Fabrizio Frignani
Il Monte Pezzola un luogo per vivere emozioni 44°36’52”N-10°26’25”E
EDIZIONI ISTITUTO ALCIDE CERVI
Copyright Š NOVEMBRE 2016 ISTITUTO ALCIDE CERVI - BIBLIOTECA ARCHIVIO EMILIO SERENI via Fratelli Cervi, 9 42043 Gattatico (RE) tel. 0522 678356 - fax 0522 477491 biblioteca-archivio@emiliosereni.it www.istitutocervi.it ISBN 978-88-941999-2-5 I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento anche parziale, con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi. Non sono assolutamente consentite le fotocopie senza il permesso scritto dell’Editore.
stampato su carta certificata
Ai miei genitori Franco e Paola
Indice
Presentazione ................................................................................................................................................
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Prefazione ..................................................................................................................................................... 11 Il Monte Pezzola, un luogo ............................................................................................................................ 13 Da ..............�Il Monte Pezzola, un balcone naturale per infinite emozioni ................................................... 19 Guardare oltre ............................................................................................................................................... 45 Geolocalizzazione ......................................................................................................................................... 89 Ricordi ........................................................................................................................................................... 91
Presentazione Venticinque anni fa i fratelli Frignani, Fabrizio e Federico, scrivevano sulla Carta dei sentieri natura di San Polo d’Enza: “Da tempo, ormai, perseguiamo il proposito di stimolare le persone a camminare lungo i sentieri … per coloro che hanno voglia di guardare con occhio diverso la natura, l’architettura e l’ambiente umano”. Da allora Fabrizio ha proseguito con coerenza e passione, sia nella precedente attività professionale di ricerca ambientale che in quella attuale di fotografo, geografo e formatore, nell’osservazione instancabile dei segni lasciati dal tempo, dei particolari disegnati dalla natura, dei paesaggi che ci accompagnano a leggere le realtà e a vivere i sogni. Il nostro comune interesse per l’andare in montagna, anzi nella pedecollina dove abbiamo la fortuna di vivere, sta nel piacere di godere degli spazi aperti, dei cieli ricamati da osservare nel silenzio del vento. Fabrizio ha sviluppato la propria passione per la fotografia in questi luoghi, come il Monte Pezzola, alla ricerca della libertà, dell’avventura e del confronto con la natura, camminando nelle strade campestri, avvicinandosi ai piccoli borghi, ascoltando i rumori… Successivamente, attraverso la sempre migliore acquisizione delle tecniche e la propria sensibilità, ha sentito il bisogno di condividere le sue emozioni, di raccontare questi luoghi con il mezzo migliore che conosce per esprimersi: la fotografia. Il libro racconta, attraverso una serie di immagini bellissime, di un “punto di osservazione unico che diventa anche un punto di riferimento geografico”. Il Monte Pezzola, “regno del silenzio assoluto”. La fotografia è divenuta così il tramite, il legame, fra il luogo specifico, Pezzola, e il fotografo. La sua personale ricerca di un racconto per immagini ha spinto Fabrizio ad entrare in un diverso livello di intimità, di quasi empatia con gli umori di quel monte. Gli umori più intimi di un monte che possono essere ritratti nell’insolita luce dell’alba e del tramonto, fra i raggi di sole che filtrano dalle nuvole o di una tempesta che è prossima al termine. La fotografia di paesaggi è osservazione e testimonianza nella rappresentazione degli spazi umani e naturali. Non c’è nulla di meglio di una finestra sul mondo per descrivere le diversità che permettono di riconoscere i caratteri tipici, naturali e antropici, storici, culturali, e l’unità commisurata nella spontanea fusione dell’opera della natura con quella dell’uomo. Grazie Fabrizio per averci regalato questo bel volume sulla nostra terra, in cui ritroviamo alcuni scatti, che sembrano quasi dipinti, già ammirati nella mostra “Il Monte Pezzola: un balcone naturale per infinite emozioni” nel Castello di San Polo d’Enza e la narrazione fotografica delle emozioni che questo piccolo cosmo ti ha stimolato e che risveglierà senz’altro nei più attenti osservatori. Edmondo Grasselli
