis de Oliveira Cabaço, un figlio di coloni portoghesi che avevo conosciuto quando studiava Sociologia a Trento e che era poi tornato in Mozambico, diventando un insospettabile agente del movimento indipendentista e in seguito un ministro nel primo gover no del Frelimo, il Frente de libertação de Moçambique; mi chiamò dalla ca
pitale Maputo, aveva ascoltato il mio discorso e mi disse: sì, ce la faremo». Ma cosa resta degli Accordi di pace di Roma, siglati dopo una trattativa durata 27 mesi, con Raffaelli primo firmatario per il governo italiano al fianco di Andrea Riccardi e di Matteo Zuppi della Comunità di Sant’Egidio e poi ancora di monsignor Jaime Pe dro Gonçalves, all’epoca vescovo di Beira, una roccaforte dei guerriglieri della Resistência nacional moçamb icana (Renamo)? «Tra le due parti oggi non c’è conflitto militare, sono entrambe rappresentate in Parla mento e quell’intesa resiste», rispon de Raffaelli, che pure nel 2014 è tor nato a mediare con successo dopo mesi di rinnovate tensioni, recluta menti nella foresta e scontri a fuoco. «Uno dei passaggi decisivi era stato il riconoscimento reciproco: il Freli mo considerava quelli della Renamo “bandidos armados” e a loro volta i guerriglieri ritenevano illegittimo il governo, di ispirazione marxista-le ninista».
Caduto il Muro di Berlino e finita la Guerra fredda, il contesto internazionale era cambiato. Non c’era più lo scontro tra Urss e Stati Uniti e anche il regime segregazionista del Sudafrica, che aveva ormai avviato il dialogo con Nelson Mandela, spingeva per un’in tesa. Il negoziato poteva partire
Le vedette tengono d'occhio il mare al porto del quartiere Paquitequete in Mozambico
ma servivano le parole giuste. Nel documento sottoscritto a Roma si ri conosceva allora l’appartenenza di en trambe le parti alla «comune famiglia mozambicana». Una formula vincen te, che ha garantito anni di pace, ma che oggi è messa in discussione. Lo raccontano le cronache che arrivano dal Nord del Mozambico, in partico lare dalla provincia di Cabo Delgado, una regione a maggioranza musulma na, tra le più povere del Paese, la stes sa dove era divampata la lotta armata contro il dominio portoghese.
Èil 2017 quando cominciano incursioni, esecuzioni som marie e violenze di nuovi gruppi ribelli. Si dice che a colpire siano gli “Shabaab”, una pa
rola che in arabo vuol dire “giovani”, già da tempo il nome di una forma zione islamista in armi contro il go verno della Somalia. In pochi anni a Cabo Delgado le persone costrette a lasciare le proprie case sono 800mi la. E con i raid e le occupazioni ar mate arrivano le rivendicazioni e le bandiere nere: quelle del gruppo Sta to islamico. Uno degli episodi salien ti è l’assalto all’Hotel Amarula, nella località di Palma, nel marzo 2021. Tra gli ospiti dell’albergo, nel resort vicino al mare, ci sono anche mana ger e tecnici stranieri. E ad appena dieci chilometri sono in costruzio ne impianti per la liquefazione del gas naturale di un valore stimato di 20 miliardi di dollari. I giacimenti di idrocarburi, offshore, sono tra i
più promettenti al mondo. Sono sta ti scoperti tra il 2011 e il 2014, negli stessi anni dell’intervento militare del Kenya in Somalia contro gli Sha baab e di una serie di operazioni di polizia ordinate dal governo di Nai robi per contrastare il proselitismo di imam e gruppi di matrice jihadista nelle regioni costiere a maggioranza musulmana.
