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uaderni 13
i PaesaGGi della riForMa aGraria Storia, pianificazione e gestione A cura di Fausto Carmelo Nigrelli e gabriella boNiNi
edizioni istituto alcide cervi
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uaderni 13
I PAESAGGI DELLA RIFORMA AGRARIA Storia, pianificazione e gestione A cura di Fausto Carmelo Nigrelli e Gabriella Bonini
edizioni istituto alcide cervi
Volume realizzato con il contributo di
Cura redazionale di Gabriella Bonini, Fausto Carmelo Nigrelli Editing e Grafica di Emiliana Zigatti
Copyright Š NOVEMBRE 2017 ISTITUTO ALCIDE CERVI - BIBLIOTECA ARCHIVIO EMILIO SERENI via Fratelli Cervi, 9 42043 Gattatico (RE) tel. 0522 678356 - fax 0522 477491 biblioteca-archivio@emiliosereni.it www.istitutocervi.it ISBN 978-88-941999-3-2 I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento anche parziale, con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi. Non sono assolutamente consentite le fotocopie senza il permesso scritto dell’Editore.
stampato su carta certificata
Indice
Prefazione Albertina Soliani.................................................................................................. 7 I paesaggi della riforma agraria: dalla storia al progetto Fausto Carmelo Nigrelli.................................................................................... 9 La nascita del concetto di paesaggio agrario e gli studi sulla riforma agraria di Emilio Sereni Gabriella Bonini.................................................................................................... 25 Per una storia dei paesaggi della riforma agraria in Sicilia Francesco Amata................................................................................................... 37 La riforma agraria nella storia e nella (recente) storiografia italiana Appunti per una riflessione Emanuele Bernardi............................................................................................... 103 Ricostruire la pluralitĂ dei paesaggi della Riforma Agraria nelle Maremme Fonti, metafonti e metodi Nicola Gabellieri.................................................................................................. 111 Dalla riforma agraria al capolarato del XXI sec. Francesco Di Bartolo.......................................................................................... 129 Pianificazione e governo del territorio nelle aree di Riforma in Toscana Claudio Saragosa.................................................................................................. 139 Paesaggi “resistentiâ€? nel Veneto post-industriale Michelangelo Savino........................................................................................... 153 I paesaggi della riforma agraria nei piani di area vasta in Sicilia Francesco Martinico........................................................................................... 175 3
Matera. Un laboratorio di agrourbanità Mariavaleria Mininni........................................................................................... 191 Linee di continuità. I borghi in Sicilia dal fascismo agli anni della riforma Paola Barbera ........................................................................................................ 205 Il progetto della città rurale dall’ECLS all’ERAS Funzione, forma, materiali e tecniche Vincenzo Sapienza................................................................................................. 223 I borghi rurali della Sicilia centrale Recupero del costruito e valorizzazione del territorio tra aderenza al paesaggio e autenticità Antonella Versaci................................................................................................ 237 Case fino al limite dell’orizzonte La riforma fondiaria attraverso i paesaggi dell’Ente Maremma Valentina Iacoponi............................................................................................... 249 I casali della Bonifica Pontina (1932-1943) Un patrimonio architettonico dimenticato Simona Salvo............................................................................................................ 261 Paesaggi dell’agricoltura tradizionale siciliana: conoscenza, tutela e pianificazione Giuseppe Barbera, Sebastiano Cullotta Francesca Lotta, Serena Savelli...................................................................... 277 Il paesaggio agrario in Sicilia orientale tra costa tirrenica e pendici dei Peloritani Il sistema territoriale dell’edilizia rurale della Piana di Milazzo. Francesca Passalacqua ...................................................................................... 285 Il paesaggio agrario dalle coste alle pendici dei Peloritani. Politiche agro-turistico-culturali Ornella Fiandaca.................................................................................................. 297 La campagna contesa Processi e trasformazioni nella campagna del sud-est siciliano Francesco Giunta.................................................................................................. 313 Borgo rurale Angelo Rizza a Siracusa L’utopia di un cantiere non finito Maria Rossana Caniglia...................................................................................... 323 Paesaggi d’archivio Maria Lina La China............................................................................................. 333 I paesaggi della riforma agraria: dalla rivolta popolare alle prospettive di valorizzazione delle terre dell’Arneo Alessandro Viva..................................................................................................... 343 4
Studi sui paesaggi sonori della sicilia rurale Dagli anni ’20 fino alla Riforma Agraria Fabio R. Lattuca, Pietro Bonanno................................................................... 351 Dalla legge 1/1940 al suono dei borghi rurali di sicilia Fabio R. Lattuca..................................................................................................... 353 Esplorare l’inesplorato VacuaMœnia, i borghi rurali e il paesaggio sonoro Pietro Bonanno...................................................................................................... 357 La Riforma agraria nel delta padano emiliano-romagnolo tra passato e presente L’esperienza del documentario Dall’acqua ai campi, dai campi al silenzio Stefano Piastra...................................................................................................... 365 Promemoria dei borghi Rocco Giudice......................................................................................................... 373 Fra Arcadia e Utopia La vicenda dei borghi rurali in Sicilia Angelo Barberi....................................................................................................... 375 Appunti per un documentario sui borghi della colonizzazione e della riforma agraria in Sicilia Sebastiano Pennisi................................................................................................. 379 Autori ...................................................................................................................................... 383 I volti e le immagini della scuola ...................................................................................................................................... 389
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Prefazione
Albertina Soliani
Il tema della Riforma fondiaria, della distribuzione della terra ai contadini, della “terra a chi la lavora”, come diceva Emilio Sereni ha attraversato tutto il Novecento. E di terra da coltivare, di lavoro e di riscatto ben ne sapeva la famiglia di Alcide Cervi. Una famiglia che, oltre ad aver dato un doloroso tributo di sangue alla resistenza e alla nascita dello stato democratico italiano, ha contribuito in modo sensibile all’emancipazione culturale e sociale, oltre che economica, dei contadini. Erano contadini autodidatti che hanno saputo disseminare il sapere delle scienze agrarie e delle tecniche agricole, per allora all’avanguardia, tra i pari. Acquistano nel 1939 il primo trattore della zona, così che si fanno costruttori di un paesaggio rurale, oltre che civile. A questo connubio di memoria antifascista e studio della terra, Emilio Sereni unisce la sua ricerca scientifica e l’azione politica in Parlamento: l’umanesimo contadino si affianca alle scienze umane applicate e all’azione politica. Ma i Cervi sono anche riusciti ad intraprendere il loro progetto di autonomia nella coltivazione dei campi: da mezzadri si sono fatti affittuari e poi piccoli contadini autonomi, padroni della loro terra e dei prodotti da essi coltivati. Ciò che i contadini della Sicilia hanno rivendicato con dure lotte. Solo il possesso della terra rende il contadino padrone del proprio futuro, decisore delle migliorie da apportarvi, costruttore di una democrazia fondata sul lavoro di uomini liberi. La democrazia viene dalla terra, la nostra Costituzione viene dalla terra, dalle genti vive, dalle attività produttive e dalle lotte dei contadini per conquistare dignità e diritti e il paesaggio da essi costruito concorre all’educazione dell’uomo. Le campagne, frutto concreto e visibile del lavoro dei contadini, veicolano significati che sono i saperi e le fatiche, le storie e i processi che hanno generato il paesaggio agricolo frutto del secolare lavoro di uomini. Per Emilio Sereni il paesaggio rappresenta l’identità della Nazione e dunque, quando egli assume le campagne all’interno del paesaggio italiano, intende mettere i contadini alla base dell’identità nazionale italiana. La terra e il lavoro sono il simbolo di questo Istituto e di ciò che noi cerchiamo qui di vivere con esperienze e con parole che disegnano il futuro più che il passato. Per questo noi siamo grati al professor Carmelo Nigrelli e all’Università di Catania tutta per aver affrontato e approfondito il tema della Riforma agraria in Sicilia facendone un argomento di dibattito pluridiscipliare. Anche se quella Riforma agraria 7
è stata purtroppo una rivoluzione tentata e fallita, ha comunque caratterizzato parti importanti del territorio italiano e, ancora oggi, la realtà di questi territori resta una questione emergente per chi si occupa di patrimonio territoriale. Questo Quaderno 13 della Collana Cervi dedicata al Paesaggio, come lo è stata la Special School Emilio Sereni di Siracusa, ben compiutamente ne rendono conto.
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I paesaggi della riforma agraria dalla storia al progetto
Fausto Carmelo Nigrelli
La Riforma agraria e il piano INA-Casa costituiscono probabilmente le due più grandi riforme mai attuate nell’Italia repubblicana come esito di azioni territoriali unitarie, sebbene la prima sia stata, in realtà circoscritta solo a undici regioni1. Le condizioni dell’Italia nei primi anni dopo la guerra erano quelle di un Paese sostanzialmente agricolo e stremato2, nel quale si operava la scelta di spingere, anche grazie al piano Marshall, verso una forte industrializzazione concentrata nelle regioni settentrionali più infrastrutturate, mentre si demandava alle regioni meridionali e ad alcune aree del centro nord la produzione agricola non nella direzione di un’agricoltura moderna, ma seguendo schemi che si sarebbero rivelati fallimentari soprattutto nelle regioni meridionali. Dal censimento 1951 si evince che il 42% della popolazione lavorava in agricoltura, ma il suo contributo al PIL era appena il 24%, mentre, prima della riforma, 45 mila proprietari possedevano 10 milioni di ettari di terreno agricolo, con una estensione media del fondo di oltre 200 ettari. Occorreva, pertanto, modernizzare il comparto, migliorarne la redditività ed eliminare le sacche di inefficienza legate soprattutto all’uso di sistemi di coltivazione estensiva e di tecniche obsolete, alla insufficiente disponibilità di acque per irrigazione e allo stato di abbandono di parti significative dei grandi possedimenti. Lo smembramento del latifondo appare lo strumento principale per trasferire le terre dai grandi proprietari che ne utilizzavano le rendite senza occuparsi di migliorare quantità e qualità dei prodotti, verso la piccola proprietà terriera, ritenuta più dinamica e interessata alla modernizzazione dell’agricoltura, preferita a soluzioni di tipo cooperativistico ritenute meno affidabili dal punto di vista politico3. In 1 Sardegna e Sicilia, per intero; Toscana, Lazio, Campania, Puglia, Basilicata, Calabria per buona parte; Veneto, Romagna e Abruzzo per piccole parti. 2 S. Musso (a cura di), Storia del lavoro in Italia. Il Novecento 1945-2000, Roma, 2015, in particolare il saggio di R. Pazzagli e G. Bonini, Esodo e ritorni. Il lavoro agricolo e la trasformazione del mondo rurale in Italia, pp. 102-169. 3 Dal punto di vista politico sia la Democrazia Cristiana che il Partito Comunista intendevano porre un limite all’ampiezza della proprietà e favorire la massima diffusione della piccola proprietà contadina. Su posizioni diverse erano i socialisti, ma anche Luigi Sturzo, che 9
questa azione, condivisa per motivi diversi, sia dalle forse politiche di sinistra, che dalla Democrazia Cristiana, in realtà molto spesso i veri beneficiari delle operazioni di esproprio e trasferimento non furono i contadini, ma i ricchi proprietari che riuscirono a cedere terreni non di rado di pessima qualità a prezzi assai convenienti. Essi ottennero, infatti, ricavi ingenti che poterono essere investiti in ambito urbano, iniettando grande liquidità che contribuì al boom edilizio del decennio successivo. In attuazione del Decreto legislativo 24 febbraio 1948, che aveva istituito una cassa per mutui trentennali a vantaggio dei coltivatori diretti al fine di accelerare la formazione della piccola proprietà terriera, in 10 anni vennero venduti oltre 1,9 milioni di ettari di terra coltivabile, mentre in 15 anni il numero degli agricoltori passò da 2 milioni a circa 700 mila, come esito del trasferimento di parte significativa delle masse contadine nelle città industriali. In attuazione, invece, delle leggi del 19504, in 10 anni vennero assegnati circa 0,7 milioni di ettari di terra coltivabile e 113 mila famiglie diventarono piccoli proprietarie terriere. Il 62% dei terreni espropriati fu diviso in poderi e assegnati a contadini senza terra; il resto servì ad ampliare la superficie di proprietà già esistenti. In realtà già alla fine degli anni Settanta un’inchiesta dell’Istituto Nazionale di Sociologia Rurale – INSOR5 evidenziò il fatto che solo 80 mila delle famiglie alle quali erano stati assegnati poderi a seguito dell’attuazione della Riforma agraria, erano rimaste proprietarie e che spesso esse avevano acquistato la terra dagli altri assegnatari. Molti terreni assegnati ai contadini si rivelarono inadatti alla coltivazione e la dimensione media del fondo, compresa tra 3 e 5 ettari, inadeguata a consentire anche solo il sostentamento della famiglia assegnataria. Anche la politica degli insediamenti, articolata in borghi accentrati, semi accentrati e case sparse (peraltro in perfetta continuità con le azioni analoghe condotte durante il Ventennio), si rivelò un fallimento, soprattutto nel Mezzogiorno, dove i borghi e le case sparse furono presto abbandonati e, in alcuni casi, mai utilizzati. Gli esiti più importanti e permanenti della politica agricola di quegli anni, dunque, non furono quelli della redistribuzione fondiaria, ma quelli della trasformazione agraria anche grazie alla decisa infrastrutturazione perseguita soprattutto attraverso i consorzi di bonifica e attraverso la Cassa per il Mezzogiorno nelle regioni meridionali (qui venne triplicata la superficie irrigua). Ne derivò non solo un aumento significativo della produttività, ma anche una profonda riorganizzazione territoriale e una definitiva trasformazione del paesaggio, da agrario a rurale6. Delle caratteristiche e degli esiti di questa riforma ci si è occupati in periodi diversi, soprattutto dal punto di vista degli economisti, degli storici e, più in generale, propendevano per grandi proprietà fondiarie da affidare a cooperative indivise. 4 Si tratta della cosiddetta “Legge stralcio” n. 841 del 21 ottobre 1950, varata dal Governo di Alcide De Gasperi, che era stata preceduta da un primo provvedimento che aveva riguardato solo la Regione Calabria, (l. 230/1950) ed era stato indirizzato alla colonizzazione dell’altopiano della Sila. E dalla legge promulgata dalla Regione Sicilia (l.r. 104/1950). 5 INSOR, La riforma agraria trent’anni dopo, Milano, 1979. 6 Per la differenza tra i due termini cfr. C. Barberis, Sociologia rurale, Edagricole, Bologna, 1991, cit. da F. Amata nel presente volume e G. Barbera et alii ancora in questo volume. 10
dei meridionalisti. Dopo la fase degli studi dei grandi economisti agrari che avevano animato anche il dibattito precedente le leggi di riforma, da Emilio Sereni a Manlio Rossi Doria, tra gli anni Cinquanta e Sessanta, e quella delle analisiche hanno ricostruito e descritto i processi avviati dal punto di vista degli aspetti economici, di quelli sociali e politici, è stato soprattutto l’ultimo ventennio del XX secolo, a partire dal trentennale, che ha visto fiorire approfondimenti, in particolare storici, incentrati sulla valutazione di quella vicenda7, mentre estremamente rare sono state le riflessioni da parte dei pianificatori e degli urbanisti che già dai primi anni avevano lamentato di non essere stati coinvolti nella elaborazione e attuazione della riforma8. È, infatti, soprattutto nell’ultimo ventennio che finalmente urbanisti e architetti hanno cominciato a fornire un loro contributo originale agli studi sulla riforma agraria e sui suoi esiti, nel quadro del rinnovato interesse verso il tema del paesaggio e di quello per lo studio e il recupero dei borghi e delle altre infrastrutture realizzate nell’ambito della colonizzazione prima e della riforma poi9. In questo contesto sono state esaminate le innovazioni tecnologiche utilizzate per la costruzione dei fabbricati, le sperimentazioni urbanistiche e le modifiche dei paesaggi, confermando quanto già era noto: una continuità significativa tra l’azione di colonizzazione interna durante il Ventennio, in Sicilia, ma anche nelle regioni centro-settentrionali, e la riforma agraria repubblicana.10 Ancora oggi, a quasi settanta anni di distanza, l’assetto del territorio e il paesaggio nelle aree che sono state oggetto della Riforma agraria sono fortemente segnati dagli esiti di quello che per alcuni economisti è il più grande intervento statale mai posto in atto in Italia. I paesaggi della Riforma agraria, di quella postbellica, non di quella mussoliniana della quale essa è comunque la continuazione, rappresentano il segno permanente di una rivoluzione tentata e fallita, ma che, proprio per questo, non solo caratterizzano 7 Tra gli altri: R. Zangheri, A trent’anni dalla legge di riforma agraria, in AA.VV., Campagne e movimento contadino nel Mezzogiorno d’Italia, vol. II, Bari, 1980, pp. 645-677; F. Amata, Appunti per una valutazione dei risultati economico-sociali della riforma agraria in Sicilia (nota metodologica), in «Tecnica Agricola», n. 3, 1988, pp. 295-309; P. Bevilacqua (a cura di), Storia dell’agricoltura italiana in età contemporanea, I – Spazi e paesaggi, Venezia, 1989, pp. 77 - 130; E. Bernardi, La riforma agraria in Italia e gli Stati Uniti. Guerra fredda, Piano Marshall e interventi per il Mezzogiorno negli anni del centrismo di degasperiano, Bologna, 2006. 8 L. Quaroni, Pianificazione senza urbanisti, in «Casabella-continuità», n. 201, 1954, pp. 33-37. Tra le rare riflessioni cfr. F. Faro, “Condizione rurale e pianificazione in Sicilia”, in Quaderno IDAU n. 14 Università degli Studi di Catania, 1984. 9 Tra gli altri: A. Casu, La riforma agraria: piani per nuove comunità, in A. Casu, A. Lino e A. Sanna (a cura) La città ricostruita, Roma, 2001; F. C. Nigrelli, Il paesaggio della riforma agraria, in «Urbanistica Quaderni», vol. 53, Roma, 2009, p. 151-154; M. Biolcati Rinaldi e F. Alberti, Paesaggi della riforma agraria. Azioni integrate per l’interpretazione morfologica del progetto urbano, Firenze, 2011; V. Sapienza, La colonizzazione del latifondo siciliano, esiti e possibili sviluppi, Caltanissetta, 2011; A. Casu, La riforma agraria tra continuità e innovazione, in A. Villari, M. Arena (a cura), Paesaggio 150. Sguardi sul paesaggio italiano tra conservazione, trasformazione e progetto in 150 anni di storia, Roma, 2012; G. Bonini (a cura di), Riforma fondiaria e paesaggio. A sessant’anni dalle leggi di riforma: dibattito politicosociale e linee di sviluppo, Soveria Mannelli, 2012. 10 L. Bortolotti, Il mito della colonizzazione interna in Italia, 1850-1950, in «Storia Urbana», n. 57, 1991, pp. 87-168. 11
parti importanti del territorio di alcune regioni italiane, ma si configurano come una questione emergente per chi si occupa di patrimonio territoriale, nell’ambito del quale devono essere considerati come invarianti. Oggi le condizioni di queste aree sono molto diverse sia da regione a regione, che all’interno delle stesse regioni. Alcune aree sono state rimesse in gioco da nuove gerarchie infrastrutturali e territoriali, sono utilizzate in maniera intensiva e moderna; altre hanno perso ogni carattere agricolo e sono state assorbite dalle nuove forme insediative della diffusione; altre ancora sono rimaste marginali e marginalizzate sia rispetto alle dinamiche insediative che a quelle dell’agricoltura produttiva; altre, infine, sono state del tutto abbandonate. L’abbandono è stato, come ricordato sopra, anche la sorte della quasi totalità dei borghi rurali realizzati sia durante il ventennio fascista che nel Dopoguerra. Sebbene non sia mai stato fatto uno studio complessivo sugli esiti territoriali delle riforma agrarie della prima metà del XX sec., mentre esistono numerosi studi circoscritti ad ambiti regionali o sub regionali, si può affermare che, in attuazione delle leggi di bonifica del 1923, della colonizzazione del latifondo siciliano del 1940 e delle leggi di riforma degli anni ’50 siano stati realizzati in Italia oltre 160 tra borghi e centri rurali, di cui una sessantina in Toscana, una cinquantina in Sicilia, 27 in Lazio, 20 in Sardegna e poi in Calabria, in Puglia, in Basilicata ma anche in Trentino. Negli ultimi anni sono state attivate alcune politiche di riconoscimento, valorizzazione e tutela dei paesaggi e dei borghi della Riforma sia a scala territoriale (il Piano di indirizzo territoriale con valenza paesaggistica della Toscana; alcuni Piani paesaggistici in Sicilia) che a scala comunale (PUC di Sassari), ma è ancora assente una strategia unitaria. Il tema specifico inoltre, è rimasto ai margini sia delle riflessioni sulla “neoruralità” avviate negli ultimi anni dalla scuola territorialista, sia da quelle sulla rigenerazione urbana più rivolte ai territori metropolitani e periurbani. Inoltre, gli studi condotti nel corso dei decenni, anche quando molto approfonditi, sono sempre rimasti nell’alveo delle singole discipline: storiche, economiche, sociali o dell’architettura e dell’urbanistica senza sostanziali contributi inter e multidisciplinari. Da queste riflessioni è nata la “edizione speciale” della Summer School “Emilio Sereni” – Storia del paesaggio agrario italiano, che si è tenuta – ed è stata la prima volta – fuori da casa Cervi e per la prima volta si è occupata di un periodo storico circoscritto con un approccio di “storia operante”, cioè finalizzata al progetto territoriale e architettonico capace di rimettere in gioco queste aree, riconoscendole come un esito specifico del Novecento italiano. Per questo motivo la denominazione di questa edizione speciale è diversa da quella che si tiene a Gattatico: Special School “Emilio Sereni” – Storia e gestione del paesaggio nelle aree rurali. E con questo obiettivo sono stati coinvolti molti dei saperi in qualche modo interessati alla Riforma agraria. Il presente volume, pur non raccogliendo la totalità dei contributi presentati in occasione della Scuola, costituisce una raccolta di grande interesse proprio per la presenza dei diversi specialismi che, tutti insieme, offrono un quadro assai ampio delle problematiche connesse con questa grande riforma, ma, soprattutto, offrono un bagaglio di conoscenze e di riflessioni prodromiche ad attività progettuali alla scala del territorio, della città e dell’architettura. 12
Se ne coglie subito il carattere con il denso testo di apertura, quello della lectio magistralis tenuta da Franco Amata, dedicato alla esperienza della Riforma in Sicilia, ma che offre spunti e riflessioni per una possibile storia dei paesaggi della Riforma che sono applicabili a tutti i territori regionali coinvolti e, comunque, meritano un confronto con quanto avvenuto fuori dalla Sicilia, dal momento che qui si applicò una legge diversa dalla Legge stralcio. In particolare Amata pone il problema dell’«autodisfacimento del latifondo»11 come esito delle azioni poste in essere dai grandi proprietari fondiari per evitare gli espropri grazie alla norma regionale che, non a caso, venne votata dai gruppi politici che li rappresentavano e contrastata dai rappresentanti dei contadini. Sebbene questa vicenda sia annoverata tra quelle che dimostrerebbero il fallimento della Riforma, tuttavia le vendite intrafamiliari per aggirare le norme, di fatto disarticolano definitivamente il latifondo in proporzioni ben più ampie che non gli effetti della legge di riforma, come avvenne peraltro in altri ambiti regionali. Ma c’è un altro aspetto, tra gli altri, che Amata pone: la grande articolazione, anche all’interno di una sola regione e, perfino, di ambiti territoriali più circoscritti, delle modificazioni indotte sul paesaggio dalla Riforma che, in molti casi, ne costituiscono l’esito con una maggiore permanenza. Attraverso schede dettagliate mostra come in alcuni casi il paesaggio attuale sia assolutamente analogo a quello che avevano gli ambiti oggetto di quotizzazione prima della Riforma, mentre in altri il frazionamento sia stato determinante per attivare qualche decennio dopo, fenomeni di dispersione insediativa periurbana in cui la residenza rurale è stata soppiantata dalla residenza stagionale o permanente. L’originalità del contributo relativo alla lettura dei paesaggi all’interno delle dinamiche territoriali è confermato da Emanuele Bernardi nel suo contributo. Qui viene sottolineato, accanto alle acquisizioni dell’ultimo quindicennio relative soprattutto al rapporto tra le politiche del governo italiano e quello statunitense dentro il quadro della Guerra Fredda, il rinnovato interesse attorno al tema, anche in funzione del dibattito sulle aree interne e sul contributo che esse possono dare al progresso e allo sviluppo dell’Italia nel futuro prossimo. Si tratta di un tema centrale, come già aveva individuato qualche anno fa Piero Bevilacqua12 che sottolineava il legame tra le nuove riflessioni sui paesaggi della Riforma agraria e quelle che riguardano altri aspetti in particolare del territorio extrametropolitano, da quelli idrogeologici, allo spreco di suolo e rimarcava il ruolo dell’agricoltura nella pianificazione integrata del territorio, nel momento della presa di coscienza che «l’Italia è scesa in pianura e ha abbandonato vallate, crinali e borghi. Non ne sa più nulla, o quasi. Di qui molti dei dissesti, delle omissioni, delle catastrofi»13 e che occorre invertire la direzione. 11 L’osservazione era già stata fatta da Guido Piovene in occasione del suo straordinario reportage radiofonico sull’Italia degli anni Cinquanta, poi pubblicato in forma di libro sul finire del decennio. «Il latifondo siciliano, inteso come proprietà di estensione vastissima, era già mezzo liquefatto nell’immediato dopoguerra , per via di vendite parziali, quando persone di bassa estrazione sociale gettarono sul mercato il danaro della borsa nera. Le grandi estensioni di terre segnate dallo stesso nome appartenevano in realtà a gruppi familiari, non a un’unica famiglia». Cfr. G. Piovene, Viaggio in Italia, Bompiani, Milano 1958. La citazione è tratta dall’edizione edita da Baldini-Castoldi-Dalai, Milano, 2003, p. 591. 12 P. Bevilacqua, Conclusioni, in G. Bonini (a cura di), Riforma fondiaria e paesaggio. A sessant’anni dalle Leggi di Riforma: dibattito politico-sociale e linee di sviluppo, Rubbettino, 2012. 13 M. Serra, L’Amaca, in «La Repubblica» del 2 aprile 2017. 13
Per questi nuovi obiettivi, non solo gli urbanisti, ma anche gli storici hanno a disposizione i nuovi strumenti informatici come i GIS, una cui applicazione relativa alle Maremme viene presentata da Nicola Gabellieri che, incrociando dati geografici e documentazione storica georiferita ha potuto concludere che in quell’area la Riforma ha effettivamente prodotto un nuovo paesaggio in cui oliveto, vigneto e frutteto hanno visto estendere notevolmente la loro presenza, ma in un quadro che ha continuato a essere prevalentemente cerealicolo. Altrove, però, gli esiti sono stati differenti al punto che anche il giovane storico utilizza “paesaggi” al plurale. Riguarda invece in particolare un confronto tra le condizioni dei lavoratori della terra a cavallo degli anni delle Riforma e quella attuali, la riflessione di Francesco Di Bartolo che, da un lato, evidenzia come l’obiettivo della Riforma fu quello della semplice redistribuzione della terra piuttosto che il miglioramento dei suoli agricoli e che essa fu utilizzata dai proprietari per vendere a prezzo assolutamente conveniente le parti più improduttive dei latifondi, riutilizzando i proventi come leva finanziaria per il sacco edilizio delle città siciliane. Dall’altro osserva che le conquiste sindacali a vantaggio dei lavoratori della terra, in realtà giunsero quando il corpo dei lavoratori della terra si era disgregato dietro l’illusione della piccola proprietà e quando la domanda di nuovi bisogni indotti dai nuovi modelli sociali e culturali affermatisi con il boom degli anni Sessanta spingeva le nuove generazioni ad abbandonare comunque le campagne. Il ritorno all’agricoltura, magari sotto il segno della valorizzazione dei prodotti di nicchia e delle eccellenze, nel corso dell’ultimo ventennio, infine, non capitalizza le conquiste sociali faticosamente raggiunte in quegli anni, ma ripropone forme di sfruttamento del lavoro bracciantile (oggi in genere affidato ai migranti attraverso il capolarato se non lo schiavismo) che sembravano definitivamente cancellate con l’abolizione del latifondo. Un interessante quadro che in alcuni casi pone gli esiti della Riforma agraria sul paesaggio in relazione con vicende precedenti, in altri li colloca all’interno delle dinamiche territoriali attuali emerge dai contributi degli urbanisti e dei pianificatori. Nell’Alta Maremma, come racconta Claudio Saragosa, la Riforma interviene su un territorio che era già stato plasmato da precedenti usi e perfino da una precedente riforma agraria. Gli usi agricoli, tradizionalmente concentrati nelle zone circostanti i centri abitati e suddivisi tra coltivazioni arboricole, seminativi, vigneti e, marginalmente, orti, insieme ai boschi, davano origine a un mosaico colturale affatto originale dal quale erano escluse le numerose valli acquitrinose. Lo sfruttamento delle aree agricole era avvenuto in maniera poco produttiva fino agli inizi del XIX sec. quando era stata avviata dal principe di Lorena una prima riforma agraria che ebbe l’obiettivo di bonificare le paludi che pure davano origine a una specifica economia di sostentamento. Quello che interessa è che l’opera di prosciugamento e il successivo frazionamento delle terre demaniali mutò definitivamente il paesaggio dell’Alta Maremma che non cambiò neppure sul finire del secolo dopo una poderosa azione di neo latifondizzazione che accorpò le piccole proprietà. La Riforma degli anni Cinquanta, dunque, estese quel mosaico colturale alle aree fino ad allora escluse modificandone l’organizzazione territoriale anche per la realizzazione di alcuni centri di colonizzazione e di abitazioni rurali. Le case «fino al limite dell’orizzonte» furono la scelta insediativa dell’Ente Maremma, secondo la ricostruzione fatta, più avanti nel volume, da Valentina 14
Iacoponi. Esse costituivano il grumo costruito all’interno di ciascun podere esteso in media 8 ettari, che da qual momento avrebbe punteggiato tutte le aree appoderate (spesso pietraie, zone acquitrinose o litorali ventosi). Ne furono costruite oltre 5 mila in aggiunta a una sessantina di borghi di servizi, in attuazione di una scelta politica ben precisa che intendeva evitare che i contadini vivessero in villaggi o borghi in parte perché considerati parte integrante del processo produttivo del fondo con la presenza loro e della famiglia sull’area lavorata, in parte per evitare eccessive occasioni di socializzazione. Un disegno sociale con il quale si permutava la proprietà e la casa assegnate al contadino con un suo impegno a radicarsi come una pianta sulla terra. Un disegno sociale il cui effetto materiale – le case e i centri di servizi – ancora oggi costellano una Maremma completamente cambiata negli ultimi trenta anni, ma la cui complessità territoriale è costituita da innumerevoli shape tra i quali quello dei paesaggi della Riforma. Una complessità territoriale la cui conoscenza storica acquisisce un’irrinunciabile funzione “operante” che trova oggi la sua finalizzazione nel Piano di Indirizzo Territoriale con valenza paesaggistica della Toscana. Una complessità territoriale che spinge, a partire dallo studio sui paesaggi della Riforma agraria, a riflettere più in generale sui paesaggi della contemporaneità che sono quotidianamente oggetto di trasformazioni in esito alle dinamiche sociali ed economiche attuali, ma fanno “resistenza”. Questo osserva, in particolare, studiando i paesaggi veneti, Michelangelo Savino che sottolinea come, in particolare nelle campagne venete, la necessità di strappare terre coltivabili alle acque, ha fatto sì che fin dal tempo dei romani quei territori siano stati oggetto di “riforme”, di radicali artificializzazioni, di bonifiche più o meno integrali che hanno costruito un paesaggio unico per molti versi, nel quale le comunità si sono riconosciute e si riconoscono. Eppure ciascuno di questi interventi ha costituito un cambiamento drastico del paesaggio precedente senza cancellarne del tutto gli elementi caratterizzanti e deve sicuramente avere prodotto sconcerto nelle comunità dell’epoca. In una lettura di questo tipo anche la diffusione urbana e la città diffusa, forme di organizzazione del territorio contemporaneo, devono essere considerate paesaggi prodotti della società della fine del XX sec., che incistano, contengono, rielaborano, risignificano le tracce dei paesaggi precedenti: eccone la resistenza. In un territorio del tutto antropizzato, afferma Savino, a mettere a rischio i brandelli di paesaggio resistente non sono tanto le pratiche di consumo di suolo che sono riconosciute e tenute sotto controllo, ma gli usi che dovrebbero proteggerli, dall’agricoltura al turismo, alla pianificazione. Se il successo di alcuni prodotti agricoli dell’agricoltura (per esempio quello mondiale del prosecco) e la contemporanea industrializzazione spinta che modifica le tradizionali tecniche colturali stanno stravolgendo il paesaggio del Veneto non meno della diffusione insediativa; se il successo del turismo che usa il paesaggio come must provoca la paradossale realizzazione di infrastrutture di tipo urbano proprio per quei turisti che vogliono godere del paesaggio “intatto”; è nella incapacità della pianificazione di trovare nuovi strumenti più adatti alla posta in gioco che sta il rischio maggiore. Così i piani di area vasta del Veneto non riescono a fornire strumenti che non siano il vincolo o la norma e contengono indicazioni che, superata l’attuale congiuntura economica negativa, potranno portare a una definitiva trasformazione dei paesaggi resistenti. 15
Un’analoga conclusione giunge dallo studio delle vicende relative alla Sicilia. Anche qui la conoscenza del territorio come esito dell’azione delle comunità lungo il tempo storico ha trovato sbocco nella stagione di redazione dei Piani territoriali paesaggistici sul finire del primo decennio del XXI sec. e con essa ha trovato legittimazione anche il “paesaggio della Riforma agraria” che caratterizza in particolare vaste aree dell’interno dell’Isola. Francesco Martinico, dimostra come questa attenzione per le aree agricole interessate dalle quotizzazioni all’interno di strumenti di pianificazione di area vasta in Sicilia sia quasi una eccezione assoluta sebbene nella seconda metà del XX sec. siano stati elaborati numerosi e, a volte, interessanti piani soprattutto di sviluppo economico che in alcuni casi hanno puntato quasi esclusivamente sullo sviluppo industriale, in altri hanno posto sotto attenzione le aree agricole soprattutto per infrastrutturarle attraverso la realizzazione di una capillare rete stradale rurale, di numerose dighe, di reti di elettrificazione rurale per lo più finanziate all’interno delle politiche di sviluppo del Mezzogiorno portate avanti dalla Cassa. Attraverso l’analisi de principali piani che hanno riguardato la Regione nei decenni successivi alla Riforma, Martinico dimostra come nessuno di essi – neppure il più interessante (“Piano Grimaldi” del 1966) – abbia mai costruito percorsi di sviluppo che prendessero le mosse dalle aree della Riforma. L’esito di non poche di esse, dunque, non è stato determinato da interventi cumulativi coerenti, ma deriva dall’intreccio di azioni non coordinate tra cui, quelle maggiormente determinanti, sono state la realizzazione della rete stradale e della elettrificazione, che hanno facilitato o indotto fenomeni di dispersione insediativa con caratteri suburbani o stagionali e che nulla ha a che vedere con le forme tradizionali di residenzialità rurale. Tuttavia il paesaggio del latifondo in gran parte resiste e la presenza dei borghi, assai numerosi in Sicilia sia in esito alla Colonizzazione mussoliniana che alla Riforma degli anni Cinquanta, costituisce oggi una specificità dell’azione di territorializzazione sviluppata nel XX sec. che merita una attenzione particolare soprattutto all’interno dei processi di sviluppo locale delle aree interne. Dopo la fase di redazione dei Piani paesaggistici14, però, la stessa Regione, in fase di approvazione, ne ha circoscritto la valenza riconducendone gli aspetti prescrittivi e di orientamento all’interno delle aree sottoposte a vincolo ope legis, generando così una gigantesca occasione perduta. Una situazione, quella siciliana, con diversi aspetti comuni a quelli di altre regioni del Mezzogiorno, come la Basilicata nella quale si registra, però, il caso, pressoché unico, di Matera. Questa unicità consente a Mariavaleria Mininni di individuare la città lucana come un possibile “laboratorio di agrourbanità” che, basandosi sulle riflessioni attorno al “periurbano” di derivazione francese15 per comprendere la campagna all’interno di un nuovo concetto di città, può condurre a rimettere in gioco aree che sono sembrate a lungo scarti territoriali. La specificità di Matera, infatti, nasce con l’esperienza degli anni Cinquanta che legava, fin dalle analisi, gli interventi sui Sassi con quelli nell’“Agro di Matera” e consiste proprio nell’avere messo in stretta relazione lo sfollamento della città antica e un 14 F. C. Nigrelli e F. Martinico (a cura di), I piani paesaggistici della provincia di Enna, in «Urbanistica Quaderni», vol. 53, Roma, 2009. 15 P. Donadieu, Campagne urbane. Una nuova proposta di paesaggio per la città, Roma, 2013; M. Mininni. Approssimazioni alla città, Roma, 2012. 16
progetto di totale ristrutturazione dell’agro circostante la città, con la realizzazione di quartieri nelle campagne nei quali avrebbero dovuto risiedere le famiglie dei contadini. E se allora questa scelta (peraltro con molte similitudini con quella fatta con la realizzazione dei borghi in Sicilia già durante la realizzazione del programma fascista di colonizzazione del latifondo) non ebbe successo e fu interrotta dopo la realizzazione di La Martella e Venusio anche perché i contadini erano abituati a vivere in città (come, del resto in Sicilia)16, oggi è possibile riprendere il tema della continuità tra insediamento e paesaggio all’interno delle nuove politiche agrourbane e paesaggistiche nelle quali i borghi diventano presidi di un territorio a bassa densità e possibili punti di accumulazione di servizi per il turismo slow. La questione dei borghi riguarda solo alcune delle regioni interessate dalle leggi di Riforma, ma per esse oggi riveste una centralità tanto evidente, quanto inesplorata al di là di programmi velleitari e comunque inattuati. In Sicilia, gli oltre 50 borghi realizzati sotto tre diversi quadri politici nazionali, in perfetta continuità di politiche e perfino di modelli insediativi tra gli anni Venti e gli anni Cinquanta del Novecento, costituiscono un interessantissimo campo di “Archeologia contemporanea” che, in molti casi, non ha mai vissuto fasi di effettiva utilizzazione, passando dallo stato di incompiuta a quello di rudere. Se ne occupano, in questo volume, storici dell’architettura, tecnologi, restauratori a dimostrazione del crescente interesse dell’ambiente scientifico attorno a questi “centri storici contemporanei”. Nel suo contributo, Paola Barbera ricostruisce le fasi di costruzione di un approccio territoriale, urbanistico e architettonico a un problema quasi sempre affrontato con fare paternalistico, più che economico, propagandistico più che strutturale, come dimostra il mancato esito delle riflessioni di Edoardo Caracciolo che, per esempio, individua in 25 ettari la dimensione del podere familiare che la Riforma repubblicana fisserà, invece, nell’insostenibile superficie di 3/5 ettari. E stanno qui le cause principali del fallimento della Riforma e dei borghi, sta qui la distanza tra le riflessioni culturali di alcuni protagonisti seguaci delle teorie anglosassoni della città a bassa densità e gli esiti sociali e urbanistici ai quali non deve essere stata estranea la figura di Nallo Mazzocchi Alemanni, presente sia nella fase fascista della riforma in Sicilia, che in quella postbellica a Matera. Pur nei diversi esiti a 70 anni di distanza dall’ultima riforma – la Martella ha oggi circa 1500 abitanti, i borghi siciliani sono quasi tutti abbandonati – anche nell’Isola è possibile immaginare un modello di sviluppo delle aree interne in particolare, in cui questi borghi, campionario assai interessante della produzione architettonica nei due decenni centrali del XX secolo e campo di sperimentazione di nuove tecnologie all’interno di tecniche costruttive tradizionali, diventino punti di accumulazione di servizi territoriali di nuova generazione. È questo uno degli aspetti sviluppati da Vincenzo Sapienza nel testo nel quale si sottolinea da un lato uno dei principi insediativi che caratterizzano la localizzazione dei borghi rurali sia durante il ventennio che in attuazione della Riforma: «la percepibilità 16 Non fu questa l’unica causa poiché ve ne furono altre legate a scelte politiche che spingevano piuttosto verso una dispersione delle residenze nei latifondi quotizzati, ma a mio avviso la resistenza delle famiglie contadini (in particolare delel donne) al trasferimento in campagna deve essere stata significativa anche a Matera come lo fu in Sicilia. 17
a grande distanza». Dall’altro la continuità nelle scelte tecnologiche basate sempre sulla muratura tradizionale che utilizza la pietra del luogo, sul rifiuto del cemento armato (imposto dalla committenza negli anni 40 a causa dell’autarchia) e sull’introduzione dei solai SAP, una sorta di solaio in parte prefabbricato in parte gettato in opera per la realizzazione del quale era necessaria una ridotta quantità di calcestruzzo. Entrambi gli aspetti rafforzano la convinzione che oggi il recupero di questi borghi sia un obiettivo culturale, ma anche economico che dovrebbe essere fissato dalle istituzioni. Essi infatti, per la loro posizione preminente rispetto al contesto territoriale, costituiscono spesso dei landmark sui quali appoggiare azioni di pianificazione paesaggistica; per le loro caratteristiche non solo urbanistiche e architettoniche, ma anche di testimonianza tecnologica, essi sono i “monumenti” della fase iniziale della storia delle campagne nella Repubblica. Ma essi sono ancora al centro, in molti casi, di quei latifondi scardinati dalla riforma che hanno visto modificare a volte in maniera definitiva un paesaggio agrario che era rimasto uguale a se stesso forse per millenni e che, invece, negli ultimi decenni è stato soggetto a cambiamenti più frequenti e repentini ingenerati, tra l’altro, dall’innovazione tecnologica in agricoltura e dall’abbandono delle tecniche policolturali a favore di quelle monocolturali intensive. Per questo il “vero” recupero dei borghi può avvenire solo all’interno di politiche più ampie che riguardano l’economia agraria, come segnala Antonella Versaci nel suo contributo nel quale fa una breve analisi di quelle poste in atto negli ultimi anni. In tale senso la certa attrattività turistica dei borghi restaurati e rifunzionalizzati all’interno di politiche paesaggistiche a agricole volte a finalizzare obiettivi di messa in valore dell’identità territoriale e del legame tra le comunità e la terra deve essere un obiettivo parallelo rispetto alla ricostruzione (in alcuni casi alla costruzione) del legame tra il borgo e il suo agro. Qui può infatti giocarsi una scommessa che, in analogia con quanto avvenuto in alcuni paesi dell’Europa settentrionale, sperimenti iniziative di rural social housing o ecovillaggi17 ripensati per avere un impatto ambientale ridottissimo e legati al recupero di prodotti agricoli e tecniche di lavorazione della tradizione che sempre più si stanno affermando a partire, per esempio, dal successo dei grani antichi siciliani. Il dibattito su come rigenerare oggi i territori interessati dagli appoderamenti negli anni della Riforma agraria, ma anche dagli analoghi interventi di epoca fascista e, su come rimettere in gioco in particolare, gli insediamenti realizzati, riguarda anche uno degli ambiti in cui la modifica ha avuto indubbiamente successo: la pianura Pontina, oggetto dell’operazione di bonifica integrale tra la metà degli anni Venti del Novecento e la fine della Guerra mondiale, nota soprattutto per le cinque città di fondazione di impianto razionalista. Il successo dell’intera operazione, infatti, si deve anche all’appoderamento secondo uno schema a centuriazione, punteggiato dalle case assegnate alle famiglie di contadini. Simona Salvo attribuisce alla scelta del fascismo di vincolare i contadini alla terra che produsse circa tremila case coloniche per altrettanti poderi di circa 20 ettari di estensione, più che alla realizzazione delle città e dei borghi, la definitiva modificazione del paesaggio dell’Agro Pontino. 17 R. Anitori, Vite insieme. Dalle comuni agli ecovillaggi, Roma, DeriveApprodi, 2012. 18
In tal senso non fu solo la dimensione del fenomeno a produrre nuovo paesaggio, ma anche le scelte operate alla scala dell’architettura che interpretò l’occasione progettuale come opportunità di “aggiornare” i tipi tradizionali di architettura rurale con criteri di matrice funzionalista e diede origine a uno stile eclettico sebbene sostanzialmente tradizionalista. Le case coloniche disseminate nell’Agro pontino hanno subito, come l’intero territorio appoderato, fortissime pressioni trasformative soprattutto a partire dall’ultimo ventennio del secolo scorso in parte per i fenomeni di espansione urbana dei centri abitati, in parte per la trasformazione delle abitazioni rurali in abitazioni suburbane con o senza interventi di ristrutturazione o demolizione e ricostruzione. Eppure ne rimangono ancora un certo numero che non hanno visto modificare i caratteri originari e che, correttamente salvaguardate, costituirebbero un patrimonio della modernità alla pari dei centri di Latina e delle altre città di fondazione. La riflessione sui paesaggi della Riforma si colloca all’interno di un più ampio filone di ricerca che riguarda i paesaggi dell’agricoltura che è perseguito da diversi studiosi sia in ambito agronomico che di altre discipline. Se ne ha una chiara visione leggendo il contributo del gruppo di agronomi guidato da Giuseppe Barbera nel quale si preferisce parlare di “paesaggi agricoli tradizionali” che definiscono quegli ambiti territoriali nei quali le pratiche agricole sono sopravvissute alla industrializzazione del comparto e che, oggi, cominciano ad essere i luoghi in cui si afferma l’agricoltura non convenzionale, esito vivente della «bio accumulo dell’esperienza locale». Queste aree sono già state individuate nell’ambito di ricerche condotte da alcuni anni18 utilizzando la cartografia degli anni Sessanta che, confrontata con i dati attuali, ha consentito di individuare le colture, dunque i paesaggi, permanenti. A partire dal riconoscimento dei loro «valori colturali e culturali» queste aree debbono essere oggetto di progetti integrati esito della convergenza di politiche agricole e azioni di pianificazione all’interno di azioni di sviluppo locale, in particolare delle aree interne. Uno degli ambiti interessanti, da questo punto di vista, è quello di uno dei contesti montuosi del messinese, i Peloritani, che si affacciano sullo Ionio e sul Tirreno. In questo volume se ne occupano, in maniera integrata, Francesca Passalacqua e Ornella Fiandaca. La prima descrive la condizione attuale di un territorio che fino all’Unità d’Italia era uno dei più ricchi della Sicilia dal punto di vista agricolo e che è ancora oggi punteggiato dagli innumerevoli manufatti legati a quella stagione sebbene, soprattutto nel versante tirrenico, la industrializzazione della costa con la realizzazione degli stabilimenti a Milazzo, Pace del Mela e in altri centri minori, abbia fortemente modificato la piana sottostante la catena montuosa e la parte terminale delle fiumare. Proprio qui le masserie, le residenze padronali, i casali che nascevano nel contesto di una ricchissima agricoltura legata agli agrumi, agli olivi, ai gelsi, ma, soprattutto, alla vite, nelle diverse soluzioni insediative, da quelle a corte aperta a quelle puntiformi passando per gli insediamenti lineari, possono costituire i punti di una rete insediativa alla quale appoggiare pratiche di sviluppo alternativo a quello industriale. Ornella Fiandaca, dal canto suo, rassegna l’esito delle sue ricerche sui manufatti e sul sistema produttivo agricolo che caratterizzano in maniera differente il versante ionico da quello tirrenico: il primo punteggiato da piccoli borghi rurali, il secondo 18 M. Agnoletti (a cura di), Paesaggi rurali storici. Per un catalogo nazionale, Bari, 2010. 19
da insediamenti meno strutturati; quello con sistemi di irrigazione, di produzione di energia a servizio del mulini e di loro funzionamento differenti da quelli utilizzati sul Tirreno. E lo colloca dentro una riflessione dei processi di deterritorializzazione dell’intero contesto territoriale alla quale non è estranea proprio la Riforma agraria che, quotizzando e assegnando ai contadini terreni di pessima qualità e quasi improduttivi, vide un quasi totale rifiuto del conferimento e la mancata utilizzazione dei sette borghi costruiti tra Francavilla e Novara. La situazione attuale, caratterizzata da una forza ancora evidente del paesaggio agricolo tradizionale e dalla presenza di insediamenti, residenze, edifici produttivi legati alle pratiche agricole, ha spinto alla elaborazione di progetti di varia natura legati alle politiche agricole comunitarie, ai Gruppi di azione Locale o ad altre linee di finanziamento europeo (ecoturismo, p. es.), ma finora senza esiti particolarmente significativi a causa della ridondanza e ripetitività delle analisi generali e settoriali e, più in generale, di una iperterritorializzazione istituzionale che non ha dato origine a una visione unica e condivisa. Una situazione opposta a quella descritta da Francesco Giunta e che riguarda il sud est della Sicilia, ambito tradizionalmente di ricca agricoltura soprattutto vitivinicola che è sopravvissuta a importanti modifiche della struttura proprietaria passata dalla dimensione media dei poderi superiore ai 50 ettari tipica dei primi decenni del XX sec., al frazionamento effettuato nel primo decennio post bellico solo in parte come esito della Riforma19. La crisi del settore vitivinicolo degli anni Settanta ha lasciato intatta la suddivisione proprietaria e i numerosi edifici produttivi legati a quella produzione (i palmenti e le masserie), ma ha indotto i piccoli proprietari (dotati qui di una propensione all’intrapresa maggiore che nel resto della Sicilia) a una riconversione colturale e tecnica che ha portato al successo la serricoltura, inizialmente utilizzata solo nei terreni meno fertili e poi estesa anche ai fondi prima coltivati a vigneto. L’evoluzione del fenomeno è stata talmente prorompente che oggi l’intero sudest può essere assimilato più a una regione industriale che non agricola, in considerazione del fatto che la serricoltura ha imposto al territorio «relazioni tecnologiche e commerciali tra i singoli processi produttivi» che poco hanno a che vedere con l’agricoltura ancorché industrializzata. Come è tradizione della Summer School Emilio Sereni, questo volume raccoglie anche alcuni contributi di coloro che hanno seguito i lavori nel settembre 2016 i quali costituiscono un arricchimento tutt’altro che marginale dei temi affrontati dai relatori. Così Maria Rossana Caniglia ricostruisce le vicende di uno dei borghi più interessanti realizzati nel Ventennio in Sicilia, Borgo Rizza, tra Lentini e Sortino, non solo ripercorrendone le vicende costruttive, ma anche le serie di interventi manutentivi realizzati dal Dopoguerra in poi fino agli interventi di riqualificazione eseguiti nel primo decennio del XXI sec.. Maria Lina La China, invece, sintetizza la vicenda dello smantellamento del latifondo ponendola in relazione con alcune politiche già poste in essere nel secolo precedente a partire l’abolizione della feudalità voluta dai Borbone all’inizio del XIX secolo e ricostruendo la successione di norme ad essa relative dagli anni Venti in poi. 19 Anche qui, come tra i casi segnalati da Amata in questo volume, un forte ruolo nel frazionamento dei latifondi ha avuto il razionamento per successioni e suddivisioni parentali. 20
Alessandro Viva racconta una vicenda poco conosciuta al di fuori della Puglia, quella dell’occupazione delle terre nell’Arneo, in provincia di Lecce, che portò all’inclusione di oltre 50 mila ettari di terreno agricolo in questa parte del Salento tra le aree comprese nella legge Stralcio dopo esserne state, in un primo momento, escluse. La vicenda della Riforma agraria e delle sue ricadute economiche, sociali, ma anche politiche, è materia che spinge a utilizzare anche strumenti diversi dal saggio o dalla pubblicazione scientifica proprio per la natura dell’oggetto (il territorio di una parte dell’Italia), per le implicazioni sociali (la scommessa di cambiare le società contadine delle aree interessate), per quelle economiche e perfino per quelle simboliche in anni di decisa contrapposizione tra due fronti politici, culturali e sociali che vedevano i partiti di riferimento dell’Alleanza Atlantica (la Dc) al governo di questi processi e quelli tradizionalmente espressione delle classi subalterne e, in particolare, interpreti delle rivendicazioni delle masse bracciantili, all’opposizione. Inoltre i luoghi dell’abbandono, come sono oggi i borghi rurali, hanno dato vita, negli ultimi anni, a piste di ricerca che riguardano discipline umanistiche, dalla letteratura con l’“abbandonologia” che interpreta i luoghi dimenticati attraverso il racconto e la poesia per recuperarne il vissuto e avviare un processo di simbolizzazione, alla land art che si configura come un atto di nuova territorializzazione su base culturale, al sound landscape. Questa chiave di lettura, assai originale e anche evocativa, è quella che utilizzano Fabio Lattuca e Pietro Bonanno, i creatori del progetto Vacuamœnia. Musicologo, il primo, musicista il secondo, dedicano la loro attività di ricerca ai paesaggi sonori (cioè alla interazione dei suoni prodotti dagli agenti naturali quando si intrecciano con prodotti antropici), registrando i suoni in luoghi particolari come i borghi abbandonati. Attraverso l’indagine acustica, preceduta e accompagnata da una approfondita ricerca d’archivio, viene perseguito un progetto di risignificazione dei luoghi che hanno perso funzione e senso – a volte sono scomparsi anche dalla memoria. Utilizzando il luogo come cassa armonica e gli agenti di natura come musicisti, restituiscono identità ai luoghi creando atmosfere uniche e irripetibili. Si collocano così, da un lato, all’interno delle riflessioni relative alla Ecologia acustica avviate da qualche decennio in ambito internazionale alle quali introducono con il testo presente in questo volume; dall’altro dentro il filone delle riflessioni sul “terzo paesaggio” come definito da Gilles Clément in riferimento ai luoghi abbandonati dall’uomo. La natura dei borghi spinge, soprattutto, a utilizzare il racconto per immagini che affianca all’oggettività delle inquadrature e dei riferimenti storici, il coinvolgimento emotivo degli autori e dei registi che viene poi trasmesso agli spettatori. Per questo nell’ambito della Special School di Siracusa sono stati dedicati alcuni pomeriggi alla visione di documentari di grande qualità sui quali gli autori hanno scritto i testi che concludono questo volume. Stefano Piastra racconta con l’occhio del geografo e la passione di chi è cresciuto in quelle terre, le vicende affatto particolari della Riforma applicata alle terre umide del Delta padano e, in particolare, a quell’area ferrarese che fu quella più fortemente coinvolta. Qui, come in tutta l’area deltizia veneto-romagnola l’azione preventiva necessaria a rendere coltivabili le terre paludose fu il prosciugamento delle valli 21
che, però, per ovvie difficoltà tecniche, fu attuato in tempi molto lunghi rendendo spesso inappetibile per i contadini l’accettazione delle terre, nonostante il fortissimo investimento del Governo e delle sue articolazioni locali nella gestione della Riforma, in un’azione di costruzione di un “racconto” positivo dalla forte connotazione politica. La quotizzazione si è rivelata un fallimento e, dopo pochi anni, è ricomparsa la grande proprietà – magari non più privata, ma istituzionale – e la bonifica si è rivelata una vera e propria catastrofe ambientale mantenuta ancora oggi a costo di altissime spese energetiche necessarie per mantenere in attività le idrovore, sebbene una parte non piccola della comunità scientifica e ambientalista ritenga che si debba procedere al riallagamento delle terre. Il documentario, che raccoglie testimonianze dirette di ex assegnatari di fondi, è prodotto in occasione della Special School dall’Istituto Cervi, si intitola “Dall’acqua ai campi, dai campi al silenzio. Le traiettorie della Riforma agraria nel delta padano emiliano-romagnolo” ed è visionabile all’URL https://www.youtube.com/ watch?v=Zb0rRv4tAKM. Altri due filmati proiettati nei pomeriggi siracusani della Special School sono stati prodotti da un gruppo di docenti cinefili che da anni si occupano del tema delle lotte contadine in Sicilia e della storia dei borghi. Rocco Giudice sottolinea la “necessità” di raccogliere questa testimonianza prima che i borghi si svuotino del tutto, per riempire quel «vuoto di memoria collettiva» nel quale è caduta tutta la vicenda della Riforma agraria e che non consente di leggerne e interpretare i paesaggi. Angelo Barberi, ripercorre i fotogrammi del documentario sui borghi (“I borghi della Riforma agraria in Sicilia. Cronaca di una storia sconosciuta”) testimoniando l’abbandono di molti di essi, ma sottolineando che alcuni, magari con percorsi diversi da quelli che erano stati immaginati, ancora oggi sopravvivono. Come Borgo Cascino grazie al fatto che gli edifici per servizi sono stati abusivamente trasformati in abitazioni; o altri in cui oggi sono accolti centri di recupero, centri sociali o attività produttive legate a prodotti tipici. Infine Sebastiano Pennisi dà la chiave di lettura del documentario: «un lavoro di indagine sulla possibile sopravvivenza dei borghi diventava così una inchiesta sulle reali prospettive del ripristino delle abilità contadine, della preservazione dell’ambiente e del mangiare responsabile». Ecco, dunque, che attraverso le immagini il filo rosso che ha percorso la settimana della Special School e che si vede in filigrana in tutti i testi raccolti in questo volume, riemerge con forza: i paesaggi della Riforma agraria nelle loro diverse articolazioni e nella loro differenziata condizione attuale e gli insediamenti residenziali e produttivi che ad essa sono legati, non possono più essere una sbiadita fotografia di un’utopia irrealizzata, ma devono essere uno degli elementi delle politiche integrate di sviluppo locale che riguardano le aree extrametropolitane in cui gli aspetti economici, quelli culturali e perfino quelli etici convivono in un giusto equilibrio tra tutela e uso non dissipativo.
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La nascita del concetto di paesaggio agrario e gli studi sulla riforma agraria di Emilio Sereni
Gabriella Bonini
Premessa Emilio Sereni (Roma 1907-1977) è il padre ancora oggi indiscusso della definizione di paesaggio agrario, uomo coltissimo, intellettuale, politico, studioso rigoroso, storico dell’agricoltura, economista. Ha dedicato la vita allo studio dell’agricoltura, dagli aspetti più agronomici e naturali a quelli sociali, dalle trasformazioni nelle campagne alle organizzazioni sindacali e professionali inerenti il mondo agricolo. Non era uno storico di professione, ma un gigante intellettuale, dotato di un’erudizione sterminata, maneggiava con disinvoltura una decina di lingue, compreso il cinese. Era titolare di un patrimonio culturale vasto e impareggiabile che lo ha reso unico in Italia e che in lui coesisteva con rigidità ideologica e dottrinaria frutto di quei tempi fortemente ideologizzati, quasi a sfiorare il dogmatismo. Ma Emilio Sereni è stato anche uno degli esponenti comunisti più attivi nella lotta antifascista in Italia e poi in Francia, uno dei padri della Repubblica (eletto il 2 giugno 1946 membro dell’Assemblea Costituente), parlamentare (prima ministro dell’Assistenza post-bellica e poi e dei Lavori Pubblici in due successivi governi Gasperi, Senatore e Deputato per più legislature fino agli anni Settanta), membro del Comitato centrale e della Direzione del PCI (della quale continuerà a fare parte fino al 1975), membro dell’esecutivo mondiale dei Partigiani della Pace, fondatore e Presidente dell’Alleanza Nazionale dei Contadini (oggi CIA Confederazione Italiana Agricoltori), direttore di “Critica marxista” dal 1966 alla morte. Quale presidente dell’Alleanza dei Contadini è anche cofondatore dell’Istituto Alcide Cervi1 e lega il proprio nome a quello della famiglia di Alcide Cervi, una famiglia di contadini della pianura reggiana resa nota all’Italia intera per il doloroso tributo di sangue dato alla resistenza e alla nascita dello stato democratico. Sereni ne è affascinato dalla fusione della dedizione politica con l’emancipazione produttiva. Li considera costruttori di un paesaggio rurale e insieme civile, oltre che protagonisti di una straordinaria storia. È su questo connubio, tra memoria antifascista e studio 1 Quanto Emilio Sereni ricopre la carica di Presidente dell’Alleanza Nazionale dei Contadini, il
24 aprile 1972 nasce l’Istituto Cervi da quattro soci fondatori, Provincia di Reggio Emilia, Comune di Gattatico, ANPI nazionale e Alleanza Contadini, oggi CIA. L’istituto Cervi consegue lo status di Ente morale con Decreto del Presidente della Repubblica nel luglio 1975. 25
della terra, che Sereni si avvicina ai Cervi. Il formidabile messaggio simbolico dei Cervi si unisce alla ricerca scientifica, l’umanesimo contadino alle scienze umane applicate. Il connubio Sereni-Cervi arriva a compimento nel 2008 quando a Gattatico, comune della provincia di Reggio Emilia, a lato della Casa Museo Cervi, in un nuovo edificio appositamente costruito, è trasferita da Roma, Piazza del Gesù, la Biblioteca e l’Archivio documentale di Sereni2. La Biblioteca e Archivio insieme delineano un quadro di passioni e di attenzioni aperto a un’infinità di argomenti, di interessi, non solo un sapere erudito: il mondo agrario ivi contenuto non è quello dell’analisi della produzione, ma un ambito dove entrano le tecniche, gli uomini, le società, le decisioni, gli entusiasmi e le angosce di un mondo. Sereni è stato un uomo eccezionale, di cultura versatile accompagnata da una rapidità di lettura e di assimilazione uniche e da un straordinaria capacità di lavoro che gli consentivano di spaziare in ogni campo, dal lavoro nel partito alla lotta per la pace, dalle questioni agrarie a quelle del Mezzogiorno, dall’archeologia e dall’antichistica alla storia economica sociale. Un eclettismo legato anche alla concezione che egli aveva della funzione dell’intellettuale nel ruolo di dirigente di un partito operaio. Italo Calvino lo aveva definito «estroso, paradossale, napoletano, euforico, efficientissimo, di natura vivace e geniale» (La Repubblica, 14 dicembre 1977). Il lascito culturale di Sereni ha fatto sì che l’Istituto Cervi affiancasse alla storica missione valoriale di Casa Cervi quella degli studi avanzati sul paesaggio, sulle sfide del governo del territorio e sulla conservazione dell’identità rurale italiana. E così è tuttora, impegno ulteriormente confermato con l’avvenuto riconoscimento da parte del Ministero dei Beni Culturali e del Ministero dell’Istruzione (MIUR). L’Istituto Alcide Cervi è accreditato come Ente di Formazione ai sensi della Direttiva n.°170 del 21 marzo 2016 e tutte le attività di formazione messe in campo sono riconosciute valide per l’aggiornamento degli Insegnanti di ogni ordine e grado sul territorio nazionale.
Gli studi sul paesaggio e le Summer School Emilio Sereni È dall’eredità degli studi sereniani che prende forma il progetto di una Summer School intitolata a Emilio Sereni e al suo libro più noto, la Storia del paesaggio agrario italiano, sostenuto anche dal fatto che la sede dell’Istituto Cervi offre l’effettiva possibilità di vivere in un ambito particolarmente rappresentativo e composito in cui si fonde la storia del Novecento, la conservazione dello scibile enciclopedico di Sereni insieme alla terra modellata dall’uomo, nelle sue molteplici e più recenti 2 La Biblioteca Emilio Sereni consta di circa 22.000 volumi, 200 riviste tra correnti e cessate, più una piccola sezione di rarità bibliografiche di interesse agrario. L’Archivio Storico Nazionale dei movimenti contadini raccoglie e organizza in 1600 buste archivistiche i materiali documentari affidati in donazione o in deposito da organizzazioni politiche, sindacali e da privati, attinenti alla storia dei movimenti contadini italiani dalle origini ai nostri giorni. Il Fondo Emilio Sereni è il più importante e consistente. È formato dall’Archivio di documentazione e dallo Schedario bibliografico, imponente raccolta di alcune migliaia di voci e decine di migliaia di schede e di appunti bibliografici stilati da Sereni, ben oltre le 300.000 schede. L’Archivio di documentazione sereniano consta di circa 1.000 buste con oltre 63.000 pezzi contenuti; è suddiviso in due sezioni: una relativa a temi politicoeconomici (ma anche geografici, archeologici, linguistici, etnografici, folclorici, sociologici, ecc.) e una a temi di carattere più strettamente agrario. 26
trasformazioni. Un luogo, quello di Casa Cervi, che da sempre rappresenta sintesi di emozioni e contenuti, apprendimento, monumentalizzazione ed elaborazione della memoria del paesaggio. Anche il rapporto con l’innovazione, la modernità, la tecnica, fa dell’esempio dei Cervi, accanto all’imponente figura intellettuale di Emilio Sereni, il contesto geo-storico migliore per un apprendimento sul campo, a cielo aperto. Per affrontare un discorso compiuto sul paesaggio agrario attuale e sulle trasformazioni che lo hanno modificato soprattutto negli ultimi decenni, le Summer School hanno individuato diverse modalità di approccio. La prima ha portato a ripercorre, intersecandoli, i periodi della storia politica, sociale ed economica. La seconda è stata quella di risalire alla sostanza delle forme che caratterizzano il paesaggio agrario e alla complessa interrelazione che avviene tra i suoi elementi componenti e che, ogni volta, danno origine a diverse strutture agrarie. In questo modo, dal 2009, di anno in anno, le Summer School Emilio Sereni hanno affrontato un segmento del tema del paesaggio agrario italiano, dalla protostoria alla colonizzazione greca ed etrusca, dalla centuriazione romana ai giorni nostri, condotte con stretti riferimenti alla letteratura e all’arte, e con gli strumenti dello storico, dell’economista, del sociologo, dell’agronomo e del pedagogista. Il paesaggio agrario, nell’arco cronologico, è stato studiato come elemento formale del sistema natura-cultura, come mediazione tra i processi strutturali delle trasformazioni ambientali e come sintesi ed espressione delle azioni e dell’organizzazione sociale ed economica che hanno caratterizzato la vita dei luoghi. Uno studio del paesaggio agrario dove l’opera dell’uomo sul territorio si intreccia e si affianca con la storia politica, economica, sociale, scientifica per far emergere le interazioni fra le stratificazioni del paesaggio (agrario e storico) e la contemporaneità, in un divenire storico che compone, nel presente, un paesaggio umano composito e inscindibile con il proprio passato. Negli anni successivi si è inteso privilegiare l’aspetto analitico e interpretativo, partendo dalla consapevolezza che sono molteplici e diverse tra loro le discipline che contemplano la materia paesaggio come oggetto verso cui viene indirizzata l’attenzione sul piano conoscitivo, interpretativo o anche solo operativo. L’intendimento è stato quello di favorire tra le discipline un confronto sul tema del paesaggio, promuovendo la contaminazione e la costruzione di paradigmi interdisciplinari nella piena consapevolezza del paesaggio come forma visiva di un territorio, espressione dell’identità socioculturale e del percorso storico di una comunità. E così sono state le edizioni dedicate a Paesaggi del cibo, Abitare la terra, Paesaggio patrimonio culturale e turismo. Parallelamente a questo percorso, ovviamente, si sono aperti tanti e diversi rapporti scientifici, culturali, didattici, con varie realtà, Enti e Istituzioni sul territorio nazionale. Uno di questi è stato proprio con la terra di Sicilia, con l’Università di Catania e di essa con il DICAR-Dipartimento di Ingegneria e Architettura, con il quale è stata firmata e rinnovata una convenzione di collaborazione scientifica. Ed è proprio con il professore Carmelo Nigrelli del DICAR che si è concretizzato il comune progetto di una Special School Emilio Sereni che riprendesse il filone “storico” delle Summer School: I paesaggi della Riforma agraria. Storia e gestione del paesaggio nelle aree rurali. Un’edizione speciale sotto molti aspetti: perché è stata la prima volta che un’iniziativa scientifica di così grande portata e di più giorni si è realizzata fuori da Casa Cervi; perché si è occupata di un periodo storico circoscritto con un approccio territoriale per rimettere in gioco queste aree, molte delle quali abbandonate soprattutto dal 27
punto di vista architettonico, riconoscendole come un esito specifico del Novecento italiano. L’approccio è stato il medesimo: multidisciplinare, dalla storia all’urbanistica, dalla geografia all’economia, all’antropologia, alla musica, alla letteratura. L’esito non era scontato, ma è stato decisamente positivo, siglato dalla presenza di iscritti da diverse regioni, oltre che dalla Sicilia, da loro apprezzato con decisa condivisione dei temi trattati, sostenuto dall’interesse mostrato dalla stampa locale che ne ha dato diffusione su diversi canali e, non per ultimo, dalla folta adesione di docenti provenienti da 16 atenei italiani. Condivisa, nel corso delle lezioni e degli incontri, la comune visione di un Sereni come uno dei più lucidi testimoni e protagonisti del secolo scorso, sia sul versante conoscitivo sia su quello politico. A lui il riconoscimento dell’anticipazione delle moderne tematiche ambientali di salvaguardia, di uso e consumo del territorio, dell’uomo costruttore di paesaggio con le sue scelte. Un Sereni drammaticamente presente oggi allorché siamo alle prese con le conseguenze del lungo addio all’agricoltore manutentore che assicurava un’agricoltura legata ai ritmi stagionali, la cura del suolo e quindi del paesaggio stesso, non solo risorsa quantitativa al servizio dell’agricoltura, ma bene comune attraverso cui leggere le stagioni e le trasformazioni della società. Le campagne come risultato di una lunga trasformazione, frutto dell’incontro tra uomo e natura; le nostre campagne messe all’origine delle strutture sociali, delle economie e dei paesaggi dell’oggi.
Il paesaggio agrario di Emilio Sereni Da millenni, l’uomo attraverso l’agricoltura lascia tracce del proprio passaggio sul territorio. Processi complessi e dinamici, che coinvolgono matrici naturali, culturali, identitarie, economiche e sociali, contribuiscono a plasmare il paesaggio agrario: è un paesaggio colturale, storico, costruito dall’uomo e dal suo lavoro: il lavoro modifica il territorio nella misura in cui la natura lo permette e nei modi in cui la tecnica e i rapporti sociali lo consentono. Il paesaggio è la «dura e laboriosa conquista dell’uomo», ma contemporaneamente è anche «l’espressione di dati rapporti di produzione, di meccanismi socio-economici che si riflettono sul modo di utilizzare il territorio». Il paesaggio è una realtà formale, oggettiva e intenzionale. E’ «la forma che l’uomo, nel corso ed ai fini delle sue attività produttive agricole, coscientemente e sistematicamente imprime al paesaggio naturale»3. Sereni è stato il primo storico dell’agricoltura a non guardare solo alla struttura, ma anche alla forma del paesaggio, a collegare l’analisi morfologica con l’analisi formale. Il paesaggio agrario che descrive è quindi il prodotto dell’interazione nello spazio e nel tempo di sistemi diversi: del sistema economico, di quello sociale e ambientale. Poiché il paesaggio non è conservabile nel tempo, non è neppure illustrabile con un’immagine fissa. Sereni precisa che il paesaggio agrario diventa fonte storiografica solo se non è assunto come un dato, o come un fatto, ma se invece viene letto come un fare, se viene studiato nel suo farsi, in quanto prodotto da gente viva, dalle attività produttive e dalle lotte dei contadini per conquistare dignità e diritti, allora il 3 E. Sereni, Storia del paesaggio agrario italiano, Bari-Roma, Laterza, 1961, p. 4. 28
paesaggio concorre all’educazione civile dell’uomo. Le campagne diventano paesaggio quando sono lette come un testo, ossia come un insieme di segni da decodificare, segni che veicolano dei significati, e significati che sono i saperi e le fatiche, le storie e i processi che hanno generato quell’immagine grazie al lavoro secolare dei contadini. Sicuramente Sereni aveva ben presente l’art. 9 della Costituzione La Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione: se il paesaggio rappresenta l’identità della nazione, assumere le campagne all’interno del paesaggio italiano ha il valore di integrare i contadini nell’identità nazionale. Emilio Sereni usa spesso la parola “stratificazioni” per riferirsi alla dimensione temporale della storia. La storia non è composta solo dal tempo, ma anche dallo spazio, e Sereni riprende questa idea di uno spazio che non è più lo spazio naturale, ma è una natura storicizzata, cioè uno spazio antropizzato che in realtà noi oggi concepiamo come frutto di un processo di territorializzazione, il processo che trasforma lo spazio naturale in territorio. Lo strumento primario di questo processo è l’agricoltura, sicuramente, ma le azioni umane che costruiscono il paesaggio si aggiungono al ruolo della natura, che rimane protagonista sia negli elementi di base (geomorfologici) che nel divenire dei fenomeni naturali (compresi quelli tragici come il terremoto): le forze naturali (clima, pedologia, acque, vegetazione, etc.) concorrono alla formazione del paesaggio, così come vi concorre l’azione dell’uomo che disegna su questo spazio naturale un qualcosa di più complesso che chiamiamo territorio. Allo stesso modo, il territorio è un sistema complesso di relazioni tra soggetti diversi mediato dalle relazioni che questi intrattengono con un ambiente materiale, per cui queste relazioni (ecologiche in senso lato) sono costitutive di quelle sociali (economiche, politiche, culturali, istituzionali). Il territorio che Sereni ci consegna è in realtà la storia del suolo agricolo plasmato e modellato dal lavoro contadino, dalle tecniche di coltivazione, dalle forme delle piantagioni, dai modelli di impresa, dalle dimensioni della proprietà, dai rapporti di produzione fra le varie figure che vivono sulla e della terra.
Gli studi di Emilio Sereni sulla riforma agraria Il tema della Riforma fondiaria, della distribuzione della proprietà e degli esiti successivi è stato il tema comune di quasi tutti i movimenti rivoluzionari di ispirazione socialista a partire dal XIX secolo. In virtù del dettato costituzionale e sulla spinta delle occupazioni della terra divenute ancor più intense alla fine degli anni ’40 del secolo scorso, il Parlamento aveva approvato leggi di riforma fondiaria contestualmente ad un programma straordinario e vasto di opere infrastrutturali per il Mezzogiorno che avrebbero dovuto interessate soprattutto i territori rurali. Questi provvedimenti si aggiungevano agli interventi della bonifica integrale messi in opera da Arrigo Serpieri e alle misure fiscali e creditizie per lo sviluppo della proprietà contadina, varate negli anni precedenti, e che sarebbero poi state integrate dalle successive riforme, come i contratti agrari, gli interventi per la montagna, la costruzione di uno stato sociale per gli addetti all’agricoltura. La riforma fondiaria non è stata una generosa concessione di governanti illuminati, bensì il risultato di lunghe, durissime e sanguinose rivendicazioni da parte delle popolazioni rurali. La terra non è stato un regalo del cielo (e non lo è tutt’ora per la 29
parte più popolosa del pianeta dedita alla terra), ma una conquista sociale che affonda le sue radici in oltre duemila anni di storia, dai Gracchi della Roma repubblicana, alle Jacqueries della Francia medievale, ai contadini della Germania di Martin Lutero. E’ però a partire dalla seconda metà dell’Ottocento che la questione agraria occupa il dibattito marxista, un terreno di confronto e di contrasto, punto di incidenza della teoria con la pratica rivoluzionaria. Il primo scritto di Emilio Sereni che analizza le cause della riforma agraria è del 1930 dove egli vi afferma che l’agricoltura, oltre a soffrire della crisi economica generale, soffre anche di quella particolare per la diminuzione del potere d’acquisto dei prodotti agricoli rispetto a quelli industriali, il tutto collocato nel quadro del «predominio sempre più incontrastato del capitale finanziario monopolista nell’economia italiana e mondiale»4. Un suo successivo intervento è del 19315 quando risottolinea come il capitale finanziario riesca a dominare tutta l’economia agraria del paese attraverso le forme della distribuzione; vi sottolinea pure il ruolo della Federazione italiana dei Consorzi agrari e mette in relazione gli interessi dei grandi agrari con gli interessi del capitale finanziario, come testimonia la presenza di esponenti di famiglie di agrari all’interno dei consigli di amministrazione di banche e di società industriali. Il tema della questione meridionale, come aspetto essenziale della questione agraria e contadina in Italia, è da Sereni ripreso con sistematicità in La questione agraria nella rinascita nazionale italiana6. Nella sua analisi, la rivoluzione democratico – borghese non si è compiuta come dimostrano gli importanti residui feudali che permangono nelle campagne, specialmente meridionali. La proprietà capitalistica della terra si è allargata anche dopo il Risorgimento a spese della grande proprietà nobiliare ma i rapporti feudali di proprietà terriera restano e il capitalismo è incapace di eliminarli, anzi si lega in modo sempre più evidente con residui feudali di forme economiche e sociali sorpassate. Il passaggio dell’Italia da paese agricolo-industriale a paese industriale-agricolo è avvenuto «non nell’epoca del capitalismo industriale ascendente, grazie ad una accumulazione di capitale e ad un graduale allargamento del mercato interno, ma nell’epoca del capitale finanziario e dell’imperialismo, nell’epoca del capitalismo già avviato al suo declino storico»7. E quindi l’attenzione di Sereni si concentra sul legame “moderno”, sulla compenetrazione della grande proprietà terriera col capitale finanziario, proprio come aveva già sostenuto undici anni prima quando asseriva la subordinazione della terra al capitale finanziario. Nell’agricoltura italiana non esiste per lui contraddizione fra il predominio dei rapporti di produzione capitalistici e la persistenza di residui feudali: il modo in cui è stato portato avanti il processo risorgimentale ha fatto sì che la subordinazione della terra al capitale sia avvenuta con la compenetrazione tra i vecchi rapporti di produzione ed il nuovo capitale monopolistico. Egli ritiene che sia insito nella natura propria del capitalismo monopolistico mantenere in vita residui di feudalesimo, proprio perché ha 4 Ora in E. Sereni, Capitalismo e mercato nazionale in Italia, Torino, 1966, pp. 279-285. 5 E. Sereni, Elementi per lo studio della questione agraria in Italia in «Lo Stato operaio», n. 3-4, 1931, pp. 205-220; n. 5, pp. 261-268; n. 6, pp. 342-351. 6 E. Sereni, La questione agraria nella rinascita nazionale italiana, Torino, 1946. Il testo è però redatto in esilio a Nizza tra la fine del 1942 e l’inizio del 1943. 7 Ibid., p. 44. 30
ormai perso ogni capacità di rivoluzionare i rapporti di produzione. Sereni concentra, quindi, la sua attenzione sopratutto sulla persistenza e sul peso dei residui feudali nelle campagne: economia primitiva seminaturale, freno allo sviluppo del mercato tra agricoltura e industria, limitazione del mercato agricolo a favore della grande industria. Il fascismo, poi, accentuando i caratteri più parassitari del capitalismo, aveva favorito il legame tra «tali barbari residui ed il peso del nuovo feudalesimo dei trusts e delle banche»8. È in tale prospettiva che da Sereni è giudicata la politica agraria fascista, dalla battaglia del grano, alla sbracciantizzazione, alla bonifica integrale, prospettiva che mette in secondo piano quegli elementi di sviluppo capitalistico presenti in queste iniziative e che già Togliatti sottolineava nel 19359. Questa analisi, se da un lato afferma che il capitalismo stesso, nella sua fase monopolistica, costituisce un ostacolo allo sviluppo capitalistico dell’agricoltura e quindi è auspicabile la fuoriuscita del capitalismo giunto ormai al termine del suo processo, dall’altro la convinzione che i residui feudali persistenti siano stati rafforzati dal fascismo, spinge Sereni a sostenere la lotta contro la classe dirigente fascista attraverso un’ampia unione di classi e di ceti sociali, compresi i piccoli e medi capitalisti agrari, danneggiati dal prevalere dei monopoli, non tanto in nome del socialismo, quanto per quella democrazia ad unità nazionale reale che il Risorgimento non era riuscito a raggiungere e tanto meno a garantire. Da un lato, cioè, Sereni fa riferimento a contraddizioni intrinseche allo sviluppo capitalistico, e quindi ineliminabili solo con la modifica alla base dei rapporti di produzione, dall’altro ipotizza uno sviluppo democratico del capitalismo stesso10. Compito e dovere è comunque per Sereni liberare le masse agricole dal peso della miseria e dell’oppressione feudale; nel fare ciò, queste entrano in conflitto sia con le vecchie caste feudali sia con gli interessi del capitale finanziario, così la lotta contro i residui feudali diventa la lotta contro la dittatura del capitale monopolistico. Di fatto, però, nessun colpo viene inferto alla grande proprietà di tipo feudale e il problema non si imporrà come problema nazionale fino agli anni Cinquanta, quando si entrerà in un’altra fase della politica sociale ed economica italiana. Queste posizioni spingeranno successivamente i comunisti a considerare una riforma agraria volta ad eliminare il peso della grande proprietà fondiaria e dei rapporti feudali in agricoltura, elemento essenziale per la ripresa economica italiana rivolgendo l’attuazione, non solo ai tradizionali ceti agricoli salariati, ma anche a mezzadri e coltivatori diretti per l’eliminazione di quei contratti considerati ancora precapitalistici (mezzadria e colonie), per la creazione di un più ampio mercato agricolo e per la formazione di aziende contadine associate che avrebbero portato a un forte sviluppo produttivo non solo dell’agricoltura, ma anche dell’intera economia italiana, con l’allargamento del mercato interno e più moderni rapporti capitalistici. Negli anni del dopoguerra ,nel nord si svolge una lotta energica per la riforma dei patti agrari mentre i moti del sud non sono supportati da uno stesso impegno politico ed organizzativo. Sarà è Ruggero Grieco nel 1946 ad affermare il rispetto assoluto per la piccola e media proprietà e l’impegno a difenderla, affermando che le masse dei piccoli e medi proprietari contadini non devono temere dalla nuova democrazia 8 E. Sereni, La questione agraria, cit., p. 202. 9 P. Togliatti, Lezioni sul fascismo, Roma, 1973. 10 E. Sereni, La questione agraria, cit., pp. 216 sgg. 31
che non lederà i loro interessi in quanto essi ne costituiscono il più valido sostegno. Su questa base viene poi avanzata la proposta di una riforma agraria che tenda a sciogliere il latifondo, a rivedere i contratti agrari e, nella Valle Padana, ad interventi contro la proprietà capitalistica11. Il successivo volume, pubblicato da Einaudi nel 1949, Il capitalismo nelle campagne assume una notevole importanza nella ripresa del dibattito storiografico del dopoguerra. Nuovamente Sereni ritorna sull’argomento e sostiene che la persistenza di imponenti residui feudali nelle campagne conferiscono all’economia italiana arretratezza e primitività tanto da rendere l’economia italiana un’economia ritardataria. Le aree arretrate vengono separate e contrapposte a quelle sviluppate, ma lo sviluppo capitalistico, secondo Sereni, unificando il mercato nazionale e accentuando il carattere mercantile dell’economia italiana, trasforma in contrasto la differenza di sviluppo tra nord e sud12. Quindi la questione agraria in Italia si pone in modo particolare, non solo per i rapporti che si instaurano tra agricoltura e industria, ma in un quadro territoriale di contrasto tra il nord e il sud e in un quadro politico di abbandono del sud nelle mani dei grandi proprietari terrieri semifeudali. A metà degli anni Cinquanta, Sereni ritorna con vigore sul tema della Riforma agraria allorchè, alla morte di Ruggero Grieco, assume un ruolo di primo piano nella direzione della politica agraria del Partito comunista e diventa il presidente dell’Alleanza dei Contadini. I frutti di questo lavoro confluiscono per la maggior parte nel volume Vecchio e nuovo nelle campane italiane13. Sereni parte dal fatto oggettivo dell’arretratezza delle strutture agrarie da un lato e dall’altro dal risveglio di una coscienza politica nelle masse rurali. Le lotte nel Mezzogiorno contro i residui feudali sono state efficaci ed hanno portato ad un generale sviluppo democratico, ma Sereni si chiede se questo sforzo non debba considerarsi ristretto solo alla liquidazione dei residui feudali, trascurando invece altri motivi di lotta e altre zone e nota come sempre più lo sviluppo del capitalismo non solo si stia orientando verso la formazione di grandi aziende agrarie (come è ovvio), quanto su un sempre più pesante asservimento delle piccole aziende contadine “indipendenti”. Ciò inevitabilmente porta alla crisi della piccola economia contadina e lascia ai contadini meno agiati, ai braccianti e ai salariati, la sola via della progressiva degradazione della loro economia famigliare, la disoccupazione e l’emigrazione. In questa situazione è necessario per Sereni sostenere le lotte per il collocamento, per l’imponibile di mano d’opera, per la riforma dei contratti, per la conquista della terra. La parola d’ordine diventa a questo punto quella della riforma generale per eliminare definitivamente il dualismo fra lotta per la terra del latifondo e lotta per i nuovi contratti agrari. Obiettivo è dare la tera a chi la lavora e strumento ne è per Sereni la norma costituzionale. Al centro del Vecchio e nuovo nelle campane italiane sono i mutamenti avvenuti come conseguenza del peso crescente acquistato dal monopolio terriero e dalla subordinazione dell’agricoltura al capitale finanziario monopolistico a cui Sereni risponde appunto con la parola d’ordine della terra a chi la lavora e «non solo come una parola d’ordine di lotta immediata per la 11 Si tratta del discorso pronunciato da Grieco al V Congresso del Pci ed è pubblicato in R. Grieco, Introduzione alla Riforma Agraria, Torino, 1949, pp. 67-80. 12 E. Sereni, Capitalismo e mercato nazionale in Italia, Torino, 1966, p. 37 e seg.. 13 E. Sereni, Vecchio e nuovo nelle campane italiane, Roma, 1956. 32
conquista della terra e per la riforma fondiaria generale, ma anche come fondamento del diritto alla proprietà privata della terra in un’Italia socialista»14. Ancora più chiare sono le sue parole nella Dichiarazione programmatica da lui scritta e approvata durante i lavori dell’VIII Congresso del Pci dove egli chiaramente indica le forze interessate, la grande massa dei braccianti, i contadini poveri e senza terra, i mezzadri, i coloni e i piccoli e medi coltivatori, poi vi ribadisce la centralità della questione agraria nella rinascita meridionale e infine chiaramente esplicita il nesso con la prospettiva socialista: «I coltivatori avranno garantito, nella società socialista, il godimento assoluto della loro proprietà. La classe operaia al potere metterà fine allo sfruttamento di cui essi sono vittime da parte dei monopoli, degli agrari e del governo. L’agricoltura socialista moderna, che i comunisti vogliono sostituire all’attuale stato di decadenza e disgregazione, sarà fondata sulla proprietà della terra a chi la lavora, sul progresso tecnico, su quelle forme di lavoro associato che i coltivatori stessi decideranno nel pieno rispetto della loro volontà e dei principi della democrazia» 15. La via italiana al socialismo per Sereni passa per la lotta alla terra che invece il vecchio riformismo aveva relegato in ultimo piano. Sereni elabora una via al socialismo sia in termini di avanzamento produttivo (rispetto ai livelli raggiunti nei paesi del socialismo reale) sia in termini di libertà e di sviluppo della persona umana. Negli anni successivi, gli avvenimenti in campo politico ed economico seguiranno indirizzi diversi, capitalismo, popolazione, questione meridionale, saranno i temi che occuperanno le prime pagine, ma il lavoro teorico e politico di Sereni di quegli anni resta un punto forte in quanto egli contribuì in modo decisivo a far prendere consapevolezza, prima di tutto al suo partito, del nuovo ruolo che la massa dei coltivatori diretti avrebbe avuto nell’economia, non solo come forza alleata ma come forza motrice. È dunque a Sereni che si possono ben attribuire senza forzature l’anticipazione di tematiche fondamentali per lo sviluppo democratico e civile del nostro Paese.