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Prefazione Sempre caro mi fu quest’ermo colle, E questa siepe, che da tanta parte Dell’ultimo orizzonte il guardo esclude. Ma sedendo e mirando, interminati Spazi di là da quella, e sovrumani Silenzi, e profondissima quiete Io nel pensier mi fingo….. Giacomo Leopardi, I Canti, XII, L’infinito
Il Monte Pezzola come la siepe di Leopardi. un monte che attraverso lo scatto fotografico ha aperto in Fabrizio Frignani il mondo della poesia, fatto di soste faticose e incantate nella sua terra che conosce palmo a palmo, di pensieri sull’esistenza delle cose, della natura in primo luogo, in colloquio costante con l’individuo, con la sua singolarità sperduta nella sua immensità, che lo avvolge, quasi una cosmologia il cui ritmo più prossimo, più udile, è la vacuità del presente e della storia, delle cose tutte. Questa esperienza fotografica di Frignani non è recintabile nello spazio di un’esperienza fine a se stessa: è un universo di pensieri e di ritmi, di immagini e di interrogazioni, di sprofondamenti e di illuminazioni. Si fa scrittura fotografica perché pone domande che vanno al di là della secchezza dello scatto per approdare al fuoco della vita, si fanno immagine dolcissima e rassicurante fino ad arrivare dove la conoscenza confina con il nulla; con l’infinito, appunto. Immagini di un severo disincanto. Il paesaggio è un grande teatro in presa diretta: alture, avvallamenti, saperi, silenzi, dove il pensiero vede il proprio limite, scopre la propria impotenza a dire l’infinito che sta oltre quel monte. Ma intravede, in quello stesso istante, una zattera che sopravvive al naufragare del pensiero, come un sentire della macchina fotografica, del suo linguaggio che è la condizione, povera e insieme abbagliante, nella quale noi restiamo e esistiamo. Il tempo è l’altra categoria che accompagna queste immagini; un tempo che cambia, che fa mutare sguardo e pensieri, colori e esistenza insieme. Nel linguaggio della fotografia questo tempo finito, bruciato, che più non è, torna come ritmo, si dispiega come 11
parvenza di quel che più non c’è, ma che intanto prende voce, figura, nel fascino della lontananza. Una immagine che, pur avvolta nell’onda del ricordo, è a noi prossima, più intima di quando lo sia stata nel nostro suo primo incontro, in anni ora passati. La luna tramonta, il sole sorge e nella loro luce affondano le forme visibili, e i pensieri, e affonda il suono della vita stessa, ma tramonti e albe mandano i loro raggi, come canti che accolgono la vita, nella nascita e nel declino. Anche i fiori ripresi nominano la luce, ci mostrano la consapevolezza del sorgere e del tramontare. E le ombre, il loro allungarsi continuo sono come il respiro del vivente. Che questa natura sia il paese perduto? O forse mai conosciuto, o mai esistito, di un incantamento originario del quale solo lo spirito fanciullo può conoscere e conservarne qualche traccia? Una primavera adorata e odorosa che scuote la natura tutta col suo vento. Una primavera che ha un suono, un suono che consola, radicata nel sentire profondo, perché giocare con i fiori del bosco o del frutteto sono modi per ascoltare la voce della natura e muoversi verso la poesia. La primavera, il suo ridente corteggio di verdi, li luci e di ombre, di risa e di profumi, sono chiamati a significare i desideri, a mostrare i ricordi, a dialogare con l’essere di chi opera lo scatto fotografico e di chi ne usufruisce. Tempo e paesaggio che la lingua della fotografia può ritrovare, raccogliendo tutta la luce e tutto il suono della stagioni, che sono le stagioni della vita. Variazioni, tutte, nel senso della transitorietà: dalla primavera all’autunno, dall’estate all’inverno, dal giorno alla notte e dalla notte al giorno, tutto scompare nell’oltretempo dell’assenza: non vi è figura di uomo in nessuno di questi scatti. Il rapporto simbiotico si consuma tra il poeta-fotografo e l’infinito della natura. Non può esserci scambio con una umanità altra: la sparizione dell’uomo come respiro della natura. Gabriella Bonini