Le tensioni viaggiano verso Sud, in riva all’Oceano India no, lambendo la Tanzania e l’arcipelago di Zanzibar fino al Mozambico, l’eldorado del gas. In Italia se n’è parlato di recente anche per l’uccisione di una suora combo niana, Maria de Coppi. La sua mis sione, mai abbandonata, neanche
negli anni della guerra civile, è stata assaltata da un commando di uo mini armati il 6 settembre. L’episo dio si è verificato nella provincia di Nampula, più a Sud rispetto a Cabo Delgado. Secondo Raffaelli, però, «il conflitto resta molto diverso da quello combattuto fino a 30 anni fa, anche perché è localizzato in un’area specifica del Paese». Se uno dei no di è la distribuzione dei proventi del gas, oggi l’Italia ha un ruolo. Tra le multinazionali dell’energia titolari di concessioni in Mozambico figura Eni. A differenza dell’americana Exxon Mobil o della francese Total Energy, che ha puntato sul progetto di Palma, temporaneamente sospeso per ragio ni di sicurezza, il gruppo italiano ha concentrato le sue attività offshore.
La scommessa è strategica: entro fine anno è previsto l’avvio della produ zione di gas liquefatto in un impian to galleggiante che può ospitare fino a 350 persone e ha a disposizione un giacimento da 450 miliardi di metri cubi. Ma davvero le risorse naturali rischiano di alimentare instabilità? «La componente gas può essere una concausa e un moltiplicatore del con flitto ma non la sua origine», rispon de Raffaelli. «Il potere del Frelimo si è sempre fondato sull’alleanza delle zone del regno di Gaza al Sud e i ma konde, una comunità di tradizioni guerriere con base a Cabo Delgado: oggi il timore è che alcuni gruppi si sentano esclusi, ad esempio i makua, e che la conflittualità aumenti». Ne parla anche don Dante Carraro, di
rettore di Medici con l’Africa Cuamm, una Ong padovana che da anni opera nella provincia a tutela della salute materno-infantile e presta ora assi stenza anche nei campi di sfollati.
«Può accadere che ci siano fasce della popolazione che ricevono più benefi ci di altre, per esempio dei pescatori sulla costa, che potrebbero risulta re penalizzati», avverte il sacerdote. «Il tema è come gestire un grande intervento offshore anche sulla ter raferma, rispetto a un’economia di sussistenza che esisteva prima». Un monito, questo, che vale anche per al tre regioni del continente, dal Corno d’Africa al Sahel. «Il problema è che le questioni di ingiustizia sociale, ag gravate magari da espropri di terre o risarcimenti inadeguati, possono es sere strumentalizzate anche da grup pi terroristici», ragiona don Carraro.
In Mozambico il governo ha dato una risposta militare chiedendo poi il supporto di altri Paesi afri cani come il Ruanda, che a Cabo Delgado ha inviato un contingente. È possibile che anche per questo alcuni gruppi ribelli si siano spostati più a Sud, verso Nampula, dove è stata uc cisa suor De Coppi. «Dopo il suo as sassinio c’è stata una rivendicazione dello Stato islamico e bisogna con siderare che il messaggio jihadista è cominciato a penetrare dal Kenya e dalla Tanzania già anni fa, durante una delle fasi più acute del conflitto in Somalia», ricorda Raffaelli. Quella Somalia per cui il negoziatore pure si era impegnato: «Non andò bene, perché gli americani imposero una risposta tutta militare e oggi vediamo com’è andata, con i raid con i droni e gli Shabaab che controllano anco ra le aree rurali». Un precedente che l’Unione Europea dovrebbe conside rare, pur nel tentativo di assicurarsi forniture di gas alternative a quelle russe; intanto, i suoi stanziamenti per il training e l’equipaggiamento anti-terrorismo dell’esercito del Mo zambico arriveranno fino a 104 mi lioni di euro.