L’eredità sereniana Sereni scrive a metà degli anni cinquanta, quando in Italia, come in tutta Europa, era ancora vivo il ricordo della fame degli anni di guerra e l’agricoltura era chiamata ad esorcizzare la paura della carestia. Scrive negli anni in cui l’agricoltura e il mondo contadino sono al centro degli interessi della vita nazionale: le lotte nelle aree latifondistiche del Sud, le vertenze nazionali dei mezzadri, i conflitti bracciantili nelle aziende capitalistiche della Pianura Padana, la riforma agraria del 1950. Il volume Storia del paesaggio agrario italiano viene pubblicato dopo l’occupazione delle terre e l’avvio della Cassa per il Mezzogiorno, prima che si potessero vedere a pieno gli effetti di quella che Eugenio Turri chiamerà la “Grande Trasformazione” degli anni Sessanta e Settanta, ossia lo spopolamento delle campagne, la fuga dei contadini meridionali verso le fabbriche del Nord, la meccanizzazione del lavoro agricolo, la specializzazione colturale spinta, la drastica riduzione dell’occupazione in agricoltura 14 E. Sereni, Vecchio e nuovo nelle campane italiane, Roma, 1956, p. 19-20. 15 VIII Congresso del Partito comunista italiano. Atti e risoluzioni, Roma, 1957, p.15. 33
e anche prima dell’approvazione della PAC, la politica di aiuti dell’Europa comunitaria all’agricoltura, che negli ultimi decenni ha segnato il destino dell’agricoltura non solo italiana, ma dell’Europa intera. Tutti fatti che segnano definitivamente e senza ritorno il destino dell’agricoltura italiana ed europea. Sereni pensava che lo studio storico dell’agricoltura, allora ancora attività economica predominante nell’Italia meridionale, potesse fornire un quadro interpretativo utile a suggerire gli interventi a chi doveva decidere le riforme. Ma, oggi, cosa resta dei capisaldi della lettura di Sereni? Quale eredità ci ha lasciato? Nel 1962 Lucio Gambi riteneva che l’opera di Sereni sarebbe restata a lungo «punto inevitabile di riferimento» per chiunque si fosse interessato di storia agraria, «specialmente nelle forme paesistiche»16. Nello stesso anno Ernesto Ragionieri sottolineava come Sereni fosse riuscito a evidenziare nella storia d’Italia «un elemento di sostanziale unità e continuità, collegato con la prassi umana associata, con il lavoro degli uomini per modificare il paesaggio naturale e per uniformarlo ai rapporti sociali e alle idee politiche, e non soltanto politiche, volta a volta prevalenti»17. Giudizi molto più critici sono stati invece dati da Andrea Giardina, Diego Moreno e Osvaldo Raggio e soprattutto da Giovanni Romano18. Tuttavia, noi oggi, senza ombra di dubbio, possiamo affermare che, con grande lungimiranza, Sereni aveva visto il paesaggio agrario come luogo di produzione agricola e quindi come traccia visibile dei rapporti di produzione e dei conflitti tra le classi. Egli ci suggeriva una via materialista dove il paesaggio non è quello che l’uomo percepisce, non è quindi una sovrastruttura ma è piuttosto un insieme organico di strutture, ovvero quello che l’uomo, lavorando, trasforma, o meglio quella forma che l’uomo, nel corso ed ai fini delle sue attività produttive agricole, coscientemente e sistematicamente imprime al paesaggio naturale. Dunque un Sereni attualissimo che ha saputo spezzare ambiti disciplinari cristallizzati proprio perché non ha mai cessato di collegare le sue ricerche, anche quelle più raffinate, alle lotte contadine, alle aspirazioni a una maggiore giustizia sociale e territoriale e alle politiche conseguenti: «Fin da allora – così come ho considerato che un impegno scientifico non potesse andar disgiunto da un civico impegno nella lotta per la libertà – ho del pari ritenuto che ogni impegnata attività civica e politica non possa andar disgiunta da un approfondimento della ricerca scientifica; ed a tal criterio mi sono sempre sforzato di conformare la mia attività nell’uno e nell’altro campo»19. Parole che, a distanza di oltre mezzo secolo, conservano un suono e un significato condivisibile, anzi oggi necessario nella strada, unica, dell’educazione, cioè quella della trasmissione di una visione del mondo, di un ordine di valori che deve porre il territorio al centro del progetto 16 L. Gambi, recensione al libro di Sereni in «Critica Storica», a. 1, vol. 6, 1962, p. 665. 17 «L’Unità», 16 marzo 1962, p. 3. 18 A. Giardina, Emilio Sereni e le aporie della storia d’Italia, in «Studi Storici», a. 37, 1996, n. 3. D. Moreno e O. Raggio, L’eredità scientifica di Emilio Sereni, “Quaderni Storici” 1999, n. 100. G. Romano, Documenti figurativi per la storia delle campagne nei secoli XI-XVI, in Studi sul paesaggio, Torino, Einaudi, 1997 (prima edizione 1978). Il saggio, con lo stesso titolo, era comparso in «Quaderni storici», gennaio-aprile 1976, alle pagine 130-201. 19 Sereni Emilio, Curriculum, pubblicato col titolo Pagine autobiografiche di Emilio Sereni in Appendice a A. Giardina, Emilio Sereni e le aporie della Storia d’Italia, in «Studi Storici», XXXVII, 1996, 3, pp. 720-726. Il Curriculum era stato presentato da Sereni nel 1956 per conseguire la libera docenza. 34
educativo quale primo passaggio per lo sviluppo di relazioni sostenibili a tutte le scale geografiche e sociali. La formazione gioca un ruolo chiave e a tutto campo perché è alla base della costruzione della consapevolezza collettiva del territorio come bene comune catalizzatore per istituzioni e professionalità. Il messaggio di Sereni è dunque ancora più attuale: ancora l’opera dell’uomo sul territorio si intreccia con la storia politica, economica, sociale e scientifica, e l’uomo è in grado di farne emergere il valore se lavora per attribuirglielo e del territorio capta l’anima, quale documento straordinario ed insostituibile delle vicende umane. Interazione tra le stratificazioni del paesaggio agrario e storico con la contemporaneità, in un divenire storico che compone, nel presente, un paesaggio umano composito e inscindibile con il proprio passato.
Bibliografia Alinovi A. et al. (a cura di), Emilio Sereni: ritrovare la memoria, Officine Grafiche F. Giannini, Napoli, 2010. Annali dell’Istituto Alcide Cervi, n. 19-19977, Dedalo, Bari, 2000, interamente dedicato a Sereni. Sereni Emilio, Sereni Enzo, Politica e utopia: lettere 1926-1943 a cura di David Bidussa e Maria Grazia Meriggi, La nuova Italia, Milano, 2000. Sereni C., Il gioco dei regni, Firenze, Giunti, 1993. Sereni E., Storia del paesaggio agrario, Laterza, Bari,1961. Sereni E., Terra nuova e buoi rossi e altri saggi per una storia dell’agricoltura europea, Einaudi, Torino, 1981. Sereni E., Vecchio e nuovo nelle campagne italiane, Editori riuniti, Roma 1956. Sereni E., Note sui canti tradizionali del popolo umbro, 1959, riedito a cura di T. Seppilli, in «Quaderni di Umbria contemporanea», Ellera Umbra (PG), Crace, 2007. Sereni E., La colonizzazione agricola ebraica in Palestina, tesi di laurea, anno accademico 1926-1927, in Emilio Sereni. Ritrovare la memoria, a cura di A. Alinovi e al., Doppiavoce, Napoli, 2010. Sereni E., La questione agraria nella rinascita nazionale italiana, Einaudi, Torino, 1975. Sereni E., Capitalismo e mercato nazionale in Italia, Editori Riuniti, Roma, 1966. Sereni E., Comunità rurali nell’Italia antica Rinascita, Roma, 1955. Sereni E., Il capitalismo nelle campagne (1860-1900), Einaudi, 1947. Sereni E., I napoletani da Mangiafoglia a Mangiamaccheroni. Note di storia dell’alimentazione nel Mezzogiorno, Argo, 1958, riedito nel 2013 dall’Istituto Alcide Cervi. Sereni E., La rivoluzione italiana, Editori Riuniti, 1978. Sereni E., Mezzogiorno all’opposizione, Gangemi, 1980. Sereni E., Note sui canti tradizionali del popolo umbro, a cura di T. Seppilli, Crace, Ellera Umbra (PG), 2007. Sereni E., Diario (1946-1952), a cura di G. Vecchio, Roma, Carrocci, 2015. Sereni M., I giorni della nostra vita, Roma, Edizioni di Cultura Sociale, 1956. Prestipino G. (a cura di), Bibliografia degli scritti di Emilio Sereni - Istituto Alcide Cervi , L. S. Olschki, Firenze, 1987. 35
Quaini M. (a cura di), Paesaggi agrari. L’irrinunciabile eredità scientifica di Emilio Sereni, Milano, Silvana editoriale, 2014. Vecchio G., Profilo di Emilio Sereni, in Sereni E. Note sui canti tradizionali del popolo umbro, a cura di Tullio Seppilli, in «Quaderni di Umbria contemporanea», Perugia, Crace, 2007. Vecchio G., Emilio Sereni, comunista. Note per una biografia, in Sereni E. Lettere (1945-1956), a cura di Emanuele Bernardi, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2011. Zangheri R., Agricoltura e contadini nella storia d’Italia, Torino, Einaudi, 1977.
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Per una storia dei paesaggi della riforma agraria in Sicilia
Francesco Amata
Premessa Prima di entrare in tema, penso sia utile richiamare alcune riflessioni che mi sembrano opportune anche per dar conto delle ragioni che sorreggono lo schema di lettura che qui viene adoperato per l’analisi delle trasformazioni paesaggistiche in alcune aree di riforma agraria siciliane. Occuparsi della storia del paesaggio o dei paesaggi (come penso sia più giusto dire e come opportunamente recita il titolo di questa sessione siracusana della Special School Emilio Sereni) comporta necessariamente un approccio di tipo diacronico, perché il paesaggio, di suo, non è quasi mai identico a se stesso. Muta, si trasforma, si degrada. Per eventi naturali e, più di frequente, per l’azione dell’uomo. Che è tanto più incisiva e profonda, quanto più il paesaggio è antropizzato e quanto più alto è il grado di sviluppo e di benessere che caratterizzano le società insediate su quel territorio. Sul paesaggio rurale e sul paesaggio agrario – mantengo la distinzione, che fa Corrado Barberis: nonostante i due aggettivi siano spesso adoperati come sinonimi «rurale è chi abita in campagna, agricolo chi coltiva la terra. Il primo risiede, il secondo produce. L’uno appartiene alla geografia, l’altro alla economia»1 – sul paesaggio rurale e agrario, dicevo, uno speciale impatto hanno sia il regime fondiario in vigore sia gli ordinamenti colturali praticati sia i sistemi produttivi e le tecniche agrarie adottati sia, perfino, la tipologia di contratti agrari che regolano i rapporti tra proprietà fondiaria e lavoro agricolo. Un solo esempio, in questo caso: in un contratto d’affitto breve – adesso non più consentito dalle leggi, ma ieri sì – è impensabile che l’affittuario si impegni in opere di miglioramento e di conversione colturale dell’appezzamento; di norma, si limita a gestire l’esistente, cercando di trarne il maggior utile possibile. La struttura della proprietà ha invece un ruolo spesso fondamentale sulle forme del paesaggio. È chiaro a tutti che il latifondo ha un suo timbro paesaggistico, così come è altrettanto chiaro che, di contro, la piccola e la piccolissima proprietà danno al paesaggio agrario un’altra e assai diversa impronta.
1 C. Barberis, Sociologia rurale, Edagricole, Bologna, 1991, p. 1. 37
Lo dico meglio con le parole di Manlio Rossi-Doria: Attorno al centro abitato, composto di miserabili case addossate l’una all’altra, dove s’addensa tutta la popolazione agricola, si stende una breve corona di terreni intensamente coltivati - orti, vigneti, oliveti, mandorleti - frazionati fino all’inverosimile, fino a comprendere due o tre piante soltanto e tanta terra da seppellirci un uomo. Dove più dove meno, questa fascia di terre intensamente coltivate rappresenta sempre una percentuale minima dell’intero territorio del comune, il quale, appena fuori di quella corona, si stende uniforme e nudo, tutto d’un colore, giallo d’estate e verde di primavera2.
Naturalmente, il grado di concentrazione o di frazionamento della proprietà produce un impatto diverso, ma sempre determinante sugli ordinamenti colturali. L’indirizzo produttivo prevalente, se non esclusivo, nelle terre del feudo è stato, da sempre, quello cerealicolo, con vastissime zone lasciate al pascolo e spesso abbandonate. Le proprietà medie e medio-grandi, invece, hanno quasi sempre diversificato il loro quadro colturale, virando verso le colture arboree e irrigue e, talvolta, nelle zone più svantaggiate, passando dal cerealicolo in monocoltura al cerealicolo-zootecnico con le foraggere avvicendate. E’ assolutamente chiaro che i paesaggi agrari che si osservano nell’uno e nell’altro caso sono radicalmente differenti. Ne deriva che l’analisi dei paesaggi della riforma agraria e della loro evoluzione non può che partire da qui: dal frazionamento del latifondo e dalle molte migliaia di nuovi appezzamenti fondiari che ne sono derivati. E dai notevoli interventi che la Regione, tramite l’Ente di Riforma Agraria, ha effettuato in queste aree. E dalle trasformazioni fondiarie e agrarie operate dai nuovi proprietari. Questa analisi, voglio ribadirlo anche se questo aspetto specifico non rientra strettamente nel tema di cui ci occupiamo oggi, non sarebbe, non può essere esaustiva, se si lasciano fuori le centinaia di migliaia di ettari delle terre frazionate e vendute, a norma della legge Sturzo, per convenienza economica e per la paura degli espropri. Un’ultima puntualizzazione: per apprezzare i cambiamenti o la staticità dei paesaggi presi in esame, ci si è avvalsi, per la situazione di partenza, in assenza di specifiche documentazioni fotografiche, delle Relazioni di conferimento e delle Relazioni tecniche allegate ai progetti di trasformazione fondiario-agraria, che sono state redatte dai tecnici dell’ERAS nel corso degli anni Cinquanta, mentre per la documentazione fotografica più o meno recente ho fatto ricorso al mio archivio personale3. Apro con alcune immagini, relative a diversi comuni delle province di Enna e di Catania, che sintetizzano efficacemente il mio pensiero e chiariscono perché penso sia più corretto parlare di “Paesaggi” della riforma agraria. Si tratta solo di pochi esempi, che ho scelto tra i tanti possibili, perché mi sembrano particolarmente eloquenti. Diversi altri scorci paesaggistici, altrettanto significativi, sono riportati in molte delle pagine seguenti, nelle quali si analizzano gli aspetti attuativi della riforma e i lineamenti attuali che caratterizzano questi territori.
2 M. Rossi-Doria, Riforma agraria e azione meridionalista, L’ancora del mediterraneo, Napoli, 2003, p. 43. 3 Le foto riportate nelle figure 16, 22 e 23 sono del dott. Vittorio Di Gangi, che ringrazio per averne autorizzato la pubblicazione. 38
Fig. 1 Paesaggi della riforma agraria. Assoro, Piano di ripartizione n. 241, Contrada Altarello Cuticchi
Fig. 2 Paesaggi della riforma agraria. Calascibetta, Piano di ripartizione n. 195, Contrada Valle Pagano
Fig. 3 Paesaggi della riforma agraria. Piazza Armerina, Piano di ripartizione n. 486 bis, Contrada Polino 39
Fig. 4 Paesaggi della riforma agraria. Piazza Armerina, Piano di ripartizione n. 486 bis, Contrada Polino - Diga Olivo
Fig. 5 Paesaggi della riforma agraria. Enna, Piano di ripartizione n. 295, Contrada Salinella
Fig. 6 Paesaggi della riforma agraria. Paternò, Piano di ripartizione n. 705, Contrada Gerbini 40
Fig. 7 Paesaggi della riforma agraria. Troina, Piano di ripartizione n. 438, Contrada Calabrò
Fig. 8 Paesaggi della riforma agraria. Enna, Piano di ripartizione n. 606, Contrada Gelsi Montagna
Fig. 9 Paesaggi della riforma agraria. Enna, Piano di ripartizione n. 165, Contrada Scioltabino 41
Fig. 10 Paesaggi della riforma agraria. Gagliano Castelferrato, Piano di ripartizione n. 215 bis, ContradaTodaro
Fig. 11 Paesaggi della riforma agraria. Enna, Piano di ripartizione n. 155, Contrada Mendola
Fig. 12 Paesaggi della riforma agraria. Enna, Piano di ripartizione n. 642, Contrada S. Benedetto - Lago Nicoletti 42
La riforma agraria in Sicilia, tra lotte sociali, scontri politici e contrastanti valutazioni. Il complesso sistema normativo che regola l’attuazione della riforma agraria in Sicilia è approvato alle prime luci dell’alba del 22 novembre 1950, al termine di una lunga e combattuta seduta d’Aula con i 43 voti dei deputati della Democrazia Cristiana e degli alleati di governo, contro i 38 voti delle opposizioni della sinistra del Blocco del Popolo e della destra monarchica. Il voto veniva espresso mentre una grande folla di contadini, guidata dagli esponenti della sinistra sindacale e politica, manifestava il suo dissenso e gridava il suo «no» ad una legge che sembrava svendesse del tutto anni di durissime lotte nelle campagne. Pare un paradosso, ma la Sicilia è terra di paradossi. Dunque: i deputati del Blocco del Popolo, comunisti e socialisti, che avevano capeggiato le occupazioni delle terre, gli scioperi alla rovescia e richiesto a gran voce il varo di una legge di riforma agraria, che espropriasse gli agrari e concedesse le terre espropriate ai contadini poveri e senza terra, contrastano con forza e ostinazione il varo di quella che sarebbe diventata la legge 104/1950. Lo fanno intervenendo in massa e più volte nel dibattito d’aula e nelle votazioni sui singoli articoli del disegno di legge. Lo fanno con convinzione e con passione, perché ritengono quella legge molto al di sotto delle aspettative loro e dei movimenti di lotta che li avevano visti protagonisti insieme a migliaia e migliaia di contadini. Sull’altro versante – e sta qui il paradosso che, comunque, a mio avviso è solo apparente – un Governo regionale guidato dal democristiano Franco Restivo, che aveva nella sua maggioranza il partito degli agrari, con un Assessore all’agricoltura come Silvio Milazzo, esponente di una ricca famiglia di proprietari terrieri del calatino, propone e conduce in porto questa contrastata riforma agraria siciliana. Facciamo un piccolo passo indietro per capire i motivi di quella improvvisa frenesia riformatrice del centro-destra siciliano. Il 29 ottobre del 1950 era entrata in vigore la «legge stralcio» e in Sicilia, nella maggioranza di centro-destra che governava la regione, montava il timore che questa legge, definita «una resa di De Gasperi ai comunisti», potesse trovare applicazione anche in Sicilia, nonostante le sue prerogative di regione a statuto speciale. Bisognava quindi far presto e arrivare ad una normativa siciliana prima che la «Stralcio» potesse produrre i suoi temuti effetti anche nell’isola. Per queste ragioni, il Governo della Regione si affrettava a chiedere che venisse ripresa e conclusa rapidamente la discussione sul disegno di legge Milazzo sulla riforma agraria, che dal settembre 1950 proseguiva stancamente e in modo inconcludente. L’imperativo, per il governo di centro-destra, era quello di fare una riforma «in salsa siciliana», che fosse in grado di evitare un impatto troppo dirompente sulla struttura ancora semifeudale della proprietà fondiaria in Sicilia e, al tempo stesso, che riuscisse a dare una risposta politica e ad arginare in qualche modo la formidabile pressione sociale delle lotte per la terra che scuotevano il panorama sonnolento del latifondo siciliano. Così l’Assemblea regionale siciliana viene costretta dalla maggioranza a procedere a tappe forzate nella discussione del progetto di legge, che in poche settimane sarebbe arrivato in porto, dopo un frenetico tour de force di 65 sedute parlamentari, nelle quali sarebbero intervenuti ben 77 dei 90 deputati in carica, con 700 interventi. 43
L’approvazione della legge sancisce un evidente successo della classe dirigente democristiana, che è riuscita ad imporre la sua direzione di marcia e i suoi contenuti alla riforma agraria siciliana. Stemperarne gli effetti, alleggerirne l’impatto sulla proprietà, mettere dei paletti alla sua fase applicativa, lasciare aperti ai proprietari grandi varchi per sottrarre quanto più terreno possibile dei loro feudi alla mannaia degli espropri: sono questi gli obiettivi che più stavano a cuore al riformatore Milazzo, al di là dei suoi aulici richiami al valore della piccola proprietà e dei ripetuti riferimenti alla Rerum Novarum. Questi, soprattutto. Anche se non solo questi, perché la legge non si ferma qui, ma introduce elementi di più ampio respiro e di impianto sicuramente modernizzatore, di cui dirò fra breve. Intanto, si guardi a quelli che possiamo definire gli argini alzati a difesa della grande proprietà e che marcano una netta divaricazione della legge siciliana dalla «stralcio»: a. È fissato un limite di 200 ettari alla proprietà individuale. b. Sono lasciati fuori dagli espropri i terreni trasformati, quelli irrigui e quelli a coltura arborea specializzata. c. I terreni espropriabili, per la parte eccedente i 200 ettari, sono solo i seminativi, i pascoli e gli incolti produttivi. d. L’esproprio avviene con atto amministrativo, che è quindi soggetto ad essere impugnato. Ne deriva che ad avvantaggiarsi di questa procedura, esposta alle mille insidie connesse con gli iter contorti e i tempi lunghi della giustizia amministrativa, sarebbero stati i proprietari che ricorrevano contro gli espropri. E, in effetti, per costoro questa scelta è una vera manna. Qualche dato a conferma: sulla base di queste opposizioni oltre un centinaio dei Piani di conferimento già varati dall’Ente di Riforma sono stati accantonati e poi annullati in sede amministrativa, per una superficie totale, sottratta agli espropri, di oltre 38 mila ettari: ovvero quasi il 40% delle superfici effettivamente assegnate in forza della legge di riforma agraria. e. Vengono fatti salvi, con l’art. 24 della legge 104, contrariamente a quanto previsto dalla legislazione nazionale, sia i passaggi di proprietà già effettuati a norma della legge 14/1948 per la formazione della piccola proprietà contadina (la cosiddetta legge Sturzo) sia – ed è questo un varco gigantesco – quelli che sarebbero stati conclusi, sempre a norma di questa legge, entro tre mesi dal 27 dicembre 1950, giorno dell’entrata in vigore della legge siciliana. Formidabile incentivo a vendere terra e ad aggirare le norme di legge. Come anticipare al popolo degli aspiranti abusivi che la Regione ha in programma di varare una legge di sanatoria edilizia: quante migliaia di case si potrebbero costruire (e talvolta questo è effettivamente avvenuto) in barba alle leggi urbanistiche, senza oneri e senza controlli, con la certezza che poi sarebbero state sanate? Sull’altro versante del fronte sociale e politico, quello della sinistra sindacale e politica, quello che ha contrastato con forza la riforma di Milazzo e della Democrazia Cristiana, il senso di una grande battaglia perduta. Sta qui l’altro aspetto di quello che ho definito un paradosso. Si può davvero considerare perduto quello scontro epico contro il blocco agrario? Si possono archiviare con una sconfitta su tutto il fronte anni di lotte per la terra e, con essi, le speranze di centinaia di migliaia di contadini poveri? Non è così e non era così nemmeno allora. Anche se a questo farebbe pensare il senso 44
di frustrazione e di delusione che si era diffuso tra i protagonisti di quelle lotte. Che però, per la verità, già all’indomani dell’approvazione della legge, sarebbero tornati nelle piazze e nelle campagne per chiederne una rapida attuazione. Ma è stata effettivamente una sconfitta? Non lo è stata affatto, a mio parere. Avere contribuito a smantellare un residuo oppressivo e soffocante, una pesantissima zavorra per la crescita economica, quale era la presenza di vastissimi feudi e il loro predominio sulla società siciliana, non può essere annoverato tra le disfatte storiche. A meno che l’obiettivo di fondo, quello non detto ma sognato da alcuni, fosse quello di arrivare in Sicilia – e solo in Sicilia – all’abolizione della proprietà privata. Ad una sorta di esproprio generalizzato in favore della piccola proprietà da attuare, per di più, per legge e con rapporti di forza politici e parlamentari non favorevoli! Piuttosto una valutazione ponderata della legge di riforma e degli effetti che ha prodotto consente di definire un quadro in chiaroscuro e dagli aspetti contraddittori, dal quale tuttavia è facile ricavare alcuni elementi che hanno profondamente segnato la storia della Sicilia da lì in avanti. Penso, in particolare, al primo e più rilevante di questi fattori, allo sgretolamento del latifondo, che è un effetto diretto della legge, anche se la porzione di terre espropriate a norma della 104 appare abbastanza limitata se la si rapporta all’ampiezza dei grandi movimenti fondiari in corso negli anni Cinquanta: 74.291 ettari di terra assegnati per sorteggio a 17.157 contadini4. Dimensioni che, in verità, a metà degli anni Sessanta, allorché si sarebbe concluso il ciclo legislativo a completamento del processo di riforma, sarebbero significativamente cresciute, arrivando a 25 mila unità insediate e a 100 mila ettari assegnati5. Ma ciò non cambia la sostanza delle cose, ossia che le terre complessivamente espropriate e la platea dei contadini che ne hanno beneficiato incidono in termini piuttosto marginali sui rivolgimenti fondiari di quegli anni. Penso, inoltre, agli altri e più profondi effetti prodotti dalla grande paura che preoccupava gli agrari per gli sbocchi imprevedibili che avrebbero potuto avere le lotte per la terra e per la riforma, dalla quale è derivato un eccezionale frazionamento dei feudi, in parte interfamiliare, ma in massima parte orientato alla vendita, utilizzando le ingentissime risorse finanziarie messe in circolazione dalle agevolazioni della legge Sturzo. È quello che definisco l’autodisfacimento del latifondo. Questo processo che, come detto, si svolge in contemporanea con il varo e l’applicazione della legge 104, si sarebbe concretizzato nel trasferimento alla piccola proprietà contadina di circa mezzo milione di ettari, portando il totale delle superfici passate di mano a circa 600 mila ettari, ovvero poco meno di un quarto di tutto il territorio siciliano. Per dare un’idea della consistenza e della rapidità di questo movimento, mi limito a citare solo 4 M. Fierotti (a cura di), 30 anni di agricoltura, dall’ERAS all’ESA, in «Sviluppo Agricolo», suppl. al n. 7-8, luglio-agosto 1981, a. XV, p. 21. 5 Ibidem. Le leggi regionali approvate tra il 1951 e il 1965 a completamento del processo di assegnazione delle terre furono numerose. Tra queste, quelle che hanno contribuito maggiormente ad accrescere il numero degli assegnatari e ad estendere notevolmente le superfici quotizzate sono la n. 8 del 4 aprile 1960, Assegnazione dei terreni dell’Ente per la riforma agraria in Sicilia, la n. 29 del 25 luglio 1960, Norme integrative della legge di riforma agraria in materia di vendita per la formazione della piccola proprietà contadina e la n. 21 del 10 agosto 1965, Trasformazione dell’Ente per la riforma agraria in Sicilia in Ente di sviluppo agricolo. 45
il dato registrato in provincia di Catania, a metà degli anni Cinquanta: 6.134 ettari assegnati con la 104 (sarebbero diventati quasi 11 mila nel 1960), a fronte dei 12.576 ettari trasferiti alla piccola proprietà con la legge Sturzo. Più in generale si può affermare che questa fase chiude definitivamente un’epoca storica durata secoli, quella del latifondo e del suo dominio sulle campagne e sugli uomini. E i dati catastali lo confermano ampiamente: «in provincia di Agrigento – scrive Renda – viene eliminato il 94% della proprietà superiore ai 200 ettari; in provincia di Caltanissetta, il 78%; in provincia di Enna, il 70%; in provincia di Ragusa il 62%; in provincia di Siracusa, il 58%; in provincia di Trapani, il 53%; in provincia di Catania, il 47%; in provincia di Messina, il 39%»6. Qualche altro dato chiarisce ancora meglio i contorni del quadro: ad Enna, nel ventennio 1947-1967, le proprietà estese oltre 200 ettari sarebbero crollate da 162 a 32 e la loro superficie totale sarebbe scesa da 69 mila a 15 mila ettari; a Siracusa, nello stesso periodo, si sarebbe passati da 128 a 24 proprietà, con ampia riduzione delle superfici, scese da 54 mila a 7 mila ettari; a Caltanissetta, le proprietà sarebbero crollate da 134 a 34 e le superfici da 76 mila a 15 mila ettari. So bene, e mi aspetto il rilievo, che questo processo di disintegrazione del feudo ha prodotto anche l’effetto di avere arricchito enormemente alcune migliaia di proprietari, che hanno dato via terre che perdevano valore a prezzi molto più alti del loro valore effettivo, in quanto l’abnorme crescita della domanda, innescata dall’imponente flusso dei finanziamenti erogati dalla Cassa per la formazione della piccola proprietà contadina, aveva spinto al rialzo, drogandolo e distorcendolo profondamente, il mercato fondiario. E so bene che vi è un altro effetto, ancora più grave e duraturo, che è stato determinato da queste straordinarie disponibilità finanziarie arrivate nelle mani della grande proprietà. Si tratta del trasferimento del centro di interesse economico di questi ceti dal feudo alla città, dove verranno reinvestite le centinaia di milioni incassate con la vendita delle terre. La frenetica espansione urbana di grandi e piccole città, in particolare di Palermo e di Catania, a partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta, porta inequivocabilmente questo segno. E queste città pagano un prezzo molto alto, poiché, insieme ai capitali, gli ex feudatari si portano dietro il loro collaudato e spesso illegale schema di governo e di controllo del territorio. I vecchi campieri seguono questa migrazione, assumendo nuovi ruoli, ma mantenendo quello fondamentale di occhiuti controllori e inflessibili garanti del vecchio sistema di potere nei nuovi territori di insediamento. Ma questa, come usa dire, è un’altra storia, che non può entrare, con ogni evidenza, nella valutazione storica della riforma agraria. In questa valutazione rientrano, invece, e in termini a mio parere assolutamente positivi, alcuni altri contenuti della legge di riforma, che mi sembra siano stati spesso sottovalutati o del tutto ignorati. Mi riferisco, in particolare, ai cosiddetti «obblighi di buona coltivazione» che vengono imposti ai proprietari, tenuti «a mantenere ordinamenti colturali atti a conseguire un razionale sfruttamento del suolo col massimo assorbimento di mano d’opera» (art. 17 della legge 104). Obblighi, in verità, non sempre osservati e spesso disattesi. Ma è comunque importante che siano stati previsti, insieme alle sanzioni per gli inadempienti. 6 F. Renda, Il Movimento contadino in Sicilia e la fine del blocco agrario nel Mezzogiorno, De Donato, Bari, 1976, pp. 85-86. 46
Assai più significativa e rilevante è invece quella parte della normativa che prevede interventi di miglioramento fondiario nei lotti assegnati. È questa una parte moderna e lungimirante della legge, che ha prodotto effetti durevoli sulla stato di assesto e sulla qualità dei terreni, sulle conversioni colturali, sull’economia delle aziende agrarie appena formate, sulla vivibilità delle aree di riforma e, last but not least, sul paesaggio rurale di questi territori. Si tratta, in particolare, delle disposizioni contenute negli articoli 44 e 45, che prevedono l’obbligo per il titolare del lotto di eseguire le «migliorie previste dall’Ispettorato Provinciale dell’agricoltura» e che attribuiscono all’ERAS, nel caso in cui l’assegnatario non fosse nelle condizioni di provvedervi direttamente, il compito di predisporre un progetto di trasformazione fondiario-agraria, i cui costi per singolo lotto, al netto dei contributi statali riscossi, sarebbero stati restituiti dal proprietario con un piano d’ammortamento trentennale, al tasso del 3,5 per cento. Questa scelta, al di là dei suoi esiti finali spesso incompiuti e inefficaci, frutto talvolta di vere e proprie forzature sotto il profilo agronomico, ha impegnato grandi risorse finanziarie della Regione, che vi ha investito molte centinaia di milioni di lire. Di essi, dirò più ampiamente con la serie di schede analitiche che accompagnano questa relazione. Qui voglio solo ricordare un aspetto che non mi pare trascurabile e che concerne la possibilità, prevista nell’attuazione di questi progetti, che nei «lavori che per la loro natura (scassi, sistemazione di terreni, affossature, drenaggi, impianti arborei, ecc..) non possono cedersi in appalto […] è opportuno che vengano impiegati gli stessi assegnatari e persone idonee della loro famiglia, per dare la possibilità d’incrementare le loro entrate in questa prima fase in cui i terreni, non essendo ancora migliorati, non possono dare il loro pieno rendimento»7. Considero che la decisione di coinvolgere gli assegnatari nell’opera di bonifica e di miglioramento dei loro fondi e di retribuirli per i lavori effettuati sugli appezzamenti non possa essere ritenuta una forma di assistenza mascherata, una sorta di sussidio di sopravvivenza erogato alle famiglie dei quotisti nelle more che la terra cominciasse a produrre reddito. Era una misura che tra le sue finalità aveva certamente anche quella di dare un sostegno economico iniziale ai contadini appena insediati. Ma non erano affatto delle regalie. Erano, semplicemente, remunerazioni dovute per giornate di lavoro effettivamente svolte e retribuite secondo le tabelle salariali allora vigenti nelle diverse province siciliane (cfr. fig. 13)8. 7 Cito dalla Deliberazione n.1099/RA del 7 agosto 1958, firmata dal Presidente e dal Direttore Generale dell’ERAS, allegata al Progetto di trasformazione fondiario-agraria relativo al Piano di ripartizione n. 606, che si trova presso l’Archivio ESA di Enna. Si tratta, in realtà, di uno schema-tipo di deliberazione, che è normalmente utilizzato nell’approvazione dei progetti di trasformazione dei vari Piani di ripartizione e che abbiamo regolarmente ritrovato nei moltissimi documenti di questo genere che abbiamo potuto consultare. 8 Esigenze di sintesi non ci consentono di addentrarci, in questa sede, nell’analisi dettagliata delle due tabelle salariali riportate. Ma gli spunti di interesse che esse suggeriscono sono molteplici e del tutto evidenti anche ad una prima osservazione. Non solo in relazione alle differenze retributive esistenti nei casi «con vitto» (palesemente molto frugale) e «senza vitto», ma anche nelle forti disparità salariali previste in relazione al genere e all’età dei braccianti: una donna matura ha un salario inferiore del 30 per cento rispetto a quello degli uomini della stessa fascia di età; una ragazza quattordicenne riceve appena 350 lire giornaliere, a fronte delle 504 lire del suo coetaneo maschio. Per non parlare dell’evidente sfruttamento del lavoro minorile che quel 47
Se poi si guarda agli ordini di grandezza delle somme corrisposte agli assegnatari per l’opera prestata, se ne può agevolmente dedurre che, molto spesso, si trattava di cifre tutt’altro che simboliche. La ricca documentazione che abbiamo potuto consultare negli archivi ESA offre una miriade di esempi di importi assolutamente rilevanti che, in molti casi, erano assai vicini all’ammontare del corrispettivo di legge che l’assegnatario doveva versare all’ERAS per il lotto che gli era stato attribuito9. Di seguito, si citano solo alcuni casi particolarmente significativi, tra i tanti che sarebbe possibile elencare: a. al titolare del lotto 7 del PR 837 (Aidone), viene saldato un importo di 279.000 lire per lavori di spietramento, dissodamento e scasso del terreno, somma che costituisce il 70% del corrispettivo dovuto; ancora nello stesso PR, al titolare del lotto 8, sempre per lavori di spietramento, dissodamento e scasso, sono corrisposti 229.000 lire, che rappresentano oltre il 55% del corrispettivo; b. all’assegnatario del lotto 44 del PR 486 (Piazza Armerina) sono liquidate oltre 149.000 lire per lavori di spietramento e scasso, che corrispondono al 66% del corrispettivo (ossia 225.800 lire, da restituire in 30 rate annuali di 7.526 lire); mentre al titolare del lotto 54 del medesimo PR, per lavori di spietramento e scasso, viene erogata la somma di 220.000 lire, pari al 50% del corrispettivo, che, in questo caso, era assai più alto del precedente per via della migliore qualità dei terreni; c. per restare nell’ambito di questo PR, vanno ancora ricordati i casi dell’assegnatario del lotto 53, retribuito con circa 165.000 lire (il 38% del corrispettivo) e, più ancora, quello dell’assegnatario del lotto 52, al quale viene saldato un importo di 160.00 lire, che equivale al 71% del corrispettivo; d. a Bronte, il titolare del lotto 2 del PR 1, viene retribuito con 76.850 lire per lavori di dissodamento a mano (fig. 14), somma pari a poco meno del 20% delle 415.500 lire del corrispettivo, mentre all’assegnatario del lotto 1 dello stesso PR sono pagati, sempre per dissodamento a mano, 39.750 lire, ovvero il 9% del corrispettivo).
contratto provinciale sancisce in modo inequivocabile. 9 Per ciascun lotto è fissato nel piano il corrispettivo: così recita il quarto comma dell’art. 38 della più volte ricordata legge n. 104/1950. Corrispettivo da pagare in trenta annualità al tasso del 3,5% annuo a scalare. 48
Fig. 13 Tabelle salariali «senza vitto» e «con vitto» in vigore in provincia di Enna nel bimestre agosto-settembre 1958
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Naturalmente, se si considera che il salario medio giornaliero di un bracciante agricolo adulto si attestava, in quei primi anni Sessanta, tra le 800 e le 900 lire10, se ne deduce che quegli importi costituivano la remunerazione di molte settimane di lavoro (in qualcuno dei casi appena citati si arrivava a 45-52 settimane). Con retribuzioni che sul piano mensile oscillavano attorno alle 20 mila lire: che è cifra per nulla trascurabile, se la si rapporta alle principali voci del costo della vita registrate in quel periodo o ai prezzi dei principali prodotti agricoli o alla paga oraria di un operaio che si aggirava sulle 150 lire (7.200 alla settimana, 29.000 al mese)11. Il limite vero era che si trattava di lavori una tantum, precari e a tempo: il che, comunque, non ne sminuisce affatto la rilevanza e, paradossalmente, costituisce una ulteriore conferma della nostra valutazione largamente positiva di quella misura.
Fig. 14 Certificazione dei lavori effettuati sul proprio lotto da un assegnatario del PR n.1 di Contrada Mendolito a Bronte
10 Non vi sono differenze significative tra le paghe giornaliere corrisposte ai lavoratori della provincia di Enna e quelle riportate negli elenchi dei costi unitari allegati ai progetti di trasformazione fondiario-agraria relativi ai piani di ripartizione ricadenti nei territori di Bronte e di Paternò. 11 Si parla, ovviamente, di operai edili e di operai non specializzati. I salari dei metalmeccanici, invece, e in generale quelli dei lavoratori dell’industria occupati nelle aree più sviluppate del paese erano molto più alti: 55.000 lire al mese per un operaio specializzato, 50.000 per un operaio qualificato. 50
Aspetti innovativi e limiti della riforma Riprendo adesso il tema centrale di questa relazione, quello che riguarda le contrastanti valutazioni sulla riforma agraria siciliana e sul suo segno finale. E a questo riguardo, accantonato il metro di giudizio che valuta i risultati di quel processo secondo il grado di «tradimento» rispetto alle aspettative iniziali e restituito alla fase storica caratterizzata dalla riforma, e dagli effetti diretti e indiretti ad essa riconducibili, il merito grande di avere chiuso un’epoca e averne aperta una del tutto nuova, penso sia più utile e proficuo passare ad alcune altre considerazioni sui principali limiti concettuali e applicativi, strutturali ed economici e, perfino, sulle sfasature temporali che ne hanno contrassegnato e spesso vanificato l’attuazione. Il primo di questi limiti, che discendeva inevitabilmente dalle scelte operate in sede legislativa, era quello connesso con la qualità delle terre espropriate, che erano quelle rimaste nella disponibilità dei proprietari, dopo che avevano venduto le migliori e le più produttive. «Pietraie», come sono state sommariamente liquidate. Non sempre e non ovunque: ma spesso si trattava effettivamente di seminativi nudi, di pascoli, di terreni in abbandono e dissestati, con massi erratici e rocce affioranti. Si guardi il grafico seguente, che raffigura la ripartizione, secondo la classificazione catastale, degli oltre 114 mila ettari di terreni complessivamente conferiti12:
Fig. 15 Distribuzione, secondo la loro classificazione catastale, delle terre espropriate in Sicilia a norma delle leggi di riforma agraria (ettari)
12 I dati sono ripresi da Banco di Sicilia, Notiziario economico-finanziario siciliano, anni 1961-62, Palermo 1963, p. 96. 51
È evidente che su questi terreni, che per il 94% erano costituiti da seminativo nudo e da pascolo, era difficile operare trasformazioni e miglioramenti tali da renderli produttivi e potervi fare impresa. Ed è quello che è puntualmente avvenuto in molti comprensori di riforma. Con la conseguenza, come si vedrà in alcune delle schede seguenti, che moltissimi lotti sono stati abbandonati o venduti dai proprietari, spesso a qualcuno dei primi assegnatari, che continuava a resistere su quelle terre, impegnandosi alacremente ad allargare sempre di più le superfici in suo possesso, fino a raggiungere le dimensioni aziendali di una proprietà medio-grande. «Dal latifondo al latifondo», mi viene spesso da dire. Forse questa è un iperbole e sarebbe più corretto dire «dal latifondo alla grande proprietà». Il dato finale però non cambia: ed è, questo, un altro paradosso della riforma agraria siciliana. Si guardi adesso ad un altro aspetto fondamentale con il quale avrebbero dovuto fare i conti i Tecnici dell’ERAS, per evitare di ripercorrere strade vecchie e impervie. Dalla pletora di ingegneri, agronomi, periti agrari, geometri preposti alla redazione di centinaia di progetti di trasformazione si poteva infatti auspicare – cosa che non è avvenuta – che tenessero ben presenti quali fossero stati, per secoli, i caratteri fondanti dell’agricoltura siciliana, magari per evitare di riprodurli. A ripensare, cioè, a quello che era stato il paesaggio del feudo, con l’estensione a perdita d’occhio delle sue terre, e, di contro, all’infinito frazionamento e alla dispersione degli appezzamenti da coltivare: E’ in questo frazionamento – riprendo ancora una bella pagina di Rossi-Doria – che sta la caratteristica, il ‘sistema’ di questa agricoltura, la quale - a differenza di quel che avviene altrove – non ha il suo centro, la sua ‘cellula’, nell’azienda agraria, cioè in una determinata estensione di terra trasformata e ordinata, ma nel contadino stesso che, componendo con il suo molteplice lavoro la propria impresa, costituisce l’unica realtà stabile dell’impresa stessa, che di per sé è ‘precaria’, cioè mutevole, instabile, dispersa. In queste zone il contadino è un uomo alla continua ricerca di terra; dove e come la trova, la coltiva, mettendo così insieme un certo numero di appezzamenti diversi e staccati, di proprietà sua e d’altri, un anno questi e un anno altri, parte attorno al paese, nella corona intensiva, parte in valle, perché sian terre più fresche, parte al monte, perché, se la stagione va diversamente, producono meglio, parte altrove, perché solo altrove riesce a trovarne13.
Ora, è proprio sulla base di questo rapporto cosi peculiare dell’uomo con la terra e con il lavoro, che si capiscono meglio alcuni altri caratteri delle società rurali del Mezzogiorno interno: Anzitutto – continua Rossi-Doria - si spiega perché i contadini vivono nei grossi borghi, invece che dispersi in campagna. [...] ciò si deve al fatto che questi rappresentano l’unico possibile centro della loro dispersa e mutevole impresa. Perché mai il contadino dovrebbe insediarsi in uno dei tanti appezzamenti che coltiva, se gli altri sono all’opposto estremo del territorio comunale? Come lo potrebbe? Ritornando ogni sera al paese, mutando ogni giorno il suo viaggio, il contadino riesce assai meglio a comporre e a coltivare la sua complessa impresa terriera. Nella dispersione e nella precarietà delle imprese contadine va, quindi, cercata la fondamentale ragione del vivere accentrato della popolazione14. 13 M. Rossi-Doria, op. cit., p. 44. 14 Ibidem. 52
Consiglierei di tenere a mente queste considerazioni, poiché ci accingiamo a parlare della ruralizzazione, delle case e dei borghi rurali: che è lo schema insediativoproduttivo tentato senza successo dall’Ente di Riforma agraria siciliano. E, infatti, un altro limite, probabilmente ancora più grande di quelli già detti e tale da amplificarne l’impatto negativo sugli esiti della riforma stessa, è connesso con l’impianto economico e sociale che sta alla base delle scelte operate nella sua attuazione: ossia quello di immaginare che un contadino potesse fare impresa, e vivere con la sua famiglia, su tre-quattro ettari di terra, ovvero su poco più di una salma di seminativo. Questa tipologia di intervento si fondava su un modello ruralista abbastanza arcaico, ripreso da quello in vigore negli Anni Trenta – bonifica e colonizzazione – e, soprattutto in Sicilia, del tutto fuori contesto. Tale schema, diffusamente applicato in quasi tutti i comprensori di riforma, prevedeva: a. interventi dell’ERAS finalizzati alla bonifica dell’appezzamento e al miglioramento delle sue condizioni idraulico-agrarie e produttive, mediante la realizzazione di affossature, drenaggi, briglie, spietramenti, di captazioni idriche e costruzione di pozzi, di stradelle interpoderali, di impianti arborei, di case rurali per le famiglie e, in alcune aree, attraverso la costruzione di borghi rurali al servizio delle comunità insediate nella zona15; b. la fornitura agli assegnatari di sementi e fertilizzanti e la concessione di aiuti e facilitazioni per l’acquisto di uno-due capi grossi di bestiame, due ovini e animali di bassa corte che avrebbero dovuto incrementare il reddito aziendale. Si tratta, com’è evidente, di un insieme di azioni largamente positive e utili, se le si considera sotto il profilo della opportunità/necessità di creare le precondizioni per l’avvio e la crescita di una piccola impresa agricola familiare. Il problema è che tutto ciò non è sufficiente. In generale, perché non basta rimuovere alcune delle condizioni di svantaggio che impediscono il decollo della nuova azienda, se poi questa opera su basi molto ridotte e con produzioni limitate che vanno appena oltre l’autoconsumo della famiglia. In particolare poi, quando, come avvenuto a partire dagli anni Cinquanta, un modello di insediamento rurale così arcaico si dimostra in stridente sfasatura temporale rispetto alla direzione di marcia e ai contenuti innovativi dello sviluppo economico-sociale in pieno svolgimento in quegli anni. Ovvero se deve misurarsi, come ha dovuto effettivamente fare, venendone travolto, con i ritmi incalzanti di una imponente crescita economica, nuova per qualità, dimensioni e localizzazione sul territorio nazionale, con i mutamenti negli stili di vita e dei consumi delle popolazioni rurali e urbane e con i cambiamenti culturali e di costume che ne derivavano. Un solo esempio, tra i tanti possibili: era ipotizzabile che, proprio negli anni del miracolo economico, una famiglia contadina di uno dei tanti centri rurali dell’interno della Sicilia, potesse scegliere di lasciare il paese, il quartiere, le abitudini, le piccole e meno piccole «comodità» che offriva la casa in paese, per isolarsi in una casa di campagna, nella quale si era costretti, soprattutto le donne nella gestione della famiglia, a tornare indietro di decenni? Senza luce né acqua né servizi e senza molto altro? Non era possibile. E infatti non è avvenuto. 15 Sui borghi rurali realizzati in Sicilia si veda il bel saggio di V. Sapienza, La colonizzazione del latifondo siciliano, esiti e possibili sviluppi, Lussografica, Caltanissetta, 2010. 53
L’attuazione della riforma e i principali mutamenti economicosociali degli anni Sessanta E dunque, mentre le nuove aziende appena insediate sulle terre della riforma provavano a consolidarsi e a svilupparsi, nonostante lo svantaggio di operare in aree marginali e in un settore economico-agrario, quello cerealicolo, che arrancava, in Italia cominciavano gli anni del cosiddetto boom. Trainata soprattutto dalla grande crescita del settore industriale, in particolare di quello meccanico, e da quella del settore delle costruzioni, con il conseguente rilevante allargamento dei relativi indotti, l’economia italiana si sviluppa con tassi di crescita del PIL che, tra il 1958 e il 1963, si attestano sul 6,3%. Questa intensa fase espansiva del ciclo economico, dovuta in massima parte alla crescita dell’Italia settentrionale, esercita naturalmente un’eccezionale capacità di attrazione sui contadini poveri, sui braccianti e sui disoccupati del Mezzogiorno. Che quindi paga prezzi elevatissimi in termini di deruralizzazione, di emigrazione e di urbanizzazione. Le zone interne si svuotano e deperiscono. Vediamo qualche dato: a. La deruralizzazione. In Sicilia, nel ventennio 1951-70 in agricoltura si perdono ben 400 mila occupati, che risultano dimezzati rispetto al totale del ’51, mentre scompare quasi un quarto delle aziende agricole. Altra conferma sull’ampiezza di questo esodo dalle campagne e dal lavoro agricolo si ha analizzando i dati censuari 1951-1971 sulla distribuzione della popolazione attiva in condizione professionale nei diversi settori economici. Scontato che il dato medio regionale si attesta su ordini di grandezza che non si discostano significativamente da quelli delle aree qui considerate, mi limito solo all’analisi di quanto è avvenuto in questo campo nei comuni e nelle province (o quelle che allora erano province e ora non si è ancora ben capito che entità sovracomunali siano) di Enna e Catania di cui ci occupiamo prevalentemente in questa sede. In provincia di Enna nel 1951 la popolazione attiva in agricoltura è al 59% della totale attiva, mentre vent’anni dopo la ritroviamo al 26%; a Barrafranca crolla dal 79% al 35%; a Calascibetta dal 54% al 19%; a Gagliano Castelferrato precipita dall’82% al 26%; ad Aidone a e Troina gli attivi in agricoltura si dimezzano: passando dal 64% al 33% nel primo caso e dal 56% al 28% nel secondo. Anche in provincia di Catania la caduta è notevole: dal 47% al 25%; a Bronte si scende dal 74% al 46%; a Caltagirone dal 56% al 25%; a Mineo, grosso centro rurale fortemente interessato dalla riforma, si scende dal 73% al 45%; a Paternò dal 70% al 51%. Per brevità, evito di scendere nel dettaglio di questi movimenti: basta dire che i settori che più hanno beneficiato della caduta degli attivi agricoli sono quello dell’edilizia e, in misura minore, quelli dell’industria e del terziario. b. L’emigrazione. Non v’è dubbio che gran parte di questo diffuso abbandono dell’attività agricola sia dovuta sia all’emigrazione interna, verso il Nord Italia, allora in fase di fortissima espansione e quindi formidabile polo di richiamo per i contadini meridionali, sia a quella verso altri paesi europei. Le cifre di questo massiccio esodo parlano di 800 mila/1 milione di siciliani che sono andati via in questi anni. c. L’urbanizzazione. Un’altra direttrice di marcia, sollecitata dalla straordinaria forza attrattiva che sulle popolazioni rurali della Sicilia era esercitata dalla 54
città, è quella dell’urbanizzazione. E infatti l’esodo rurale dalle aree interne verso la grande città e il suo hinterland e verso le aree costiere assume proporzioni rilevanti: sempre nel ventennio preso a riferimento, rispetto ad un incremento demografico che nella regione si mantiene entro limiti contenuti (+4,3%), si rileva che nei nove capoluoghi di provincia la popolazione registra un’impennata notevole del 25%, trainata principalmente dai dati di Catania e Palermo, che insieme cumulano una crescita di 253 mila abitanti rispetto al totale di 335 mila, ma anche da quelli di Siracusa, che fa segnare uno spettacolare +53,5%, e di Ragusa (+23%). Per apprezzare ancora meglio le dimensioni che il fenomeno ha assunto nel catanese è utile osservare la crescita esponenziale dei paesi che formano la cintura conurbativa della città. Quest’area metropolitana, che abbiamo definito prendendo in considerazione solo i 10 comuni che formano la cerchia più ristretta e più cataniacentrica, ha conosciuto un incremento assolutamente abnorme dell’80%.
Una vicenda esemplare: “Pasquasia” ad Enna Le opinabili scelte di politica agraria della Regione siciliana; le forme, talora timide e incoerenti, talora contraddittorie, nell’attuazione della legge di riforma agraria; i grandi ritmi di crescita dell’economia italiana, con i radicali cambiamenti prodotti negli assetti demografici di cui si è appena detto, stanno indubbiamente alla base del relativo insuccesso e, più spesso, del vero e proprio fallimento della riforma. E naturalmente i paesaggi analizzati, campioni significativi, anche se visioni parziali di una realtà molto più ampia, riflettono nitidamente questo quadro contraddittorio. Apro con il Piano di Ripartizione n. 289 la serie delle schede esemplificative che illustrano le vicende diverse e spesso antitetiche che hanno caratterizzato l’evoluzione o la sostanziale staticità del paesaggio nelle terre della riforma agraria in Sicilia. Ed è una scelta per nulla casuale, in quanto la zona nella quale ricadono i 171 ettari di questo P.R. – la Contrada Pasquasia, in territorio di Enna – è la stessa (e peraltro identico è anche il periodo storico) nella quale si è venuta svolgendo un’altra vicenda di forte impatto economico, sociale e ambientale. Mi riferisco alla Miniera di sali alcalini «Pasquasia», la più grande del settore in Europa, insediata sul più vasto giacimento minerario d’Europa, che comincia la sua attività proprio alla fine degli anni Cinquanta, quasi in contemporanea con le prime fasi attuative della riforma. Storia agraria e storia industriale qui camminano di pari passo e con esiti abbastanza simili e, in entrambi i casi, sostanzialmente fallimentari. Degli esiti della riforma agraria si dirà fra breve. Di quelli minerari basta ricordare che di quella grande realtà industriale – 150 mila tonnellate annue di sali prodotti e utilizzati come fertilizzanti in agricoltura; oltre 1.000 occupati – definitivamente chiusa nel 1992, sono rimasti solo i reperti di archeologia industriale e i tanti dubbi e gli interrogativi ancora irrisolti su cosa sia stato effettivamente depositato nel suo sottosuolo. Pattumiera nucleare, come era stato ipotizzato e come lasciavano pensare gli studi preliminari effettuati dall’ENEA? O discarica abusiva di materiali altamente inquinanti, gestita illegalmente da poteri oscuri e malavitosi, come dicono e scrivono 55
in tanti? L’unico dato certo, ad oggi, è che nel sito della miniera sono in atto costosissimi lavori di bonifica delle migliaia di tonnellate di amianto, di oli e di altri materiali cancerogeni che vi sono stoccati. Ma torniamo al tema specifico di questa relazione e occupiamoci del Piano di ripartizione n. 289, relativo, appunto, alla Contrada Pasquasia.
Scheda n. 1 P.R. 289 - Contrada Pasquasia - Enna • • •
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31 lotti su una superficie di 171 ettari; estensione media dei lotti: 5,5 ettari. Distanza dal centro abitato di Enna: 18 Km. I lotti «sono accessibili mediante la strada nazionale Agrigentina, che li attraversa da Est ad Ovest dividendo il riparto in due zone. Una diramazione stradale, che dopo 1 Km. conduce al «Borgo Cascino», suddivide in due parti molto disuguali la zona bassa del riparto rendendone ancor più agevole l’accesso»16. «La giacitura è collinare con pendenza variabile da un massimo del 35% ad un minimo del 5%. L’altitudine massima è 640 metri, la minima m. 380. Ai terreni siliceo-calcarei, superficiali, pietrosi, con roccia affiorante in molti tratti della parte più alta, si succedono terreni più fertili per la presenza di humus, profondi e molto produttivi; a fondo valle, si trovano terreni di medio impasto, molto profondi, produttivi»17. Ordinamento colturale: seminativo-pascolo
Sulla base delle disposizioni di legge prima ricordate, l’ERAS di Enna appronta un ambizioso progetto di trasformazione fondiario-agraria, che impegna una spesa di 156 milioni di lire, così distribuita: a. 11 milioni per le sistemazioni idraulico-agrarie; b. 90 milioni per la costruzione di case; c. 24 milioni per la realizzazione di cisterne; d. 18 milioni per la viabilità interpoderale; e. 13 milioni per gli impianti arborei (1.550 olivi,15.000 fruttiferi, 62.000 barbatelle di vite, 340 essenze boschive). In tutti i lotti si programma l’impianto di 50 are di vigneto-oliveto, mentre nei 18 sub-lotti, ricadenti nella parte alta del conferimento, si prevede di realizzare 3 ettari di mandorleto specializzato18. In questo caso, contrariamente a quanto avveniva in molti altri piani di ripartizione, la sede centrale dell’Ente non apporta tagli radicali al progetto. Tutti gli interventi previsti saranno realizzati, con costi che spesso avrebbero sforato le previsioni iniziali, ad eccezione della costruzione delle cisterne, che viene invece cassata. 16 ERAS, P.R. 289, Opere di trasformazione fondiario-agraria dei terreni assegnati in contrada Pasquasia di Enna, Relazione tecnica, dattiloscritto, 1955, Archivio ESA di Enna, p. 1. 17 Ibidem. 18 ERAS, P.R. 289, Progetto delle opere di sistemazione e trasformazione idraulico-agraria, 1955, Archivio ESA di Enna, pp. 2-3. 56
Fig. 16 Enna. PR 289, Contrada Pasquasia. Scorcio panoramico dell’area nord
Fig. 17 Enna. PR 289, Contrada Pasquasia. Il paesaggio dell’area sud: si notano giovani impianti di uliveto e mandorleto e nuove costruzioni
Di quell’insieme di costose realizzazioni allo stato attuale restano ben poche tracce nel paesaggio agrario dell’area. E quel che ne rimane si trova, per di più, in uno stato di grave degrado e di generale decadenza. È così per le opere di sistemazione idraulico-agraria, che rappresentavano quasi il 10% della spesa ammessa e delle quali resta solo qualche segno nella parte meridionale del conferimento, come i due uliveti, rappresentati nelle figg. 18 e 19, che, peraltro, presentano condizioni colturali e vegetative assai diverse. 57
Fig. 18 Enna. PR 289, Contrada Pasquasia. Stato attuale di un uliveto impiantato dall’ERAS nel 1956
Fig. 19 Enna. PR 289, Contrada Pasquasia. Uliveto impiantato dall’ERAS nel 1956, in buone condizioni vegetative 58
È così per la viabilità interpoderale, che risulta dissestata, intransitabile e, in qualche tratto, del tutto inesistente. È così per la maggior parte dei trenta fabbricati rurali di tipo residenziale, per la cui costruzione era stato impegnato il grosso dell’investimento (90 milioni su 132, ovvero il 68% del totale), che appaiono, tranne rare eccezione (fig. 20), in evidenti condizioni di precarietà (fig. 21) e che, in qualche caso, sono stati demoliti, per far posto a nuove costruzioni, le cui destinazioni d’uso solo raramente sono riconducibili alle esigenze abitative di una famiglia contadina.
Fig. 20 Enna. PR 289, Contrada Pasquasia. “Fabbricato di tipo residenziale” costruito dall’ERAS e tuttora utilizzato dai nuovi proprietari
Fig. 21 Enna. PR 289, Contrada Pasquasia. Resti di uno dei “fabbricati di tipo residenziale” costruiti dall’ERAS 59
Ma il quadro appena descritto, che segnala un evidente insuccesso degli interventi infrastrutturali e di bonifica agraria effettuati nella zona a sostegno delle aziende agricole appena insediate, non è ancora completo. Vi è un ulteriore elemento che lo caratterizza in negativo e ab origine. Si tratta della scelta, molto dispendiosa e dalle prospettive di riuscita quasi nulle, che era stata operata nella stesura del progetto di trasformazione, nell’intento di provare a valorizzare il pendio ripido e pietroso che caratterizzava gran parte delle terre del Piano di ripartizione e che consisteva nel realizzare in ognuno dei 12 lotti bis impianti di 3 ettari di mandorleto «specializzato», utilizzando l’esplosivo per lo scasso delle buche. Si è detto della natura prevalentemente rocciosa del terreno dove dovevano essere piantati i mandorleti. Ne deriva che delle circa 15 mila buche, che dovevano essere preparate per la messa a dimora delle piante, solo un quinto (3.300 circa) potevano essere scavate a mano, mentre per la gran parte, circa 12 mila, era necessario ricorrere all’uso di esplosivo19. Si tratta di scelta assolutamente discutibile, intanto dal punto di vista finanziario, per la abnorme lievitazione della spesa che comportava il raddoppio del costo per singolo scavo, da 200 a 400 lire20. Ed è scelta discutibile anche sotto il profilo economico-agrario. Penso, infatti, che anche allora le aspettative di riuscita dell’intervento dovessero apparire inversamente proporzionali all’impegno finanziario messo in campo. E immagino che anche i funzionari dell’ERAS, che avevano progettato quell’intervento, qualche dubbio dovessero averlo sul fatto che su quelle pietraie potesse attecchire un mandorleto che si voleva, per di più, «specializzato». E tuttavia le mine furono largamente impiegate e i risultati sono visibili nelle immagini che seguono e che documentano lo stato attuale di quegli impianti o, meglio, di quel che ne resta. L’odierno paesaggio fondiario-agrario, che dà a questo Piano di ripartizione le forme e la struttura che lo rendono assai diverso rispetto a quello dei primi anni della riforma, è il risultato di un duplice fenomeno: da un lato, dell’intensissima parcellizzazione dei terreni, che ha visto quasi quadruplicare il numero delle particelle21, e, di contro, del contemporaneo verificarsi di alcuni casi di ricomposizione fondiaria, che hanno favorito la nascita di aziende agricole di medie dimensioni. Questi importanti fenomeni di riassetto delle proprietà, che hanno riguardato sia la frammentazione sia il riaccorpamento dei lotti, potrebbero apparire inspiegabili, a fronte di un ordinamento colturale che, fatta eccezione per alcuni limitati interventi nel campo delle coltivazioni arboree specializzate, non ha conosciuto cambiamenti sostanziali rispetto all’indirizzo cerealicolo-zootecnico esistente all’atto delle assegnazioni. In verità, sono dovuti alla divisione degli appezzamenti fra gli eredi degli assegnatari e ad una consolidata tendenza, relativamente recente e non ancora esaurita, di mobilità fondiaria, che è stata originata sia dal fatto che alcune delle aziende riferibili ai primi assegnatari hanno ampliato le loro superfici di riferimento, 19 Si veda il prospetto analitico delle opere previste in progetto (Ivi, p. 3). 20 Ibidem. 21 I dati catastali dicono che nell’area del PR si è passati dalle 64 particelle che formavano i 31 lotti originari con gli annessi 12 lotti/bis alle recenti 243, con una crescita che si attesta attorno al 380 per cento. 60
sia dalla circostanza che nella zona si sono insediati nuovi proprietari che hanno acquisito consistenti porzioni dei lotti originari e, talora, anche dei lotti interi. A questo riguardo, è comunque opportuno sottolineare che alla base di movimenti fondiari così diffusi non vi è soltanto il dinamismo imprenditoriale di alcuni agricoltori: vi è anche e soprattutto il progressivo consolidarsi nella zona di una tendenza all’utilizzazione di quelle terre a fini di edilizia residenziale e/o stagionale e comunque non direttamente connessa con l’agricoltura. E, di recente, anche per l’insediamento di un’elegante azienda turistica specializzata nell’organizzazione di eventi. Si tratta, com’è evidente, di iniziative che, pur se legittime sotto il profilo delle normative urbanistiche, non possono essere in alcun modo ritenute una naturale evoluzione delle finalità della riforma agraria. Quanto ai pochi fenomeni di ricomposizione fondiaria appena ricordati, vi è da dire che gli stessi configurano delle iniziative imprenditoriali agricole di una qualche consistenza e in chiara fase di crescita, che, in un paesaggio agrario generalmente poco mutato rispetto a quello degli anni Cinquanta, costituiscono pur sempre delle presenze dinamiche che hanno apportato a questo comprensorio rilevanti trasformazioni agrarie e ambientali. E le recenti sistemazioni agrarie operate da queste aziende, con interventi di spietramento e di bonifica, insieme ad alcune operazioni di conversione e di ammodernamento colturale (nuovi impianti di uliveto e di mandorleto irrigui e di vigneto a spalliera) ne forniscono una chiara testimonianza.
Fig. 22 Enna. PR 289, Contrada Pasquasia. Resti di una buca scavata con l’uso di mine
Fig. 23 Enna. PR 289, Contrada Pasquasia. Raro esemplare superstite di mandorlo messo a dimora nel 1956 e reinnestato in anni recenti
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Evoluzione dei paesaggi delle terre di riforma nell’ennese e nell’area etnea Dopo questo spaccato significativo di quello che è effettivamente avvenuto in questa zona nel corso dell’attuazione della riforma agraria, ritengo utile soffermarsi ancora sull’analisi di altri Piani di ripartizione ricadenti nell’ennese, perché qui si ritrovano molte situazioni che mi paiono di sicuro interesse storico, economico e paesaggistico. E che acquistano una valenza assai più ampia della dimensione reale degli ambiti territoriali analizzati, perché la loro vicenda segnala andamenti e caratteri affatto simili e spesso emblematici di realtà assai più grandi. Vediamone qualche caso. Il primo riguarda il Piano di ripartizione n. 642, relativo ad una contrada ricadente ai confini dei territori di Enna e Leonforte.
Scheda n. 2 P.R. 642 – Contrada S.Benedetto – Enna •
4 lotti su una superficie di 16 ettari; superficie media dei lotti: 3,5 ettari; 1 lotto è esteso 5,10 ettari perché il terreno è meno produttivo. • Distanza dal centro abitato di Enna: 10 Km. • «Il terreno è di natura argilloso-calcarea, la giacitura in colle con declivi tendenti al piano nella parte nord e medi nella parte sud; declivi molto ripidi si hanno in un’area di 1,5 ettari ricadente nella parte ovest. L’altitudine va da 380 a 438 metri. L’esposizione prevalente è a nord». • L’ordinamento colturale è seminativo con rotazione biennale grano-fava; vi sono alcune aree a pascolo»22. I tecnici dell’ERAS di Enna predispongono, per i quattro lotti del piano, un progetto di trasformazione che prevede una spesa di circa 25 milioni, per interventi nei consueti settori delle sistemazioni idraulico-agrarie, degli impianti arborei, dell’approvvigionamento idrico, della viabilità interpoderale e della costruzione di case di tipo residenziale. Ma anche in questo caso, come si è già visto e come si vedrà ancora di seguito, la Presidenza dell’ERAS taglia le previsioni progettuali, riducendole drasticamente. Infatti, della spesa originaria restano in vita appena 3,7 milioni di lire, che vengono così destinati: a. 2,4 milioni per opere di sistemazione idraulico-agraria; b. 1,3 milioni per impianti arborei, che comprendono 7.700 barbatelle di vite americana, 175 olivi, 204 fruttiferi vari, 1.847 essenze forestali. Questi interventi, limitati ma comunque necessari per migliorare le condizioni ambientali ed economico-agrarie della zona, sono stati effettivamente realizzati. Ma, poco dopo il loro completamento e dopo appena cinque annate agrarie dall’assegnazione dei lotti, i terreni sono stati espropriati per la realizzazione dell’invaso 22 ERAS, P.R. 642, Relazione agraria per la ripartizione, dattiloscritto, 5 ottobre 1955, Archivio ESA di Enna, pp. 1-3; ERAS-Centro Assistenza Assegnatari Enna, P.R. 642, Progetto di trasformazione fondiario-agraria. Relazione tecnico-agraria e Preventivo di spesa, dattiloscritto, 30 agosto 1958, Archivio ESA di Enna, pp. 1-5. 62
Nicoletti. Siamo nel 1964: gli assegnatari ricevono le indennità di esproprio e le migliorie appena realizzate vengono sommerse dalle acque del torrente Bozzetta. E i quattro assegnatari, ancora 15 anni dopo, continuavano a pagare l’ILOR, il ritiro della spazzatura, le quote al Consorzio di Bonifica, ecc… Come dire: l’ERAS dà le terre e l’ESA se le riprende. Per una buona causa, si potrebbe affermare e probabilmente è così. Resta il fatto, però, che la vicenda appare tutt’altro che lineare e, soprattutto, non è l’unica del genere. Si veda, al riguardo, il caso del P.R. 486 bis.
Fig. 24 Enna. PR 642, Contrada S. Benedetto. Diga Nicoletti
Scheda n. 3 P.R. 486 bis – Contrada Polino – Piazza Armerina • • •
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29 lotti su una superficie di 143 ettari; superficie media dei lotti: 5 ettari. Distanza dai centri abitati più vicini: 10 Km. da Barrafranca, 25 da Piazza Armerina. «I terreni sono silico-argillosi e sabbiosi. Non sono eccessivamente pesanti né impermeabili e perciò poco soggetti a franosità e smottamenti. In alcune particelle si nota dello scheletro pietroso in varie proporzioni. La minore erodibilità ha reso più profondo lo strato attivo, per cui la produttività è in genere elevata. La giacitura è di collina con declivi medi e dolci. L’altitudine va da un minimo di m. 490 ad un massimo di m. 725»23. Ordinamento colturale: cerealicoltura estensiva, con rare oasi di vigneto consociato a mandorleto e uliveto. «Esiste solo una casa colonica, ricadente nel lotto 46, in discrete condizioni di abitabilità e un’altra piccola casetta che serve per il ricovero dei pastori»24.
23 ERAS, P.R. 486 bis, Relazione agraria per la ripartizione, dattiloscritto, 14 dicembre 1956, Archivio ESA di Piazza Armerina, pp. 2-3. 24 ERAS, P.R. 486 bis, Progetto di trasformazione fondiario-agraria. Relazione tecnico-agraria, 63
È bene rilevare che questo Piano di ripartizione risulta quasi dimezzato rispetto all’originario PR 486 (54 lotti su 244 ettari), sia nel numero dei lotti che nella superficie complessivamente assegnata, perché l’opposizione dei proprietari espropriati, i Duchi Papé, riuscì ad ottenere la restituzione di ben 101 ettari di terreno, all’interno dei quali ricadeva, peraltro, la grande masseria padronale.
Fig. 25 Piazza Armerina. PR 486 bis. Contrada Polino. Panoramica
Fig. 26 Piazza Armerina. PR 486 bis. Contrada Polino. Centro aziendale dell’ex feudo dei Duchi Papé, rimasto fuori dall’area conferita
Sui 29 lotti che non vengono toccati dal ridimensionamento del PR originario, i tecnici dell’ERAS redigono il consueto progetto di trasformazione, che attestano su una spesa di 68 milioni di lire, finalizzata alla riconversione produttiva dell’area verso un indirizzo arboreo-cerealicolo-zootecnico. Il piano viene regolarmente decurtato dei due terzi della previsione iniziale, con l’abituale cancellazione della spesa per le dattiloscritto, 23 novembre 1959, Archivio ESA di Piazza Armerina, p. 2. 64
case. Degli interventi risparmiati dai tagli vengono effettivamente realizzati quelli relativi alle sistemazioni idraulico-agrarie, alle opere irrigue e agli impianti arborei (3.200 ulivi, 34.000 barbatelle di vite americana, 4.900 fruttiferi, 430 essenze forestali).
Fig. 27 Piazza Armerina. PR 486 bis. Contrada Polino. Panorama dell’area di riforma. Sulla destra, la vasca ottagonale di raccolta realizzata dall’ERAS nel 1960
Un recente sopralluogo ci ha consentito di accertare che l’indirizzo produttivo è rimasto sostanzialmente invariato rispetto a quello del 1956, con larga prevalenza dei seminativi e del pascolo. Si è registrata, tuttavia, la presenza di diverse aree utilizzate per colture specializzate: uliveti (circa 30 ettari), mandorleti (20 ettari) e ortive (8 ettari). Si tratta palesemente di nuovi impianti. Di quelli realizzati ad iniziativa dell’ERAS si osserva solo qualche sparuta traccia di mandorli e di ulivi. Meraviglia, soprattutto, la totale scomparsa delle 34 mila barbatelle di vite americana messe a dimora agli inizi degli anni Sessanta.
Fig. 28 Piazza Armerina. PR 486 bis. Contrada Polino. Esemplari superstiti di mandorlo piantati nel 1960 65
Stabili permangono anche gli assetti fondiari. La gran parte dei lotti non risulta, infatti, frazionata e resta di proprietà dei primi assegnatari o di loro eredi. Anche in questo P.R., come nel precedente, si ripropone il paradosso delle terre di riforma assegnate, bonificate, sistemate e migliorate dall’ERAS nel 1960 e poi riespropriate dall’Ente di Sviluppo Agricolo nel 1984 per la costruzione di un grande invaso, la Diga Olivo. Qui sono tre i lotti, per una superficie di poco meno di 10 ettari, a finire sommersi dalle acque del lago.
Fig. 29 Piazza Armerina. PR 486 bis, Contrada Polino. Panoramica dell’area di riforma e della diga Olivo
La nostra analisi sui principali caratteri economico-agrari e paesaggistici che hanno contrassegnato l’attuazione delle riforma agraria in alcune aree dell’ennese si dirige adesso verso altri territori, assai diversi rispetto a quelli finora considerati. Ci si occuperà, infatti, di un’ampia porzione di territorio ricadente nella piana di Catania, ripercorrendo le principali vicende che hanno interessato i quattro piani di ripartizione attuati nel Comune di Paternò. E il quadro naturalmente cambia, rispetto a quanto visto finora. Con molte luci e con qualche ombra.
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Scheda n. 4 P.R. 130 – Contrade Poggio Monaco e Cotoniera – Paternò • • •
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17 lotti su una superficie di circa 60 ettari; superficie media dei lotti: 3,5 ettari. Distanza dal centro abitato di Paternò: 7-10 Km. I lotti di questo Piano di ripartizione sono dislocati in zone diverse e non contigue delle due contrade. Ne deriva una notevole diversità delle loro caratteristiche fisiche e geologiche. Infatti, questi «terreni, per circa metà della loro superficie, giacciono in collina, mentre per l’altra metà giace in pianura. La parte collinare ha pendenze che oscillano dal 10 al 20% (con qualche tratto che supera anche il 50%), mentre nella parte piana non superano il 2-3%. L’esposizione è varia e l’altitudine è compresa tra 80 e 140 metri s.l.m. I terreni in prevalenza sono argilloso-calcarei e piuttosto tenaci; nella parte piana sono argilloso-silicei, profondi e freschi, di buona fertilità. Lo stato di assesto è ottimo nella pianura, mentre nella parte collinare si notano numerosi valloncelli e nel lotto 3 una zona di argille calanchifere estesa circa mezzo ettaro. L’accesso è molto disagevole»25. Ordinamento colturale: seminativo semplice e arborato, con rotazione triennale discontinua. Sporadica e marginale la presenza delle colture arboree, presenti solo in 3 dei 17 lotti. In particolare: «nel 13 e nel 14, dove esistono rispettivamente 172 e 74 piante di olivo, di circa 70/80 anni, ancora in buone condizioni vegetative e di sviluppo; nel lotto 18, dove vi sono 541 mandorli deperiti (varietà Pizzuta) di circa 60 anni di età; 35 olivi (varietà Nuciddara) e 4 piante di fico. Tutte queste piante, da lungo tempo in stato di abbandono, sono scarsamente produttive»26.
I lotti di questo P.R. sono stati consegnati agli assegnatari all’inizio dell’annata agraria 1953-54. Per alcuni anni, però, l’ERAS non ha operato nella zona nessun intervento infrastrutturale: vi è stata soltanto qualche sporadica distribuzione, ai pochi assegnatari che ne avevano fatto richiesta, di modeste quantità di sementi e di fertilizzanti. Poi, ad agosto 1957, viene approvato e reso esecutivo un progetto di trasformazione fondiario-agraria di dimensioni finanziarie contenute (33 milioni di lire)27 con il quale l’Ente delibera di realizzare: a. alcune opere di bonifica e di sistemazione idraulico-agraria; b. impianti arborei in tutti gli appezzamenti «nella misura di 1 ettaro per lotto, 25 ERAS, P.R. 130, Relazione agraria per la ripartizione, dattiloscritto, 19 agosto 1953, Archivio ESA di Paternò, pp. 1-3; ERAS-Centro Assistenza Assegnatari Paternò, P.R. 130, Progetto di trasformazione fondiario-agraria. Relazione tecnico-agraria, dattiloscritto, 23 agosto 1957, Archivio ESA di Paternò, pp. 1-4. 26 ERAS, Relazione sullo stato di consistenza dei terreni dei PP.RR. 130 e 130 mod., dattiloscritto, 26 gennaio 1959, Archivio ESA di Paternò, pp. 2-3. 27 ERAS-Centro Assistenza Assegnatari Paternò, P.R. 130, Progetto di trasformazione fondiario-agraria…, cit., pp. 1-4. 67
al fine di rendere col tempo, in un certo modo, economicamente autonoma la famiglia dell’assegnatario sia per quanto riguarda la sua capacità lavorativa sia per quanto riguarda il fabbisogno annuale di derrate agricole»28. Tale intervento si è concretamente tradotto nella messa a dimora, nell’area del P.R., di 1.502 ulivi, di 1.600 agrumi e di 6.800 fruttiferi vari; c. canalette per irrigazione e alcuni tratti di stradelle interpoderali; d. 14 case del tipo ridotto e sistemazione dei tre fabbricati rurali esistenti. Questi interventi e, più ancora, il dinamismo imprenditoriale degli assegnatari hanno prodotto significative trasformazioni sul paesaggio agrario della zona che, allo stato, presenta un ordinamento colturale radicalmente mutato rispetto al precedente indirizzo cerealicolo, poiché tutti i terreni in esame sono oggi ricoperti da agrumeti.
Fig. 30 Paternò. PR 130 - Agrumeto in Contrada Poggio Monaco
Naturalmente questo processo di generale conversione colturale si è svolto in parallelo con un ampio riassetto della proprietà fondiaria, che ha conosciuto una diffusa frammentazione, soprattutto tra eredi, dei lotti originari: il dato finale dice che dai 17 proprietari iniziali si è passati oggi a 65 nuovi intestatari.
28 Ivi, pp. 3-4. 68
Scheda n. 5 P.R. 832 – Contrada Castellaccio – Paternò • • •
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3 lotti per una superficie totale di 12 ettari; superficie media dei lotti: 4 ettari. Distanza dal centro abitato di Paternò: 20 Km. «Dal punto vista chimico-fisico, la natura del terreno è calcareo-gessosa. In buona parte del conferimento si nota uno strato di roccia fissa e mobile. La giacitura è in collina; l’altitudine massima è di metri 860, la minima è di metri 120, con pendenze considerevoli. L’esposizione prevalente è a sud-est e ciò favorisce l’azione erosiva dei venti di levante. Nei terreni del conferimento non esistono fabbricati rurali e non vi è alcuna manifestazione sorgentizia»29. Ordinamento colturale: pascolo e seminativo
Queste terre sono il prototipo della pietraia non coltivabile, al punto che gli stessi tecnici preposti alla ripartizione dichiaravano che era «indispensabile uno spietramento radicale per incrementare la produzione agricola»30. Non è dunque un caso che i lotti siano stati costantemente rifiutati dagli assegnatari che si sono via via succeduti e che i 12 ettari di questi appezzamenti siano ancora oggi nella disponibilità dell’ESA e in stato di sostanziale abbandono.
Scheda n. 6 P.R. 309 – Contrada Pietralunga – Paternò • • •
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15 lotti su una superficie di 69 ettari; superficie media dei lotti: 4,6 ettari. Distanza dal centro abitato di Paternò: 5 Km. «L’accesso è molto disagevole e avviene percorrendo circa Km. 1,5 della strada comunale S.Marco, Km. 2,5 della comunale Passo di Pietralunga e Km. 1 circa della vicinale Pietralunga-Poira, tutte in cattive condizioni, l’ultima a fondo naturale. Al passo di Pietralunga bisogna attraversare il Simeto su un traghetto per soli pedoni, mentre prima ne esisteva uno per i veicoli»31. «I terreni sono argilloso-calcarei, di impasto mezzano tendente al compatto, generalmente profondi, tranne in alcuni tratti dove lo strato è superficiale e presenta zone di roccia affiorante. Nella parte collinare si ha presenza di scheletro sassoso, la cui entità varia da zona a zona. In vaste superfici del conferimento si nota la presenza di grandi massi erratici. I terreni hanno pendenza media del 10% e sono esposti a nord. L’altitudine minima è di m. 120, la massima di m. 260. Vi sono vaste zone di terreno dissestato per la presenza di ingenti frane, burroncelli e canali naturali, che tendono ad ingrandirsi. La parte nord è soggetta alle esondazioni del Simeto, lungo le cui sponde si verificano continue avulsioni»32. Ordinamento colturale: erbacee
29 ERAS, P.R. 832, Relazione agraria per la ripartizione, dattiloscritto, 28 agosto 1956, Archivio ESA di Paternò, pp. 1-2. 30 Ivi, p. 2. 31 ERAS, P.R. 309, Relazione agraria per la ripartizione, dattiloscritto, 3 maggio 1955, Archivio ESA di Paternò, p. 2. 32 Ivi, p. 3. 69
Non è stato redatto alcun progetto di trasformazione fondiario-agraria, nonostante le puntuali indicazioni dei tecnici ripartitori relativamente agli interventi indispensabili per migliorare lo stato di grave dissesto idrogeologico e ambientale dei terreni, per rimuovere talune delle condizioni di pesante svantaggio e di precarietà in cui avrebbero dovuto operare le aziende agricole appena insediate e per far sì che gli assegnatari potessero avere condizioni di lavoro e di vita meno difficili di quelle offerte da un ambiente decisamente ostile. In questo caso, va segnalato che le azioni dell’Ente di riforma sono state assolutamente inconsistenti: a novembre 1956, prima annata agraria dopo l’assegnazione dei lotti, sono stati distribuiti alcuni quintali di sementi e di fertilizzanti e ad agosto 1958 sono state effettuate - e solo nella metà degli appezzamenti - poco più di 155 ore di motoaratura. Poi nessun altro intervento, tranne la realizzazione, avvenuta in tempi più recenti, di un ponte che consente di attraversare il Simeto, senza dover ricorrere, come avveniva da anni, ad aleatori mezzi di fortuna. Il regime fondiario attuale appare essenzialmente immutato rispetto a quello creato dalla riforma, con pochissimi passaggi di proprietà: infatti, la gran parte dei lotti risulta ancora in possesso dei primi assegnatari o di loro eredi. Fanno eccezione i quattro lotti rivieraschi, ricadenti nella parte nord del conferimento, dove si è invece registrata una certa frantumazione fondiaria (da 4 a 16 particelle). Quanto agli ordinamenti colturali rilevati di recente in quest’area si nota una netta differenziazione degli stessi, a seconda della loro dislocazione sul territorio, come si può ben osservare nella figura seguente:
Fig. 31 Paternò. PR 309, Contrada Pietralunga. Estratto del Foglio di Mappa n. 55, con indicazione degli ordinamenti colturali vigenti 70
Come si vede, l’area del piano appare esattamente tagliata a metà in senso longitudinale e mostra due paesaggi agrari affatto differenti. A nord, i 37 ettari intercettati dai lotti dall’1 all’8, che rappresentano circa il 54% della superficie totale, sono stati da tempo trasformati in razionali agrumeti, serviti da moderni impianti di irrigazione. Di più: in quasi tutti questi appezzamenti, sono stati costruiti dei fabbricati rurali ed è stato realizzato un piccolo reticolo di viabilità interpoderale. Il paesaggio agrario che si osserva nei sette lotti che ricadono nella zona meridionale del PR, quella confinante con la contrada Castellaccio, delle cui difficili condizioni ambientali si è appena detto, è invece del tutto differente. Tutti i 32 ettari di quest’area risultano incolti e in stato di abbandono, con qualche raro esemplare di ulivo e di pero selvatici.