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Il Monte Pezzola un luogo Per la maggior parte di voi queste immagini potranno essere semplicemente delle belle fotografie che spero potranno indurvi a fare riemergere dalla memoria stati emozionali profondi legati a momenti della vostra vita. Scatti fotografici che vi accompagneranno alla conoscenza o alla riscoperta di un luogo, che contemporaneamente può diventare simbolicamente tanti “altri luoghi” che, anche se ben presenti nel nostro orizzonte dello skyline quotidiano, diventano, proprio perché quotidiani, abitudine. Un’abitudine che trasforma il nostro spazio geografico, la nostra carta mentale quotidiana, in un Non Luogo fatto di routine, che perde contemporaneamente rappresentatività oggettiva figurativa un riferimento nello spazio, ma soprattutto privo di quell’importante componente emozionale che collega i nostri stati d’animo con l’alternarsi delle condizioni meteorologiche, delle stagioni, della luce, del buio. Quelle emozioni che ci possono semplicemente arrivare o riemergono nel momento in cui osserviamo un paesaggio in questo o un altro luogo, durante una pioggia, una nevicata, alla luce del sole, con la presenza o meno di nuvole, con i colori delle stagioni. Per me queste foto, oltre che raffigurare stati emozionali profondamente personali, prima di tutto sono il mio modo di esprimere un sentimento e allo stesso tempo di volere fare conoscere questo luogo. La mia montagna, così mi piace chiamarla anche se geograficamente è una collina, che spesso mi vede suo ospite, oggi con un aspetto ben preciso ma non definitivo nel tempo, un paesaggio, meglio dire dei paesaggi (perché diversi sono i paesaggi del Monte Pezzola in quanto ben definiti sono i versanti Nord, Est, Sud, Ovest) che l’uomo attraverso le sue azioni ed i segni che vi ha lasciato, ha costruito nel tempo. Un paesaggio composto da una serie di stratigrafie che si sono sedimentate lentamente, imprigionando tra uno strato e l’altro gli eventi storici, le storie delle persone che hanno vissuto quel tempo con la propria cultura e le proprie conoscenze, i segni che rappresentano le azioni della presenza dell’uomo. Un insieme di fonti che permettono di ricostruire non solo la storia del luogo ma anche le storie delle genti che l’hanno vissuto e modificato. Il nostro rapporto è ormai così intimo che ogni volta al mio ritorno, il Pezzola mi regala qualcosa di particolare, un colore, una sfumatura, un fenomeno naturale, che mi accompagna a provare sempre nuove emozioni. Il Pezzola è un luogo dove ci si scollega dal quotidiano, dove puoi vivere in ogni momento un avventura personale, così come lo erano, da piccolo appena arrivato a San Polo, le prime uscite con i compagni di classe. Era avventura correre nei campi o percorrere faticosamente in bicicletta le carraie tenute in ordine dai contadini che da sempre hanno coltivato i suoi versanti. Allora era un luogo dove si facevano esperienze nuove, dove si provava l’eccitazione dell’avventura, che ci permetteva tranquillamente di andarcene da casa finita la giornata scolastica e rientrare a sole tramontato, senza che nessuno si preoccupasse dove eri finito e ti chiedesse dove avevi passato la giornata, anche perché le abrasioni lungo gambe e le braccia parlavano da sole. Poi, in ogni caso tutti ci si conosceva; ma soprattutto non esisteva il cellulare. Quel luogo dove si poteva cominciare ad esplorare il mondo da soli, conoscere attraverso l’esperienza diretta ciò che ci stava intorno. Percorrendo le strade campestri che da Villa Cadorio portavano a Villa Pezzano e quindi alla cima del Monte Pezzola (le prime volte su una cima di una montagna senza essere accompagnati da mamma e papà), ci si avvicinava alle varie case sparse abitate da famiglie che davano il nome al piccolo borgo. Così facendo si cominciava ad imparare ad orientarsi, a conoscere i nomi in dialetto delle località, dei singoli campi, si veniva a conoscere inconsciamente le origini e le radici della comunità alla quale si apparteneva. 13