IDEA: PASSIAMO ALLA TV FAI DA TE
Nel reality “Alone” i concorrenti si riprendono da soli. Potrebbe essere un suggerimento per i politici da talk
La presentazione è estrema: l'e sperimento di sopravvivenza più audace mai tentato in televisio ne. E in qualche modo un po’ di vero c’è. “Alone”, un reality ormai rodato che torna su Blaze, tira allo stremo le corde della sopravvivenza e getta nel nulla i suoi concorrenti senza cibo, acqua, ri
paro né conforto alcuno. Ma al di là del disagio che trasmettono questi dieci poveracci sbattuti tra gli orsi canade si e ridotti a guerrieri di “Hunger Ga mes”, lo show col suo sadismo sottile regala un dettaglio che potrebbe fare scuola. I partecipanti provano a resi stere a una natura talmente matrigna che Leopardi in confronto era un buo ntempone ottimista. E sono talmen te soli che non hanno in dote neppure la troupe. Ovvero quel che va in onda lo riprendono loro stessi con delle te lecamerine alla mano. Se non schiac ciano il bottone magico niente imma gini. Nessuna prova della loro caccia ai tetraoni da bollire all’addiaccio. Nessu na testimonianza dei pianti di solitudi ne, degli sconforti per la pioggia che gli ha distrutto il rifugio di fortuna, nes
suna inquadratura della freccia scoc cata per durare qualche giorno in più. Insomma, nel suo piccolo, una rivolu zione visiva, in cui il protagonista è il tuttofare, ti mostro quel che scelgo, dal produttore al consumatore. E che po trebbe essere un suggerimento defini tivo per la tv di questi tempi. Sul fron te reality, che sia un’inu tile Casa per finti vip, un Collegio per minoren ni o un campo di grano per aspirare all’amore, il filo conduttore alla fi ne è sempre quello del la confessione personale senza filtri. Figuriamoci poi che bellezza sarebbe se questa deriva fai-date sbarcasse su talk e Tg, che già hanno mostrato di preferire le dirette In stagram alle interviste e che tendono sempre più a promuovere il flusso di coscienza. Quando par la un esponente politi co al massimo lasciano fare, può scap pare una voce rotta dall’emozione di un direttore per una vittoria elettora le ma poco altro. Il tutto sarebbe assai più semplice, meno fatica, niente noio so stress da contraddittorio, bando al le polemiche superflue, si potrebbe la sciare che l’esponente di un tal partito decida direttamente lui cosa mostrare, sempre se ne ha voglia e non declina l’invito, per uscirne alla grande. Que sto sì che sarebbe un bel salto di qua lità, altro che quarta parete. Lascia moli davvero “alone”, sfacciatamen te. Riempiamo gli studi di immagini in produzione propria e dedichiamoci a guardare altro. Non che rimanga gran ché, ma con un po’ di impegno magari si trova.
Storia di Andrea, che fa di tutto per non farsi notare
Oggi vi voglio raccontare la storia di Andrea Laszlo De Simone, perché è il contrario di come dovrebbe essere. Prima di tutto va detto che sorprendentemente non si tratta di un nome d’arte, ma di un nome accorciato. Intero fa Andrea Oliviero Laszlo De Simone Saccà, e d’ora in poi verrà chiamato per brevità solo col suo primo nome di battesimo. Andrea vive nell’ombra, non, lo vedete mai in televisione, non lo sentite mai parlare in radio, ma fa canzoni. Non solo, quando agli inizi del 2021 mi capitò di ascoltare per puro caso, perché ovviamente Andrea nella sua schiva riservatezza non fa una gran promozione, un pezzo intitolato “Vivo”, rimasi folgorato. Sembrava che Andrea avesse aperto un cassetto e avesse trovato un gioiello degli anni Sessanta (zona Nico Fidenco/Sergio Endrigo) rimasto chissà come mai inedito e l’avesse pubblicato. Ma anche questo è lievemente impreciso perché la canzone (se vi fosse sfuggita andate immediatamente ad ascoltarla) possiede un senso di straniamento, alla fine perfino qualche sognante dissonanza psichedelica, che alla fine la fa apparire moderna. Ma l’incipit è lungo, lunghissimo, roba d’altri tempi, un’orchestrazione lenta e onirica, bisogna avere solo un poco di pazienza e poi dal pezzo si rimane immancabilmente avvinti. A quel punto uno cerca delle immagini, e se ne trovano, poche ma se ne trovano, e si scopre che anche qui c’è qualcosa di strano, perché baffi e capelli sembrano quelli di un militante del Movimento Studentesco agli inizi degli anni Settanta. Totalmente fuori moda. Insomma Andrea fa di tutto per passare inosservato, ma non ci riesce completamente, perché ora le note di “Vivo” stanno passando
in televisione al seguito di una pubblicità, le note attenzione, non la voce, perché quello sarebbe stato troppo. Diciamo che Andrea interpreta il termine “controcorrente” nel modo più rigoroso ed estremo, e questo in un mondo musicale morbosamente legato all’apparenza, è molto interessante. Con tempi enormemente dilatati pubblica altri pezzi. Ora ne è uscito un altro intitolato I nostri giorni, e lui fa un comunicato per scusarsi: «A tutti voi chiedo scusa perché è una canzone molto triste e ultimamente di sentimenti del genere ne abbiamo respirati parecchi», spiega Andrea: «Ma gli ultimi anni mi hanno insegnato che noi esseri umani siamo dotati di un coraggio eccezionale se nonostante tutto continuiamo, chi più e chi meno, a conservare questa meravigliosa, perversa e sana voglia di vivere….». Da notare che il pezzo, così triste e doloroso, è uscito alcuni giorni fa (il 16 settembre) ma i fatti della vita prendono le canzoni e le spiegazzano, le accartocciano, le trasformano, e ascoltare ora I nostri giorni, è già tutt’altra cosa: «Cieli chiusi in casa e fuori strade spoglie, nessuno sa che cosa accadrà, soffia vento freddo sopra i nostri giorni, e dietro le porte armati di sogni, aspettando che torni la nostra vita». Caro Andrea non preoccuparti, a chiedere scusa dovrebbero essere in tanti.