Scheda n. 7 P.R. 705 – Contrada Gerbini – Paternò • • •
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22 lotti su una superficie di 73 ettari; superficie media dei lotti: 3,3 ettari. Distanza dal centro abitato di Paternò: 20 Km. «Trattasi di terreni alluvionali profondi, di costituzione molto varia e fertile, prodotti dall’erosione delle acque del fiume Simeto, trasportati e sedimentati dalle alluvioni. L’impasto è in prevalenza mezzano, risultante dalla commistione di sabbia, limo, argilla, sostanza organica e calcare, mentre lo scheletro (pietre, ciottoli, ghiaia e ghiaino) è assente. L’altitudine media si aggira sui 50 m. sul livello del mare. La giacitura è pianeggiante. Non esistono fabbricati rurali e le risorse idriche sono insufficienti»33. Ordinamento colturale prevalente: erbacee.
Viene redatto, a cura del Centro ERAS di Paternò, un ambizioso progetto di trasformazione mai interamente decollato. Delle opere previste (bonifica e sistemazione agraria, affossature, viabilità interpoderale, pozzetti ripartitori e canalette irrigue, case tipo rifugio ampliabili, pozzi, canale consortile d’irrigazione) sono state realizzate solo il decespugliamento, lo spietramento, lo scasso, una stradella interpoderale e il canale irriguo, con relative canalette di derivazione, ad opera, quest’ultimo, del Consorzio di Bonifica della Piana di Catania. Lavori portati a termine in tempi abbastanza lunghi, avendo richiesto ben sette anni per essere completati. Al di là di queste limitate realizzazioni, l’ERAS non ha prodotto molto di più, nemmeno nel campo dell’assistenza tecnico-agronomica: il suo unico intervento si è infatti risolto nella distribuzione ai contadini, nell’anno 1962, di 2.400 piantine di arancio, di 1.300 di pesco e 900 di pero. 33 ERAS, P.R. 705, Relazione agraria per la ripartizione, dattiloscritto, 20 ottobre 1955, Archivio ESA di Paternò, p. 2; ERAS-Centro Assistenza Assegnatari Paternò, PP.RR. 705 e 705 Mod., Progetto di trasformazione fondiario-agraria. Relazione tecnico-agraria, dattiloscritto, 14 aprile 1958, Archivio ESA di Paternò, p. 2; ERAS, PP.RR. 705 e 705 Mod., Relazione e certificato di collaudo finale, dattiloscritto, 26 novembre 1965, Archivio ESA di Paternò, pp. 1-7. 71
E tuttavia, nonostante l’Ente abbia investito in quest’area molto meno di quanto non abbia fatto altrove, la fertilità e la vocazione dei suoli e, insieme, la tenace volontà dei contadini di trasformare e innovare i seminativi che avevano avuto assegnati, hanno prodotto un cambiamento radicale nel paesaggio agrario e nell’economia di questo territorio, che da diversi anni ormai è interamente ricoperto da agrumeti.
Fig. 32 Paternò. Agrumeto nell’area del PR 705 di Contrada Gerbini
Fig. 33 Paternò. Agrumeto di recente reimpianto con nuove cultivar nell’area del PR 705 di Contrada Gerbini 72
La figura aggiunge un ulteriore aggiornamento al quadro colturale di questa zona. Come si vede, l’agrumeto raffigurato è un impianto abbastanza giovane, frutto di un radicale intervento di riconversione produttiva con portainnesti resistenti al virus “Tristezza degli agrumi”, che da anni arreca gravissimi danni agli agrumicoltori delle province di Catania e Siracusa, distruggendo migliaia di ettari di coltivazione. Relativamente poi al regime fondiario attualmente eistente nell’area del PR, si rileva che, dopo la legge sui riscatti del 1968, si è prodotta una diffusa parcellizzazione dei 22 lotti originari, dalla cui scomposizione sono nate 129 nuove particelle, originariamente intestate agli eredi dei primi assegnatari e successivamente vendute, in larga parte, ad altri proprietari di nuovo insediamento nell’area, i quali in atto ne detengono oltre 70. Conseguenza ovvia di questa frammentazione è il drastico ridimensionamento dell’estensione media degli appezzamenti, che scende da 3,3 a 0,54 ettari. Infine, va detto che una superficie di 3 ettari, spalmata su 5 lotti, è stata espropriata dall’ANAS per la costruzione dell’autostrada A19 Catania-Palermo. Restiamo ancora nella zona etnea. Ma quella che segue e che ci accingiamo ad esaminare rappresenta l’altra faccia della medaglia, rispetto al paesaggio economicoagrario rilevato a Paternò. Analizzeremo, infatti, gli effetti della riforma agraria nel territorio di Bronte. Nella zona del latifondo per antonomasia, la Ducea di Nelson. Paternò, come si è appena visto, propone un panorama complessivamente positivo e dinamico delle vicende successive all’assegnazione delle terre. Per queste aree non si può parlare di fallimento della riforma, perché così palesemente non è. Dato, questo, che appare ancora più significativo se si considera che si riferisce a porzioni tutt’altro che trascurabili dei terreni espropriati e riassegnati in provincia di Catania in forza delle leggi di riforma, perché 59 lotti e 215 ettari costituiscono un buon 4% sia degli appezzamenti che delle superfici. La scelta di occuparci dei cinque piani di ripartizione ricadenti nel Comune di Bronte discende invece dall’esigenza di proporre un quadro assai diverso, e tuttavia realistico e rappresentativo, anche se non esaustivo, delle terre in cui la riforma ha stentato a decollare o è abortita del tutto. Di quelle terre, cioè, nelle quali prevalevano condizioni orografiche, geopedologiche, di giacitura e di dissesto così ostili e svantaggiate da rendere problematico l’insediamento di attività agricole redditizie e in grado di consentire alle nuove aziende di andare oltre la mera sopravvivenza. E anche qui si tratta di vaste porzioni di territorio, perché 81 lotti e 415 ettari - rispettivamente il 6% dei lotti e il 7% delle superfici – rappresentano una parte rilevante delle aree complessivamente interessate dalla riforma agraria nella provincia di Catania.
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Scheda n. 8 P.R. 589 – Contrada Cattaino – Bronte • • • •
29 lotti su una superficie di 128 ettari; superficie media dei lotti: 4,4 ettari. Distanza dal centro abitato di Bronte: 15 Km. «Il conferimento poggia su una pendice montagnosa […] avente un’altitudine media di metri 800 s.l.m. ed una pendenza che raggiunge delle punte massime del 90%, con una media del 30%. La giacitura del terreno, la presenza di abbondante roccia affiorante, di massi di cospicue dimensioni, di cespugli spinosi e di piante infestanti di varie specie hanno conferito alla zona un aspetto talmente tormentato da sconsigliare a prima vista qualsiasi iniziativa. Solo il 20% dei terreni presenta condizioni topografiche migliori»34.
Il Centro Assistenza Assegnatari di Bronte stila un progetto di trasformazione che prevede una spesa di 42 milioni di lire (si veda la Fig. 34), che l’ERAS di Palermo riduce a poco meno di 16 milioni. Dei tanti interventi previsti (opere di miglioramento e sistemazione idraulico-agraria, impianti arborei, viabilità rurale, case tipo rifugio) ne vengono realizzati solo pochi e soltanto nel settore delle sistemazioni idraulicoagrarie. Si decide di non investire risorse nell’impianto dei frutteti «perché la natura del terreno non lo consentiva» e dei vigneti «a causa dell’altitudine dei terreni»35. Sono invece concesse facilitazioni per l’acquisto di bestiame: si tratta di prestiti individuali di 120 mila lire (si veda la Fig. 34), da rimborsare in cinque rate annuali al tasso del 3,5%, per l’acquisto di un mulo, che era di grande aiuto per il contadino, in considerazione della «giacitura montagnosa dei terreni e l’assoluta mancanza di strade»36. Tenendo conto delle difficili condizioni orografiche e ambientali di quest’area, era difficile attendersi mutamenti significativi nel paesaggio agrario. Che infatti non ci sono stati: l’ordinamento colturale attuale è fondamentalmente immutato (incolto o pascolo), mentre alcuni lotti sono stati rilevati dall’Azienda forestale regionale per rimboschimento. Anche la struttura della proprietà è rimasta invariata, con molti terreni che appaiono palesemente abbandonati dai loro proprietari.
34 ERAS, P.R. 589, Relazione agraria per la ripartizione, dattiloscritto, 25 agosto 1955, Archivio ESA di Adrano, pp. 1-6; ERAS-Centro Assistenza Assegnatari Bronte, P.R. 589, Progetto di trasformazione fondiario-agraria. Relazione tecnico-agraria, dattiloscritto, 20 aprile 1957, Archivio ESA di Adrano, pp. 1-5. 35 ERAS, P.R. 589, Stato di avanzamento delle opere di miglioramento fondiario, Catania, 22 marzo 1962. 36 ERAS-Centro Assistenza Assegnatari Bronte, P.R. 589. Concessione finanziamento, dattiloscritto, 24 novembre 1959, Archivio ESA di Adrano. 74
Fig. 34 Bronte. PR 589, Contrada Cattaino. Concessione di un finanziamento per l’acquisto di un mulo
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Scheda n. 9 P.R. 290 – Contrada Acquavena – Bronte • • • • • • •
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12 lotti su una superficie di 71 ettari; superficie media dei lotti: 5,8 ettari. Distanza dal centro abitato di Bronte: 15 Km. «Giacitura collinare-montana, con altitudine che varia tra 760 e 880 metri. Non è possibile aratura meccanica, causa le forti pendenze e il dissesto delle superfici. Per tali ragioni, in molte aree quasi tutti i lavori sono fatti a mano. I terreni sono di natura argilloso-sabbiosa, con lapilli e tufi vulcanici e lave antiche dell’Etna, sciolti, con molta roccia affiorante. Nella particella 7 esistono diverse capanne e casette rifugio di pietrame a secco dove vivono intere famiglie coloniche. In mancanza di opere di regimazione delle acque quasi tutta la superficie è solcata da rivoli e burroncelli che man mano si affondano e si allargano. L’accesso alla contrada avviene mediante una strada che non si può definire nemmeno mulattiera, perché è faticosa anche per gli animali. In inverno è completamente impraticabile per diversi chilometri e i contadini preferiscono lasciare a pascolo i terreni del conferimento e quelli adiacenti, poiché in estate per raggiungerli bisogna fare ben tre ore di mulo con dei tratti anche pericolosi per la natura del terreno e in inverno non è possibile andarvi per le frane e l’acqua che rendono sdrucciolevole la roccia in cui è scavata detta mulattiera»37. «La zona presenta condizioni economico-agrarie del tipo latifondistico»38.
I tecnici dell’ERAS di Bronte predispongono un progetto di trasformazione poco impegnativo39, sia per i limitati interventi previsti sia per le contenute dimensioni della spesa, attestate su poco più di 27 milioni di lire, così ripartiti: a. 10 milioni per opere di miglioramento e di sistemazione idraulico-agraria; b. 1,5 milioni per la realizzazione, in ogni lotto, di mezzo ettaro di frutteto; c. 2 milioni per la realizzazione di stradelle interpoderali; d. 12 milioni, ovvero poco meno della metà della spesa totale, per la costruzione di case del tipo ridotto; e. 800 mila lire per lo spurgo e la captazione di sorgenti. E tuttavia, nonostante il modesto impegno finanziario e, a dispetto del fatto che le difficili condizioni dell’area richiedessero, piuttosto, interventi ancora più consistenti e incisivi, la Presidenza dell’ERAS dimezzava i costi, tagliando, come faceva di norma, la realizzazione delle case e delle stradelle interpoderali. Delle opere approvate risultano portati a termine i lavori di dissodamento e di spietramento, la realizzazione delle affossature e dei muretti a secco nonché l’impianto 37 ERAS, P.R. 290, Relazione agraria per la ripartizione, dattiloscritto, 8 luglio 1954, Archivio ESA di Adrano, pp. 2-3. 38 ERAS - Centro Assistenza Assegnatari Bronte, P.R. 290, Progetto di trasformazione fondiarioagraria. Relazione tecnico-agraria, dattiloscritto, 7 dicembre 1957, Archivio ESA di Adrano, p. 3. 39 Ivi, pp. 1-13. 76
dei sei ettari di frutteto. Ed è opportuno notare che nell’esecuzione di questi interventi si è fatto largamente ricorso, come già ricordato per diversi altri piani di ripartizione, alla manodopera degli assegnatari e dei loro familiari. Insieme a queste azioni infrastrutturali, va ricordato che l’ERAS ha provveduto a fornire agli assegnatari, in particolare durante le prime annate agrarie successive al loro insediamento sui lotti, consistenti quantitativi di sementi, di concimi e di fertilizzanti. Allo stato attuale, il paesaggio agrario dell’area è notevolmente cambiato, in quanto il precedente indirizzo produttivo quasi esclusivamente cerealicolo è stato sostituito da uno prevalentemente zootecnico, con vaste porzioni di territorio lasciate a pascolo. In ultimo, va osservato che la struttura della proprietà è rimasta sostanzialmente immutata rispetto a quella originaria, dal momento che 10 lotti su 12 sono ancora in possesso di eredi dei primi assegnatari.
Scheda n. 10 P.R. 1 – Contrade Mendolito e Manchi – Bronte • • •
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7 lotti su una superficie di circa 29 ettari, distribuita su due aree diverse e non limitrofe: 6,4 ettari in Contrada Mendolito (2 lotti) e 22,8 ettari in Contrada Manchi (5 lotti mediamente di 4,5 ettari). Distanza dal centro abitato di Bronte: 10 Km. «Il terreno del primo appezzamento, un seminativo con molti alberi (mandorli soprattutto e peri), è prevalentemente siliceo, ma contiene anche dell’argilla; vi abbondano pietre mobili e fisse. Trovasi a quota 500: la giacitura è pianeggiante. È dotato di un pozzo che fornisce acqua di discreta qualità. La fertilità è media»40. «I terreni della contrada Manchi, così chiamata per la prevalente esposizione a Nord, sono caratterizzati dalla presenza di argilla e sono soggetti in estate a fessurazione. La giacitura è collinare, però non mancano delle zone pianeggianti. L’altitudine varia tra 550 e 780 metri; la pendenza media è del 18%. L’ordinamento colturale è costituito da seminativi di scadente qualità»41.
Anche per questo Piano di ripartizione relativamente piccolo, il Centro Assistenza Assegnatari di Bronte predispone un progetto di trasformazione di importo limitato (solo 11 milioni), che tuttavia non lascia fuori nessuno dei settori d’intervento previsti dallo schema-standard, case comprese. Naturalmente, come sempre, una delibera del Presidente dell’ERAS ne riduce drasticamente gli importi, cassando la costruzione delle sei case di tipo rifugio e la viabilità interpoderale. Restano in vita gli altri interventi previsti, per un spesa di circa 3,6 milioni. Sono stati pertanto effettuati i dissodamenti e lo spietramento, fatte le affossature, costruiti i muretti a secco e realizzati piccoli impianti consociati di uliveto e pereto. 40 ERAS, P.R. 1, Relazione agraria per la ripartizione, dattiloscritto, 27 luglio 1954, Archivio ESA di Adrano, pp. 1-4. 41 ERAS-Centro Assistenza Assegnatari Bronte, P.R. 1, Progetto di trasformazione fondiarioagraria. Relazione tecnico-agraria, dattiloscritto, 7 dicembre 1957, Archivio ESA di Adrano, p. 3. 77
Quasi tutti i lavori sono stati eseguiti con manodopera degli assegnatari e dei loro familiari, come testimoniato dalle molte ricevute e certificazioni che si sono potute consultare. Una, ad esempio, concerne una retribuzione di circa 77 mila lire, liquidata ad un assegnatario per lavori di dissodamento a mano effettuati sul proprio lotto. Ad ulteriore dimostrazione che questa misura, quella di occupare i contadini per lavori di bonifica da effettuare sui loro stessi lotti, non era assistenziale, ma rappresentava un concreto aiuto economico per l’assegnatario nella difficile fase di avvio e di consolidamento della sua azienda. Vi è da rilevare, infine, che anche in quest’area sono state concesse diverse anticipazioni per l’acquisto di muli, sono stati consegnati, in particolare nelle prime annate agrarie successive all’assegnazione dei lotti, diversi quintali di sementi e di fertilizzanti e sono stati eseguiti lavori di motoaratura per cospicui monte-ore. Quanto all’ordinamento colturale attuale, non si osservano variazioni di sorta rispetto a quello esistente negli anni Cinquanta: incolto o pascolo, con ampie porzioni di territorio in stato di abbandono. E, naturalmente, anche gli assetti della proprietà sono rimasti immutati, poiché i lotti sono tuttora in possesso degli eredi degli assegnatari originari.
Scheda n. 11 P.R. 506 – Contrada Serravalle - Bronte • • •
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32 lotti su una superficie di 182 ettari; superficie media dei lotti: 5,8 ettari. Distanza dal centro abitato di Bronte: 14 Km. «Giacitura di montagna con ripidi pendii, con quota varia da m. 600 a m. 1200. Il terreno, per 1/3 della superficie totale, è di natura silico-argillosa di medio impasto, discretamente profondo. Nella rimanente parte è di natura silicea, con roccia nuda o ricoperta da un leggero strato di terreno. Scheletro grossolano e massi erratici si trovano spesso in quasi tutto il conferimento. Temperature invernali molto rigide»42. «Nei punti ove il terreno lo rende possibile, esistono impianti di mandorli e qualche piccola superficie di noccioleti e vigneti. L’impianto di tali mandorleti, la cui età si aggira sui 40 anni, è avvenuta a giusta distanza ed a sesto regolare, compatibilmente comunque con le molte accidentalità che il terreno presenta. Nella parte alta esiste un bosco rado di querce e predomina la vegetazione cespugliosa. Il grano, in coltura biennale con la fava, viene coltivato sotto i filari di mandorli»43.
Naturalmente, in presenza di così pesanti condizioni di svantaggio ambientale, l’ERAS di Bronte appronta un oneroso progetto di trasformazione, che avrebbe potuto, almeno in parte, ridurne l’impatto negativo sull’attività agricola. Ma gli 86 milioni della previsione iniziale sono ridotti, dalla sede centrale dell’Ente, a poco più di un sesto: eliminata la costruzione delle 28 case e le opere infrastrutturali più costose, 42 ERAS, P.R. 506, Relazione agraria per la ripartizione, dattiloscritto, 8 ottobre 1954, Archivio ESA di Adrano, pp. 1-2. 43 Ibidem. 78
vengono salvati solo gli interventi relativi alla realizzazione di affossature e briglie, alla viabilità interpoderale e agli impianti arborei, prevalentemente ulivi e peri, i cui 8 milioni di spesa assorbivano oltre i due terzi del finanziamento ammesso. Di tali interventi, peraltro, attualmente non si rinvengono molte tracce. Relativamente agli odierni ordinamenti colturali vi è da dire che gli stessi sono rimasti invariati rispetto a quelli degli anni Cinquanta: grano e arboricoltura in abbandono. Si va verso la zootecnia.
Scheda n. 12 P.R. 935 – Contrada Torremuzza - Bronte • • • •
1 lotto di 5 ettari. Distanza dal centro abitato di Bronte: 11 Km «La giacitura è di collina, con dolci declivi. L’altitudine va da 730 a 760 metri, con una pendenza media del 4%»44. «Il terreno è di natura argilloso-silicea costellato da roccia affiorante, di buona fertilità, ma presenta 15 are di superficie totalmente improduttiva. Le condizioni idrogeologiche sono alquanto precarie, perché il lotto è attraversato e costeggiato da due impluvi arrecanti fenomeni di erosione. È possibile aratura meccanica»45.
Anche per quest’unico lotto viene redatto un progetto di trasformazione d’importo pressoché irrilevante46, nel quale sono previsti lavori di sistemazione idraulico-agraria, che sembrano essere stati realmente eseguiti, fatta eccezione per la costruzione della casa rurale, ma di cui in atto non vi sono segni visibili. Così come non vi è traccia neanche dell’ipotizzata «trasformazione dell’indirizzo culturale da cerealicolo a cerealicolo-zootecnico, integrato da impianti arborei»47 che si pensava di attuare in questo appezzamento. In atto, il terreno risulta in stato di abbandono. Torniamo adesso nell’ennese per analizzare altri comprensori di riforma che propongono aspetti di notevole interesse e suggeriscono ulteriori spunti di riflessione.
44 ERAS, P.R. 935, Relazione agraria per la ripartizione, dattiloscritto, 23 luglio 1957, Archivio ESA di Adrano, p. 2. 45 ERAS, P.R. 935, Progetto di trasformazione fondiario-agraria. Relazione agronomica, dattiloscritto, 27 ottobre 1959, Archivio ESA di Adrano, pp. 1-5. 46 Si tratta di appena 2 milioni di lire, peraltro dimezzati dalla delibera dell’Assessore regionale all’agricoltura del 10 giugno 1960 (Archivio ESA di Adrano). 47 ERAS, P.R. 935, Progetto di trasformazione fondiario-agraria…, cit., p. 4. 79
Scheda n. 13 P.R. 165 – Contrada Scioltabino – Enna • • •
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38 lotti su una superficie di 200 ettari; superficie media dei lotti: 5,3 ettari. Distanza dal centro abitato di Enna: 22 Km. «I terreni giacciono a Nord e a Sud della statale 117 bis. Sono di natura argilloso-calcarea, di medio impasto con tendenza al compatto, poggiano su calcari compatti e sulle arenarie calcaree. Nella parte nord-est e centrale del conferimento (per il 60% circa), i terreni sono profondi e presentano una modesta percentuale di scheletro grossolano. Nella rimanente parte il terreno agrario è poco profondo e, per vaste zone, addirittura assente. In particolare nella particella 9 che comprende i bis dei lotti dall’1 all’11 si nota la presenza di una ingente quantità di rocce affioranti. Massi e rocce affioranti si notano, in quantità, nei lotti n. 14, 15 bis e 16 bis, 26 bis-29 bis e 32 bis»48. «La giacitura è di alta collina, con un’altitudine che va da un minimo di 470 a un massimo di 720 metri sul livello del mare. La pendenza varia tra il 10% e il 20%, raggiungendo alti valori nella zona sud, dove il terreno è dissestato per la presenza di tre grandi valloni […] che raggiungono in taluni punti la profondità di oltre 50 metri»49. Si vedano le figg. 9, 38 e 39. Una conferma indiretta, ma evidente, della notevole ampiezza del feudo dal quale erano stati ritagliati i 200 ettari del conferimento, viene dalla presenza di una grande aggregazione di fabbricati, la Masseria Scioltabino, centro economico del latifondo, lasciato fuori dagli espropri e rimasto nella disponibilità della famiglia patrizia dei Grimaldi, e anche dall’esistenza, all’interno del perimetro del PR, di un consistente patrimonio edilizio, costituito da numerosi fabbricati rurali, alcuni dei quali relativamente ampi e in buone condizioni50.
48 ERAS-Centro Assistenza Assegnatari Enna, P.R. 165, Progetto di trasformazione fondiarioagraria. Relazione generale, dattiloscritto, 20 giugno 1958, Archivio ESA di Enna, pp. 1-2. 49 ERAS, P.R. 165, Relazione agraria per la ripartizione, dattiloscritto, 10 settembre 1954, Archivio ESA di Enna, p. 3. 50 In dettaglio, il quadro edilizio, come si legge nella relazione dei tecnici ripartitori, era il seguente: “1) fabbricato non catastato, ricadente nella part. 40 del F. 202, costituito di quattro stanze di abitazione, una cucina, una stalla per otto capi, due pollai, un porcile e un silo. Il fabbricato, in tre corpi distinti, è di recente costruzione (12 anni circa) e in buone condizioni. 2) F. 202 – part. 12 – costituito da un ambiente adibito a fienile, una stalla e una tettoia con forno. In cattive condizioni. 3) F. 202 – Part. 43 – costituito da una stalla per 28 capi, 2 stanze di abitazione, una cucina con forno. In buone condizioni. 4) F. 202 – Part. 45 – costituito da 1 vano, non pavimentato, 1 stalla per 2 capi, una pagliera. 5) F. 202 – Part. 36 – costituito da un solo ambiente, adibito a fienile. Detto fabbricato ricade nella part. 28, appartenente ad altra ditta. 6) F. 203 – Part. 5 – costituito da due stanzette di abitazione, 1 cucina con forno, una stalla per 10 capi, un pollaio” (Ivi, p. 4). 80
Fig. 35 Enna. PR 165, Contrada Scioltabino. Scorcio panoramico della parte nord del conferimento
Fig. 36 Enna. PR 165, Contrada Scioltabino. Resti di una casa rurale costruita dall’ERAS 81
Fig. 37 Enna. PR 165, Contrada Scioltabino. Il paesaggio agrario della parte sud del conferimento
Fig. 38 Enna. PR 165, Contrada Scioltabino. Vallone nell’area di riforma
Fig. 39 Enna. PR 165, Contrada Scioltabino. Rocce nell’area di riforma 82
Anche per i lotti di questo PR viene redatto dall’Ente di riforma un progetto di trasformazione fondiario-agraria che, considerate le difficili condizioni geomorfologiche dei terreni, pianifica interventi particolarmente onerosi che comportano un impegno di spesa di 156 milioni di lire51, così ripartiti: a. 14 per sistemazioni idraulico-agrarie; b. 102 per costruzone e riparazione di fabbricati rurali; c. 24 per viabilità rurale; d. 6 per approvvigionamento idrico; e. 10 per l’impianto di 1.215 ulivi, 9.887 mandorli, 2.873 fruttiferi, 53.460 barbatelle di vite americana, 1.285 essenze boschive. In particolare, il progetto prevede di realizzare 20 are di vigneto-oliveto in tutti i lotti e, nei 20 sub lotti, l’impianto di un mandorleto “specializzato” (500 piante in quadro per appezzamento), consociato con altri alberi da frutto. Nei terreni meno vocati, impianti di mandorli a sesto sparso e fruttiferi vari. E’ bene rilevare che in questo caso l’ERAS di Palermo non taglia le previsioni di spesa, come fa di norma. Il Piano resta integro e tutti gli interventi programmati risultano realizzati. Anche se, per la verità, di molti di essi, a parte le case, non si vedono attualmente molte tracce.
Fig. 40 Enna. PR 165, Contrada Scioltabino. Casa di nuova costruzione e, in primo piano, vigneto ad alberello impiantato dall’ERAS nel 1960
51 ERAS-Centro Assistenza Assegnatari Enna, P.R. 165, Progetto di trasformazione fondiarioagraria.., cit., pp. 1-6. 83
Fig. 41 Enna. PR 165, Contrada Scioltabino. Casa di tipo residenziale realizzata dall’ERAS e ancora utilizzata
Il modello economico al quale, in questo, come nella quasi generalità dei piani varati nell’ennese, si ispiravano i tecnici dell’Ispettorato agrario e dell’ERAS era quello incentrato su un’azienda agraria ad indirizzo cerealicolo-zootecnico, integrato dagli impianti arborei, che avrebbero dovuto comportare un apprezzabile incremento del reddito d’impresa. Il nuovo ordinamento produttivo, che prevedeva l’immissione della foraggera in rotazione quadriennale, avrebbe altresì reso possibile l’allevamento di un certo carico di bestiame (1-2 capi grossi, qualche ovino e animali di bassa corte) che, oltre ad aumentare le entrate della famiglia dell’assegnatario, avrebbe potuto contribuire, con la produzione del letame, a migliorare le condizioni fisiche e agrobiochimiche del terreno. Di seguito, la riproduzione di due documenti redatti dall’Ispettorato agrario di Enna per due lotti di due diversi Piani di ripartizione che ripetono pedissequamente il modello insediativo appena accennato52. Come si vede nella figura, i due documenti sono sostanzialmente sovrapponibili.
52 Si tratta delle indagini redatte il 20 giugno 1958 per il lotto 36 del PR 165 di Contrada Scioltabino e il 18 giugno 1960 per il lotto 3 del PR 155 di Contrada Mendola. 84
Fig. 42 Indagini sui lotti n. 36 del PR 165 e n. 3 del PR 155, ricadenti nel territorio comunale di Enna
È dunque, questo, uno schema semplice, quanto inesorabilmente datato, fuori tempo rispetto alle più moderne linee di sviluppo del settore agricolo che in quegli anni si venivano affermando anche per le aree più svantaggiate. Quindi assolutamente inefficace. Il paesaggio agrario che si osserva oggi nel territorio di questo PR segnala un quadro colturale abbastanza disomogeneo. In molte zone, infatti, esso appare sostanzialmente invariato rispetto a quello esistente alla fine degli anni Cinquanta, con larga prevalenza dei seminativi e del pascolo e con vaste aree in stato di evidente abbandono. In particolare, questi caratteri si riscontrano con maggiore frequenza nella parte più meridionale del comprensorio, quella tagliata in due, tra il Km. 23 e il Km. 24, dalla S.S. 117 bis «Centrale Sicula», che presentava a metà degli anni Cinquanta, e presenta ancora oggi, le condizioni orografiche e di dissesto di gran lunga più svantaggiate. È la zona che i cartografi dell’Istituto Geografico Militare definiscono «Rocce di Scioltabino», a dimostrazione plastica della estrema difficoltà di svolgervi attività agricole economicamente significative. Ed è la zona nella quale anche gli agronomi dell’Ente di riforma, che hanno redatto il progetti di miglioramento e di trasformazione, trovavano assai problematico riuscire ad insediare, con successo, delle imprese agricole. Se si guarda alla bella cartografia disegnata da quei tecnici nel 1958, che è riportata nella figura seguente, se ne ha una rappresentazione significativa, che non richiede alcun commento. 85
Fig. 43 Enna. PR 165, Contrada Scioltabino. Progetto di trasformazione fondiario-agraria. Corografia
In verità, osservazioni dirette effettuate di recente hanno consentito di accertare che anche in quest’area, in particolare nelle immediate vicinanze della Masseria Scioltabino e in qualche altro pianoro limitrofo, sono state operate interessanti trasformazioni colturali in direzione dell’arboricoltura specializzata (soprattutto uliveto, ma anche mandorleto) e si sono consolidati rilevanti insediamenti zootecnici. Mano a mano che si risale verso Nord, però, lungo la strada vicinale Scioltabino, in direzione delle Contrade Risicallà e Zagaria, il panorama comincia a cambiare: si dirada di molto il pascolo; i seminativi si distendono su ampie superfici caratterizzate da dolci declivi e appaiono ben tenuti (fig. 35); si infittiscono gli uliveti e compaiono anche dei mandorleti. E si fa anche più fitta la maglia insediativa, costituita da molte residenze stagionali, nelle quali il terreno adiacente alla casa, di norma di dimensioni contenute, ha destinazioni quasi sempre extragricole, tranne qualche piccola oasi di uliveto, un po’ di orto e alcuni alberi da frutto, le cui produzioni sono esclusivamente destinate all’autoconsumo familiare. Relativamente, poi, al quadro fondiario che si è venuto consolidando all’interno del perimetro di questo Piano di ripartizione, vi è da dire che la struttura della proprietà presenta i caratteri non uniformi e fortemente contraddittori rispetto alle finalità che si prefiggeva la riforma agraria, che abbiamo già riscontrato in altri territori. Infatti, se 86
da un lato si è registrata una diffusa frammentazione dei lotti, dovuta ai frazionamenti per successioni ereditarie, dall’altro si è affermata una decisa azione di ricomposizione della proprietà, operata da alcuni degli assegnatari originari che hanno via via rilevato diversi appezzamenti abbandonati dai titolari o alienati dagli eredi, dando vita in questo modo ad aziende di significativa ampiezza, con superfici che variano tra i 40 e i 60 ettari. Va infine sottolineato che alla base degli intensi fenomeni di parcellizzazione dei fondi vi è, anche e soprattutto, il consolidarsi di una tendenza, iniziata nella seconda metà degli anni Settanta e non ancora esaurita (e della quale si appena fatto cenno), tesa ad utilizzare le terre della riforma, in particolare quelle ricadenti nella parte più settentrionale del conferimento, per costruirvi delle residenze stagionali, vista la relativa vicinanza della zona con il lago di Pergusa, da cui dista pochi chilometri.
Scheda n. 14 P.R. 606 – Contrade Giannaca e Gelsi Montagna - Enna • • • • • •
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19 lotti su una superficie di 84 ettari; superficie media dei lotti: 4,4 ettari. 16 lotti bis, estesi mediamente 0,9 ettari, localizzati lungo la S.S. 192. Distanza dal centro abitato di Enna: 18 Km «La giacitura è pianeggiante nella parte bassa, mentre nella parte collinare si ha una pendenza media del 14%, compresa tra 350 e 460 metri»53. In molti lotti della parte collinare «si notano frane ed erosioni, dovute allo scorrimento delle acque»54. «I terreni sono di natura varia, passando dal tipo argilloso-calcareo al silicoargilloso-calcareo. Lo strato arabile si presenta profondo, stabile ed è arabile meccanicamente. Sono terreni ottimi per le erbacee, poco idonei per le legnose; solo quelli nella parte bassa dell’appezzamento si presentano mescolati a detriti di rocce calcaree ed arenarie, meno compatti e quindi buoni ad ospitare le piante legnose (vite – mandorlo – olivo e fruttiferi vari)»55. Ordinamento colturale: seminativi di mediocre qualità (2a e 3a classe).
Il progetto di miglioramento, redatto dall’ERAS di Enna, riferito solo ai 16 lotti di Contrada Gelsi Montagna, prevede un complesso di interventi che comportano una spesa di 90 milioni di lire (si veda la fig. 45), che però la scure della sede centrale dell’Ente demolisce inesorabilmente riducendo il tutto ad appena 13 milioni56: a. 8 per le sistemazioni idraulico-agrarie; b. 5 per l’impianto di 818 olivi, 5.022 fruttiferi, 15.700 barbatelle di vite americana, 3.362 essenze forestali. 53 ERAS, P.R. 606, Relazione agraria per la ripartizione, dattiloscritto, 30 agosto 1955, Archivio ESA di Enna, p. 3. 54 ERAS, P.R. 606, Progetto di trasformazione fondiario-agraria. Relazione tecnico-agraria, dattiloscritto, 3 giugno 1958, Archivio ESA di Enna, p. 2. 55 ERAS, P.R. 606, Relazione agraria per la ripartizione.., cit., p. 3. 56 ERAS, P.R. 606, Progetto di trasformazione fondiario-agraria…, cit., pp. 1-7. 87
Fig. 44 Enna. PR 606, Contrada Gelsi Montagna. Il paesaggio attuale dell’area. In basso i ruderi di uno dei fabbricati rurali costruiti nel 1961
Saltano quindi, in questa prima fase, le cisterne, la viabilità e le case. Poi, a marzo 1960, l’ERAS delibera l’approvazione di una perizia suppletiva e di variante che mobilita risorse finanziarie assai più consistenti57: L’inversione di rotta dell’Ente è stata essenzialmente determinata dal diffondersi tra gli assegnatari di un forte malcontento per l’assoluta inadeguatezza del progetto, rispetto allo stato di evidente dissesto dell’area, soprattutto per quanto concerne la necessità di sistemare e regimare il torrente Calderari, la cui esondazione nel dicembre 1959 aveva causato la morte di tre persone e devastato ampiamente il territorio. Questi nuovi interventi prevedono: a. la realizzazione di una stradella interpoderale; b. la rettifica e l’espurgo del torrente; c. la realizzazione di gradoni in cima e di terrazze lungo la dorsale per il consolidamento del terreno e per la piantagione di mandorli, abbandonando i seminativi, dal momento che il grano non sarebbe mai cresciuto nella parte sommitale, perché troppo ventoso; d. la costruzione di 15 prefabbricati rurali, allineati nei lotti bis, nella parte pianeggiante del conferimento, lungo la S.S. 192.
57 ERAS-Centro Assistenza Assegnatari Enna, P.R. 606, Perizia suppletiva e di variante, dattiloscritto, 7 marzo 1960, Archivio ESA di Enna, pp. 1-5. 88
Fig. 45 Enna. PR 606, Contrada Gelsi Montagna. Progetto di trasformazione fondiario-agraria. Planimetria
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Tutti gli interventi progettati risultano essere stati realizzati. Va comunque detto che una ricognizione recente ha permesso di accertare: • che non vi è traccia di mandorleti, mentre avrebbero dovuto esserci 5.000 piante; • che resiste solo qualche sparuto esemplare dei 900 ulivi e delle 3.400 essenze forestali messi a dimora nel 1961; • che non vi è traccia dei 13 vigneti (15.700 barbatelle) piantati nei pressi dei fabbricati rurali; • che esistono solo i ruderi di alcune delle 15 case realizzate nel 1961; • che vi sono stati rari e poco significativi movimenti fondiari; • che si osserva qualche recente tentativo di riconversione colturale verso il pescheto e l’uliveto; • che alcuni fabbricati rurali sono stati sostituiti da residenze di dimensioni assai più grandi e di fattura più ricercata.
Fig. 46 Enna. PR 606, Contrada Gelsi Montagna. Nuova costruzione residenziale nell’area della riforma
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Fig. 47 Enna. PR 606, Contrada Gelsi Montagna. Resti di uno dei fabbricati rurali costruiti dall’ERAS
Fig. 48 Enna. PR 606, Contrada Gelsi Montagna. Nuove costruzioni residenziali nell’area della riforma
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Scheda n. 15 P.R. 19 – Contrada San Cataldo - Enna • • • •
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32 lotti su una superficie di 125 ettari; estensione media dei lotti: 3,9 ettari. Distanza dai centri abitati più vicini: 7 Km. da Villarosa, 13 da Enna. La giacitura è collinare. L’altitudine va dai 340 ai 430 metri. La pendenza è variabile: mediamente è del 15%, con punte del 35%. «I terreni sono a grana fina, poco permeabili e, nella stagione invernale, diventano spesso pantanosi. In molti punti […] si osservano degli smottamenti, degli accenni a franamenti e a fenomeni calanchivi. Un calanco di limitata estensione esiste nella parte confinante con il torrente»58 Ordinamento colturale: seminativo/pascolo.
Il progetto di trasformazione predisposto dalla sede provinciale di Enna conosce lo stesso tormentato iter di molti altri che lo hanno preceduto o che lo seguiranno59. Le opere previste, che richiedono l’impegnativa spesa di 134 milioni di lire, saranno infatti via via ridimensionate fino a lasciare in vita soltanto le sistemazioni idraulicoagrarie (affossature, drenaggi, briglie in gabbioni) e alcuni marginali interventi di sistemazione agraria, ivi compresa la realizzazione di piccoli impianti arborei. Vengono cassati, naturalmente, i finanziamenti per la costruzione dei fabbricati rurali e delle stradelle interpoderali e quelli per le captazioni idriche, che insieme costituivano l’85% dell’investimento inizialmente previsto. Il panorama colturale che si osserva attualmente in quest’area segnala la totale inefficacia di quelle azioni, di cui è persino arduo riconoscere oggi qualche segno visibile sul campo. E dunque l’indirizzo produttivo è ancora quello cerealicolo, affatto invariato rispetto a quello che vi veniva praticato prima degli espropri. Profondamente mutata è invece la struttura della proprietà, che appare molto diversa rispetto a quella nata dalla riforma. Infatti, i 32 lotti del PR in atto risultano nella piena disponibilità di appena tre degli assegnatari originari, i quali, sui 125 ettari del conferimento, hanno insediato aziende di medie dimensioni, estese da 35 a 50 ettari. Siamo in presenza, in questo caso, di un chiaro esempio di ricomposizione fondiaria postriforma, che porta a concludere che qui la riforma agraria si è risolta in una sorta di paradossale ponte tra il vecchio latifondo e un nuovo assetto fondiario di tipo minilatifondistico. Ovvero, come si è già detto all’inizio di questo lavoro, «dal latifondo alla grande proprietà». Fermo qui, per ovvie esigenze di sintesi, l’esame ravvicinato delle vicende che hanno contrassegnato i modi, i tempi e gli effetti della riforma agraria in alcuni piani di ripartizione ricadenti nelle province di Catania e di Enna. È del tutto chiaro che l’analisi fin qui condotta sull’evoluzione dei caratteri economico-agrari e sulle forme dei paesaggi in questi comprensori non pretende, naturalmente, di essere esaustiva né di voler proporre un archetipo valido per tutti i territori siciliani interessati dalla riforma. Vuole piuttosto, e con buone ragioni, offrire un campione convincente, 58 ERAS, P.R. 19, Relazione agraria per la ripartizione, dattiloscritto, 12 febbraio 1953, Archivio ESA di Enna, p. 2. 59 ERAS, P.R. 19, Progetto di trasformazione fondiario-agraria, Relazione tecnica, dattiloscritto, 26 maggio 1956, Archivio ESA di Enna, pp. 1-3. 92
perché largamente rappresentativo, di quella che ritengo essere la forma di gran lunga prevalente che ha contraddistinto le fasi attuative della riforma in Sicilia e ne ha definito gli assetti strutturali, economici e paesaggistici attuali. Del resto, se si considerano i principali elementi di valutazione che stanno alla base della presente ricerca su quale era negli anni Cinquanta e quale è oggi il paesaggio agrario nelle zone prese in esame - ovvero le caratteristiche geomorfologiche e ambientali delle terre, gli indirizzi produttivi, le trasformazioni fondiarie e agrarie realizzate dall’ERAS, lo stato attuale degli ordinamenti colturali e degli assetti fondiari - si può senza dubbio affermare che il quadro d’insieme che si è finora rilevato con maggiore frequenza appare assolutamente simile a quello che si osserva in molti altri Piani di ripartizione, del catanese in particolare, ma soprattutto dell’ennese. Infatti, sulla base di un’approfondita e lunga indagine che abbiamo condotto negli anni sui documenti degli archivi ESA della provincia di Enna, quando gli stessi erano agevolmente consultabili, i cui risultati in questa sede è necessario lasciare sullo sfondo per non appesantire eccessivamente questo contributo, si può tranquillamente affermare che il paesaggio economico-agrario e fondiario fin qui delineato si ritrova, senza apprezzabili differenze, in diversi altri Piani di ripartizione. In particolare, ciò vale, ad esempio, per i 184 ettari, distribuiti sui 53 lotti del PR 120/120s, ricadenti nella Contrada Terre di Chiesa ad Enna; e, sempre nel Comune di Enna, vale anche per i 182 ettari, suddivisi in 40 lotti, del PR 295 delle Contrade Salinella e Volta di Monaco; per i 12 lotti del PR 155, che occupano 50 ettari in Contrada Mendola; per i 9 lotti sui 45 ettari del PR 278 di Contrada Turlimurli; per i 16 lotti sui 70 ettari del PR 104/104s di Contrada Erminio Sottano e per i 9 lotti sui 39 ettari del PR 406 di Contrada Malpasso. Se si guarda, poi, al resto del territorio provinciale, situazioni simili si riscontrano a Calascibetta, nei 337 ettari intercettati dai 61 lotti del PR 195 di Contrada Valle Pagano e nei 162 ettari occupati dai 33 lotti del PR 605 di Contrada Pezzente; ad Aidone, negli 84 lotti distribuiti sui 360 ettari del PR 30 a/b di Contrada Baccarato e nei 107 lotti sui 475 ettari del PR 444 di Contrada Poggio Rosso; a Troina, nei 10 lotti sui 43 ettari del PR 438 di Contrada Calabrò; a Leonforte, nei 123 lotti sui 478 ettari del PR 437/437s di Contrada Bozzetta Montagna; a Nicosia, nei 27 lotti sui 145 ettari del PR 352 di Contrada Ficilino. Anche fermando qui questa arida elencazione di numeri e di contrade, senza scorrere la serie fino in fondo, si vede bene che la quantità dei lotti presi in esame e la loro superficie totale si attestano su valori di assoluto rilievo - 3.500 ettari e 780 lotti - che costituiscono il 38,5% delle superfici e dei lotti assegnati in provincia di Enna e, dunque, rendono il nostro un campione largamente rappresentativo dell’intera realtà provinciale. A maggior ragione, poi, se si considera che i comuni interessati da questa scelta coprono ambiti territoriali abbastanza diversi, per dislocazione geografica e assetti economico-agrari. Chiudo queste riflessioni ricordando, a grandi linee, ciò che è avvenuto dagli anni Sessanta in avanti nell’area del Piano di ripartizione 215 bis, che ricade nel Comune di Gagliano Castelferrato, bellissimo borgo rurale arrampicato su una montagna della zona nord dell’ennese, perché vi ritrovo molti e specifici profili di interesse e, più ancora, perché il paese nel cui territorio questo piano è localizzato propone lo spaccato di una straordinaria storia corale, vissuta con intensa partecipazione da questa piccola comunità dell’interno della Sicilia. 93
Scheda n. 16 P.R. 215 bis – Contrada Todaro - Gagliano Castelferrato • • •
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43 lotti su una superficie di 192 ettari; estensione media dei lotti: 4,5 ettari. Distanza dal centro abitato di Gagliano Castelferrato: 2 Km. «Giacitura collinare con dolci declivi; altitudine media 510 metri. La superficie conferita, causa la natura della roccia poco compatta, si presenta in parte dissestata per il ruscellare delle acque che ne hanno eroso i versanti, dando luogo alla formazione di burroni di cui qualcuno veramente profondo»60. «La natura dei terreni è abbastanza varia: in prevalenza è sabbioso-argillosa, sciolta e addirittura incoerente; nelle zone di fondo valle il terreno si presenta di medio impasto e profondo, mentre nelle aree di monte e mezza costa, a causa dell’intenso dilavamento causato dalle piogge, lo scheletro grossolano prevale sulla terra fine e il terreno diventa pietroso. In alcuni dei tratti più collinari si trova roccia arenaria affiorante»61. Ordinamento colturale: seminativo e seminativo arborato (ulivi e mandorli).
Fig. 49 Gagliano Castelferrato. PR 215 bis, Contrada Todaro. Scorcio panoramico dell’area
60 ERAS, P.R. 215, Relazione agraria per la ripartizione, dattiloscritto, 15 aprile 1954, Archivio ESA di Enna, pp. 3-4. 61 Ibidem; ERAS-Centro Assistenza Assegnatari Troina, P.R. 215 bis, Progetto delle opere di trasformazione fondiario-agraria, Relazione tecnica-agronomica, dattiloscritto, 5 ottobre 1959, Archivio ESA di Enna, pp. 1-10. 94
Nell’area del PR esiste un consistente patrimonio edilizio che, come si rileva dalle relazioni tecniche, è costituito da un grande fabbricato di 1.600 metri quadrati (2 stalle, 9 stanze e una cucina) che viene attribuito in parti equivalenti ai lotti dall’1 al 3; da un caseggiato, di poco meno di 1.000 metri quadrati in «ottime condizioni statiche e molto ampio […] che una volta era il centro aziendale di tutta la proprietà, che è assegnato al lotto 31; dai ruderi di due fabbricati rurali; da quattro case coloniche non catastate e tutte bisognose di riparazioni, attribuite ai lotti 8, 9 , 13 e 25»62.
Fig. 50 Gagliano Castelferrato. PR 215 bis, Contrada Todaro. Stato attuale dell’ex Centro aziendale ricadente nel lotto 31
Fig. 51 Gagliano Castelferrato. PR 215 bis, Contrada Todaro. Resti della casa colonica ricadente nel lotto 3
62 Ivi, p. 3; ERAS, P.R. 215, Relazione agraria per la ripartizione…, cit., p. 5. 95
Come si è già visto in quasi tutti i piani di ripartizione finora analizzati, anche in questo caso l’Ente di riforma elabora un progetto di trasformazione, il cui importo tocca i 70 milioni di lire. In particolare, si tratta di: a. 19 milioni per sistemazioni idraulico-agrarie e per impianti arborei (4.600 ulivi, 3.000 fruttiferi, 74.000 barbatelle di vite). b. 6 milioni per opere di captazione idrica. c. 45 milioni per il riattamento dei fabbricati rurali esistenti e per la costruzione di nuove case. La spesa prevista, come da prassi consolidata, viene ritenuta troppo onerosa dall’ERAS di Palermo e, conseguentemente, viene ridotta a poco più di un terzo, cancellando la realizzazione delle case. Degli interventi risparmiati dai tagli, che sono stati effettivamente realizzati nel 1960-61, rimane ben poco: qualche piccola oasi di vigneto consociato con uliveto e alcuni pozzi. Relativamente agli ordinamenti colturali attualmente praticati nell’area, vi è da dire che, a seguito di una recente ricognizione sui luoghi, si è potuto constatare che in estese porzioni del Piano di ripartizione non si è registrata alcuna modifica, rispetto a quelli tradizionalmente praticati, in quanto vi predominano ancora la cerealicoltura e, in minor misura, il pascolo. E che, nelle zone più difficili e più acclivi, molte superfici appaiono in evidente stato di abbandono e di degrado. Si è invece registrata, in aree di una certa ampiezza, una progressiva trasformazione da un indirizzo prevalentemente cerealicolo (grano e fava in rotazione biennale) ad uno di tipo cerealicolo-zootecnico, come testimoniano l’introduzione della foraggicoltura in avvicendamento e lo sviluppo, in questa come in diverse altre parti del territorio comunale, di una significativa attività zootecnica. Trend, questo, che è stato favorito dall’insediamento nella zona di alcune imprese agricole e zootecniche, che hanno progressivamente allargato le loro dimensioni aziendali ed economiche. Insieme a queste, altre iniziative produttive, meno rilevanti sul piano delle superfici interessate e del peso economico, ma egualmente degne di un qualche rilievo, si sono venute sviluppando nella zona. Si tratta, in particolare, di aziende che hanno puntato sull’arboricoltura specializzata, come testimoniano le aree investite prevalentemente ad uliveto e a mandorleto che punteggiano qua e là il territorio. Più ristrette, ma per nulla trascurabili, oltre a quelle di alcuni vigneti, sono le superfici utilizzate per l’orticoltura specializzata di pieno campo e per la coltivazione del ficodindia, che è pianta spontanea e diffusissima, di antichissimo insediamento in questo comune e che dà frutti dalle eccellenti qualità organolettiche. Passando adesso all’analisi della struttura della proprietà esistente all’interno di questo comprensorio, si può affermare, sulla base dei nostri ultimi rilevamenti, che la stessa è stata interessata da numerosi movimenti fondiari che ne hanno sensibilmente modificato l’assetto originario. Infatti, fatta eccezione per i 3 lotti che sono stati revocati e risultano tuttora nella disponibilità dell’ESA, che li dà in affitto, rilevo che la metà dei rimanenti 40 lotti è in possesso dei primi assegnatari o dei loro eredi, mentre l’altra metà risulta venduta a terzi. Ne è derivato un grande frazionamento degli appezzamenti, che si sono triplicati, passando dalle iniziali 70 particelle alle attuali 220, con un conseguente drastico ridimensionamento dell’estensione media dei lotti che è scesa da 4,5 a 1,5 ettari. 96
Questa imponente frantumazione fondiaria può essere stata originata solo in parte dalle suddivisioni ereditarie. Si spiega invece con il fatto che la zona di cui ci stiamo occupando, essendo assai vicina, quasi contigua con le ultime case del centro abitato di Gagliano, è diventata ben presto la «naturale» area di espansione edilizia del paese. Attività, questa, che si è sviluppata con ritmi sostenuti negli anni Settanta e Ottanta e che ha visto crescere un numero rilevante di nuove case che, come può ben vedersi dalla documentazione fotografica seguente, non possono in alcun modo definirsi né «case rifugio del tipo ridotto»né «fabbricati rurali ad uso residenziale»63. Naturalmente si tratta di costruzioni del tutto lecite e certamente in linea con le prescrizioni amministrative e con la legislazione urbanistica allora vigenti. Resta il fatto, però, che è arduo farle rientrare tra le finalità che si proponeva la legge siciliana di riforma agraria.
Fig. 52 Gagliano Castelferrato. PR 215 bis, Contrada Todaro. Veduta parziale dell’area di riforma. In primo piano alcune delle nuove costruzioni e sullo sfondo l’ex Centro aziendale
63 Sono queste le due tipologie di costruzione previste, volta a volta, dai tecnici dell’ERAS nella redazione dei progetti di trasformazione fondiario-agraria. 97
Fig. 53 Gagliano Castelferrato. PR 215 bis, Contrada Todaro. Nuove costruzioni residenziali nell’area della riforma agraria
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Conclusioni Chiudo questa lunga disamina sui paesaggi della riforma agraria in Sicilia, con alcune brevi considerazioni finali sui tratti fondamentali che l’attuazione della legislazione di riforma ha assunto in quest’ultimo Piano di ripartizione, sul suo impatto sul contesto economico-sociale di riferimento e anche sul tema più generale che sta alla base di questa relazione. So bene che sarebbe superficiale e metodologicamente avventato misurare finalità e obiettivi della riforma agraria rapportandoli alla specificità di una singola realtà comunale, peraltro piccola. A Gagliano Castelferrato è assolutamente evidente che quegli obiettivi sono stati in larga misura mancati e che qui, dunque, la riforma è sostanzialmente fallita. Naturalmente non è stato ovunque né sempre così, in Sicilia. E anche in questa sede ne abbiamo visto alcune eccezioni. Ma la vicenda di Gagliano, sulla quale ci soffermiamo un po’ di più in queste riflessioni conclusive, propone particolari profili d’interesse, derivanti dal suo essere, in qualche modo, ambivalente: da un lato, infatti, appare paradigmatica di situazioni largamente diffuse in Sicilia, ma, al tempo stesso, presenta dei tratti affatto peculiari che ne fanno un unicum in tutta la regione. A questo riguardo, è bene ricordare che anche in questo piccolo comune della Sicilia interna, come ho già avuto modo di rilevare per altre zone, storia agraria e storia dell’industria si sono snodate insieme, intrecciandosi e influenzandosi reciprocamente, nello stesso arco temporale. E le forme così marcate dei cambiamenti paesaggistici e i risultati economici non effimeri prodotti dalla riforma agraria, di cui si è ampiamente detto, ne sono la più chiara conferma. Se guardiamo ai dati dei censimenti della popolazione relativi al ventennio nel quale queste vicende si sono venute svolgendo – gli anni Cinquanta e Sessanta – si osserva una trasformazione formidabile negli assetti sociali, che ha rivoluzionato la distribuzione della popolazione attiva. Con le conseguenze facilmente intuibili che queste dinamiche hanno determinato sul piano economico-sociale e del costume, soprattutto per quel che riguarda la ridefinizione dei ruoli sociali e personali e di quelli interni alle famiglie delle donne e degli uomini di Gagliano. In effetti, se si guardano quei numeri nella loro fredda efficacia, si rileva agevolmente quali siano state le dimensioni e quale la rapidità di quella mutazione. In particolare: • nel 1951, su una popolazione residente di 5.075 unità, gli attivi totali erano 1.830, ossia il 36% dei residenti, e risultavano così distribuiti: 1.500 in agricoltura, che ne intercettava quindi l’82%; 84 nell’industria estrattiva e manifatturiera (4,6%); 75 nelle costruzioni (4%) e 171 nel terziario (9%); • nel 1961 questo panorama demografico si è già notevolmente modificato: rispetto ad una popolazione residente che con le sue 4.846 unità sconta un decremento assai contenuto sul 1951 (-229 abitanti), si registra, di contro, una contrazione più marcata nel numero degli attivi, che scendono da 1.830 a 1.619, fermandosi ad un terzo del totale degli attivi. All’interno di questo processo, il movimento di redistribuzione degli addetti tra i vari settori è molto consistente: in agricoltura gli attivi sono scesi a 955, lasciando per strada ben 545 unità e riducendo di molto la loro incidenza sulla popolazione attiva totale, che precipita al 59%, rispetto all’82% di dieci anni prima. Di questo crollo beneficia essenzialmente il settore delle costruzioni, che balza da 99
75 a 349 addetti (il 21,6%), sull’onda dello straordinario e generalizzato boom edilizio in atto in quel decennio; si mantengono stabili gli attivi nell’industria estrattiva e manifatturiera, 78 unità (il 5% del totale), mentre in decisa crescita risultano gli addetti nel terziario, che raggiungono le 237 unità, pari a circa il 15% della totale attiva; • nel 1971 il quadro cambia ancora e delinea un assetto radicalmente diverso, che si manterrà stabile per molti anni. Su una popolazione residente che, a seguito di un intenso esodo rurale, perde quasi il 10% degli abitanti del 1961, fermandosi a 4.459 unità e tornando poco sopra i livelli dei primi decenni postunitari, si registra una leggera crescita percentuale della popolazione attiva, come testimoniano 1.578 attivi che corrispondono ad oltre il 35% dei residenti. Ma, se i valori assoluti sostanzialmente non mutano, cambia invece, e di molto, la ripartizione degli attivi tra i diversi settori economici: 405 attivi in agricoltura (26% sulla totale attiva) costituiscono la quota più bassa mai toccata prima; così come, di contro, i 527 attivi nell’industria estrattiva e manifatturiera (33%) rappresentano la quota più alta di sempre; crescono anche, e sensibilmente, gli addetti all’edilizia, che raggiungono le 385 unità (24%) e salgono pure, anche se di poco, gli attivi nel terziario, che diventano 261 (17%). Come si vede, agli inizi del decennio degli anni Settanta, la redistribuzione del lavoro tra settori economici e, in particolare qui, a Gagliano, tra uomini e donne è già avvenuta. E segnerà in modo profondo e duraturo economia, cultura e società di questa comunità. Gagliano è il paese del sogno siciliano dello sviluppo legato ai giacimenti di petrolio e di metano. È il paese in cui Enrico Mattei trascorre la sua intensa, ultima giornata di vita in mezzo ad una folla osannante di facce contadine bruciate dal sole. Prima che la sera di quello stesso 27 ottobre 1962 il suo bimotore si schiantasse nelle campagne di Bascapé, in un attentato organizzato da poteri oscuri e malavitosi e dai contorni ancora non del tutto chiariti. Si veda, al riguardo, il bel film di Francesco Rosi. Dopo anni di dure lotte, con le donne in prima fila, su input dell’ENI, nel 1965 apre a Gagliano una grossa fabbrica di confezioni, la LEBOLE, che assume 450 operai, nella quasi totalità donne. L’impatto sull’economia di questo piccolo centro è formidabile. Una massa ingente di salari operai alimenta molti settori economici, facendo lievitare notevolmente i consumi e gli investimenti. E l’investimento nella costruzione della casa è, naturalmente, uno dei primi, tra i più redditizi e ricercati. Dopo lunghe traversie durate oltre un ventennio la fabbrica chiude definitivamente nel 1999. L’illusione industrialista tramonta anche in questo Comune e si porta con sé anche il sogno che aveva animato l’epopea delle lotte contadine per la terra. Che era la terra per lavorare e per vivere. Con tutta evidenza, così non è stato. Né qui né in tante altre parti della Sicilia. Per le ragioni che abbiamo detto e per gli errori e le scelte degli uomini. Resta il fatto che anche quel sogno e quelle speranze tramontate hanno lasciato tracce evidenti sul paesaggio siciliano: sia nel degrado di molte delle aree di riforma ora abbandonate e riaccorpate in nuove forme di «minilatifondi» – e di recente sfregiate da centinaia di pale eoliche e di impianti fotovoltaici - sia in quelle, poche, nelle quali il lavoro degli uomini ha disegnato nuove e affascinanti architetture paesaggistiche. 100
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Fonti d’archivio La documentazione utilizzata nel presente contributo è stata reperita e consultata presso le Sedi provinciali dell’Ente di Sviluppo Agricolo (ESA) di Catania e di Enna o presso le Sedi zonali dello stesso Ente citate nel testo, alcune delle quali, però, in atto risultano inagibili. Copia della documentazione esistente nelle sedi periferiche è comunque conservata presso gli archivi della sede centrale ESA di Palermo.
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La riforma agraria nella storia e nella (recente) storiografia italiana Appunti per una riflessione Emanuele Bernardi
Se la densa fase storiografica che va dagli anni settanta ai primi anni novanta del Novecento relativa alla storia dell’agricoltura, delle lotte contadine e della riforma agraria varata nel 1950 - la legge Sila e la cosiddetta legge “stralcio” - può dirsi conclusa, per le caratteristiche specifiche di quella stagione di studi1, una nuova generazione si è confrontata in tempi più recenti con alcuni aspetti di quella complessa vicenda, fornendo spunti e basi per giungere, forse, ad una più aggiornata interpretazione di quel contraddittorio processo riformatore. In questo breve saggio mi propongo, senza pretesa di esaustività, di individuare i punti maggiormente qualificanti di questa eterogenea massa di studi. Grazie alle fonti conservate presso i National Archives di Washington, sulla scia di accurati lavori relativi al piano Marshall (European Recovery Program, Erp) e al rapporto tra la politica democristiana e quella statunitense2, l’invasività dei nessi esistenti tra il quadro internazionale, nazionale e locale può essere ormai considerata un’acquisizione storiografica. Più specificatamente, oggi conosciamo in quale modo il «vincolo» internazionale ha agito, limitando e allo stesso tempo sostenendo, tramite i fondi Erp, la riforma agraria e l’intervento meridionalistico3. In questo solco, possono essere considerati anche i lavori dedicati al Mezzogiorno, inserito nelle dinamiche più generali della Guerra fredda4, e al contesto internazionale nel quale collocare la stessa 1 P. Bevilacqua (a cura di), Storia dell’agricoltura in età contemporanea, voll. I-III, Venezia, Marsilio, 1989-1991; P. P. D’Attorre, A. De Bernardi (a cura di), Studi dell’agricoltura italiana. Società rurale e modernizzazione, Annali della Fondazione Giacomo Feltrinelli, Anno IXXX (1993), Milano, 1994; G. Nenci, La storiografia italiana, in Sociétés rurales du 20. siècle. France, Italie et Espagne, Rome-École française de Rome, 2004. 2 M. Del Pero, L’alleato scomodo. Gli USA e la DC negli anni del centrismo (1948-55), Carocci, Roma 2001; C. Spagnolo, La stabilizzazione incompiuta. Il Piano Marshall in Italia (1947-52), Carocci, Roma, 2001. 3 E. Bernardi, La riforma agraria in Italia e gli Stati Uniti, Il mulino-Svimez, Bologna-Roma, 2006. 4 Il contributo più maturo è certamente quello di C. Villani, La trappola degli aiuti. Sottosviluppo, Mezzogiorno e guerra fredda negli anni ‘50, Progedit, Bari, 2007, ma si vedano anche M. Gesummaria, Piano Marshall e Mezzogiorno, Mephite, Avellino, 2003; L. Pellè, Il Piano Marshall e la Ricostruzione in Puglia (1947-52), Lacaita, Manduria-Bari-Roma, 2004. 103
riforma agraria, oggetto di attenzione delle diplomazie dei paesi europei (britannica, spagnola, tedesca e francese), oltre che del Vaticano5. In un’ottica comparata e allargata alla dimensione della globalizzazione ago-alimentare, tra gli economisti si è tornati a riflettere sulla storia dell’agricoltura nel Novecento, riconoscendo ancora rilevanza al problema della terra negli anni del secondo dopoguerra: le riforme agrarie, al plurale, secondo le linee abbozzate a suo tempo da Manlio RossiDoria6, sono state «uno dei temi principali che hanno animato internazionalmente il dibattito economico e politico sullo sviluppo»7. La «questione agraria» è stata, a tutti gli effetti, una «questione contadina» dall’enorme rilevanza politica, intrecciatasi alla prima fase della Guerra fredda e ai processi dell’integrazione europea8. Sulla base di una crescente disponibilità di fonti documentarie italiane, la storiografia politica ha sviluppato una nuova riflessione sul «centrismo degasperiano», inteso come fase ben delineata della storia del nostro paese. Da questo punto di vista, contributi e documenti interessanti sono quelli contenuti nei diversi numeri dei Quaderni degasperiani, mentre le biografie dedicate allo stesso De Gasperi consentono di rileggere e ricontestualizzare pure le dinamiche politiche della genesi della riforma fondiaria, in relazione alla politica economica, dell’ordine pubblico e alle scelte fatte per la difesa militare del paese9. L’uscita dei primi quattro volumi dei diari di Amintore Fanfani, ministro dell’Agricoltura dal 1951 al 1953, ha fornito inoltre un indubbio contributo a capire meglio alcuni passaggi importanti di quella parte della storia d’Italia10. Contributi, va ad ogni modo osservato, che non sono stati recepiti in recenti storie dell’Italia repubblicana, a dimostrazione della persistente esistenza di linee di frattura interpretative11. Nell’ultimo periodo, nonostante l’abbondanza delle fonti disponibili, il dibattito esistente sul tema della riforma agraria (fondiaria e dei contratti) nella Democrazia cristiana, nel movimento sindacale (Cgil-Federterra-Federbraccianti, Cisl e Coldiretti) e in quello padronale (Confagricoltura)12, ha scarsamente interessato gli 5 E. Bernardi, Il contesto internazionale della riforma agraria (1947-1950), G. Bonini (in a cura di), Riforma fondiaria e paesaggio. A sessant’anni dalle leggi di riforma: dibattito politicosociale e linee di sviluppo, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2012, pp. 51-64. 6 M. Rossi-Doria, Riforme agrarie, in Enciclopedia agraria italiana, X, Reda, Roma, 1980, pp. 502 e ss. 7 G. Fabiani, Agricoltura-mondo. La storia contemporanea e gli scenari futuri, Donzelli, Roma, 2015. 8 Ivi, p. 181 e ss.; M. De Benedictis, La questione contadina: ieri e oggi, Lezione RossiDoria, in «QA-Rivista dell’Associazione Rossi-Doria», 3-4, 2008, pp. 7-44. Sulla Guerra fredda e l’Italia, cfr. almeno il recente G. Formigoni, Storia d’Italia nella guerra fredda (1943-1978), il Mulino, Bologna, 2016. 9 P.L.Ballini (a cura di), Quaderni Degasperiani per la storia contemporanea, voll. I-IV, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2009-2012; P. L. Ballini, Alcide De Gasperi. Dalla costruzione della democrazia alla «nostra patria Europa» (1948-1954), vol. III, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2009. 10 A. Fanfani, Diari, Volume II 1949-1955, introduzione di P. Roggi, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2011. 11 G. Crainz, Storia della Repubblica, Donzelli, Roma, 2016. 12 Punto di riferimento rimane ancora A. Spinelli, Il ritorno alla democrazia. La Confagricoltura nell’Italia repubblicana, in S. Rogari (a cura di), La Confagricoltura nella storia 104
storici contemporaneisti. Si ripropongono nel complesso i termini della semplice contrapposizione tra un Governo autoritario e repressivo e un movimento contadino democratico; o, in altra direzione, il conflitto nelle campagne addirittura scompare dalla narrazione pubblica. Il settore agricolo, invece, costituisce, come è stato osservato anche tra gli storici più critici verso quella fase della storia repubblicana, «l’unico settore in cui l’impegno riformatore del centrismo ebbe una portata effettiva e si tradusse in provvedimenti destinati a incidere sull’assetto economico del paese e ad innescare processi di trasformazione sociale di notevole entità»13. Guardando a sinistra, in un contesto di rarefazione degli studi sul movimento contadino, vanno segnalati i lavori intorno alle figure di Emilio Sereni, Giorgio Amendola, Giuseppe Di Vittorio, Gerardo Chiaromonte, che consentono per la prima volta di conoscerne nel dettaglio le personalità, gli scritti e l’azione politica, sebbene non abbiano ancora provocato un riesame complessivo dell’azione comunista e sindacale14. Rispetto al contrasto tra Governo e movimenti politico-sociali nelle campagne, una chiave interessante, recentemente proposta, è quella di connettere la risposta riformatrice, che prende forma nei Consigli dei ministri del marzo 1950, con l’inasprimento delle misure di controllo dell’ordine pubblico, adottate nello stesso lasso di tempo, tenendo insieme i due piani dell’azione governativa. La «svolta» riformatrice del VI Governo De Gasperi, in altre parole, è una “pre-condizione” per legittimare l’uso della forza nelle campagne, ancora prima dello scoppio della crisi di Corea. Il restringimento degli spazi della mobilitazione, che colpisce la Cgil come la Cisl, costituì un mezzo per affrontare in termini preventivi un conflitto considerato non transitorio - cioè legato a fattori congiunturali - ma permanente15. Ancora da approfondire è a ben vedere, inoltre, una domanda centrale - posta spesso dalla storiografia: come i soggetti propulsori dell’intervento nel fronte governativo (in particolare il ministro dell’Agricoltura Antonio Segni, la Coldiretti d’Italia, il Mulino, Bologna, 1999. 13 M. G. Rossi, Una democrazia a rischio, in F. Barbagallo (a cura di), Storia dell’Italia repubblicana. Vol. I. La costruzione della democrazia, Einaudi, Torino, 1994, p. 947. Alla riforma agraria, come noto, Paul Ginsborg ha dedicato un intero capitolo nella sua Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi. Società e politica 1943-1988, Einaudi, Torino, 1989, pp. 160-183, soffermandosi poi sugli effetti di lungo periodo del provvedimento, anche in relazione allo spopolamento delle campagne. 14 A. Carioti, Di Vittorio, Il Mulino, Bologna, 2004; G. Di Vittorio, Il lavoro salverà l’Italia. Antologia di scritti 1944-1950, a cura di F. Loreto, Ediesse, Roma, 2007; G. Di Vittorio, Le strade del lavoro. Scritti sulle migrazioni, a cura di M. Colucci, Donzelli, Roma, 2012; G. Cerchia, Giorgio Amendola. Gli anni della Repubblica 1945-1980, Cerabona, Torino, 2009; A. Alinovi et al. (a cura di), Emilio Sereni: ritrovare la memoria, Officine Grafiche F. Giannini, Napoli, 2010; Emilio Sereni, Lettere (1945-1956), con un saggio biografico di G. Vecchio, prefazione di L. Mangoni, a cura di E. Bernardi, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2011; G. Cerchia, Gerardo Chiaromonte una biografia politica. Dai quartieri spagnoli alla Commissione antimafia, Carocci, Roma, 2013; E. Sereni, Diario (1946-1952), introduzione e cura di G. Vecchio, postfazione di T. Seppilli, Carocci, Roma, 2015. 15 Cfr. le intelligenti osservazioni di F. Mazzei, De Gasperi e lo «Stato forte». Legislazione antitotalitaria e difesa della democrazia negli anni del centrismo (1950-1952), prefazione di P. L. Ballini, Le Monnier, Firenze, 2013, pp. 39-42. 105
di Paolo Bonomi e la Dc, insieme al partito repubblicano di Ugo La Malfa) hanno pensato di riorganizzare il blocco sociale di riferimento in conseguenza delle discusse leggi di riforma agraria, nella contrapposizione frontale col Pci e nella controversa contrattazione con l’alleato americano? Affascinante appare verificare l’ipotesi di una convergenza riformista, con l’embrionale formazione di una sorta di gruppo progressista, che andasse al di là delle divisioni partitiche e delle logiche divisive della Guerra fredda, critico verso l’uso generalizzato della forza pubblica perchè favorevole alla mediazione e ad un progetto di stabilizzazione sociale per via democratica16. Una possibilità positiva per alcuni, un rischio per altri - sia dentro la Dc sia nel Pci che nell’amministrazione americana - che convisse con il progetto neocorporativo della Coldiretti e con le istanze politicamente espansive e anticomuniste portate avanti dai partiti al governo, come mostrano alcuni studi, ancora parziali, su Antonio Segni17, e le numerose lettere e i materiali scambiati tra il ministro dell’Agricoltura e il presidente del Consiglio Alcide De Gasperi - in gran parte tuttora inediti18. Se il rapporto tra lo Stato, il governo e i tecnici è stato spesso oggetto di riflessioni, da Leandra D’Antone a Carlo Fumian, contributi originali su alcuni percorsi individuali hanno aperto di fatto altri passaggi nella ricostruzione storica di un periodo così denso di sfaccettature, come la monografia sulla figura e l’azione di Manlio RossiDoria negli anni ‘40-50 del Novecento, partecipe osservatore delle lotte contadine e tecnico di riferimento nella riforma agraria in Calabria, per il governo ma anche per gli osservatori dell’Ambasciata americana a Roma19. Il percorso dei tecnici, nel loro passaggio dal fascismo alla Repubblica, dalla scuola e l’influenza di Arrigo Serpieri al nuovo contesto politico-culturale del dopoguerra, sono esemplificati anche nello studio su Giuseppe Medici20, sebbene il ruolo di questa figura rimanga in sostanza inesplorato, sia rispetto al suo rapporto con De Gasperi, sia nell’attività pubblicistica svolta sul giornale torinese «La Stampa». A conferma 16 Riflessioni in questo senso, erano contenute già nell’acuto saggio di G. Massullo, La riforma agraria, in Storia dell’agricoltura italiana. III. Mercati e istituzioni, a cura di P. Bevilacqua, Marsilio, Venezia, 1991, passim. Ma vedi, più recentemente, anche G. Formigoni, Storia d’Italia nella Guerra fredda, il Mulino, Bologna, 2016. 17 M. Brigaglia (a cura di), Per una storia della riforma agraria in Sardegna, Carocci, Roma, 2004. Sulla figura di Segni e sui cattolici, rimane ancora un punto di riferimento S. Casmirri, Cattolici e questione agraria negli anni della ricostruzione 1943-50, Bulzoni, Roma, 1989. Si veda però anche il recente contributo di A. Mattone, Il ministro Antonio Segni «agrarista». Politica e scienza giuridica nell’elaborazione della riforma fondiaria e della legge sui contratti agrari (1946-1950), in «Studi storici», luglio-settembre 2016, n. 3, pp. 523-575. 18 Depositati presso la Fondazione A. De Gasperi a Roma, sono attualmente presso l’Istituto Universitario Europeo, e di prossima pubblicazione, a cura dell’autore di questo saggio e di P.L. Ballini. 19 E. Bernardi, Riforme e democrazia. Manlio Rossi-Doria dal fascismo al centro-sinistra, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2010; M. Rossi-Doria, Una vita per il Sud. Dialoghi epistolari 1944-1987, a cura di E. Bernardi, prefazione di M. De Benedictis, Donzelli, Roma, 2011. 20 M. Zaganella, Dal fascismo alla Dc. Tassinari, Medici e la bonifica nell’Italia tra gli anni Trenta e Cinquanta, Cantagalli, Siena, 2010; L’agricoltura italiana nei rapporti tra Luigi Einaudi e Giuseppe Medici, a cura di E. Camurani, in «Annali della Fondazione L. Einaudi», volume XLIV, 2010, pp. 172-296 (pubblicato come estratto da Firenze, Olschki, 2011); G. Leone (a cura di), Scritti di Giuseppe Medici, Associazione nazionale bonifiche e irrigazioni, Roma, 2002. 106
dell’interesse esistente all’estero per la riforma agraria italiana, già delineato in un saggio relativo alla stampa straniera21, può essere segnalato poi il recente articolo su Mario Einaudi, attento osservatore dall’America delle vicende interne alla penisola22. Interessanti tentativi di analisi sono stati pure condotti su base territoriale, con una spiccata attenzione per le dinamiche politiche ed economiche, come nei casi della Sardegna23, della Puglia, Lucania e Molise24 o dell’Agro Pontino, ove l’attività dell’ente di riforma locale è presa in considerazione insieme alla Cassa per il Mezzogiorno, nel passaggio dall’agricoltura all’industria quale settore trainante dello sviluppo economico nazionale: spezzettamento delle grandi proprietà fondiarie, bonifiche e infrastrutture costituirono le pre-condizioni per un decollo industriale fatto di crescita e squilibri25. Ambiente sociale, architettura del territorio, spazio rurale e paesaggio sono, infine, temi propri di un approccio che combina la storia con altre discipline e valorizza fonti non documentarie (fotografie, planimetrie, quadri, questionari, ecc.); un approccio che ha consentito di ri-prendere, da altro angolo visuale, la riflessione e la ricerca sulla riforma agraria. Con vari orientamenti e punti di vista, che vanno dagli effetti sociali della riforma, come nel caso interessante del Metapontino26, alla struttura delle realtà rurali toccate dalle trasformazioni indotte dall’azione combinata del governo e del movimento contadino, la riforma è tornata ad essere oggetto vivo d’indagine, anche perché legata alle contraddittorie vicende territoriali del nostro paese, al rapporto problematico tra aree interne e costiere, tra pianura e montagna, tra campagna e città, tra industria e agricoltura27. Nodi irrisolti intorno ai quali, fortunatamente, storia, tecnica e politica 21 F. Nunnari, La riforma agraria italiana e la stampa estera tra informazione e Guerra fredda (1948-1952), in G. Bonini (a cura di), Riforma fondiaria e paesaggio. A sessant’anni dalle leggi di riforma: dibattito politico-sociale e linee di sviluppo, cit., pp. 65-81. 22 A. Mariuzzo, Land reform in the 1950s in Italy and the United States: the thinking of Mario Einaudi, in «Modern Italy», 18 (4), 2013, pp. 355–371. 23 M. L. Di Felice, Terra e lavoro. Uomini e istituzioni nell’esperienza della riforma agraria
in Sardegna, Carocci-Fondazione Antonio Segni, Roma-Sassari, 2005.
24 R. De Leo, Riforma agraria e politiche di sviluppo. L’esperienza in Puglia, Lucania e Molise (1951-1976), Antezza, Matera, 2008. 25 S. Mangullo, Dal fascio allo scudo crociato. Cassa per il Mezzogiorno, politica e lotte sociali nell’Agro Pontino (1944-1961), Franco Angeli, Milano, 2015. Sull’ente Maremma, cfr. anche A. Finodi, La riforma fondiaria degli anni Cinquanta e la frammentazione del latifondo, in M. Caffiero, A. Finodi (a cura di), Il Parco di Vejo: l’identità storica di un territorio, Ente Regionale Parco di Vejo, Campagnano di Roma, 2005, pp. 69-81. Sull’intervento meridionalistico, ad esempio, E. Bernardi, La Cassa per il Mezzogiorno tra sviluppo agricolo e difesa del territorio, in La dinamica economica del Mezzogiorno. Dal secondo dopoguerra alla conclusione dell’intervento straordinario, a cura della Svimez, il Mulino, Bologna, 2015, pp. 335-360. 26 E. Cesareo, A proposito della riforma fondiaria. Per una storia sociale del Metapontino (1950-59), in «Itinerari di ricerca storica», n. 1, 2016, pp. 71-92. 27 G. Bonini (a cura di), Riforma fondiaria e paesaggio. A sessant’anni dalle leggi
di riforma: dibattito politico-sociale e linee di sviluppo, cit.; M. Agnoletti (a cura di), Paesaggi rurali storici. Per un catalogo nazionale, Laterza, Roma-Bari, 2010; G. Bonini, C. Visentin (a cura di), Paesaggi in trasformazione: teorie e pratiche della ricerca a cinquant’anni dalla Storia del paesaggio agrario italiano di Emilio Sereni, prefazione di M. 107
sembrano oggi tornate a parlarsi, per una nuova riflessione in merito al potere pubblico e all’azione dello Stato sul territorio nell’attuazione del dettato costituzionale28. Rispetto a questo quadro, articolato e sfaccettato, in conclusione, si possono segnalare alcuni aspetti ancora inesplorati o non toccati dalla ricerca storiografica. Il primo, più evidente, è la mancanza di una storia della Coldiretti guidata da Paolo Bonomi, su cui rimangono non sviluppati i temi e le coordinate proposte a suo tempo da Guido Crainz e Giovanni Mottura,29 riflesso anche di una debolezza degli studi sulla storia dell’alimentazione e del cibo30; in secondo luogo, l’assenza di una biografia dettagliata del ministro dell’Agricoltura dell’epoca, il già citato Segni, e dei suoi collegamenti/contrasti dentro la Dc, il Vaticano e nel governo; in terzo luogo, di come la Dc, dalla vice-segreteria di Giuseppe Dossetti nel 1950 alla segreteria Fanfani abbia costruito territorialmente una stretta relazione con gli enti della riforma agraria, anche in coordinamento con organismi cattolici, come l’Opera pontificia di assistenza31. Non del tutto chiarite, infine, sono le resistenze alla riforma agraria generale di alcuni rilevanti gruppi economici rappresentati dalla Confindustria, e le attività di mediazione del conflitto sociale esperite dalla Cgil-Federterra guidata da Di Vittorio, soprattutto alla fine del 1949, anche in relazione alla nascita della Cassa per il Mezzogiorno. Questioni che aspettano di essere indagate, foriere di una riconsiderazione delle dinamiche precedenti e successive all’approvazione delle leggi della riforma e, forse, di una rivalutazione del suo complesso significato storico.
Quaini, Compositori, Bologna, 2014. 28 Dal punto di vista giuridico, si veda ad esempio il recente La solidarietà nel dopoguerra: la Riforma agraria nel 1950, Atti dell’incontro di studio, Roma, 19 novembre 2010, a cura di F. Ciapparoni, Aracne, Roma, 2012. 29 G. Crainz, La politica agraria della DC e i rapporti con la Coldiretti dalla Liberazione alla Comunità Economica Europea, in «Quaderni della Fondazione G. Feltrinelli», 1982; G. Mottura, Il conflitto senza avventure. Contadini e strategia ruralista nella storia della Coldiretti, in P. P. D’Attorre e A. De Bernardi (a cura di), Studi dell’agricoltura italiana. Società rurale e modernizzazione, cit., pp. 491-529. 30 In chiave comparata, si vedano a questo proposito gli spunti contenuti nel numero monografico di S. Salvatici (a cura di), Food Security in the Contemporary World, in «Contemporanea», n. 3, luglio-settembre 2015. 31 Si veda, a questo proposito, la circolare della Direzione centrale Dc del 4 giugno 1954, «Organizzazione specializzata del Partito nei comprensori di Riforma Agrari delle Provincie interessate all’applicazione della Legge Stralcio di Riforma Fondiaria», in Archivio storico dell’Istituto Luigi Sturzo (Roma), Dc, Segreteria Politica, sc. 18, f. 13. 108
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Ricostruire la pluralità dei paesaggi della Riforma Agraria nelle Maremme Fonti, metafonti e metodi Nicola Gabellieri
Introduzione Il 21 ottobre 1950, con l’approvazione della Legge Stralcio da parte del parlamento, si aprì la stagione della Riforma Agraria italiana. Le aree della penisola sottoposte alla Riforma vennero suddivise in otto comprensori, affidati ad altrettanti enti di riforma. L’Ente per la Colonizzazione della Maremma Tosco-Laziale, istituito nel febbraio 1951, aveva un territorio di competenza esteso tra la Toscana meridionale e il Lazio settentrionale. I suoi molteplici compiti sono riconducibili al duplice obbiettivo della Riforma: favorire una maggiore giustizia sociale attraverso la redistribuzione della terra e di altre risorse ambientali, e promuovere la modernizzazione agricola. Secondo le relazioni pubblicate periodicamente dall’Ente Maremma per narrare – e celebrare – le proprie attività,1 le grandi proprietà vennero parzialmente scorporate e distribuite per creare piccole aziende agricole a conduzione diretta; gli interventi di miglioramento fondiario produssero cambiamenti nell’uso del suolo, introducendo nuove colture (vigneti specializzati, prati artificiali, orti irrigui) e nuove pratiche agricole (meccanizzazione, specializzazione); gli investimenti infrastrutturali risultarono nella costruzione di edifici, strade, canali, laghi artificiali, acquedotti, nell’impianto di fasce frangivento, nella gestione delle opere di bonifica. Il progredire della Riforma Agraria vide quindi un progressivo intervento sulle strutture fondiarie e una trasformazione delle caratteristiche materiali del paesaggio. Questo articolo intende esplorare le possibilità offerte dalle fonti storiche, in particolare dalla cartografia, per ricostruire e analizzare questo intervento di pianificazione agricolo-paesaggistica e la trasformazione del paesaggio materiale. Sebbene rappresenti ancora un filone relativamente nuovo nel nostro paese, l’applicazione dei Geographic Information Systems alla ricerca storica e geograficostorica2 sui paesaggi rurali ha permesso di sviluppare numerosi lavori di “storia applicata”, in risposta a precise richieste di committenze private o enti pubblici.3 1 Ente Maremma, La riforma fondiaria in Maremma, programmi e prime realizzazioni, Roma 1953; ID., La riforma fondiaria in Maremma 1951-54, Roma-Grosseto, 1955. 2 I. N. Gregory, A Place in History. A Guide to using GIS in Historical Research, Oxford Books, Oxford, 2003. 3 Tra gli altri, M. Agnoletti, The Development of a Historical and Cultural Evaluation 111
Metodologia, fonti e “metafonti”. In questo lavoro, l’applicativo GIS è stato utilizzato con un duplice obbiettivo. In primo luogo, come strumento di organizzazione dei dati raccolti nell’archivio dell’Ente Maremma. In secondo luogo, per vettorializzare e interpretare tali fonti, analizzando statisticamente i dati contenuti nel database e sovrapponendo più livelli cartografici per individuare indizi relativi alle dinamiche di mutamento. Come ogni documento storico, la cartografia non rappresenta una fonte “oggettiva”, e ha necessitato di una adeguata analisi critica, basata sul confronto con altri dati (estratti dalle foto storiche e dalle fonti testuali) e sul riconoscimento degli obbiettivi e degli strumenti del soggetto produttore. Lo studio è stato condotto su due casi studio, la Pianura grossetana (GR) e la Val di Cecina (PI) (fig. 1). La prima corrisponde al comprensorio di quello che diventerà il Centro di Colonizzazione di Marina di Grosseto, la seconda al Centro di Ponteginori. Queste due aree presentavano negli anni Cinquanta diverse caratteristiche ambientali, sociali, economiche, e sono pertanto rappresentative di un territorio eterogeneo come le Maremme.