Nascevano le prime carte mentali (imparerò molto dopo che si chiamano così) costruite attraverso l’esperienza nel laboratorio territorio. Il Pezzola, uno spazio geografico che diventa luogo per conoscere, imparare ad apprendere, per diventare curiosi, ma allo stesso tempo anche provare le prime paure, i timori del non conosciuto. Quello spazio grande senza un perimetro definito, l’indefinito che ti porta fotografare mentalmente gli elementi che ti permettono di capire dove ti trovi. Le prime esperienze dove si provavano ad esplorare anche nuove situazioni immateriali che ti vengono da dentro, che da piccolo non capisci, perché non sai cosa sono e da dove vengono. Mi reputo fortunato ad avere avuto la possibilità di vivere questi momenti in libertà, sottolineando che queste mie parole non vogliono essere elogio della nostalgia, anche perché questa curiosità trasformatasi in ricerca oggi è diventata una necessità che continuo a perpetuare anche adesso che sono molto più grande. Questo allontanarsi coraggiosamente sempre di più, dal punto di riferimento che era la casa, diventava avventura; si potevano sentire gli odori, ascoltare i rumori, vedere cose nuove che affascinavano (per i ragazzi di oggi non più elementi di fascinazione), toccare con mano le cose, anche una rana, e per i più coraggiosi un serpentello, attraversare senza bagnarsi un rivolo d’acqua, tutto ciò era divertimento e gioco. Oggi purtroppo queste attività esperienziali vengono demandate alle poche scuole che riescono attraverso “laboratori”, grazie a docenti capaci e coraggiosi a portare avanti queste attività, diventando eccellenza nella formazione didattica generale, per i pochi studenti fortunati che le frequentano. Oggi i bambini sono costretti ad una vita velocissima, omologata dentro rigidi schemi, ricca già di fitti appuntamenti in strutture protette (da cosa?) non hanno più la percezione di cosa sia il viaggio, tanto meno l’esplorazione, non parliamo dell’avventura. Oggi conoscono benissimo cosa significa andare da qui a là, ma cosa e quanto c’è in mezzo non ha importanza, non ha nessun valore. Il rischio che si corre è quello che di fronte ad una omologazione della vita, dei linguaggi e del pensare, si potrà arrivare ad un tale impoverimento culturale che un giorno, senza la conoscenza delle identità e delle radici culturali, senza memoria storica e la capacità di orientarsi in un qualsiasi spazio, potrebbe essere messa in discussione probabilmente anche la libertà. Il Monte Pezzola non è quindi un luogo unico al mondo, come ho scritto sopra, è uno dei tanti luoghi dove ognuno di noi può trovare, quel qualcosa che ti permette di riconnetterti con il tempo fuggito via, con i ricordi, con le memorie, per conoscere meglio il passato, il presente e proiettarsi in un futuro sia esso vicino o lontano. Ma è anche uno dei luoghi particolari (dell’anima), dove ho trovato e trovo sempre quel qualcosa che ti punge (Roland Barthes) o più semplicemente quel qualcosa che ti permette di abbandonare la frenesia della quotidianità, per riappacificarsi con il tempo nel tempo, riscoprendo la bellezza della lentezza e la condivisione con il tempo del silenzio. Un luogo che si presenta sempre in modo diverso, dove si può assistere ad una serie di rappresentazioni in continua evoluzione. Il paesaggio a noi noto, impresso nella nostra memoria ci sorprende e ci presenta altri paesaggi fino a quel momento sconosciuti, diventando per chi ha tempo di osservare ed ascoltare un palcoscenico attivo, dove gli attori silenziosi non smettono mai di recitare. Le scene si susseguono una dietro l’altra, senza mai ripetersi, con cambi d’abito continui, lenti, raramente frenetici, ma sempre all’interno della semplicità e delle regole della natura. In quel momento il Monte Pezzola diventa il mio luogo, ma può diventare anche il vostro luogo dove potere assistere liberamente ad uno spettacolo unico, irripetibile, ma soprattutto personale, che ognuno di noi può percepire secondo la propria soggettività, ma soprattutto secondo la propria sensibilità, per costruire con l’immaginazione anche una realtà fantastica dove rifugiarsi per trovare nuove emozioni o più semplicemente un momento di pace. 14