Scritti al buio/cinema FABIO FERZETTI
SE GLI ORSI NON ESISTONO
Tra realtà e finzione, il nuovo film del grande regista iraniano Jafar Panahi, attualmente in carcere
In libertà condizionata dal 2010, l’i raniano Jafar Panahi ha fatto dei film girati da remoto un’arte, non ché un metodo geniale per beffare la censura, apparendovi spesso in prima persona (vedi “Taxi Teheran”). In que sto “Gli orsi non esistono”, laureato a Venezia con un prudente Premio spe ciale della Giuria, va an che oltre. Integrando in un’unica, spietata, com movente riflessione i due spazi in cui si arti cola il film. Ovvero il pa esino di frontiera in cui Panahi si è stabilito per dirigere le riprese a di stanza, via computer; e il set del docu-fiction che è invece oltre confi ne, in Turchia.
La realtà prenderà in fatti il sopravvento tan to sul set, in Turchia, che in quel paesino mi serabile e sonnacchioso ma dominato da regole arcaiche e brutali (come tutto l’Iran). Destinate a esplodere proprio per la presenza di quell’intruso armato di telecamere e macchine fotografiche. La realtà si è imposta una terza volta l’11 luglio, quando Panahi è stato tra dotto nel carcere di Evin, dove è tutto ra detenuto, per aver protestato con tro l’arresto dei colleghi Mohamad Ra soulof (il regista di “Il male non esi ste”) e Mostafa Al-Hamad. Evento non imprevedibile che rende ancora più urgente “Gli orsi non esistono”, ama ra riflessione sulle immagini, la Legge e l’esilio, ovvero sulla scelta di restare nel proprio paese perfino quando tut to invita alla fuga (ma si può sempre tirare il freno a mano, come farà ap punto Panahi).
Il film-nel-film girato in Turchia segue
infatti le peripezie di una coppia di esuli in fuga verso l’Europa che a vol te si rivolgono dal set al regista con testando certe scelte di racconto e le conseguenze che queste hanno nella loro vita. Come accade a Panahi quan do nel villaggio si sparge il dubbio, in fondato, che nelle sue foto compaia
no soggetti “sensibili” destinati a riatti vare un’antica faida. In un vertiginoso gioco di specchi che rievoca aperta mente Kiarostami, altro gigante scom parso nel 2016, ma porta tutto su un piano nuovo. Mai forse la censura, le manifestazioni anti regime, il carce re, le torture, erano stati nominati tan to esplicitamente in un film iraniano. Il sangue versato nelle piazze del pae se in queste settimane conferma tragi camente le scelte del regista. L’Iran - il mondo - ha bisogno di sguardi ostinati e intimamente politici come quello di Panahi. Oggi più che mai.