Fig. 1 Carta di localizzazione dei due casi di studio, la Val di Cecina (Centro di Colonizzazione di Ponteginori) e la Pianura Grossetana (Centro di Colonizzazione di Marina di Grosseto). In nero sono evidenziati i territori dei Comuni sottoposti alla Legge Stralcio che costituiscono la parte toscana del Comprensorio di Riforma Tosco–laziale
Approach in Landscape Assesment, in ID. (a cura di), The conservation of cultural landscapes, CAB, Wallingford-New York, 2006, pp. 3-29; ID., Paesaggio Rurale. Strumenti per la pianificazione strategica, Edagricole, Milano, 2010. 112
Si è quindi scelto di analizzare comparativamente l’uso del suolo e il sistema fondiario con le tre fonti disponibili: i piani di esproprio del 1951, i piani di appoderamento del 1959, il catasto attuale (2013). É stato così possibile individuare e localizzare i maggiori trend di mutamento tra gli anni Cinquanta-Sessanta e i nostri giorni. Tali cambiamenti e le motivazioni che ne stanno alla base sono stati interpretati usando le informazioni ottenute dai documenti scritti. Il primo passo è stato la creazione di un geo-database strutturato in livelli, frutto della trasposizione dei dati archivistici disponibili in formato digitale. Questo processo non consiste in una mera trascrizione, ma anche nella produzione di una fonte nuova, una “metafonte”, e ha implicato una scelta di metodo e una operazione selettiva sui dati.4 File raster Foto aree, 1954 e 1978 Mappe di impianto del Catasto, 1936-52. Cartografie dei progetti, 1951-61 (Piani di esproprio, Piani di appoderamento; Piani di trasformazione fondiaria). CTR Toscana, 1:10.000, 1997
File vettoriali Particellare del Nuovo Catasto Terreni, 2013
Fonti testuali Liste di consistenza, 195155. Relazioni dei progetti, 1951-61 (Piani di appoderamento; Piani di trasformazione fondiaria).
Tab. 1 Schema illustrativo delle fonti integrate nel database GIS
La cartografia è stata digitalizzata a 300 dpi e geo-referenziata usando le CTR attuali5 come base; le informazioni di nostro interesse presenti sulle carte (reticolo particellare, edifici, infrastrutture) sono state trasformati in elementi vettoriali, sotto forma di punti, linee o poligoni. A questi elementi è stato possibile associare un database con attributi estrapolati dalle carte stesse o da fonti testuali. Per identificare le grandi proprietà soggette alla Legge Stralcio, valutarne il valore, scegliere le aree da scorporare e calcolare le indennità, i tecnici dell’Ente Maremma redassero nel 1951 una serie di Liste di consistenza.6 Queste schede erano composte da elenchi di particelle catastali aggregate per proprietà, con associate quattro informazioni: qualità (uso del suolo), classe, reddito dominicale (valore), nome del proprietario. Questi dati sono stati trascritti in tabelle digitali, ed associati al tessuto parcellare vettoriale del Catasto del 1951.
4 J. P. Genet, Source, Metasource, texte, histoire, in F. Bocchi, P. Denley (a cura di), Storia e multimedia, Grafis, Bologna, 1994, pp. 3-17. 5 Liberamente scaricabili dal portale GEOscopio della Regione Toscana tramite servizio WMS. www.regione.toscana.it/-/geoscopio-wms. 6 Archivio Storico della Riforma Fondiaria (ASRF), faldoni vari aggregati per proprietà sotto esproprio. 113
Nome Formato vettoriale Informazioni contenute Particellare del catasto Poligonale Uso del suolo 1951; uso del suolo 2013; proprietario pre-esproprio; proprietario post-esproprio; valore della particella Interventi dell'Ente Puntuale Infrastrutture, edifici e trasformazioni colturali realizzate Lineare Canali e fasce frangivento realizzate Tab. 2 Schema illustrativo delle metafonti prodotte in ambiente GIS
I dati vettorializzati dei piani di esproprio del 1951 sono stati utilizzati per due diverse analisi, una sincronica e una diacronica. La prima è data dalla comparazione tra le statistiche del Centro di Marina di Grosseto e quelle del Centro di Ponteginori, per evidenziare differenze e similitudini tra i due contesti di applicazione della Legge Stralcio. La seconda è data invece dalla comparazione tra il livello del 1951 con due fonti posteriori:7 la prima, costruita con il medesimo metodo del precedente, è rappresentata dalla carta delle proprietà del 1959. Questo confronto ha permesso di evidenziare spazialmente i cambiamenti del sistema fondiario dopo l’esproprio. La seconda è invece una fonte a noi coeva, il catasto particellare attuale (2013), fornito dalla Regione Toscana. In questo caso la comparazione è basata sull’uso e copertura del suolo.8 Per questo è stato necessario definire una adeguata tassonomia, per poter ottenere una confronto leggibile dei dati. Nel caso della carta del 1951, si sono recuperate le categorie utilizzate dai tecnici dell’Ente Maremma, ispirate a quelle del Catasto dell’epoca.9 La complessità della classificazione adottata invece dal catasto corrente, ispirata alla legenda CORINE Land Cover 2000 dell’ISPRA10, ha reso necessaria una semplificazione. La tab. 3 mostra il sistema di conversione adottato; nei casi più incerti, si è proceduto ad una interpretazione della particella tramite le ortofoto del 2012. 7 Una ulteriore operazione di confronto potrebbe essere tentata regressivamente con il Catasto Leopoldino (XIX sec.), operazione già fatta per altre aree toscane. Inter alia, M. Agnoletti, op. cit., 2006; M. Grava, Ricostruire con il GIS, comunicare con WebGIS, Tesi di Dottorato, Tutor Prof. Smurra R., Università di Bologna – Università di Girona, a.a. 2010-11. 8 La comparazione si è limitata al solo uso del suolo essendo le informazioni attuali sulla proprietà o del valore dei terreni coperte dalla privacy. 9 Nel 1950-51 i tecnici dell’Ente verificarono personalmente gran parte delle descrizioni catastali delle particelle. Successivamente, furono i proprietari sotto esproprio a segnalare eventuali incongruenze, cercando di rallentare le operazioni di scorporo. Grazie a questi controlli incrociati, possiamo attribuire alle tabelle dell’Ente un grado di fedeltà maggiore rispetto alle mappe di impianto del Catasto stilate dal 1936 al 1952. Le categorie utilizzate sono: bosco alto fusto, bosco ceduo, edificato (che comprende fabbricato rurale, corte, oratorio, camposanto), frutteto, incolto, oliveto, pascolo (che comprende pascolo, pascolo arborato, pascolo cespugliato), prato, seminativo, seminativo arborato, vigneto. In talune rappresentazioni si è reso necessario accorpare le colture specializzate (frutteto, oliveto, vigneto) per ottenere percentuali di estensione apprezzabili. 10 ISPRA, Analisi conclusive relative alla cartografia Corine Land Cover 2000, Rapporto 130/2010, Roma, 2010. 114
Classi di uso del suolo adottate Categorie uso e copertura del suolo Catasto 2013 Edificato Zone residenziali a tessuto discontinuo e rado Zone residenziali a tessuto continuo Strade in aree boscate Reti stradali e ferroviarie Pertinenza abitativa, edificato sparso Impianti fotovoltaici Depuratori Cantieri, edifici in costruzione Aree verdi urbane Aree ricreative e sportive Aree industriali e commerciali Seminativo Sistemi colturali e particellari complessi Seminativi irrigui e non irrigui Colture temporanee associate a colture permanenti Colture agrarie con presenza di spazi naturali Colture specializzate Vivai Serre stabili Vigneti Oliveti Frutteti e frutti minori Incolto Spiagge, dune e sabbie Paludi salmastre Paludi interne Lagune Prati e pascoli Prati stabili Aree con vegetazione rada Aree a vegetazione boschiva e arbustiva Aree a pascolo naturale e praterie Bosco Boschi misti di conifere e latifoglie Boschi di latifoglie Boschi di conifere Tab. 3 Sistema di semplificazione delle categorie di uso e copertura del suolo del Catasto 2013
Le direttrici di cambiamento dei diversi usi e coperture del suolo per ogni particella tra la fonte del 1951 e quella del 2013 sono state sintetizzate in 7 categorie: “abbandono”, che descrive il passaggio da sistemi agricoli (es. “seminativi”) a incolti; “disboscamento”, che descrive il passaggio da boschi ad altri usi; “edificazione”, che descrive il passaggio da usi rurali, boschi o incolti a aree edificate; “estensivizzazione” che descrive il passaggio da usi intensivi (es. vigneto, prato, oliveto) a seminativi o pascoli generici; si è usata la dicitura “inalterato” quando l’uso del suolo si è mantenuto costante, oppure quando il cambiamento ha riguardato usi del suolo simili; “intensivizzazione”, che descrive il passaggio da seminativi semplici, incolti o pascoli a prati, seminativi irrigui, orti, vigneti, oliveti e frutteti; “rimboschimento”, ovvero il passaggio da usi vari a bosco. Oltre alla comparazione sincronica tra aree e diacronica tra due fonti temporalmente distanti, la ricchezza della documentazione disponibile nell’archivio ha permesso la costruzione di una ulteriore fonte. Tramite vettorializzazione dei progetti esecutivi elaborati dal Centro di Marina di Grosseto dal 1953 al 1963 si sono localizzati tutti gli interventi di realizzazione di edifici, infrastrutture e opere di bonifica nel 115
comprensorio del Centro. Ad ogni elemento sono associate informazioni estrapolate dai progetti come “data di progettazione”, “data di completamento”, “caratteristiche”.11
Analisi Il file vettoriale del Centro di Colonizzazione di Marina di Grosseto è costituito da 439 particelle catastali, con una estensione di 6.356 ettari. Molto più ampia è invece l’area del Centro di Colonizzazione di Ponteginori, costituito da 7.063 particelle per una estensione di 20.463 ha. In ciascuno dei due comprensori sono state mappate 13 proprietà sotto esproprio, con superficie media di 489 ettari per il grossetano e 1.574 per la Val di Cecina. Tra i proprietari si possono numerare società per azioni, borghesia imprenditrice (Gaggia, Tobler) e grandi famiglie nobili locali (Guidi, Della Gherardesca), romane o fiorentine (Chigi, Ginori, Espinassi Moratti). Considerando l’uso del suolo, nel grossetano appare evidente la grandissima estensione dei seminativi, che coprono circa il 72% dell’area considerata; seguiti dal bosco ad alto fusto (prevalentemente pineta) per il 15,30%. Prati, pascoli ed incolti non superano complessivamente il 9%, cifra che potrebbe riflettere una bassa incidenza dell’allevamento nella zona, se non si tenesse in conto che parte del pascolo si teneva sui terreni sottoposti a maggese.12 Nel Centro di Ponteginori, invece, gran parte della superficie era coperta da bosco ceduo (52%), con una consistente parte a seminativo (30%) e poi seminativo arborato e pascolo (entrambi circa 6%). Per entrambe le aree si è elaborata una rappresentazione semplificata, per rappresentare la diffusione spaziale delle colture. Nel caso del Centro di Marina di Grosseto, si è optato per una rappresentazione spaziale a due dimensioni delle colture e delle coperture prevalenti (fig. 2). Partendo dal mare, ai pascoli litoranei succedono la pineta frangivento e i seminativi fino a Grosseto, intervallati da particelle descritte come più intensive, come seminativi arborati, vigneti e oliveti in prossimità delle poche case coloniche. Queste sono localizzate solo in alcune aree, a testimonianza degli investimenti di alcuni dei grandi proprietari ad inizio del Novecento. Il reticolo particellare, regolare e geometrico, è la tipica espressione dei territori di bonifica. Incolti e pascoli, ancora sottoposti a allagamenti periodici, sono localizzati prevalentemente nella parte nord-ovest, in prossimità della Diaccia Botrona, l’area umida sopravvissuta al prosciugamento dell’antico Padule di Castiglione. Fonti orali e descrizioni topografiche mostrano come questa area fosse utilizzata soprattutto per il pascolo o per la caccia “alla botte” degli uccelli migratori.13 Altrettanto indicativa è la posizione dei pascoli in fregio al mare oppure lungo il corso del fiume; studi 11 Per selezionare solo gli interventi realmente effettuati, sono stati presi in considerazione solo i progetti con allegato il documento della Liquidazione finale che ne certifica il pagamento. In secondo luogo, la presenza di ogni edificio e infrastruttura è stata controllata sulle foto aeree del 1978. 12 G. Guerrini (a cura di), Fattorie e paesaggio agrario nel grossetano nel primo ‘900, Editrice il mio amico, Roccastrada, 1994. 13 ASRF, b. DDAAAD 128, Ditta Chigi Sigismondo espropriazione di terreni. 116
pregressi per la Liguria hanno evidenziato che simili sistemazioni sono il risultato di flussi transumanti di breve o lungo raggio, “corridoi” di spostamento verso i pascoli e la pineta litoranei.14
Fig. 2 Rappresentazione semplificata e interpretativa delle coperture e usi del suolo nel Centro di Marina di Grosseto al 1951. Il grafico mostra la ripartizione percentuale delle superfici per uso e copertura del suolo. Elaborazione personale basata sulla carta di uso del suolo delle mappe di impianto catastali
14 A. M. Stagno, Mapas historicos y gestion de los recursos ambientales, «Investigaciones geograficas», n. 53, 2010, pp 189-215; N. Gabellieri, Un repertorio cartografico per la storia di un paesaggio individuale: esplorando la cartografia storica di San Biagio della Cima (Liguria Occidentale), in D. Moreno, M. Quaini, C. Traldi (a cura di), Dal parco “letterario” al parco produttivo, Oltre Edizioni, Sestri Levante, 2016, pp. 161-184. 117
Per il Centro di Ponteginori, data l’importanza dell’altimetria, si è preferito utilizzare un modello di transect, ovvero una sezione che taglia longitudinalmente la valle, riproducendo la morfologia, e riportando su di essa gli areali di preponderanza di alcune colture (fig. 3).
Fig. 3 Rappresentazione semplificata e interpretativa delle coperture e usi del suolo nel Centro di Ponteginori al 1951 in forma di transect che taglia longitudinalmente la Val di Cecina. Il grafico mostra la ripartizione percentuale delle superfici per uso e copertura del suolo. Elaborazione personale basata sulla carta di uso del suolo delle mappe di impianto catastali
Le colture intensive (frutteti, orti, vigneti) si concentrano vicino ai borghi, alle fattorie o alle case mezzadrili; gli uliveti all’altezza della media collina. I fondovalle sono censiti a seminativo o seminativo arborato; su tutti i versanti superiori, e soprattutto su quello meridionale, regna il bosco in regime di ceduo. Queste informazioni mostrano il permanere di una struttura basata su agricoltura estensiva ed integrazione silvopastorale, concretizzata nella forma classica dei “campi ed erba” nel grossetano, in un più complesso alternarsi di bosco ceduo, pascoli, seminativi e colture intensive limitate all’uso mezzadrile nella Val di Cecina. La fig. 4 mostra i cambiamenti nel tessuto delle proprietà nel Centro di Ponteginori, avvenuti tra il 1951 e il 1959. Dei 20.463 ettari delle proprietà interessate dalla Legge Stralcio, ne vennero scorporati 4.805, pari al 23%. Queste terre vennero suddivise in 118
104 quote (estensione media 2,2 ha), e 163 poderi (estensione media di 25,87 ha, ben diversa dalla media dell’intero comprensorio, che corrisponde a 3,57 ha per le quote e 15,3 per i poderi).15 A queste cifre occorre aggiungere una zona pastorale di 145 ha, dove l’appoderamento venne posticipato e i terreni vennero destinati a contratti di affitto o soccida per l’allevamento ovino.
Fig. 4 Centro di Ponteginori, carta delle proprietà coinvolte nel decreto di esproprio (1951) e dei successivi espropri e appoderamento (1959). Ogni nuovo podere o quota istituiti sono contraddistinti da un colore diverso. L’area in verde chiaro rappresenta l’estensione delle proprietà coinvolte nel processo di esproprio ma rimaste ai proprietari originari. L’area in giallo–arancione risulta espropriata ma non è stato possibile reperire informazioni riguardo all’appoderamento. Elaborazione personale basata sui Decreti di Esproprio e sui Piani di Appoderamento
La fig. 5 rappresenta i terreni espropriati e il nuovo sistema di appoderamento nel territorio del Centro di Marina di Grosseto. Dei 6.356 ettari vennero sottoposti a scorporo 2.602, pari al 40%. Queste terre vennero suddivise in 84 quote (estensione media 4,34 ha) e 183 poderi (estensione media 12,86 ha).
15 Ente Maremma, Ufficio statistica e studi, Notiziario statistico n. 9, 1960. 119
Fig. 5 Centro di Marina di Grosseto, carta delle proprietà coinvolte nel decreto di esproprio (1951) e dei successivi espropri e appoderamento (1959). Ogni nuovo podere o quota istituiti sono contraddistinti da un colore diverso. L’area in grigio rappresenta l’estensione delle proprietà coinvolte ma rimaste ai proprietari originari. Elaborazione personale basata sui Decreti di Esproprio e sui Piani di Appoderamento
Per quanto concerne la ricostruzione degli interventi di trasformazione, la dettagliata documentazione disponibile ci permette di localizzare topograficamente ogni intervento. La fig. 6 mostra la mappatura di questi lavori nella pianura grossetana, 120
classificati in canali, frangivento, case, strade e ponti edificati o ristrutturati, allacciamenti agli acquedotti o costruzione di pozzi, impianti di oliveti, vigneti e colture irrigue, opere di rimboschimento. Nel caso dell’insediamento sparso,16 si è passati in circa cinque-sei anni dalla presenza di sole 53 unità abitative a 168, con un tessuto insediativo distribuito omogeneamente. Successivamente, l’urbanizzazione ha riguardato essenzialmente l’espansione degli abitati di Marina o della periferia di Grosseto (fig. 7).
Fig. 6 Carta degli interventi edilizi e di trasformazione fondiaria compiuti dall’Ente Maremma nel territorio del Centro di Colonizzazione di Marina di Grosseto dal 1951 al 1961. Elaborazione personale basata sui Piani di Appoderamento, sui Piani di Trasformazione Fondiaria e sui Piani di Bonifica
La comparazione tra la carta catastale degli usi del suolo pre-Riforma con quella attuale ha permesso di individuare gli effetti della trasformazione fondiaria e dei cambiamenti nel sistema della proprietà sulle coperture e usi del suolo. A fronte di una prevalenza di “inalterato”, è stato possibile identificare areali dove alcune tendenze risultano prevalenti (figg. 9 e 10). Quante di queste trasformazioni siano riconducibili alla stagione della Riforma è una domanda a cui è arduo rispondere; occorre infatti considerare gli effetti dell’esodo rurale o l’influsso della Politica Agricola Comunitaria.17 La comparazione permette però alcune osservazioni: nella Pianura 16 Per la progettazione delle opere insediative della Riforma in Maremma, R. Toman, La casa rurale nel comprensorio di Riforma della Maremma Tosco-laziale, Ente Maremma, Grosseto, 1958. Per un recente studio sul comune di Grosseto M. De Bianchi, L. Seravalle, Le costruzioni rurali della Riforma Fondiaria nella Maremma grossetana degli anni Cinquanta, Comune di Grosseto, Grosseto, 2011. 17 N. Gabellieri, The Set Aside Programme as self-criticism of the CAP; the Province of Pisa case study, in «Scienze del territorio», n. 2, 2014, pp. 205-14. 121
Grossetana, i terreni della Riforma sono rimasti estranei a processi di abbandono, estensificazione o urbanizzazione. In generale, le nuove proprietà sono quelle dove più forti sono state le intensificazioni delle colture. Una tale correlazione diretta non è invece riscontrabile per la Val di Cecina. In questo caso, l’intensificazione è avvenuta prevalentemente nei fondivalle, siano essi stati espropriati o no. Sui poderi posti sui rilievi, invece, si assiste sia a processi di riforestazione sia di abbandono e estensificazione. Date diverse condizioni originarie ma anche diversi rapporti con gli attori locali e diversa disponibilità delle risorse ambientali, l’Ente Maremma scelse deliberatamente la strategia di abbandonare il modello intensivo per privilegiare nuove alternative, quali ad esempio l’ampliamento dei pascoli.18
Fig. 7 Carta di localizzazione e periodizzazione degli edifici rurali presenti nel territorio del Centro di Colonizzazione di Marina di Grosseto nel 1997, per il riconoscimento degli interventi dell’Ente Maremma. Gli edifici sono stati localizzati sulla CTR del 1997 e sul Catasto del 2013, e tramite confronto con le Mappe di impianto del Catasto (1951), le foto aeree (1954–1978) e i Piani di Appoderamento dell’Ente Maremma, sono stati classificati come riconducibili all’Ente Maremma, precedenti al 1950 e posteriori al 1963
18 N. Gabellieri, Progettare “un pecorino sano, di tipo medio, adatto alle esigenze del consumatore moderno”; L’Ente Maremma e la transizione dalla pastorizia all’ovinicoltura stanziale (1951-64), in A. Martinelli (a cura di), Montagna e Maremma, il paesaggio della transumanza in Toscana, Felici, Pisa, 2014. 122
Fig. 8 Carta di localizzazione e periodizzazione delle particelle a vigneto presenti nel territorio del Centro di Colonizzazione di Marina di Grosseto al 2013 per il riconoscimento degli interventi dell’Ente Maremma. I vigneti sono stati localizzati sul Catasto del 2013, confrontati con le Mappe di impianto del Catasto (1951), le foto aeree (1954–1978) e i Piani di Appoderamento dell’Ente Maremma
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Fig. 9 Carta esemplificata delle trasformazioni nell’uso e copertura del suolo tra Mappe di impianto del Catasto del 1951 e Mappe del Catasto 2013 nel territorio del Centro di Marina di Grosseto. Le trasformazioni a livello di particella catastale sono state aggregate per aree omogenee. Queste aree sono state sovrapposte alla delimitazione dei terreni espropriati
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Fig. 10 Carta esemplificata delle trasformazioni nell’uso e copertura del suolo tra Mappe di impianto del Catasto del 1951 e Mappe del Catasto 2013 nel territorio del Centro di Ponteginori. Le trasformazioni a livello di particella catastale sono state aggregate per aree omogenee. Queste aree sono state sovrapposte alla delimitazione dei terreni espropriati
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Conclusioni Negli ultimi anni, studiosi come Quaini hanno invocato la rinascita di una geografia storica con «vocazione progettuale e dunque proiettata sul futuro».19 La legittimazione di tale ruolo nella programmazione territoriale è stato ad esempio il riconoscimento del territorio come «prodotto storico», da parte della Società dei Territorialisti.20 Per la Toscana, l’elaborazione del Piano Paesaggistico (2010-15) ha costituito l’occasione per mobilitare un ampio fronte accademico – urbanisti, agronomi, ma anche storici, archeologi, geografi – per rileggere la stratigrafia dei paesaggi regionali e fornire alle istituzioni quadri conoscitivi come base per gli intenti pianificatori e legislativi. Parte degli elaborati del Piano è un catalogo in forma di schedatura, curato da Guarducci, dei Paesaggi rurali storici della Toscana. Una scheda è stata dedicata al “Paesaggio della Riforma Agraria”.21 Localizzato nella «Maremma pianeggiante e collinare», vede come caratteristiche la formazione del ceto della piccola proprietà diretto-coltivatrice (caratteristiche socio-economiche); la diffusione di alcune migliaia di poderi di piccole dimensioni gestiti a conto diretto e delle colture promiscue e specializzate e dell’allevamento (c. paesistico-agrarie); la diffusione dell’insediamento sparso a trama fitta, dei borghi di servizi e degli impianti di trasformazione, e l’intensificazione della rete di canali e frangivento (c. insediative). Raccogliendo un invito che gli stessi autori rivolgono nel testo,22 mi sembra opportuno ridiscutere questa definizione di “paesaggio della Riforma” per arricchirne la lettura. Lo studio illustrato nei precedenti paragrafi ci permette infatti alcune conclusioni: gli effetti della Riforma sull’uso del suolo sono riassumibili in una riduzione dell’incolto, un aumento dei boschi, un notevole incremento dell’oliveto, del vigneto e del frutteto, un raddoppio degli orti; eppure, ad esclusione di alcune aree dove l’impegno è stato più massiccio, essa non è stata in grado di rivoluzionare il preesistente ordinamento cerealicolo-zootecnico delle aziende, limitandosi a alterarne le proporzioni. Altro risultato che emerge è come essa sia stata capace di tamponare, nei decenni successivi, l’abbandono degli usi agricoli del suolo a fronte di direttrici come l’urbanizzazione e l’abbandono conseguenti al boom industriale, edilizio e turistico, alle politiche agricole europee e all’esodo rurale. Osservare le diverse direttrici di cambiamento tra la collina e il piano consente di mettere in discussione il preteso effetto di omogenizzazione e eguale sviluppo perorato nei piani dei primi anni Cinquanta. Ben diversi furono gli effetti nel Grossetano e in Val di Cecina. Se il primo corrisponde ad un’area generalmente afferente al “modello 19 M. Quaini, Cartografie e progettualità: divagazioni geostoriche sul ruolo imprescindibile della storicità, in E. Dai Prà (a cura di), La cartografia storica da bene patrimoniale a strumento progettuale, Nuova Cultura, Roma, 2010, pp. 21-34, p. 21. 20 A. Magnaghi, Il progetto locale. Verso la coscienza di luogo, Bollati Boringhieri, Torino, 2000, p. 16. 21 A. Guarducci, I paesaggi rurali storici della Toscana, [2015], http://www.regione.
toscana.it/-/piano-di-indirizzo-territoriale-con-valenza-di-piano-paesaggistico.
22 «Tra i vari periodi, gli studiosi devono provvedere all’individuazione [...] dei momenti salienti e significativi, riguardo ai radicali cambiamenti appostati all’organizzazione territoriale». A. Guarducci, L. Rombai, L’indagine geostorica, in A. Marson (a cura di), La struttura del paesaggio. Una sperimentazione multidisciplinare per il Piano della Toscana, Laterza, Bari, 2016, pp. 61-82, p. 72. 126
classico”, nel secondo i minori investimenti, i meno pervasivi indirizzi colturali innescati e dinamiche quali la colonizzazione pastorale, hanno comportato una mutazione del paesaggio più frammentata e disomogenea; hanno inoltre favorito tendenze generali quali la concentrazione dei coltivi intensivi nei fondovalle e la riforestazione e il ritorno al pascolo dei rilievi. Alla luce di queste dinamiche, appare chiaro come lo schema paesaggistico limitato al solo modello generico di piccole aziende meccanizzate a coltivazione e allevamento intensivo sia insufficiente per rappresentare gli effetti dell’Ente Maremma sul paesaggio. Quello che piuttosto mi sembra opportuno proporre è il riconoscimento di una pluralità di paesaggi riconducibili alla Riforma Agraria. Il database costruito ci consente anche di individuare e mappare ogni singolo elemento paesaggistico risalente all’epoca della Riforma fondiaria. Ad esempio, la figura 8 mostra i vigneti attualmente esistenti che sono stati costruiti o impiantati dall’Ente Maremma dal 1951 al 1963 a Marina di Grosseto, mentre la fig. 7 periodizza gli edifici rurali, dividendoli tra pre-Riforma, edifici della Riforma e post 1965. È quindi possibile identificare con precisione topografica l’eredità dell’Ente Maremma nel paesaggio attuale. Data la complessità dei paesaggi individuali, e la ricchezza della documentazione a disposizione, ci sembra opportuno incoraggiare ogni operazione di restauro o valorizzazione che recuperi, una volta una volta individuate le tendenze generali del comprensorio, la storia individuale di ogni singola proprietà e appezzamento utilizzando un livello micro-aziendale o topografico e l’incrocio di ogni fonte disponibile.
Bibliografia Agnoletti M., The Development of a Historical and Cultural Evaluation Approach in Landscape Assesment, in ID. (a cura di), The conservation of cultural landscapes, CAB, Wallingford-New York, 2006, pp. 3-29. Agnoletti M., Paesaggio Rurale. Strumenti per la pianificazione strategica, Edagricole, Milano, 2010. De Bianchi M., Seravalle Luca, Le costruzioni rurali della Riforma Fondiaria nella Maremma grossetana degli anni Cinquanta, Comune di Grosseto, Grosseto, 2011. Ente Maremma, La riforma fondiaria in Maremma, programmi e prime realizzazioni, Roma, 1953. Ente Maremma, La riforma fondiaria in Maremma 1951-54, Roma-Grosseto, 1955. Ente Maremma, Ufficio statistica e studi, «Notiziario statistico» n. 9, 1960. Gabellieri N., Progettare “un pecorino sano, di tipo medio, adatto alle esigenze del consumatore moderno”; L’Ente Maremma e la transizione dalla pastorizia all’ovinicoltura stanziale (1951-64), in Martinelli A. (a cura di), Montagna e Maremma, il paesaggio della transumanza in Toscana, Felici Edizioni, Pisa, 2014. Gabellieri N., The Set Aside Programme as self-criticism of the CAP; the Province of Pisa case study, in «Scienze del territorio», n. 2, 2014, pp. 205-14. Gabellieri N., Un repertorio cartografico per la storia di un paesaggio individuale: esplorando la cartografia storica di San Biagio della Cima (Liguria Occidentale), in Moreno D., Quaini M., Traldi C. (a cura di), Dal parco “letterario” al parco 127
produttivo, Oltre Edizioni, Sestri Levante, 2016, pp. 161-184. Genet J.P., Source, Metasource, texte, histoire, in Bocchi F., Denley P. (a cura di), Storia e multimedia, Grafis, Bologna, 1994, pp. 3-17. Grava M., Ricostruire con il GIS, comunicare con WebGIS, Tesi di Dottorato, Tutor Prof. Smurra R., Università di Bologna – Università di Girona, a.a. 2010-11. Gregory Ian N., A Place in History. A Guide to using GIS in Historical Research, Oxford Books, Oxford, 2003. Guarducci A., I paesaggi rurali storici della Toscana, http://www.regione.toscana. it/-/piano-di-indirizzo-territoriale-con-valenza-di-piano-paesaggistico. Guarducci A., L. Rombai, L’indagine geostorica, in A. Marson (a cura di), La struttura del paesaggio. Una sperimentazione multidisciplinare per il Piano della Toscana, Laterza, Bari, 2016, pp. 61-82. Guerrini G. (a cura di), Fattorie e paesaggio agrario nel grossetano nel primo ‘900, Editrice il mio amico, Roccastrada, 1994. ISPRA, Analisi conclusive relative alla cartografia Corine Land Cover 2000, Rapporto 130/2010, Roma, 2010. Magnaghi A., Il progetto locale. Verso la coscienza di luogo, Bollati Boringhieri, Torino, 2000. Quaini M., Cartografie e progettualità: divagazioni geostoriche sul ruolo imprescindibile della storicità, in Dai Prà E. (a cura di), La cartografia storica da bene patrimoniale a strumento progettuale, Nuova Cultura, Roma, 2010, pp. 21-34. Stagno A. M., Mapas historicos y gestion de los recursos ambientales, «Investigaciones geograficas», n. 53, 2010, pp. 189-215. Toman R., La casa rurale nel comprensorio di Riforma della Maremma Toscolaziale, Ente Maremma, Grosseto, 1958.
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Dalla riforma agraria al capolarato del XXI sec.
Francesco Di Bartolo
Il tema della riforma agraria è stato al centro di un nutrito dibattito1 che nel tempo si è esaurito. L’attenzione ai nodi dell’industrializzazione-deindustrializzazione, dei servizi hanno di fatto, relegato ai margini un tema che oggi viene riproposto sotto la lente degli storici dell’economia e dell’ambiente. In realtà la riforma agraria resta una grande questione nazionale aperta e una miniera di conoscenze sui paesaggi depositate in archivi ancora inesplorati. Studiare le carte del paesaggio italiano significa delinearne gli orizzonti delle memorie, delle fratture e rimarcarne i possibili destini culturali. In particolare la Riforma fu uno spartiacque non tanto per i risultati ottenuti in termini di miglioramenti colturali, ma per il modo con cui essa fu applicata. A tal proposito vi furono coloro i quali sostennero l’esistenza, nei fatti, di una distanza enorme tra gli originali piani di attuazione e le sue distorte applicazioni2. Non ultimo, in ordine di importanza, il caso siciliano del secondo dopoguerra con più riforme agrarie che confliggevano tra loro. Proprio nel 1948 un quotidiano romano pubblicava un articolo sui motivi che paralizzavano le procedure di esproprio in Sicilia: «Esistono Enti, come l’Opera Nazionale Combattenti, come l’Ente di Colonizzazione del Latifondo Siciliano, e altri minori già attrezzati tecnicamente e giuridicamente e largamente sperimentati, proprio per questa opera di bonifica, di colonizzazione, di 1 G. Barone, Stato e Mezzogiorno (1943-1960). Il “primo tempo” dell’intervento straordinario, in F. Barbagallo (a cura di), Storia dell’Italia Repubblicana, vol. I, Einaudi, Torino, 1994; INSOR, La riforma fondiaria trent’anni dopo, F. Angeli, Milano, 1979; G. Barbero, Riforma agraria italiana. Risultati e prospettive, Feltrinelli, Milano, 1960; P. Pezzino, La riforma agraria in Calabria. Intervento pubblico e dinamica sociale in un’area del Mezzogiorno,1950-1970, Feltrinelli, Milano, 1977; R. De Leo, Riforma agraria e politiche di sviluppo: l’esperienza in Puglia, Lucania e Molise (1951-1976), Antezza, Matera, 2008; K. Russel, Land reform: the Italian experience, Butterworth, London, 1973; S. Tarrow, Partito comunista e contadini nel Mezzogiorno, Einaudi, Torino, 1972; E. Bernardi, La riforma agraria in Italia e gli Stati Uniti. Guerra fredda, Piano Marshall e interventi per il mezzogiorno durante il centrismo degasperiano, Il Mulino-Svimez, Bologna, 2006; M. Rossi Doria, Dieci anni di politica agraria nel mezzogiorno, L’Ancora del mediterraneo, Napoli, 2004; G. Massullo, La riforma agraria, in P. Bevilacqua (a cura di), Storia dell’Agricoltura in Italia in età contemporanea, v. 3, Marsilio, Venezia, 1993. Per la Sicilia si veda, R. Piazza, La legge Milazzo del 1950 nel dibattito parlamentare e nei suoi effetti sull’agricoltura siciliana, in «Asso», 1972, fasc. III, pp. 486-525. 2 M. Rossi Doria, Scritti sul Mezzogiorno, Einaudi, Torino, 1982. 129
formazione di proprietà contadina, e si lasciano inattivi; anzi, si afferma da alcuni, si vogliono lasciare inattivi, in attesa che muoiano di inedia»3. Il riferimento al contesto politico nazionale era evidente. La riorganizzazione delle istituzioni e degli enti pubblici sull’asse politico DC e PCI-PSI avrebbe penalizzato, in materia agraria, le iniziative già esistenti, considerate vecchi arnesi dell’età liberale e sopravvissuti al regime fascista. La decisione di intervenire con altri strumenti legislativi penalizzò, tuttavia, maggiormente la Sicilia, dove il combinato della promulgazione della legge di riforma agraria e dell’autonomia giuridica generò numerosi conflitti di competenza e di attribuzione in materia di trasformazione agraria tra l’Ente di Riforma Agraria e gli altri enti operanti nel recente passato. Si giunse al punto in cui su molte aziende agrarie siciliane operavano contemporaneamente le leggi di esproprio di riforma agraria e il regolamento legislativo dell’Opera Nazionale Combattenti, dando luogo a duplici procedimenti di esproprio contro gli stessi proprietari e a conflitti tra l’Eras e l’Onc. La storia della riforma agraria in Sicilia è, dunque, piena di contenziosi dei proprietari che si appellavano alle corti dello Stato per evitare l’esproprio delle terre di quell’ente e viceversa. Si giungeva al paradosso che i proprietari si appellavano per legittimare gli espropri dell’Eras contro quelli dell’Opera4. Tali contenziosi spesso sfociavano anche in giudizi di competenze Stato-Regioni. Più in generale, la riforma fu attuata fuori tempo massimo. Essa sarebbe stata concepibile immediatamente dopo l’Unità e nel mezzo del processo di nation building, dove era necessario ricomporre le molteplici fratture del Paese: accanto alla lingua, all’istruzione, al fisco, all’esercito, sarebbe stato necessario rimodellare, in una programmazione nazionale e centralizzata, anche l’assetto dei suoli. Quest’ultimo aspetto è stato solo in parte affrontato durante il fascismo. Prima e dopo, grandi dibattiti ideologici e poca operatività. Chi doveva compiere la riforma? Negli anni successivi alla seconda guerra mondiale, lo Stato si convinse che era necessario, come già era accaduto nel primo dopoguerra, soddisfare le richieste che provenivano dalla gran massa di contadini. La chiave decisiva che riattivò la mobilitazione politica delle masse nelle campagne fu la legislazione agraria dei decreti Gullo-Segni nel biennio 1944-19465. Essa consentì una risposta immediata alle emergenze scaturite dalle ribellioni contro le leggi dell’ammasso di Stato e dell’occupazione spontanea delle terre, segno evidente dello squilibrio tra demografia e risorse. La parola d’ordine fu quella di distribuire la terra piuttosto che, in un primo momento, bonificarla e trasformarla, e poi successivamente procedere a una redistribuzione. Una prospettiva in cui persino l’opzione liberale di Luigi Einaudi si trovava d’accordo. Infine, non se ne fece più nulla, per la paura, forse, di vedere lo Stato gestire direttamente, come nei 3 Incominciare, in «Il Messaggero», Roma 27 aprile 1948. 4 F. Di Bartolo, Nel latifondo siciliano. La violenta trasformazione del feudo Polizzello 19201964, Vme, Catania, 2014. Postfazione di Emanuele Macaluso. 5 G. Barone, Stato e Mezzogiorno, op. cit. p. 325. Sulla legislazione agraria del secondo dopoguerra, A. Rossi Doria, Il ministro e i contadini. Decreti Gullo e lotte nel mezzogiorno 1944-1949, Bulzoni, Roma, 1983; F. Renda, Lotte sociali nelle campagne e provvedimenti di politica agraria dall’armistizio 1943 alla prima legislatura repubblicana, in «Annali dell’Istituto Cervi», n. 3, 1981, pp.13-48; E. Bernardi, Il Governo Bonomi e gli angloamericani. I “decreti Gullo” dell’ottobre 1944 come momento della politica nazionale e delle relazioni internazionali, in «Studi Storici», n. 4, 2002, pp. 1105-1146. 130
paesi dell’arcipelago sovietico, grande aziende agrarie. Così prevalse la logica della distribuzione quasi indiscriminata: pochi ettari (scarsi) ai contadini che non avevano la forza economica per impiantare un granché e per condurli in maniera intensiva, tranne qualche rara eccezione. Conosciamo i limiti della riforma6: esiguità delle terre, poco fertili e prive di infrastrutture per cui prima era necessario attuare una serie di opere di bonifica; lentezze burocratiche, scarse capacità economiche delle aziende. Numerosi contadini e braccianti divennero proprietari con pagamenti triennali di vari lotti di terreno con una estensione di circa 2-3 ettari. Ciononostante, la riforma agì solo parzialmente poiché le operazioni che la riguardavano erano circoscritte ai soli ambiti dei comprensori di riforma che, in estensione, erano limitati rispetto alla quantità avanzate dai richiedenti. Difatti, alla legge di riforma operarono le leggi per la formazione della piccola proprietà contadina varate nel 19497. L’azione interventista dello Stato sul mercato fondiario aveva stimolato la compravendita diretta tra proprietari e contadini superando di gran lunga il numero delle terre soggette alla riforma. Ciò comportava un processo selettivo che avrebbe avvantaggiato i coltivatori diretti più benestanti ed escluso le grandi masse dei contadini poveri8. A metà degli anni Cinquanta, si incoraggiò la vendita privata a scapito della riforma agraria con la proposta di legge siciliana per un prestito di 30 miliardi da destinare all’acquisto di terra9. Contro i piani di trasformazione e i decreti di scorporo previsti dalla legge di riforma agraria i proprietari ottenevano dal governo il riconoscimento delle vendite abusive. Sul versante dell’obbligo delle trasformazioni fondiarie furono emanati dei decreti regionali che sancivano la incompatibilità di rapporti tra l’esecuzione del piani di trasformazione e i rapporti contrattuali esistenti di mezzadria o di piccolo affitto, col risultato che migliaia di piccoli contadini furono espulsi dalla terra10. Nel 1956 su una dotazione dell’ERAS di 80 miliardi, ne erano stati spesi appena 10 miliardi. Così mentre i capitoli giacevano inutilizzati presso gli istituti di credito bancario, crescevano i debiti in cambiali degli assegnatari nei confronti dell’ERAS, per le anticipazioni effettuate in sementi, concimi chimici e lavori di motoaratura. Questa paradossale condizione portò centinaia di assegnatari a ricorrere al credito usuraio per avviare il ciclo produttivo delle loro terre (sementi e concimi) e per sfamarsi in attesa del raccolto.
6 A riguardo esiste una copiosa letteratura storica anche se manca uno studio analitico sulla Sicilia. Istituto nazionale di sociologia rurale INSOR, La riforma fondiaria trent’anni dopo, op. cit.; G. Barbero, Riforma agraria italiana. Risultati e prospettive, op. cit.; M. Rossi Doria, Dieci anni di politica agraria nel mezzogiorno, op. cit. 7 Si tratta dei decreti legislativi 24 febbraio 1948 n.114 e 5 marzo n.121 1948. Il primo stabiliva provvidenze a favore della piccola proprietà contadina, il secondo istituiva una speciale Cassa per l’erogazione di mutui trentennali a favore dei coltivatori diretti acquirenti col modico interesse del 3,5%. A. Corvisieri, La proprietà contadina, Jandi Sapi, Roma, 1963. 8 G. Massullo, Contadini, in P. Bevilacqua (a cura di), Storia dell’Agricoltura in Italia in età contemporanea, v. 2, op. cit., pp.5-43. 9 Alle elezioni regionale del 5 giugno del 1955 la Dc raccolse molti voti dalle campagne. 10 G. Massullo, Contadini …, op. cit. 131
La riforma agraria nel breve e medio periodo innescò nuovi processi, quali l’abbandono della terra e dei centri rurali, l’espulsione della forza lavoro dall’agricoltura, l’impoverimento delle campagne, la ripresa dell’emigrazione verso il Nord dell’Italia e l’Europa. Ad esempio, alla fine del 1950 la provincia agrigentina registrava già circa 2.000 domande di emigrazione. Difatti furono altri gli interessi a prevalere, e l’ERAS (divenuto Ente di sviluppo agricolo), sotto la direzione della Dc del giovane Salvo Lima si trasformava in leva finanziaria per l’espansione delle grandi aree metropolitane. Fenomeni tanto dirompenti come l’emigrazione, la fuga dalle campagne, i massicci processi d’inurbamento e l’espansione dei mercati illeciti, traslocarono in maniera definitiva merci, uomini e denari dai luoghi di un’agricoltura estensiva verso i nuovi settori più dinamici dell’economia e della società siciliana11. La riforma agraria in Sicilia rappresentò, quindi, l’occasione per i ceti proprietari dei piccoli e grandi latifondi di sbarazzarsi a buon mercato di una terra ingombrante e improduttiva. Furono loro i becchini del latifondo, e non lo Stato e neppure i contadini. Il problema per i grandi proprietari era quella di mantenere i livelli di rendita elevati attraverso l’affitto, la vendita e il cambiamento di destinazione d’uso dei terreni agricoli a vantaggio del settore edilizio-residenziale con il conseguente impoverimento di quello agricolo. Questa appare una chiave di lettura più consona per interpretare la riforma agraria. La vendita della terra ingombrante avveniva attraverso il meccanismo speculativo delle indennità. Alla fine degli anni Cinquanta, una commissione d’inchiesta parlamentare regionale aveva indagato su alcune operazioni illecite e complicità nel malaffare tra l’ERAS e alcuni proprietari, compreso la sopravvalutazione dell’indennizzo in accordo con i proprietari12. Si trattava di episodi di corruzione e di veri e propri accordi di vendite a rialzo a danno del pubblico erario13. Nel 1958 il quotidiano l’Ora di Palermo aveva inaugurato l’inchiesta “la mafia nell’Eras” in cui «Dei proprietari di terreni superiori a 100 ettari obbligati alla presentazione di piani di trasformazione solo 49 avevano ottemperato all’obbligo di trasformazione e di essi solo 19 hanno iniziato i lavori, tutti gli altri, protetti o ricattati dalla mafia, sono riusciti a evadere la legge». I terreni venduti erano, certamente, i peggiori e la distribuzione prevedeva l’assegnazione in piccole quote insufficienti. Senza dubbio, la propaganda per la soluzione redistributiva della terra aveva avvantaggiato i proprietari e prevalso sulle ragioni di una bonifica e a un uso intensivo dei suoli. Scelte e interventi avallati dall’opzione contadinista del PCI che, combinata alla politica sulla piccola proprietà della DC, incisero strutturalmente sull’assetto dell’agricoltura. Di fatto si assistette a una vendita a prezzi elevati, indebitamenti, passaggi di proprietà tra ceti agrari benestanti. Per tutto il resto, come abbiamo già accennato, l’esclusione dalla terra e dal lavoro agricolo che si tradusse in un vero e proprio esodo agricolo. Complessivamente i numeri dei passaggi di proprietà furono sbilanciati a favore della piccola proprietà rispetto al numero esiguo degli espropri della riforma agraria. Ciò deve far riflettere sulla reale dimensione della riforma agraria in Sicilia che non ha 11 R. Sciarrone, Mafie vecchie mafie nuove: radicamento ed espansione, Donzelli, Roma, 1998. 12 F. Di Bartolo, Nel latifondo siciliano, op. cit. 13 I casi dell’Eras, 1959; Cacciati dall’Eras Zanini e Cammarata, in «Terra di Sicilia», 25 marzo 1959. 132
modificato neanche il paesaggio agrario, come invece, la propaganda fascista aveva, negli anni trenta, ben rimarcato con l’idea celebrativa della bonifica integrale e gli interventi della legge sulla colonizzazione del latifondo14. L’agricoltura meccanizzata fino agli anni ’70 ebbe indici inferiori in Sicilia rispetto all’Emilia. Altrove le terre venivano razionalizzate, bonificate, irrigate per competere sui mercati dei prodotti agricoli internazionali. Negli anni Sessanta, l’export del settore agricolo, svolgeva la funzione di trainare l’intero comparto agricolo, sebbene sullo sfondo persistevano i gap strutturali delle reti di trasporto, del cattivo funzionamento delle politiche di consorzio, della tendenza alla formazione di cartelli dei produttori. Complessivamente si esportava il 10% della produzione nazionale, una cifra modesta rispetto ad altri Paesi: l’80% del Nord africa; il 40% della Spagna e il 60% Israele. Il caso israeliano ha rappresentato una vicenda esemplare che vale la pena di evidenziare brevemente gli aspetti più significativi. Si è trattato di uno scambio legato all’innovazione, alle esperienze e alle tecniche. A volte una innovazione nasce in un luogo e poi si trasferisce in un altro. Nei primi anni del nascente stato ebraico molti agronomi e ingegneri si trasferirono nella provincia siracusana per studiare le conoscenze, i saperi, il mestiere nella coltivazione degli agrumi. Dopo un decennio circa riuscirono a superare la produzione siciliana passando oltre i difficili ostacoli della gestione dei sistemi irrigui in un contesto a economia arida poiché, avendo pochissima disponibilità di acqua, riuscirono a ottimizzarne l’utilizzo con la massima resa15. Per cui tutta una serie di sistemi innovativi di irrigazione, la microirrigazione, i sistemi a goccia ebbero origine in quel contesto di scarse risorse, riuscendo a non sprecare l’acqua e a misurarsi con la privazione, a dimostrazione che l’acqua era e rimane uno dei grandi asset dello sviluppo. Ciò che impressionò gli agronomi siciliani, costretti a dover recarsi in Israele dieci anni dopo per comprendere le ragioni del successo economico agrumicolo, era il livello tecnico e l’organizzazione produttiva raggiunta dai loro colleghi israeliani nel giro di pochi anni e in considerazione delle zone desertiche del Neghev. In Israele la qualità dell’arancia si era notevolmente innalzata sbaragliando i mercati internazionali. Non dissimile la questione della fertilità dei suoli16, e dei monopoli delle acque nei consorzi di bonifica in cui Manlio Rossi Doria nel 1963 alla commissione parlamentare d’inchiesta denunciò l’operato della Federconsorzi sui limiti della concorrenza17. Le conseguenze di questo fallimento sul mondo del lavoro agricolo furono diverse a secondo delle zone fisiche prevalenti. Nella parte di Sicilia denominata, proprio da Rossi Doria, l’osso, i fenomeni di migrazione regolarono le eccedenze del mercato del lavoro, spopolando le campagne di manodopera. Essi diedero un duro colpo anche al processo di aggregazione cooperativo come strumento di collocamento e di professionalizzazione. Nella zone della polpa la questione si presenta più complessa. 14 E. Taddei, Sicilia in INEA, Nuove costruzioni rurali in Italia, Libreria Internazionale Treves, Roma, 1934. 15 V. Ottolenghi, E.Finzi, Studio tecnico-economico sulla razionale utilizzazione delle acque in Israele, paese ad aridicoltura, «Rivista di economia agraria», 3, 1961, pp. 98-122. 16 P. Tino, Le radici della vita. Storia della fertilità della terra nel Mezzogiorno, secoli XIX-XX, XL edizioni, Roma, 2000. 17 M. Rossi-Doria, Rapporto sulla Federconsorzi, Laterza, Roma-Bari, 1963. 133
Fino agli anni ’50 il tema principale fu legato all’imponibile di manodopera, con le conseguenze di migrazioni interne, sindacalizzazione e mercato del lavoro, che è stata una lunga storia di conflittualità sociale. I fattori di concorrenzialità nei mercati ad alta intensità produttiva, pose conflitti crescenti sul lavoro. Le conquiste furono tali e tante che – come ha giustamente sostenuto Francesco Renda – «il decennio può essere definito quello dei braccianti agricoli»18. Da questo punto di vista Avola rappresentò una cesura storica, l’ultimo episodio di un ciclo di lotte. La conquista successiva dello “statuto dei lavoratori” nel 1970 appartenne a una nuova stagione di lotte delineata dagli scioperi operai dell’“autunno caldo” del 196919. Dagli anni Sessanta in poi, infatti, i temi prevalenti divennero il rispetto della disciplina contrattuale, la previdenza, la qualifica, l’assistenza, e l’insieme dei diritti sociali legati al welfare. Quindi, il punto più alto delle conquiste sociali dei lavoratori agricoli coincise anche con una fase di declino dell’agricoltura, o meglio di un suo sviluppo distorto, segnato da un nuovo esodo rurale e da un’estrema difficoltà di applicare i diritti già sanciti a nuove masse rurali disoccupate e disgregate dalle nuove dinamiche del mercato del lavoro innescate dalle trasformazioni economiche. I braccianti, esposti alle trasformazioni, furono, quindi, portati a muoversi in una dimensione collettiva nuova, sollecitati a mobilitarsi per cercare risposte “reali” ai nuovi bisogni20, insofferenti al permanere di sperequazioni e mancate applicazioni di diritti sociali acquisiti. La “lunga marcia” delle lotte sociali, per usare un’espressione utilizzata dai sindacalisti dell’epoca, che condusse al pieno riconoscimento giuridico di alcuni diritti fondamentali per il miglioramento della vita del bracciante: pensione, malattia, qualifiche professionali, aumenti salariali, si arrestò nel momento in cui le trasformazioni economiche aprirono nuovi varchi ad altrettante domande insoddisfatte. La crisi sociale indotta dalle trasformazioni economiche e la crisi della società agricola si erano avviluppate, con il risultato che la società dei contadini non si era trasformata, ma ulteriormente disgregata. E cioè, essa aveva introiettato in sé processi di “omologazione” tipici delle società moderne e consumiste21 senza progredire socialmente, in assenza di operazioni di promozione civile e professionale o di una realistica politica economica d’interventi strutturali22. Una nuova manodopera soddisfa un’agricoltura di prodotti stagionali determinando la crescita della domanda di manodopera variabile nel corso dell’anno23. Diversamente dal passato, quando la manodopera proveniva dalle aree montane, oggi i lavoratori agricoli provengono nella maggior parte dei casi dal continente africano 18 F. Renda, Il movimento contadino in Sicilia, in AA.VV., Campagne e movimento contadino nel mezzogiorno d’Italia dal dopoguerra a oggi, vol. I, De Donato, Bari, 1979, p. 709. 19 E. Mattina, Il mezzogiorno e l’autunno caldo, in AA.VV., L’autunno caldo dieci anni dopo, 1969-1979, Lerici, Napoli, 1979. 20 S. Tarrow, Democrazia e disordine: movimenti di protesta e politica in Italia 1965-1975, Laterza, Bari, 1990. 21 P. P. Pasolini, Scritti corsari, op. cit., p. 41. 22 A. Pascale, Il 68 nelle campagne, RCE, Napoli, 2004. 23 A. Thomas, Aspetti caratteristici della filiera agroalimentare nel Mezzogiorno, in «Rivista economica del Mezzogiorno», n. 4, 2002, pp. 963-990. 134
o dall’Europa dell’Est24. I salari sono inferiori ai minimi contrattuali e le condizioni abitative e di esistenza sono simili o forse peggio di quelle descritte nell’inchiesta sulla povertà degli anni Cinquanta. Oggi la questione dei conflitti si è trasformata nell’aggiramento dei vincoli europei troppo restrittivi, con vere e proprie truffe e un ritorno alla criminalità e al caporalato più spietato. Infine, il nesso agricoltura-ambiente-paesaggio ha in parte dato i suoi frutti e determinato nuovi vantaggi competitivi, ma la programmazione centralizzata è stata radicalmente ridimensionata a vantaggio della dimensione transnazionale e regionale. Ciò rappresenta una contraddizione. Nel mercato globale, persistono i problemi dei piccoli e piccolissimi produttori che non posso che evadere, raggirare illegalmente o vendere la terra alle grandi multinazionali. Dietro la rassicurante propaganda verso una globalizzazione “glocal”, la selezione è stata spietata. Il mantenimento delle aziende richiede costi di energia, livelli di specializzazione che solo poche aziende agricole, nei rami tecnologici riescono a soddisfare. Dopo un lungo periodo di redistribuzione si sta assistendo nuovamente a nuove concentrazioni di ricchezze e di spazi, a un ricompattamento della grande azienda privata. Quelle aziende che hanno ancora conservato disponibilità finanziaria hanno investito nei prodotti “bio”. Dagli anni Novanta in poi, l’avvio di una nuova fase di programmazione pose i temi di nuovi modelli di sviluppo agricolo fondati, da un lato, sulla crescente apertura dei mercati e sull’aumento della competitività delle imprese agricole e, dall’altro lato, sul riconoscimento all’agricoltura di funzioni non più solo produttive, ma anche di presidio e di valorizzazione delle risorse naturali e ambientali. Si svilupparono numerose aziende di prodotti a indirizzo bio, con ortaggi e agrumi riconosciuti da marchi IGP (indicazione geografica protetta) e DOP (Denominazione origine protetta) sulla basi di alcuni criteri coerenti con il concetto di multifunzionalità dell’agricoltura legata al territorio: irriproducibilità del prodotto, risorse vegetali disponibili, interazione ed equilibrio con la risorse culturali e antropiche del territorio. Si selezionarono i mercati di nicchia e competitivi tra i prodotti locali, in un’ottica di stretta relazione tra innovazione e tradizione25. Come abbiamo già ricordato, a fronte di una maggiore produzione specializzata è emerso un massiccio arretramento dei diritti dei lavoratori. La globalizzazione ha incrinato nettamente il rapporto tra sviluppo e occupazione. Oggi esiste una nuova questione del lavoro agricolo, che è molto complessa, perché intreccia il tema altrettanto composito che è quello dell’immigrazione. La marginalità sociale dei lavoratori agricoli nei Paesi post-industriali è destinata a riconfermare l’irrilevanza di una rappresentanza sindacale dei braccianti26. Il bracciante è diventato un soggetto multiculturale, non parla gli stretti dialetti delle nostre regioni, ma le lingue dei diversi 24 A. Monti, C’era una volta il lavoro. I braccianti nel Novecento, in M. L. Betri (a cura di), Contadini, Rosemberg & Sellier, Torino, 2006, p. 101. 25 G. Antonelli Il mercato dei prodotti dell’agricoltura biologica: un’indagine in un’ottica di marketing, in «Economia Agro-alimentare», 1, 1996, pp. 107-146; Ismea (a cura di), I prodotti DOP, IGP e STG. L’evoluzione della normativa, i dati economici e le tendenze di mercato in alcuni paesi Ue, Ismea, Roma, 2006. 26 M. Ambrosini, Multiculturalismo e cittadinanza, in Processi e trasformazioni sociali. La società europea dagli anni sessanta a oggi, a cura di L. Sciolla, Laterza, Roma-Bari, 2009. 135
Paesi del mondo di provenienza. È un esercito cosmopolita di lavoratori migranti, che ha la necessità di trovare una rappresentanza, di dotarsi di diritti. Questo fenomeno pone nuove frontiere delle lotte per il lavoro e per la rappresentanza sindacale. È evidente che i compiti del sindacato agricolo si complicano, ma al tempo stesso si arricchiscono di una nuova dimensione, si aprono a un nuovo orizzonte. Per questa via l’azione del sindacato dovrebbe concorrere a governare il processo di globalizzazione dell’economia, del lavoro e delle relazioni sociali. Ma a tutt’oggi i sindacati sono stati interamente coinvolti e stravolti da questi processi di trasformazione economica27. Esiste, quindi, una nuova questione del lavoro agricolo e dell’agricoltura, che è molto complessa perché intreccia il tema dell’immigrazione con quello del “sottosalario nel sottosalario”28. Riteniamo che l’intera vicenda sollevi questioni fondamentali che riguardano non solo la sfera dei diritti del lavoro, ma soprattutto della dimensione dell’organizzazione sindacale, che non può sottrarsi al compito di rinnovare la sua azione sociale29.
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Pianificazione e governo del territorio nelle aree di Riforma in Toscana
Claudio Saragosa
In questa breve relazione mi occuperò di descrivere il processo di formazione del territorio rurale ed accennare al sistema di governo in una parte della Regione Toscana, l’Alta Maremma. Qui infatti si sono sedimentate varie fasi di radicale riforma della organizzazione rurale del territorio che hanno avuto un corollario nell’ultimo periodo culminato nella riforma agraria degli anni 50 del ‘900. L’Alta Maremma possiede una chiara unità geografica. Questa è una delle ragioni per cui ha avuto anche unità nell’organizzazione religiosa (dapprima diocesi di Massa e Populonia, oggi di Massa Marittima e Piombino) e nell’organizzazione politica (Principato di Piombino). Nonostante questa unità ambientale (composta da due valli, Pecora e Cornia, ricucite dalla grande unità fisiografica del Golfo di Follonica, chiuso all’orizzonte dall’Isola d’Elba), religiosa, politica, questa terra è giunta all’inizio del XIX° secolo in condizioni di scarso popolamento e di precaria organizzazione territoriale. Alcune mappe storiche ci rappresentano un territorio ancora selvaggio, acquitrinoso, con scarso o nullo popolamento sia nell’insediamento urbano denso, sia nelle aree rurali aperte (figura 1). Una prima descrizione, anche molto dettagliata, delle caratteristiche dell’area è possibile averla con lo strumento del catasto. Una prima rilevazione si ebbe, nell’Alta Maremma, sotto il governo francese di Elisa Bonaparte Baciocchi, sorella maggiore di Napoleone. Ma è certamente con i Lorena, che assorbiranno anche il piccolo stato maremmano, che il progetto catastale giungerà alla sua definitiva configurazione nei primi decenni del secolo XIX°. Il catasto ci restituisce una base geometrica molto raffinata (la mappa particellare) ma anche una dettagliatissima descrizione dell’uso e dei proprietari dei singoli appezzamenti di terra. Ricostruire (mediante la rielaborazione e l’interpretazione) una mappa con questi catasti dà informazioni sorprendenti. Per la Val di Pecora (ma anche per la Val di Cornia è la medesima cosa) (figura 2), possiamo vedere una configurazione territoriale molto differente dall’attuale. II territorio era dominato dai boschi che, dai versanti dei monti e dalle pendici dei colli scendevano nelle pianure fino al mare, interrotti solamente da ampie distese di terreni pianeggianti in cui o si raccoglievano i frutti di coltivazioni mal curate, o si mandavano al pascolo grandi quantità di bestiame per lo più provenienti da terre lontane.
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Fig. 1 Immagini storiche, 1. Il territorio di Rimigliano, Pimobino, Follonica e Punta Ala tra Granducato e Principato, anonimo, seconda metĂ del XVI sec. (ASF, Piante dei Ponti e Strade, 68). 2. Lo Stagno di Piombino, anonimo, 1806 (ASF, Miscellanea di Piante, 278a). 3. Pianta di Ferdinando Tartini, 1838, particolare tratta da: Guarducci A., Piccari M., Rombai L., Atlante della Toscana Tirrenica, Livorno, 2012, p. 88-89 140
Fig. 2 Uso del suolo della Val di Pecora, realizzato rielaborando il catasto generale toscano (circa 1820-1830), elaborazione di Saragosa C.
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Solo attorno ai pochi centri abitati si sviluppavano sistemi colturali pi첫 complessi in cui olivi, viti, alberi da frutto, e soprattutto castagni, facevano la loro comparsa. Attorno ad ogni piccolo centro abitato, il territorio risultava organizzato sapientemente, con un sistema agricolo che ricorda i modelli descrittivi a cerchi concentrici di Johannes von Th체nen (1783-1850) (figura 3). Le varie specie vegetali erano sistemate nei luoghi in cui il terreno offriva le migliori condizioni ambientali: nelle parti pi첫 fresche e umide si coltivavano i castagni; nelle parti in cui la pendenza del terreno non permetteva la coltivazione di cereali venivano piantati gli olivi; nei versanti scoscesi si lasciava vegetare rigogliosamente il bosco; nei luoghi pi첫 assolati e pianeggianti invece si coltivava la vite, nelle valli, i seminativi. Attorno alle abitazioni, una piccola cintura di orti concludeva questa complessa articolazione di uso del territorio.
Fig. 3 Uso del suolo della Val di Pecora, realizzato rielaborando il catasto generale toscano (circa 1820-1830), elaborazione di Saragosa C. Particolare dei terreni attorno a Scarlino. 2. Veduta aerea di Scarlino e delle sistemazioni agrarie a corona del centro urbano 142
I pochi abitanti dispersi nei borghi delle Colline Metallifere, difficilmente potevano concorrere a rendere produttive le vaste vallate maremmane. Queste si presentavano, ai primi del XIX° secolo ancora coperte da aree acquitrinose in cui potevano vivere e prosperare zanzare che producevano una malattia allora mortale: la malaria. Questa malattia decimava molti di coloro che tentavano di stabilirsi vicino alle aree costiere, dove piÚ che altrove era accentuata la confusione idrologica.
Fig. 4 Proprietà dei terreni in Val di Pecora, carta realizzata rielaborando il catasto generale toscano (circa 1820-1830), elaborazione di Saragosa C. Ad ogni colore corrisponde un proprietario: in celeste i terreni dell’ex demanio statale del principato di Piombino; in verde i terreni della mensa vescovile di Massa Marittima; in arancione i beni della Magona del Ferro 143
Dalla rielaborazione del catasto generale toscano è, inoltre, possibile costruire una carta, come quella riportata (figura 4), in cui si possono mappare le proprietà dei terreni. Si scopre così che gran parte della superficie dei terreni boscati, coltivati o riservati al pascolo della valle appartiene ad un numero limitatissimo di soggetti. Alcuni sono soggetti di tipo “pubblico” (demanio dello stato o beni della mensa vescovile), gli altri privati. Questi ultimi posseggono soprattutto le ampie superfici che si estendono nelle parti pianeggianti non toccate dagli acquitrini. I demani pubblici, che pure comprendevano anche vaste superfici di terreni pianeggianti e quasi tutte le aree palustri, avevano l’esclusiva sulle aree collinari quasi totalmente coperte da boschi. La gran parte di queste foreste era asservita ad una industria un po’ speciale, l’industria del ferro, che in Maremma aveva una tradizione antichissima. Ancora agli inizi del XIX° secolo sono attivi molti centri siderurgici, fra i quali i più importanti sono a Campiglia Marittima, a Massa Marittima (Valpiana ed Accesa), a Follonica. La necessità di produrre carbone per far funzionare gli altiforni (carbone che era ricavato dal bosco), comportava di far giungere in Maremma in inverno un consistente flusso di uomini proveniente per lo più dalle località forestali dell’Appennino. Dopo aver tagliato il bosco, si produceva il carbone di legna con un metodo rimasto invariato per secoli, cioè le cosiddette carbonaie. I taglialegna e i carbonai giungevano dall’Appennino. In queste aree i lavori di taglio dovevano essere interrotti in inverno. In Maremma, al contrario, il taglio non poteva essere fatto che nei mesi freddi, dato che in estate le piante sono “in succhio”. Le trasformazioni territoriali indotte dai boscaioli erano davvero poco pesanti: una rete diffusa di sentieri gerarchicamente tracciati nel bosco, la definizione di piazzole in cui poter realizzare le carbonaie e poco più. Per abitare, infatti, quesi uomini si dovevano accontentare di realizzare capanne con scheletri di legno che venivano poi coperti di zolle di terra e foglie. Le aree destinate al pascolo davano vita anche a quel sistema antichissimo che era la transumanza. I terreni maremmani venivano utilizzati nelle stagioni invernali, quando era possibile arrivare e stabilirsi in Maremma senza eccessivo pericolo, visto che la malaria in inverno non sarebbe stata virulenta come in estate. In questa stagione, sulla costa, vi erano pascoli freschi. Sull’Appennino, da cui provenivano i pastori transumanti, i pascoli erano invece inutilizzabili in quanto coperti dalla neve. Il sistema più efficiente per un allevatore era quindi quello di migrare, in inverno dalle montagne al mare e, in primavera, dalla Maremma all’Appennino. L’organizzazione del territorio legato alla transumanza richiedeva una qualche organizzazione che si sostanziava nella definizione della rete dei tratturi (le vie percorse con le greggi), nella costituzione del sistema delle dogane (luoghi in cui si pagava una gabella secondo il numero dei capi che si intendevano portare al pascolo), dei diacci (quei prati o campi dove i pastori facevano riposare le greggi), delle vergherie (cioè i luoghi dove costruire capanne di legno e fascine per preparare il formaggio, mungere e ricoverare i formaggi prodotti). I pochi proprietari terrieri, non necessariamente di origine aristocratica, che utilizzavano in maniera sommaria le terre di pianura, mettevano pochissima cura per far fruttare i propri terreni: i capitali investiti nelle terre erano bassissimi, il più delle volte consistevano solamente in piccole casette dette “del lavoro”. Il lavoro dei campi veniva eseguito da avventizi in parte provenienti dai pochi centri abitati della Maremma, ma soprattutto, ancora una volta, dalle montagne dell’Appennino. Questi 144
scendevano specialmente per la mietitura in gruppi di 15-20 persone, condotti dai caporali, sorta di intermediari che anticipando basse somme di denaro ingaggiavano gli avventizi sulla montagna. La ragione di questa immigrazione di forza-lavoro nelle Maremme è legata alle immense distese di terreno lavorate con metodi estensivi. Con i pochi contadini che abitavano nei paesi, talvolta, si stabilivano contratti di piccolo affitto del tipo “terratico”: i proprietari concedevano appezzamenti di terreno con facoltà di seminarvi il grano e ricevevano, in compenso, una quota fissa corrispondente comunemente alla quantità di frumento seminata. Boschi, pascoli, colture a bassissima intensità di lavoro impiegato era ciò che caratterizzava le grandi estensioni maremmane pressoché disabitate. Un po’ di popolazione si trovava solo nei vecchi castelli come Piombino, Campiglia Marittima, Suvereto, Monterotondo Marittimo, Massa Marittima, Gavorrano, Scarlino. Nelle valli sottostanti i castelli, è assente qualsiasi tipo di insediamento rurale diffuso: il paesaggio è caratterizzato solo da coltivazioni grossolane, pascoli, boscaglie, paludi, senza presidio umano stabile. I castelli stessi, realizzati sui crinali secondari che dai monti scendevano nella valle, erano ancora legati alle fondamentali vie di comunicazione di altura (crinali principali). Anche se localizzati in punti intermedi fra le alture e le pianure, non erano che sommariamente collegate con infrastrutture di fondovalle. Le piane disabitate erano percorse a fatica da viottoli che, il più delle volte, si trasformavano in veri e propri pantani. La via Aurelia, o quel che ne rimaneva, non faceva eccezione; come ricordava Alessandro Manetti nel 1870 la strada negli anni ’30 del XIX° secolo era “ridotta in tale stato di degradazione, che mal vi passano talvolta i pedoni”. E’ in queste condizione che si prospetta un primo ciclo di riforma agraria dell’Alta Maremma. Riunito, nel 1815, il Principiato di Piombino al Granducato di Toscana, spettò ai Lorena iniziare il grande processo di riorganizzazione territoriale di queste terre. Il problema più complesso da affrontare fu quello del prosciugamento delle aree in cui insistevano le grandi paludi quali il Padule di Piombino e quello di Scarlino. La prima vera battaglia da compiere era quella verso le comunità locali che nei grandi specchi acquitrinosi trovavano risorse per la loro economia. Per esempio il grande Stagno di Scarlino era un serbatoio di risorse naturali di ogni genere, il cui sfruttamento dava ai locali rendite notevoli. Infatti oltre all’uso di alcune parti di esso come pascolo, vi si effettuava la pesca, la caccia ai germani e ad altri volatili, la raccolta di mignatte per uso medicinale, vi si coglievano giunchi e altre specie vegetali palustri usate nell’arte dell’intreccio e nella costruzione di capanne. Tutto ciò comportava un freno alla riduzione fisica del padule perché con essa, sarebbero diminuite notevolmente queste risorse che ora si generavano naturalmente. Ovviamente se la palude rappresentava una fonte di risorse per la debolissima economia locale, era vista anche come il produttore di quella “malaria” che produceva condizioni di vita veramente inumane. Per capire il problema nella sua drammaticità si ricorda che, nel 1820, il Gonfaloniere Baldassare Guasterini, in una supplica, narrava che “il padule è causa d’infinite malattie e morti di coloro che in quelle parti dimorano. Il paese di Scarlino si è oggi mai reso uno dei luoghi più infelici della Provincia Maremmana per l’aria insalubre, che gli ridonda dalla sottoposta palude […]. Il nome di vecchio non è più conosciuto in questo angolo di mondo. Da dieci anni si conta la totale estinzione di 16 famiglie patrie e la morte di 500 individui e […] 145
da trent’anni si conta la totale estinzione di circa 60 famiglie”. La vita media in questi paesi limitrofi allo stagno non superava i diciannove anni. Bonificare era quindi impellente. Non possiamo indugiare nel racconto delle fasi della bonifica, piuttosto ricordare quanta energia fu spesa per la realizzazione delle opere necessarie che disegnarono quella base su cui fondare una ripartizione e colonizzazione della terra. Il territorio originario fu quindi attraversato da opere immense di regimazione dei corsi d’acqua principali con imponenti arginature. Quando mancavano, dovettero essere organizzati canali allaccianti capaci di dividere le acque alte (che scendendo dai versanti collinari sono cariche di limi), dalle acque basse (che si raccolgono direttamente nelle piane e che sono semplicemente da drenare). Sia i maggiori corsi d’acqua che i canali allaccianti furono indirizzati verso le casse di colmata entro le quali si potevano far sedimentare i materiali solidi trascinati dalle acque. Operazione che avrebbe permesso di sollevare i terreni che si trovavano sotto il livello del mare. Gli altri, quelli con quote altimetriche sopra il livello del mare, furono bonificati per prosciugamento cioè con la realizzazione di canalette che permettevano, sfruttando la pendenza dei terreni, il naturale drenaggio. A corredo di questo imponente ed intelligente sistema idraulico furono realizzate opere quali: caselli idraulici connessi a sistemi per il controllo delle acque (cateratte), arginature, ponti, strade, ecc. La bonifica della pianure acquitrinose e malariche poteva quindi permettere di trasformare i terreni ormai asciutti in terreni coltivabili e anche di garantire una nuova vita nelle Maremme ora liberate dalla malaria. Anche se il processo di redenzione non risultò così veloce (tra l’altro nessuno aveva chiaro all’inizio dell’800 che la malaria non fosse legata ai miasmi delle aree palustri, quanto ai parassiti protozoi trasmessi all’uomo da zanzare del genere anopheles) già dal 1830, con la riduzione delle paludi, iniziò un grande processo di frazionamento e messa coltura delle fertili terre maremmane. La messa a coltura avvenne per mezzo di una divisione dei terreni in particelle e non riguardò solo le parti bonificate ma anche vaste aree una volta coperte da boschi o da pascoli. L’operazione consisteva nella allivellazione dei terreni cioè nel frazionamento delle grandi aree di proprietà demaniali, delle aree gravate da servitù collettive e di alcuni beni di proprietà di Enti Ecclesiastici. Tale operazione doveva avere come obiettivo la cessione di appezzamenti di terreno a imprenditori disposti a metterli a coltura, introducendo quel tipo di contratto agrario, la mezzadria, che in altre parti della Toscana stava dando buoni risultati da ogni punto di vista. Così, per esempio, il 14 agosto 1835 si dava inizio ad una vasta operazione di allivellazione consistente nella cessione di 126 “preselle” di terreno (per ben oltre 6.000 ettari) situate nelle Comunità di Suvereto, Gavorrano e Castiglione. Fra i terreni ceduti nella Comunità di Gavorrano (che comprendeva allora la gran parte della bassa Val di Pecora) i più erano situati intorno a Follonica e per lo più erano coperti da vegetazione a macchia composta da sondri, lillatri, mortelle, cerri e sughere. Quindi alienando beni o “pubblici” o di proprietari assenteisti, strappando aree coltivabili alle paludi, estirpando, dicioccando, le selve dai terreni più propizi all’agricoltura, si dette vita ad una vera e propria rivoluzione agraria di immense dimensioni. Si iniziò a costruire nuovo territorio e ad incentivarne il popolamento. I pattern che si utilizzavano per modellare questa terra, ora che si eliminavano paludi, boschi, pascoli, comprendevano quelli capaci di generare una rete di infrastrutture (stradali 146
ed idrauliche), di realizzare una suddivisione della superficie terriera in preselle di dimensioni sufficienti ad ospitare una o più famiglie di coloni, di realizzare una casa colonica per la stabilizzazione della popolazione, di impiantare coltivazioni di frumento, vite, olivo, gelso. Per esempio due aggiudicatari di preselle situate a monte di Follonica, Bolaffi e Zabban, avevano l’obbligo di organizzare, entro il 1839, una vera e propria fattoria con un palazzo d’agenzia e 10 case poderali, dissodare quasi tutto il terreno incolto e macchioso e procedere alla messa a coltura di circa 100 ettari di terreno all’anno. Anche se a fine ottocento il sistema molto frazionato delle preselle granducali fu ricomposto in grandi proprietà, ricostituendo di fatto un medio latifondo (processo dovuto anche alla difficoltà di debellare effettivamente la malaria che fece fallire, anche con la morte, molti di coloro che vollero tentare l’esperienza maremmana), queste aziende non erano caratterizzate da proprietari terrieri assenteisti, ma da un’attiva classe di imprenditori agricoli. Ci volle più tempo per la bonifica delle Maremme, ma verso la fine dell’ottocento la riforma agraria che era stata impostata aveva effettivamente trasformato l’Alta Maremma. Sebbene le particelle disegnate all’inizio fossero successivamente riunite, durante il XIX° secolo si costruì un insediamento rurale ricco per lo più ispirato ai modelli, ben sperimentati, delle campagne toscane dell’entroterra fiorentino e senese. Il modello era, infatti, quello della villa-fattoria con un sistema poderale tendenzialmente mezzadrile. Nella tavola allegata (figura 5) si possono vedere, almeno nella Val di Pecora, la potente trasformazione della proprietà fondiaria e la realizzazione del sistema delle fattorie (Fattoria N° 1, Casone, Vetricella, Palazzo Guelfi, Pecora Vecchia, Valmora, Montioni, Marsiliana, Cicalino, ecc.). La villa-fattoria era la residenza del proprietario e rappresentava il centro della complessa organizzazione dell’azienda. Nella villa-fattoria erano situate le strutture per la lavorazione di alcuni prodotti (cantine, frantoi, ecc.). Era il centro amministrativo in cui si tenevano le fila del sistema poderale. Il podere era l’unità terriera minima in cui si svolgevano le coltivazioni. Nel podere, lavorato da una o più famiglie in proprio o per contratto di affitto o di mezzadria, era localizzata la casa colonica, edificio dalle forme regolari che aveva la funzione di ospitare il contadino e la propria famiglia, nonché tutta una serie di attività di trasformazione, immagazzinamento, produzione animale. L’Alta Maremma rurale viene organizzata facendo dispiegare quei pattern spaziali, che abbiamo velocemente elencato, secondo condizioni ambientali che di volta in volta mutano. Nella fattoria della Vetricella di Scarlino, ad esempio, il sistema poderale con le proprie case coloniche viene sistemato secondo una croce di strade che si incontrano al centro della azienda dove si trova la villa padronale. I lavori che sottostanno alla costruzione dell’azienda agraria comprendono, secondo due analisti agrari, Tofani e Petrocchi, la sistemazione di 665 ettari, la regimazione di fossi, la costruzione di strade “massicciate” con relative fosse di scolo, l’affossatura dei campi, la costruzione di case coloniche, la dotazione di colture legnose, l’impianto della rotazione, la dotazione dell’azienda di una concimaia. La fattoria del Cicalino a Massa Marittima organizza la alta valle del Pecora mediante un sistema di drenaggio a raggiera con cui si raccolgono le prime acque del fiume. Il sistema poderale è disegnato mediante un percorso che si racchiude su se stesso legando, come le perle di una collana, le varie case coloniche fra sé e con la propria fattoria. Le fattorie di Casalappi (da una parte un vecchio castello 147
riorganizzato, dall’altra una villa fattoria ottocentesca) danno forma ad un sistema poderale di pianura su forme di geometria semplice (quadrati, trapezi), sistema che permette l’utilizzazione razionale delle pianure risanate. La Fattoria di Vignale (Piombino) organizza il proprio sistema poderale costellato di case coloniche in un sistema lineare. La villa-fattoria è adagiata su un piccolo crinale che scende dalla collina verso la costa. Dalla casa padronale parte un asse rettilineo, lungo il quale si andrà a realizzare, ad intervalli abbastanza regolari, il sistema poderale per l’organizzazione agricola delle terre piane ex-palustri (figura 6).
Fig. 5 1. Le grandi proprietà alla fine del XX secolo (carta elaborata da Saragosa C., secondo la situazione al 1980). In celeste i demani forestali (ora regionali) che raccolgono soprattutto le aree collinare boscate. In verde le grandi aziende agricole. In Arancione le proprietà demaniali statali. 2. Le fattorie sorte durante la seconda metà del XIX° e la prima metà del XX° secolo (fra le più importanti: a. Montebamboli, b. Cicalino, c. Pian dei Mucini, d. Marsiliana, e. Val Mora, f. Santa Laura, g. Vetricella, h. Numero 1, i. Casone, l. Palazzo Guelfi, m. Montioni, n. Pecora Vecchia, o. Campo Rotondo, p. Le Case)
Con la realizzazione di queste fattorie e del sistema poderale collegato, di cui abbiamo ricordato solo alcuni esempi, si formava così quell’insediamento, molto composto, semplice ma elegante, che caratterizzerà questa terra per tutta la prima metà del novecento. E’ così che, quando si costruirono gli strumenti per attuare la riforma agraria degli anni ’50, con la costituzione dell’Ente Maremma, nell’Alta Maremma gli interventi, che pure ci furono, non mutarono sostanzialmente l’organizzazione territoriale che si era andata consolidando. Sebbene questa terra si trovasse a beneficiare della legge di riforma agraria che offriva a migliaia di braccianti, mezzadri e agricoltori di 148
mutare radicalmente il loro status sociale con l’acquisizione di terreni in proprietà, la sistemazione e la redistribuzione delle terre non fu così sostanziale.
Fig. 6 Le fattorie e il loro sistema poderale e di case coloniche (1. Fattoria della Vetricella - Scarlino; 2. Fattoria del Cicalino - Massa Marittima; 3. Fattorie di Casalappi - Campiglia Marittima;4. Fattoria di Vignale - Piombino)
Centri di colonizzazione furono aperti; uno, per esempio, anche a Follonica. Il centro aveva giurisdizione su tutti i comuni delle Colline Metallifere che allora comprendevano complessivamente una superficie terriera coltivabile di circa 80.000 ettari. Ma, come ci dice un opuscolo illustrativo dell’Ente, edito nel 1955, le espropriazioni che si fecero nella zona operarono parzialmente su 42 proprietà per una superficie complessiva di 6500 ettari (quindi solo su circa l’8 % del complesso delle terre coltivabili). Un centinaio furono le case di nuova costruzione servite da nuove strade, sistemazioni idrauliche, pozzi e cisterne. I pattern insediativi utilizzati nella composizione delle ricuciture di quel tessuto rurale che si era andato consolidando per tutti i precedenti decenni non si discostavano affatto da quelle del passato. Nella zona centrale della Val di Cornia, ad esempio, l’insediamento poderale con case coloniche che si va realizzando (lungo la via Aurelia, fra Follonica e Venturina), non è altro che una riproposizione più povera dello spazio configurato dalla fattoria di Vignale, poco distante. Più povero perché le case coloniche risultano spogliate dalla qualità della composizione architettonica e dei materiali edilizi utilizzati, più povero perché il sistema non è organizzato (come nella villa-fattoria) da un centro di riferimento territoriale (nella villa-fattoria c’era sempre, almeno, qualche servizio quale ad esempio la cappella dove tenere messa). E’ 149
vero che altrove, l’Ente Maremma, per rompere l’isolamento nelle campagne, aveva realizzato borghi in cui si concentravano servizi quali chiesa, bar e botteghe (fra i tanti si ricorda il Borgo Santa Rita, Cinigiano). Nell’Alta Maremma tali piccoli insediamenti di servizio non furono mai realizzati (figura 7).
Fig. 7 Casa colonica tipo dell’Ente Maremma
Oggi riceviamo questo territorio fortemente caratterizzato da sedimentazioni di soluzioni di organizzazione dello spazio del sistema rurale. Sono pattern che dispiegandosi hanno forgiato, configurato, quello spazio caratteristico dei grandi sistemi ambientali maremmani. Sedimi materiali e cognitivi che dopo essere compresi e resi di nuovo operanti, guardando al futuro che si sta manifestando, con l’energia di innovazioni di cui il nostro tempo ci dota, devono essere di nuovo resi operativi per mantenere e completare la complessità ecologica e formale (l’identità territoriale) di questa porzione di terra. Di questo compito sembra occuparsi con efficacia il nuovo Piano di Indirizzo Territoriale con valenza paesaggistica della Regione Toscana che traccia un quadro coerente di lettura e di ipotesi di sviluppo territoriale dell’area che denomina “Colline Metallifere”. E’ proprio in questo strumento che la lettura del patrimonio territoriale mediante le invarianti strutturali e i patter morfotipologici diviene disciplina di progetto per lo sviluppo e la conservazione della complessità territoriale che le varie riforme agrarie che si sono succedute nel tempo ci hanno consegnato (figura 8).