A questo punto, per potere assistere a queste rappresentazioni, bisogna costruirsi uno spazio, un belvedere, dove riappropriarsi del “territorio”, dove fermarsi, per riflettere, pensare, percepire, ascoltare, ed eventualmente cogliere l‘immagine (con la mente o una fotografia), l’istante, di quella particolare scena, che il paesaggio non rappresenterà più. Un belvedere per osservare in quel momento nell’orizzonte un paesaggio che è stratigrafia di eventi nello spazio, nella storia, nel tempo, ricco di segni e particolari spesso nascosti perché camaleonticamente ben mimetizzati, forse non solo nel paesaggio ma anche nella nostra memoria. Ad un certo punto un particolare ci riporta nel tempo della memoria e nella sua parte più intima e personale, attraverso i ricordi emergono da questo spazio non definito, anche i nostri cari più lontani, scomparsi. A questo punto l’insieme diventa più chiaro, lentamente tutto si materializza, un tempo immaginato spesso non quantificabile, si trasforma in un tempo ben determinato, fatto di anni, giorni, ore, date che diventano numeri, luoghi, momenti, una mappa dei sentimenti personali. In quel momento, attraverso la memoria, la storia è ritornata vicina, comune, conosciuta, personale.
Dov’è questo luogo? La montagna intrisa di tutti questi stati emozionali è lì dietro l’angolo, anzi in questo caso per gli abitanti di San Polo d’Enza è lì sopra le loro teste. Il Monte Pezzola (451 metri slm) si trova nel Comune di San Polo d’Enza, in Provincia di Reggio Emilia, ultimo baluardo delle colline che formano l’Appennino Reggiano, quella pedecollina che dai tempi più remoti ha diviso la pianura dalla montagna, il mondo orizzontale da quello verticale. La montagna dei sampolesi, molti dei quali oggi non ne conoscono nemmeno il nome tantomeno l’ubicazione, proprio perché nel contesto visivo è diventata “abitudine” e non la osserviamo più. Eppure, questa montagna è veramente dietro l’angolo è molto vicina, infatti per passare dallo spazio urbano alla solitudine assoluta bastano 20-30 minuti a piedi dal centro. Una montagna non banale, d’inverno è spesso possibile vederla incappucciata di neve, oppure, quando la neve ricopre anche la pianura, il manto bianco sui suoi versanti si fa più sostenuto. Dopo pochi giorni è affascinante salire dal versante esposto a Nord sulla neve anche spesso dura e svalicare sul versante esposto a Sud in pieno sole e privo di neve. Una montagna che da sempre osserva gli eventi che si sono succeduti nell’immensa e ignota pianura ricoperta, anticamente di acque libere divaganti tra grandi superfici boscate, così come è testimone silenziosa dei comportamenti umani sul territorio fin dai primi insediamenti lungo i terrazzamenti che emergevano dalla acque. La sua cima è un punto di osservazione unico, non a caso vi sono stati trovati i resti di un antico oratorio dedicato a S. Antonio, ma è anche un punto di riferimento geografico, ben visibile ad esempio dal castello di Rossena e più a Sud dalla cima del M. Ventasso. Dall’alto è possibile leggere gran parte della pianura Padana, di fronte a Nord è sempre presente la sagoma del M. Baldo che ci fornisce in tempo reale come sono le condizioni meteorologiche al di là della pianura, sulle Alpi. A volte, quando il Baldo emerge all’orizzonte dalla pianura ricoperta di una fitta coltre di fredda nebbia, la sua iconografia riconduce, senza nemmeno chiudere gli occhi per fantasticare, al M. Fuji o al Kilimangiaro, mondi molto molto lontani. Sempre osservando la pianura Padana ad Ovest, quando le giornate sono più serene ed il vento ha spazzato via un po’ della cappa di smog che le grandi città della pianura producono, appare anche la sagoma del Gran Paradiso. Da lassù è possibile allungare 15