“GLI ORSI NON ESISTONO” di Jafar Panahi Iran, 107’
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Titolare
PD, L’ANALISI AMARA DELLA SCONFITTA
Cara Rossini, ho sempre votato Pd ma questa volta non ce l’ho fatta. Troppa è ormai la distanza tra i vecchi principi della sinistra e la re altà attuale di questo partito. Vengo da una famiglia di operai che mi hanno fatto studiare fino alla laurea, incoraggiati da un’ideologia di riscatto ed emancipazione per la gente del popolo. Gente che il Pd ha abbandonato da tempo.
Annarosa Gualdi Bisognerebbe riconoscere che laddove la sinistra chiacchiera di diritti e di emancipazione, la destra toma toma cacchia cacchia fa i fatti, co me nel caso del primo senatore di colore che è stato in forza alla Lega e ora con una donna, prima premier donna nella storia d’Italia, per giun ta apertamente di destra. Pino Apicella
A mio modesto parere la sinistra dovrebbe abbandonare il Pd al suo destino di corrente tra le correntine democristiane e ricominciare da zero. Se ce l’ha fatta la Meloni, magari tra un ventennio, potrà tornare a contare davvero. Fabrizio Antilici
Il Pd e i partiti di sinistra (si fa per dire) devono dare un segnale di esi stenza in vita. Al momento l’elettroencefalogramma è quasi piatto. Vedremo nei prossimi giorni se i colpevoli della sconfitta annunciata proveranno a proporre soluzioni alle loro stesse sciagure. Maurizio C.
Avevo stracciato la tessera del Pd in contrapposizione all’elezione di Letta a segretario, non avendone mai visto uno più scialbo, poi l’ho ripresa, forse per pietà, ma il destino di queste elezioni era segnato sin da allora. Vorrei anche dire che forse l’unico con fiuto politico in Parlamento è rimasto Renzi. E non avrei mai creduto di scrivere una cosa del genere. Gianpaolo Corradi
C’è da sperare, per il bene del sistema democratico italiano, che la so nora sconfitta del partito di Letta serva a chiarire, una volta per tutte, che cosa sia veramente il Pd. Chiamarsi “partito di centrosinistra” e poi avallare politiche di destra non può che portare al disastro. Destra per destra, è naturale che gli elettori di quella tendenza scelgano l’originale e non l’imitazione. Mauro Chiostri
A quanto pare, il popolo della sinistra, di cui fanno parte quasi tutti i lettori che ci hanno scritto, non vuole scuse: vuole cambiamenti. Il grande accusato è il Partito Democratico e, con maggior enfasi, il suo segretario, fino a far sembrare che Giorgia Meloni si trovi in ma no il Paese non per i suoi meriti, ma per i demeriti di Letta e del Pd. È una lettura comprensibile ma esagerata anche perché, come ci dice un lettore anonimo più addolorato che arrabbiato: «Oggi fare la si nistra è molto più difficile poiché paradossalmente nel tempo delle maggiori ingiustizie sociali non se ne sente più la necessità».
Quella metà di Italia senza rappresentanza
Congratulazioni anzitutto a Giorgia Meloni, prima donna a diventare, se lo vorrà, presidente del Consiglio in Italia. Si tratta di un exploit destinato a sciogliersi come neve al sole, analogamente ad altri dell’ultimo decennio, al Renzi del ’14, ai Cinque Stelle del ’18, alla Le ga nazional-popolare di Salvini? Per consolidare il risultato sono nu merose e ardue le difficoltà che la vittoriosa sarà chiamata ad affrontare, ma prima di analizzarle sarà bene far mente locale alla ragione di fondo di queste fluttuazioni sul “mercato elettorale”. Tra massa delle astensioni e votanti dei partiti, movimenti o semplicemente volti (come fu nel caso di Renzi) che emer gono più o meno all’improvviso, uno è il bisogno che drammaticamente si espri me: trovare chi sia in grado di rappresentarli. Vi è almeno un 50% di italiani a caccia di rappresentanza politica, che avverte ignorate, non affrontate o addirit tura respinte senza alcuna adeguata motivazione dalle leadership di governo le proprie istanze. Società liquide? Fine della stratificazione classista? Tutto giusto quanto banale. Ineguaglianze spaventose sussistono, la crisi dello Stato sociale si aggrava, mentre altri strati della popolazione possono addirit tura trarre vantaggio dalla situazione. La so cietà contemporanea non è affatto un guazza buglio confuso. Lo è solo per chi non voglia vedere differenze, contraddizioni, interessi di parte, e non voglia o non sappia decidere con chi stare, mascherando la propria impotenza con le belle frasi sul “bene comune”. Ecco che allora gli interessi non tutelati, i settori sociali più deboli ondeggiano tra novità e novità. As saggiano una minestra, la sputano e ne prova no un’altra. Fino al paradosso di cercarla al Sud nel “nordista” Salvini! Speranze disperate, che, appunto, non possono durare che lo spazio di un triste mattino.