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Fig. 8 Carte del piano paesistico della Regione Toscana. 1. Carta del patrimonio. 2. Carta delle criticitĂ
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Paesaggi “resistenti” nel Veneto post-industriale
Michelangelo Savino
Incredibilmente… paesaggio! Uno degli aspetti che mi appare di maggior rilievo in questa particolare fase storica – e la riflessione proposta sui paesaggi della riforma offre l’occasione per poterci ragionare su – è come possiamo occuparci di buona parte dei paesaggi che risultano esiti delle più recenti trasformazioni; in quale modo debbano essere trattati – dalle politiche territoriali in particolar modo – paesaggi che sono in buon conto caratterizzati da una profonda “artificialità” e che sono soggetti ad un rapido cambiamento per la loro esposizione a dinamiche economiche e sociali aggressive ma soprattutto mutevoli. Il dibattito disciplinare e politico si infervora sulle modalità di riconoscere i “paesaggi” di un territorio che ha subito nel corso degli ultimi cinquant’anni trasformazioni estreme ed incessanti, e attribuirgli un valore di integrità (che in alcuni casi si tratta in realtà del tentativo di “riconoscere” le matrici originarie e le componenti ancora evidenti e permanenti; in altri di affermarne la passata presenza e quindi ammetterne la compromissione e proporne reintegrazione e salvaguardia). Pochi i territori che hanno mantenuto la loro originaria naturalità e che non siano stati esposti ai cambiamenti di uno sviluppo trentennale che nel Veneto – a cui faremo riferimento esclusivamente in queste note – è stato particolarmente impetuoso e pervasivo. Questi processi a loro volta – seppure abbiano comportato la devastazione di un paesaggio storico di particolare pregio – hanno prodotto nuovi paesaggi contemporanei che ci sfidano per la loro difficile trattabilità, per le complesse relazioni sociali, economiche e culturali che sottostanno, per l’incredibile senso di appartenenza e identità che provocano e che producono, nonostante tutto1. E per le comunità di una regione che ha sempre avuto 1 Molti autori hanno drammaticamente raccontato la storia del paesaggio veneto negli anni del “furioso sviluppo”, da Eugenio Turri, a Francesco Vallerani e Mauro Varotto, per dirne solo alcuni, con toni meno allarmati urbanisti come Indovina, Secchi e le scuole che ne sono seguite, ecc., con intenti esplorativi sulle nuove geografie del paesaggio solo alcune autrici, come Castiglioni o Ferrario. E non sono mancati i commenti di una vasta compagine di giovani scrittori veneti come Bugaro, Trevisan, Maino, Carlotto, Melchiorre, ecc. , che con toni ben più cupi di Parise, raccontano di un “ Veneto barbaro di muschi e nebbie” tradito dallo sviluppo economico. Questi autori appaiono toccati da un forte senso di disagio e di spaesamento 153
una sua forte identità ed un altrettanto vigoroso radicamento nel territorio, questo paesaggio diventa “memoria” di una storia collettiva recente2 dall’incerto epilogo, testimonianza comune di uno “straordinario successo del modello economico, che ha trasformato in pochi decenni una regione di poveri emigranti in uno tra i più opulenti territori del pianeta” (Vallerani, Marino, 2014). In un’accezione del tutto diversa rispetto a quella corrente (che condividiamo sul paesaggio italiano), in Veneto è possibile sostenere che villette e capannoni – che punteggiano campi divisi da rogge in parte tombate da strade percorse da mezzi pesanti che sfiorano fronde di filari di alberi interrotti dai parcheggi dei centri commerciali per raggiungere periferie informi – diventano “bene comune”, nonostante tutto, fragile ed esposto. Indubbiamente “brutti” – se confrontati con le purezze cristalline delle Dolomiti – e di dubbio valore – se evocati osservando i declivi mediterranei che scivolano nel Lago di Garda o la romantica desolazione delle isole e delle barene delle lagune – questi paesaggi però hanno una rilevanza estrema: a. ci costringono a riflettere sugli effetti dirompenti che le trasformazioni territoriali possono produrre sul paesaggio preesistente determinando a loro volta, però, nuovi paesaggi che vanno nel tempo “metabolizzati”, assimilati, vissuti (anche perché distruggerli per un ripristino dei luoghi primigeni è impossibile!). Non dissimilmente anche i paesaggi della riforma si sono imposti come una rottura (di visioni, di equilibri, di naturalità, di processi agronomici storici, di organizzazioni insediative) ma anche come costruzione di nuovi paesaggi che con il tempo hanno prodotto un fenomeno identitario ed anche un complesso di valori “paesaggistici” che oggi ci ritroviamo a difendere; b. sulla capacità dei territori di accogliere queste trasformazioni e di saper amalgamare – in caleidoscopiche combinazioni – elementi innovativi e tracce preesistenti, producendo “formule territoriali” non poi del tutto ripetitive; c. sul carattere dinamico di questi “paesaggi” che ancor prima di essere tutelati nel vedere “lo stravolgimento dei loro scenari quotidiani” (Vallerani, 2013). Colpisce significativamente che per descrivere questo Veneto gli autori ricorrano ad un immaginario ormai consolidato e condiviso: è uno spazio riconoscibile, è un’esperienza quotidiana che viene richiamata e senza la quale sia le cronache di viaggio di Paolo Rumiz che la sferzante ironia di Marco Paolini sul “popolo delle taverne” non sarebbero possibili. 2 Contrapposta a quella che Vallerani chiama “l’amnesia diffusa del paesaggio ereditato e il successivo eclissarsi del senso estetico”. Vorrei chiarire che il mio intento non è quello di negare la dissoluzione del paesaggio originario veneto, tantomeno produrre un’esegesi del paesaggio della dispersione, quanto piuttosto di riconoscere in questa nuova forma di paesaggio lo spunto per un differente approccio con il quale “declinare” tutele e salvaguardie e forme di progettazione che tengano conto anche del possibile “valore” che questo territorio e questo paesaggio, che comunque interagiscono con i mutamenti della società contemporanea, possano avere per le comunità residenti. Credo che questo nuovo approccio sia indispensabile soprattutto per produrre una consapevolezza collettiva che supporti l’attuazione di azioni e politiche paesaggistiche di nuova concezione, altrimenti inutili e velleitarie, come sono stati piani e politiche degli anni trascorsi. Conforta questa posizione anche un meno noto Cosgrove (2007), che in un audace accostamento tra la città diffusa e il sud della California, spinge per un’analisi critica attenta “to identify forces governing twenty-first century landscape development” con le quali dobbiamo confrontarci per una corretto approccio al paesaggio contemporaneo. 154
e vincolati vanno riconosciuti nella loro fortissima integrazione con i processi di natura sociale ed economica che interessano tutta la società locale e la cui eventuale estraneazione “per vincolo” significa non tanto salvaguardia quanto cristallizzazione, alienazione dall’esperienza comune degli abitanti e probabilmente un degrado più rapido ed incontrovertibile; d. infine, sulla capacità di “resistenza” di questi paesaggi3 poiché nonostante la violenza delle trasformazioni, molti di questi paesaggi della contemporaneità mantengono, quasi in una darwiniana selezione, alcuni caratteri determinanti dei processi storici che si sono succeduti, che – a dispetto di una debolezza loro attribuita – organizzano ed orientano i nuovi assetti, condizionano le nuove visuali, mostrano possibili armonie così come indigesti contrasti. Il paesaggio, anzi i paesaggi veneti diventano quindi l’opportunità per una riflessione sulla natura dei paesaggi contemporanei e per uno sguardo critico ma possibilmente oggettivo, o quantomeno scevro da pregiudizi, sulla loro evoluzione, soprattutto in una fase in cui vanno ridefinendosi le dinamiche economiche e sociali, le loro forme di organizzazione e quindi le loro fenomenologie territoriali; in una fase storica particolare in cui anche l’identità, la memoria delle comunità locali va evolvendosi verso nuovi e diversi contenuti culturali, con i quali ci troviamo a confrontarci per poter riaffermare valori e significati del paesaggio.
Paesaggi veneti di bonifiche e di riforme È proprio il tema del paesaggio della riforma che provoca una riflessione di questa natura. Se osserviamo il territorio veneto, questo è – contrariamente a quanto si potrebbe credere – un territorio sempre e quasi completamente “esito” di un processo di riforma, che ha avuto obiettivi, caratteri ed esiti diversi sin dai tempi più remoti. Ed ogni volta queste trasformazioni sono state sconvolgenti rispetto agli assetti territoriali del passato e del presente. E probabilmente devono aver prodotto a loro volta (e a loro modo) sconcerto, disagio e spaesamento nelle comunità locali che assistevano a questi processi. 3 Anche in questo caso, mi permetto di chiarire che uso il termine di “resistenza” in modo distinto da Vallerani (2013) laddove accenna a “percorsi di resistenza” come atti di impegno civile finalizzati ad una “reazione” ai processi di depauperamento del paesaggio, “un rafforzamento di quelle basi culturali per continuare a resistere e a de-costruire la incosciente visione utilitaristica, insaziabile nella sua fame di suolo”. Senza nulla togliere al merito di quella forma di impegno, la “resistenza” a cui intendo fare riferimento è innanzitutto una capacità dei territori di saper conservare, pur nella violenza dei processi di trasformazione, alcuni caratteri originari in un costante processo di ricomposizione e rielaborazione, di innesto di nuovi componenti e di metabolizzazione delle perturbazioni che il passare del tempo e i cambiamenti della società producono. L’avevo chiamata a suo tempo una sorta di “resilienza proattiva”(Savino, 2012a). L’uso ricorrente oggi del termine di “resilienza” con altro senso ed altro obiettivo, mi suggerisce di ricorrere in questa sede a un termine meno complesso e più intuitivo. La scoperta e la valorizzazione di questa capacità del paesaggio è a mio parere importante e strategica per la costruzione di politiche diverse, innovative ed alternative che trattino il paesaggio “nei” processi di cambiamento della società contemporanea. 155
Il cambiamento si è dato secondo tempi e modi che ogni epoca ha saputo esprimere, con la sua cultura, con la sua specifica filosofia del rapporto con la natura e con il contesto, con la sua tecnologia e la sua conoscenza delle componenti naturali. Trasformazioni eccezionali che hanno creato paesaggi armonici ed affascinanti; trasformazioni permanenti che hanno prodotto una differente organizzazione del territorio; ma non sono mancati cambiamenti incoerenti se non a volte dannosi che hanno segnato in modo incontrovertibile paesaggio e territori o modifiche continue che hanno interessato lo spazio costruito e non costruito. L’artificialità del territorio veneto è nota. È soprattutto il complesso sistema idrografico a determinarne uno stato incerto, mutevole e in costante lavorazione, senza giungere mai ad un suo assetto definitivo. Più che conquistare terre e distribuirle, i romani hanno dovuto “crearle” le terre dei Veneti; gli agrimensori romani hanno dovuto “estrarle” da un sistema territoriale per alcuni versi generoso ma ad elevato dispendio di energie. A loro risalgono le prime opere di riordino idraulico, che fossero l’imbrigliamento dei fiumi, la regimentazione delle acque di mille e più corsi minori di pianura, o i fossi e le scoline per drenare i campi. L’orditura della centuratio è la prima riforma del territorio (fig. 1.), che scompare progressivamente nel tramonto dell’Impero davanti alla naturalità violenta dei fiumi che libera l’acqua dal giogo di argini e chiuse.
Fig. 1 Tracce della centuratio nell’area del graticolato romano 156
Durante il medioevo, nonostante la precarietà delle tecnologie e degli assetti politici, quel territorio viene nuovamente “conquistato”, dapprima dalla paziente e sapiente azione degli ordini monastici che, oltre a presidiare un territorio in buona parte abbandonato, daranno origine a “campi chiusi” e “campi a erbaio” ancora oggi leggibili nelle trame agricole (fig. 2.). Interviene poi l’azione pianificata di Comuni e Signorie che ricostituiscono il patrimonio fondiario agricolo, deviando corsi d’acqua, attrezzandolo con borghi più o meno fortificati, piccoli centri di produzione e nuove strade.
Fig. 2 Palù del Quartiere del Piave. Tracce dell’azione dei monaci nel territorio 157
Non distante la Laguna di Venezia, uno dei più grandi paesaggi artificiali del nostro paese (Ferraro, 1998), oggetto di più “riforme”, di continui studi per “spostare acque” e “fare terra”; di sperimentazioni “per prova ed errore” sino alla costruzione di una specifica sapienza territoriale in parte tramandata nel tempo, in parte perduta. La Laguna di Venezia è stata oggetto di rilevanti ed incessanti cambiamenti, dal primo inurbamento alla grande industrializzazione, alla realizzazione del MOSE che ne hanno cambiato assetto e metabolismo, rinnovando costantemente il paesaggio di questo ampio spazio territoriale, risolvendo nuove emergenze e creando nuove problematiche (fig. 3).
Fig. 3 Natura artificiale della Laguna di Venezia
Il “paesaggio palladiano” è frutto di una riforma territoriale ancor più estesa e radicale, che muovendo dai poli generatori come “le ville” a poco a poco si è imposta in modo drastico sui paesaggi preesistenti, definendo non solo nuove forme di organizzazione insediativa, ma anche una differente organizzazione sociale e un diverso credo economico (fig. 4 a e b). Al di là della sua poesia – frutto di un’eccezionale coerenza culturale, scientifica, artistica, che a sua volta era immediato riflesso di una cultura e di un’economia e di una struttura sociale evolutasi in un breve arco di tempo e che stupisce ancora per la sua coerenza – non deve essere stato meno “sconcertante” nella sua trasformazione di quanto non sia avvenuto nei secoli successivi con la sua dissoluzione. Usando gli stessi elementi di un linguaggio ormai maturo (villa, fabbricati rurali, appoderamenti, innovazioni colturali) Alvisopoli e l’esperienza delle bonifiche di fine XVIII secolo costruiscono un paesaggio nuovo e continuano questo processo di rielaborazione del territorio e di ricomposizione del paesaggio, su un palinsesto che non sembra assolutamente stabile e consolidato, preparandosi ad accogliere la prima industrializzazione, nel vano tentativo di rilanciare un’economia in declino (fig. 5). 158
Fig. 4a Resti del paesaggio palladiano a Fanzolo
Fig. 4b Resti del paesaggio palladiano a Fanzolo 159
Fig. 5 Nuovi paesaggi dopo la Serenissima
In pieno XIX secolo il Veneto è ancora terra da conquistare. Le bonifiche che vengono condotte nel corso del secolo, e completate con impegno vigoroso in quello successivo, rappresentano ancora una volta la creazione di nuovi sistemi territoriali che devono rispondere a emergenze economiche e provare a riscattare una società locale afflitta da endemica povertà, con lo scopo di contrastare grandi flussi di esodo. E nuovi paesaggi si impongono, nel Veneto orientale (fig. 6) come nelle “Valli grandi” veronesi (fig. 7), in ambiti lagunari che vengono progressivamente cancellati in nome del progresso e del benessere collettivo, mentre ambizioni di gloria, emergenze autarchiche, populismo e ansia di progresso spingono alla “bonifica integrale” fascista della bassa padovana (fig. 8), dove ad un retorico ruralismo di regime si accompagna la creazione di borghi che introduce, oltre ad un rinnovamento edilizio ed architettonico insolito, anche nuove forme dell’abitare nel territorio agricolo.
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Fig. 6 La bonifica nel Veneto Orientale
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Fig. 7 La bonifica integrale nella bassa padovana
Fig. 8 La bonifica delle Valli Grandi veronesi 162
E questo processo di “costruzione del territorio” sembra concludersi, infine, con la grande riforma agraria del Delta del Po (fig. 9) che, strappando terra all’acqua, ancora una volta costruisce un diverso e nuovo paesaggio cambiando equilibri e orizzonti, e imponendo una differente organizzazione del territorio da metabolizzare che presto, a sua volta, sarà interessata dai processi di diffusione residenziale e produttiva della seconda metà del XX secolo.
Fig. 9 La riforma agraria nel Delta del Po
È l’insorgere di una nuova organizzazione del territorio che produce una diversa scenografia dello sviluppo sociale. Quest’ultima riforma “invisibile” e non programmata nel lungo periodo (ma pianificata come vedremo nel § 5), risulta altrettanto energica e pervasiva, è mossa dallo stesso principio ed obiettivo dei precedenti (lo sviluppo) e si presenta più irreversibile per l’abbondanza delle sue forme edificate, per la scala dei suoi oggetti, per la grossolanità del suo linguaggio edilizio ed architettonico, per il consumo irreversibile delle risorse, ma non appare produrre un paesaggio più “artificiale” di altri. Ed è anch’esso espressione generale di un modello economico e sociale condiviso a più livelli istituzionali e tra più strati sociali (Savino, 2012b), riconducibile alla logica della produzione capitalistica che volge al culmine del suo sviluppo verso un neoliberismo globalizzato. L’esito è il paesaggio che oggi ci troviamo davanti (fig. 10) e che dobbiamo sapere comprendere (nella sua complessità e diversità), gestire (nelle dinamiche del cambiamento), valorizzare (come un bene collettivo da riconoscere, fruire e conservare), salvaguardare (nel suo complesso come nelle sue singole componenti, senza cristallizzarlo in forme estranianti), dando ad ognuna di queste azioni un nuovo e diverso senso. 163
Fig. 10 Il Veneto… post-industriale
Nessuno dei processi di trasformazione che pur si sono succeduti nel tempo, in questa regione, ha cancellato in modo definitivo quanto lo avesse preceduto. Anzi, ne ha recuperato elementi e perpetuato orditi e segni; ne ha tramandato non solo tracce ma anche saperi contestuali ed accorgimenti tecnologici; ha convertito strutture esistenti e costruito nuove attrezzature avviate a loro volta al medesimo destino di recupero e riuso; ha sovrapposto infrastrutture e tracciati, deviato e cancellato corsi d’acqua, strappato terre alle acque e dato alle acque parti di terreno, attraverso opere ingegneristiche che suscitano ammirazione tanto e come le raffinate architetture di monasteri e ville, capitale fisso di sistemi economici diversi. Queste permanenze e queste compresenze, a volte contraddittorie, sono prova della “resistenza” del paesaggio ai mutamenti che andrebbe investigata per ipotizzare una “forza” del paesaggio quale utile strumento di progettazione e pianificazione del territorio.
La vulnerabilità dei paesaggi “resistenti” Al contrario, nei processi di progettazione del territorio, ad una scrupolosa quando non esasperante e pervicace per alcuni versi catalogazione delle specificità paesistiche (riconoscendone le differenti storie, i processi di sviluppo, le forme e le politiche di intervento, le morfologie territoriali prodotte, le tipologie colturali, geo-pedologiche ed agronomiche, le prospettive di trasformazione, le differenti suscettibilità ed opportunità di tutela e valorizzazione), si contrappone una pratica di pianificazione che tende ad appiattire le differenze, che spinge ad un’omologazione di trattamento normativo e progettuale, che a sua volta è banalizzazione del paesaggio stesso, nel processo che dovrebbe determinarne le condizioni di tutela e salvaguardia. 164
Ed è davanti a questo processo che il paesaggio del Veneto mostra la sua forma di resistenza (davanti alla persistenza di questi processi che lo aggrediscono), ma anche la sua vulnerabilità (davanti ai processi che dovrebbero tutelarlo). Anche nella pianura più intensamente industrializzata e urbanizzata – come ben emerge dai più recenti studi che la Regione Veneto ha voluto condurre per il completamento del suo PTRC – i brandelli di paesaggio più tradizionale che vi si vogliono riconoscere all’interno dei nuovi scenari geografici creati dallo sviluppo, sopravvivono a processi in cui la “spontaneità” delle dinamiche ha in realtà goduto di regolarità normativa quando non anche di razionalità amministrativa e coerente programmazione. Non diversamente, il processo di messa in sicurezza territoriale – declinato dopo le alluvioni del 2009 e del 2010 esclusivamente come azione di prevenzione per opere idrauliche ed infrastrutture ingegneristiche – non ha minori impatti sul paesaggio tradizionale come sul paesaggio contemporaneo, impatti che vengono però trascurati, per la valenza “salvifica” degli interventi. Il paesaggio che istituzioni ed esperti riconoscono come il bene da tutelare, è dunque un paesaggio “contemporaneo” che a suo modo ha resistito all’assalto dei processi di urbanizzazione e all’aggressione dello sviluppo economico industriale, antagonisti del paesaggio e forse proprio per questo riconoscibili (nelle loro dinamiche come nelle loro morfologie) e per questo in qualche modo – se esistesse un’univoca intenzionalità politica ed una diffusa consapevolezza collettiva – da poter tenere sotto controllo. Il paesaggio, paradossalmente, appare piuttosto esposto rispetto ad altri processi che al contrario dovrebbero essere votati alla sua valorizzazione, o a dinamiche che nel loro incalzante sviluppo finiscono con il produrre le cause stesse di depauperamento della risorsa e il suo degrado. Faccio chiaro riferimento all’agricoltura, al turismo e alla pianificazione.
Agricoltura e turismo contemporanei… ed il paesaggio Non è possibile trattare con dettaglio i tre argomenti, e concentrerò maggiore attenzione solo sul terzo dei processi che apre più di qualche interrogativo, ma mi riservo alcune battute sui primi due temi. Sui temi dell’agricoltura nel terzo millennio e soprattutto sui radicali cambiamenti che questa ha subito nel corso degli ultimi decenni, esiste già molta letteratura; e molto si sta scrivendo anche sugli effetti di questa nuova “rivoluzione verde” (e in Veneto particolarmente). Qui, un’agricoltura dinamica e ben inserita nei circuiti produttivi internazionali ha mostrato la sua capacità di alternativa all’industrializzazione e, grazie all’affermazione sui mercati dei suoi prodotti di qualità (e quindi agli elevati profitti garantiti oltre ai contributi comunitari che non si disdegnano) ha rappresentato – soprattutto dopo la crisi globale degli anni scorsi – una ben valida alternativa ad un certo modello di sviluppo. E se, da un lato, questo ha comportato un incremento notevole della qualità dei prodotti, dall’altro ha innescato un processo di uso del suolo non meno vigoroso ed aggressivo dell’industrializzazione della piccola e media impresa (Ferrario, 2013; 2016). Celebrata con leggerezza come la panacea all’urbanizzazione – rispetto alla quale, nei decenni precedenti, risultava soccombente alla cementificazione (soprattutto per i 165
valori economici che la rendita urbana sembrava poter assicurare come fonte di reddito) oltre a tutto ciò che si è raccontato sulla dispersione – la nuova agricoltura appare un processo altrettanto impattante sul paesaggio, nella sostituzione ed omogeneizzazione delle colture4, come nella trasformazione degli assetti rurali, necessari alla meccanizzazione e alla produzione in grande scala, alla nuove infrastrutture di un capitale fisso agrario che trasforma gli “annessi rurali” e ne costruisce di nuovi. È importante sottolineare come molte di queste azioni siano promosse da politiche comunitarie regionali che nella loro complessità tendono a non integrarsi ad altre politiche territoriali; così come soggetti istituzionali ed operatori economici non sembrano interagire costruttivamente con altri enti e attori. La particolarità della PAC e delle relative conseguenti politiche agricole regionali sembrano seguire ratio che prescindono dagli obiettivi di tutela dell’integrità del paesaggio o da azioni di ricomposizione dei paesaggi compromessi, se non in modo retorico e superficiale. Nel Veneto i paesaggi del vino rappresentano un esempio radicale, soprattutto laddove la “creazione” di nuovi vigneti per vini DOC e DOCG (altamente remunerativi) hanno trasformato profondamente – e non in modo impercettibile – il paesaggio tradizionale, imponendo altri scenari agricoli a quelli preesistenti5, mentre infuria la contrattazione politica per la perimetrazione dei territori di produzione con ragioni e contestazioni che poco hanno a che fare con le tradizioni produttive. E solo i disciplinari di produzione hanno scongiurato il pericolo di un inquinamento graduale dei territorio per l’uso di fertilizzanti chimici, per quanto non si riesca ad impedire il depauperamento delle biodiversità e la scomparsa di specie naturali autoctone. Dalle colline del Prosecco e della Valpolicella ai pianori della riforma, lo spazio rurale appare oggi assalito da una nuova forma di sfruttamento neocapitalistico che toglie all’agricoltura molta della sua aura bucolica che siamo soliti attribuirle. Non è da meno il turismo, più o meno “green”, più o meno invasivo, un turismo che trova nella riscoperta del paesaggio e delle sue valenze non solo un decisivo rilancio economico, ma anche la creazione di nuove modalità di fruizione. Si tratta di nuove filiere e nuovi itinerari che mettono in gioco anche i territori marginali o i cosiddetti “territori di rimbalzo” dove turisti del mare, della montagna o della città d’arte, completano la loro visita con escursioni giornaliere o piuttosto con “accidentali” deviazioni di percorso nel paesaggio. A supporto di questo nuovo turismo, che sfrutta un paesaggio “icona” che va tutelato più per non tradire aspettative che per un riconosciuto valore collettivo, non devono 4 Alcuni esempi più macroscopici sono la diffusione incontrastata dei seminativi semplici, la diffusione dei pioppeti per la produzione di cellulosa, delle colture cerealicole per produrre biogas e biomasse in una transizione energetica che vede coinvolta anche l’agricoltura (Ferrario, 2016). 5 La tragedia al Molinetto della Croda del 2 agosto 2014 nei pressi di Refrontolo, per quanto dovuta a piogge estive eccezionali, ha sollevato numerosi dubbi sulle possibili concause dell’esondazione del torrente Lierza. Se dapprima pareva che potesse essere l’esito di una mancata manutenzione dei terreni collinari in progressivo degrado di un territorio agricolo abbandonato, in seguito si è valutata anche l’ipotesi opposta: ossia che un eccessivo sfruttamento agricolo del terreno, ed un suo adattamento alle nuove coltivazioni vitivinicole, avessero determinato processi di erosione progressiva e fenomeni di dilavamento. Lasciando la parola agli esperti, il disastro ambientale appare comunque avere alcune connessioni con i processi di cambiamento degli assetti agricoli tradizionali (storici, tradizionali o innovativi) che non sono stati ancora pienamente esplorati. 166
essere negate strutture ed infrastrutture per garantire l’accoglienza e l’ospitalità; non si possono rifiutare confort “urbani” dalle tipologie e dai caratteri esogeni che alterano i paesaggi naturali. È questo il paesaggio che appare più vulnerabile perché la sua trasformazione viene compiuta per la sua stessa salvaguardia, controsenso politico di cui non si colgono le conseguenze. Inutile dire dei paesaggi che coronano le aree prossime ai centri turistici di maggior rilievo, “cornici” di un’urbanizzazione del leisure che non può essere contrastata senza penalizzare le leve dello sviluppo. Le aree della riforma che retrostanno nel Veneto orientale a centri come Caorle (fig. 11) o Jesolo ne sono un esempio, anche per le architetture che si impongono su un paesaggio che sembrava aver conservato la sua uniformità conquistata solo pochi decenni fa. E non meno a repentaglio appaiono le frange di bonifica che si spingono verso il mare, nel Delta veneto del Po (fig. 12), che offrono una nuova possibile frontiera di espansione per attrezzature complementari alla vacanza balneare sempre alla ricerca di novità.
Fig. 11 L’immediato retroterra di Caorle
Cerniera tra i due settori il complesso sistema della valorizzazione enogastronomica dei prodotti locali che, oltre a supportare nuove filiere produttive dagli impatti non sempre considerati, contribuisce spesso ad una stereotipizzazione e ad una banalizzazione dei paesaggi (nei complessi meccanismi di marketing e di advertising): nel medesimo tempo in cui ne favorisce la conoscenza e la promozione, ne innesca un processo di veloce consumo, di esperienza circoscritta, fugace, poco introspettiva (Croce, Perri, 2008).
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Fig. 12 Albarella Touristic Resort prossimo alle bonifiche del delta veneto del Po
Pianificazione vs paesaggio? Alla pianificazione, voglio dedicare le ultime riflessioni. Da questo punto di vista, il Veneto continua a rappresentare un caso paradigmatico, come tempo fa si disse riflettendo sui processi di cambiamento territoriale, che però è stato riconosciuto – con le debite differenze – come un fenomeno di scala continentale. Ma costituisce ancora un caso se facciamo riferimento ai processi di pianificazione e al difficile sistema delle tutele e della salvaguardia del territorio, per la contraddittorietà delle norme che accompagnano paradossalmente una maturazione politica e culturale sui temi del paesaggio. Nonostante la Regione del Veneto nell’elaborazione del nuovo PTRC non abbia seguito un percorso del tutto ortodosso (per quanto relativamente legittimo6), dando un equivoco segnale di relativo impegno sulla tutela del paesaggio, in realtà l’attenzione sul paesaggio regionale ha segnato grandi progressi nel corso degli ultimi trent’anni. L’Atlante Ricognitivo degli Ambiti di Paesaggio ne è un esempio: articolato, complesso, dettagliato lavoro di osservazione e catalogazione che riesce a riconoscere non solo i diversi paesaggi regionali, ma anche, al di là delle morfologie, le componenti non solo fisiche, ma anche economiche, sociali e culturali, e a segnalarne le dinamiche 6 La L. 431/1985 alla sua entrata vigore prevedeva che le Regioni optassero per la redazione di uno specifico Piano paesistico o piuttosto per un Piano territoriale di coordinamento con valenza paesistica: una soluzione per venire incontro alle difficoltà delle regioni già impegnate nella redazione dello strumento di pianificazione. Il PTRC approvato in via definitiva nel 1992 assume quindi anche la valenza specifica per il paesaggio. Tale possibilità sarebbe decaduta nella redazione di un nuovo PTRC e non viene più menzionata dal Codice Urbani. Nonostante questo, in seguito all’entrata in vigore della nuova legge urbanistica regionale 11/2004 (artt. 4 e 25), però, la Regione Veneto nella redazione del nuovo PTRC (adottato nel 2009) ha ribadito la valenza paesistica dello strumento urbanistico piuttosto che redigere il Piano paesaggistico. La questione è stata oggetto di prolungato contenzioso fra Stato e Regione del Veneto che ha portato alla necessità di attivare un percorso autonomo per la formazione di apposito Piano Paesaggistico del Veneto, di cui al momento non si ha traccia alcuna. 168
di trasformazione in atto. All’interno dell’Atlante, anche il denigrato “paesaggio” della città diffusa trova una sua collocazione come “spazio agropolitano”, che nonostante la forte presenza antropica fa registrare la permanenza di diversi sistemi naturali originali (per quanto ridotti “a lacerti”) e ambiti che mantengono “una buona naturalità”. Questo paesaggio, nella sua complessità e nella strana combinazione determinatasi tra “frammentazione delle matrici rurali e seminaturali del paesaggio” e “pressione urbanizzativa permanente” viene definito quale “capitale plurale del Veneto” (p. 340). L’area agropolitana, nella scrupolosa analisi delle componenti paesaggistiche e nell’attenta valutazione delle criticità, mostra un affinamento della riflessione istituzionale sul paesaggio che non può che essere enfatizzata. Ad essa, però – ed è questo il punto su cui riflettere – non sembra corrispondere, al di là degli obiettivi individuati e agli indirizzi di qualità paesaggistica formulati, un’altrettanto sviluppata e raffinata normativa. Gli strumenti che i piani regionali sembrano mettere a disposizione delle amministrazioni ricadono nell’alveo tradizionale della strumentazione pianificatoria: vincolo, articolazione (sofisticata e macchinosa) delle norme, piani di settore. Sul vincolo molto si è detto (e ancor di più sulle capacità delle istituzioni di farlo rispettare o di non incappare nelle deroghe in nome di presunte – e continue – emergenze); non di meno si è scritto sulla complessità delle norme che, soprattutto nel caso del paesaggio, ha mostrato la complessità e l’inanità delle disposizioni7. Qualcosa va detto piuttosto sulla previsione e redazione di piani di dettaglio e di settore. Sia nel PTRC del 1992 che nel PTRC del 2009, gli ambiti di maggior valenza paesaggistica vengono soggetti dalla normativa regionale a strumenti di pianificazione supplementari. Il primo individua ben 19 ambiti territoriali soggetti a specifici Piani di Area8 che rappresentano un ulteriore livello di pianificazione, più dettagliato e nel quale dovrebbero venire affrontate molte questioni che il PTRC lascia insolute, soprattutto sul nodo degli impatti territoriali dei processi di sviluppo economico, risolvendo, non di rado anche contenziosi amministrativi e incompatibilità prescrittive. 7 Pur ammettendo l’assoluta unicità della Laguna di Venezia e l’imprescindibile impegno di tutelarne la conservazione, la normativa che grava sulla Laguna di Venezia appare talmente pletorica e farraginosa dall’essere complessivamente impraticabile, per cui inutile (norme che vanno dall’inedificabilità dei luoghi alla tutela delle specie vegetali e animali, dal controllo degli scarichi in laguna alle sagome dei mezzi di navigazione, dalle norme sulla pescicoltura ai regolamenti sugli aggetti architettonici al colore dei pali nella laguna, in una sommatoria contraddittoria di disposizioni spesso inintelligibile). Molti degli strumenti redatti per la città come per il suo incomparabile contesto “naturale”, quindi, hanno condotto in diverse situazioni ad una generale impasse decisionale delle istituzioni e ad una diffusa “illegalità” delle pratiche quotidiane più o meno spontanee degli abitanti e degli operatori economici. Va comunque sottolineato, come giustamente indica l’Atlante, che nonostante tutto anche nei territori più compromessi, come l’ambito agropolitano, il paesaggio che è riuscito a mantenere i suoi caratteri di integrità è quasi tutto compreso nella Rete Natura 2000, ad indicare la validità di alcuni dispositivi normativi. 8 Il Piano di Area è uno strumento di specificazione del PTRC per ambiti territoriali determinati per il quale deve poter “individuare le giuste soluzioni per tutti quei contesti territoriali che richiedono specifici, articolati e multidisciplinari approcci alla pianificazione”. I Piani di Area hanno assunto valenza paesistica per effetto della LR 9/1986 e costituiscono strumenti di pianificazione che nel disegno di governo del territorio regionale presentano carattere sovraordinato rispetto a tutti gli altri piani. 169
Ma solo alcuni di questi Piani di Area hanno visto la luce; hanno completato il loro iter approvativo e sono entrati in vigore, risultando spesso un elemento di maggiore difficoltà del governo del territorio e di nessuna efficacia nel controllo dei processi di cambiamento territoriale. Successivamente, la nuova legge urbanistica sostituisce i Piani di Area con i Piani Paesaggistici Regionali d’Ambito (PRRA)9 di maggiore estensione territoriale (includendo più ambiti dei precedenti Piani di Area, assimilandoli per “affinità paesaggistica”) finendo con il coprire integralmente il territorio regionale. I PRRA dovrebbero tra l’altro tentare una strategica armonizzazione delle normative urbanistiche con le prescrizioni di tutela paesaggistica, indicando vincoli ma suggerendo anche “buone pratiche”, stabilendo obiettivi ma enfatizzando anche le “vocazioni”, riscoprendo potenzialità e cercando di contrastare i processi degenerativi del paesaggio. Al momento la Regione del Veneto ha pubblicato il solo PPRA dell’Arco Costiero Adriatico - Laguna di Venezia e Delta Po che, al di là delle dichiarazioni, non sembra contenere elementi di particolare innovazione. Ad una completa e raffinata analisi delle caratteristiche del paesaggio, non si riscontrano né suggestioni per nuovi percorsi di governo del territorio, tantomeno nuove formule per la tutela del paesaggio. Il PRRA appare come un ulteriore adempimento amministrativo ed un appesantimento del processo normativo, sostanzialmente incapace di agire concretamente sulle pratiche di uso del territorio. Nonostante l’attenzione agli aspetti naturalistici e paesaggistici dei diversi ambiti di paesaggio, nonostante un riconoscimento univoco e chiaro dei paesaggi delle bonifiche e della riforma agraria (per quanto a quest’ultimo non si riconosca una propria specificità) non si ritrovano negli strumenti di pianificazione territoriale a scala vasta alcuna forma di innovazione nelle politiche di tutela e di valorizzazione. Fatti salvi gli aspetti naturalistici e i caratteri ambientali, attraverso vincoli e prescrizioni di interdizione, il documento non sembra contenere – nel suo apparato normativo – indicazioni originali per armonizzare azioni di tutela, con le iniziative di valorizzazione e promozione del territorio e di sfruttamento delle sue potenzialità economiche. Inutile dire che questioni come la pressione turistica su Venezia e la sua laguna e la permanenza dell’apparato produttivo di Porto Marghera appaiono insolute. Il territorio non edificato è trattato in un’accezione quasi esclusivamente produttiva. E al di là delle emergenze naturali o dei manufatti storici, già “garantiti” da specifica normativa, il PRRA non è stata occasione per formulare nuove tipologie di azioni. Questo approccio tradizionale della pianificazione espone, dunque, il paesaggio (ed in questo caso specifico anche i territori delle riforme) ai “rischi” della pianificazione locale! 9 I PPRA, nella definizione di legge, dovrebbero consentire, da un lato, la costruzione di uno scenario completo di sviluppo a livello regionale e assicurare, dall’altro “un sufficiente grado di approfondimento per le tematiche d’ambito e una maggiore efficacia attuativa nei contesti locali”. L’intento della Regione è quello di creare le condizioni per un più efficace confronto “tra il sistema delle tutele dei beni paesaggistici con l’effettiva realtà territoriale contestuale di appartenenza e di procedere, oltre che alla puntuale individuazione e delimitazione dei beni tutelati, anche ad una valutazione degli stessi, sulla base dell’analisi della sussistenza e dell’attualità dei valori paesaggistici che a suo tempo avevano motivato l’imposizione del vincolo”. 170
Ed infatti sono le pratiche di uso del territorio che destano maggiore preoccupazione. Chiudendo questo ragionamento e tornando alle riflessioni di apertura, riconduco lo sguardo sui paesaggi della dispersione, perché proprio questi – come ho cercato di sostenere – permettono di leggere la vulnerabilità del paesaggio, che sia o meno “contemporaneo”. È proprio questo paesaggio, così distante dalla regolarità e, per alcuni versi, dalla tranquillità dei paesaggi della riforma agraria, che permette di cogliere la debolezza del vincolo o la pervicacia delle norme. Per quanto infatti si possa contestare, né lo skyline dei capannoni industriali, tantomeno la scenografia della villetta a schiera o della casa singola su collina artificiale per ospitare taverna e garage tra essenze vegetali tropicali (rimando a Vallerani per la censura su queste nuove forme di paesaggio), sono esito di un mancato rispetto delle norme, di una irrisione della pianificazione avallata da compiacenti (quando non corrotte) istituzioni! Questo paesaggio nasce dall’applicazione più o meno oculata di norme e di prescrizioni che in alcuni casi sono state deliberate nel pieno rispetto di un modello economico, politico e culturale sorprendentemente coerente e perdurante10 e che trova nelle norme urbanistiche dei piani regolatori comunali uno strumento di esecuzione efficace e pervasivo. Per breve esemplificazione, basterà ricordare le note Zone territoriali omogenee “E4” che hanno contraddistinto quasi tutti i PRG (poi PAT) del territorio regionale. La LR 24/1985 tra le varie materie trattate, affronta anche la problematica (non indifferente in quegli anni) dello sviluppo edilizio nelle aree agricole. Si tratta non solo delle modalità di crescita dei tessuti urbani consolidati o dei piccoli centri ma, soprattutto, dell’ispessimento di filamenti urbanizzati lungo strade secondarie, dell’ingrossamento di piccoli gruppi di case e casolari, frazioni rurali, oltre al recupero di un vasto patrimonio edilizio rurale. Nel processo di esasperata normazione del territorio, la legge suggerisce un diversa classificazione della “Zone agricole”, suddividendole nelle sottozone: “E 1) aree caratterizzate da una produzione agricola tipica o specializzata; E 2) aree di primaria importanza per la funzione agricolo-produttiva, anche in relazione all’estensione, composizione e localizzazione dei terreni; E 3) aree che, caratterizzate da un elevato frazionamento fondiario, sono 10 Anche su questo, molto è stato detto, e rimando a Rallo e Tosi (1991), Savino (1999), Munarin e Tosi (2001), alle origini dell’esplorazione della città diffusa. La legittimità dal punto di vista normativo urbanistico dei pervasivi interventi di trasformazione del territorio è indiscutibile. Infatti, sono noti gli effetti della LR 1/1982 “Norme per l’ampliamento di fabbricati adibiti ad attività di produzione artigianale e industriale e ad attività commerciali” che all’art. 1 consente “l’ampliamento di fabbricati adibiti ad attività di produzione artigianale e industriale, nonché ad attività commerciali, anche ricadenti, alla data del 3 gennaio 1979, in zone non destinate dagli strumenti urbanistici a insediamenti produttivi o commerciali, per documentate esigenze relative a: riqualificazione, riconversione e ristrutturazione produttiva o aziendale; aumento del numero degli addetti; igiene ambientale e sicurezza del lavoro; applicazione delle leggi vigenti”. O piuttosto della LR 24/1985 “Tutela ed edificabilità delle zone agricole” che favorisce il recupero e trasformazione di buona parte del patrimonio residenziale in area agricola. Ancora più noti gli effetti del DL 357 del 10 giugno 1994, n. 357 (poi L. 489 dell’8 agosto 1994, la cosiddetta “legge Tremonti”, che permette alle amministrazioni comunali l’impiego degli oneri di urbanizzazione per la copertura delle spese correnti, favorendo quindi processi di urbanizzazione del territorio, anche in presenza di una debole domanda di mercato). 171
contemporaneamente utilizzabili per scopi agricolo-produttivi e per scopi residenziali; E 4) aree che, caratterizzate dalla presenza di preesistenze insediative, sono utilizzabili per l’organizzazione di centri rurali […]”. Oltre a indicare la residenza come un connotato permanente della zona agricola (e senza alcun stretto legame con la conduzione del fondo, contrariamente alle indicazioni del DM 1444/1968), la legge poi specifica che per la “Sottozona E4 – Zona agricola a diffuso carattere insediativo” stante la perduta originaria vocazione agricola siano possibili il raddoppio degli indici, l’ampliamento fino al volume massimo compreso l’esistente, ristrutturazione e/o l’ampliamento, ai fini di recuperare, la costruzione di nuove case d’abitazione, e via discorrendo. Indici di cubatura, limiti minimi agli ampliamenti, contenimento delle altezze massime consentite, appaiono puri palliativi ad un processo di nuova edificazione che investe il territorio agricolo dove processi ancora sporadici di ampliamento degli insediamento residenziale in ambito rurale vengono a questo punto supportati ed incentivati con generose norme edilizie (fig. 13).
Fig. 13 Le sottozone “E4” in un PRG di un Comune della pianura agropolitana
Lo strumento urbanistico, nel tentativo di regolamentare e controllare il processo edilizio, in realtà darà l’abbrivio ad uno dei processi di maggiore alterazione del paesaggio che si possa ricordare nella storia della regione (di cui abbiamo già ampiamente discusso) che sembra essersi arrestato solo per gli effetti di una devastante crisi immobiliare ed economica. E nonostante i peana dei sostenitori del contenimento del consumo di suolo, pronto a ripartire se il mercato ripristinerà le condizioni di valore e di rendita del passato. 172
È, quindi, nelle pieghe della legislazione e di una pianificazione che si muove ancora nell’alveo di una regolamentazione a volte autoreferenziale ed inefficace che vedo uno dei pericoli maggiori per il paesaggio. È nella difficoltà permanente della pianificazione di tradurre la ricchezza di informazioni e la sensibilità analitica in un sistema di regole semplici e coerenti, piuttosto che in una pletora di strumenti e di prescrizioni di difficile attuazione e ancor più difficile controllo. È nell’incapacità della pianificazione di contribuire concretamente alla costruzione di una consapevolezza collettiva dei valori e dei beni comuni che possa poi riflettersi in pratiche virtuose di uso del territorio che io vedo il persistente pericolo per il paesaggio, che sia più o meno “contemporaneo”. Tutte le immagini (ad esclusione della fig. 13) sono tratte da Regione del Veneto (2014).
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I paesaggi della riforma agraria nei piani di area vasta in Sicilia
Francesco Martinico
In questo contributo si svolgono brevi considerazioni relative ai piani di area vasta che hanno interessato alcuni dei territori oggetto dalla Riforma Agraria in Sicilia. Il punto di osservazione assunto è quello della pianificazione territoriale e del paesaggio. A partire da alcune notazioni sui piani di area vasta risalenti alla seconda metà del ventesimo secolo, si fa riferimento alla proposta di Piano Paesaggistico relativa agli ambiti ricadenti nel territorio della provincia di Enna1, che proponeva alcune indicazioni normative mirate ad affrontare le recenti evoluzioni del territorio agricolo. La pianificazione di area vasta in Sicilia si caratterizza per una sostanziale marginalità all’interno di un contesto che non brilla per una particolare attenzione alla dimensione del paesaggio. Terminata, in modo sostanzialmente inconcludente, la fase successiva all’avvio del governo repubblicano che ha visto in Sicilia una lunga sequenza di studi e proposte di piani territoriali, in anni più recenti, si è assistito a una nuova stagione di piani anch’essa caratterizzata da pochi esiti concreti. Questa seconda fase riguarda la redazione di alcuni Piani Provinciali, uno solo dei quali (Ragusa) ha completato il suo iter di approvazione. Negli stessi anni si è assistito alla redazione dei piani paesaggistici, a partire dalle linee guida regionali approvate nel 19992. Eppure il territorio siciliano con la sua forte connotazione agricola e la ricchezza di valori ambientali e culturali, unita alla sua estrema fragilità idrogeologica richiederebbe un’attenzione pianificatoria che oggi sembra mancare quasi del tutto. Questo atteggiamento recente non trova riscontro nel passato, quando l’attenzione al territorio extraurbano era molto rilevante, soprattutto nella stagione della Riforma Agraria e degli interventi della Cassa per il Mezzogiorno. L’attenzione al territorio agricolo era motivata da intenzioni del tutto differenti rispetto al quadro attuale, poiché il centro dell’interesse era il superamento di quelle condizioni di arretratezza 1 Agli studi propedeutici e alla proposta di assetto normativo di alcuni ambiti del Piano Paesaggistico ha preso parte l’Università degli Studi di Catania. C. Mancuso, F. Martinico, F. C. Nigrelli (a cura di), I piani territoriali paesaggistici della provincia di Enna, «Urbanistica Quaderni», vol. 53, 2009. 2 Sui limiti concettuali e operativi che hanno caratterizzato questa esperienza F. Martinico, L’esperienza della costruzione dei piani paesaggistici nella provincia di Enna: un bilancio, in Capuano A. (a cura di) Paesaggi di Rovine Paesaggi Rovinati, Quodlibet, Macerata, 2014. 175
che caratterizzavano il territorio agricolo dell’isola, comuni a buona parte del Mezzogiorno. Negli anni dell’immediato dopoguerra gli studi sulla condizione dell’agricoltura3 fornirono un quadro molto articolato sulle ragioni di queste condizioni. Molte di queste considerazioni costituiscono la base concettuale utilizzata nei vari tentativi di pianificazione avviate negli anni successivi in Sicilia.
L’agricoltura e la pianificazione territoriale di area vasta in Sicilia Il territorio siciliano è stato oggetto di molteplici studi e progetti che hanno riguardato l’agricoltura e il territorio. Le teorizzazioni sulla colonizzazione del latifondo siciliano che vedono il coinvolgimento dell’ urbanista Edoardo Caracciolo e le successive vicende relative alla costruzione dei borghi rurali testimoniano questo interesse che emerge e si inabissa come un fiume carsico nella storia siciliana del ventesimo secolo4, proponendo soluzioni che molto spesso hanno inciso in modo trascurabile sull’assetto territoriale della Sicilia interna. Un approccio diverso ma altrettanto interessante emerge osservando la vasta produzione di documenti di programmazione e di piani territoriali che hanno avuto per oggetto il territorio siciliano. Questi documenti, redatti negli anni tra il 1945 e il 1980, comprendono diversi strumenti di programmazione economica che, in alcuni casi, includevano considerazioni sugli aspetti territoriali. A questi si affiancarono i piani redatti dall’Ente di sviluppo agricolo, negli anni 1970, degli strumenti che si caratterizzavano in modo molto spiccato come piani settoriali. Nel primo gruppo, i temi dell’agricoltura sono affrontati in modo marginale e senza mai evidenziare approfonditamente le relazioni con gli altri aspetti dello sviluppo economico del territorio siciliano. Fa eccezione il “Progetto di programma per il quinquennio 1966-1970” che affronta in modo più preciso il tema dell’integrazione delle varie componenti dello sviluppo, accentuando la prospettiva territoriale. Il centro dell’interesse è prevalentemente il settore industriale che viene considerato come l’indispensabile elemento di diversificazione della struttura economica del territorio siciliano5. È un tema affrontato dagli studiosi meridionalisti che vedono nel potenziamento del settore secondario una delle possibilità per contrastare, seppure parzialmente, l’inevitabile processo di emigrazione6, necessario per garantire un buon equilibrio alla struttura economica regionale, indispensabile per far fronte alle esigenze di una popolazione in forte crescita demografica7. In questi documenti la Riforma Agraria viene, tuttavia, sempre richiamata in modo marginale 3 Lo studioso di riferimento è Manlio Rossi Doria, in particolare M. Rossi Doria, 10 anni di politica agraria, Laterza, Bari, 1958; nuova edizione: Ancora del Mediterraneo, Napoli, 2004. 4 Sull’argomento F. Faro, Condizione rurale e pianificazione in Sicilia «Quaderno IDAU» n. 14 Università degli Studi di Catania, 1984 e V. Sapienza, La Colonizzazione del Latifondo Siciliano, Lussografica, Caltanissetta, 2010. 5 Alcuni di questi aspetti sono approfonditi in F. Martinico, Il Nucleo di industrializzazione di Ragusa nel quadro della pianificazione territoriale siciliana, in Storia Urbana, vol. 130, 2011. 6 M. Rossi Doria, op. cit. 7 La popolazione complessiva della Sicilia da poco più di 4 milioni di abitanti nel 1936 a oltre 4,7 nel 1961, con un incremento del 18%. 176
e ciò sembra confermare la mancata centralità della vicenda nel dibattito sullo sviluppo economico della Sicilia. Questa costatazione appare coerente con una delle difficoltà maggiori riscontrabili nella complesse vicende delle politiche di sostegno allo sviluppo del Mezzogiorno: far dialogare produttivamente esperienze diverse e riflettere su eventuali errori di queste politiche per avviare azioni correttive. Il sostegno allo sviluppo in Sicilia non è fatto solo di documenti generici e poco efficaci. Gli anni 1950 si caratterizzarono per i grandi interventi infrastrutturali della Cassa per il Mezzogiorno che riuscirono a incidere sulle storiche condizioni di arretratezza del sistema infrastrutturale (fig. 1.)8 La Cassa si caratterizza nei primi anni della sua attività per una notevole efficacia9 e la dotazione di attrezzature realizzata in quegli anni ha costituto la premessa per le trasformazioni recenti.
Fig. 1 Opere finanziate dalla Cassa in Provincia di Enna – Viabilità (Fonte: Regione Siciliana Cassa per il Mezzogiorno Gli Interventi della Cassa, 1955)
8 Per esempio, nella provincia di Enna furono finanziati, in un periodo di 12 anni, 198 km di nuove strade o di miglioramenti alle strade esistenti, per un importo pari a 1,121 miliardi di lire (Fonte: Regione Siciliana – Cassa per il Mezzogiorno (1955). Gli interventi della Cassa del Mezzogiorno in Sicilia, a cura dell’Ufficio Studi della Presidenza della Regione Siciliana, Palermo). 9 Per un interessante valutazione dall’esterno delle vicende della Cassa J. Perry Clark Carey and A. Galbraith Carey The South of Italy and the Cassa per il Mezzogiorno, in The Western Political Quarterly, Vol. 8, No. 4, 1955, pp. 569-588. 177
Il Piano Quinquennale di Sviluppo Economico Sociale del 195610 , è esclusivamente un documento di pianificazione economica che pone un’attenzione marginale agli aspetti territoriali. Per la sua redazione vennero istituite quattro commissioni, una delle quali per lo Sviluppo Agricolo11. La relazione di questa sottocommissione individua nell’ intensificazione colturale uno dei temi centrali per risollevare l’agricoltura siciliana dallo «stato di profonda depressione in cui versa» e precisa che ciò avrebbe richiesto interventi «di portata ben maggiore e di tempi di azione molto più ampi di quanto non sia possibile realizzare nel quinquennio». Si evidenziano poi le ricadute positive sui settori industriali e commerciali derivanti dal rilancio dell’agricoltura oltre «al forte assorbimento di mano d’opera sia per la realizzazione delle opere previste sia […] in dipendenza della intensificazione colturale conseguente alla realizzazione delle opere stesse. Nel capitolo relativo a «Bonifica e miglioramenti fondiari» si evidenzia come l’aumento della popolazione agricola aveva provocato, oltre all’estendersi di coltivazioni attive, anche «il dissodamento di terre già salde con un conseguente accentuarsi del disordine idraulico e un eccessivo affollamento dei centri esistenti; causa di condizioni igieniche e di abitabilità non sempre consone alle esigenze umane.» Il piano dettaglia gli interventi effettuati e quelli in corso relativi a opere di irrigazione, viabilità, elettrificazione rurale, sistemazioni idrauliche e rimboschimenti, oltre a opere minori come i laghetti collinari o il risanamento della abitazioni contadine. Il capitolo sugli indirizzi produttivi indica una direzione che mette al centro il settore che all’epoca era maggiormente specifico dell’agricoltura siciliana, quello della cerealicoltura, con alcuni accenni a settori più specializzati come la cotonicoltura o la carrubicoltura. Il documento contiene un riferimento anche alla coltivazione della barbabietola da zucchero, una produzione che non è mai decollata in Sicilia ma che fu oggetto di attenzione e investimenti tra gli anni 1950 e 196012. La previsione complessiva dei fondi da impiegare nel settore dell’agricoltura ammontava a 233 miliardi di lire. Del tutto marginali sono i riferimenti alla Riforma Agraria, limitati a sporadici accenni al tema dei prestiti da concedere agli assegnatari e alla vicenda dei borghi rurali. I Piani dell’ Ente di Sviluppo Agricolo (ESA), redatti negli anni 1970, sono poco attenti agli aspetti territoriali in senso lato e si concentrano sulle dotazioni infrastrutturali, indispensabili per lo sviluppo agricolo. Per esempio, sono valutate le carenze in termini di infrastrutture irrigue, per l’acqua potabile, l’elettrificazione rurale e le reti stradali, quest’ultime indispensabili per consentire la connessione tra aree produttive, l’accesso dei lavoratori, il raggiungimento dei mercati ma anche per «consentire una migliore articolazione delle relazioni sociali e l’incremento della ricettività per la strutturazione dell’agri-turismo»13. La previsione di sviluppo della 10 Noto come Piano Alessi, dal nome del Presidente della Regione che se ne fece promotore, fu avviato a seguito del DPRS n. 38 A del 1956. 11 pag. 93 e seguenti. 12 Alla coltura della barbabietola fa riferimento anche il Piano per il Consorzio Asi di Catania del 1966 che evidenzia come lo zuccherificio già impiantato nella piana di Catania non fosse mai entrato in funzione a causa della mancanza di materia prima poiché lo «zuccherificio è stato installato senza preoccuparsi di come la barbabietola sarebbe stata prodotta». 13 Regione Siciliana. Ente Sviluppo Agricolo (ESA), Piano Generale di Sviluppo Agricolo, Arti Grafiche Siciliane, Palermo, 1974, p. 56 e seg. 178
rete stradale per i singoli piani zonali veniva infatti stimata in ben 11.388 km, a fronte di una consistenza al 1971 di 17.414 km. Le indicazioni dei piani ESA sono ancora fortemente influenzate dalle carenze infrastrutturali che impediscono un completo sviluppo dell’agricoltura siciliana, seppure con alcune timide aperture all’innovazione come nel caso del riferimento all’agriturismo.
Il Piano Grimaldi Il Programma di Sviluppo Economico d 1966-197014, proposto dall’ assessore allo Sviluppo Economico Attilio Grimaldi15, aveva come obiettivi il perseguimento di una riduzione del divario dei redditi, il riequilibrio territoriale e quello tra settori produttivi e la massima occupazione da «realizzare seguendo un modulo espansivo della attività economica e delle forze di lavoro impegnate» rifiutando il modello redistributivo che avrebbe comportato «la continuazione o addirittura l’espansione dei flussi migratorio diretti verso l’esterno». In questa prospettiva il programma di sviluppo indicava un incremento di capitali e produzione nel settore agricolo con una contrazione della forza lavoro. L’industria è ancora al centro delle prospettive di sviluppo ma il programma evidenzia come la razionalizzazione della localizzazione delle attività economiche doveva basarsi su principi di concentrazione attraverso «l’avvio di una profonda ristrutturazione urbanistica e territoriale». Il programma era basato su una metodologia che guardava a sistemi integrati di imprese per evitare le difficolta dovute alla «polverizzazione delle aziende». Per esempio, il programma citava le attività connesse alla «lavorazione e trasformazione di prodotti ortofrutticoli e agrumari specialmente destinate ai mercati esterni». Gli investimenti venivano conseguentemente classificati nelle categorie di interesse generale, di cui beneficiano imprese e famiglie, e a fini sociali, diretti al soddisfacimento dei bisogni di famiglie e singoli individui. In totale, il programma prevedeva investimenti pubblici per circa 1400 miliardi di lire e privati per 1.715 miliardi di cui 79 e 132 rispettivamente nel settore agricolo. Nel dettaglio, il documento mette assieme aspetti di notevole interesse che appaiono oggi ancora innovativi ma non si esime dall’includere alcuni dei temi quasi mitologici che ricorrono nell’annosa questione dello sviluppo siciliano, primo tra tutti il ponte di Messina, fino a elementi minori ma pervicacemente presenti come l’idea di favorire il trasporto aereo dei prodotti agricoli16.
14 Regione Siciliana, Assessorato per lo sviluppo economico, Progetto di programma di sviluppo economico della Regione siciliana per il quinquennio 1966-1970, (II^ Ed.), Grafindustria editoriale, Palermo, 1965. 15 Alla sua scomparsa, nel 1967, del piano si perde memoria (S. Failla, P. La Villa, I Sessantotto di Sicilia, Zerobook, Catania, 2016 pag. 23). 16 Si ipotizza la realizzazione di nuovi aeroporti a Comiso, utilizzando le struttura già esistente, e a porto Empedocle oltre a un ”aeroporto dello stretto in provincia di Messina”, sottolineando la possibilità di effettuare il ”trasporto di primaticci”. 179
Il capitolo IV, relativo agli investimenti nel settore delle attività di esportazione, assegna all’agricoltura un ruolo centrale. Si evidenziano come cruciali gli aspetti relativi alla distinzione di ruoli dell’imprenditore agricolo e del proprietario fondiario, ma, anche in questo caso, non vi è alcun accenno alle vicende della Riforma Agraria17. Il piano individuava nella mancata integrazione con le attività successive alla raccolta dei prodotti un nodo cruciale, ipotizzando una successiva individuazione di «aree di sviluppo agricolo» in cui l’attività di produzione deve essere «principalmente diretta all’esportazione». da effettuare in base ad accurate indagini statistiche che avrebbero dovuto comprendere anche gli aspetti del sistema infrastrutturale e insediativo. In prima approssimazione, il documento identificava cinque macro-aree, individuando per ciascuna di esse un’ipotesi di sviluppo delle esportazioni per i vari settori produttivi e gli investimenti necessari per le infrastrutture e le opere fondiarie. Il documento contiene anche brevi indicazioni per ciascuna tipologia colturale. Il Programma indicava nelle fasi della commercializzazione, della logistica e dei trasporti un punto cruciale per favorire l’esportazione dei prodotti agricoli e dedicava un ampio spazio al tema delle industrie per la trasformazione, un settore che aveva un ruolo marginale nell’economia isolana. L’accento principale è tuttavia posto sul settore industriale che comprende un minimo accenno al settore della carta e delle produzioni agricole correlate (paglia e cellulosa da eucalipti e pioppi). Alcune indicazioni appaiono datate e non più attuali. Per esempio, si pone un forte accento sullo sviluppo del settore cerealicolo e zootecnico mentre appare in contrazione il settore dell’olio di oliva, ritorna il riferimento alla barbabietola da zucchero, limitatamente alla zona sud-orientale. Il tema dell’agricoltura viene ampiamente ripreso anche nel capitolo relativo ai consumi interni. Il capitolo sulle grandi infrastrutture è incentrato su autostrade e viabilità minore. Inoltre, si propone una razionalizzazione della rete ferroviaria attraverso la dismissione di linee secondarie e il potenziamento di quelle principali, con un accenno al tema della «instaurazione di linee metropolitane» per risolvere i primi problemi di congestione delle città maggiori, un intervento che tuttavia è «destinato ad essere procrastinato nei tempo». Un ampio capitolo è dedicato all’acqua per i diversi usi fra cui quello agricolo, a partire dalla considerazione che nell’isola vi erano già 120.000 ettari di zone irrigue. Si prevedeva un incremento di consumi, al 1970, di 0,44 miliardi di metri cubi, di cui 0,17 per usi agricoli. Anche in questo caso, le previsioni partono dalla considerazione dell’abbondanza di disponibilità e dalle carenze delle infrastrutture adeguate a trattenere e utilizzare gli apporti. Particolarmente interessante è il richiamo alla cura dei versanti dei bacini imbriferi degli invasi per ridurre interrimento e evapotraspirazione. Si richiamano le opere realizzate con la Cassa e si stimano in 46 miliardi gli investimenti necessari a coprire i fabbisogni al 1970. Gli interventi di forestazione, con un investimento di 37 miliardi, erano da limitare alle aree dissestate, confidando «nella crescita della macchia mediterranea spontanea, consentita attraverso recinzioni e divieti di pascoli di transito», un fenomeno che si sta effettivamente verificando ma che viene considerato, senza tuttavia fare accenno alle necessità di gestione, indispensabile per garantire un’elevata qualità ecologica e ridurre i rischi connessi allo sviluppo incontrollato. 17 Ibid. p 31. 180
Nel paragrafo sull’elettrificazione rurale si evidenziano le carenze, stimando gli investimenti necessari in 12 miliardi e sottolineando la necessità di potenziare la rete soprattutto nelle zone a maggiore intensità produttiva18. Il cap. IX riguarda gli investimenti per abitazioni i cui criteri dovevano essere basati su un disegno organico e sulla necessità di garantire standard qualitativi, evitando il depauperamento del patrimonio esistente. Si sottolineavano le carenze dei centri rurali, il cui superamento poteva contribuire al contenimento dell’esodo dalle campagne. Gli investimenti dovevano quindi sanare le condizioni di affollamento e sovraffollamento 19, rinnovare il patrimonio esistente e far fronte all’incremento demografico. L’investimento era stimato in 241 miliardi di fondi pubblici e oltre 400 privati, per costruire 1,84 milioni di vani. Il cap. X sugli investimenti sociali evidenziava, oltre alle carenze relative a edilizia scolastica, università e sanità, mercati e macelli i problemi igienico sanitari legati alle carenze del sistema acquedottistico, particolarmente accentuati nelle zone rurali sia intensive che estensive, e delle reti fognanti. Emerge una prima attenzione agli investimenti per la difesa idrogeologica, per i quali si prevedono investimenti per circa 12 miliardi. L’aspetto di maggior interesse è l’importanza data al riequilibrio territoriale e all’assetto urbanistico cui è dedicato un intero capitolo (XIV). Si dichiara che il piano territoriale «intende fornire una serie di economie esterne o di urbanizzazioni che svolgano una funzione di incentivo allo sviluppo di determinati settori produttivi». Il piano punta su sistemi urbani, infrastrutture di trasporto e migliore utilizzazione delle risorse esistenti, da perseguire attraverso azioni che riguardano non solo le aree di intensa urbanizzazione che comprendono la «città dello Stretto» e le agglomerazioni Palermo-Trapani e Catania - Siracusa. Viene individuata come strategica anche «l’Agglomerazione del Sud» sulla costa meridionale, tra Sciacca e Ragusa, un comprensorio che non ha mai conosciuto forme di agglomerazione analoghe a quelle dei sistemi maggiori. Si auspicava una specializzazione di ciascuna agglomerazione, la creazione di una «fascia di urbanizzazione» che recuperasse i centri esistenti e la risoluzione di primi problemi di congestione che «si verificano già allo stato attuale». Un aspetto interessante è quello che mira a evitare soluzioni puntuali e settoriali «che […] tentino il riassetto alla scala urbana stessa» individuando piuttosto «fin dalla fase iniziale una nuova ‘struttura’ territoriale opportunamente dimensionata che valga da quadro di riferimento entro cui collocare i vari tipi di sviluppo che dalla presenza della struttura stessa vengono ad essere ordinati e verificati nella reciproca coerenza». In questa prospettiva, le infrastrutture di trasporto, articolate in tre livelli (fig. 2) , dovevano diventare strutture di orientamento e supporto delle localizzazioni.
18 La realizzazione di una capillare rete di elettrificazione rurale è effettivamente avvenuta in ampie parti del territorio siciliano e ha contribuito al consolidarsi del fenomeno della diffusione urbana (cfr. il successivo paragrafo). 19 L’indice di affollamento al 1964 era pari a 1,39 abitanti/vano, contro il valore medio nazionale di 1,40 al 1951. 181
Fig. 2 Assetto infrastrutturale e le aree di concentrazione urbana (Fonte Progetto di programma di sviluppo economico della Regione siciliana per il quinquennio 1966-1970. Seconda ediz.)
Fig. 3 Agricoltura e Urbanizzazione (Fonte: Progetto di programma di sviluppo economico della Regione siciliana per il quinquennio 1966-1970, Prima ediz.)
Lo schema proposto dedica una particolare attenzione allo sviluppo delle aree interne con una prospettiva che, seppure velleitaria nella proposta, mira a sviluppare le relazioni tra il settore agricolo e il sistema insediativo. Una delle elaborazioni cartografiche allegate al piano è proprio intitolata «agricoltura e urbanizzazione» (fig. 3). La principale struttura territoriale che emerge è quella «di un’asta che dall’interno 182
di Castelvetrano e Salemi fino a Siracusa, collega tra di loro i maggiori centri interni della regione. […] Quest’asta costituisce uno degli elementi più importanti del piano, in quanto è soprattutto attraverso questa infrastruttura che viene garantito il ‘recupero’ dei centri interni, ma anche perché lungo di essa devono essere previste le localizzazioni dei ‘centri di servizio’ dell’intero comprensorio interno. In altri termini, essa dovrà costituire il luogo di concentrazione del capitale fisso sociale nella parte interna della regione»20. Il riequilibrio tra interno e esterno doveva essere perseguito puntando su questo sistema definito «costa interna» dove si sarebbero concentrate le attività «connesse con l’agricoltura e con talune risorse naturali disponibili». Qui la dotazione di servizi, anche nel settore della distribuzione «svolgerà un’azione propulsiva concentrata […] e rappresenterà un freno di natura quasi automatica nei confronti del movimento verso le zone costiere». Viene anche fatto un accenno al contributo che «deve attendersi dalle attività di interesse turistico specie in relazione alla creazione di parchi nazionali e alla ulteriore valorizzazione di centri di grande interesse turistico». I parchi nazionali sarebbero stati collegati, attraverso fasce di territori destinate al rimboschimento, alle coste da salvaguardare e valorizzare. In questa prospettiva, il documento anticipa il concetto di infrastruttura verde e di corridoio ecologico, qui declinato nella forma della continuità territoriale . Lo schema individua 7 comprensori territoriali, accentuando il ruolo di quello definito «Taormina – Cefalù» e di quello interno. Questi due comprensori erano quelli in spopolamento in cui si prevedeva uno sviluppo di attività connesse con le risorse naturali, il turismo e l’agricoltura. Tuttavia, nonostante questi elementi che dimostrano una lungimiranza nelle previsioni, il Programma destinava solo 7 miliardi all’insieme degli investimenti destinati a parchi, attrezzature sportive e conservazione del patrimonio archeologico e storico artistico. Infine, il Programma rassegnava alcune efficaci considerazioni sulle modalità di attuazione di questa strategia territoriale. In assenza di enti a cui compete la pianificazione a questa scala si auspicava un dialogo in sede sovracomunale e interprovinciale su «piani base per realizzare la coerenza degli interventi programmati per eliminare l’ostacolo dei confini amministrativi che sono istituzionalmente reali ma urbanisticamente astratti».21
20 Nelle planimetrie territoriali allegate al programma questa previsione assume la forma schematica di un asse indicato in legenda come ”Urbanizzazione delle zona interna (Servizi)” che inizia a ovest in corrispondenza della congiungente tra Alcamo e Castelvetrano all’altezza di Partanna e che, proseguendo verso Ovest, passa in prossimità dei centri urbani del cuore rurale del territorio siciliano, tra i quali Corleone, Lercara Friddi, Mussomeli, San Cataldo, Piazza Armerina, Caltagirone, Vizzini, Palazzolo Acreide, fino a raggiungere la costa orientale. Alcuni frammenti di questo sistema, limitatamente ad alcuni assi stradali come la SS 683, sono stati realizzati parzialmente e oggi vanno a incrementare il nutrito numero di opere pubbliche incompiute, in un territorio che ha mantenuto una condizione rurale ma che non ha conosciuto altre forme di sviluppo. 21 Il dibattito anticipa la discussione sviluppata in anni recenti sull’abolizione delle provincie. F. C. Nigrelli., Riforma della Governance dei territori in Sicilia. Non tutto è perduto, in R. D’Amico e A. Piraino (a cura di), Il Governo Locale in Sicilia. Materiali per la riforma, Franco Angeli, Milano, 2014. 183
Le condizioni attuali. La diffusione urbana nelle zone agricole interne L’osservazione dei documenti di piano degli anni 1950 - 1970 fa emergere un quadro del territorio rurale siciliano di forte arretratezza economica con carenze infrastrutturali rilevanti. Le zone interne erano quelle più problematiche sulle quali si ipotizzavano forme di intervento più incisivo per garantire una condizione di maggior equilibrio che garantisse il mantenimento della popolazione insediata, migliorandone la condizione economica e la qualità di vita. La vicenda della Riforma Agraria seppure abbia interessato una parte non marginale del territorio siciliano22 (fig.4) appare in modo quasi evanescente nella maggior parte dei documenti di programmazione economica e tuttavia essa va ancora indagata, in una prospettiva di recupero di quella dimensione della programmazione che includa le forme insediative e il paesaggio.
Fig. 4 I terreni assegnati a seguito della Riforma Agraria al 1953 (Fonte Ente per la Riforma Agraria in Sicilia - Eras)
Per esempio, è utile prestare attenzione a uno dei processi di trasformazione insediativa che hanno interessato i territori della Riforma Agraria: la diffusione urbana. È questo un fenomeno del tutto nuovo che si caratterizza tuttavia per diversi elementi di relazione con i temi affrontati nei piani degli anni del primo quarantennio repubblicano. È infatti evidente che oltre 60 anni di investimenti nella realizzazione di opere quali bacini e acquedotti, interventi di miglioramento fondiario, infrastrutture stradali e opere di elettrificazione rurale, pur con tutti i limiti e carenze ancora presenti hanno mutato profondamente il volto dei territori rurali della Sicilia interna. Queste trasformazioni hanno contributo alla sviluppo di un assetto insediativo di residenze diffuse che, in forma del tutto diversa dalle premesse storiche, ha in parte attuato quella colonizzazione del latifondo che era tra gli obiettivi della Riforma Agraria. Le 22 F. Amata, op. cit. 184
carenze del sistema insediativo, evidenziate dal piano Grimaldi nei primi anni 60’ con le condizioni di sovraffollamento del patrimonio immobiliare residenziale, appaiono oggi una condizione lontanissima, alla luce dello sviluppo pervasivo dell’edilizia residenziale e del progressivo e costante spopolamento dei territori interni. La diffusione urbana nelle aree interne della Sicilia assume caratteri specifici23 che la distinguono da analoghi processi tipici delle zone prossime alle città maggiori o a quelle interessate da seconde case costruite con finalità turistiche, come nel caso degli insediamenti costieri o delle aree montane a elevata pressione turistica. Una delle specificità della diffusione urbana, e del conseguente consumo di suolo in questi territori, è la mancanza di relazione con la pressione demografica e il livello di reddito. La recente indagine Ispra sul consumo di suolo (Tab. 1)24 fornisce dei riscontri a quanto già emerso nella indagini condotte in occasione della redazione del Piano Paesaggistico25. Pur in assenza di un quadro esaustivo relativo alle aree interessate dalla suddivisione della proprietà fondiaria, conseguenza della Riforma, alcuni esempi del territorio della provincia di Enna forniscono una prima conferma al fatto che la Riforma Agraria ha dato un contributo al processo di diffusione urbana. Tre aree oggetto degli interventi della Riforma individuate nei comuni di Gagliano Castelferrato (contrada Todaro), e Enna, (contrade Gelsi Montagna e Scioltabino)26 si caratterizzano per la presenza di trasformazioni insediative recenti che confermano alcune dei processi osservati in anni recenti27. In particolare, osservando i tre esempi citati emerge come l’area ricadente in comune di Gagliano Castelferrato sia stata interessata da insediamenti di edilizia residenziale con tipologie edilizie tipiche della diffusione urbana nei contesti rurali della Sicilia interna, che comprendono edifici residenziali monofamiliari con caratteristiche ascrivibili a contesti urbani del tutto estranei alla condizione rurale. Il piano di Riparto in Contrada Scioltabino comprende una zona con suoli molto scadenti ma interessante dal punto di vista paesaggistico che è oggi trasformata in cava. La parte maggiormente coltivata è invece interessata dall’urbanizzazione puntiforme che si sviluppata anche per la contiguità con il lago di Pergusa. L’effetto della Riforma Agraria si somma alle localizzazione dell’area che si presta ad accogliere processi di diffusione urbana con caratteristiche di seconde case destinate ai residenti dei centri urbani maggiori. 23 F. Martinico, Diffusione Urbana: Una minaccia per il paesaggio, in C. Mancuso, F. Martinico, F. C. Nigrelli (a cura di), I piani territoriali paesaggistici della provincia di Enna, «Urbanistica Quaderni», vol. 53, 2009. 24 Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale, Il consumo di suolo in Italia, Edizione 2015, Rapporto n. 218, http://www.consumosuolo.isprambiente.it. 25 La stima effettuata nel corso delle analisi per la redazione del piano ha valutato in circa 146.000 gli abitanti insediabili nel patrimonio diffuso al di fuori dei centri urbani consolidati, cfr. Martinico F. La Rosa D., The Use of GIS in Landscape Protection Plan in Sicily, in Krek A. et Al., Urban and Regional Data Management. UDMS annual 2009, p. 315-325, Taylor & Francis, London, 2009. Al novembre 2016 la popolazione anagrafica dell’intera provincia era di 168.190 abitanti. 26 I tre esempi di piano di riparto sono quelli individuati nel saggio di F. Amata op. cit. al quale si rimanda per la descrizione dettagliata. 27 F. Martinico, op. cit. 185
A conferma di ciò, si consideri come l’altra zona ricadente nel territorio del comune di Enna, quella in Contrada Gelsi Montagna, è stata interessata, in misura minore, dal fenomeno della diffusione urbana che si concentra nella parte prospicente la strada statale n. 192. Questa zona si è trasformata in misura molto più contenuta, mancando l’attrattività dovuta alla presenza del lago e alla vicinanza ai centri urbani. Comune
Po p o l a z i o n e Superfice (2015) consumata Ha
Consumo di suolo pro capite mq/ab
Sperlinga
819
113,15
1.381,56
Cerami
2.072
208,90
1.008,20
Centuripe
5.531
518,70
937,81
Assoro
5.239
411,93
786,28
Aidone
4.855
361,86
745,33
Nissoria
3.014
210,18
697,35
Regalbuto
7.290
449,23
616,23
Agira
8.399
515,54
613,81
Calascibetta
4.608
277,24
601,65
Nicosia
14.037
746,02
531,47
Troina
9.442
493,84
523,02
Gagliano Castelferrato
3.623
182,41
503,48
Enna
28.219
1.357,55
481,08
Piazza Armerina
22.006
949,19
431,33
Pietraperzia
7.088
301,32
425,11
Villarosa
5.038
210,33
417,49
Catenanuova
4.884
143,57
293,96
Leonforte
13.571
338,02
249,08
Barrafranca
13.541
282,81
208,85
Valguarnera Caropepe
7.914
101,28
127,98
Tab. 1 Consumo di suolo pro capite per comune (elaborazione su dati Ispra, 2015)
186
I piani di area vasta recenti e le indicazioni della proposta del Piano Paesaggistico I piani recenti in Sicilia hanno mantenuto gli stessi limiti di quelli del passato, in termini di mancata capacità di cogliere le relazioni profonde con l’assetto del territorio. Tramontata la stagione dei tentativi di costruzione di un piano territoriale regionale, previsto dalla Legge Urbanistica regionale del 1978, l’amministrazione si è limitata a ottemperare alle richieste derivanti da obblighi normativi, producendo una pletora di documenti di programmazione che assumono la forma di lunghi e complessi elenchi di interventi e opere. L’obbiettivo di questa attività è la ricerca di risorse finanziarie, ma da questi documenti è impossibile ricavare una coerente intenzione progettuale, con il rischio di assumere un atteggiamento che si limita ad accostare acriticamente le varie esigenze, senza effettuare scelte che prefigurino una strategia e che pertanto devono diventare selettive. Anche i sempre più rari piani territoriali di area vasta, non riescono a sottrarsi alla tentazione di mettere assieme progetti di varia natura, ripercorrendo spesso alcuni degli stereotipi degli anni passati. Con riferimento al territorio interno dove maggiormente si è concentrata l’azione conseguente alla Riforma Agraria, uno dei piani Provinciali adottatati, e mai approvati, conferma questa ipotesi. Il PTP di Enna, adottato nel 2015, nei suoi contenuti di tipo strategico prova a delineare uno scenario basato su una pluri-specializzazione dello sviluppo28. Alcuni elementi di relazione tra fruizione turistica e settore agricolo appaiono interessanti e innovativi, con riferimento alle condizioni attuali29, ma a queste indicazioni se ne affiancano altre che sono del tutto velleitarie e lontane dalla realtà del territorio. Per esempio l’analisi Swot, che si caratterizza per contenuti piuttosto tradizionali, ripete la vecchia visione delle carenze infrastrutturali come limite allo sviluppo. Di conseguenza, il PTP propone, tra i vari interventi, anche la previsione di una nuova attrezzatura aeroportuale30. La vicenda che ha prodotto una più ampia messe di documenti di indirizzo territoriale in tempi recenti è invece quella dei Piani Paesaggistici. L’impianto normativo derivante dai piani per i vari ambiti di paesaggio prevede un’impostazione molto tradizionale che definisce tre livelli di tutela, con limitazioni d’uso crescenti, ma che estende a tutto il territorio delle indicazioni non prescrittive, riferite alle parti classificate come paesaggi ordinari. La sfida maggiore posta da questi strumenti, con specifico riferimento alle aree interne, è quella di trovare un assetto normativo che contempori la produzione agricola con regole facilmente applicabili per evitare un’attività edilizia che costituisca elemento di degrado, senza tuttavia frenare forme di sviluppo sostenibili. La presenza di edifici abitativi nel territorio agricolo può infatti costituire un elemento di presidio, utile a garantire una adeguata manutenzione del territorio, ma allo stesso tempo costituisce l’elemento di maggior rischio dal punto di vista del degrado percettivo e del consumo di suolo. 28 Piano Territoriale Provinciale di Enna. Quadro Propositivo. Relazione Generale. 29 Fra questi la cosiddetta Greenway degli Erei, da realizzare mediante il restauro e recupero ambientale ed etnografico della ferrovia storica. 30 La previsione di un ulteriore aeroporto è conforme con le ricorrenti velleità della classi politiche locali tipiche del panorama nazionale. Nel caso in specie è una indicazione che non tiene conto del ruolo consolidato del vicino aeroporto di Catania, la cui presenza non può che inficiare la convenienza ad attuare una nuova attrezzatura aeroportuale a breve distanza da questa. 187
Per esempio, la proposta di normativa del piano paesaggistico, relativa agli ambiti di Enna individuava alcune regole relative alle modalità di insediamento delle residenze in zona agricola che subordinavano la possibilità di realizzare nuove costruzioni residenziali alla disponibilità un lotto minimo (pari a 1 o 1,5 ettari, in funzione del livello di tutela) e imponevano una distanza minima dai confini (pari a 30 metri). Questa proposta era mirata a configurare un assetto insediativo che mantenesse il carattere rurale del territorio, evitando il proliferare di forme insediative che imitano una condizione di diffusione urbana tipica dei contesti a elevata pressione demografica delle zone maggiormente urbanizzate. La tutela dei paesaggi agrari ordinari all’interno dei quali ricadono molto spesso le aree interessate dalla Riforma pone problemi ancora maggiori, considerato che tali indicazioni non sono prescrittive. La proposta avanzata si può considerare come un primo e limitato tentativo di regolare l’insediamento in zone agricole. Rischia tuttavia di essere astratta e quantitativa, in quanto definisce una regola uguale per micro contesti paesaggistici anche molto differenziati. Una possibile evoluzione dovrebbe essere l’approfondimento a una scala di maggior dettaglio, in modo da differenziare le regole insediative in funzione delle caratteristiche specifiche di ciascun paesaggio e della struttura della proprietà fondiaria. La definizione di regole urbanistiche non può essere considerato l’unico modo per affrontare il delicato nodo della tutela di paesaggi fragili come quelli dell’agricoltura estensiva. A questo dovrebbe affiancarsi una costante azione di orientamento degli abitanti e soprattutto dei professionisti, per esempio sulla scorta delle esperienze francesi che si sono rivelate particolarmente efficaci31.
31 Cfr. le varie Guides pour l’insertion paysagère des bâtiments agricoles prodotte da parchi e autorità di pianificazione francesi a livello regionale. 188
Quel che resta della Riforma L’attenzione al territorio agricolo e al superamento delle sue difficoltà è forse il maggiore lascito della stagione della Riforma Agraria. Questa attenzione è da reinterpretare alla luce dei cambiamenti che hanno interessato il mondo dell’agricoltura e delle nuove sensibilità nei confronti dell’ambiente e dei rischi territoriali. I piani territoriali devono necessariamente giocare un ruolo nel contribuire al mantenimento della vitalità del settore agricolo ma nel fare ciò devono innovare profondamente la metodologia di costruzione del loro apparato normativo. Particolarmente critico è il ruolo che la pianificazione deve assumere nelle zone interne del Mezzogiorno e in particolare in Sicilia dove la difficoltà a porre correttamente i problemi della pianificazione di area vasta è confermata dalle vicende storiche qui accennate. L’esame di questi documenti di programmazione e dei piani territoriali e paesaggistici, con riferimento ai territori dell’agricoltura, evidenza la continuità di alcun temi che costituiscono una sorta di fil rouge che attraversa la storia del territorio siciliano e che contiene alcuni elementi di continuità, nonostante le profonde trasformazioni che hanno reso alcune indicazioni obsolete. Emergono diverse opportunità di sviluppo che possono rafforzare il ruolo ancora importante che l’agricoltura gioca nell’economia isolana e in particolare in provincia di Enna32. Ancora più rilevante rispetto al passato è il ruolo che una agricoltura vitale può svolgere nella riduzione dei rischi territoriali relativi agli aspetti ambientali e al rischio idrogeologico33. La prima è l’avvenuta diversificazione dell’economia regionale e il calo demografico34. L’idea arcaica dell’agricoltura che emerge dalla Riforma e dagli strumenti di programmazione è sparita per sempre. Ma le condizioni di marginalità di molte zone del Mezzogiorno d’Italia permangono. La seconda è quella legata all’emergere di nuovi domande di prodotti che rimettono in campo le produzioni marginali e che sembravano uscite per sempre dalle prospettive del mercato35. A queste si affiancano le prospettive della agricoltura non food, particolarmente adatta ai terreni marginali e poco produttivi. Una terza e non secondaria condizione è quella relativa alle forme insediative che stanno interessando i territori a prevalente funzione agricola che 32 I dati del Censimento Agricoltura indicano un valore della Superfice Agricola Utilizzata (SAU) in Sicilia in aumento del 8,4% nel decennio 2000 - 2010, in controtendenza rispetto al dato nazionale. Ancora più marcato l’aumento in provincia di Enna, dove la SAU è pari al 71,2 % della superficie territoriale, la terza in Italia dopo Cremona e Mantova, e presenta un aumento nel decennio intercensuario pari al 21% (fonte: Atlante Agricoltura, pag. 29, www. Istat.it). 33 Le componente abiotica del paesaggio è stata oggetto di uno degli studi settoriali per la proposta di Piano Paesaggistico di Enna, dal quale è emerso che in 3 degli ambiti paesaggistici ricadenti nel territorio provinciale (nn. 8, 10 e 12), le aree interessate da erosione diffusa sono pari a circa 451 kmq e quelle in frana sono circa 312 kmq. C. Amore, E. Amore, F. Branca, Aspetti geologici e geomorfologici del territorio, in C. Mancuso, F. Martinico, F. C. Nigrelli (a cura di), op. cit. 34 La provincia di Enna nel periodo 1951-2016 ha visto ridursi la popolazione di oltre il 30%, passando da circa 243.000 a 168.000 abitanti. 35 F. De Stefano, Introduzione alla ristampa del volume di M Rossi Doria op. cit. 189
diventano estensioni delle città e dei borghi rurali. Sono insediamenti spesso privi di carattere e di qualità ma che possono invece assumere un importante ruolo di presidio per la manutenzione del territorio e per ospitare funzioni di tipo turistico in senso lato36. Quest’ultime rimangono sempre come attività integrative ma possono giocare un ruolo non trascurabile per mantenere livelli di reddito sufficienti a garantire la presenza di un presidio antropico quantitativamente adeguato, per evitare i fenomeni di abbandono diffuso delle attività agricole e il conseguente dissesto idrogeologico del territorio. La costante preoccupazione espressa dagli economisti agrari negli anni 1950, e in particolare da M Rossi Doria, sull’inevitabilità dell’emigrazione appare oggi molto lontana dalla condizione attuale che vede una preoccupante contrazione della popolazione residente nella aree interne. Ribaltare questa pericolosa tendenza richiede un atteggiamento nuovo da parte delle istituzioni che si occupano della tutela del paesaggio e del territorio. La prospettiva da evitare deve essere sia quella di considerare i luoghi dell’agricoltura estensiva come un luogo per il riposo di piccoli gruppi di intellettuali urbani o, al contrario, come un sistema industriale per produrre alimenti o energia. Per arrivare a questo risultato bisogna far tornare l’agricoltura al centro della scena come protagonista della salvaguardia del territorio, aiutando le comunità insediate ad acquisire una nuova consapevolezza del loro fondamentale ruolo.
Bibliografia Capuano A. (a cura di), Paesaggi di Rovine Paesaggi Rovinati, Quodlibet, Macerata, 2014. D’Amico R., Piraino A. (a cura di), Il Governo Locale in Sicilia. Materiali per la riforma, Franco Angeli, Milano, 2014. Failla S., La Villa P., I Sessantotto di Sicilia, Zerobook, Catania, 2016. Krek A. et Al. (eds) Urban and Regional Data Management. UDMS annual 2009, Taylor & Francis, London, 2009. Mancuso C., Martinico, F., Nigrelli F. C. (a cura di), I piani territoriali paesaggistici della provincia di Enna, «Urbanistica Quaderni», vol. 53, 2009. Rossi Doria M., 10 anni di politica agraria, Laterza, Bari, 1958. Sapienza V., La Colonizzazione del Latifondo Siciliano, Edizioni Lussografica, Caltanissetta, 2010.