lo sguardo su quanto l’uomo ha prodotto come antropizzazione, a quel punto ci si rende conto che lo spazio rurale, non naturale quello è già scomparso da tempo, in pianura ormai è sempre più scarso. La necessità di rivedere certi comportamenti dell’uomo spostandosi dal consumo irrispettoso debordante della nostra contemporaneità, ad uno sviluppo sostenibile non sono dicerie di qualcuno ma effettive necessità, tra l’altro da tenere in seria considerazione anche con una certa urgenza per garantire un futuro ai nostri figli e alle generazioni che verranno. Volgendo lo sguardo a Sud dominano le montagne, da qui è possibile osservare quasi tutto il crinale appenninico ad Ovest il M. Cusna, ad Est gran parte delle cime parmensi, passando dal valico del Lagastrello che divide le Province di Reggio Emilia, Parma e Massa Carrara. In mezzo altri luoghi, il castello di Rossena la Pietra di Bismantova e il M. Ventasso. Un susseguirsi di paesaggi umanizzati, rurali e culturali, dove è possibile nello stesso momento immergersi in un mondo reale che si può trasformare in un attimo in un mondo immaginato. Sembra di essere in un luogo irreale, l’ordine geometrico delle trame della grande pianura appena lasciata alle spalle, viene sostituito con un paesaggio umanizzato costituito da un susseguirsi di campi dalle forme regolari, alternati con boschi dove il tutto adagiato è sulle sinuosità delle colline. La sensazione che si prova subito è quella di trovarsi di fronte ad un paesaggio dove l’uomo ha avuto più rispetto dei luoghi: che tutto ciò che rappresenta la presenza umana, sembra semplicemente o solamente adagiato–appoggiato con delicatezza sui terreni, a simboleggiarne la presenza temporanea e rispettosa. Era noto ai nostri vecchi che la natura comunque in ogni momento può modificare tutto e tornare ad un proprio stato di equilibrio. Un territorio sempre più fragile, al contrario di un tempo non così lontano, dove le generazioni che ci hanno preceduto, con coscienza ed esperienza, avevano imparato a preservare ogni porzione di terreno per produrre e prelevare ciò che serviva per vivere in perfetto equilibrio con l’ambiente ed il territorio. Sullo sfondo a questa alternanza di paesaggi dalle morbide ondulazioni delle colline, si delinea marcatamente una barriera verticale, il crinale appenninico dove vi sono cime che superano i 2000 metri di altitudine. Un confine geografico tra area continentale ed area mediterranea, ma anche un confine, climatico, culturale, tra genti, con uno spartiacque imponente che delimita un limite geografico ideologico, (per fortuna senza muri e barriere) tra Nord e Sud. Apparentemente invalicabile ma che allo stesso tempo attraverso i passi (le porte mediterranee) diventa un importante cerniera di collegamento, un ponte luogo di scambio. Nell’orizzonte domina imponente il M. Cusna (la cima più alta dell’Appennino reggiano). Se lo si osserva più attentamente si può percepire la figura di un uomo sdraiato, infatti il M. Cusna per i locali è il protettivo gigante che dorme, figura che nasce da un’antica leggenda che accomuna tutte le genti che vivevano e vivono sui suoi versanti e nelle sue valli. Più staccato, ma non meno importante, il M. Ventasso, uno scoglio lontano dal crinale, un mondo a parte con un’anima misteriosa legata alla presenza di fate che danzano in prossimità della sella antistante la sua cima. Non per nulla per i locali non è il M. Ventasso ma il monte delle Fate (int el Fade). Ecco che dalla cultura popolare emergono quelle figure tipiche del mondo fantastico, magico, che non hanno mai abbandonato i luoghi dove sono state generate. Oggi riprese con forza per rivendicare un’identità culturale che accentua l’appartenenza a quella comunità, che ha radici profonde proprio in quel paesaggio culturale. Forse anche per sottolineare una differenza, ma che in questo caso voglio interpretare proprio con la volontà di riavvicinarsi di riappropriarsi dei valori tipici e intrinsechi a quel territorio a quei luoghi di quelle genti, ieri semplicemente occultati perché prodotti da un mondo rurale che per troppo e lungo tempo è stato considerato marginale rispetto il mondo urbano diventato la centralità. 16