Al Sud si fa ritorno, allora, mestamente, alle promesse dei Cinque Stelle, premiate per l’op posizione (si fa per dire) dell’ultima ora a Dra ghi (e c’erano geni politici a teorizzare che l’a vrebbero pagata). Movimento comunque di mezzato rispetto al ’18, ma che avendo smen tito frettolosi sondaggi “osa” ora presentarsi come vittorioso. Il voto al Sud merita una ri flessione di lungo periodo. Il nostro Paese è sempre più spaccato, politicamente e cultural mente prima e più profondamente ancora che economicamente. Ciò non potrà non avere ef fetti sulla gestione di ogni strategia, a partire dalla realizzazione degli obbiettivi del Pnrr. La
divisione Nord-Sud è leggibile anche in una prospettiva territoriale micro-politica: il com portamento elettorale sempre più difforme tra centro e periferia, tra grande-media città e “campagna”. Comportamento che è spia di un contrasto socialmente radicale e potenzial mente esplosivo. Le periferie non sono più quelle operaie, si dice. E chi ci è andato ad abi tare? Quelli dei palazzi nei centri storici? E gli eredi degli operai hanno preso casa ai Parioli?
Torniamo al tema della rappresentanza cui abbiamo prima accennato. Saprà finalmente affrontarlo il Pd con un vero congresso, da cui possa nascere un nuovo gruppo dirigente?
Ma, urgente ora, saprà governare la Meloni? Troppo abile, spero, per pensare di poterlo fare alla Orbán. La sua collocazione europea dovrà essere ben profondamente riaggiustata. In fondo, la nostra nuova presidentessa dovrà ri percorrere quella strada che Fini a suo tempo aveva tentato all’ombra del Cavaliere con il Po polo della libertà. Le grandi potenze economi co-finanziarie che reggono i nostri destini non le perdonerebbero passi falsi. Qui possono porsi per lei serissimi problemi col suo “allea to”, Salvini. A meno che i viceré e i colonnelli di quest’ultimo non le facciano il favore di sba razzarsene. Salvini ha sbagliato tutto in cam pagna elettorale, battuto in ciò solo da Letta. Dovrebbero pagare entrambi, e salato, ma per Salvini non è affatto detto. Per la Meloni, però, non è soltanto questione politica, ma anche di numeri. Rispetto a Lega e Forza Italia Fratelli d’Italia avrà gruppi parlamentari sotto rappresentati rispetto al voto. La sparti zione delle candidature nei collegi uninominali era avvenuta sostanzialmente sulla base dei risultati del ’18, dove FdI aveva poco più del 4%. Dunque, la Meloni ha sì stravinto il confronto interno, ma nient’affatto per quanto concerne la per centuale dei seggi di cui direttamente disporrà. Avrà sempre assoluto bisogno dell’appoggio degli alleati. L’uno, la Lega, in grande crisi “identitaria”, l’altro, For za Italia, con una leadership che si muove apertamente in sintonia con la mag gioranza politica che governa oggi l’Unione Europea. La concordia nel cosiddet to centro-destra durerà per quanto? Sarà l’ennesima vittoria di Pirro di cui è se gnata la storia politica italiana degli ultimi trent’anni? Torneremo presto all’am mucchiata “di salute pubblica” con la Tecnica al potere? Lo imporrà il precipitare della situazione finanziaria, l’aumento dell’inflazione, la minaccia recessiva? Fallirà ancora una volta nel nostro Paese l’azione politica? Basteranno pochi mesi e i primi provvedimenti del Governo a darci la risposta.
Viste ignorate o respinte le proprie istanze i ceti più deboli si rivolgono alla novità del momento. Ora è il turno di Meloni