36 F. Martinico, Un parco fluviale come fornitore di Servizi Ecosistemici, in F. C. Nigrelli (a cura di), Fiume Gela e villa romana del Casale. Anabasi come progetto territoriale, Quodlibet, Macerata, 2017. 190
Matera Un laboratorio di agrourbanità
Mariavaleria Mininni
Matera di nuovo laboratorio città campagna L’interferenza e l’inevitabile contaminazione tra le forme della città contemporanea e lo spazio agricolo hanno prodotto realtà originali ed estremamente dinamiche in un recente passato in Italia, che impongono di riconsiderare la dimensione del rapporto tra città, agricoltura e campagna, alla luce di una nuova fenomenologia territoriale. La condizione di periurbano e di periurbanità1 potrebbe costituire quel dispositivo critico aperto alla interpretazione delle relazioni di un’urbanità allargata alla campagna e alla agricoltura, favorendone progettualità e risignificazioni2. La ricostruzione angolata delle vicende territoriali legate alla metamorfosi del paesaggio agrario italiano può oggi diventare una guida nel processo di rilettura di momenti della storia italiana a partire dalla ricostruzione delle sue città meridionali fuori dalla retorica dei dualismi nord-sud e delle opposizioni storiografiche unitàdisunità, o della città contrapposta alla campagna e al territorio. Il lavoro che si presenta intende avviare una riflessione, che l’occasione delle giornate della Summer School Emilio Sereni di Siracusa ci invita a fare, e gli obiettivi da cui muove, ovvero, “l’ ancoraggio delle tematiche paesaggistiche alla prospettiva storica, connettendo le trasformazioni delle epoche passate con la gestione del paesaggio e gli scenari futuri”, ritornando a ragionare su una stagione importante dell’urbanistica italiana che ha visto la città di Matera al centro di avvenimenti di grande rilievo. Attraverso le vicende materane che legano riforma agraria e ricostruzione urbana si prova a rintracciare nella complessità della spazialità degli ultimi decenni, mandata in frantumi dalla contemporaneità, storie che parlano di forme solide ma già complesse, in grado di restituire la ricchezza a volte straordinaria della territorialità di un passato remoto che può tornare utile ricostruire per collocarci ad una distanza critica e disincantata tra tradizione e innovazione.
1 M. Mininni, Approssimazioni alla città. Urbano Rurale Ecologie. Donzelli, Roma, 2012. 2 M. Mininni, Dalla campagna urbana al periurbano, in P. Donadieu, Campagne urbane. Una nuova proposta di paesaggio per la città, Donzelli, Roma, 2013. 191
Matera oggi è di nuovo al centro dell’attenzione per la proclamazione a Capitale Europea della Cultura 2019, riscoperta dal turismo nazionale e internazionale. Dopo un illustre passato di «città laboratorio»3, la città aveva lanciato – da una terra dimenticata dalla storia – un progetto riformista urbano che investiva al contempo un vasto territorio, per sperimentare un modello di sviluppo che avrebbe orientato il progetto di modernità meridionale. Una città di soli trentamila abitanti aveva attirato intellettuali, artisti e letterati, venuti da tutto il mondo, che avevano trovato in questa realtà, apparentemente ferma nel tempo, indizi di un’anticipazione di futuro. Nell’arco di quarant’anni i Sassi, da vergogna nazionale, nell’ambito di una revisione e di un aggiornamento della nozione di patrimonio, sono diventati un caso esemplare per la questione del recupero dei centri storici: grazie ad una legge dello Stato e all’arrivo di ingenti finanziamenti pubblici agli inizi degli anni Settanta, l’attivazione di un concorso internazionale porterà i Sassi, nel 1993, al riconoscimento di sito UNESCO, a compimento di un lungo percorso di rivalutazione del loro significato storico, artistico e antropologico. Matera, oggi ritornata alla ribalta, dovrà decidere se misurarsi criticamente con il suo passato, per orientare le scelte future. Vale la pena di sottolineare come l’assegnazione del titolo di Capitale Europea della Cultura venga riconosciuta non tanto per quello che la città mostra di essere, quanto per le politiche culturali che saprà intraprendere nel percorso dei successivi quattro anni, in un ambito di convergenza internazionale di contenuti, nei processi che saprà attivare, valorizzando questo importante strumento di comunicazione mediatica e di marketing territoriale, di cui potrà godere per l’attrattività turistica e di impresa. Non si può tacere il rischio che invece le politiche sulla città non riescano ad andare oltre il breve termine, cogliendo la proclamazione solo come punto di arrivo del processo, consumando la scena urbana senza intraprendere un percorso di cambiamento che sia in grado di innescare una effettiva sperimentazione di governo della città affiancando ai risultati innovativi e al pronto effetto del processo di candidatura scelte politiche strutturali a medio e lungo termine, suscettibili di trasferire l’esperienza materana in un’Agenda Urbana per le città del Sud.4
3 M. Mininni, MateraLucania2017. Laboratorio città campagna, Quidlibet, Macerata, 2017. 4 M. Mininni, M. Favia, S. Bisciglia, Matera: tra la citta’ dei Sassi e la citta’ della cultura diffusa, in G. Pasqui, P. Briata (a cura di), Rapporto delle agende urbane, Centro nazionale di studi per le politiche urbane. Urban@it, Mulino, Bologna, 2017; M. Mininni, M. Favia, S. Bisciglia, S. Dicillo Matera. Una nuova frontiera? Prime riflessioni. urban@it. cRivista online di Urban@it - 1/2015. 192
Urbanità e ruralità nella stagione della ricostruzione materana del Secondo Dopoguerra. Matera viene alla ribalta nella Italia del primo Dopoguerra, ma con echi anche più lontani5, uscendo dal tempo immobile di un arcaismo protratto più come dato antropologico che storico, grazie a due racconti di diversa natura ma, per qualche verso, accumulabili: la descrizione di Carlo Levi nel romanzo “Cristo si è fermato ad Eboli”, che parla di una popolazione contadina che viveva in questo strano habitat a metà strada tra caverne e case, avviando da un successo letterario un dibattito costruttivo e poetico e mai rivendicazionista sulla questione Meridionale. Descrizioni accorate e, allo stesso tempo, meravigliate di come si fosse potuta costruire in condizioni drammatiche una struttura comunitaria con tanto di pratiche, usi e consuetudini nelle diverse maniere di vivere lo spazio, un caso culturale che nasce dalle rappresentazioni di fatti che esistono grazie alla forza del racconto. Subito dopo, quella che promuoverà Adriano Olivetti istituendo nel 1951 la “Commissione per lo studio della città e dell’Agro di Matera”, un lavoro esemplare che introdurrà il confronto tra due principi che ispireranno la strada di un riformismo nell’urbanistica venato di comunitarismo e, successivamente insabbiato: le condizioni di vita della classe contadina che, nonostante la povertà estrema e la precarietà delle condizioni igieniche aveva rielaborato nel tempo una forma urbana, pregiata e storicamente determinata, proveniente dall’adattamento di pratiche in uno spazio particolarissimo qual’è quello della gravina; secondariamente, ma strettamente connesso al primo, lo studio sullo sfruttamento del lavoro bracciantile nel latifondo che richiamava una più ampia questione sugli assetti proprietari e sulla produzione del lavoro agricolo che spostava la questione dalla città al territorio, la pianificazione urbana a quella del suo contesto più allargato, in piena sintonia con gli studi sul regionalismo urbano di ispirazione mumfordiana che in quegli anni penetrava in Italia anche da altri versanti. Due racconti, uno letterario e poetico che parla in maniera esemplare di città e capace di metterne bene a fuoco energie e drammi, e l’altro, un’inchiesta organizzata seguendo un rigoroso metodo interdisciplinare che rinunciava al tecnicismo a favore di una più densa descrizione, attenta a dare corpo alle tante voci che parlano della città, un altro racconto ma urbanistico6 per mettere in gioco spazi, società, economie ed ecologie che ri-guardano la città. Le riflessioni che si presentano dunque, vogliono partire da un contesto storico e geografico di relazioni non scontate, a volte paradossali, tra spazialità urbana e rurale, tra forme di erogazione del lavoro e spazi dell’abitare così come si sono venute a costruire in questa particolare condizione materana e dei modi in cui un discorso urbanistico ha cercato di interpretarle e di porvi rimedio operando dentro alla grande stagione di ricostruzione della città italiana del Dopoguerra che, in senso più esteso, 5 La presenza di un clima culturale dinamico e internazionale sarà da questo momento in poi una prerogativa della vita culturale di questa città protratta e perpetuata fino ai giorni nostri che le daranno sempre un carattere di grande laboratorio di idee per l’arte e l’architettura a vantaggio della qualità urbana. 6 B. Secchi., Il racconto urbanistico, Einaudi, Torino, 1987. 193
puntava alla ricostruzione politica morale e sociale di un intero paese, prendendo l’ osservatorio angolato in chiave critica di un contesto meridionale Matera si presenta oggi come uno straordinario laboratorio urbano dentro al quale si può provare a rileggere alcune questioni che riguardano il rapporto tra città contemporanea e territorio, tra periferia e periurbanità, tra città e campagna. La città si presta ad una riflessione a posteriori sugli eventi di una stagione intensissima in cui si sperimentava una proposta di crescita urbana in modalità discontinua a partire dalla distribuzione di materiali come il quartiere, il villaggio, territori abitabili a bassa densità che rielaboravano con straordinaria lucidità strategie dell’abitare in chiave agro-urbana in una società ancora prettamente rurale, collocandole dentro uno strumento come il piano regolatore, agli esordi di un cammino di speranza. Per anni la vita che si svolge nei Sassi ignora quella della città del pianoro, due comunità che si votano le spalle. E’ la prima che ha forti rapporti con il contado, pur se spazialmente disgiunta, un luogo ogni giorno raggiunto da migliaia di cittadinicontadini che escono da casa per ritornarci la sera. Nella inchiesta degli UNRRA Casas di cui si avvantaggerà anche la redazione del nuovo piano regolatore, verranno attentamente esaminati i pendolarismi di ogni famiglia e i rapporti di distanza e tempo per il raggiungimento dei campi in modo da conservare consuetudini di vita e di lavoro nell’assegnazione di una nuova dimora. Si perseguiva in questo modo un progetto più ampio di ricostruzione dell’intero agro materano tanto è vero che le strategie del diradamento urbano adottate da Piccinato del 1956 dovranno misurare le analisi urbane coordinandole con le finalità innovative della legge stralcio di Riforma Agraria del 1950 e delle opere di trasformazione agraria intraprese dalla Cassa del Mezzogiorno, rielaborate dentro al Piano Generale di Bonifica redatto dal Consorzio di Bonifica della media valle del Bradano. Nella relazione al piano, Piccinato esordirà proprio dicendo che il problema di Matera come quello di una qualunque città si identifica con il tema più vasto e profondo del territorio. E solo nella economia generale della regione si possono trarre le basi per la soluzione del tema urbano, ovvero affermando più nuove e vere fonti di economia agricola e di benessere sociale in grado di dare ad una popolazione quasi per la maggior parte contadina, pur vivendo nella strana forma di città-natura che sono i Sassi, una nuova ragione di vita.
Fig. 1 Mappa della città di Matera 194
Matera: le vicende agro-urbane della sua ricostruzione Nella vicenda materana il rapporto tra città e campagna, direttamente connesso al mutare delle modalità di urbanizzazione nella sua fisicità quanto sotto l’aspetto socioeconomico, ha sensibilmente orientato le trasformazioni insediative. Il fenomeno di una popolazione tutta accentrata in “città” e pure tutta gravante per le risorse di vita sull’agro circostante -per cui tra il nucleo urbano e la campagna deserta esiste un paradossale vincolo d’interdipendenza- trova in questa sede una delle sue espressioni più caratteristiche. La grave situazione edilizia e sociale della città di Matera viene sottoposta per la prima volta all’attenzione della comunità nazionale nell’immediato dopoguerra dalla denuncia contenuta nel Cristo si è fermato ad Eboli di C. Levi e dalla successiva mostra fotografica organizzata dagli Architetti Stella e Masciandaro, portando, nel 1949, all’elaborazione di un primo schema d’intervento che già prevedeva la costruzione di borghi residenziali come possibile soluzione della questione Sassi (relazione del Prof. Mazzocchi Alemanni per la missione ECA). Contestualmente, all’interno di un progetto di stanziamento di fondi ERP all’UNRRA Casas, veniva proposto un progetto per il risanamento dei Sassi mediante la creazione di un primo villaggio rurale nell’agro: tale proposta di studio, accolta positivamente dall’INU, diverrà poi operativa grazie all’impegno dell’UNRRA. Emergono in questa fase due questioni fondamentali: da un lato l’ipotesi di sfollamento globale dei Sassi viene posta come inderogabile e si configura come una vera e propria eliminazione fisica (al nucleo storico dei Sassi non viene riconosciuto alcun carattere monumentale), sebbene la relazione Mazzocchi-Alemanni auspichi ad un restauro delle abitazioni idonee attraverso il ricorso all’iniziativa privata; dall’altro la proposta di ristrutturazione dell’agro materano acquista corpo in quanto strategia condivisa per un’operazione più ampia di riassetto del tessuto rurale regionale. La figura di Adriano Olivetti, in qualità di presidente dell’INU e vice-presidente dell’UNRRA Casas influisce in maniera decisiva sulla storia materana, sia attraverso la promozione di pratiche di comunità ispirate da intenti filantropici, sia per quanto riguarda l’istituzione nel ’51 della ‘Commissione di Studio della città e dell’agro di Matera’: si tratta di un progetto di collaborazione interdisciplinare teso all’approfondimento della questione materana al fine di orientare la programmazione verso strategie d’intervento più coerenti. E’ in questo contesto che prende corpo, attraverso l’impegno dell’UNRRA Casas che ne assume l’onere economico, il progetto del borgo La Martella, primo tassello di un più ampio programma sperimentale di urbanizzazione delle campagne. Malgrado la disponibilità di progettisti capaci ed ispirati (il gruppo è condotto da Gorio e Quaroni), la mancanza di integrazione tra le intenzioni dei tecnici dell’UNRRA e le istanze dell’Ente Riforma decreta il sostanziale fallimento dell’episodio della Martella -che rimarrà l’unica realizzazione concreta dell’esperienza olivettiana7- e innesca contestualmente fenomeni di speculazione edilizia all’interno dei Sassi. L’incongruenza tra le intenzioni della Commissione e quelle della burocrazia locale si riflettono analogamente sulla L.S. 619 del 1952 che, recependo i risultati 7 T. Giura Longo, Matera: I Borghi e i quartieri degli anni ’50 in «Siti» n. 2, Matera, 2003. 195
dello studio della Commissione in maniera parziale, prescrive lo sfollamento dei Sassi procedendo per unità di vicinato e auspica a un recupero di tipo ‘estetico-ambientale’, limitato alla conservazione del valore panoramico del manufatto storico. Il piano di evacuazione prevede la sistemazione della maggior parte degli abitanti all’interno di nuovi quartieri previsti nel P.R. di Matera e, in piccola parte, nei borghi rurali di nuova fondazione. Questi interventi vanno letti alla luce di una complessa politica imprenditoriale che dirotta le energie pubbliche verso l’edificazione di nuovi quartieri per rilanciare il settore edilizio, contribuendo contemporaneamente ad alimentare, attraverso operazioni di pseudo-ghettizzazione, lo stato di arretratezza e sottosviluppo dei ceti contadini.
Fig. 2 La Martella. Foto di Michele Cera
Il Piano Piccinato del ’56 traduce queste aspirazioni in un disegno sostanzialmente coerente, in cui la progettazione dei rioni -affidata alla pubblica iniziativa- attinge alle teorie del decentramento e l’organizzazione dei borghi intercetta il paradigma olivettiano delle comunità, modulando la ricostruzione sulla base dell’unità di vicinato. La creazione di quartieri a bassa densità (Spine Bianche, Serra Venerdì, La Nera) risulta prioritaria rispetto al restauro dei Sassi che, seppur previsto dal Piano, viene affidato ad apposito strumento particolareggiato. Nel 1958 la seconda Legge Speciale n.299 sui Sassi contribuisce al loro graduale svuotamento, perpetrando una logica di investimenti pubblici e trasferimenti che materialmente disgregano le strutture della società rurale e favoriscono fenomeni di inurbamento, innescando dunque un’inversione di tendenza del fenomeno migratorio. Le abitazioni evacuate vengono intanto acquisite dal Demanio. La questione ‘Sassi’ viene riportata all’attenzione dell’opinione pubblica a partire dalla metà degli anni ‘60 per merito della comunità scientifica lucana e degli intellettuali materani, secondo una nuova chiave di lettura: per la prima volta si applica la definizione di ‘bene culturale’, parlando di patrimonio architettonico-urbanistico 196
spontaneo la cui salvaguardia appare legata all’avvio di processi di ri-fuzionalizzazione. La nuova L126/1967, il cui testo viene più volte corretto e rielaborato in seguito alle perplessità manifestate dal Consiglio Comunale e dall’entourage culturale lucano, si muove nella direzione del risanamento conservativo con ripristino della vocazione residenziale. Bisognerà invece aspettare il 1971 per l’avvio, con la L. 1043, del Concorso Internazionale per i Sassi di Matera, per assistere ad una svolta della vicenda con una forte partecipazione della cultura urbana dell’epoca alla riappropriazione civile del processo del risanamento Sassi. Nel ’73 diventa operativo il secondo Piano Piccinato, a cui si deve sostanzialmente l’attuale orditura della città contemporanea che viene ad affiancarsi, attraverso una serie di espansioni, alla Matera moderna città-laboratorio urbanistico di matrice razionalista8; la Variante Generale del 1975 contribuisce ad incrementare ulteriormente il profilo della città mediante un procedimento di inspessimento edilizio volto ad incrementare la densità dei quartieri residenziali mediante operazioni immobiliari speculative non affiancate dal sostegno di uno strumento urbanistico coerente. Si susseguono da allora una serie di varianti parziali nell’attesa che la stesura definitiva del strumento generale, affidato già nel 1990 a Nigro e Restucci, venga portata a compimento.
I materiali e le chiavi di lettura: quartieri e villaggi e loro consistenze L’approfondimento del caso della città di Matera -in quanto sede, nel II Dopoguerra, di un inedito episodio di urbanizzazione sperimentale delle campagne- costituisce un espediente per indagare le criticità tra città moderna e forme urbane postmetropolitane: attraverso l’analisi del complesso di interventi di edilizia residenziale sociale che hanno contribuito in maniera sostanziale alla costruzione delle città italiane9, è possibile reinterpretare criticamente i temi connessi alla dimensione della ‘città pubblica’ e recuperare contestualmente indirizzi utili alla costruzione di nuove forme territoriali di matrice agro-urbana. Lo studio dell’episodio materano rappresenta dunque un efficace strumento di comprensione del sistema complesso di relazioni tra contesti urbani ed agrari. All’interno del progetto di creazione dei borghi rurali è infatti possibile isolare una varietà di componenti diverse, da quelle di natura urbanistico-paesaggistica -che, sulla scia della tradizione delle greenbelts cities10, rivendicano una sostanziale continuità tra edificato e paesaggio-, a quelle di matrice sociale e pedagogica -che uniscono il rifiuto dell’integrazione della realtà contadina11 a livello urbano al recupero di forme associative storicamente consolidate (il vicinato12, rielaborato attraverso il modello olivettiano di comunità)- . 8 L. Acito, Matera ‘900 in «Siti» n. 1, Matera, 2002. 9 AA. VV., Città pubbliche. Linee guida per la riqualificazione urbana, Milano, 2010. 10 A. Restucci Matera. I Sassi, Einaudi, Torino,1991. 11 L. Piccinato, La pianificazione territoriale, in «Urbanistica» n. 33, 1961. 12 A. Restucci, op.cit.. 197
In questo luogo il rapporto tra città e campagna produce paradossi e disseminazione di senso sui significati di urbanità e ruralità: contadini che vivevano in una città-natura (i Sassi) portati a diventare abitanti di periferie di edilizia sociale oppure assegnati ai nuovi villaggi della Riforma Agraria per continuare ad essere contadini, ma questa volta dislocati nella campagna. In un territorio, come quello lucano, caratterizzato in prevalenza -per ragioni dettate dalla sua consistenza geografica- da insediamenti isolati collocati sui crinali collinari13, l’estensione del territorio agricolo è stata storicamente dominata da pratiche latifondiste. L’istituzione dei Consorzi di Bonifica ha rappresentato un tentativo di irreggimentare il sistema fondiario con interventi di ristrutturazione territoriale basati sulla realizzazione di infrastrutture e reti; tentativo concretizzatosi poi definitivamente con la Riforma Agraria degli ‘anni 50 che ha di fatto modificato l’assetto fondiario a favore della piccola e media proprietà. Nell’ambito specifico del contesto materano il progetto di risanamento dei Sassi fornisce il pretesto per infrangere la dicotomica contrapposizione tra la consistenza finita e concentrata del nucleo urbano, e l’estensione quasi indifferenziata della campagna circostante. La costruzione di borghi, destinati a diventare nuovi contenitori sussidiari della realtà rurale portata dagli abitanti dei Sassi, si traduce in un momento di riorganizzazione territoriale oltre che sociale: il progetto di decentramento dei cinque villaggi (dei quali verranno costruiti solo La Martella e Venusio) non persegue un’ibridazione delle dimensioni rurale e urbana, ma piuttosto un accostamento dei rispettivi statuti laddove la relazione con il paesaggio è espressa attraverso la distanza dal centro storico e strettamente connessa al rapporto tra residenza e lavoro. Sebbene, come afferma Musatti14 “è la città che finalmente intende muovere incontro alla campagna, per sanare una frattura secolare”, il rapporto tra i due ordinamenti spaziali non intende essere oppositivo bensì conserva la struttura propria della tradizione contadina meridionale attraverso l’applicazione di stilemi compositivi e sociali (si pensi alla ricostruzione dei tessuti basata sull’unità di vicinato). Diversamente dalla sorte dei quartieri -che si configurano come vere e proprie isole di qualità15 articolate, secondo il disegno del Piano, alle propaggini della città consolidata, e che presentano caratteri costanti e condivisi che ne garantiscono l’assoluta riconoscibilità- l’esperienza dei borghi è destinata all’insuccesso. Le cause di tale fallimento sono di natura politica tra la contrapposizione di forze in campo, dal conflitto tra le due modalità interpretative portate avanti rispettivamente dal gruppo olivettiano e dall’Ente Riforma: l’intenzione di realizzare insediamenti decentrati dotati di una certa consistenza fisica si scontra con la volontà di perpetrare un progetto di ‘dispersione delle famiglie nelle campagne’16. Per quanto il progetto sperimentale di urbanizzazione delle campagne scaturisca, meccanicamente se vogliamo, dall’esigenza di risolvere un’urgenza di matrice “edilizia” (la vergogna nazionale), rivestono poi altrettanta importanza, nella valutazione 13 A. Pontrandolfi, Città e campagna, in «Siti» n. 2, Matera, 2003. 14 R. Musatti, Saggi introduttivi. Motivi e vicende dello studio in Commissione per lo studio della città e dell’agro di Matera, UNRRA Casas, Roma, 1956. 15 T. Giura Longo, Matera: i Borghi e i Quartieri degli anni ’50 in «Siti» n. 2, Matera, 2003. 16 T. Giura Longo, op. cit. 198
dell’esito del progetto, le condizioni al contorno evidenziate dalla Relazione per la Ristrutturazione Agricola della Regione Materana17: fenomeni di pendolarismo, irrazionale suddivisione delle proprietà, mancanza di coerenza nell’organizzazione delle colture. Nella costituzione dei borghi vengono infatti a confluire e finanche a scontrarsi, come già detto, da un lato i retaggi di una tendenza regionalista incentrata su programmi di decentramento18, dall’altro gli assunti di un atteggiamento quasi pedagogico19 teso all’affermazione dei valori di comunità e vicinato. La creazione dei questi villaggi, in quanto poli di attrazione territoriale, si configura dunque come esito complesso di intenzionalità diverse che, per quanto dimostratosi sostanzialmente fallimentare ed in parte corrotto da logiche paternalistiche, porta avanti un progetto di evoluzione della rozza contrapposizione ‘villaggio-metropoli20’ attraverso una lettura più razionale e critica del territorio.
Periurbano v/s diffusione L’approfondimento del caso della città di Matera, riletto in chiave agrourbana, si inserisce nell’ambito di una riflessione critica tesa a fornire spunti e indirizzi che possano contribuire a orientare il progetto per il territorio e la città contemporanea. Attraverso il riconoscimento dei caratteri di uno spazio di tensione tra città e campagna, concepito nella cultura della città si vuole tornare a riflettere su come alcuni problemi dell’abitare erano stati posti dopo la grande distruzione bellica, nella speranza di uno sviluppo culturale e infrastrutturale che impegnava l’intero paese e il Meridione in particolare. Lo scopo è quello di recuperare una lezione scarsamente approfondita del raggiungimento di questa modernità per meglio orientare il presente. Alcuni contesti come quello in esame hanno rifiutato da sempre pratiche di dispersione abitativa tenendo salda la tradizione di un vivere in modalità concentrata, ma non per questo rifiutando di esplorare strategie originali, legandosi direttamente alle tradizioni anglosassoni e scandinave del design with circustance. La rilettura dei materiali dei quartieri costruiti dentro allo strumento del piano regolatore di Piccinato e posti a corona della città di Matera sopra i crinali che traguardano il paesaggio aperto, Lanera, Serra Venerdì, Spine Bianche, oppure quelli rielaborati dentro un progetto di riforma agraria come la Martella e Borgo Venusio meritano di essere riletti ad una scala spaziale e temporale più larga mettendo a confronto la stagione di costruzione della città europea e la individuazione del tema del paesaggio suburbano. «È la città che veramente intende muovere incontro alla campagna per sanare una frattura secolare», scriveva Riccardo Musatti nella sua relazione sugli esiti della Commissione Studi su Matera. «È la città intesa come simbolo ed espressione di qualificazione culturale e di impegno politico e civile. […] è la coscienza che il 17 Unrra-Casas Prima Giunta, Piano Generale di Bonifica dell’Agro materano, Roma, 1956. 18 L. Piccinato, La pianificazione territoriale in «Urbanistica» n. 33, 1961. 19 A. Restucci, op. cit. 20 A. De Montis, P. Farina, Ricostruire il paesaggio, ruralizzare le città: un progetto di ricerca in IX Convegno Nazionale dell’Associazione Italiana di Ingegneria Agraria, Ischia Porto, 2009. 199
binomio città- campagna non ha in realtà quel senso rigorosamente antitetico che aveva nei suoi più astratti primi enunciatori – e nello stesso Gramsci, di progresso contrapposto a conservazione, di moto contrapposto a stasi, di organizzazione contrapposta a disgregazione».
Fig. 3 Borgo Venusio. Foto di Cristina Dicillo
Gli insediamenti, dunque, vengono concepiti in un’articolazione tra case sparse e borghi rurali con servizi sovradimensionati per tutta la comunità insediata, tenendo conto delle relazioni, (necessarie alla famiglia contadina), e della prossimità tra residenza, attività di sussistenza (l’orto familiare annesso all’abitazione) e lavoro agricolo distribuito nelle quotizzazioni circostanti. «La presa di coscienza di questa struttura è il primo passo dell’avvicinamento della città verso la campagna, della cultura sociale, che è premessa indispensabile all’azione politica, verso l’oggetto di questa azione». La creazione di nuovi borghi rurali, in conformità alle previsioni del Piano dell’Agro materano – studiato da Nallo Mazzocchi Alemanni nel 1949 per conto delle missione ECA, che guidava la riconversione economica del territorio – puntava alla ricollocazione della popolazione agricola nelle campagne, pensando al miglioramento della qualità della vita del contadino, a una sua maggiore efficienza, riducendo i tempi necessari per raggiungere ogni giorno il posto di lavoro, per tenere più vicini i familiari, le donne, i bambini e gli anziani, impegnandoli tutti, secondo la loro diversa disposizione, nel lavoro. È un progetto che non affonda nelle radici del «malessere delle grandi città e nel decentramento come superamento delle contraddizioni urbane nella landa desolata ancora incontaminata del suburbio», come avverrà negli esempi europei, ma supera l’organicismo e il realismo della linea italiana e delle sue riflessioni sul quartiere per richiamarsi piuttosto alla tradizione nordamericana e della matrice organica del verde (che legava il processo di crescita della città alla programmazione dello sviluppo regionale) e ai dispositivi della landscape architecture, come le green belt, dove i paesaggisti sperimentavano soluzioni all’espansione della città, affidando ad un nuovo materiale verde il compito di costruire relazioni tra città e territorio. 200
Una risposta originale che purtroppo non potrà essere a lungo esplorata per la perdita dello slancio riformista legata alla contingenza politica e culturale di un determinato momento, eterodiretta e destinata ad esaurirsi. Oggi queste aree sono molto cambiate e diventa cruciale per la loro conservazione attiva studiare le condizioni nuove in cui quei progetti abitativi sono giunti, quali sono i protagonisti, le ragioni di una possibile rimessa in gioco sulla base di nuovi presupposti e nuove idee da mettere in campo. Le politiche agrourbane sono un campo nuovo per l’Italia ma che si inizia ad esplorare. Alcune iniziative sembrano muoversi nell’ambito delle nuove politiche paesaggistiche che intendono misurarsi in chiave di governance, mettendo in campo interazioni e processi di copianificazione tra politiche urbane e politiche agricole. Tra queste iniziative, si cita il patto città campagna costruito nell’ambito degli scenari del piano paesaggistico territoriale della Puglia, che si propone come campo per nuove progettualità tra città e campagna, tra periferie e periurbanità21. In contesti a bassa densità come sono le campagne della Basilicata, le strategie progettuali devono adattarsi al contesto proponendo politiche place based, che puntino a valorizzare la presenza di borghi rurali come presidi di un territorio scarsamente abitato. L’opportunità dei borghi rurali della riforma, nello loro diverse collocazioni nel territorio, consentirebbero di recuperare un capitolo della storia del nostro paese offrendo presidi per il turismo itinerante, sempre più richiesto, fatto di nuovi viandanti, ciclisti, esploratori, oppure offrendo opportunità ai nuovi contadini per un ritorno alla terra. Purtroppo di tutte queste idee vi è ancora pochissima traccia nelle politiche regionali, lasciando borghi e case all’inesorabile abbandono. In totale accordo con i principi della scuola, siamo convinti che diffondere la conoscenza del paesaggio della Riforma agraria significhi “contribuire a individuare le modalità per rendere queste aree nuovamente protagoniste nel quadro di un modello di sviluppo sostenibile e di pratiche di rigenerazione territoriale che rimetta in gioco i territori extrametropolitani”, per sollecitare le politiche pubbliche a prenderli più seriamente in conto.
21 M. Mininni Paesaggio, territorio, sviluppo. Il caso della Puglia in A. Clementi (a cura di), Progetti interrotti. Territorio e pianificazione nel Mezzogiorno, Donzelli, Roma, 2012; M. Mininni, Il Patto Città Campagna per una politica agro-urbana e agro-ambientale per il paesaggio pugliese. The city-countryside pact: an agro-urban and agro-environmental policy for apulian landscape, in M. Mininni (a cura di), La sfida della pianificazione paesaggistica pugliese verso una idea nuova di sviluppo sostenibile e sociale in «URBANISTICA», vol. 147, 2011 p. 42-51. 201
Fig. 4 Processi di addensamento negli orti della Martella
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Linee di continuità I borghi in Sicilia dal fascismo agli anni della riforma
Paola Barbera
Il disfacimento dell’incompiuto All’interno del vasto tema dei paesaggi della riforma agraria in Sicilia, questo contributo si concentra su uno degli elementi che definiscono e caratterizzano questi paesaggi: i borghi rurali, piccolissime “città nuove” che avrebbero dovuto punteggiare l’intero territorio isolano1. Utilizzeremo, per cominciare, due sguardi estranei al mondo della storia dell’architettura che possono aiutarci a formulare le domande dalle quali prende le mosse necessariamente ogni ipotesi di ricerca. Il primo è quello di Michelangelo Antonioni. Magistrali inquadrature in bianco e nero raccontano un paesaggio lunare, il silenzio immobile è rotto soltanto dal rumore 1 Questo contributo ripropone temi e ricerche che avevo affrontato prima per il volume Architettura in Sicilia tra le due guerre, Sellerio, Palermo, 2002 e poi per il saggio Architettura e paesaggio urbano nei borghi di nuova fondazione in Sicilia, in P. Culotta, G. Gresleri, GL. Gresleri (a cura di), Città di fondazione e plantatio ecclesiae, Editrice Compositori, Bologna, 2007, pp. 174-199. A questi testi rimando anche per la bibliografia in essi contenuta, che non è possibile riportare per intero in questa sede. Negli ultimi anni tuttavia l’interesse per i borghi rurali è molto cresciuto e numerosi sono i contributi, di diversi ambiti disciplinari, dedicati a questo tema. Ci limiteremo qui a citare alcuni riferimenti: L. Dufour, Nel segno del littorio. Città e campagne siciliane nel ventennio, Edizioni Lussografica, Caltanissetta, 2005; T. Basiricò, Architettura e tecnica nei borghi della Sicilia occidentale, Edizioni Fotograf, Palermo, 2009; V. Sapienza, La colonizzazione del latifondo siciliano esiti e possibili sviluppi, Edizioni Lussografica, Caltanissetta, 2010. Occorre inoltre ricordare che numerosi archivi custodiscono documentazione essenziale per la ricostruzione di questa lunga vicenda. Oltre agli archivi privati degli architetti e degli ingegneri che progettarono i borghi, segnaliamo: l’Archivio dell’Ente di Sviluppo Agricolo, Prizzi (Palermo), attualmente in corso di digitalizzazione e parzialmente consultabile sul sito www.saperetecnicocondiviso.it; l’Archivio Centrale dello Stato, Roma, (d’ora in avanti ACS) in particolare Ministero dell’agricoltura e delle foreste. Direzione generale bonifica e colonizzazione. Archivio generale. Opere di bonifica in Calabria, Sicilia, Sardegna, che conserva materiali in parte ancora da esplorare. Ai fini dell’interpretazione storiografica delle vicende siciliane rimangono fondamentali: G. Barone, Mezzogiorno e modernizzazione. Elettricità, irrigazione e bonifica nell’Italia contemporanea, Einaudi, Torino, 1986; S. Lupo, L’utopia totalitaria del fascismo, in M. Aymard, G. Giarrizzo (a cura di), Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi. La Sicilia, Einaudi, Torino, 1987, pp. 371-482. 205
di un’auto. Insoliti viaggiatori percorrono strade deserte di una Sicilia lontanissima dal cliché dell’isola dove fioriscono i limoni. Sono i protagonisti del film L’Avventura, impegnati nella ricerca di un’amica scomparsa durante una vacanza in Sicilia. I due, Monica Vitti e Gabriele Ferzetti, giungono in un piccolo borgo costruito sul pendio di una collina: i volumi compatti delle costruzioni, la facciata con archeggiature cieche della chiesa, i basamenti di pietra e un astratto campanile si snodano lungo una breve strada curvilinea che porta alla piazza. «Sarà mica questa Noto?», si chiedono. La ricerca di una risposta è vana, case dalle persiane sbarrate rimangono mute alle invocazioni di Monica Vitti, che infine si domanda: «Come mai è vuoto?». La risposta del compagno di viaggio pone una questione dalla quale occorre ripartire ancora oggi: «Chi lo sa. Io mi domando perché l’hanno costruito». Il secondo punto di vista è quello del giornalista Paolo Rumiz, impegnato anch’egli in un inconsueto viaggio siciliano. Questa volta non sono i borghi rurali, ma è un vecchio tracciato ferroviario, a suggerirgli una riflessione che è possibile estendere a elementi diversi che negli anni hanno segnato il paesaggio dell’isola, anche quello della riforma agraria: «In anni di viaggi in Italia avevo collezionato un’infinità di ruderi, solitudini e case abitate dal vento […]. Avevo visto di tutto, e solo una cosa mi mancava. La rovina di una cosa mai nata. Il disfacimento dell’incompiuto. All’inizio pensavo che nemmeno esistesse, ma mi sbagliavo»2. La costruzione dei borghi rurali e delle case connesse al nuovo sistema di appoderamento è un fenomeno quantitativamente rilevante, che abbraccia periodi diversi e interessa vaste zone dell’isola, e che presenta oggi i caratteri di un paesaggio in buona parte di “rovine”, un’archeologia contemporanea alla quale è necessario provare a ridare un senso nel tempo presente. Le questioni che interrogano lo storico, sono dunque anche il punto di partenza ineludibile per un progetto che sappia immaginare nuovi usi delle architetture e del paesaggio della riforma agraria, arrestando «il disfacimento dell’incompiuto».
Città incrostate nel tessuto agrario Concentrare lo sguardo su un solo luogo o su una singola vicenda sarebbe inutile. La storia dei borghi rurali nasce da lontano e si prolunga oltre la fine dei cantieri. Come è noto, infatti, la storia della Sicilia è stata spesso segnata, nel corso dei secoli, da nuove città di fondazione che in tempi e con modi diversi, hanno disegnato il territorio regionale. Il legame, saldo e arcaico, tra città e territorio è una costante delle nuove fondazioni di età moderna; che siano oggetto di una “pianificazione dall’alto” o di una crescita “spontanea” le nuove città nascono sempre come una risposta ai bisogni del territorio e, prevalentemente, del territorio agricolo. «In generale, le città isolane appaiono profondamente incrostate nel tessuto agrario di cui sembrano una secrezione»3, scrive Renée Rochefort negli anni 2 P. Rumiz, La ferrovia estinta, in «La Repubblica», 4 agosto 2011. 3 R. Rochefort, Le travail en Sicile: étude de gépgraphie sociale, Presses Universitaires de France. Paris, 1961; traduzione italiana Sicilia anni Cinquanta. Lavoro cultura società, a cura di M. Giacomarra, Palermo, 2005, p. 372. 206
cinquanta del Novecento, quando a più riprese percorre il territorio siciliano per la sua tesi di dottorato sulle condizioni di lavoro in Sicilia; e proprio questo carattere è la chiave di volta della questione che attraversa anche la storia delle fondazioni siciliane nel Novecento. Nel XX secolo, infatti, si ripropone sull’isola il tema del rapporto tra città e campagna, tra necessità di forza lavoro sul territorio e concentrazioni urbane, e si intrecciano programmi di sviluppo dell’isola che, con caratteri di sorprendente continuità, riguardano le politiche dello stato liberale, quelle del regime fascista e quelle dello stato democratico dopo la seconda guerra mondiale. E’ necessario uno sguardo che percorra trasversalmente l’intero secolo e ricerchi le proprie radici in storie molto più antiche per fare emergere con evidenza alcuni caratteri di lunga durata che, in qualche modo, prescindono dai cambiamenti politici che interessano l’isola e l’Italia intera. Inizialmente episodi sporadici, caratterizzati da iniziative individuali, segnano la vicenda della fondazione di nuove città nei primi anni del regime fascista. Sul versante meridionale della valle del Dittaino, si costruisce, già dal 1922, Libertinia: un insediamento che raggruppa, attorno all’antico casamento padronale, abitazioni e alcuni servizi essenziali come la scuola, la chiesa, il mulino, la caserma dei carabinieri e l’ufficio postale; a promuovere l’iniziativa è direttamente Pasquale Libertini, proprietario del feudo di Mandrerosse. Appena due anni dopo, nel 1924, in occasione del primo viaggio di Mussolini in Sicilia, viene posta la prima pietra della nuova città di Mussolinia, in prossimità di Caltagirone, oggetto degli icastici racconti di Sciascia e Camilleri. Altri villaggi vengono costruiti, tra il 1927 e il 1930, seguendo un modello tipologico proposto dal Ministero dei Lavori Pubblici che prevede di dare alloggio, inizialmente, agli operai impegnati in opere pubbliche e poi trasformare i villaggi in agglomerati rurali. Ulteriori nuclei abitati sorgono in prossimità dei comprensori di bonifica di terreni paludosi: è il caso del villaggio nei pressi del pantano di Lentini e di quello in prossimità del lago di Pergusa. Solo nel 1937, l’Istituto Vittorio Emanuele III per il bonificamento della Sicilia elabora una sorta di manuale Centri rurali che codifica in maniera univoca i caratteri tipologici, i principi insediativi, i dati dimensionali e le pratiche costruttive dei nuovi borghi rurali. Il volume ha finalità prettamente operative e intende «chiarire ai bonificatori meridionali (tecnici, dirigenti dei consorzi di bonifica, funzionari degli organi tecnici statali, proprietari) quando e dove si debbano creare tali centri, come debbano essere costituiti e quali criteri tecnici e di spesa debbano guidarne la progettazione, la costruzione, l’esercizio»4. Vengono proposti tre tipi di borghi differenti per dimensioni, che comprendono al loro interno edifici capaci di fornire servizi al territorio circostante. Per ciascuno di essi sono illustrati analiticamente i singoli fabbricati e la composizione urbana d’insieme, accompagnati da computi metrici, disegni e regole costruttive.
4 Istituto Vittorio Emanuele III per il bonificamento della Sicilia, Centri rurali, a cura di G. Mangano, Scuola Tipografica R. Istituto di Assistenza, Palermo, 1937, p. 27. 207
Fig. 1 Libertinia, planimetria del borgo prima dell’ampliamento degli anni Cinquanta (da G. Libertini, N. Prestianni, Libertinia primo esperimento di trasformazione fondiaria in Sicilia attuata dall’On. Pasquale Libertini, Tipografia Zuccarello & Izzi, Catania, 1934)
Il modello insediativo proposto non contempla la presenza di residenze all’interno del centro rurale; le abitazioni sono programmatiche escluse dal borgo, che sia piccolo, medio o grande il centro rurale è chiamato a ospitare esclusivamente spazi collettivi e servizi. Le famiglie dei contadini risiederanno in case isolate che avrebbero dovuto costellare il territorio agrario. 208
Il carattere costante del fascismo di volersi sostituire a una societĂ articolata e complessa, cancellando abitudini, usi, modi di vita e radici, si manifesta con particolare forza in questa operazione che propone la separazione radicale tra la residenza e lo spazio pubblico.
Fig. 2 Centro rurale di tipo medio, planimetria e assonometria (da Istituto Vittorio Emanuele III per Il bonificamento della Sicilia, Centri rurali, Palermo, 1937)
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Il volume Centri Rurali avrà un’influenza vastissima, e prolungata nel tempo, sia nella scelta di fondo volta a disarticolare l’unità residenza/servizi, sia nella definizione dei tre tipi di borghi: le prescrizioni formulate nel 1937 vengono infatti recepite dalla legge di colonizzazione del latifondo siciliano del 1940, riassorbite dalla legge di riforma agraria del 1950 e, ancora, integralmente riproposte dal decreto assessoriale del 1 aprile 1953 che, modificando la denominazione di borgo «piccolo, medio e grande» in «A, B, C», ripete testualmente gli elenchi di edifici previsti per ciascuna tipologia. Centri rurali è pubblicato contemporaneamente al secondo viaggio di Mussolini in Sicilia, durante il quale viene definito il programma che poi, con enfasi guerriera, sarà denominato “Assalto al latifondo”. Il 20 luglio 1939 Mussolini convoca membri del governo e gerarchi siciliani; secondo le parole del cinegiornale Luce si tratta di «un evento destinato a rimanere tra le date fatidiche della storia d’Italia. Nella sala delle battaglie di Palazzo Venezia [..] il Duce ordina la colonizzazione del latifondo con 20.000 unità poderali sopra 500.000 ettari di terreno, liquidata la coltura estensiva dal villaggio rurale, l’isola potrà nutrire il doppio della popolazione che oggi conta e diventare una delle più fertili contrade della terra»5. Il 2 gennaio 1940 viene promulgata la legge denominata “Colonizzazione del latifondo siciliano”, appena un mese dopo, il 3 febbraio, il ministro Bottai inaugura a Palermo la Mostra del latifondo e dell’istruzione agraria, dove vengono esposti i progetti di otto nuovi borghi che, nel dicembre dello stesso anno, saranno inaugurati6. Gli incarichi sono affidati su indicazione di Mussolini direttamente da Nallo Mazzocchi Alemanni, che sceglie «solamente architetti siciliani, particolarmente i giovani»7; come riportano tutti i carteggi relativi ai vari borghi: «A seguito degli ordini impartiti da S.E. il Capo del Governo e nelle more della pubblicazione della legge sulla Colonizzazione del latifondo Siciliano, il Direttore dell’Ente di colonizzazione ha fatto redigere in data […] dall’architetto […] il progetto per la costruzione dei fabbricati che andranno a costituire il centro rurale»8. Pubblicazioni di regime, riviste di settore, giornali e mostre, celebrano un’impresa presentata come un vero cambiamento epocale. In meno di un anno dall’emanazione della legge i reportage fotografici, ampiamente pubblicati e diffusi, mostrano assegnazioni di case e poderi ai contadini e i nuovi borghi già ultimati9. 5 Giornale Luce B1555, 26/0771939, Mussolini ordina la colonizzazione del latifondo in Sicilia, www.archivioluce.com. 6 La colonizzazione del latifondo siciliano. Primo anno, Ente di colonizzazione del latifondo siciliano, s.l. 1940. Il volume contiene esclusivamente fotografie (circa 300 suddivise in tre sezioni: Aspetti del latifondo; Opere di competenza statale; Appoderamento) e la raccolta delle leggi e dei decreti del 1940 relativi alla colonizzazione del latifondo. 7 N. Mazocchi Alemanni, La redenzione del latifondo siciliano: opere e problemi, in Il latifondo siciliano. Corso di lezioni svolte nel 1940 – XVIII dalla sezione palermitana dell’Istituto di Cultura Fascista con la collaborazione dell’Ente di Colonizzazione, Arti Grafiche S. Pezzino & figlio, Palermo, 1942, p. 491. 8 ACS, Ministero dell’agricoltura e delle foreste. Direzione generale bonifica e colonizzazione. Archivio generale. Opere di bonifica in Calabria, Sicilia, Sardegna, b. 98. 9 Tra le diverse testate, locali e nazionali, segnaliamo «Architettura», che nel maggio del 1941 dà rilievo nazionale alla vicenda con gli articoli di P. Carbonara, La colonizzazione del latifondo siciliano, pp. 179-184; M. Accascina, I borghi di Sicilia, pp. 185-198. 210
Fig. 3 Vedute di Borgo Cascino (da N. Manocchi Alemanni, L’assalto al latifondo siciliano. Primo anno di azione. Rapporto al Ministro dell’agricoltura, 1940) 211
Fig. 4 Vedute di Borgo Schirò (da La colonizzazione del latifondo siciliano. Primo anno, Ente di colonizzazione del latifondo siciliano, 1940) 212
I tempi imposti all’operazione sono strettissimi; gli incarichi di progettazione vengono assegnati prima dell’emanazione della legge, le imprese cominciano i lavori prima della formale assegnazione degli stessi10, le perizie di variante sono spesso indispensabili, i lavori legati alle reti idriche vengono posposti rispetto alla costruzione degli edifici e lo stesso accade spesso per le strade di accesso al borgo. Nel caso di Borgo Pietro Lupo, in provincia di Catania, i lavori vengono frettolosamente iniziati in località Salto, sulla base del progetto dell’ingegnere Filippo Marino, approvato il 21 novembre 1939. L’impresa Santagati, alla quale viene affidata la costruzione del borgo con accordi che precedono l’appalto, inizia i lavori la vigilia di Natale del 1939, ma il 28 gennaio 1940 riceve un telegramma con l’ordine di sospenderli. Il 15 febbraio arriva l’ordine di spostare il cantiere in un altro sito, denominato Mongialino, abbandonando scavi e sbancamenti già effettuati. Il progetto per borgo Pietro Lupo “migra” così, senza alcuna difficolta, da un sito all’altro del comprensorio di bonifica di Caltagirone11.
Fig. 5 Borgo Pietro Lupo, planimetria (da ACS Ministero dell’agricoltura e delle foreste. Direzione generale bonifica e colonizzazione. Archivio generale. Opere di bonifica in Calabria, Sicilia, Sardegna, b. 98)
Anche Borgo Bonsignore, costruito in provincia di Agrigento su progetto Donato Mendolia, è al centro di polemiche perché il sito prescelto è ritenuto insalubre: «la zona, cadente tra le foci dei fiumi Magazzolo e Platani, è largamente impaludata, e non potrebbe essere prosciugata se non con opere di grande bonifica […] per far 10 A titolo di esempio si veda la Relazione riservata di collaudo del borgo Petilia (già Gattuso), 30 novembre 1945: «L’Ente di Colonizzazione del Latifondo Siciliano con contratto 22 febbraio 1940 […] concedeva alla Società muratori Riminesi la costruzione del Borgo Petilia già Gigino Gattuso in territorio di Caltanissetta […] I lavori ebbero inizio a 24 dicembre 1939 e vennero ultimati a 31 ottobre 1940». 11 ACS, Ministero dell’agricoltura e delle foreste. Direzione generale bonifica e colonizzazione. Archivio generale. Opere di bonifica in Calabria, Sicilia, Sardegna, b. 98. Tra i vari documenti si veda: Ente di colonizzazione del latifondo siciliano, Promemoria sul trasferimento del cantiere per la costruzione del borgo Pietro Lupo dalla contrada Salto alla contrada Mongialino, 26 ottobre 1940; consorzio di bonifica di Caltagirone, Riservata personale a S.E. Giuseppe Tassinari, Ministro per l’Agricoltura e Foreste, 1 febbraio 1940. 213
ciò non basterebbero i fondi stanziati dal governo per la colonizzazione della Sicilia; sicché la realtà da accettare è che il centro rurale di Borgo Bonsignore è malarico e tale rimarrà in perpetuo»12. L’operazione compiuta ha, come è evidente, un forte carattere propagandistico, ed utilizza anche il linguaggio dell’architettura come elemento di persuasione. Su indicazione diretta del direttore dell’Ente di colonizzazione si assumono come validi i principi insediativi proposti dal manuale Centri rurali, ma si preferisce sostituire a un’uniforme pratica di progettazione affidata a un solo ufficio tecnico, le declinazioni diverse – assai variabili per qualità – di vari giovani progettisti chiamati a realizzare i borghi. I tempi dell’operazione dimostrano che il regime ha bisogno di costruire un consenso immediato intorno a realizzazioni tangibili; messa dunque da parte la complessa pianificazione territoriale, le questioni legate alla viabilità e all’organizzazione delle risorse idriche, vengono costruiti gli otto piccoli insediamenti.
Tra architettura e pianificazione: la lezione di Caracciolo Quasi tutti i protagonisti dell’architettura siciliana tra le due guerre, spesso poi anche artefici della ricostruzione, vengono coinvolti nei progetti dei borghi. Edoardo Caracciolo, Luigi Epifanio, Giuseppe Spatrisano, Giuseppe Vittorio Ugo, Pietro Ajroldi, Giuseppe Marletta ricevono incarichi insieme ai giovanissimi Giuseppe Caronia, Roberto Calandra, Maria Calandra e al ben più anziano Francesco Fichera13. Tra le esperienze più significative va segnalato certamente il progetto di Edoardo Caracciolo14 per borgo Gigino Gattuso, poi Petilia, a pochi chilometri da Caltanissetta15. Qui Caracciolo sperimenta, con tutte le contraddizioni sottese a un’operazione di regime, i temi sui quali da tempo ragiona: la questione dell’architettura rurale come modello per un linguaggio moderno da un lato, il tema della pianificazione territoriale dall’altro. Reduce dalla Scuola di perfezionamento in urbanistica appena istituita presso la Scuola Superiore di Architettura di Roma, vicinissimo all’amico Roberto Calandra, da poco rientrato proprio nel 1939 da un anno di studi negli Stati Uniti alla Columbia University dove ha frequentato un corso tenuto da Raimond Unwin, Caracciolo ricollega il tema della pianificazione del territorio agrario in Sicilia ad avanzate elaborazioni teoriche. «L’ormai vecchissimo Unwin, pioniere ed assertore 12 ACS, Ministero dell’agricoltura e delle foreste. Direzione generale bonifica e colonizzazione. Archivio generale. Opere di bonifica in Calabria, Sicilia, Sardegna, b. 98. Rapporto del Prefetto di Agrigento al Ministero dell’Interno, 24 aprile 1941. 13 Per tutti questi professionisti rimandiamo alle schede contenute in P. Barbera, M. Giuffrè (a cura di), Archivi di architetti e ingegneri in Sicilia, 1915-1945, Edizioni Caracol, Palermo, 2011. 14 Su Edoardo Caracciolo si veda N.G. Leone (a cura di), Edoardo Caracciolo. Urbanistica, architettura, storia, FrancoAngeli, Milano, 2014. 15 Rimandiamo ad altri testi in questo stesso volume, in particolare al contributo di Vincenzo Sapienza, per una disamina puntuale dei vari borghi. 214
autorevolissimo della nuova urbanistica, in un suo recente corso universitario ha elevato tutto un inno per la soppressione delle città e la loro completa dispersione nella campagna. Ed il Wright, il grande ribelle all’americanismo gretto, ha rispecchiato il sogno della nuova urbanistica nella sua “Broadacre City”. Nel suo “The disappearing city” egli ha cercato di dimostrare che la città attuale, “densa”, è inumana e che deve scomparire per cedere il posto alla città del futuro, decentralizzata, rada. L’ideale della nuova urbanistica consisterebbe quindi nello eliminare i due termini del problema da secoli antitetici, città e campagna per sostituirvi un organismo nuovo che possiamo considerare o come la polverizzazione del centro urbano sulla superficie agricola o come la organizzazione a carattere urbano di vastissime estensioni rurali»16. Il passaggio dalla teoria alla pratica comporta, come Caracciolo nota, l’ineludibile tema delle comunicazioni e dei trasporti; come superare «senza troppi sacrifici i 240 km che separano le case dai diversi nuclei della produzione, dello scambio, dell’assistenza sociale, degli svaghi e del riposo»17? «La adozione di soli mezzi velocissimi, quali auto su autostrade, ed aeroplani»18 già avveniristica per gli Stati Uniti d’America non è in alcun modo riferibile a una terra dove, come nota lo stesso Caracciolo, «il traffico relativo alle masse rurali rimane quello pedonale o a dorso di mulo, eccezionale la bicicletta»19. L’interpretazione operativa richiede una netta separazione tra teoria e prassi: «La teoria così espressa è quindi evidentemente utopistica […]» ma, «pur considerando la città ideale della nuova urbanistica come un’affermazione essenzialmente utopistica, crediamo utile tenerla presente, così come al matematico riesce utile la designazione di un limite irraggiungibile, ma che tuttavia definisce il campo dei suoi calcoli»20. Caracciolo traccia così, a partire da un modello parziale elaborato per un’area campione, un’ipotesi di organizzazione territoriale e sociale della campagna che ritiene possa essere estesa a gran parte del territorio agricolo siciliano. Una maglia regolare di 500 m di lato, estensione di un podere familiare con abitazione, dovrebbe costituire un tessuto continuo e uniforme sul territorio agricolo; su questa maglia vengono sovrapposte diverse reti, ciascuna caratterizzata da nodi posti a distanze diverse: più fitta quella del ciclo dell’istruzione primaria e dei servizi necessari ogni giorno, via via più rada la rete dei servizi a seconda che questi debbano essere usati quotidianamente, settimanalmente o solo periodicamente. Il modello teorico, non privo di interesse, avrebbe garantito un’infrastrutturazione del territorio che il regime non realizzerà mai. Anche sul fronte del progetto di architettura il borgo di Caracciolo rispecchia le ricerche che l’architetto sta da tempo conducendo. Le felici soluzioni dell’impianto prescelto da Caracciolo, del tutto differente da quello proposto dal manuale, e chiaramente elaborato per il sito specifico in cui si insedia, sono da ricollegare infatti agli studi compiuti già da qualche anno sul tema dell’architettura rurale e sui centri abitati siciliani. 16 E. Caracciolo, La nuova urbanistica nella bonifica del latifondo siciliano, in Il latifondo siicliano, cit., p. 286. 17 Ivi, p. 287. 18 Ibidem. 19 Ivi p. 306. 20 Ivi, p. 287. 215
Fig. 6 Borgo Gigino Gattuso, planimetria (da ACS Ministero dell’agricoltura e delle foreste. Direzione generale bonifica e colonizzazione. Archivio generale. Opere di bonifica in Calabria, Sicilia, Sardegna, b. 98)
Fig. 7 Vedute di Borgo Gattuso (Archivio privato Edoardo Caracciolo, Palermo)
Caracciolo segue esplicitamente la lezione elaborata da Giuseppe Pagano e magistralmente esposta alla Triennale di Milano del 1936 - con la mostra curata insieme a Guarniero Daniel sull’architettura rurale italiana21: «Questa architettura limpida è il linguaggio autoctono della civiltà mediterranea, linguaggio che parla anzitutto con spregiudicato raziocinio e che dallo stesso ragionamento funzionale trae motivo di lirica ispirazione artistica. Questa maniera di esprimersi è assai prossima 21 Edoardo Caracciolo peraltro partecipa alla VI Triennale, guidando un gruppo di giovani architetti e ingegneri siciliani che espongono rilievi di case di borgate in prossimità di Palermo. 216
moralmente e quasi anche formalmente, al credo degli architetti contemporanei»22. Esiti di queste ricerche vedono la luce proprio nel 1939. In quest’anno vengono pubblicati Edilizia ericina di Edoardo Caracciolo e Architettura rustica in Sicilia di Luigi Epifanio, autore di un altro dei borghi più interessanti, in provincia di Trapani. Entrambi i testi rivelano, alla lettura, il carattere marcatamente operativo che era già presente nell’impostazione del lavoro di Pagano In effetti, sarà proprio il carattere di storia operante di questi studi a modificare il volto di alcuni dei borghi rurali in Sicilia, la cui progettazione era stata già avviata dal Regime sulla base di presupposti del tutto diversi. Il manuale del 1937 istituzionalizzava un approccio progettuale lontanissimo rispetto alla via intrapresa da Caracciolo, Epifanio ed altri. A un modello rigido e uniforme, del tutto avulso dai luoghi, indifferente alle storie e alle geografie dell’isola, immutato al mutare di altitudine e orientamento, un gruppo di giovani architetti che studia l’architettura rurale siciliana sostituisce principi tipologici, distributivi, e anche linguistici differenti per la creazione dei nuovi borghi rurali. Neanche l’uso attento di un linguaggio della memoria riuscirà, tuttavia, a modificare del tutto la natura di un’operazone giustamente definita «un esperimento di ingegneria sociale»23
Difficili continuità La guerra rallenta le attività costruttive o le interrompe del tutto, ma non costituisce una soluzione di continuità nell’impostazione del problema, e infatti, già nel 1953, in uno degli album che raccolgono fotografie e immagini delle nuove realizzazioni, l’Eras pubblica una carta geografica della Sicilia con l’indicazione dei terreni già assegnati in base alla legge di riforma agraria e con l’indicazione dei diversi borghi «costruiti o in corso di ultimazione, in costruzione o in corso di appalto, progettati o da progettare». Si tratta di oltre cinquanta insediamenti sparsi sul territorio isolano, con alcune rilevanti concentrazioni nel messinese, nel trapanese, e nel territorio a confine tra le province di Enna e Caltanissetta. Tra i borghi costruiti ritroviamo gli otto insediamenti realizzati tra il 1939 e il 1940 e quelli realizzati poco dopo, ma progettati ancora sotto il regime, (borghi Borzellino, Ventimiglia, Guttadauro, Bassi); viene inserito il borgo di Libertinia, di costruzione precedente ma ampliato poi con ulteriori servizi a cavallo tra gli anni quaranta e gli anni cinquanta e ancora molti altri insediamenti; si notano i nuclei più compatti di borghi e sottoborghi nel territorio di Francavilla di Sicilia (Schisina, Morfia, Piano Torre, San Giovanni, Monastero), nel territorio di Contessa Entellina (Piano Cavaliere, Castagnola, Roccella, Portone), nel bacino del Tumarrano nei pressi di Mussomeli (Tumarrano, Pasquale Monte Nuovo, Ficuzza). Se per un verso permane, in tutta l’operazione che viene condotta nel corso degli anni cinquanta, l’organizzazione del territorio attraverso i borghi rurali di servizio, 22 G. Daniel, G. Pagano, Architettura rurale italiana in «Quaderni della Triennale», Milano 1936; il testo è in parte riportato in G. Ciucci, F. Dal Co, Architettura italiana del ‘900, Atlante, Electa, Milano, 1990, pp.136-137. 23 S. Lupo, op. cit. 217
ciò che subisce una variazione è l’idea della casa isolata che viene invece, talvolta, sostituita da agglomerati di case raggruppate a costituire un micro tessuto urbano (borgo Morfia, borgo San Giovanni, borgo Piano Cavaliere). Al programmatico isolamento della casa colonica sul podere, ostile alle forme di socialità e solidarietà tipiche del paese siciliano, subentra l’idea di un modello residenziale che tenta di ricostituire un’unità di vicinato.
Fig. 8 Ente per la Riforma Agraria In Sicilia, carta geografica della Sicilia con l’individuazione dei borghi, 1953 (da ERAS, album fotografico)
Alla progettazione dei borghi si alternano liberi professionisti e tecnici dell’Eras, architetti e ingegneri di generazioni ed estrazioni culturali diverse, talvolta persino padri e figli: come nel caso di Giuseppe Caronia, impegnato, giovanissimo, nel 1940 nella costruzione del borgo Borzellino, e del padre Salvatore progettista nel 1953 del borgo Grancifone. Diversi sono dunque i linguaggi e le scelte formali, ma permangono alcuni caratteri costanti che, al di là del giudizio sulle singole architetture, connotano l’operazione nel suo complesso. Gli stessi modelli insediativi, logiche compositive assimilabili, sistemi costruttivi analoghi e il permanere di un cantiere a bassissima meccanizzazione segnano la vicenda dei borghi rurali, prima e dopo la seconda guerra mondiale. Quando nel 1952 l’ente per la Riforma Agraria in Sicilia (ERAS), istituito da poco più di un anno, pubblica il volume 22 anni di bonifica integrale, rivendica la continuità strutturale degli interventi effettuati degli enti che si sono occupati di bonifica, a dispetto dei cambi di denominazione: «Il presente lavoro vuol tratteggiare l’opera svolta al servizio della bonifica e delle irrigazioni in Sicilia dall’Istituto V.E. III per il bonificamento della Sicilia, con lungimirante veduta promosso dal Banco di 218
Sicilia nel 1925, dall’Ente di colonizzazione del Latifondo Siciliano e dall’Ente per la riforma agraria in Sicilia, i quali tre enti debbono considerarsi un tutto unico […]»24. Il mutare dei meccanismi economici, la crescente emigrazione, una diversa mobilità tra campagne e città renderanno il più delle volte “inutili” i borghi rurali, spesso progressivamente spogliati degli infissi e di altri elementi asportabili, funzionali e decorativi, fino a divenire ruderi, testimonianze non di un antico passato, ma di un futuro mai arrivato.
Fig. 9 Borgo Manganaro, veduta della chiesa in costruzione (da ERAS, album fotografico)
24 Ente per la Riforma agraria in Sicilia, 22 anni di bonifica integrale, IRES, Palermo, 1952, p.7. 219
Fig. 10 Libertinia, veduta del borgo originario e dell’ampliamento in costruzione nei primi anni Cinquanta (da ERAS, album fotografico)
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Il progetto della città rurale dall’ECLS all’ERAS Funzione, forma, materiali e tecniche Vincenzo Sapienza
Introduzione Una caratteristica dominante della conurbazione in Sicilia è il rifiuto per la residenza sparsa. Tale principio ha condotto nel tempo alla formazione di numerosi centri abitati, più o meno ampi, dispersi in vaste aree agricole seminative, pressoché disabitate: il cosiddetto latifondo siciliano. Tra gli anni ’40 e ’50 del Novecento, nel tentativo di rendere più agevole la vita nelle aree rurali e riqualificarle, vennero costruiti un certo numero piccoli nuclei urbani formati da edifici di servizio (quali la chiesa, la scuola, la caserma dei carabinieri, l’ambulatorio, …), denominati borghi rurali. Il fine che si perseguiva era quello di spezzare l’impostazione latifondistica ancora vigente; il modello culturale di riferimento era la quello della Città Rurale, teorizzata dall’architetto palermitano Edoardo Caracciolo, di cui si dirà nel prosieguo. La loro realizzazione venne supportata peraltro da diverse misure di supporto di carattere economico a favore di braccianti e contadini, configurando un ambizioso programma di riforma agraria, inizialmente denominato Colonizzazione del Latifondo Siciliano. Volendo tratteggiare, seppur brevemente, l’origine del latifondo siciliano, bisogna rifarsi all’epoca della dominazione romana, allorché si vennero a formare proprietà di vaste dimensioni. La sua consistenza poi si conservò nei secoli essendo stato assunto come status symbol dalla classe nobiliare. Tuttavia nel XX secolo esso non era caratterizzato dalla mera estensione quantitativa dei predi. Erano intese aree latifondistiche quelle con coltura estensiva e coltivazione a gabella: quindi sottosfruttamento delle capacità produttive del terreno e supersfruttamento della manodopera umana. La colonizzazione non fu che un breve segmento, anche se assai significativo, della lunghissima e tormentata riforma del settore agrario in Sicilia. Vicenda a cui appartengono gli episodi più alti della storia recente, come la vicereggenza illuminata del marchese Domenico Caracciolo, la nascita spontanea dei Fasci Siciliani, la proposta di Francesco Crispi ed altro ancora.
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Gli antefatti La colonizzazione del latifondo siciliano e la riforma agraria si innestano nel solido filone della Bonifica Integrale, avviata dall’amministrazione fascista già negli anni ’30, in varie aree della penisola. La bonifica era detta integrale appunto perché non avrebbe dovuto limitarsi al riordino idrogeologico delle aree interessate, ma favorire il popolamento e quindi lo sviluppo delle aree. A questo scopo vennero realizzati due tipi di insediamenti. I primi, di carattere pubblico, discendevano dall’adattamento a residenza permanente delle baracche degli operai addetti alla realizzazione delle opere di bonifica idraulica, che erano predisposte in tal senso già in fase di progetto. Questo tipo di genesi era stata collaudata nell’esperienza dell’Agro Pontino con ottimi risultati. Gli insediamenti del secondo tipo sono quelli nati dalla lungimiranza di agrari illuminati che, usufruendo di finanziamenti appositamente offerti dallo Stato, realizzarono abitazioni e servizi per i propri lavoratori in forma di piccoli insediamenti. Tra quelli del primo gruppo possiamo annoverare Sferro (fig. 1) e Filaga; al secondo appartengono Villaggio Santa Rita, in provincia di Caltanissetta, e Libertinia, sorta nelle campagne di Ramacca (fig. 1).
Fig. 1 Sferro, nel territorio di Paternò, (a sinistra) Libertinia, nel territorio di Ramacca (a destra)
Anche se in entrambi i casi si tratta di esempi numericamente limitati, la correttezza dell’impostazione metodologica è confermata dal fatto che in gran parte essi sono tutt’oggi abitati. Anzi la permanenza di un nucleo residenziale è il carattere maggiore dei luoghi, come evidenziato in una relazione tecnica redatta su Libertinia: «Borgo Libertinia, costruito dall’Esa è veramente abitato. La sua comunità ha raggiunto un equilibrio invidiabile e sereno dove l’amenità dei luoghi ed il silenzio della natura, cullato dalle campane dei buoi, regolato dai pilastri portanti delle persone più rappresentative, danno il senso di una vera vita campestre di pace e di suoni, stranamente ancora percettibili»1. L’emblematicità di Libertinia è peraltro rimarchevole se si pensa che, nello stesso luogo, venne successivamente realizzato un insediamento di riforma agraria. 1 Archivio Esa, Catania, Borgo Libertinia, Relazione tecnica sullo stato dei luoghi delle unità immobiliari costruite dall’Esa e accertamento degli attuali detentori. 224
La funzione della Città Rurale Come detto, il tentativo di riqualificazione territoriale dell’ambiente rurale siciliano si basava su uno strumento progettuale di grande raffinatezza culturale: la Città Rurale di Edoardo Caracciolo. La città rurale era un non-luogo per eccellenza, la sua fondazione ed il suo accrescimento avvenivano per trasformazione del territorio non per costruzione ex novo; quindi non era previsto un incremento della popolazione, ma una sua più razionale ridistribuzione. Il sistema si fondava su una cellula base costituita da un fabbricato colonico e dal podere di pertinenza. Tale residenza, diffusa sul territorio, faceva riferimento ad una rete di borghi e sottoborghi per attingere ai servizi sociali necessari al vivere civile, differenziati tra loro in base alla complessità delle prestazioni in grado di fornire. La distribuzione delle strutture sul territorio prendeva le mosse dal dimensionamento del podere, sulla scorta delle necessità di sostentamento di una famiglia media. I borghi erano collocati ai vertici della maglia quadrata creata dall’appoderamento, studiata in modo da bilanciare l’offerta dei servizi con un adeguato bacino di utenza nel rispetto di una percorribilità a piedi delle distanze reciproche2 (fig. 2). Le motivazioni di base erano assai semplici e pratiche: il contadino sprecava gran parte della sua giornata lavorativa nel trasferimento dalla sua abitazione in paese al luogo di lavoro in campagna; inoltre non poteva usufruire dell’aiuto che avrebbero potuto prestargli la moglie ed i figli, che rimanevano a casa. Da ciò discendeva conseguentemente la necessità di trasferire la dimora del lavoratore nel podere, insieme alla sua famiglia.
Fig. 2 La Città Rurale di Edoardo Caracciolo
2 F. Franz, Condizione rurale e pianificazione in Sicilia, in «Quaderno IDAU», n. 14, 1984, p. 71. 225
Un sistema avanzato e raffinato, si diceva, figlio di una visione lucida e affascinante di una società in cui lo sviluppo dei vari settori economici del tempo (quello agricolo e quello industriale) risultava auto bilanciato. «Ed il fatto che una simile ideologia venisse praticata in una regione povera e periferica come la Sicilia sta ad indicare l’impegno e la validità di una ricerca in grado di formulare compiuti modelli di pianificazione territoriale ancor prima che Le Corbusier delineasse la teoria dei tre insediamenti umani»3.
La forma della Città Rurale La colonizzazione del Latifondo Siciliano L’attuazione del programma, che diede una forma fisica alla Città Rurale, venne a concretizzarsi con la legge n. 1 del 2 gennaio del 1940 per la Colonizzazione del Latifondo Siciliano. Secondo tale norma i proprietari venivano obbligati a provvedere all’appoderamento dei predi più vasti, alla costruzione delle relative case coloniche ed alla concessione delle aree individuate con contratti di affitto decennali. A supporto della trama residenziale, affidata quindi all’iniziativa privata, lo Stato si impegnava a costruire i borghi rurali in cui erano concentrate le attrezzature di servizio. Con la stessa norma veniva istituito l’Ente di Colonizzazione del Latifondo Siciliano (Ecls), per sovrintendere e pianificare la trasformazione territoriale. L’Ente stilò un piano triennale in cui era prevista la costruzione di 24 borghi e 30 sottoborghi. Otto di questi, uno per ogni provincia (eccetto quella di Ragusa, indirizzata verso la zootecnia), vennero ultimati già nel primo anno di esercizio (fig. 3). L’inizio delle attività, avvenuto simultaneamente il 20 ottobre 1939, e la loro conclusione, fissata il 18 dicembre 1940, vennero decantate con grande enfasi dalla stampa nazionale. Nel 1941 vennero avviati i lavori per la costruzione di altri sette borghi. Nel frattempo si procedeva alla costruzione delle case rurali4. Per la progettazione dei borghi venne coinvolta l’élite dei giovani professionisti locali (da Luigi Epifanio a Edoardo Caracciolo, da Giuseppe Marletta a Francesco Fichera). Il rapporto che si veniva ad istaurare con l’Ente si inquadrava nel tipico approccio adottato dalla pubblica amministrazione all’epoca5, come si evince chiaramente da alcuni passaggi di una delle lettere di affidamento dell’incarico. «Come voi ben sapete, nel programma dei lavori per la colonizzazione del latifondo siciliano sono incluse le costruzioni dei borghi. Per la realizzazione di essi l’Ente fra breve bandirà un Concorso fra gli ingegneri e gli architetti italiani. Per i primi otto Borghi che devono essere costruiti nel primo anno, in dipendenza dell’urgenza di 3 F. Franz, Condizione rurale e pianificazione in Sicilia, in «Quaderno IDAU», n. 14, 1984, p. 69. 4 Il piano triennale dell’Ente ne prevedeva 20.000, quelle effettivamente realizzate furono 2.684 (F. Amata, L’agricoltura catanese dagli anni venti alla riforma agraria, in Dollo C. (a cura di), Per un bilancio di fine secolo, Catania nel novecento, Atti del II convegno di studi, Società di storia patria per la Sicilia Orientale, 1999, p. 292). 5 R. Montagna, Sauro Vitaletti, La scuola Corridoni di De Renzi a Fano, Metauro, Pesaro, 2004. 226
approntare subito detti progetti, l’Ente è venuto nella determinazione di usufruire della collaborazione di liberi professionisti siciliani (...). Come l’Ente si riserva ampia facoltà di affidarvi poi, con apposita convenzione, se lo riterrà del caso, la Direzione dei lavori, altrettanta libertà si riserva di apportare al progetto tutte quelle modifiche che eventualmente riterrà di apporvi, a suo insindacabile giudizio»6.
Fig. 3 Borgo Lupo a Mineo (in alto a sinistra); Borgo Fazio a Trapani (in alto a destra); Borgo Petilia a Caltanissetta (in basso a sinistra); Borgo Borzellino a Monreale (in basso a destra)
Per la costruzione delle case coloniche si procedette in maniera differente7, in quanto l’Ufficio Tecnico dell’Ente preparò alcuni progetti tipo, da applicare in maniera piuttosto pedissequa (fig. 4).
Fig. 4 Schemi di case rurali dell’Ecls
6 Archivio Guido Baratta, progetto Borgo Giuliano, Curriculum. 7 D. Ortensi, Edilizia rurale, urbanistica di centri comunali e borgate rurali, Mediterranea, Roma, 1938. 227
Dall’analisi dei progetti dei borghi, si possono desumere alcuni tratti comuni ad essi. Il primo aspetto che emerge è l’impostazione urbana: il compito centrale è assegnato alla piazza, che svolge un ruolo da protagonista nel disegno di ogni città e paese. La piazza favorisce l’aggregazione e la socializzazione, sviluppa il riconoscimento di una identità locale, supporta l’attaccamento al luogo. In piazza si svolge gran parte della vita sociale urbana, dal passeggio al mercato delle braccia, dal comizio elettorale alla festa del Santo Patrono. Per tali motivi la piazza non poteva mancare nel borgo che rappresenta l’essenza del paese. L’interpretazione del tema è differente da caso a caso, in base all’intenzionalità del progettista di cercare un rigido controllo dello spazio o viceversa di simulare il disordine e l’asimmetria dell’ambiente naturale. Per quanto attiene alla collocazione territoriale i borghi sono in genere posizionati a ridosso di una strada tracciata da un consorzio di bonifica, ma in posizione leggermente discosta, in modo da evitare il diretto attraversamento. L’ingresso quindi avviene tramite una breve stradella di raccordo. Nell’incrocio che si forma è collocato immancabilmente un elemento caraterizzante: un bevaio per le bestie da soma; nel disegno di tali elementi, a cui era affidata in parte la visibilità dell’intervento, i tecnici dell’Ente profusero la loro fantasia, per cui ve ne è un’ampia casistica (fig. 5).
Fig. 5 Abbeveratoi per il bestiame dell’Ecls
Un altro tema ricorrente era la percepibilità del borgo a grande distanza. Anche questa caratteristica era tesa a favorire l’attaccamento dei coloni al luogo. Nell’opinione dei dirigenti dell’Ecls il vedere la punta del campanile dal proprio podere annulla la solitudine e rincuorava il colono8. Per tale fine la scelta del sito ricadeva quasi sempre su un piccolo rilievo, come è ben evidente a Borgo Cascino (fig. 6). Per quanto attiene al linguaggio architettonico i borghi si collocano nell’ambito, a dire il vero piuttosto incerto, dell’architettura del tempo, tesa tra l’esigenza della semplificazione di linee e volumi, discendente dal razionalismo, e la volontà celebrativa tendente al monumentalismo. A ciò si aggiungono altre tendenze date dalle peculiarità del tema progettuale e cioè lo storicismo e il richiamo all’architettura vernacolare. Tutte mescolate tra loro in maniera soffusa. 8 AA. VV., ESA tra passato e futuro, in «Sviluppo agricolo», n. 11-12, 1992. 228
La Riforma Agraria Con la legge regionale n. 104 del 27 dicembre 1950 l’Ente di Colonizzazione del Latifondo Siciliano venne mutato in Ente di Riforma Agraria in Sicilia (Eras) e si diede avvio ad una seconda stagione di interventi in ambito rurale. Tra la Colonizzazione e la Riforma Agraria intercorsero circa dieci anni. Un decennio in cui il mondo era cambiato in maniera drastica. La nascita della contrapposizione est/ovest e la fine dell’età coloniale, i movimenti pacifisti e il suffragio universale, l’industrializzazione dei paesi vincitori e la meccanizzazione dei lavori agricoli, il boom economico e la libertà dei costumi avvolsero il pianeta in un turbinio sconvolgente all’interno del quale la Regione Sicilia fu un “motore immobile”. Tanto da riproporre un modello di sviluppo territoriale per le aree rurali pressoché immutato a quello posto in essere nel ‘39 dal governo fascista, che peraltro aveva ottenuto risultati tutt’altro che soddisfacenti. Dal panorama delle realizzazioni dell’Eras emerge borgo Schìsina, che fa parte di un ampio sistema insediativo nel territorio di Francavilla. Gli undici edifici che lo compongono colmano la radura dell’area boscosa che li ospita e risolvono, con un intreccio di affacci e di ingressi a quote differenti e di scale incassate tra i corpi di fabbrica, il dislivello tra la strada di accesso, che scorre sul crinale, e la piazza del borgo, adagiata in un’ansa della collina9. Il design, asciutto ed essenziale, rispettoso della tradizione architettonica e costruttiva dei luoghi, incarna quella architettura senza architetti lungamente ricercata dai maestri del Movimento Moderno (fig. 6).
Fig. 6 Borgo Cascino a Enna (a sinistra) e Borgo Schisina a Francavilla (a destra)
9 V. Sapienza, M. Saraniti, I sette borghi rurali di Francavilla di Sicilia – il progetto, la costruzione, il reimpiego, «Agorà», n. 46, 2013, p. 22-27. 229
I materiali e le tecniche per la costruzione della Città Rurale La lettura della fabbrica Le fabbriche che costituiscono i borghi dell’Ecls sono realizzate quasi esclusivamente in muratura portante. Una scelta obbligata, se si considera l’autarchia che vigeva all’epoca. La rinuncia all’impiego di carpenterie metalliche e la parsimonia nel ricorso al calcestruzzo armato influirono fortemente sulle possibilità espressive dei professionisti chiamati in causa. È evidente che sbalzi pensiline dovevano essere eliminati, che il tetto a falde era preferibile alla terrazza piana, che i portici andavano impostati su archi piuttosto che sul sistema trave-pilastro. Del resto, era lo stesso Ente che indirizzava i progettisti verso tale soluzione, come è possibile desumere ancora una volta da una lettera di conferimento di incarico «In merito [ai borghi] ritengo farvi presente che gli edifici, improntati alla massima semplicità, debbono sottostare alle leggi ed ai regolamenti vigenti sui materiali da costruzione; ed in particolare dovrà essere esclusa la adozione del cemento armato e ridotto al minimo indispensabile l’impiego di altri materiali metallici»10. Nella lettura del tipo murario si può rilevare un’ampia varietà, data dalle differenti aree di costruzione, poiché in ciascun borgo si riscontra l’impiego della pietra del luogo con la tessitura congruente alla dimensione ed alla natura degli elementi lapidei (fig. 7). Per cui nel palermitano si va dai conci semisquadrati in pietra tufacea di borgo Borzellino, a quelli segati in pietra longa di borgo Schirò; nel trapanese prevale l’uso di pietra arenaria, come accade a borgo Fazio; nell’ennese è usata la pietra calcarea informe, riscontrabile a Borgo Cascino; nelle aree meridionali è impiegato pietrame di pezzatura minuta; nelle aree etnee le murature sono in pietra lavica, in elementi informi o in blocchi semisquadrati, in gergo siciliano detti intoste. Il tipo di malta più diffuso era, all’epoca, la cosiddetta malta comune, confezionata utilizzando 0,33 volumi di calce in pasta (calce spenta) ed uno di sabbia, impastati con 300 litri d’acqua11.
Fig. 7 Tipi di murature: Borgo Borzellino (Palermo); Borgo Guttadauro (Butera); Borgo Caracciolo (Maniace); Borgo Cascino (Enna)
10 Archivio Guido Baratta, Progetto Borgo Giuliano, Curriculum. 11 Archivio Esa a Prizzi, Borgo 11, faldone 1, analisi dei prezzi, voce 73. 230
La pietra locale è utilizzata pure per formare copertine dei muretti, davanzali e soglie, gradini, etc. ... anche se spesso per queste finalità si trovano impiegati mattoni in vista o lastre in graniglia. Un esempio rimarchevole in tal senso è ravvisabile nelle bugne a punta di diamante, che sottolineavano gli spigoli degli edifici a Borgo Caracciolo a Maniace. Erano realizzati in pietra artificiale (un conglomerato), confezionati a piè d’opera e murati nel paramento (fig. 8). La concezione dell’opera li assimila ai moderni componenti prefabbricati, tanto che essi sono dotati di gancio in acciaio per agevolare la movimentazione, annegato nel getto.
Fig. 8 Borgo Caracciolo (Maniace), oggi demolito: disegno di progetto del porticato (a sinistra); riprese fotografiche dei conci dell’arco (in alto a destra) e delle bugne della parasta d’angolo (a destra in basso)
Le finiture delle fabbriche sono in intonaco tradizionale; all’esterno prevalgono le colorazioni ocra e rosso mattone, in accordo con le tinte del paesaggio circostante e con la tradizione locale. All’interno si hanno tinte chiare (fig. 6). Gli infissi sono tutti in legno. Finestre e portefinestre sono sagomate secondo fogge tradizionali: specchiature a vetri, suddivise con bacchette in legno, parte inferiore cieca e scuri interni. In alcune circostanze si riscontra l’impiego di serrande avvolgibili, ma quasi sempre si tratta di aggiunte nel corso di lavori di completamento o in ristrutturazioni successive. I solai per gli orizzontamenti di interpiano sono, in buona parte, Senza Armatura Provvisoria” (Sap), un tipo di solaio brevettato dalla Rdb di Piacenza in quegli anni. Questo era formato da travetti preassemblati a piè d’opera, solidarizzati da una caldana in calcestruzzo, gettata in sito. Ciascun travetto si componeva, a sua volta, di pignatte in laterizio, munite di varie scanalature per l’alloggiamento dell’armatura. Grazie alla collaborazione dell’elemento in laterizio alla statica del solaio, ottenuta sagomandone 231
la cartella superiore con il caratteristico intreccio di setti e nervature, si aveva un consistente risparmio di armatura. A questo andavano aggiunti i vantaggi discendenti dalla più rapida esecuzione dei lavori e dall’economia sulle opere provvisionali. Il solaio Sap fu probabilmente il frutto più alto, in campo edile, di quell’italico ingegno che veniva invocato per sopperire le difficoltà discendenti dall’embargo imposto all’Italia in quegli anni di autarchia. Un’eccezione è costituita da Borgo Cascino, dove il progettista Giuseppe Marletta optò per la costruzione di solai in legno. La scelta, oltre che dall’esigenza di risparmiare l’acciaio, era dovuta alla volontà di conformarsi alla tradizione costruttiva dell’architettura storica, in considerazione della destinazione d’uso del progetto12. Alcuni solai di questo tipo sono ancora visibili nel borgo, la maggior parte venne invece sostituita in un intervento di recupero eseguito nel 1955 (fig. 10). Le coperture sono per lo più tetti a due falde in legno, con un manto è in tegole marsigliesi, poiché più economiche dei coppi tradizionali. Un soffitto in canne e gesso nasconde le falde dall’intradosso. I tetti a terrazza sono una vera eccezione. Gli edifici dell’Eras, seppur successivi di un decennio, hanno una impostazione costruttiva molto simile. Si tratta di opere in muratura portante, una scelta da considerarsi antiquata, in relazione all’epoca di costruzione. Gli sguinci delle bucature sono spesso rifiniti in mattoni. Gli orizzontamenti e le coperture sono tutti solai piani in laterocemento. All’esterno si alternano intonaci di varie colorazioni (prevalentemente bianco sporco e lillà) e paramenti in pietrame in vista. Alcune chiese esulano dal modello delineato, poiché la struttura portante è formata da portali in calcestruzzo armato (fig. 9). I setti di tamponamento interclusi, pur non assolvendo un ruolo statico sostanziale nell’ambito della fabbrica, sono costruiti con murature abbastanza robuste, visto che le proporzioni dell’opera sconsigliava l’uso di mattoni forati o altri materiali leggeri. Una configurazione particolare caratterizza la chiesa di Borgo Petilia, formata da un volume cilindrico coronato da un cornicione liscio e scandito da una serie di pilastroni aggettanti dal filo del muro (fig. 9). Questi sono interamente realizzati in muratura, una tecnologia che non può certamente ritenersi d’avanguardia, per cui la ricerca di una immagine in linea con le tendenze del Moderno non fu evidentemente supportata dalle tecniche costruttive disponibili.