In mezzo la Pietra di Bismantova, il sasso dantesco, basta questo per ricordare ed immaginare immediatamente quel meraviglioso viaggio tra l’Inferno il Purgatorio ed il Paradiso narrato da Dante. Anche il versante EST non è meno emozionale, il sorgere del sole dalla cima del Monte Pezzola è un qualcosa di speciale. Il sole la mattina presto illumina lentamente tutta la valle del Torrente Modolena. Una valle abbastanza ampia che permette di allungare lo sguardo verso la pianura, già illuminata dove la vita è ricominciata probabilmente con la sua solita frenesia, mentre quassù le prime luci dell’alba cominciano a svegliare molto lentamente i pochi abitanti, anche quelli del bosco. Il versante Ovest è quello del tramonto, che guarda verso la Provincia di Parma. Un versante speciale, dove lo spazio del tempo emozionale è più breve, rapido ma molto intenso, come sono intensi i toni rossi che si accendono nel cielo, quando il sole si nasconde dietro la medievale torre sull’omonimo monte di Guardasone. Questo è anche il versante dove è possibile osservare da un punto di vista privilegiato nel suo insieme l’abitato di San Polo, per godere di quel momento meraviglioso che è il passaggio tra il giorno e la sera, quando le luci nel cielo si spengono e lentamente si accendono le luci, anche se artificiali del mondo abitato. Allo stesso momento sulla cima del Monte Pezzola regno del silenzio assoluto, il mondo selvatico riemerge, si mette in azione e comincia a rendere la notte viva, ma questo non si può raccontare o meglio non voglio raccontarlo con la fotografia, forse con le parole, ma vi consiglio di viverlo direttamente per poterlo portare dentro i vostri ricordi.
Gli stati emozionali narrati con la fotografia La fotografia, l’arte di disegnare con la luce, diventa il mezzo, lo strumento, con il quale cogliere e comunicare questi sentimenti emozionali, che possono essere contemporaneamente, la pura rappresentazione iconografica di ciò che osserviamo, oppure, trasformati con l’immaginazione in una realtà fantastica (il mondo immaginato) dove spesso possiamo rifugiarci per trovare emozioni, ancora più profonde e personali. La forza comunicativa della fotografia sta proprio in questo, cioè nel permettere di fissare delle immagini, dei momenti, degli eventi, consentendoci, quasi anche dopo anni, di rivedere e allo stesso tempo di riportarci in quel preciso istante, in quel preciso evento, addirittura dentro il fatto. La fotografia ci permette di viaggiare nel tempo senza alcun limite e confine, di rimanere osservatori passivi, oppure trasformarci in attori attivi, facendoci provare emozioni, che si trasformano in ricordi, che ci permettono di ricostruire memorie. La fotografia è linguaggio, forse è meglio parlare di linguaggi, in quanto da come noi ci poniamo di fronte ad uno scatto, possiamo leggerlo in modi diversi, interpretarlo ognuno attraverso la nostra soggettività con sfumature diverse, con punti di vista differenti; non è facile rimanere obiettivi di fronte ad una fotografia. La fotografia conduce a stati emozionali progressivi, prima o poi di fronte ad uno scatto viene fuori il nostro io, il nostro essere, con tutte le complicazioni umane intrinseche alla persona. Ad una prima osservazione si può anche rimanere passivi, poi lentamente lo sguardo ci spinge ad osservare oltre, va più in là della semplice “figura” fissata nell’immagine, si entra a questo punto in una 17
