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TESTIMONIANZE DAL FRONTE In fuga dalla guerra

LE TESTIMONIANZE DELLE DONNE UCRAINE OSPITATE NEL SEMINARIO DI BERGAMO: «NON VOGLIAMO RESTARE PROFUGHE PER SEMPRE»

Foto Antonio Milesi Svitlana

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IN FUGA DALLA GUERRA

Per incontrarle attraversiamo le scale e gli ampi locali del Seminario di Bergamo, in Città Alta, come in altre occasioni messo a disposizione di chi fugge da paesi più o meno lontani. Fin dall’inizio di marzo qui sono arrivate decine di donne e diversi bambini in fuga dall’Ucraina invasa. Gli uomini no, nella maggior parte dei casi sono ancora al fronte, a combattere nelle città assediate dai russi. Quello del Seminario è considerato, dalla Caritas Diocesana di Bergamo che coordina l’accoglienza, solo un luogo di transito, dal quale spostarsi appena possibile negli appartamenti che le comunità di tutta la provincia hanno messo a disposizione di piccoli nuclei di persone per un arco di tempo che in questo momento appare indefinito.

C’è una coppia di mezza età che fa colazione, una signora che piange, due bambini che mangiano pane e nutella ed altri piccoli che giocano nei corridoi. E soprattutto ci sono le donne, che raccontano un’esperienza in molti casi simile. Il cuore è ancora là, nel paese che hanno abbandonato in tutta fretta, incredule di aver dovuto lasciare improvvisamente le proprie case. Sono scappate nei primi giorni di guerra (le incontriamo alla metà di marzo, ndr), e dunque vengono tutte dalla parte centro-orientale dell’Ucraina: sono state necessarie 14-16 ore per attraversarla, e altrettante per raggiungere l’Italia. Le bombe le hanno viste e soprattutto sentite da lontano, è stata la paura del conflitto a spingerle a partire.

Natalya Natalya

Natalya abitava a Kryvyj Rih, dove una base militare è diventata uno dei primi obiettivi colpiti dai missili russi. «Sono partita subito - racconta -, con i treni messi a disposizione per l’evacuazione». A Leopoli ha conosciuto Sasha: «Vivevo in un piccolo paesino - spiega la ragazza, il tono deciso nonostante i suoi 12 anni - Lì ho visto arrivare i russi con i carri armati. In questi giorni stanno bombardando il villaggio vicino al mio». Raccontano la resistenza del popolo ucraino e i ragazzi del posto che, pur non facendo parte dell’esercito, si organizzano in autonomia per fare la guardia al proprio villaggio. Quasi nessuna di loro parla inglese: anche le interpreti, alcune delle quali sono ucraine che lavorano da anni a Bergamo, si commuovono traducendo, mentre descrivono una geografia che conoscono molto bene e il pericolo che sta attraversando il loro stesso popolo.

Un’altra donna, un’altra Natalya, di Mykolaïv, racconta: «All’inizio della

NOME: Don Roberto Trussardi RUOLO: Direttore della Caritas Diocesana di Bergamo

guerra mia mamma era molto malata: ero rimasta lì per curarla. In poche ore, dopo lo scoppio dei combattimenti, è morta. Abbiamo celebrato il suo funerale velocemente, e poi ce ne siamo andati. Ma in quei giorni anche io sono dovuta scendere alcune volte nei bunker - ricorda -, e ho visto diversi palazzi distrutti. Mio marito mi ha detto di andare verso ovest: ho raggiunto Černivci, e da lì l’Italia. Lui, invece, è rimasto a combattere come volontario». «È importante che sappiate che noi non vogliamo fare le profughe a vita - tiene a sottolineare Svitlana - Noi stavamo bene nel nostro paese, nella nostra casa, e vogliamo ritornare al più presto in Ucraina».

«ACCOGLIENZA SUL TERRITORIO, NELLE COMUNITÀ MA TUTTI GLI ALTRI BISOGNI NON SONO SCOMPARSI»

«La scelta della Chiesa di Bergamo di fronte al popolo ucraino in fuga è stata ancora una volta chiara - spiega don Roberto Trussardi, direttore della Caritas Diocesana di Bergamo - Abbiamo aperto le nostre porte in tempi rapidissimi e costruito una modalità di accoglienza diffusa, lungimirante e generosa».

Come avete agito per rispondere all’emergenza? «Già l’1 marzo anche a Bergamo sono cominciate ad arrivare persone che scappavano dalla guerra. Le prime ad accoglierle sono state le suore di clausura del convento Matris Domini in via Locatelli, al quale si sono presto aggiunti gli spazi del Seminario, in Città Alta. Quest’ultimo rimarrà un “polmone” da cui le persone si sposteranno sul territorio, nelle abitazioni messe a disposizione dalle varie comunità, in immobili di proprietà delle parrocchie o di privati: per ora (metà marzo, ndr) ne contiamo oltre 100, per un totale quindi di circa 500 posti. Il problema, però, è che gli arrivi previsti sono molti di più».

Che indicazioni state dando a chi intende ospitare? «Siamo molto sinceri: non sappiamo quanto tempo durerà l’emergenza, se un mese, un anno, o di più. Per questo preferiamo abitazioni indipendenti, per non mettere in difficoltà le famiglie ospitanti. E poi cerchiamo di fare in modo che la comunità in cui si trovano (o quelle vicine) diano un contributo economico, per esempio per le bollette o il vitto. Facciamo ciò che ci è possibile: almeno in questa fase, le comunità cristiane di Bergamo stanno sostenendo interamente le spese di persone che hanno bisogno di tutto».

E non solo loro… «Dopo il Covid e l’Afghanistan, questa è un’emergenza che va a sommarsi a quelle che c’erano già, e che non sono scomparse. Tutte le persone hanno pari dignità, per cui la nostra decisione è quella di non ridurre in alcun modo, per esempio, l’accoglienza dei migranti in arrivo dall’Africa, né quella dei tanti senzatetto, poveri o tossicodipendenti che ogni giorno bussano alla nostra porta».

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