Lo stato di conservazione Il deplorevole stato di conservazione in cui versano oggi i borghi rurali di Sicilia è attribuibile ad una serie di concause che non è facile dirimere. Volendo riassumere si possono indicare due ragioni principali: la costruzione su terreni inadeguati e l’assenza di manutenzione. Frettolosità ed esigenze propagandistiche condussero, in più circostanze alla scelta di sedimi freatici, come nel caso di Borgo Giuliano (fig. 10), nel territorio di San Teodoro, costruito a cavallo di una faglia freatica, fonte di gravi dissesti. Spesso peraltro le caratteristiche meccaniche del terreno vennero peggiorate da carenze nella rete di smaltimento delle acque bianche e nere, che stagnando imbibivano i terreni. È questo 12 Pagnano Giuseppe, Il borgo rurale “Antonio Cascino” di Giuseppe Marletta, in AA. VV., Rappresentazione dell’architettura e dell’ambiente: principi costruttivi del progetto tra artificio e natura, MURST, Rodano (Mi), 1997. 232
il caso di Borgo Cascino dove nel 1955, si dovette procedere ad una ristrutturazione del borgo che, per alcuni edifici, giunse sino alla parziale ricostruzione13 (fig. 10). Ma la causa senz’altro più grave, in ordine ai meccanismi di danno sugli edifici, è certamente l’assenza di azioni manutentive. Sino agli anni ’60 l’Ente interveniva, con regolari programmi di manutenzione. Alcune volte l’intervento era accompagnato dall’ampliamento del borgo o l’adeguamento degli edifici a nuovi usi, come nel caso di Borgo Schisina, che venne utilizzato per qualche anno come colonia estiva per i ragazzi del luogo; negli anni successivi, nessun lavoro edile venne più condotto. Il deperimento delle finiture ha quindi esposto gli elementi di fabbrica ad un rapido deterioramento che, non contrastato per tempo, è progredito, in diversi casi, sino a giungere a crolli parziali. Infatti danni minimi, nei casi più estremi, non ripresi nella loro fase iniziale, possono portare a conseguenze drastiche. Gli esempi in questo senso possono essere molteplici, dai borghi di Francavilla, a Borgo Borzellino, a Monreale. Va rilevato che talvolta i primi meccanismi di danno sono stati innescati da un evento sismico, come a Borgo Fazio, a Trapani (fig. 10). Che l’abbandono sia capace di giocare un ruolo fondamentale nel deterioramento delle fabbriche è confermato, ove ciò abbia bisogno di riscontro, dal fatto che nei pochi borghi ancora abitati, o perché abusivamente occupati o perché ancora parzialmente in funzione, lo stato di conservazione è di gran lunga migliore rispetto a quelli disabitati. Un esempio in tal senso è costituito da Borgo Cascino, ad Enna e da Borgo Petilia, a Caltanissetta. Tuttavia va osservato che vi è un vasto numero di edifici che non presenta lesioni serie, il cui recupero sarebbe tutto sommato agevole, o limitato al ripristino delle finiture. Il compito è poi avvantaggiato dalla semplicità architettonica degli edifici, infatti essi non presentano elementi di finitura, sottoposti a particolari forme di salvaguardia.
Fig. 9 Chiesa di Borgo Petilia a Caltanissetta (a sinistra) e chiesa di Borgo Lupo (a Mineo)
13 V. Sapienza, Borgo Cascino a Enna: una città dal duce nel cuore del latifondo siciliano, in A. Villari, M. A. ARENA (a cura di), Paesaggio 150: Sguardi sul paesaggio italiano tra conservazione, trasformazione e progetto in 150 anni di storia, Aracne, Roma, 2012, p. 637-641. 233
Fig. 10 Chiesa di Borgo Giuliano a San Teodoro (in alto a sinistra); chiesa di Borgo Fazio a Trapani (in basso a sinistra); caserma dei carabinieri di Borgo Cascino ad Enna (a destra). Raffronto tra lo stato originale e lo stato successivo ai lavori di recupero del 1955
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Conclusioni Per quanto detto i borghi costruiti dall’Ecls sostanziano un’importante risorsa che non può esser sprecata, sia in termini storico-culturali che ambientali. Dal primo punto di vista è evidente che, malgrado alcuni limiti evidenziati (errato modello di insediamento, siti non adeguati, qualità architettonica e costruttiva), i borghi costituiscono un documento ancora leggibile dell’architettura del ventennio, nella sua espressione antiurbana. Il limite insito nella concezione stessa della città rurale, di cui i borghi erano una componente fondamentale, riducendone le potenzialità di utilizzo, ha favorito di conseguenza la loro conservazione, visto che le manomissioni dovute all’uso sono state minime. A ciò si aggiunga il valore documentale nel senso più stretto del termine: i borghi sono manifestazione di una pagina centrale della storia recente dell’isola, scritta nel quadro di quel complesso insieme di lotte di classe, utopie sociali e direttive politiche, da rubricare nell’ambito della riforma agraria; una questione, come già detto, che accomuna il meridione d’Italia a molte regioni del mondo. Non sfugge a nessuno che i borghi, per una buona percentuale, sono collocati in posizioni strategiche, ossia al centro di zone a scarsa densità abitativa, in contesti non congestionati dalla invasività dell’antropizzazione territoriale. Inoltre intorno ad essi è sopravvissuto, almeno in parte, il latifondo siciliano, che però, visto con gli occhi di oggi, possiede un certo fascino, poiché appare come luogo di serenità e riscoperta del rapporto diretto con la natura. I possibili utilizzi del resto sono tanti, dal mero sfruttamento per l’ospitalità turistica ad attrezzature per la promozione delle eccellenze locali, dal museo della Riforma Agraria e delle lotte contadine ad un eco villaggio per la produzione solidale. In alcuni casi il reimpiego è già stato avviato, come a Borgo Rizza, proprietà del Comune di Carlentini, che ha sfruttato un finanziamento della Comunità Europea per ristrutturare alcuni edifici o a Borgo Cascino, ristrutturato dal comune di Enna a beneficio dei residenti. L’Ente di Sviluppo Agricolo (Esa), oggi erede dell’Eras, ha anche sviluppato un progetto su tutto il sistema dei borghi14. Auguriamoci quindi, in un domani prossimo, di vederli rivitalizzati da un nuovo uso.
14 A. Morello, Progetto di Riqualificazione dei Borghi Rurali dell’Ente di Sviluppo Agricolo, ESA, Palermo, 2009. 235
Bibliografia Accascina M., I borghi di Sicilia, in «Architettura», n. V, maggio 1941. Amata F., L’agricoltura catanese dagli anni venti alla riforma agraria, in Dollo C. (a cura di), Per un bilancio di fine secolo, Catania nel novecento, Atti del II convegno di studi, Società di storia patria per la Sicilia Orientale, 1999. AA. VV., ESA tra passato e futuro, in «Sviluppo agricolo», n. 11-12, 1992. AA. VV., Metafisica Costruita, le città di fondazione degli anni trenta dall’Italia all’Oltremare, Touring Club Italiano, Milano, 2002. Di Fazio S., Libertinia: un borgo rurale fondato negli anni venti in Sicilia, in «Tecnica Agricola», n. 1-2, 2005. Dufour L., Nel Segno del Littorio, città e campagne siciliane nel ventennio, Lussografica, Caltanissetta, 2005. Faro F., Condizione rurale e pianificazione in Sicilia, in «Quaderno IDAU», n. 14, 1984. Mangano G., Centri rurali, Istituto V. E. III per il Bonificamento della Sicilia, Palermo, 1937. Morello A., Progetto di Riqualificazione dei Borghi Rurali dell’Ente di Sviluppo Agricolo, ESA, Palermo, 2009. Montagna R., Sauro Vitaletti, La scuola Corridoni di De Renzi a Fano, Metauro, Pesaro, 2004. Ortensi D., Edilizia rurale, urbanistica di centri comunali e borgate rurali, Mediterranea, Roma, 1938. Pagnano G., Il borgo rurale “Antonio Cascino” di Giuseppe Marletta, in AA. VV., Rappresentazione dell’architettura e dell’ambiente: principi costruttivi del progetto tra artificio e natura, MURST, Rodano (Mi), 1997. Pennacchi A., Fascio e martello. Viaggio per le città del duce, Laterza, Bari, 2010. Spina R., Il tavolo degli orrori, architettura a Catania tra le due guerre –modernità e tradizione, Prova d’Autore, Catania, 2001. Sapienza V., Urban Utopia and Building Experimentations: The Rural Villages of the Sicilian Latifundium, in «Journal of Civil Engineering and Architecture», n. 8, 2014. Sapienza V., Saraniti M., I sette borghi rurali di Francavilla di Sicilia – il progetto, la costruzione, il reimpiego, «Agorà», n. 46, 2013. Sapienza V., Borgo Cascino a Enna: una città dal duce nel cuore del latifondo siciliano, in A. Villari, M. A. Arena (a cura di), Paesaggio 150: Sguardi sul paesaggio italiano tra conservazione, trasformazione e progetto in 150 anni di storia, Aracne, Roma, 2012.
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I borghi rurali della Sicilia centrale Recupero del costruito e valorizzazione del territorio tra aderenza al paesaggio e autenticità Antonella Versaci
Il latifondo siciliano esiste da dieci secoli, distese enormi aride e deserte. Non essendovi case il contadino per andare a lavorare deve fare ore e ore di mulo […] la terra non si può lavorare razionalmente e gli uomini abbandonano i campi che rimangono incolti e desolati. Il regime ha deciso l’assalto al latifondo usando tutti i mezzi che un governo forte ha a sua disposizione […] e i contadini sono chiamati a contribuire essi stessi, con la loro opera diretta, al miglioramento della terra.
Recitava così un documentario dell’Istituto Luce del 1940 per introdurre le ragioni del popolamento dell’entroterra siciliano voluto dal regime fascista che, in seguito alla legge n. 1 del 2 febbraio dello stesso anno, veniva avviato con la costituzione dell’Ente di Colonizzazione del Latifondo Siciliano (ECLS). Tale organismo mirava a garantire - sia dal punto di vista tecnico sia finanziario - la trasformazione della struttura economica e sociale delle terre rurali in Sicilia, attraverso l’edificazione di specifiche abitazioni nei lotti assegnati ai contadini, al fine di permettere loro di vivere nelle loro terre, nonché di borghi rurali atti a fornire ai lavoratori e alle loro famiglie i servizi mancanti nelle campagne, distanti non più di cinque chilometri (raggio d’influenza) dalle dimore più lontane. Il modello di insediamento proposto era quello della città rurale ideata da Edoardo Caracciolo per la riqualificazione delle aree agricole dell’isola e individuava proprio nelle case coloniche - piccole costruzioni unifamiliari sparse nel territorio e dotate di podere - i luoghi per la residenza, e nei borghi - un insieme di edifici ad uso pubblico, dislocati con frequenza assegnata - le attrezzature necessarie allo svolgimento delle attività umane. I borghi segnavano, quindi, la presenza dello Stato e si ponevano quali essenziali anelli di congiunzione tra gli assegnatari dei lotti agricoli e l’organizzazione pubblica. Essi insistevano su siti scelti in ragione dell’approvvigionamento idrico e dell’accessibilità, in prossimità di strade di collegamento con i centri abitati e/o comunque ben visibili, per essere una presenza riconoscibile nel paesaggio agrario: un paesaggio complesso ma equilibrato dalla concomitante presenza della nuova edilizia immersa nel verde, sospesa tra acqua e cielo. I primi borghi realizzati negli anni Quaranta e completati in periodo di guerra, rappresentavano il simbolo di una nuova epoca e avevano la funzione di veicolare i 237
contenuti di una rivoluzione culturale. Il borgo era generato dalla stessa materia sui cui si elevava, «come necessità edonistica della terra di disporsi in geometrie spaziali ed in trame di volumi come per affabile accoglienza all’uomo»1 e l’architettura doveva dare espressione plastica al sedimentato dualismo tra casa e terra. Da qui la volontà di affidarne la progettazione a professionisti dell’isola, capaci di cogliere e interpretare il genius loci del proprio territorio e far sorgere non semplici aggregati di edifici funzionali e standardizzati ma luoghi mediterranei, espressione del clima di rinnovato sviluppo voluto dal regime. In tal senso, l’ente diretto dall’economista Nallo Mazzocchi Alemanni aveva previsto che i progetti fossero redatti da giovani architetti siciliani con una sensibilità culturale in grado di rendere ogni abitato una «creazione artistica, con una sua individualità irripetibile e conclusa»2 e capaci, altresì, di coniugare il linguaggio moderno dell’architettura con gli elementi caratterizzanti del paesaggio, evitando l’impiego di modelli estranei alla cultura locale. Nella progettazione di ciascun borgo i nuovi aspetti dell’edilizia rustica dovevano in effetti aderire «“ab auctore” al clima, al colore, al genio dell’isola»3, seppur nei modi e nelle forme tipiche del disegno funzionalistico dell’epoca. L’obiettivo era di conferire ai nuovi centri un aspetto formale familiare ai coloni; quasi icone rassicuranti, identificabili anche da lontano. Appariva, pertanto, di fondamentale importanza la caratterizzazione territoriale delle architetture che andava ricercata nei materiali, nelle cromie e nella tradizione costruttiva locale, da una parte per contenere i costi di costruzione e migliorare la razionalizzazione dei cantiere, e dall’altra per la ricerca di una continuità temporale e di un legame con la terra che avrebbe permesso di far nascere nella popolazione un nuovo e forte spirito di appartenenza. Il bisogno di aprire il borgo alla campagna era più che mai sentito e, dunque, sembrava indispensabile trovare soluzioni planimetriche che vedevano nella piazza, attorniata da edifici, il proprio fulcro: un borgo privo della piazza - luogo privilegiato di incontro, riunione, commercio e svago - non avrebbe mai suggerito al contadino siciliano l’idea del paese. Nel dopoguerra, la colonizzazione del latifondo proseguì nonostante la caduta del regime fascista. In seguito alla legge costituzionale sull’autonomia della Regione Siciliana del 1948 e al passaggio delle competenze legislative per lo sviluppo del territorio all’assemblea regionale, l’ECLS fu trasformato in Ente per la Riforma Agraria in Sicilia (ERAS). Il nuovo istituto diede seguito all’opera di costruzione di altri centri agricoli e di completamento di quelli non ancora terminati a causa della guerra, più per scrupolo di continuità che non per reale volontà politica. I centri progettati e realizzati nel periodo dopo il 1950 risentirono notevolmente dell’eredità del passato; i nuovi borghi, impiegando i vecchi modelli e le indicazioni normative del precedente organismo, riproponevano l’idea di una società ormai non 1 M. Accascina, I borghi di Sicilia, in «Architettura», n. XX, V, p. 186. 2 S. Di Fazio, R. Cilona, L. Lamberto, I borghi rurali nel latifondo siciliano del primo Novecento: trasformazione del paesaggio e ipotesi di valorizzazione, in «Agribusiness Paesaggio & Ambiente», n. 1, X, 2007, p. 34. 3 C. E. Gadda, La colonizzazione del latifondo siciliano, in «Le vie d’Italia», n. 3, 1941. Riedito da The Edinburgh Journal of Gadda Studies (EJGS). 238
più esistente. Tuttavia, gli eventi bellici avevano portato a un ripensamento della città rurale, per molti aspetti non condivisa dagli stessi agricoltori, che rendeva addirittura anacronistica l’esistenza dei borghi. Dimorava ancora nel profondo la consuetudine, per coloro i quali lavoravano la terra, di vivere in paese per farvi ritorno terminata la giornata di lavoro nel podere. Si aggiungeva, inoltre, la nascente consapevolezza determinata dallo sviluppo tecnico e tecnologico nel frattempo intervenuto, delle potenzialità offerte dai nuovi mezzi di locomozione e delle possibilità derivanti da una rinnovata viabilità resasi necessaria in seguito ai danneggiamenti bellici, che avrebbe reso più semplice il raggiungimento delle terre di lavoro e pertanto pressoché inutile la vita nella campagna solitaria. A dispetto di ciò, l’ERAS continuò la sua opera di edificazione costruendo in località sempre più isolate e lontane dai centri abitati, e demandando ai comuni la gestione e l’onere delle spese di manutenzione degli edifici e del personale dei pubblici uffici. Una prima serie di case coloniche fu realizzata per iniziativa del littorio ECLS ma queste, troppo distanti le une dalle altre e del tutto prive di servizi civili, non favorirono la colonizzazione e l’insediamento stabile di contadini in ambito rurale. La struttura cesserà, infine, la sua attività nel 1965 in seguito alla successiva trasformazione in Ente di Sviluppo Agricolo (ESA), quasi a voler rimarcare anche nella denominazione l’ormai variato indirizzo della politica agricola siciliana e nuove priorità. Da allora, i borghi si sono indirizzati verso un inesorabile declino e oggi si contano cinquantaquattro insediamenti superstiti - quattordici realizzati negli anni Quaranta dall’ECLS e circa quaranta costruiti negli anni Cinquanta dall’ERAS -, molti dei quali incompiuti e contraddistinti da pochi edifici di servizio, altri ancora limitati a sole funzioni abitative (fig. 1). Questi ultimi, poi riscattati dagli assegnatari, sono poco identificabili poiché soggetti nel tempo a trasformazioni che ne hanno alterato caratteristiche architettoniche e tipologiche, oltre che inseriti in un ormai mutato contesto culturale e ambientale.
Fig. 1 Mappa dei Borghi rurali siciliani (elaborazione di Luca Renato Fauzia) 239
L’attuale stato di grande degrado e/o oblio di strutture ormai considerate inutili ma nondimeno elementi costitutivi del paesaggio, di cui rappresentano una manifestazione identitaria percepibile, domanda da tempo lo studio e l’attuazione di concrete azioni di globale recupero e rigenerazione, utili a far sì che queste testimonianze di una pagina importante della storia isolana, ritrovino il senso delle loro ragioni fondatrici e, quindi, un nuovo ruolo nello sviluppo economico e sociale della regione. Tali opere, frutto del rapporto costruttivo complesso tra uomo e natura, sono l’espressione di modalità specifiche di utilizzo del territorio forse non più condivisibili, ma un loro opportuno riuso potrebbe comunque contribuire alla definizione di moderne tecniche di uso sostenibile del suolo (tra cui la filiera corta e le produzioni di qualità solo per quanto concerne l’aspetto agricolo), volte a mantenere o rafforzare i valori naturali del paesaggio.
Il paesaggio rurale della Sicilia centrale tra abbandono e potenzialità Frutto di innumerevoli contaminazioni e stratificazioni culturali, dell’incontro millenario con le più importanti civiltà agrarie e con il loro patrimonio di piante, animali, tecniche, costumi e rapporti sociali, il paesaggio siciliano appare oggi in condizione di restituirci solo brani di quella lunga storia che, invece, lo caratterizza. Il fallimento della riforma agraria unita all’avvio delle politiche di polarizzazione industriale ha causato, sin dagli anni Sessanta del secolo scorso, notevoli squilibri negli assetti delle aree rurali. L’innovazione tecnologica dell’agricoltura, la rinuncia alla policoltura a favore delle monocolture intensive e specializzate, la meccanizzazione agraria e l’utilizzo intensivo di antiparassitari e dei diserbanti, hanno generato una profonda alterazione dell’impianto del paesaggio agrario storico; l’erosione quando non la distruzione di molti dei suoi tratti originari. Una trasformazione che sembra aver dissolto «quell’intrigo aromatico nel quale l’avevano trovata fenici, dori e ioni, quando sbarcarono in Sicilia» cui faceva riferimento Tomasi di Lampedusa nel Gattopardo4, estinguendo «quel seme di espressione culturale protagonista, per secoli, delle movenze umane sul territorio»5. Un paesaggio, in larga parte ormai perduto, la cui ricerca sembra essere diventata una preoccupazione delle politiche europee, nazionali e, ovviamente, regionali nella consapevolezza ormai diffusa che la salvaguardia e la valorizzazione del paesaggio rurale rappresenti un’opportunità da cogliere per il miglioramento non soltanto economico ma anche sociale e culturale della collettività. In particolare, il territorio della Sicilia centrale, nonostante la sua caratteristica posizione di baricentricità rispetto al sistema insulare, a causa delle vicende storiche dell’ultimo secolo che hanno inciso nel rapporto tra il substrato fisico e il suo modello insediativo, si trova relegato in una situazione di marginalità. 4 G. Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, Feltrinelli, Milano, 1970, p. 129. 5 C. Barilaro, Il paesaggio agrario siciliano tra processi di trasformazione e ricerca di identità, in N. Castiello (a cura di), Scritti in onore di Carmelo Formica, Università degli Studi di Napoli Federico II, Napoli, 2008, p. 110. 240
Carente di infrastrutture, reti di collegamento terrestri e manodopera specializzata, penalizzato dalla scarsa presenza di strutture organizzate per la valorizzazione e commercializzazione dei prodotti agricoli e vittima dei fenomeni di cambiamento climatico, tale paesaggio rurale (agrario e silvo-pastorale) subisce ancora le conseguenze di un periodo di grande disagio del settore che i programmi di sviluppo rurale promossi dall’Unione Europea cercano di colmare attraverso la messa in opera di una serie di finanziamenti e nuovi piani di rilancio. Le iniziative adottate in materia di salvaguardia e tutela degli ambienti naturali e non, seppur numerose, stentano però a mostrare ancora esiti davvero percepibili, forse a causa della complessità dei fenomeni coinvolti e/o perché non ancora sufficientemente basate su una perfetta comprensione della cultura dei luoghi, intesi come entità spazio-temporali, depositari di testimonianze e relazioni da cui dovrebbe discendere ogni azione successiva. Una conoscenza fondata sulla lettura dei segni esistenti sul territorio e delle relazioni con i loro interpreti; cioè, frutto di un processo di significazione del paesaggio imperniato sulla analisi dei suoi legami con la società, nell’idea che, come afferma la Carta di Cracovia (2000), «ciascuna comunità, attraverso la propria memoria collettiva e la consapevolezza del proprio passato, è responsabile dell’identificazione e della gestione del proprio patrimonio». Il patrimonio architettonico dell’entroterra siciliano, componente cardine di tale sistema, risulta per lo più sconosciuto alla collettività. Ormai persa la funzione originaria è globalmente affetto da problematiche di incuria, decadimento e scarsa accessibilità. Si tratta comunque di elementi che mostrano l’esistenza di una logica costruttiva locale che permette di ricondurli alle tipologie edilizie di appartenenza. Qui si situano, inoltre, molte delle forme d’insediamento sparso costruite dallo Stato nell’ambito dei programmi di colonizzazione del latifondo. Posto in uno stato di quasi sospensione, questo ingente patrimonio è ancora oggi in attesa di nuove funzioni pur cadendo sempre più in rovina, poiché esposto all’azione degli agenti metereologici, climatici e ambientali. Eppure, se sottoposto a opportune azioni di conoscenza, recupero e rivitalizzazione, potrebbe rivelarsi vitale, soprattutto per le aree della Sicilia centrale dalla grande ricchezza patrimoniale ma storicamente meno frequentate e ancora prive di sufficiente attrattività rispetto ai flussi turistici, a causa della carenza di politiche coordinate e forti del settore.
Politiche di sviluppo e ricerca per la conservazione e il riuso dei borghi rurali dismessi Ossatura portante di un sistema di organizzazione della vita agricola ed elementi distintivi, in forma e materia, dei caratteri identitari del paesaggio culturale, tali beni meritano di beneficiare di attività di conoscenza specifiche, dettagliate e accurate e a tal fine sono, già da tempo, oggetto di ricerca e di attività didattica - con l’avvio di tesi di laurea e la programmazione di un laboratorio di Restauro Architettonico nell’ambito del Corso di Laurea in Architettura dell’Università Kore di Enna. Le attività hanno già riguardato Borgo Antonino Cascino a Enna, Borgo BaccaratoSalioni ad Aidone, Borgo Lupo a Mineo. Il primo è stato recentemente interessato da un programma di recupero grazie a una specifica misura dei fondi strutturali comunitari e sembra destinato a diventare una sorta di vetrina naturale permanente 241
per i prodotti agroalimentari dell’area (fig. 2); il secondo è, oggi, una ghost town, nonché uno dei dodici borghi rurali siciliani per cui la Regione ha deciso di procedere all’alienazione ai privati (fig. 3) così come il terzo, solo in minima parte occupato da un’azienda agricola che ha adattato alcuni edifici alle proprie esigenze, dopo essere stato per il resto letteralmente vandalizzato da occupanti abusivi (figg. 4, 5 e 6).
Fig. 2 Borgo Cascino a Enna, allo stato attuale
Fig. 3 Borgo Baccarato ad Aidone, al termine della sua edificazione e oggi, nascosto alla vista da una folta vegetazione
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Fig. 4 Borgo Lupo a Mineo, allo stato attuale. Gli edifici principali attorno alla piazza
Fig. 5 Borgo Lupo a Mineo tra segni visibili di attivitĂ agricola e di devastazione 243
Fig. 6 Proiezione assonometrica di Borgo Lupo (Mineo) dello stato di fatto, con evidenziati gli edifici di recente costruzione (ricostruzione di Raffaele Rubens Iudica)
Rispetto alla varietà e ricchezza di beni culturali che caratterizzano questo territorio, le modalità messe in atto per la loro tutela hanno finora privilegiato il patrimonio monumentale e i centri storici urbani, mentre appare da denunciare un interesse limitato per i beni culturali rurali e per i paesaggi in cui si situano. La stessa cultura architettonica e urbanistica in Italia, in questi ultimi decenni, è stata prevalentemente contraddistinta da una tradizione di natura urbanocentrica, vista come il presupposto concettuale e il fine ultimo di una visione che alla città subordina le periferie, il territorio aperto, la campagna. Affrontare e approfondire il tema dell’architettura rurale significa, dunque, avviare un ambito di ricerca relativamente nuovo, per molti versi ancora da esplorare e da inventare, soprattutto dal punto di vista progettuale. Si tratta, infatti, di un settore che solo recentemente sembra aver superato evidenti condizioni di secondarietà per assumere un rilievo strategico nel riequilibrio e sviluppo del territorio, ma anche un interesse scientifico e culturale, ricco di possibili valenze innovative. A riguardo, appare in effetti possibile osservare una certa attenzione da parte della Regione siciliana e delle amministrazioni locali nei confronti del paesaggio agricolo, visto quale risorsa da tutelare e promuovere, insieme ad altri settori a esso collegati quali la cultura, l’alimentazione, il turismo, l’ecologia, la salute e il benessere, a cui hanno dato un contributo le già menzionate politiche di iniziativa comunitaria degli ultimi decenni. Nello specifico, dal 2006, il Centro Regionale per la Progettazione e il Restauro ha avviato il progetto LIM - Luoghi dell’Identità e della Memoria, finalizzato alla istituzione della Carta Regionale omonima. Partendo dalla considerazione che il modello tradizionale del turismo, che in Sicilia si concentra su poche emergenze monumentali, o su alcune delle aree urbane, o ancora sulle principali località turistiche della costa e delle isole, è la causa principale di una pressione antropica che induce evidenti problemi di usura, la Carta dei Luoghi propone una radicale inversione di 244
tendenza; applicata sull’intero territorio, essa si prefigge l’attenuazione della pressione sulle aree maggiormente compromesse fornendo contestualmente nuove opportunità ad aree territoriali trascurate dai principali flussi di visita, proponendo itinerari spesso inesplorati, attraverso luoghi e percorsi che caratterizzano la ricca complessità dei paesaggi culturali siciliani6. Il programma Leader II ha previsto tra le sue azioni la catalogazione del patrimonio artistico, archeologico e naturalistico da mettere a disposizione del settore turistico. Tali ricerche si sono, inoltre, focalizzate sull’individuazione di alcuni itinerari tematici quali, per esempio, il percorso rurale naturalistico de “Le vie dei mulini ad acqua”. L’asse III - Qualità della vita nelle zone rurali e diversificazione dell’economia rurale del Programma di Sviluppo Rurale. Sicilia 2007/2013 ha messo a disposizione finanziamenti ingenti per la tutela e riqualificazione del patrimonio rurale, attraverso la predisposizione di interventi di ripristino di siti di elevato pregio naturalistico e paesaggistico (stagni, bivieri, siepi, esemplari arborei monumentali autoctoni) e di elementi culturali del paesaggio agrario tradizionale (edifici isolati di interesse storico‐ architettonico rurale da destinare a pubblica fruizione, manufatti quali i muretti a secco, le terrazze, gli abbeveratoi, ecc. che costituiscono testimonianza del lavoro e della vita collettiva in ambito agricolo). Sempre nell’ambito dello stesso programma, nel 2009 la Regione siciliana ha redatto un progetto pilota per il recupero e la valorizzazione dei borghi rurali dell’ESA denominato “La via dei borghi” che solo recentemente ha visto una prima manifestazione concreta nell’intervento di riqualificazione di Borgo Bruca, punto di partenza dell’itinerario, sito nel territorio del comune di Buseto Palazzolo, in provincia di Trapani7. Tutte queste iniziative, non certo elencate in maniera esaustiva ma a mero titolo esemplificativo, sono il segno di un processo, già in atto, che considera il paesaggio rurale quale bene culturale anche in funzione di memoria, di identità collettiva e di riconoscibilità di cui è diretta espressione, rappresentando quella «forma che l’uomo, nel corso ed ai fini delle sue attività produttive agricole, coscientemente e sistematicamente imprime al paesaggio naturale»8. Tali azioni risultano però carenti di un coordinamento operativo globale mirato al recupero di tale patrimonio, opportunamente fondato sul suo riconoscimento attraverso l’analisi dei manufatti e dei siti nel contesto in cui si collocano, utilizzando a tal fine, quali strumenti operativi della ricerca, da una parte il censimento e la catalogazione, e dall’altra una lettura diretta, critica, estensiva e dettagliata di tali beni basata su presupposti tipo analitico-documentario e tipo-morfologico, ma strettamente correlata al paesaggio, che qui assume la specifica connotazione di “paesaggio della riforma agraria”. 6 La Carta regionale ha incluso tra i “luoghi degli eventi storici del primo Novecento”, anche i “Borghi del Duce”: Borgo Fazio (Trapani), Borgo Borzellino (Monreale), Borgo Filaga (prov. Palermo), Borgo Schirò (Monreale), Borgo Regalmici (Castronovo di Sicilia), Borgo Cascino (Enna), Pergusa (prov. Enna), Libertinia (Ramacca), Borgo Pietro Lupo (Mineo). 7 T. Basiricò, Sicilia: è partito il recupero della Via dei borghi rurali, in «Ananke», n. 78, 2016, pp. 118-123. 8 E. Sereni, Storia del paesaggio agrario italiano, Laterza, Roma-Bari, 1982, p. 29. 245
Un approccio che si pone quale punto di partenza imprescindibile per qualunque successiva valutazione e rappresentazione critica dello spazio costruito nonché per ogni proposta progettuale coerente, da una parte con la valorizzazione delle permanenze e dall’altra con l’adeguamento dei valori suscettibili di mutamento al fine di renderli consoni ai bisogni odierni, in armonia con l’ambiente e con il sistema di relazioni sedimentate nel territorio. Appare in effetti indispensabile avviare nuovi percorsi progettuali integrati in cui convergano gli apporti teorico-metodologici e tecnico-operativi del restauro architettonico e urbano, dell’adaptive reuse, del consolidamento strutturale, del retrofitting energetico, e coerenti risposte agli imperativi dettati dalla sostenibilità economica per rendere tale patrimonio idoneo al soddisfacimento delle esigenze civili, culturali e ambientali e, pertanto, reinterpretato per coinvolgerlo nella contemporaneità. Attualizzando le forme di tutela dell’autenticità e delle funzioni espressive e simboliche proprie della tradizione locale, in “aderenza al territorio”, trattandosi di architetture dal carattere razionalista ma che tuttavia mostrano espliciti riferimenti figurativi al patrimonio rurale della regione e una volontà di integrazione con il paesaggio circostante. Sarà, quindi, necessario ipotizzare forme di riuso armoniose e sostenibili per reimmettere tali persistenze nel ciclo dell’abitare e del vivere odierno e futuro, capaci di “conservare innovando” beni in stato di decadenza o sottoutilizzo, ormai anche privi del senso primario della loro presenza a causa dell’assenza dell’uomo, al fine di “riassortirli” di nuovi significati etici e sociali. In tal senso, potrebbe apparire pertinente l’applicazione di iniziative di rural social housing, fondate su principi di relazione e di integrazione sociale o ancora legate alle cooperative ambientali, sul modello di quelle già realizzate in Olanda già a partire dagli anni Novanta, agli ecovillaggi e altri modelli legati alla terra e alla crescita spirituale, in conformità con le loro valenze intrinseche e caratteristiche peculiari. Funzioni, volte a orientare processi progettuali e di pianificazione innovativi, capaci di trarre dall’humus dell’identità e dalle radici del paesaggio, la necessaria linfa rigeneratrice del paesaggio stesso.
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Bibliografia Accascina M., I borghi di Sicilia, in «Architettura», n. V, 1940, pp. 185-186. Barbera P., Architettura in Sicilia tra le due Guerre, Sellerio, Palermo, 2002. Barilaro C., Il paesaggio agrario siciliano tra processi di trasformazione e ricerca di identità, in N. Castiello (a cura di), Scritti in onore di Carmelo Formica, Università di Napoli Federico II. Napoli, 2008, pp. 103-114. Basiricò T., Architettura e tecnica nei borghi rurali della Sicilia occidentale, Fotograf, Palermo, 2009. Basiricò T., Sicilia: è partito il recupero della Via dei borghi rurali, in «Ananke», n. 78, 2016, pp. 118-123. Di Fazio, S., Cilona, R., Lamberto L., I borghi rurali nel latifondo siciliano del primo Novecento: trasformazione del paesaggio e ipotesi di valorizzazione, in «Agribusiness Paesaggio & Ambiente», n. 1, X, 2007, pp. 30-38. Gadda C. E. La colonizzazione del latifondo siciliano, in «Le Vie d’Italia», n. 3, 1941, pp. 335-343; ried. da The Edinburgh Journal of Gadda Studies (EJGS). Mazzocchi Alemanni N., La Riforma agraria, Arethusa, Asti, 1955. Sapienza V., La colonizzazione del latifondo siciliano. Esiti e possibili sviluppo, Lussografica, Caltanissetta, 2010. Sereni E., Storia del paesaggio agrario italiano. Laterza, Roma-Bari, 1982.
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Case fino al limite dell’orizzonte La riforma fondiaria attraverso i paesaggi dell’Ente Maremma Valentina Iacoponi
I problemi della famiglia e della casa ci hanno spinti a quest’atto. Se si dimenticano questi problemi si diviene facilmente schiavi della dittatura. Noi abbiamo un’altra convinzione: non esiste progresso senza libertà. Senza libertà non esiste possibilità di vita. La nostra meta è dunque: famiglia e casa1. Alcide De Gasperi ai nuovi assegnatari. Grosseto, 1952
Chiunque si trovi a viaggiare lungo la via Aurelia da Roma fino alle porte di Pisa, non può che rimanere attratto da questo lembo di terra stretta fra il Tirreno e un succedersi ondulante e ininterrotto di alture e monti. A ovest il mare e le dune che si intravedono tra i filari di eucalipti e le fitte pinete, il verde brillante dei prati; gli spruzzi degli irrigatori a pioggia, i campi dove si aprono le foglie smerlate del carciofo, file e file di pomodori rossi, di meloni e cocomeri abbandonati al sole. Dove non ci sono parate di giallo girasole ecco le schiere di mais ben allineate, o la terra riversa dove un gregge di pecore si accalca all’ombra di una quercia. È un susseguirsi di tessere coltivate a grano e foraggio, squadrate da canali, canneti, fossati, strade e rovi. Dall’altro lato, verso est, i tendoni di plastica delle serre, qualche distesa di pannelli solari, vigneti e oliveti, mentre tra il verde cupo e il folto della macchia si scorgono le maremmane al pascolo brado. Poi comincia il sali-scendi dei colli e dei monti fino al lago di Bolsena: la terra ingrassata dall’umido, l’oro del fieno intramezzato dai lecci e ancora spalliere dove s’appoggia la vigna, olivi ordinati, alberi da frutto. Il paesaggio agrario di queste zone non è uniforme, perché non è uguale la sua geografia e tantomeno la sua storia, fatta di amministrazioni e comunità ispirate da diverse vocazioni, seppur legate da ben salde tradizioni migratorie. A tutt’oggi però, nonostante le differenze e gli stravolgimenti a noi più vicini nel tempo, in questo paesaggio è ancora ben visibile la mano di una volontà politica recente che ha profondamente inciso sui 1 De Gasperi consegna a Grosseto i nuovi poderi ai contadini, «La Stampa», 20 marzo 1952. 249
caratteri ambientali originari di questi luoghi, diventando ‒ almeno a livello teorico ‒ espressione fisica di un sistema di valori assai precisi: quelli della piccola proprietà coltivatrice, autonoma, moderna, di «adeguata capacità imprenditrice2». Il mosaico di colori scaturito dall’avvicendarsi di alberi, ortaggi e piantagioni sono una novità di poco più di mezzo secolo, conseguenza dell’applicazione della Legge “stralcio” nel così detto Lazio etrusco e nella Toscana meridionale. Varata nel 1950, la Legge “stralcio” rappresentava, insieme alla Legge Sila, lo strumento con cui lo Stato italiano a guida Democrazia Cristiana si proponeva di scardinare il sistema agrario del latifondo nelle regioni meridionali e nelle isole. Tra Lazio, Toscana e Fucino abruzzese, gli esiti della legge portarono all’esproprio di circa 180.000 ettari di terreni sparpagliati tra colline sassose, pianure malariche e litorali sferzati dai venti. Le operazioni di scorporo, divisione e assegnazione vennero affidate a un ente specifico creato ad hoc per l’applicazione della legge: l’Ente per la colonizzazione della Maremma e del Fucino. L’Ente aveva il compito di avviare la bonifica dei terreni e le opere di infrastruttura, programmare la ripartizione dei terreni e indirizzarne le linee di produzione fornendo ai futuri assegnatari il supporto tecnico e finanziario di cui avrebbero avuto bisogno per avviare la propria azienda. In vista di ciò, tenendo conto delle differenze climatiche e pedologiche, l’Ente divise i terreni espropriati in circa 12.000 quote e 8.000 poderi, questi ultimi dell’estensione media di 8-10 ettari. Era la fine della Maremma “amara” e pittoresca, regno di zanzare, pecore e cinghiali3. L’effetto dell’appoderamento e il passaggio a una nuova agricoltura tutta rivolta a soddisfare le esigenze dei mercati urbani e della prima industria alimentare fu da subito percepibile: vigneti, oliveti, serre, foraggere, prati; e poi strade, canali, tralicci, pozzi e «case, case fino al limite dell’orizzonte4». Non che prima di allora nelle Maremme non ci fossero stati interventi di bonifica e colonizzazione5, ma il paesaggio rimaneva predominato dalle maglie larghe del “latifondo a mezzadria”, da tenute sconfinate come la Marsiliana che, prima della riforma, si estendeva per dodicimila ettari e che nel 1956 portava già i segni degli espropri. Come ci racconta Guido Piovene: «l’Ente Maremma ha immesso due miliardi nella Marsigliana; al posto delle 24 case ne ha fatte sorgere 300 e un centro di macchine agricole. Contemplando dall’oasi del borgo signorile la pianura disseminata di case nuove, tutte eguali, nel territorio privo d’ombre, si prova l’impressione di essere davanti a un deserto fecondato»6. 2 M. Bandini, Intervento, in Cinque anni dopo. Atti del primo convegno tecnico nazionale sulla Riforma agraria, Roma, 1955, p. 18. 3 Sulla retorica descrizione del paesaggio prima e dopo la “riforma”, si veda tra i tanti, Ente Maremma, Un giorno in Maremma, s.l., 1966. 4 Così un redattore di «Maremma», descriveva la piana delle Candele (Cerveteri) a un anno dall’attuazione della riforma: “Case, case, case, fino al limite dell’orizzonte. E casa vuol dire podere e podere vuol dire una famiglia che sa cosa sarà domani”, in Cerveteri. Prima e dopo, «Maremma», 1, 12, 1952. 5 Oltre alla lunga tradizione di bonifica idraulica risalente all’epoca dei Medici, tra gli anni ’20 e ’30 del ’900, sotto l’impulso della “legge Serpieri”, nacque “l’attuale griglia idrografica e trama stradale della Maremma pianeggiante costiera”, in D. Bersanti La bonifica maremmana dal secolo XVI alla Riforma Agraria, p. 57, in Istituto Alcide Cervi (a cura di), La maremma grossetana tra il ,700 e il ,900, vol. II, Labirinto Editrice, Città di Castello, 1989. Nello stesso volume, si veda pure di N. Capitini Maccabruni, La bonifica integrale fascista nel comprensorio grossetano, pp. 229-55. 6 G. Piovene, Viaggio in Italia, Baldini Castoldi Dalai, Milano, 2003, p. 402 e ss. 250
Fig. 1 Arsial, Ente Maremma, Busta 1250, Centro di Colonizzazione di Capalbio, strada di accesso al Centro F, 1952
E di una fecondazione in effetti si trattò, ma artificiale, perché quelle case – che Piovene non esitò a definire “fuori dal paesaggio” – sono state inserite ex novo sul terreno, secondo un progetto di pianificazione rurale. Prima delle opere di riforma, la pianura maremmana poteva dirsi quasi un “deserto umano” che invece, nella retorica dell’Ente, si “vivificava” di nuove genti, immigrate dai comuni limitrofi, arrivate con la corriera dall’entroterra viterbese, dalla valle del Fucino, talvolta da regioni lontane come Puglia e Sicilia7. In quest’impeto colonizzatore, l’Ente Maremma costruì nell’arco di un quinquennio 5423 case destinate agli assegnatari, 66 borghi di servizio, 974 chilometri di strade rurali8. Lo fece seguendo una progettazione che almeno sulla carta era molto rigorosa, articolata in pareri, piani, programmi e progetti, mirata a scandagliare il territorio e a individuare con precisione gli obbiettivi che avrebbero poi portato alla trasformazione fondiaria e alla suddivisione dei poderi9. L’opera dei tecnici si orientò allargando o stringendo la maglia poderale in base alla vocazione produttiva potenziale del podere (minore estensione se la qualità dei terreni era adatta a colture intensive e irrigue, maggiori dimensioni in caso di terreni 7 Sull’esperienza degli immigrati fucensi, si vedano le testimonianze riportate in L. Gigli, I pionieri della Maremma. Storia recente di Capalbio, Editrice Laurum, Pitigliano, 2009 e L. Domenichelli, Una grande generazione di agricoltori, Laurum Editrice, 2009. 8 A. V. Simoncelli, Dalla riforma fondiaria allo sviluppo agricolo. Archivio storico, 1950-1977, Etsaf-Ersal, s.l. 1991, p. 45. 9 C. Barberis, R. Medici, Progettare in agricoltura, s.n., Roma-Grosseto, 1956, p. 15. 251
sfavoriti) e al numero dei componenti della famiglia che ci si sarebbe insediata. Perché, tranne nel caso del villaggio del Bracciante di Santa Maria di Rispescia, l’Ente Maremma non prevedeva una vita di paese o la costruzione di nuovi villaggi per i suoi assegnatari. Al contrario, scelse una forma di insediamento sparso che voleva la famiglia sul podere e questo per diverse ragioni. La prima di carattere funzionale10. Secondo gli esperti dell’epoca, vivere sul podere riduceva i tempi di percorrenza e i costi di spostamento; consentiva di sfruttare al massimo il potenziale lavorativo di tutti i componenti della famiglia e lo sviluppo «delle attività marginali in genere affidate alla massaia»11. In quest’ottica la casa non andava considerata solamente nella sua funzione abitativa ma intesa come uno «strumento essenziale per lo svolgersi del processo produttivo»12. I principi ispiratori che guidarono la mano dei progettisti si trovano in parte già espressi nel manifesto programmatico del Comitato per l’edilizia rurale economica che, sotto gli auspici del Ministero dell’Agricoltura e al motto de “il meglio è nemico del bene”, aveva già avviato una serie di studi indicando nell’alto costo dei fabbricati uno dei nodi primari da sciogliere per consentire lo sviluppo delle campagne. Il problema, avvertito in special modo sui poderi al di sotto dei dieci ettari, poteva risolversi ricorrendo a strutture moderne e, più che a nuove soluzioni standardizzate, all’utilizzo di materiale locale come il tufo o la pietra13. D’altronde erano criteri già espressi nel 1946 da Amos Edallo nel suo studio dedicato all’urbanistica rurale: razionalità d’uso, decoro e igiene per gli abitanti, il tutto mantenendo costantemente d’occhio costi e tempi di realizzazione14. I fabbricati rurali furono dunque costruiti tenendo presenti le condizioni economiche di partenza degli aspiranti assegnatari che avrebbero riscattato nell’arco di trent’anni la terra e gran parte delle opere effettuate sul fondo. Per esempio, nel progetto di trasformazione fondiaria di una zona costiera particolarmente ventosa come Pantano (Civitavecchia), venne suggerito che le case si estendessero su un “solo piano rialzato”, sia per non esporre l’abitazione al libeccio, sia perché l’ampliamento 10 R. Toman, La casa rurale nel comprensorio di riforma della Maremma tosco-laziale, s.n., Roma-Grosseto, 1958. 11 Ente Maremma, I borghi di servizio. Strutture periferiche, Roma, s.d., p. 3. 12 R. Milletti, Nuovi progetti di costruzioni rurali e tipi di insediamento, Edizioni agricole, Bologna, 1958, p. 11. 13 Fondato nel 1950, il comitato era composto da un gruppo di ingegneri e agronomi che ricoprirono incarichi vitali per la progettazione edilizia all’interno dell’Ente Maremma come Carlo Boccianti, Riccardo Medici, Roberto Milletti. Insieme a loro nomi di spicco del mondo agrario e politico come il primo presidente dell’Ente Giuseppe Medici (poi Ministro per l’Agricoltura), Rossi Doria, Olivetti, Perdisa, Ramadoro, Calzecchi Onesti, Mazzocchi Alemanni, Pallastrelli e altri. Si veda «Genio rurale», Edizioni Agricole, Bologna, (5) 1950, pp. 500 e ss. e l’allegato al n. 5 della rivista con la presentazione dei primi 3 progetti in Istituto Alcide Cervi, Biblioteca Archivio Emilio Sereni, b. 649, Case. 14 Secondo Amos Edallo, “tradire la funzione di un fabbricato rurale per il desiderio di abbondare costruttivamente o peggio per perseguire una pseudo bellezza” era da considerarsi un assurdo, perché nell’azienda rurale tutto doveva essere “dimensionato secondo un concetto unico: quello del diagramma funzionale della lavorazione, senza miseria ma anche senza sperpero”. In A. Edallo, Ruralistica. Urbanistica rurale, Hoepli, Milano, 1946, pp. 241-42. 252
si sarebbe potuto fare in futuro, «con poca spesa e senza rovinare il complesso architettonico dell’edificio», quando l’assegnatario ne avrebbe avuto i mezzi15. L’idea di affidare il completamento o l’ampliamento degli edifici agli assegnatari non si limitò ad aree specifiche ma era un indirizzo generale auspicato – anche se in pratica poco seguito – sin dagli esordi dai funzionari dell’Ente. Era convinzione condivisa che le forme di sussidio previste dalla riforma avrebbero “valorizzato” appieno le forze di lavoro delle stesse famiglie contadine, ovvero che, prestando loro la manodopera, avrebbero ammortizzato più facilmente i costi del fabbricato16. In generale, dove il clima lo consentiva, le case dell’Ente vennero pensate per svilupparsi su due piani: a pian terreno la stalla per 6 capi di bestiame, isolata dal piano superiore grazie a un solaio in cemento e laterizio; il magazzino per le sementi; un portico che fungeva da riparo per carro e attrezzi ma che poteva prestarsi sia a spazio di lavoro nei giorni piovosi o troppo assolati, sia a luogo di socialità nei momenti di festa. Al primo piano, cui si accedeva da una scala esterna, le camere da letto, la cucina e il bagno17. In questa ottica, gli edifici furono studiati per rispondere a tre tipi di esigenze: abitativa, per il nucleo familiare; di servizio, per la vita aziendale; infrastrutturale (collegamento stradale e di approvvigionamento idrico territoriale)18 e considerato che nelle intenzioni dei progettisti «dimensioni e distribuzione derivavano da un’equilibrata valutazione delle necessità aziendali», le opere furono concepite in base all’ordinamento produttivo, alla natura ambientale dei terreni, al numero delle unità di lavoro comprese in famiglia19. Oltre al lato pratico e funzionale si cercò di non tralasciare l’aspetto “estetico”: Nella relazione economico agraria per l’appoderamento della ex tenuta Ludovisi di Pescia Romana, per i 10 poderi previsti, furono proposte 7 tipologie abitative «con caratteristiche costruttive simili ma diverse per la distribuzione degli ambienti e conseguentemente diverse anche per l’aspetto esterno» con il chiaro intento di conferire «al paesaggio una gradevole varietà»20. D’altro canto, proprio il Comitato per l’edilizia rurale economica aveva invitato a scongiurare la «monotonia avvilente» di case «identiche, quasi i loro abitanti debbano avere gli stessi volti o la stessa anima»21. 15 Arsial, Ente Maremma, Azienda di colonizzazione di Civitavecchia, Progetto di trasformazione fondiaria per la tenuta “Pantano”, dicembre 1951. 16 M. Bandini, Intervento, in Cinque Anni dopo, op. cit., p. 39. Non è dato sapere quanti furono i contadini ad avvalersi di questa opportunità anche se N. Mazzocchi Alemanni nel 1955 accennò ad alcuni casi virtuosi in Maremma, Intervento, in Atti del II convegno tecnico nazionale sulla Riforma agraria “di stralcio”, Roma, 1955, p. 33. Certo è che il pagamento della casa e degli annessi agricoli incise profondamente sul bilancio economico degli assegnatari. 17 La dislocazione esterna della scala era un argomento molto dibattuto tra i “ruralistici” dell’epoca, così come la dislocazione della cucina. Tra i tanti R. Medici, Architettura rurale. Esperienze dalla bonifica, Edizioni Agricole, Bologna, 1956, pp. 60-1. Per una rassegna dei modelli più eseguiti in Maremma, R. Toman, op. cit. e R. Medici, op. cit. 18 C. Barberis, R. Medici, op. cit., p. 26. 19 R. Medici, op. cit., p. 43. 20 Arsial, busta 766, Progetto di trasformazione fondiaria – Pescia romana, Appoderamento di parte della riserva delle “Querciolare”, relazione economico agraria, luglio 1951. 21 «Genio rurale», Edizioni Agricole, Bologna, (5) 1950, p. 502. 253
In altri casi, furono le presunte “abitudini sociali” degli assegnatari a indirizzare la scelta verso certe soluzioni, come avvenne per gli assegnatari giunti dal Fucino nella piana di Capalbio sui poderi della ex S.A.C.R.A. Per loro fu eccezionalmente previsto un insediamento semi accentrato, per ricreare la socialità tipica della vita paesana. I “centri” del Sud Aurelia, nominati secondo alfabeto dalla A alla M, consistevano in tre o quattro blocchi bifamiliari o trifamiliari riuniti a corte intorno a un piazzale comune22. Altrove, ove possibile rispetto al “centro economico” del podere, le abitazioni furono progettate vicine l’una all’altra lungo la strada o raggruppandole ai crocicchi. In questo modo si prevedeva di ridurre simultaneamente l’isolamento e il numero dei servizi di uso comune come il forno, la fornitura idrica e ovviamente la strada23.
Fig. 2 Arsial, Ente Maremma, Azienda di colonizzazione di Civitavecchia, Piano di lottizzazione “Reparto Farnesiana” (Ex propr. Maria Sacchetti), 1951, particolare. In blu: strade esistenti da eliminare, in rosso: strade massicciate di nuova costruzione, quadrati rossi: case di nuova costruzione, pallini blu: forni
Alcune testimoni dell’epoca ricordano l’emozione provata di fronte a una casa nuova di zecca, “bianca come la neve”, con la stalla “grande e moderna”, il gabinetto e le stanze ariose ben separate da stalla, pollaio e porcilaia24. Eppure quelle dell’Ente Maremma rimanevano casette molto semplici, costruite in mattoni e pietra, con una superficie coperta di solito inferiore ai 100 metri quadri, stalla inclusa. 22 Le case “binate” o “trinate” nacquero su progetto dell’architetto Carlo Boccianti e conservavano l’idea del modulo estendibile in base al numero delle famiglie da ospitare. I centri sono tutt’ora abitati e visibili dalla via Aurelia tra il fosso del Chiarone e Capalbio scalo. Si veda C. Barberis, Gli insediamenti, in Insor (a cura di), La riforma fondiaria trent’anni dopo, Franco Angeli, Milano, 1979, p. 291 e L. Domenichelli, op. cit., p. 193. 23 Come nel caso dei “Sassi” di Cerveteri o del “Reparto Farnesiana” a Civitavecchia. 24 Si vedano i commenti ricorrenti nelle testimonianze raccolte in L. Bellini, La terra delle donne, Stampa alternativa, Viterbo, 2004. 254
Fig. 3 Arsial, Ente Maremma, Busta 766, Azienda di colonizzazione di Pescia Romana, Progetto di casa rurale tipo 4, Azienda delle Querciolare, piante e prospetti, 1951
L’ampiezza contenuta dell’unità abitativa e la dotazione ridotta al minimo di capanni e magazzini rispondevano non solo a criteri economici – il coltivatore si sarebbe potuto concedere qualche agio in più, una volta assestata l’attività – ma anche all’idea cardine su cui poggiava tutta la riforma fondiaria, ovvero che le neonate aziende non avrebbero affrontato il mercato in maniera autonoma ma inserite in un sistema cooperativo adatto alla “moderna agricoltura”25. L’organizzazione delle attività economiche e sociali andava prevista in una sede comune, realizzando specifici “borghi di servizio”. Progettati ex novo e distanti dagli insediamenti storici, i nuovi insediamenti si proponevano di offrire all’assegnatario e alla sua famiglia la scuola e l’asilo, la sede della cooperativa e la chiesa, uno spaccio e l’ambulatorio medico e in alcuni casi, la posta e la stazione dei carabinieri, secondo i rispettivi raggi di influenza26. Di fatto, il passaggio dalla fase progettuale a quella applicativa della riforma non fu affatto luminosa. Tra la fine del 1951 e il 1953 per esempio ci furono da affrontare i ricorsi da parte degli ex latifondisti; i contenziosi per l’appropriazione dei raccolti sui poderi espropriati ma non assegnati; malcontento tra gli assegnatari disoccupati in attesa dell’assegnazione del podere27. Neppure la parte che riguardò 25 R. Medici, op. cit., p. 49. 26 Ente Maremma, I borghi di servizio cit., p. 4. 27 Per risolvere la disoccupazione momentanea gli Enti impiegavano i futuri assegnatari come manodopera nelle attività di bonifica e costruzione. Un ritardo nell’assegnazione degli appalti dei lavori poteva “dar esca alla propaganda avversa di creare malcontento”. Arsial, Busta 1250, 255
la costruzione delle abitazioni fu snella come si volle far credere. L’assegnatario aveva l’obbligo di risiedere sul fondo ma in molte aree le case vennero costruite e consegnate con anni di ritardo, causando immenso disagio soprattutto ai nuclei familiari trasferiti da fuori regione. Ancora tra il 1954 e il 1955 gli assegnatari senza casa nella Maremma laziale erano circa 30028. La duplice funzione abitativa e di azienda degli edifici, così come l’appoderamento sparso, pose le ditte costruttrici, nei fatti, a fare i conti con innumerevoli problemi: dalla proliferazione dei tanti, piccoli cantieri di campagna ai contenziosi finanziari con l’Ente; dall’approvvigionamento dei materiali all’arruolamento di manodopera, per giunta con l’aggravio del gelo e delle piogge che caratterizzarono gli anni tra il ’53 e il ’56. I trattori causavano danni alle strade, le arature sospinte fin sui bordi dei campi aumentavano il rischio di allagamento e i pantani, i fienili troppo vicini alle case in costruzione erano fonte di pericolo, gli animali da tiro danneggiavano i materiali da lavoro e così via. In altri casi, fu la sperimentazione di materiali non idonei o la negligenza nei lavori a causare infiltrazioni, crepe, se non addirittura crolli29. Case leggere, «quasi appoggiate al suolo, come le case dei presepi30» che la “propaganda avversa” dalle pagine dell’Unità non esitò a definire “veri e propri scolabrodo”, in apparenza perfette, ma pagate a caro prezzo dagli assegnatari31. Ma proprio la casa rappresentava secondo il Governo e dunque l’Ente Maremma, l’elemento cardine di una “rigenerazione” sociale nelle campagne, dove il contadino, a patto di spezzarsi la schiena, aveva l’opportunità di dare alla famiglia un tetto e un pezzo di terra in proprietà32. Per questo la spesa sostenuta sul fondo per costruire quelle case bianche come il latte33, fu, come ha dichiarato Carlo Barberis a distanza di trent’anni, senza dubbio «la maggiore fra tutte quelle necessarie all’insediamento e Lavori di costruzione di 241 fabbricati rurali – Pescia Romana, Azienda di Colonizzazione di Capalbio alla Direzione Aziende di colonizzazione, appalto fabbricati e case zona “Poggetti”, Orbetello 6 aprile 1952. 28 In Istituto Alcide Cervi, Archivio storico nazionale Movimenti contadini (Asnmc), Fondo Associazione Nazionale Assegnatari (Ana), b. 1, fasc. Roma, in particolare, Associazione Autonoma Assegnatari Provincia di Roma al presidente nazionale Monasterio, Esame del lavoro in Maremma, 13 settembre 1955. Sulla precarietà della situazione alloggiativa dei “fucensi” assegnati tra Capalbio e Pescia Romana, si veda la testimonianza di L. Gigli, op. cit., p. 50 e ss. 29 Arsial, buste 1184, 1250 e 1270 si riferiscono tutte agli appalti, finanziamenti e contratti con la Ditta Giachetti per la realizzazione di 241 fabbricati e 35 chilometri di strade tra Pescia Romana, Capalbio e Pedemontana Sud Aurelia. Sulla scelta di alcuni materiali edili che non risposero in modo adeguato alle aspettative si veda R. Medici, op. cit., pp. 114-15. 30 G. Piovene, op. cit., p. 403. 31 «l’Unità», 23 maggio, 1957. 32 Sulla “casa” e la propaganda dell’Ente Maremma attraverso la stampa rimando a V. Iacoponi, Podere è potere. Riforma fondiaria e consenso in Maremma, in «Zapruder», 25, 2011. 33 Giuseppe Medici, in una circolare aveva specificato che le casette dell’Ente dovevano essere “color bianco latte di calce, senza alcuna aggiunta di terre coloranti, con gli infissi esterni colorati di verde vivo”, Ente Maremma, circolare n.32, 1 aprile 1952, cit. in M. De Bianchi, L. Serravalle, Le costruzioni rurali della Riforma fondiaria nella Maremma grossetana degli anni Cinquanta, Editore Innocenti, Grosseto, 2011, p. 68. 256
alla riduzione a coltura dei terreni. Le abitazioni sul fondo costituirono però il mezzo più efficace per creare un legame durevole tra le famiglie coltivatrici e la terra loro assegnata. Il fatto di vivere su di essa dette loro una maggiore consapevolezza del suo definitivo possesso e quindi la convinzione che terra e casa potevano unitamente costituire la base concreta per una più serena esistenza34». Dunque le tante piccole casette monofamiliari, quelle tante piccole neonate proprietà delimitate e interconnesse dalle strade interpoderali, nel pensiero dei riformatori rappresentavano il segno distintivo di una campagna nuova, dove l’intervento dello Stato democratico aveva finalmente portato giustizia e pace sociale, senza rivoluzioni. Mentre i contadini si evolvevano in agricoltori partecipando a un processo di evoluzione morale e spirituale, le famiglie degli assegnatari, laboriose e responsabili, diventavano espressione di una nuova “civiltà contadina”. Non più braccianti e contadini abbrutiti dalla vita nei campi, ma persone libere nell’iniziativa imprenditoriale e partecipi di un benessere economico che non aveva bisogno di ostentazioni e degli eccessi della vita urbana. Perché come scrisse Carlo Barberis, l’insediamento sparso fu prediletto quasi ovunque, anche quando socialmente non praticabile, «ravvisando in esso il modo migliore per cautelare gli autentici valori delle famiglie coltivatrici sottraendole al diuturno contatto di una proletarizzante e inquietante vita paesana»35. In realtà, già mentre la riforma si compiva, appariva chiaro agli osservatori l’ambiguità e l’anacronismo di certi suoi aspetti che qualcuno definì “fantasie di parrocchia”36. La vita in quelle casette “benedette da Dio” rimase a lungo dura e precaria, come dimostrano le rivendicazioni e le lotte portate avanti dalle molte associazioni autonome costituitesi tra gli stessi assegnatari37. Isolate per i ritardi con cui si realizzarono i borghi di servizio38, senza luce, forno e acqua corrente finché non avvenne l’allacciamento all’acquedotto del Fiora, le famiglie assegnatarie si ritrovarono a fare i conti con problemi materiali consistenti aggravati dai notevoli debiti contratti con l’ente per ogni opera realizzata sul proprio fondo. Ad ogni modo, nonostante gli abbandoni e i fallimenti, rimane innegabile che l’azione dell’ente riformatore nelle Maremme sia riuscita a cambiare i connotati di un paesaggio agrario dall’apparenza quasi immobile e a creare una nuova figura sociale: quella coltivatore diretto, proprietario e di origine contadina.
34 C. Barberis, op. cit., p. 299. In realtà, l’isolamento e la paura di vivere lontano dalle reti sociali del paese sono stati elementi frenanti nell’adesione da parte dei contadini in alcuni comprensori di riforma, come documentato in A. Ardigò, Cerveteri tra vecchio e nuovo, pp. 22-3. 35 C. Barberis, op. cit., p. 291. 36 G. Piovene, op. cit., p. 861. 37 Per gli attriti tra assegnatari ed Enti di riforma e la nascita dell’Associazione nazionale assegnatari, F. Alberese, Gli anni ’50 nelle campagne della riforma fondiaria: carte dell’associazionismo agricolo fra gli assegnatari, in «Annali dell’Istituto Alcide Cervi», (17-18), 1995-96, pp. 327-36. 38 N. Mazzocchi Alemanni, op. cit., pp. 32-3. 257
Fig. 4 Arsial, Ente Maremma, Busta 1250, Centro di Colonizzazione di Pescia Romana, zona Poggetti, Casa tipo “Moscone� in costruzione, 1953 circa
Fig. 5 Arsial, Ente Maremma, Busta 1250, Centro di Colonizzazione di Capalbio, Sud Aurelia, Centro G in costruzione, 1953 258
Bibliografia Barberis C., Medici R., Progettare in agricoltura, s.n., Roma-Grosseto, 1956. Bellini L., La terra delle donne, Stampa alternativa, Viterbo, 2004. De Bianchi M., Serravalle L., Le costruzioni rurali della Riforma fondiaria nella Maremma grossetana degli anni Cinquanta, Editore Innocenti, Grosseto, 2011. Domenichelli L., Una grande generazione di agricoltori, Laurum Editrice, 2009. Edallo A., Ruralistica. Urbanistica rurale, Hoepli, Milano, 1946. Gigli L., I pionieri della Maremma. Storia recente di Capalbio, Editrice Laurum, Pitigliano, 2009. Milletti R., Nuovi progetti di costruzioni rurali e tipi di insediamento, Edizioni agricole, Bologna, 1958. Piovene G., Viaggio in Italia, Baldini Castoldi Dalai, Milano, 2003. Toman R., La casa rurale nel comprensorio di riforma della Maremma tosco-laziale, s.n., Roma-Grosseto, 1958.
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I casali della Bonifica Pontina (1932-1943) Un patrimonio architettonico dimenticato Simona Salvo
Sul casale c’era scritto ‘Podere’ a lettere di pietra bianca, belle grandi sull’intonaco celeste, e quindi noi i casali li abbiamo chiamati allora e per sempre ‘poderi’. A. Pennacchi, Canale Mussolini, Mondadori, Milano 2010
Case come monumenti La casa, per definizione, accoglie la sfera intima, affettiva, propriamente privata; di contro, essa rappresenta la quintessenza del manufatto architettonico, quello che meglio riflette la società che la costruisce e che racconta la storia di un‘epoca, di un’area geografica, di una particolare congiuntura socio-economica: possiede, dunque, un potenziale testimoniale innegabile, se non un valore storico e socioantropologico, a volte anche artistico, certamente culturale, che in quanto tale va salvaguardato. Eppure, riconoscerne il significato non è cosa facile poiché, fra tutte, sono le architetture meno ‘monumentali’. Le difficoltà non cambiano, anzi aumentano, se si considera l’edilizia abitativa più recente, quella costruita nel Novecento. In questo caso non si tratta più soltanto di calibrare il giudizio critico sulla sfera domestica, ma di spingersi a considerare il valore storico-testimoniale delle nostre stesse case, dove viviamo e abitiamo, che accolgono la nostra quotidianità e ci rispecchiano senza mediazioni: nulla di più privato e intimo, dunque, e al contempo nulla di più esposto al cambiamento e alla trasformazione. Infatti, è proprio nell’edilizia abitativa del Novecento che si verifica lo scontro fra un’indispensabile necessità a rinnovare e un antitetico desiderio di proteggere e mantenere: qui confliggono le istanze legate all’affettività degli individui e alle vicende familiari, con i principi della conservazione che invece, per definizione, sono prerogativa della collettività. Non fa eccezione neanche l’edilizia rurale del Novecento nonostante racconti una storia, fugace ma densissima, ancora leggibile nell’assetto paesaggistico del Paese. In queste architetture considerate ‘minori’ si annidano valori in grado di raccontare aspetti della modernità italiana che le architetture pubbliche non lasciano emergere; e il discorso trova ulteriore conferma nei casali della Bonifica Pontina che hanno 261
rappresentato il trait d’union fra paesaggio agrario e paesaggio umano, fra territorio e società, fra natura e architettura in un periodo particolare della storia italiana; un patrimonio insostituibile che va al più presto rivalutato. Questo breve saggio racconta la realizzazione dei casali della Bonifica Pontina negli anni Trenta del Novecento e ne delinea la condizione attuale anche a fronte del sedimentare della memoria di quella vicenda nell’immaginario collettivo.
Fig. 1 La redenzione dell’Agro Pontino, Duilio Cambellotti, 1934, tempera su lastre di eternit, salone del Palazzo della Prefettura di Latina
Un patrimonio senza storia e senza autore Ultimo anello di un complesso sistema insediativo scalare, costituito da infrastrutture e insediamenti che nel corso della prima metà del Novecento mutarono l’assetto della Pianura Pontina trasformando le paludi in terreni coltivabili1, i casali rurali svolsero un ruolo centrale nella ‘Bonifica Integrale’2, anzi rappresentarono la chiave di volta per il successo socio-economico dell’operazione. Qui, infatti, prese corpo, ed ebbe successo in pochi anni, il processo di ‘appoderamento’ - cioè la conquista, progressiva e faticosa, della proprietà della terra da parte dei braccianti3 - col 1 L’Agro Pontino corrisponde alla vasta pianura che si estende a sud di Roma fra i Monti Volsci, Ausoni e Lepini, e il litorale Tirrenico, da Nettuno a Terracina. 2 La legge per la ‘Bonifica Integrale’ del Paese, voluta da Benito Mussolini e promulgata nel 1928, rappresentò il cuore della propaganda fascista. 3 Il processo di ‘appoderamento’ consistette nello stipulare contratti di mezzadria con famiglie prescelte, per lo più provenienti dal Veneto, dalle Marche e dall’Emilia Romagna, affidando loro poderi d’estensione compresa fra 15 e 35 ettari su cui insistevano un’abitazione rurale ed annessi agricoli, inclusi animali da soma e d’allevamento e arnesi da lavoro. Le dimensioni del terreno dipendevano dalle caratteristiche del terreno e, quindi, dalla sua produttività 262
quale si stabilì un legame nuovo, e per molti versi inventato fra società contadina e territorio agricolo, tra famiglie e poderi, fra l’uomo e la terra. Il fascismo, infatti, intendeva promuovere la stabilità nel territorio della popolazione rurale, quale sinonimo di evoluzione e sviluppo4, prendendo le distanze dal vivere nomadico autoctono5: un modo nuovo e stanziale di vivere nella Pianura si sarebbe appunto verificato nei casali rurali, simboli di quella metaforica, quanto concreta, ‘conquista della terra’ che costituì un traguardo della propaganda fascista piuttosto che una vera aspirazione dei braccianti provenienti dal Nord Italia. Al di là delle operazioni di bonifica idraulica di quei territori, delle trasformazioni del loro assetto fondiario e della fondazione di nuove città, si propose dunque una vera e propria sfida. Il contadino doveva infatti rimanere ancorato alla terra spiritualmente e materialmente, e tale legame si sarebbe inverato nell’abitazione che, oltre a costituire un nuovo modo dell’abitare rurale, avrebbe rappresentato un nuovo status sociale per il quale, tuttavia, non esistevano paradigmi6. Il progetto per i casali si collocava perciò al crocevia di questioni che andavano ben oltre la risoluzione del problema contingente e s’inserivano nel dibattito in corso sulla ‘tradizione del nuovo’, che rimandava a sua volta alle ricerche sulla natura stessa dell’architettura moderna e alla disputa fra l’importanza dello stile in opposizione all’istanza funzionalista dell’architettura razionale, un dibattito di cui altri paesi europei si occupavano già da tempo. In Italia la ricerca volta a trasporre il carattere tradizionale intrinseco alle architetture rurali7 - per definizione spontanee e frutto di secolare sedimentazione della tradizione costruttiva mediterranea - in un processo espressamente studiato e concepito - quindi ‘artificiale’, improntato a criteri moderni di funzionalità, economia e produttività - vide impegnate figure come potenziale: più piccoli se alluvionali e fertili, più grandi se vulcanici e aridi. Di conseguenza, le abitazioni erano commisurate al numero di componenti delle famiglie necessari per coltivare la terra. I contratti includevano innovative clausole che consentivano ai mezzadri di riscattare la proprietà dei poderi nel giro di pochi anni. 4 All’inizio degli anni Trenta il Fascismo aveva ripreso, fatto propria e propagandato la politica di ‘ruralizzazione’ del Paese in opposizione all’urbanizzazione e promosse quel “disurbanamento”, secondo il termine coniato da Luigi Piccinato, che avrebbe portato a riequilibrare il grave scompenso socio-economico e demografico in cui l’Italia era caduta nel primo dopoguerra; in proposito, A. Muntoni, Architetti e archeologi a Roma, in Storia dell’Architettura Italiana. Il primo Novecento, a cura di G. Ciucci e G. Muratore, Electa, Milano, 2004, pp. 260-293, in particolare Le città di nuova fondazione nell’Agro Pontino, la rete del disurbanamento, p. 281. 5 Dagli studi sui processi insediativi in zone rurali, all’epoca molto battuti specie in Europa, emergeva che le uniche dimore nella Pianura Pontina erano le ‘lestre’, agglomerati di capanne realizzate con materiali locali, canne da palude e fango, tipiche delle popolazioni nomadiche che si spostavano a valle, verso la costa e si ritraevano a monte secondo la stagione e la possibilità di svolgere la pastorizia o la pesca. 6 “La nuova casa colonica non deve arrivare ai campi attraverso semplificazioni o adattamenti della casa cittadina ma perfezionarsi quanto si è perfezionata questa su basi originali proprie … [deve] fissare l’uomo alla terra e dargli la possibilità di maggior rendimento”, M. De Mandato, L’abitazione rurale: il ricovero, «La Conquista della Terra», a. III, 3, 1932, pp. 11-15. 7 G. Pratelli, La casa rurale nel Lazio Meridionale, collana Ricerche sulle dimore rurali in Italia, vol. 17, Olschki, Firenze, 1957, pp. 140-155; R. Biasutti, Per lo studio dell’abitazione rurale in Italia, in «Rivista Geografica Italiana», s.l., 1926. 263
Dagoberto Ortensi8 e, in particolare, Giuseppe Pagano che, con i suoi studi, riconobbe nell’architettura rurale l’applicazione di principi di razionalità tecnica e funzionale, quintessenza della modernità9.
Fig. 2 L’appoderamento dell’Agro Pontino nei pressi di Littoria a bonifica ultimata, 1939 circa, Archivio Storico TCI
I progetti per i casali della Bonifica Pontina, caratterizzati da un linguaggio architettonico ancora tradizionalista e a tratti eclettico, ma anche da un severo rispetto per la funzionalità, riflettono dunque la tensione dell’epoca. Più che nei progetti per le ‘città di fondazione’, infatti, essi attestano la ricerca di regole e principi per un’architettura onesta ed essenziale e non intenti figurativi improntati all’eredità stilistica, quali espressioni entro cui si articola il clima architettonico dell’epoca diviso fra la riproposizione di forme classiche e moderne, fra tradizione e innovazione, fra razionalismo e classicismo. Un’esperienza, dunque, che rimanda ad una modernità ‘altra’, non ancora del tutto decifrata e riconosciuta, e riconosce queste architetture quali esempi di una ricerca progettuale e architettonica radicata nelle ragioni storiche e culturali del Paese. Nonostante i casali della Bonifica Pontina rappresentino ciò che oggi viene comunemente definito ‘patrimonio culturale’, la vicenda della loro progettazione e realizzazione è stata lasciata in secondo piano dalla storiografia architettonica dedicata a quegli anni, incentrata sui grandi nomi e le grandi imprese. Restano, peraltro, ignoti gli autori dei relativi progetti, figure prive di un inquadramento storiografico ma rappresentative di una cultura e di una professione - quella dell’architetto - che in quegli anni andava ristrutturandosi attorno ad una formazione e ad una espressione linguistica del tutto nuove10. Non gli ingegneri e architetti già impegnati nel disegno 8 Fra i molti volumi dedicati all’edilizia rurale, si ricorda D. Ortensi, Case per il Popolo. Case coloniche, case prefabbricate, Mediterranea, Roma-Milano, 1931. 9 G. Pagano, D. Guarniero, Architettura Rurale Italiana, in «Quaderni della Triennale», Hoepli, Milano, 1936. 10 Fonte diretta d’informazione sono gli articoli pubblicati sui fascicoli pubblicati dal 1932 al 1953 della rivista «La conquista della terra», organo della ONC, da considerarsi alla stregua di documenti d’archivio, la cui veste editoriale, specie le potenti copertine disegnate 264
delle città di nuova fondazione, ma meno noti tecnici già alle dipendenze dell’Opera Nazionale per i Combattenti, in gran parte responsabile dell’impresa11, diedero un contributo adeguato e aggiornato ai tempi e seppero rispondere egregiamente alle problematiche poste dalla progettazione e costruzione dei casali rurali - di fatto non ancora ben definite e per una popolazione rurale in trasformazione radicale inventando nuove soluzioni spaziali, architettoniche e tecniche12.
Fig. 3 La quercia rinverdita, frontespizio disegnato da Duilio Cambellotti della rivista “La conquista della terra. Rassegna dell’Opera Nazionale Combattenti”, fascicolo di gennaio del 1936
da Duilio Cambellotti, ne rivela la matrice fascista. Per un quadro ben documentato della vicenda, P. Riva, Fascismo, politica agraria, ONC nella bonificazione Pontina dal 1917 al 1943, con foto e documenti originali, Sallustiana, Roma, 1983; in specie la Parte Quarta che tratta dell’appoderamento, dei contratti e della casa colonica. Si veda, inoltre, C. Alvaro, Terra nuova. Il borgo, la casa, il focolare. Prima cronaca dell’Agro Pontino, 1934. 11 I documenti dell’ONC sono raccolti presso l’Archivio Centrale dello Stato, fondo Opera Nazionale per i Combattenti, serie Progetti, con Inventario a cura di Floriano Boccini e Erminia Ciccozzi, Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Direzione Generale per gli Archivi, 2007; si trovano, inoltre, presso l’Archivio di Stato di Latina, fondo Opera Nazionale per i Combattenti. Altre fonti d’informazione si trovano presso l’Archivio del Novecento (Latina) e l’Archivio Bonifica dell’Agro Pontino che conserva il prezioso fondo fotografico Giovanni Bortolotti, con catalogo pubblicato nel 2006 dalla casa editrice Novecento di Latina cui si rimanda per le numerose pubblicazioni multimediali. 12 Fra i nomi ricordati dalle poche fonti a disposizione, sono citati Alfredo Pappalardo, già impegnato nella progettazione di Borgo Hermada con i più noti progettisti delle architetture di Sabaudia, e Ugo Todaro. Di quest’ultimo si ricorda U. Todaro, L’edilizia urbana e rurale, in «L’Agro Pontino» al 29 ottobre Anno XVI E.F., 1937. 265
Fig. 4 Case coloniche a Borgo Montenero lungo la Strada del Pigneto, 1936
Progettazione, costruzione e ‘appoderamento’: il ruolo dell’Opera Nazionale Combattenti L’operazione di bonifica della Pianura Pontina, avviata da Mussolini nel 1923 all’insegna della pubblica utilità e dell’urgenza di debellare la malaria13, si basò sul progetto già redatto dal Genio Civile nel 1918 che, a sua volta, faceva leva sul sistema idraulico realizzato nel XVIII secolo dallo Stato Pontificio per raccogliere le acque disperse e versarle in un canale artificiale parallelo alla via Appia, il Sisto14. Per portare l’impresa a termine durante il fascismo furono costituiti due comprensori: Piscinara per la bonifica dei territori a destra del fiume Sisto, e Pontino per i terreni a sinistra del Sisto15. La gestione dell’‘appoderamento’ fu invece affidata ai 13 E. Calabri, L’architettura rurale: le case coloniche dell’Opera Nazionale Combattenti, in «La Malaria. Scienza storia cultura», Regione Lazio, Roma, 1994, pp. 100-102. 14 L’impresa era stata tentata più volte fin dai tempi di Roma Repubblicana, ma senza risultati efficaci e definitivi. Fra i molti libri pubblicati sulla vicenda, si veda s.a., Agro Pontino. Storia di un territorio, Consorzio dell’Agro Pontino, Formia, 2000; S. Quilici, Il paesaggio della pianura pontina: evoluzione storica e scenari di recupero, in Lazio tra le due guerre. Miscellanea storica del territorio, Palombi, Roma, 2007, pp. 67-88; P. Incardona, P. Subiaco (a cura di), La palude cancellata. Cenni storici sull’agro pontino, Consorzio di Bonifica dell’Agro Pontino, Novecento, Latina, 2005. 15 L’operazione fu avviata con la realizzazione del Canale Mussolini per raccogliere le acque dei terreni di Piscinara, appoderati a partire dal 1930. 266
soggetti proprietari dei terreni, Università Agraria e latifondisti privati, e alla ONC, cui Mussolini trasferì gestione e proprietà di 17,800 ettari di terreno16. I tecnici dell’ONC furono innanzitutto impegnati a definire i parametri quantitativi di un corretto abbinamento fra casali e poderi in grado di garantire il successo socioeconomico dell’operazione17: offrendo combinazioni diverse, infatti, ciascun podere avrebbe ospitato la forza lavoro sufficiente. Furono pertanto realizzati più di 18 tipi di casali diversi che, pur se riferiti ad un modello standardizzato e destinato ad un unico nucleo familiare (che faceva capo al colono titolare del contratto di appoderamento), variavano per la distribuzione degli ambienti, numero di piani, tipo di copertura adottato, rapporto tra abitazione ed annessi rustici18. Osservando criteri igienico-sanitari uniformi, una sostanziale omogeneità di dotazioni, una rigorosa razionalizzazione degli spazi e delle risorse e la massima funzionalità distributiva, si ottennero per lo più varianti dimensionali: al variare degli abitanti e dei capi di bestiame corrispondevano quattro-cinque tipi principali di casali, diversi per il numero dei piani (uno o due), per la superficie (da 125 a 213 mq) e per il numero di vani e stalle (da cinque a sette). La distribuzione, d’altra parte, variava poco: alle camere da letto, poste al primo piano o rialzato, si accedeva attraverso una scala interna (raramente esterna); cucina e magazzino erano in genere al piano terreno mentre la stalla consisteva di un corpo di fabbrica vicino all’abitazione, unito all’abitazione mediante portico19.
16 A dicembre del 1939 su 5003 poderi, 2953 erano stati affidati a coloni provenienti da altre regioni italiane dall’ONC, 350 ai contadini dei Monti Lepini dall’Università Agraria e 1700 a contadini della Pianura Pontina dai privati. Le dimensioni dell’impresa compiuta restituiscono anche le ragioni dell’inevitabile conflitto instauratosi fra popolazioni autoctone e braccianti immigrati; in proposito, P. Riva, Fascismo, politica agraria, O.N.C. … cit., pp. 293-294. 17 La manualistica europea puntava già ad una progettazione organica che orientasse verso una gestione razionale del rapporto fra uomo, terra e animali, e non verso questioni di materiali, di forme e di linguaggio architettonico; così anche M. De Mandato, Inchiesta sull’abitazione rurale: questionario, in «La Conquista della terra», a. V, n. 6, 1934, p. 26. 18 Le varianti dovevano rispettare i seguenti requisiti: ubicazione della costruzione a 25 metri dall’asse viario principale, a 20 metri dalle strade interpoderali e a 5 metri dall’asse della strada di accesso; fronte principale rivolto verso strada con accesso alla stalla sempre sottovento e riparato dai venti; pozzo d’acqua potabile collocato davanti o a fianco della casa, a 10 metri di distanza; pozzo nero collocato a 3 metri dalla casa e in posizione ottimale per lo scolo delle acque; concimaia posta a 25 metri dalla casa e dalla strada, sottovento e opposto al pozzo; forno, abbeveratoio pollaio e porcile posti a 10 metri dalla casa. In proposito, P. Riva, Fascismo, politica agraria, O.N.C. … cit., p. 310. 19 “Nel progettare la distribuzione delle case furono osservati criteri di razionalità (geometrie rettangolari, senza corridoi e accesso alle camere direttamente dalla cucina, o usandone una quale disimpegno (per i bambini). L’altezza degli ambienti fu ridotta al minimo, ma non si lesinò sull’uso di dispostivi antimalarici (reti e bussole d’ingresso). Per ragioni di rapidità della costruzione e contenimento dei carichi sul terreno si fece ricorso a materiali disponibili in loco. Ogni motivo decorativo fu escluso per ragioni di economia”, A.Pappalardo, Nuovi orientamenti nella costruzione di case coloniche, in «La Conquista della terra», a. VII, 10, 1936, p. 23. 267
Fig. 5 Alcune delle numerose tipologie di casali elaborate dalla ONC: Tipo I con 5 vani e 10 poste nella stalla, Tipo II con 5 vani e 8 poste, Tipo III con 7 vani e 8, Tipo IV con 6 vani e 8 poste 268
L’impresa imponeva inoltre la soluzione di questioni di natura gestionale ed economica di non poco conto che imposero precisi termini di realizzazione improntati al risparmio e alla semplicità al fine di garantire agilità e velocità d’esecuzione. I caratteri costruttivi e i materiali impiegati rappresentavano bene lo sforzo compiuto dai progettisti per rispettare budget strettissimi pur mantenendo alta la qualità della costruzione. Le murature portanti, realizzate ‘alla romana’ con bozze di tufo e calcare e malta di calce e pozzolana, ‘listata’ ogni metro circa con filari doppi di mattoni e cantonali in laterizio, poggiavano su fondazioni continue realizzate in modo tradizionale con pezzame di tufo e malta di pozzolana, così da consentire al pavimento del piano terreno di rimanere isolato dal terreno e rialzato su di un vespaio. Architravi, archi, stipiti e riquadrature erano realizzati con mattoni pieni mentre le tamponature interne erano in mattoni forati. In assenza di legname, i solai erano realizzati con travi in ferro a doppio ‘T’ e tavelloni in laterizio (o voltine), oppure in latero-cemento con travetti ‘SAP’ ancorati a cordoli in cemento armato posti all’interno delle murature perimetrali portanti, mentre i controsoffitti erano in camera a canne con supporto in rete metallica e armati con listelli di abete. L’estradosso dei solai era livellato in un cretone di malta di pozzolana e calce e finito con pavimenti in quadrelli di cotto disposti a spina di pesce. Le coperture, proposte in due versioni, erano a due falde - con orditure in castagno, sottomanto e manto in tegole marsigliesi, più raramente coppi alla romana - oppure piane, ‘a terrazzo’. Le facciate erano, infine, intonacate con malta di calce e pozzolana e tinteggiate con latte di calce e pigmenti azzurri, mentre le pareti interne erano di colore verde chiaro. Un particolare, esteso a tutte le costruzioni realizzate nella Pianura Pontina durante il fascismo, riguardava gli infissi, in legno con scuri interni e reti metalliche antizanzare, e le porte d’ingresso, guarnite da bussole esterne che assicuravano la difesa dalle zanzare anofeli. Unico motivo distintivo e latamente decorativo era il comignolo, prefabbricato e svettante tanto da potersi riconoscere anche a distanza. La prima fase di realizzazione fu avviata nel 1932 con la costruzione rapidissima di 500 casali a due piani di tipologie diverse; alla luce dell’esperienza acquisita, la seconda fase sopraggiunse subito dopo, nel 1933, con la realizzazione di altre 850 unità che presentavano un numero minore di varianti tipologiche ma una più attenta corrispondenza degli ambienti alla composizione delle famiglie e alle istanze colturali poste dal luogo. La terza fase subentrò l’anno successivo, nel 1934, con la realizzazione di 700 poderi per i quali, per ragioni pratiche ed economiche, furono studiati altri tipi di case coloniche che corrispondessero meglio alle caratteristiche delle zone a monte dell’Appia e nel territorio di Aprilia. La quarta ed ultima fase, dal 1937 al 1939, vide una contrazione ulteriore degli elementi architettonici e costruttivi più dispendiosi20. Fra il 1932 e il 1939 l’ONC appoderò 285.000 ettari suddivisi in poderi in media di 20 ettari d’estensione, e realizzò 2953 case rurali. L’operazione fu compiuta per passi successivi, apportando varianti progettuali, non sempre in senso migliorativo21. 20 P. Riva, Fascismo, politica agraria, ONC … cit., p. 311. 21 A consuntivo i costi sostenuti per realizzare le costruzioni variarono dalle £ 42.000 per le case piccole (ad un piano con 3 camere e una stalla con 4 poste, portico e forno), alle £ 60.800 per una casa di dimensioni medie (2 piani, 3 stanze, stalla per 6, portico forno e pollaio), alle £ 70.000 per una casa grande (1 piano, 4 camere, stalla per 12 capi portico forno). Tuttavia, non sempre il colono reggeva il ritmo di produzione imposto dalla ONC per riscattare le case, mettendo 269
Queste consistettero per lo più nel ridurre dimensioni, dotazioni e uso di materiali ‘pregiati’ come il ferro, specie in seguito alle leggi autarchiche nel 1935, e di fatto corrisposero da un lato ad un impoverimento delle case e dall’altro all’evoluzione del linguaggio architettonico. Si passò infatti a forme sempre più di stampo razionalista - o ‘nazional-razionalista’ - abbandonando gli elementi costruttivi più tradizionali, come il tetto a due falde con comignolo, a favore di forme più lineari e stereometriche. In seguito si eliminarono pollai, porcili e magazzini e si costruirono abitazioni più piccole in proporzione all’estensione dei poderi, ad un unico livello per eliminare la scala interna, con coperture piane e spessori murari ridotti.