trasposizione di comparazioni personali prima offuscate, poi sempre più nitide, tenute segrete nella nostra mente. A quel punto, quello scatto, che apparentemente ci può sembrare molto distante, ci diventa amico, famigliare, perché in ogni modo ci sta riconducendo anche verso contenuti personali, che non sono presenti a prima vista nell’immagine. Qualsiasi scatto diventa un luogo di memorie espanse in orizzonti spazio temporali, che attraversano e raccordano le fasi del tempo. La fotografia diventa luogo della memoria quando quell’attimo fissato nel tempo attraverso la memoria fa riemergere i ricordi le emozioni personali, diventa luogo dei sentimenti quando le emozioni ed i ricordi riaccendono quel qualcosa che difficilmente si può spiegare, anche se nell’immagine non ci sono cose o persone che possono ricondurre ad affetti o effetti personali. Una fotografia posta in un angolo della casa, più volte durante una giornata, attira il nostro sguardo, accende i nostri sentimenti e quando raffigura un qualcosa a noi molto caro, spesso ci spinge ad avvicinarvisi ed avere verso questa rappresentazione iconografica, una devozione che si può spingere, utilizzando i sensi, anche nel ricercarvi un contatto fisico con il tatto; una delicata carezza. Le fotografie riportate in questo volume sono state scattate in diversi anni di camminate sul Monte Pezzola, si possono dividere in due serie, la prima è quella delle fotografie presentate nella mostra dal titolo “Il Monte Pezzola un balcone naturale per infinite emozioni”, tenuta a San Polo d’Enza alla fine dell’estate del 2013, riconducibili alla rappresentazione più classica del paesaggio, quella del luogo bello. Ombre accentuate, colori primaverili, contrasti comunque naturali, anche se in ogni caso sono una mia interpretazione. Scatti fotografici, che vogliono soprattutto dimostrare la presenza di un bel paesaggio in un luogo oggi ai più sconosciuto, quello vicino casa dietro l’angolo. La seconda è quella delle fotografie dove inizia una fase d’interpretazione e di rilettura dello scatto fotografico, dell’immagine, per andare oltre a ciò che è visivo. Alla ricerca di particolari, dettagli che fanno emergere altre emozioni, altri stati d’animo. Cosa cerco io in quel momento in quell’immagine, cosa mi sta raccontando quel paesaggio? Il momento nel quale pongo domande e contemporaneamente cerco risposte non in un uomo, ma nelle azioni dell’uomo. Le risposte si materializzano con la fotografia e diventano narrazione. La complicazione è la sintesi dello scatto, un’immagine spesso è fine a se stessa, per il fotografo la narrazione della storia inizia e finisce con quello scatto. La fotografia apparentemente statica in realtà è incredibilmente dinamica, ogni scatto può diventare anche qualcos’altro molto diverso da quanto fissato nel negativo un tempo, nel file digitale oggi. Quindi, la fotografia è un linguaggio forte, non tanto per ciò che vi è fissato, ma proprio per la sintesi che essa rappresenta o per quanto potrà raccontare apportandovi dei filtri. Ogni singola posa è contemporaneamente una storia che fa parte di una storia più complessa, una narrazione nella narrazione. Probabilmente è uno dei pochi linguaggi, forse l’unico, che permette questo.
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Da .......�il Monte Pezzola, un balcone naturale per infinite emozioni�
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Guardare oltre
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Sono sempre alla ricerca di un luogo per trovare quel qualcosa che mi permette di individuare all’orizzonte vicino o lontano, una parte di me stesso, la mia vita, le mie emozioni, i miei ricordi. Quando un luogo ti fa percepire che sei diventato parte integrante, a quel punto la ricerca non è finita ma il contatto magico è avvenuto……
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Geolocalizzazione
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Ricordi
...... bellissime, in questi posti ho vissuto tutta la mia indimenticabile infanzia, grazie di cuore. (Franca) Monte Pezzola sei il nostro lavoro, la nostra vita, quante passeggiate. Vederti in una mostra fotografica mi ha molto emozionato. Il Monte Pezzola, io lo chiamo il “mio monte”, quante volte da piccola dicevo “mamma vado sul Monte”, quanti ricordi, la mia infanzia. (Romi) Vivissimi complimenti per aver “guardato” con occhio diverso ciò che vediamo tutti i giorni.
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