Fig. 6 Caseggiato operai n. 2 a Sessano, 1928. Caseggiato operai n. 2 a Sessano, 1928 (da I Borghi). L’edificio in costruzione, mostra i caratteri costruttivi e i materiali impiegati per la realizzazione dei casali, prevalentemente a muratura portante in bozze di calcare e tufo con ricorsi in laterizi pieni, con cordoli in cemento armato per assicurare i solai
Fig. 7 Il Casale realizzato dall’Opera Nazionale Combattenti nel Podere n. 724, 4 maggio 1935 (Archivio del Consorzio di Bonifica dell’Agro Pontino)
così a repentaglio il sistema di recupero del credito implicito nell’operazione di appoderamento istituita dal regime fascista; P. Riva, Fascismo, politica agraria, ONC … cit., p. 294. 270
I casali oggi fra vocazione turistica, mercato immobiliare e memoria popolare Nel 1943, quando la guerra volgeva ormai drammaticamente alla fine, la Pianura Pontina divenne il fronte fra le truppe tedesche in fuga e quelle alleate che avanzavano da sud per preparare lo sbarco sulle spiagge di Anzio. I tedeschi, per rallentare l’avanzata alleata allagarono la pianura bloccando le idrovore: il re-impaludamento dei terreni fu tanto devastante da costringere la popolazione a ritirarsi a monte abbandonando case, animali e campi. Il deflagrare della malaria non tardò e fu necessario un decennio per rendere i terreni di nuovo abitabili e coltivabili. Il compito di recuperare la situazione fu in parte espletato dall’ONC22 fino al 1955 quando trasferì gli incarichi di manutenzione e adeguamento delle infrastrutture idrauliche e stradali alla Cassa per il Mezzogiorno che, a sua volta, li passò al Consorzio di Bonifica dell’Agro Pontino. Quelli del dopoguerra non erano certi tempi adatti ad avviare una lettura scientifica e documentata della vicenda. Nella descrizione offerta da Guido Piovene negli anni Cinquanta prevale ancora la visione eroica che il fascismo aveva voluto imprimere all’impresa della bonifica: «Le paludi Pontine ... erano un grandioso deserto paludoso e malarico, in cui pascolavano le greggi e le mandrie dei bufali neri e mostruosi che non temono il fango»23: parole che restituiscono il timore che i terreni tornassero ad impaludarsi, ma non la sofferenza e le difficoltà che si abbatterono sui coloni quando allo spaesamento dovuto alla ‘deportazione’ dai luoghi d’origine subita non più di un decennio prima si aggiunsero le conseguenze della povertà e della fame. La ripresa fu lenta e silente, poi più rapida e violenta a partire dagli anni Ottanta quando si avviarono più profonde trasformazioni. I fenomeni principali sono consistiti nella progressiva «deruralizzazione» dei terreni agricoli, da imputarsi all’espansione urbana dei centri principali, all’installazione d’impianti industriali lungo la viabilità principale e alla realizzazione d’insediamenti turistici lungo le fasce costiere. Col tempo si è poi assistito al trasferimento a valle delle popolazioni provenienti dai centri collinari, e al frazionamento dei poderi originari attraverso la suddivisione delle eredità, oggi per lo più trasformati in aziende oppure in attività artigianali e commerciali. I casali, un tempo elementi caratteristici del paesaggio dell’Agro Pontino - sono di conseguenza sempre meno riconoscibili, in molti casi trasformati, in villette, villini o palazzine, se non sostituiti con nuove costruzioni. Le trasformazioni principali si distinguono dunque secondo la collocazione: i poderi che un tempo circondavano i centri di nuova fondazione sono stati assorbiti e inglobati nell’espansione urbana e i casali sono ormai irriconoscibili, se non del tutto scomparsi; lungo la viabilità principale (via Pontina), dove il traffico rende incompatibile la funzione abitativa e privilegia lo scambio, i poderi sono stati adibiti a funzioni industriali, se non abbandonati; nelle zone prossime alla fascia costiera sono stati per lo più adattati a funzioni di supporto all’attività turistica e alberghiera con profonde alterazioni o abbandonati; mantengono ancora una vocazione prettamente agricola quelli delle zone più interne, comprese fra gli assi stradali principali (Pontina e Appia) e la costa, non senza trasformazioni sostanziali e la quasi sistematica eliminazione degli annessi agricoli, dovute al mutare 22 Scelte cruciali, come l’impiego del DDT per debellare la malaria, furono tuttavia lasciate agli Americani che, di fatto, diressero le operazioni. 23 G. Piovene, Viaggio in Italia, 1957, Baldini&Castoldi, Milano, 2013, p. 815. 271
della produzione agricola, dell’allevamento, delle regole igienico-sanitarie e dei modi dell’abitare contemporaneo24.
Fig. 8 La regione pontina, veduta aerea, Google Maps, 2010
Stante la situazione e in assenza di una ricognizione sistematica, non è semplice stabilire la consistenza effettiva di questo vasto patrimonio architettonico, in linea di massima classificabile soltanto in base alle condizioni, d’uso o di abbandono, in cui versa25. Se si esclude l’affollata categoria di casali ridotti a rudere perché abbandonati, (in alcuni casi già dal secondo dopoguerra), se ne individuano alcuni ancora abitati e conservatisi pressoché nello stato originario, altri abitati ma in parte trasformati oppure pesantemente ristrutturati con ampliamenti, aggiunte e modifiche sostanziali, a volte con cambiamento della destinazione d’uso rurale, oltre ai pochissimi abitati e mantenuti nel rispetto delle caratteristiche originarie. Questa situazione evidenzia il mancato riconoscimento e lo scarso apprezzamento del valore storico e architettonico di questo patrimonio: uno status su cui ha decisamente influito anche la forte speculazione che incombe sul mercato edilizio, specie nell’area Pontina stravolta dai cambiamenti degli ultimi decenni dovuti alla progressiva urbanizzazione del territorio che circonda i centri principali (Latina, Pomezia, Aprilia e Roma), alla complementare riduzione dell’originaria vocazione rurale e alla pressione turistica proveniente dalla Provincia di Latina e, soprattutto, da Napoli e Roma. 24 M. Martone, Segni e disegni dell’Agro Pontino: architettura, città, territorio, Aracne, Roma, 2012, pp. 77-128. 25 Si tratta di informazioni basate sulle fonti bibliografiche e archivistiche che attendono di essere verificate attraverso uno studio diretto sul campo. 272
Apprezzato certamente più della lettura scientifica e filologica che meriterebbe questo patrimonio, il romanzo Canale Mussolini di Antonio Pennacchi, col suo inatteso successo di pubblico, rispecchia la vasta eco nell’immaginario popolare prodotta dalla Bonifica, ancora oggi considerata una vera e propria epopea, a tratti eroica a tratti misera, ma comunque un segmento di storia nazionale nelle microstorie delle famiglie che tutt’oggi abitano l’Agro Pontino. Il romanzo, dove realtà e immaginazione si mischiano senza ridefinirsi26, ha tuttavia il merito di restituire a pieno l’orgoglio maturato nelle popolazioni radicatesi nel territorio ma pur sempre connotate da tratti distintivi dovuti a quella originaria ‘estraneità’ al luogo. Il tempo, infatti, ne ha rafforzato la lettura romantica e popolare e i sentimenti di nostalgia che hanno dato forma alla memoria. Senza eccezioni, l’uso d’immagini spettacolari e televisive ha poi influito ben più della realtà dei fatti, come dimostra la variegata e nutrita sequela di romanzi, iniziative culturali, programmi televisivi, e persino fiction televisive, che raccontano la vicenda umana legata alla Bonifica e il senso di appartenenza suscitato da queste ‘case’ speciali da molteplici punti di vista27. Date le premesse, non deve stupire che la storia di questo patrimonio sia ancora tutta da scriversi e che la sua memoria sia sedimentata per lo più nella memoria collettiva, nella letteratura popolare e attraverso i canali di comunicazione spettacolari piuttosto che attraverso il filtro scientifico della storiografia architettonica. Trattandosi di abitazioni e di luoghi legati alla dimensione intima e domestica della vicenda storica, la chiave psicologica e affettiva, a tratti anche immaginaria, ha suggerito interpretazioni più immediate rispetto a quella storico-critica, attribuibile più facilmente ai monumenti ‘pubblici’. Processi di assimilazione simili riguardano, non casualmente, anche il patrimonio abitativo del Novecento, in particolare l’edilizia residenziale pubblica costruita nei decenni centrali del secolo. La questione, colta nel suo complesso, assume dunque una dimensione ampia e articolata; ma mentre l’edilizia residenziale pubblica gode oggi di una condizione già migliore, sia nella ricerca scientifica - si pensi agli studi ormai a buon punto sul patrimonio INA Casa28 - sia nel contesto delle iniziative intraprese dalle pubbliche amministrazioni - si pensi ai programmi volti al recupero delle periferie metropolitane - quello dei casali rurali della Bonifica sembra essere caduto nell’oblio, appannaggio pressoché esclusivo del mercato immobiliare privato. Ciò, nonostante il Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio, legge 42/2004 (art. 2 comma h), abbia incluso gli edifici a carattere rurale fra i manufatti soggetti a tutela. 26 A. Pennacchi, Canale Mussolini, Oscar Mondadori, Milano, 2010. L’autore racconta la vita nei poderi della Pianura Pontina ai tempi della bonifica fascista e negli anni successivi. Immaginaria, seppure inevitabilmente autobiografica, la storia restituisce con precisione le caratteristiche delle abitazioni rurali che, di fatto, rappresentano il setting della vicenda stessa; cit., p. 206. 27 Sulla rete, attraverso You tube, sono disponibili programmi televisivi come Gente Pontina. Storie e persone, La redenzione dell’Agro Pontino, Il suono della zappa, La Bonifica Pontina: storia, tecnica, curiosità, Il mondo della Pianura Pontina e la sua bonifica ma anche una puntata del noto programma Superquark diretto da Piero Angela (17 luglio 2014), e siti informativi relativi a collezioni pubbliche e private che raccolgono oggetti e reperti della vita rurale, come il MAP Museo dell’Agro Pontino e il Museo della Bonifica a Piana delle Orme presso Latina fondato da Mariano De Pasquale. 28 Fra tutti, P. Di Biagi, La grande ricostruzione. Il piano Ina-Casa e l’Italia degli anni cinquanta, Donzelli, Roma, 2001-2010. 273
Fig. 9 Classificazione dello stato attuale dei casali
Fig. 10 Canale Mussolini diventa una graphic novel, con i disegni di G. e M. Lanzidei e M. Ruggeri, Edizione TunuĂŠ, Milano, 2014
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Paesaggi dell’agricoltura tradizionale siciliana: conoscenza, tutela e pianificazione
Giuseppe Barbera, Sebastiano Cullotta, Francesca Lotta, Serena Savelli
I paesaggi dell’agricoltura tradizionale sono generati dell’incontro tra caratteri naturali, forza creativa e ingegno dell’uomo (Forman, Godron 1986) e corrispondono al risultato di un progetto collettivo che ha misurato la necessità del produrre con le risorse native disponibili e con i caratteri dell’ambiente (Barbera, Cullotta 2014). Essi rappresentano l’equilibrio dinamico a cui ha teso la lenta coevoluzione, sitospecifica, del rapporto tra natura e cultura, prima che subentrasse la rottura profonda dell’agricoltura industriale. Parlare, oggi, di paesaggi tradizionali non sempre risulta semplice e può essere di difficile comprensione. Spesso al “tradizionale” si sostituisce il termine “storico”, eppure non è la collocazione temporale la peculiarità dei paesaggi in questione. L’aggettivo “tradizionale”, ancorché unito ad “agrario” infatti non riguarda singole specie e neanche singole tecniche, ma una visione sistemica del territorio, all’interno del quale diverse tecnologie - macchine e manufatti idraulici, sistemazioni del suolo, rotazioni, consociazioni, colture- concorrono nell’utilizzare al meglio le risorse, differenziando nel tempo e nello spazio le produzioni e collegando a sistema le diverse funzioni irrigue, energetiche, microclimatiche ed estetiche (Antrop 1997; Bignal et al. 1995; Vos, Meekes 1999; Barbera et al. 2005). Riguardo alla scelta del sintagma di “paesaggio agrario”, imposto nella cultura italiana grazie all’opera di Sereni (1961), è doverosa una puntualizzazione. Coniato in riferimento al contesto del 1961, descriveva una condizione in cui una matrice agricola quasi pura poteva dominare largamente su vaste porzioni di territorio. Oggi tali condizioni sono raramente riscontrabili e sarebbe pertanto più corretto utilizzare la dicitura di “paesaggio rurale”, che non è da intendersi come sinonimo di agrario. La differenza tra agrario e rurale non sta tanto nella distinzione tra un sistema che riguarda l’assetto delle colture sul terreno (agrario) ed un sistema che include anche le forme abitative, le infrastrutture viarie, i nodi logistici, le strutture insediative, le piccole industrie di trasformazione agroalimentare, l’allevamento o le foreste (rurale). Tale differenza sta piuttosto in un cambiamento che ha radici economiche e sociali; sta in un paesaggio che non è più l’artefatto fisico, l’autorappresentazione collettiva ed il teatro del quotidiano dei soli agricoltori. Il paesaggio rurale è oggi generalmente condiviso, stabilmente o temporaneamente, da una quantità di attori che hanno ambizioni e 277
aspettative diverse da quelle agricole e, spesso, in conflitto con esse. L’attuale differenza tra rurale e agrario consta in una funzione che non è più prevalentemente produttiva e va intesa nei termini multifunzionali dettati dai servizi ecosistemici (servizi di supporto quali la formazione di habitat e conservazione della biodiversità; servizi di fornitura e approvvigionamento di prodotti quali cibo acqua produzioni agrarie etc, servizi di regolazione dei cicli ecologici del clima, dell’aria delle acque, pedogenesi, mitigazione dei rischi idrogeologici; e servizi culturali quali eredità e identità culturale, arricchimento spirituale e intellettuale ed i valori estetici e ricreativi) (Assessment 2005). Pertanto, se si è scelto di utilizzare la dicitura di “paesaggio agrario” non è certo perché si vogliano eliminare, da un campo d’indagine altrimenti ridottissimo i paesaggi rurali, bensì per ribadire la continuità d’approccio col Sereni (1961) ed evidenziare la sua centralità come fonte bibliografica storica di riferimento. L’ulteriore aggettivazione di “tradizionale” vuol specificare il limite del campo d’indagine e indirizzare gli obiettivi della ricerca su quei paesaggi sopravvissuti alle trasformazioni dell’agricoltura industriale. Tradizione ha radice etimologica nel latino tradere (tra- oltre e dare- consegnare) e cioè trasmettere oltre. In etnologia si definisce tradizione orale l’insieme delle testimonianze del passato trasmesse di bocca in bocca, di generazione in generazione. È proprio in riferimento a tali conoscenze orali, che hanno assicurato la continuità, la replicabilità dei paesaggi agrari, che si è scelto di parlare di paesaggi tradizionali piuttosto che di paesaggi storici. La preferenza dell’aggettivazione tradizionale è altresì spiegata in ragione di una vitalità futura di tali paesaggi che sono così implicitamente proposti come modelli tecnologicamente implementabili e riferimenti per un’agricoltura contemporanea non convenzionale che miri al recupero di un passato di conoscenze risultanti da millenni di sperimentazioni contadine (Bevilacqua 2006) e che sia capace di riprendere quel lungo dialogo tra popolazioni, generazioni e luoghi che si è interrotto bruscamente con l’agricoltura industriale: riduzionista, ubiquitaria, dissipativa e insostenibile. Della tradizione orale di tali saperi scientifici vernacolari il paesaggio è il prodotto ma anche il portatore e le sue trame ne rappresentano l’unico documento “scritto”. In tal senso si è definito il Paesaggio agrario Tradizionale (PAT) come il prodotto del bio accumulo dell’esperienza locale; spazio informato di saperi agronomici scientifico-sperimentali, elaborati nei lunghi tempi della coevoluzione tra popolazione insediata e località e prodotto sito-specifico che la cultura locale ha generato in stretta aderenza alle possibilità fornite dai dati ambientali. Il PAT corrisponde al climax per l’ecosistema agrario in quanto stabile e complesso, teso a ospitare il maggior numero di relazioni eterotipiche, di biomassa stoccata (coltura promiscua) di habitus vegetali, di configurazioni spaziali (ecofields), di habitat di specie, selvatiche e domestiche, di ecotipi e cultivar locali differenziate in secoli di selezione genetica ad opera dei coltivatori. In ultima sintesi il paesaggio agrario tradizionale rappresenta anche il paradigma di agroecosistema ad alta valenza ecologica, produttore efficiente di servizi ecosistemici e di altre multifunzionalità, oltre che di eccellenze agricole e di amenities nonché condensatore di saperi tradizionali secolari. A caratterizzare gli ultimi decenni della tutela del territorio, supportata dalle politiche agrarie comunitarie, è stata l’importanza riconosciuta ai paesaggi culturali tradizionali. Il merito dell’interesse è da anche ascrivere alla Convenzione Europea del Paesaggio che, uniformando le definizioni del concetto, ha sancito, al contempo, 278
l’introduzione di una interazione fondamentale tra sistema abiotico e biotico, tra caratteri naturali, ingegno dell’uomo e sua percezione (art. 1 European Landscape Convention 2000 di Firenze). La sua strategia si basa sul rafforzamento di una conoscenza complessiva del paesaggio europeo ai fini di tracciare azioni per una corretta conservazione e soprattutto per poter identificare le aree prioritarie da preservare (Shapcott et al. 2015; Tulloch et al. 2015). Un inventario diviene, per tal motivo, un riferimento essenziale per acquisire piena conoscenza della consistenza e della variabilità dei paesaggi, sia all’interno di una nazione o di tutta l’Europa. Da allora numerosi studiosi si sono cimentati nella mappatura dei paesaggi, anche a differenti scale. A livello europeo, un’identificazione e mappatura interessante appare quella di Meeus (1995) che attraverso un prospetto tipologico ha individuato differenti paesaggi con una forte identità1. Altri tentativi, molti dei quali a livello nazionale (Bunce et al. 1996; Pinto-Correia 2002), nonostante gli interessanti risultati sono stati dettati da approcci settoriali. Ne sono da esempio le ricerche in campo agricolo-forestale, a diversi livelli di approfondimento, basati sulle tipologie di coperture della vegetazione naturale e dei sistemi agrari e forestali; o ancora le catalogazioni di paesaggi intesi come diversità della vegetazione che descrive la variabilità della biodiversità presente (Progetto BioHab, Bunce et al. 2001 e 2006). In Italia, a partire dalle ricerca sui paesaggi rurali storici di Agnoletti et al. (2010), da quasi un decennio, un gruppo di ricercatori con differenti bagagli culturali e conseguenti approcci ha cercato di sopperire alla mancanza di un quadro conoscitivo completo sui paesaggi agrari tradizionali. I profondi mutamenti economici relativi allo sviluppo di una produzione orientata alla monocoltura stanno infatti sottoponendo i paesaggi complessi a forti cambiamenti che ne mettono a rischio la sopravvivenza, in un futuro non troppo lontano. L’identificazione, la caratterizzazione e la valutazione integrata del loro stato di funzionamento corrisponde quindi al primo passo per una auspicata tutela e conservazione. Attraverso due progetti di rilevanza nazionale finanziati dal Miur2 il gruppo di ricerca ha definito una metodologia di analisi multidisciplinare e integrata, componendo un quadro nazionale dei paesaggi agrari tradizionali (Barbera et al. 2014). 1 Nell’area mediterranea sono stati identificati i seguenti paesaggi: il Mediterranean open field (Paesaggio mediterraneo dei campi aperti); Mediterranean semi-bocage (Paesaggio mediterraneo dei campi semi-chiusi); Montados/Dehesa (Paesaggi dei prati-pascoli e seminativi arborati); Delta e Huerta (Paesaggio costiero e delle grandi pianure delle foci fluviali delle colture intensive); Terraces (Terrazzamenti) e Mountains (Paesaggi montani mediterranei) (Meeus, 1999). 2 Il PRIN 2007 I paesaggi tradizionali dell’arboricoltura italiana e il PRIN 2011 I paesaggi tradizionali dell’agricoltura italiana: definizione di un modello interpretativo multidisciplinare e multiscala finalizzato alla pianificazione e alla gestione sono stati coordinati a livello nazionale dal Prof. Giuseppe Barbera e le unità locali coinvolte sono state le seguenti: Università degli Studi di Palermo; Consiglio Nazionale delle Ricerche; Università degli Studi di Catania; Università degli Studi di Firenze; Università degli Studi di Napoli Federico II; Università degli Studi della Tuscia; Università degli Studi di Torino; Università degli Studi del Molise; Università degli Studi di Roma La Sapienza; Università degli Studi di Milano; Università degli Studi di Perugia e Università Politecnico di Milano. 279
L’indagine nazionale ha visto, in primo luogo, il riconoscimento delle Unità di Paesaggio (d’ora innanzi UPA) agli anni ‘60 e a livello regionale. La scelta di tale data è da ricollegare ai sostanziali cambiamenti che, proprio in quegli anni, investivano il territorio italiano, tutto. L’infrastrutturazione del territorio; i fenomeni di urbanizzazione, lo sviluppo del turismo (principalmente lungo la linea costiera); gli incendi boschivi e i rimboschimenti; le ricadute delle riforme agrarie; le politiche di bonifica terriera e l’irrigazione dell’entroterra siciliano; l’intensificazione dell’agricoltura nelle zone di pianura e collinari e l’abbandono dei terrazzamenti agricoli dell’entroterra hanno, allora, contribuito a determinare le più recenti modifiche e alterazioni del paesaggio agrario (Barbera, Cullotta 2012; Salvati et al. 2014). La definizione delle UPA deriva quindi dalla lettura e confronto delle fonti cartografiche storiche usate come layers informativi, assieme alle fonti bibliografiche. Le UPA, la cui nomenclatura deriva dal Catasto agrario e dalla terminologia riscontrata nelle fonti bibliografiche, sono state analizzate nelle loro componenti colturali e in comparazione con l’attuale uso del suolo, rilevato dal IV livello del Corine Land Cover, 2012. Lo studio dell’uso del suolo non ha evidenziato solo le variazioni colturali, ma rilevato quelle colture permanenti nel cinquantennio e oggi possibili paesaggi tradizionali. La sovrapposizione di ulteriori layers informativi riguardanti gli aspetti percettivi, le sistemazioni idraulico-agrarie e le infrastrutture agrarie, ancora presenti e in uso nel territorio, hanno confermato o meno la presenza di un paesaggio agrario tradizionale (Barbera et al. 2014) (figura 1).
Fig. 1 Percorso metodologico per l’identificazione dei paesaggi agrari tradizionali. Elaborazione propria
Il gruppo di ricerca dell’unità locale dell’Università di Palermo ha focalizzato il suo lavoro nell’area dell’Italia mediterranea. In quest’ambito le terre sono state sapientemente modellate e ridisegnate da generazioni di agricoltori e questo ha fatto di esse aree fortemente distinte per complessità e diversità (Blondel, Aronson 1999, Braudel 1986; Grove, Rackham 2002; Blondel 2006). La coltivazione dei seminativi, oliveti, vigneti, colture miste e frutteti e altri sistemi agricoli e agro-forestali multi-funzionali sono tra i più importanti esempi di agricoltura tradizionale del Mediterraneo (Barbera, Cullotta 2014). In Sicilia, le UPA rilevate sono state 36 (figura 2) e nelle aree interne, un paesaggio tradizionale particolarmente interessante, riconosciuto fin dal periodo romano, può essere 280
sintetizzato con la distesa di colture a campo aperto. L’importanza delle coltivazioni a seminativo ha sempre risieduto nell’organizzazione economica aperta al mercato che, non basandosi esclusivamente sulle specie frutticole e orticole, è stata in grado di assicurare stabilità ambientale e produttiva.
Fig. 2 Le unità di paesaggio identificate nel territorio siciliano. Elaborazione propria
In questo modo nelle aree a minor declivio, ma che si spingono oltre i 500 m slm, il sistema colturale prevalente è risultato essere quello dei seminativi e pascoli arborati, gestito come sistema del maggese semplice. Questo paesaggio della Sicilia interna è stato spesso evocato da studiosi e scrittori anche per le connessioni con il latifondo e il suo carattere feudale. «Campi di grano senza fine si alternano con fave e sulla [e, a seconda delle stagioni, connotano paesaggi differenti: in primavera] distese di verde tenero del grano, grigioverde delle fave, rosso porpora della sulla, e nei maggesi il verde vario delle erbe selvatiche infiorato di mille corolle. [In estate] quando il grano biondeggia, altri campi sono già calvi. [Presto le mietitrebbie, alzando grandi polveroni, raccoglieranno i corposi chicchi dorati e il terreno si trasformerà] in una landa brulla di stoppie [sapientemente] bruciate e avvampate sotto il solleone» (Sereni 1963, 187). Il sistema colturale estensivo che definisce la vastissima area granaria della Sicilia centrale, nei decenni, si è andato arricchendo di una componente infrastrutturale e di servizi che lo rendono oggi paesaggio agrario tradizionale. La viabilità imperniata sulle regie trazzere - spesso originariamente strade di transumanza - importanti e 281
strutturati edifici di pertinenza, così come alcuni manufatti rurali destinati al ricovero delle produzioni agrarie o degli attrezzi. In particolare l’ambito 2 denominato “Latifondo a grano duro del trapanese” è connotato da numerose e imponenti insediamenti puntuali: masserie agricole fortificate, casamenti degli ex feudi, a corte prevalentemente chiusa e chiamati “bagli” che si alternano con le puntuali case rurali dei contadini, i macaseni, sorti in seguito al frazionamento delle grandi proprietà. Si sono delineati, in tal modo, quei luoghi sapientemente descritti dai termini dialettali locali (Nicosia 2014). e lunghi profili descritti da viaggiatori e ancora visibili ai nostri occhi per cui da «un capo all’altro dell’orizzonte correvano cavalloni di montagne, e il numero delle vette, delle creste delle ondulazioni era infinito. Quando la luce diveniva più chiara potevamo scorgere il suolo coperto dal grano nascente, come da una verde peluria, attraverso la quale trasparivano qua e là chiazze di terra sanguigna» (Vuillier 1896). Oggi queste aree interne della Sicilia vanno ripensate a partire dal riconoscimento dei loro valori colturali e culturali. In questi anni si è assistito a un aumento delle produzioni di grani autoctoni: tumminia, russeddu, timilia, maiorca, ecc, con cui i piccoli agricoltori sfidano la concorrenza granitica delle multinazionali e garantiscono il presidio del territorio e la sua tutela. Le politiche agricole di pari passo con quelle pianificatorie sono, più che mai, chiamate oggi a individuare e vincolare i paesaggi culturali, ma soprattutto sono reclamati per rendere possibile e progettare attivamente una nuova relazione tra lo spazio di lavoro e le comunità che rendono possibile l’esistenza di questi luoghi. Solo allora si potrà trovare il coraggio che ebbe Goethe (1816, 287) nel cambiare il percorso, invertire la rotta, allora diretta a Siracusa, e seguire «il grillo ostinato», attraversare l’interno dell’isola e per scoprire il «deserto della fertilità» su cui sperimentare e cercare un nuovo limite alla «sopportabilità umana nell’essere [solo] contadini» (Vittorini, 1961,7).
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Il paesaggio agrario in Sicilia orientale tra costa tirrenica e pendici dei Peloritani Il sistema territoriale dell’edilizia rurale della Piana di Milazzo. Francesca Passalacqua
Paesaggio agrario e Peloritani Il paesaggio rurale peloritano, area geografica a nord-est della Sicilia, si presentava, ancora a fine Ottocento, «come uno dei più significativi esempi e modelli di organizzazione umana dello spazio agricolo dominato dall’uomo e dalle sue tecniche, che ne avevano permesso una razionale e minuta utilizzazione»1. Il torrente Alcantara, che sfocia sul mar Ionio, e il torrente Mazzarà sul Tirreno, delimitano un territorio in cui la catena montuosa dei Peloritani si irrobustisce dalla punta estrema dell’isola verso i monti Nebrodi a occidente e le propaggini dell’Etna a sud-est. Fiumare di media portata si aprono sui due mari attraverso solchi erosivi che hanno generato valli che costituiscono gli assi di penetrazione orografica. Sul versante ionico il rilievo, molto prossimo alla linea di costa, determina una forte pendenza dei letti fluviali delle fiumare, diversamente dal versante tirrenico, che è segnato da un profilo più ampio e vario e talvolta asimmetrico, con corsi d’acqua più lunghi. L’articolato sistema orografico ha generato un territorio costiero piuttosto ristretto e discontinuo, tranne per alcune zone alluvionali, quali la Piana di Milazzo sul Tirreno e la vasta area compresa tra i torrenti Annunziata e Larderia, su cui si estende la città di Messina, sino a Capo Peloro, estrema punta a Nord dell’isola. Gli insediamenti urbani formatisi nel corso dei secoli sui declivi di entrambi i versanti, durante il XIX secolo, hanno subito uno spopolamento progressivo, e gli abitanti sono migrati verso la costa, generando i primi aggregati lineari di proliferazione dai centri più interni, a cui è seguita la costruzione degli assi di comunicazione ferroviaria e stradale sui litorali ionico e tirrenico, collegati poi con i centri più interni attraverso strade che ricalcavano le primitive mulattiere e i sentieri campestri, lungo le valli normali al rilievo. Il carattere di tali insediamenti, la destinazione colturale poco diversificata della superficie agraria, la complementarietà che la superficie agricola aveva assunto in quest’area con le attività terziaria e secondaria – data dall’attrazione e dall’influenza 1 M. T. Aleruzzo Di Maggio, I Peloritani in M. T. Sleruzzo Di Maggio, C. Formica, A. Fornaro, J. Gambino, C. Pecora, G. Ursino, La casa rurale nella Sicilia orientale, Olschki, Firenze, 1973, p. 14. 285
della città di Messina, che si espandeva sugli assi costieri emarginando l’immediato entroterra – hanno determinato una diffusa omogeneità dei tipi di dimora che insistono in quest’area. Nel versante ionico gli abitati, allungati a nastro sulle strade, hanno motivi e strutture architettoniche di estrema uniformità e monotonia. Le dimore si susseguono in un unitario fronte edilizio sulla strada, formando una bordura costiera compatta. Semplici nella struttura, sono prive di varianti notevoli, accorpate in omogenee teorie di cellule unifamiliari. Le dimore rurali del versante tirrenico si snodano anch’esse a nastro sulla litoranea e appaiono più complesse nella struttura e nella funzione, aderendo all’economia agricola più varia e sostanzialmente più ricca del territorio (fig. 1).
Fig. 1 Paesaggio agrario e monti Peloritani. Il territorio delimitato dai torrenti Alcantara e Mazzarà; di seguito (in senso orario) la costa ionica, il torrente Mazzarà e la dorsale peloritana
L’area territoriale dei Peloritani sino alla seconda metà del XIX secolo era una delle zone più popolate dell’intero territorio isolano. La superficie agraria era intensamente utilizzata, con varietà di colture arboree e tecniche agricole avanzate, e il territorio si arricchiva di un cospicuo numero di case sparse e casali. Sino agli anni ’50 del Novecento gli addetti al settore primario erano tra il 61% ed il 64%, malgrado la popolazione si era già spostata verso le “marine”2. La deruralizzazione e la conseguente migrazione della popolazione hanno poi fortemente diminuito i livelli occupazionali agricoli, e lo sviluppo, negli anni ’60, di importanti insediamenti industriali, come la raffineria petrolifera sulla Piana di Milazzo, ha modificato radicalmente un territorio coltivato da sempre a “giardino” agrumario. 2 Ivi, p. 12. 286
Gli insediamenti rurali nella Piana di Milazzo Un ambito territoriale particolare, dove, ancor oggi, malgrado la presenza di insediamenti industriali, insistono molti agglomerati agricoli, è proprio la Piana intorno Milazzo, centro tirrenico in prossimità di Messina. Il processo di antropizzazione del territorio intorno la cittadina presenta delle peculiarità legate alla particolare morfologia dei luoghi. Già nel XVI secolo la città era costituita da tre nuclei principali. Il Castello, sul rilievo meridionale del promontorio, il Borgo, sul declivio collinare, e la Terra Nuova, in prossimità dell’istmo. A Sud, delimitata dalle prime propaggini peloritane e conclusa dalla sottile lingua di terra che la collega al promontorio proteso sul mare, si estende una vasta pianura alluvionale chiusa tra due torrenti e il mare. Il territorio della Piana milazzese è fisicamente definito dai suoi confini naturali: due torrenti, come accennato, il Mela e il Floripotema, delimitano l’area chiusa a nord dall’istmo della città e a sud dalla prima curva di livello che interrompe la pianura attraverso la strada panoramica dell’abitato di San Filippo del Mela. Il terreno è costituito da sabbie, ghiaie e argille fluviali trasportate dal sistema dei torrenti. Si individua, poi, a profondità variabile, una fascia di argille azzurre, che denunciano l’ingressione marina. Questa intercalazione di argille rende la zona densa di falde acquifere. I torrenti Mela e Floripotema (quest’ultimo denominato anche Corriolo), limiti naturali dell’area, hanno pertanto definito la formazione della Piana, unico territorio fertile pianeggiante di vaste dimensioni in prossimità della costa tirrenica dei monti Peloritani. Il torrente Mela, lungo circa 23 km, ha origine dalla stretta gola di Merì, e allargava il suo letto attraversando le odierne contrade Due Torri e San Pietro, per poi sfociare nell’attuale area portuale della città di Milazzo, fu poi deviato verso Occidente nel corso del XVI secolo per evitare i danni di continue inondazioni. Il torrente Floripotema (13 km) scorre invece al centro della Piana sino all’abitato di Corriolo3. Il terreno della Piana è costituito da sabbie, ghiaie e argille fluviali portate dalle fiumare, intercalati a una profondità variabile da una fascia di argille azzurre, di colorazione bruna, le quali indicano una ingressione marina. A causa di questa intercalazione di argille, la zona è ricca di falde acquifere. I torrenti, pertanto, hanno contribuito in modo attivo alla formazione di questo vasto territorio e al suo sviluppo agricolo4 (fig. 2). La Piana di Milazzo, pertanto, grande distesa territoriale ricca e produttiva, che già nel passato ospitava insediamenti destinati alle attività agricole, si consolidava nel corso dei secoli con piccoli agglomerati urbani e si punteggiava tra l’Ottocento e il Novecento di insediamenti rurali molto diffusi nel territorio destinato alla popolazione agricola, proprietaria di piccoli appezzamenti di terreno. In questi luoghi, però, erano già presenti alcune masserie intese come estrinsecazione del 3 E. Perrone, Corsi d’acqua in Sicilia, Ministero dell’Agricoltura, Industria e Commercio, Carta Idrografica D’Italia Roma, 1909; Si veda anche P. Mazzeo, Note sulla rete idrografica del versante tirrenico della provincia di Messina in «Humanities», Anno 1, Numero 1, Gennaio 2012, pp. 82-93. 4 G. Fuduli, Le Ville del Capo e le Masserie della Piana in Momenti e figure della storia di Milazzo in «Atti della società Milazzese di Storia Patria», vol. 2, Sfameni, Messina, 2002, pp.193-200. 287
potere feudale. La residenza padronale si distingueva dalle altre costruzioni, per l’importanza della struttura, separata nettamente sia dagli altri corpi funzionali all’azienda agricola quali palmenti, trappeti, magazzini e stalle, sia dalle dimore dei contadini. Strettamente connessi all’abitazione padronale erano certamente la chiesa, alla quale si accedeva direttamente dall’alloggio principale e talvolta il carcere, a testimoniarne l’antica funzione giurisdizionale. La logica insediativa delle masserie milazzesi ha avuto un rapporto molto forte con un paesaggio ricco di agrumeti, uliveti e vigneti, che rimanda alle tradizioni agricole mediterranee; buona parte di queste strutture è dislocata in maniera diffusa al centro o al confine di fitti orditi vegetali, disegnando una griglia ortogonale di appezzamenti diversamente coltivati. La delimitazione fisica dell’area, data dal sistema dei torrenti, ha contribuito fortemente allo sviluppo agricolo di un territorio naturalmente produttivo.
Fig. 2 Milazzo (Me). Topografia del Comune di Milazzo (da Zirilli, 1878)
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Forme e caratteri tipologici Vivono tutti in campagna sui luoghi che custodiscono e coltivano, perochè ogni predio, per quanto piccolo, ha l’abitazione pel custode e per la sua famiglia oltre a’ fabricati necessari per la spedizione e conservazione de’ prodotti, come risulta dalle innumerevoli casette che si osservano sparse nelle campagne, così che a ogni passo ne incontri qualcuna o più d’una, e transitando non sei mai solo e trovi ad ogni pié sospinto ajuli e conforti 5. Stefano Zirilli, con questo parole, nel 1878, fotografava la società milazzese alla luce dell’ultimo censimento, che rilevava la presenza di un gran numero di abitanti nella Piana. Nel 1871 la città di Milazzo contava un totale di 12190 abitanti così suddivisi: 7966 in Città, 3234 nella Piana e 990 nel Promontorio, mostrando una percentuale notevole di presenze all’esterno del centro abitato6. La piana alluvionale intorno la città poteva vantare colture intensive di olivi, agrumi e gelsi, ma la coltura predominante era la vite, la cui tradizione era presente nel territorio sin dal Cinquecento, tanto da produrre un vitigno autoctono detto Nocera, che sarà esportato in Inghilterra, Spagna e paesi orientali, sarà la crisi del 1929 a fare crollare un mercato che soltanto da pochi decenni stava cercando di riconquistare una posizione tra le aziende vinicole isolane e italiane. I luoghi di residenza e lavoro agricolo, pertanto, sono fortemente caratterizzati dagli ambienti del palmento e del trappeto, presenti in gran parte nelle masserie milazzesi7. La peculiarità del luogo, fertile territorio pianeggiante incastonato il limite montuoso interno e il promontorio fortificato di Milazzo, la vicinanza con altri centri abitati e le nuove vie di comunicazione sulla costa hanno fatto sì da diffondere capillarmente i complessi edilizi destinati alla residenza e alla produzione agricola, e, ancor oggi, le masserie presenti sulla piana di Milazzo, disegnando un caratteristico paesaggio agrario, sono circa cinquanta (fig. 3). La presenza di questi insediamenti rurali, destinati alla residenza (le case padronali) e al lavoro contadino (palmenti, trappeti, magazzini, stalle e dimore dei contadini), segnano, ancor oggi, un territorio frammentato da molteplici appezzamenti di terreno diversamente coltivati, e disegnano un caratteristico paesaggio agrario legato alla forte individualità del luogo8. Gran parte di esse risale ai primi decenni dell’Ottocento, altre invece hanno storie più antiche, fondate tra il XVII e XVIII secolo, e trasformate nel corso del tempo. Le modalità di diffusione di questi insediamenti non hanno mai seguito una regola, ma hanno disegnato un territorio di appezzamenti di terreno di forme e grandezze diverse con edifici rurali sparsi in modo diffuso in tutta l’area della Piana. Lo sviluppo compositivo di ognuna di queste costruzioni è rintracciabile nella logica della funzionalità, legata al tipo di attività che si svolgeva, e i caratteri tipologici e costruttivi sono dettati dalla semplicità e dalla destinazione d’uso della struttura. 5 S. Zirilli, L’agricoltura nel territorio di Milazzo. Risposte alla Giunta parlamentare per l’inchiesta, Messina, Tipografia D’Amico, 1878, p. 5. 6 Ivi, p. 4. I dati sono desunti dal censimento del 31 dicembre 1871. 7 M. Tricamo, La città del vino: storia viti-vinicola di Milazzo dall’Unità al fascismo, Litografia Lombardo, Milazzo, 2007, pp. 9-10. 8 G. Foti, I luoghi della trasformazione, Rubbettino, Catanzaro, 2004, pp. 29-57. 289
Fig. 3 Milazzo, Cartografia della Piana (Butterfield of Milazzo, 1860); veduta del territorio della città dlla Piana verso il promontorio. Localizzazione degli insediamenti agricoli più rilevanti
L’edilizia rurale è una sapienza costruttiva che si tramanda di generazione in generazione. Nulla è superfluo. I materiali edilizi sono l’elemento centrale della costruzione della casa, della trasformazione dell’ambiente fisico e del paesaggio circostante. Le tecniche costruttive sono sempre determinate dalla natura dei materiali e non riflettono mai una moda. La forma dei fabbricati segue la funzione, adattandosi alla docilità e alla possibilità del materiale costruttivo, di volta in volta, utilizzato. L’estetica di questa architettura è dettata dalla vita agricola; la bellezza della casa non discende tanto dalla preziosità dei suoi materiali, quanto piuttosto dall’armonia con cui si dispongono, gli edifici, i vari ambienti e gli spazi circostanti. Non è più l’architettura che si serve di una tecnologia costruttiva, ma la tecnologia che si fa “naturalmente” architettura, inventando soluzioni a problemi contingenti. Questi fabbricati sono il risultato di una lenta elaborazione nel corso dei secoli e con i caratteri intrinseci, e la loro originalità ed assenza di sfarzo si integrano naturalmente 290
l’ambiente. Questa particolare simbiosi che lega l’architettura rurale alla sua terra, facendone quasi una propaggine naturale del luogo in cui sorge, le ha assegnato l’attributo di “spontanea”, che non deve essere intesa come improvvisazione, ma al contrario, frutto di una esperienza maturata nei secoli per sfruttare al meglio le risorse locali. Un’architettura senza architetti che si origina direttamente dai bisogni e dalle risorse locali e che, proprio per questo suo stretto legame con il luogo, diviene capace di forgiare un proprio vocabolario figurativo destinato a durare nel tempo. La ricorrenza di certi usi costruttivi individua taluni elementi come identificativi di una specifica forma architettonica e questa stessa forma si trasforma, col passare del tempo, in una “tipologia inconfondibile e intrasportabile”9. La regola fondamentale nell’edilizia rurale è la semplicità delle strutture e la massima economia nella scelta dei materiali e nella costruzione. Le ville e i “palazzi” padronali, malgrado abbiano un impianto planimetrico semplice, talvolta godono di ricchi particolari architettonici: finiture quali cantonali, mensole dei balconi, cornici delle bucature e sommitali erano in pietra. La scelta della pietra era suggerita, se non proprio determinata, dalla geologia e dalla vegetazione del luogo o dalla immediata vicinanza di una cava. Le tipologie murarie erano realizzate, quasi esclusivamente, con pietre da muratura, pietre poco lavorate adeguate ai requisiti meccanici e ai criteri economici come la agevole reperibilità sui luoghi e la facilità di lavorazione. I tipi di pietrame maggiormente utilizzati per la costruzione degli edifici presi in esame sono metamorfiti, calcari, laterizi e frammenti di laterizi legati con malta a base di calce addizionata ad inerti provenienti da deposito fluviale. Le murature sono di varia granulometria, con pezzame di mattoni a completamento dell’apparecchiatura, generalmente tenuto insieme da malta di calce a sabbia. L’edilizia di questi insediamenti mostra, essenzialmente, due tipologie distinte: strutture di media o grande dimensione di proprietari di vasti appezzamenti di terreno, e la diffusa presenza di piccoli edifici con annessa una ridotta superficie da coltivare di gran parte della popolazione agricola10. Piccoli corpi edilizi monofamiliari si contrappongono a caseggiati in cui, all’abitazione del proprietario si affiancano gli ambienti del lavoro agricolo dislocati, secondo i casi, in modo diversificato. La residenza agricola, costituita da edifici modesti e lineari, è pertanto la protagonista assoluta di un territorio lottizzato con forme geometriche regolari, che disegnano un singolare paesaggio agrario dalle molteplici essenze, che si sono andate via via riducendo nel corso del tempo e i cui confini sono delimitati soltanto da filari arborei. Un’indagine sulle residenze e sui luoghi di produzione agricola ha rilevato diverse tipologie aggregative degli spazi abitativi e lavorativi che nella diversità restituiscono un paesaggio agrario singolarmente omogeneo. In molti casi non si presentano come vere e proprie masserie, ma lo sviluppo è ben più complesso. Molte nascevano come ville di campagna. Grandi edifici autonomi, organizzati su due livelli e definiti da ricchi particolari architettonici. Piccoli palazzi padronali, sempre su due elevazioni, sono invece l’elemento aggregante di più corpi 9 Sull’argomento si veda S. Agostini, Architettura rurale: la via del recupero, Franco Angeli/ Urbanistica, Milano, 1999. 10 M. T. Aleruzzo Di Maggio, I Peloritani, op. cit., p. 23. 291
edilizi. Intorno all’abitazione del proprietario si costruivano le case coloniche, modeste abitazioni, quasi sempre a unico livello, con poche aperture e copertura a doppia falda in legno e coppi. Affiancati, i magazzini e gli edifici destinati alla lavorazione delle olive e della vite. Alcuni di questi agglomerati, punto di riferimento di vasti appezzamenti di terreno, sono delimitati da importanti portali d’accesso, e talvolta vi era anche la cappella privata della famiglia possidente (fig. 4).
Fig. 4 Milazzo. Masserie della Piana. Profili principale di alcuni complessi edilizi
È possibile, pertanto, individuare varie tipologie aggregative nel territorio; il più complesso e, allo stesso tempo, il più completo, è l’impianto a corte chiusa, in cui si ritrovano tutti gli elementi tipici della masseria. Il “baglio”, cortile attorno al quale si dispone il resto degli edifici, il “palazzo”, la chiesa, il palmento, il frantoio, i magazzini e le case dei coloni. Il palazzo era generalmente a due piani, mentre il resto degli edifici si presentava solitamente a un unico livello. Il portale d’ingresso chiudeva infine l’intero complesso come una cittadella autonoma11. 11 Sull’argomento si veda M.L. Germanà, L’architettura rurale tradizionale in Sicilia: 292
Nell’impianto a corte aperta, invece, gli edifici si sviluppano su tre lati e difficilmente si trova il portale d’ingresso. Nonostante il complesso non sia più compatto, esso si presenta però organizzato attorno ad uno spazio aperto, inteso come punto di incontro e di lavoro. Prospicienti una strada o ai bordi di un percorso lineare, si dislocano i vari locali che compongono la masseria a pettine; il portale, in questo caso, è sostituito da un semplice cancello. Spesso, in molti di questi insediamenti, si trova la gebbia, una grande vasca dove si conservava l’acqua che permetteva di irrigare le terre mediante un sistema di canalette. Tra le strutture identificabili con tale tipologia, ancora integra, vi è la masseria Bonaccorsi in contrada Santa Marina. Collocata in posizione strategica all’interno della vasta area della Piana, risale ai primi anni dell’Ottocento. L’edificato riguarda una piccola porzione di un grande appezzamento di terreno coltivato prevalentemente a vigneti e frutteti. È una struttura esemplare dedicata all’agricoltura. La proprietà della famiglia Bonaccorsi è collocata in posizione strategica all’interno della Piana e si estende ancor oggi per circa mq 200.000. Gli edifici, posizionati lungo il perimetro della proprietà, sono affiancati dal pozzo con la senia che permetteva all’acqua di riempire la gebbia. Un sistema di canali ortogonali tra loro permetteva l’irrigazione dei campi attraverso le catusere. Il terreno era diviso in casedde, porzioni di terreno di forma quadrangolare. Il palazzo, articolato su due livelli, affaccia direttamente sulla strada. Gli altri ambienti affiancati al palazzo sono il palmento, i magazzini e la scuderia. La proprietà conserva ancora la senia, tra le meglio conservate nella piana, una serie di arcate sorretti da pilastri, su cui correva un sistema di canali che permettevano all’acqua, dal pozzo, di arrivare direttamente alla gebbia (fig. 5) (Alla tipologia a pettine possono essere attribuite anche le masserie Due Torri in contrada Olivarella, Guerriera Ventimiglia e Stella in contrada Santa Marina). L’impianto lineare è invece una tipologia che si sviluppa, solitamente, a filo strada. Gli edifici che compongono la masseria si susseguono l’un l’altro, facendo spiccare il palazzo padronale, rigorosamente sempre su due livelli; spesso accanto si trovano la chiesa e il cancello che permette l’accesso alla proprietà. In contrada Barone, la masseria omonima mostra allineati sul prospetto principale gli edifici essenziali che la compongono: il palazzo padronale, il palmento, la chiesetta settecentesca della Madonna del Carmine (la tipologia lineare trova altri esempi nelle masserie Zirilli, Due Bagli ed Elvira a contrada Santa Marina e nella masseria Muscianisi in contrada San Pietro). L’impianto puntiforme è, infine, il tipo più articolato e disomogeneo, a volte quasi casuale nella disposizione spaziale degli elementi. Scompaiono, in questi casi, alcuni elementi fondamentali, e prendono forma spazi legati allo sfruttamento del latifondo. Nascono spesso come ville di campagna isolate, a cui si aggregano, senza un disegno preciso, gli ambienti del lavoro contadino (sono riferibili all’impianto puntiforme il villino Bevaqua, la villa Torretta a Santa Marina, la villa Calcagno a Fiumarella e la Masseria D’Amico in contrada Grazia).
conservazione e recupero, Publisicula, Palermo, 1999. 293
Fig. 5 Milazzo. Masseria Bonaccorsi. Rilievo della proprietà, della casa padronale e della senia
La distribuzione planimetrica, la tipologia dei prospetti, gli elementi architettonici e strutturali degli edifici rivelano i caratteri che accomunano la maggioranza degli edifici di questi insediamenti: dalla residenza del proprietario (villa isolata o semplice palazzotto affiancato ad altri ambienti) alle cappelle private, le case dei coloni e gli ambienti della produzione12. Si distingue con chiarezza la villa isolata, un grande edificio organizzato su due livelli. Fondato come casa di campagna, si attrezzava nel corso del tempo di strutture edilizie dedicate alle attività di agricole. Il palazzo padronale invece, dalle forme semplici e lineari, prevedeva la realizzazione degli edifici affiancati a formare una piccola corte aperta o un baglio. Gli ambienti che testimoniano il lavoro dell’uomo all’interno di questi agglomerati edilizi sono invece il frantoio, il palmento e ancora la senia, la scuderia e i campi circostanti. 12 A. Teatino, Le Masserie e gli elementi che le caratterizzano in «Momenti e figure della storia di Milazzo», op. cit., pp. 209-214. Si veda inoltre: N. TORRE, Masserie ottocentesche nel territorio di Milazzo. Catalogazione e recupero, Tesi di laurea dattiloscritta, Università degli studi Mediterranea di Reggio Calabria. Facoltà di Architettura. Corso di laurea in Storia e Conservazione dei beni architettonici e ambientali. A.A. 2004-2005. 294
I frantoi - luoghi destinati alla frangitura e spremitura delle olive – presenti nella masserie milazzesi sono del tipo a macelli, cioè costituiti da una, due o tre pietre di granito o altro materiale molto resistente, cilindriche, di diametro variabile da 1m a 2 m, poggianti verticalmente sopra un’altra pietra dormiente della stessa natura (dal diametro variabile da 1.30 m a 3 m) che funziona, circondata da un orlo di muratura, da fondo della vasca (o pila) in cui si collocano le olive da molire. La raccolta dell’uva, invece, si concludeva nei palmenti, presenti anch’essi in gran numero negli insediamenti della zona. Sono ancora molte le strutture che conservano il torchio (un palo verticale con scanalatura a vite) inserito in alto, nell’estremità a forma di forca di una grossa trave orizzontale, fissata al muro; in basso era incastrato in una macina di pietra (o pressa). Il torchio, girato da animali o da uomini, alzava e abbassava la macina, che pressava le vinacce raccolte durante la vendemmia. Un’attenzione particolare meritano le piccole cappelle private affiancate a molti di questi insediamenti. Esse sono disseminate nel territorio e si caratterizzano per modeste forme architettoniche e patrimonio artistico. Questi piccoli edifici sorgono all’interno dei complessi rurali, e si identificano con una tipologia ricorrente: una piccola aula con tetto a capriate e una facciata di ordine unico caratterizzata da un portale in pietra sovrastato talvolta dallo stemma della famiglia proprietaria del fondo. Tra le più antiche, di fondazione seicentesca ma ricostruita nel corso del Settecento, vi è la cappella di San Pietro apostolo della masseria Faraone-Lucifero. L’interno, a navata rettangolare, è diviso in due vani e la facciata, dalle forme semplici, è sovrastata da un piccolo campanile a vela (fig. 6).
Fig. 6 Milazzo. Masserie della Piana. Alcuni esempi di superstiti cappelle private
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I piccoli edifici chiesastici, come le case padronali e le ville, sono spesso ancora utilizzati, diversamente dagli ambienti adibiti a palmenti, frantoi e magazzini che, malgrado l’abbandono, conservano ancora le testimonianze essenziali del lavoro contadino e dimostrano - scriveva Giuseppe Pagano Pogatschnig (1896-1945) - come «la casa contadina sia un documento di architettura pura, astilistica, frutto spontaneo e quasi sovrastorico di una serie di elementi e condizioni esterne, quali il materiale edilizio, il clima e la struttura economica della produzione agricola di un luogo».
Bibliografia Agostini S., Architettura rurale: la via del recupero, Franco Angeli/ Urbanistica, Milano, 1999. Foti G., I luoghi della trasformazione, Rubbettino, Catanzaro, 2004. Germanà M.L., L’architettura rurale tradizionale in Sicilia: conservazione e recupero, Publisicula, Palermo, 1999. Perrone E., Corsi d’acqua in Sicilia, Ministero dell’Agricoltura, Industria e Commercio, Carta Idrografica D’Italia, Roma, 1909. Sleruzzo Di Maggio M. T., Formica C., Fornaro A., Gambino J., Pecora C., Ursino G., La casa rurale nella Sicilia orientale, Olschki, Firenze, 1973. Tricamo M., La città del vino: storia viti-vinicola di Milazzo dall’Unità al fascismo, Litografia Lombardo, Milazzo, 2007. Zirilli S., L’agricoltura nel territorio di Milazzo. Risposte alla Giunta parlamentare per l’inchiesta, Tipografia D’Amico, Messina, 1878.
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Il paesaggio agrario dalle coste alle pendici dei Peloritani. Politiche agro-turistico-culturali Ornella Fiandaca
I valori identitari del paesaggio agrario messinese Un luogo non è mai solo “quel” luogo: quel luogo siamo un po’ anche noi. In qualche modo, senza saperlo, ce lo portavamo dentro e un giorno, per caso, ci siamo arrivati. Antonio Tabucchi
La necessità di un’esplicitazione dell’espressione “paesaggio agrario” ha preceduto la lettura di questo territorio esteso dalle coste alle pendici dei Peloritani per l’individuazione dei valori identitari da assumere come capisaldi di aggettivazione. Un fondamento dialettico può essere ricondotto alla Convenzione europea del paesaggio (Firenze 2000) che ne ha dato una prima visione “formale” identificandolo con una porzione di territorio, così come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni.1 Accezione ribadita dal Codice dei beni culturali e del paesaggio (art. 131, comma 1 del DLgs 22 n. 42 del 2004) nell’attribuirvi il senso di una parte omogenea di territorio i cui caratteri derivano dalla natura, dalla storia umana o dalle reciproche interrelazioni.2 Possono desumersi da queste definizioni ufficiali alcune invarianti: quel che sostanzia il “paesaggio agrario”, e cioè le sue componenti naturali assoggettate a “manipolazioni” antropiche (nel bene o nel male); l’esigenza di un punto di vista, di una percezione collettiva (che non dovrebbe essere tuttavia univoca); sotto traccia il riconoscimento di qualità di ordine estetico e/o artistico (attestazione assai debole).3 Potremmo, rafforzandone il senso, affermare che si tratta di una “intuizione lirica del sentimento”, attribuendo valore a risorse rurali “antropizzate” e per questo depositarie di contenuti culturali ma, ancor più, capaci di suscitare una partecipazione emotiva; 1 La Convenzione europea del paesaggio è stata adottata dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa a Strasburgo il 19 luglio 2000 ed è stata aperta alla firma degli Stati membri dell’organizzazione a Firenze il 20 ottobre 2000. Si prefissa di promuovere la protezione, la gestione e la pianificazione dei paesaggi europei e di favorire la cooperazione. 2 Decreto Legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 - Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell’articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137, art. 131, comma 1. 3 G. Bufalino, L’isola nuda, fotografie di G. Leone, Bompiani, Milano, 1988. 297
fonte di percezione e ispirazioni diverse di una cultura tangibile (naturalistica, letteraria, progettuale, artistica, ecc.). Esistono morfologia, topografia, clima che rendono un contesto naturale adatto per “vocazione” ad accogliere trasformazioni antropiche, ma anche a opporvisi. La territorializzazione è, in tal senso, la “presa di possesso” di uno spazio geografico, una trasformazione tesa ad addomesticare, interpretare, sfruttare, introdotta dall’uomo.4 Un luogo, e non uno spazio, si propone a noi e sollecita sensazioni correlate alla nostra formazione. Con questa consapevolezza ho ripescato nella memoria immagini e suggestioni di alcuni contesti insediati sulle dorsali, ionica e tirrenica, dei Peloritani e altre ne ho stratificate tornando ad attraversarle per strutturare una visione sintetica di alcuni valori identitari e irrinunciabili. Il territorio analizzato è caratterizzato da una stretta linea di cresta, che degrada con pendenze differenti sulla dorsale ionica e tirrenica generando fisionomie agrarie con identità specifiche in termini di contenuti biotici e abiotici, agro-forestali e culturali. Questo resoconto “emotivo” non può prescindere da torrenti e fiumare che con diversa morfologia e irruenza si dipartono dai crinali per confluire a mare. La forma dell’acqua adottata quindi come strumento d’individuazione delle differenze dei paesaggi agrari della dorsale ionica, incisa da numerosi e ravvicinati torrenti paralleli, accidentata e molto più acclive rispetto alla dorsale tirrenica, attraversata da larghe fiumare, che dalle cime si inoltrano in colline pedemontane e si riversano su ampie fasce costiere. Una morfologia idrogeologica che determina quindi peculiarità nell’organizzazione di delle colture, tessuto rurale, infrastrutture idrauliche. Guardando alle modalità di gestione del territorio prevalgono quali valori identitari “i paesaggi a terrazza” con coltivazione di agrumi e frutteti (in passato gelsi e gelsomini) prevalenti nelle aree intervallive sui torrenti del versante ionico, presenti solo nelle alture del versante tirrenico, caratterizzato piuttosto dalla piana di Milazzo che si estende ai territori contigui di Barcellona, Mazzarrà Sant’Andrea, Terme Vigliatore, laddove prevalgono i paesaggi vivaistici e serricoli.5 Ulivi secolari, vigneti, frutteti, agrumi caratterizzano le aree collinari. Le creste su entrambi i versanti presentano boschi artificiali caratterizzati da lecci e roverelle, cedri e pini di varia specie (marittimi, domestici, d’Aleppo) come rinaturalizzazione degli anni ’50, conseguente al depauperamento di gelsi, agrifogli e quercie secolari. Incendi, disboscamenti per usi industriali e abbattimenti dovuti a speculazioni edilizie ne furono le cause. Il sottobosco è composto da un misto prevalente di piante indigene di cisto, erica, robinia, ginestra. Sul versante tirrenico, nella parte più prossima ai Nebrodi si aggiungono faggi, noccioli e castagni.6
4 F. C. Nigrelli, Identità tra tribalismo e condivisione, relazione presentata in occasione del ciclo di incontri Sicilia dunque penso. L’isola che non c’era, 10-14 ottobre 2014, Caltanissetta. 5 ARPA (Agenzia Regionale per la Protezione dell’Ambiente), I paesaggi a terrazze in Sicilia Metodologie per l’analisi, la tutela e la valorizzazione, Allegato 14 PSR 2014-2020, Studi e Ricerche Vol. 7, Palermo, 2015. 6 AA.VV., I boschi di Sicilia, Edizioni Arbor, Palermo, 1992. 298
Questa strutturazione del territorio ha influito sugli insediamenti agricoli che sono arroccati e accentrati sul versante ionico in borghi e villaggi (il sistema delle masse), mentre si caratterizzano come masserie polinucleari sparse al centro di appezzamenti dal litorale fino alle prime pendici della dorsale tirrenica: l’eco, ormai lontana, di villefattorie di una nobiltà rurale che annetteva alla residenza principale con cappella privata, magazzini e opifici, le case di contadini e mezzadri.
Fig. 1 Processi di territorializzazione della Dorsale Ionica: i paesaggi a terrazza dalle aste fluviali ai crinali Uno dei valori identitari del paesaggio agrario del versante ionico dei Peloritani è costituito dalla capacità di domare un territorio impervio; attraverso le armàcie, muri a secco in pietra calcarea sono stati ricavati dei ripiani coltivabili nell’area che dalla fiumara di Camaro giunge alle pendici dell’Etna come si evince dalle cartografie elaborate dall’ARPA (Allegato 14 PSR 2014-2020)
Un tipo monocellulare, nelle declinazioni dialettali cùbburu/casotto/qubba, è presente nelle zone destinate a seminativo e pascolo come riparo temporaneo. Si tratta di costruzioni realizzate con muratura a secco di pietra calcarea e copertura a cupola inscrivibile in una semisfera di lastre scistose poste in aggetto. Altrettanto caratterizzanti sono le armàcie, tipici muretti in pietra calcarea a sostegno di terrazzamenti e pendii.7 La forza motrice correlata ai corsi d’acqua oltre che condizionare il tessuto rurale ha “disegnato” le infrastrutture idrauliche che sui due versanti hanno assunto configurazioni peculiari. 7 AA.VV., Tecnologia del recupero del paesaggio agrario, in G. Foti (a cura di), I luoghi della trasformazione: metodologie conoscitive e tecnologie, Rubettino, Soveria Mannelli, 2004, pp. 29-53. 299
Così, per i mulini, un salto d’acqua modesto, tipico delle fiumare pedemontane tirreniche, intercettato da una prisa consentiva di alimentare in caduta una ruota “di petto” orizzontale, detta a palette o semicucchiaie, posta a valle della saitta, (torre troncoconica per incrementare la velocità dell’acqua), con l’artificio di proiettare con foga un getto idrico non rilevante direttamente sulle pale tramite canalizzazioni mirate. La ruota orizzontale trasportava nel moto u fusu, albero ligneo connesso a un sistema di macine, la girante sulla dormiente, u currituri sopra u frascinu, che per sfregamento disgregava i chicchi del cereale riversati da una maidda, (la tramoggia) nello spazio regolato fra loro da un meccanismo a leva, per produrre la farina convogliata quindi in un cassone, a cascia.
Fig. 2 Processi di territorializzazione della Dorsale Tirrenica: dalla Piana di Milazzo ai crinali boschivi Uno dei valori identitari del paesaggio agrario del versante tirrenico dei Peloriani è costituito dalla presenza di tre fasce distinte, litoranea, collinare e montana con fisionomia del tessuto rurale rispettivamente serricola e vivaistica, terrazzata e boschiva
Tecnologie più raffinate introdussero, diffusamente nelle zone collinari e pedemontane ioniche, alla possibilità di sfruttare più efficacemente il salto d’acqua con l’alimentazione “dal di sopra” di una ruota “a cassette” verticale con diametro pari al dislivello, così da fruire nel moto di rotazione del peso in caduta oltre che la forza della corrente. I pioli di una ruota parallela, u ruettu, interna ingranavano un ruotino, a cunocchia, che traduceva il moto da verticale a orizzontale e lo trasferiva a un albero metallico solidale. La camera delle macine era la stessa e analogo il processo molitorio.8
8 O. Fiandaca, All’origine era l’acqua: i mulini a palmenti di Messina, Aracne, Roma, 2009. 300
Macchine idrauliche per il sollevamento delle acque, le “senie”, hanno caratterizzato con differenze impercettibili il tessuto rurale dei due versanti peloritani ovunque vi fossero colture che richiedevano irrigazioni continue come nel caso delle piantagioni di agrumi. L’acqua si attingeva da una falda freatica o pozzo, mai direttamente da fiumare e torrenti, mediante un sistema di ruotismi, verticali e orizzontali, azionati da forza animale, che ingranavano “norie” poste in cima a torri lapidee realizzate sui pozzi, particolari ruote dotate di una catena di vasi, secchi o cassette; da questi contenitori veniva poi riversata nella gebbia (vasca di raccolta) direttamente se il terreno da irrigare era a breve distanza o trasportatavi per gravità da condotti su archi se diversamente. L’acqua passava quindi nella saja (condutture in muratura o terra battuta a cielo aperto) e da questa nei cunnutti (condotti) collegati e, attraverso le “prise”, nelle casedde (conche) attorno al tronco dell’albero.9 La tutela del paesaggio agrario deve salvaguardare i valori che esso esprime quali manifestazioni identitarie percepibili. L’attribuzione è tuttavia un fattore che dipende da un processo temporale di acquisizione e di familiarizzazione.
Processi di de-territorializzazione: la crisi del sistema rurale Ripercorrendo le tappe di questo viaggio si percepisce un velato senso di abbandono. Sul versante ionico senie e mulini sono ruderizzati se pur leggibili, alcuni borghi fantasmi svuotati dall’emigrazione degli anni ’60, i terrazzamenti in parte rinaturalizzati da vegetazione spontanea. Il litorale è ormai una città lineare continua che ha spinto villaggi costieri e centri urbani lungo le aste fluviali fino ai borghi rurali e gli abitanti di questi giù verso le marine. Magnifici permangono i crinali e le viste a volo d’uccello delle valli fluviali, senza ostacoli fino al mare, dai quali si può ancora leggere l’armatura culturale di questo territorio insieme ai fattori del suo degrado. A interferire con il paesaggio agrario del versante tirrenico è stata l’industrializzazione degli anni ‘70 con la dislocazione delle raffinerie nel golfo di Milazzo, della centrale termoelettrica nella valle del Mela e dell’ASI di Giammoro, iniziali attrattori di manodopera dalle campagne fin oltre i centri collinari, e la costruzione delle infrastrutture di mobilità, dallo sdoppiamento degli impianti ferroviari al completamento delle autostrade Messina-Palermo, che si sono sovrapposte al territorio frammentandolo e valorizzandolo iniquamente. Ovunque possono intercettarsi, quali detrattori ambientali, cave e discariche abusive, strutture elettriche e per telecomunicazione (pali, tralicci, ripetitori e antenne) segno evidente di un’antropizzazione negativa che ha abusato del territorio piuttosto che usarlo secondo ritmi adeguati alla natura dei luoghi. Fra i fattori di declino, in questo territorio, può includersi paradossalmente la riforma agraria degli anni ’50 in quanto già dalle premesse è apparso un intervento incongruo di rilancio dell’agricoltura dagli esiti fallimentari. Sette insediamenti, Schisina (Borgo di tipo A), Morfia - Piano Torre - San Giovanni 9 G. Cama, Le “norie” nel territorio messinese. Architettura e acqua. Analisi e riuso di elementi rurali connessi alla presenza delle acque, Tesi di Dottorato in Ingegneria edile, Messina, XVII ciclo. 301
(Borgo di tipo C), Bucceri-Monastero - Malfitano - Pietrapizzuta (Case rurali) furono costruiti lungo la SS 185 da Novara di Sicilia a Francavilla di Sicilia. La relazione dell’ERAS (Ente per la Riforma Agraria in Sicilia), riguardante il piano di ripartizione messinese, nel paragrafo “CARATTERI DEL SUOLO” sembra emettere un’evidente denuncia: “Tutto il terreno dei fondi Piano Torre e Morfia (Ha. 405.69.59) e Malfitana (Ha. 125.60.33) appartiene alla tristemente famosa formazione delle filladi (scisti lucenti) in cui per l’esposizione al sole e le conseguenti dilatazioni, e per le contrazioni notturne, è provocato il distacco dei fogli di scisto, che precipitano a valle. Le filladi sono spesso frammiste a venature di quarzo. Il terreno agrario è però, per la maggior parte, derivato dal disfacimento dei sovrastanti conglomerati a cemento siliceoargilloso (puddinghe). [...] Si tratta di suoli a grana grossolana, permeabili, cosparsi di grosso pietrame di tutte le dimensioni, di scarsissima fertilità umica e di discreta fertilità chimica; in genere, ha reazione acida per effetto di dilavamento. [...] In estate, dato lo scarso strato di terreno agrario, la scarsezza di humus, la siccità fa tristemente risentire i suoi effetti: tutto scompare e secca rimanendo verdi solo gli arbusti spinosi della macchia mediterranea e le felci. [...] Le terre sono tutte in pendio più o meno accentuato; si va dal 10% al 40%; prevalgono le pendenze del 25%; nei compluvi, valloni e burroni le pendici hanno il 60 e più %. Alcune di queste pendici sono completamente nude, la maggior parte però, per quanto presentano l’aspetto desolato, possono essere risanate con un’adeguata sistemazione idraulico-agraria.”10 Le assegnazioni delle case, con appezzamento annesso fra 2 e 6 ettari, furono fatte per sorteggio. Ma subito dopo 64 contadini rifiutarono il conferimento, mentre gli altri 100 non vollero mai stabilirvisi con le famiglie. D’altronde le case erano costituite da due soli locali, mal costruite e prive di acqua corrente ed energia elettrica. I terreni assegnati, essendo stati da sempre adibiti a pascolo, avevano bisogno di opere di bonifica, che però si mostrarono fuori dalla portata sia economica che tecnica dei contadini I villaggi non sono mai stati abitati. Nessun tentativo perpetrato negli anni di ridesignazione ad altre funzioni, di vendita a privati per rilanci turistici, di ricucitura con centri vicini in una visione olistica ha oltrepassato la soglia dell’idea.11 Eppure il paesaggio agrario del sistema peloritano continua a mantenere una potenza che mette sotto scacco qualsiasi processo di de-territorializzazione e reclama attenzioni, cura, tutela e accenna sotto traccia a propositi di rilancio.
10 La via dei Borghi 40: l’ultima fase dei borghi rurali siciliani. I villaggi Schisina, www. voxhumana. blogspot.it, 2015. 11 A.A.A. Vendesi - Borghi rurali siciliani in vendita, tre in provincia di Messina, Tempostretto, Ottobre 2013. 302
Fig. 3 Uno dei processi di de-territorializzazione: l’insediamento dei 7 borghi della riforma agraria Emblematico ma non unico Borgo Morfia si presenta a fronte di un progetto ambizioso un’esperienza mai compresa, rifiutata dagli stessi contadini assegnatari, esclusa da qualsiasi politica di riqualificazione, problematica per una nuova attribuzione di senso
Strumenti di analisi e politiche di gestione Piani di gestione per SIC e ZPS, Livelli di tutela per Paesaggi locali e Riserve Orientate, dossier analitici e linee guida su aspetti peculiari, gravitano nell’orbita del sistema dei Peloritani sovrapponendo (e confondendo) competenze amministrative, (e moltiplicando) letture di componenti biotiche e abiotiche, (e neutralizzando) indagini sui detrattori ambientali. Una breve panoramica degli strumenti di analisi e delle politiche di gestione consente di comprenderne i problemi ancora aperti. Nell’ambito della Direttiva Comunitaria 92/43 CEE Habitat si è istituita in Italia la Rete Natura 2000, con l’intento di individuare i Siti di Importanza Comunitaria (SIC) che possono essere successivamente designati come Zone Speciali di Conservazione (ZSC).12 La costruzione di questa trama ambientali prevedeva l’individuazione di Aree centrali, Zone cuscinetto, Corridoi ecologici e Nodi. 12 La rete Natura 2000 è costituita dai Siti di Interesse Comunitario (SIC), identificati dagli Stati Membri secondo quanto stabilito dalla Direttiva 92/43/CEE Habitat, che vengono successivamente designati quali Zone Speciali di Conservazione (ZSC), e comprende anche le Zone di Protezione Speciale (ZPS) istituite ai sensi della Direttiva 2009/147/CE Uccelli concernente la conservazione degli uccelli selvatici. 303
La finalità prefigurata era quella di individuare gli indirizzi strategici, gli obiettivi operativi e gli strumenti finanziari per l’attuazione di una politica orientata alla conservazione della biodiversità senza interferire con le esigenze economiche, sociali e culturali dei territori, dei quali valorizzare le specificità locali e promuoverne uno sviluppo sostenibile. Il comprensorio peloritano ha contribuito con 13 Siti di Interesse Comunitario (SIC), segnalati dalla comunità scientifica nazionale e internazionale e con un’ampia ZPS Peloritani - Dorsale Curcuraci/Antennammare - Area marina dello Stretto. Alcune coincidenti con le Riserve Naturali Orientate, Monte Scuderi–Fiumedinisi (Dorsale Curcuraci-Dinnamare) e Bosco di Malabotta, istituite in precedenza sul territorio13. Nel 2009 a fronte di queste perimetrazioni sono stati redatti i Piani di gestione - Monti Peloritani che hanno affiancato all’analisi delle componenti identitarie, corredate da schede descrittive (Descrizioni biologica, agroforestale, socioeconomica culturale e del paesaggio), l’elenco delle azioni strategiche da adottare per la tutela e la salvaguardia dei valori individuati, corredate da schede operative (Interventi attivi, Regolamentazioni, Monitoraggi e ricerche, Programmi di educazione e informazione, Incentivazioni). Contestualmente, la Soprintendenza BB.AA.CC. di Messina ha elaborato il Piano Territoriale Paesaggistico Ambito 9 Area della catena settentrionale (Monti Peloritani) adottato nel 2009 e vigente per le misure di salvaguardia ma non ancora approvato.14 Guardando ai 13 Paesaggi Locali individuati sulla base di caratteri identitari omogenei con riferimento alle componenti biotiche, abiotiche, agroforestali e storicoculturali indagate e graficizzate in un rilevante numero di carte tematiche, il PTP-9 si poneva obiettivi analoghi di tutela e valorizzazione dell’armatura storica del territorio (trama di connessioni del patrimonio culturale) e della rete ecologica (trama di connessione del patrimonio naturale e forestale) ritenuti come propulsivi fattori di sviluppo. Sulla base delle analisi condotte sono state quindi prescritte misure di tutela secondo tre livelli, T1, T2 e T3, da meno vincolistici a rigorosamente conservativi e scenari strategici di valorizzazione.15 13 Riserva Orientata Bosco di Malabotta istituito con decreto dell’Assessorato regionale del territorio e dell’ambiente 477/44 del 25 luglio 1997; Riserva Orientata Monte ScuderiFiumedinisi istituita con D.A. 743/44 del 10 dicembre 1998. 14 Piano Paesaggistico dell’Ambito 9 - Area della catena settentrionale (Monti Peloritani), elaborato dalla Soprintendenza BB.AA.CC. di Messina e adottato con DDG n.8470 del 4.12.2009 dell’Assessorato dei Beni culturali e ambientali e della pubblica istruzione della Regione Sicilia. 15 Livello di tutela T1: Aree caratterizzate da valori percettivi dovuti essenzialmente al riconosciuto valore della configurazione geomorfologica; emergenze percettive (componenti strutturanti); visuali privilegiate e bacini di intervisibilità (o afferenza visiva). In tali aree la tutela si attua attraverso i procedimenti autorizzatori di cui all’art. 146 Dlgs 42/04. Livello di tutela T2: Aree caratterizzate dalla presenza di una o più delle componenti qualificanti e relativi contesti e quadri paesaggistici. In tali aree, oltre alle procedure di cui al livello precedente, è prescritta la previsione di mitigazione degli impatti dei detrattori visivi da sottoporre a studi ed interventi di progettazione paesaggistico ambientale. Va inoltre previsto l’obbligo di previsione nell’ambito degli strumenti urbanistici di specifiche norme volte ad evitare usi del territorio, forme dell’edificato e dell’insediamento e pere infrastrutturali incompatibili con la tutela dei valori paesaggistico-percettivi o che comportino varianti di 304
L’assenza dell’approvazione regionale è solo il più evidente dei limiti di questo strumento che trova un ostacolo nella sua natura vincolistico-prescrittiva e nell’assenza di politiche finanziarie atte a rendere operative le azioni prefigurate. Dal rodaggio di questa blanda attività di pianificazione sono emersi i seguenti punti di debolezza: • Ridondanza e scarsa connessione degli strumenti di analisi • Difficoltà di lettura e di intellegibilità degli elaborati grafici • Frammentarietà delle strategie di tutela e sconnessione dalle azioni di promozione, valorizzazione e sviluppo • Permanenza di una bassa capacità di pianificazione e programmazione, di decisione e di spesa delle Pubbliche Amministrazioni, che può rallentare l’acquisizione delle risorse economiche teoricamente disponibili • Complessità del coordinamento delle competenze e delle responsabilità, che si ripercuotono in difficoltà e ritardi di attuazione. Pur tuttavia occorre soffermarsi su alcune opportunità contingenti che trovano, in potenza, necessarie le analisi contenute negli strumenti redatti: • Disponibilità di risorse finanziarie comunitarie per gli interventi • Tendenziale aumento della domanda di turismo naturalistico culturale • Aumento delle esigenze locali di servizi di qualità, di fruizione delle risorse e degli usi ricreativi e naturalistici, associati a una maggiore sensibilità diffusa per il patrimonio culturale, le tradizioni, le identità locali • Crescente attenzione del pubblico per le tematiche ambientali, suscettibile di esercitare una maggiore pressione sulle amministrazioni ai fini della tutela • Opportunità di attrarre investitori privati nei servizi e di creare condizioni di mercato che inducano maggiore efficienza nella gestione. L’approdo del Programma di Sviluppo Agrario 2014-2020 con una filosofia rivolta a un rilancio dell’economica agricola “sostenibile” e lo stanziamento finanziario della Comunità Europea (FEASR), potrebbe essere indispensabile nel supportare un processo di ri-territorializzazione del paesaggio agrario e per affrontare le sfide poste dagli obiettivi comunitari della strategia Europa 2020 e dagli orientamenti comunitari per le politiche di sviluppo rurale.16 Il PSR 2014-2020 si pone sei priorità strategiche: P1: Promuovere il trasferimento di conoscenze e l’innovazione nel settore agricolo e forestale e nelle zone rurali. destinazione urbanistica delle aree interessate strumenti urbanistici di specifiche norme volte ad evitare usi del territorio, forme dell’edificato e dell’insediamento e pere infrastrutturali incompatibili con la tutela dei valori paesaggistico-percettivi o che comportino varianti di destinazione urbanistica delle aree interessate. Livello di tutela T3: Aree che devono la loro riconoscibilità alla presenza di varie componenti qualificanti di grande valore e relativi contesti e quadri paesaggistici, o in cui anche la presenza di un elemento qualificante di rilevanza eccezionale a livello almeno regionale determina particolari e specifiche esigenze di tutela. Queste aree rappresentano le invarianti del paesaggio. In tali aree, oltre alla previsione di mitigazione degli impatti dei detrattori visivi individuati alla scala comunale e dei detrattori di maggiore interferenza visiva da sottoporre a studi e interventi di progettazione paesaggistico ambientale, è esclusa, di norma, ogni edificazione. 16 Il Programma di Sviluppo Rurale 2014-2020 per la Regione Sicilia è stato approvato dalla Commissione Europea il 24 novembre 2015. 305
P2: Potenziare la redditività delle aziende agricole e la competitività dell’agricoltura in tutte le sue forme e promuovere tecnologie innovative per le aziende agricole e la gestione sostenibile delle foreste. P3: Promuovere l’organizzazione della filiera agroalimentare e la gestione dei rischi nel settore agricolo. P4: Preservare, ripristinare e valorizzare gli ecosistemi connessi all’agricoltura e alla silvicoltura. P5: Incentivare l’uso efficiente delle risorse e il passaggio a una economia a basse emissioni di carbonio e resiliente al clima nel settore agroalimentare e forestale. P6: Adoperarsi per l’inclusione sociale, la riduzione della povertà e lo sviluppo economico nelle zone rurali. Le azioni previste vengono strutturate per misure e sottomisure. Gli stanziamenti resi disponibili per ciascuna consentirebbero, se focalizzati da una gestione accorta, di favorire, insieme a un consolidamento del sistema agricoloforestale, una politica strategica di promozione delle identità locali. E’ una porzione di un più ampio problema di salvaguardia del paesaggio agrario che richiede risorse economiche per progetti specifici e mirati alla ri-attribuzione di valore. Fra i primi esiti del PSR 2014-2020 si è intercettato lo studio dei “paesaggi a terrazza” della Sicilia con linee guida per una gestione vocata allo sviluppo. Dalle finalità proposte si evince una multisettorialità dell’approccio con cui effettuare: 1. promozione e sostegno dell’uso sostenibile del territorio regionale; 2. recupero e conservazione del paesaggio culturale; 3. integrazione delle attività agricole con le attività turistiche compatibili con l’ambiente; 4. attuazione di politiche ambientaliste, di consulenza per gli agricoltori e di ricerca specifica. Nella conservazione dei paesaggi terrazzati si intuiscono i seguenti effetti positivi: • tutelare un patrimonio culturale; • contrastare il sottosviluppo economico attraverso la coltivazione di prodotti locali; • creare un modello di sviluppo per turismo a basso impatto ambientale; • fronteggiare l’elevato rischio di catastrofi naturali causato dall’abbandono del territorio (incendi e frane); • valorizzare l’identità locale attraverso la promozione dei prodotti regionali; • supportare la biodiversità legata agli agroecosistemi tradizionali. Le linee guida sono pronte per essere tradotte in misure regolamentari, di indirizzo e di buone pratiche e in incentivi per la rinaturalizzazione agricola dei terrazzamenti abbandonati. A valle di questo approfondimento si avverte l’esigenza di una più spiccata capitalizzazione degli esiti analitici stratificati dai molteplici strumenti che insistono su questo territorio per chiarificare i contenuti identitari, per averne una visione univoca, stabilire scenari strategici efficaci e prescrizioni idonee. Quindi stabilire le azioni e gli oneri necessari per individuare i canali di finanziamento fra le diverse opportunità oggi disponibili a progetto.
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Progetti ed esperienze potenziali di ri-territorializzazione I temi da tesaurizzare per restituire un’essenza al paesaggio agrario, per una nuova presa di possesso (ri-territorializzazione) di sue porzioni significative (e significanti), emersi incrociando conoscenza diretta, scenari strategici e politiche gestionali, sono: • Turismo ecosostenibile • Patrimonio Culturale • Agricoltura “biodinamica” Su tali tracce ho rinvenuto sul territorio alcune esperienze che potrebbero in tal senso germinare idee e sviluppo; se ne offre una sintesi evidenziando il tema prevalente, anche se in ciascuna proposta coesiste una molteplicità di valori riconducibili ad altre direttrici di sviluppo.
Turismo ecosostenibile La presenza di percorsi naturalistici già tracciati “istituzionalmente” su entrambi i versanti peloritani ne consente una fruizione naturalistica accolta ormai dai cittadini che utilizzano le piste dalle coste verso Antennamare o il bosco di Malabotta con i megaliti dell’Argimusco come parchi urbani per attività escursionistiche, gite in mountanbike, passeggiate ecologiche, allenamenti sportivi; tutte opportunità potenzialmente aperte a divenire un bacino di promozione turistica ampio e statisticamente in crescita. Particolarmente attivo è l’associazionismo che in ogni settore organizza eventi polivalenti e dedicati a un’utenza trasversale. Studi di catalogazione e divulgazione scientifica riguardano inoltre il sentiero degli agrumi, le vie di mamertino, faro e malvasia, il percorso delle senie e le vie dei mulini. Un altro patrimonio agro-forestale che si aggiunge e si interseca con i percorsi indicati, e li arricchisce di contenuti etnoantropologici, di archeologia industriale e socio-culturali. Ricettività diffusa nei borghi rurali e nei centri urbani, agriturismo nelle masserie dislocate cominciano a supportare con sempre maggiore consapevolezza un processo di riappropriazione del patrimonio culturale e della rete ecologica, segnalando le potenzialità del turismo che ha registrato nell’area un incremento medio dei flussi pari al 12% nel solo 2015. Organizzazioni di fiere e sagre di prodotti locali, itinerari lungo le strade del vino, dell’olio, del grano e istituzione di presidi slow food segnalano l’espansione di un turismo agro-alimentare che, se gestito con cautela e consapevolezza per garantire un basso impatto ambientale, potrebbe divenire un significativo motore di sviluppo.
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Fig. 4 Processi di ri-territorializzazione: esperienze di fruizione del territorio mediante turismo ecosostenibile Concretamente, diverse associazioni amatoriali hanno promosso una riappropriazione dei luoghi attraverso passeggiate in mountain-bike sui sentieri della dorsale ionica gestiti dalla forestale o con escursioni organizzate nel bosco di Malabotta sulla dorsale tirrenica. Potenziali sono invece le opportunità offerte da percorsi naturalistici lungo le vie d’acqua per visitare senie e mulini, ancora oggetto di studi e proposte
Patrimonio Culturale Borghi e nuclei storici, paesi fantasmi o scarsamente abitati, beni isolati e reperti archeologici, sono disseminati con continuità sui Monti Peloritani e si propongono come occasione di turismo rurale ma non solo. Le proposte progettuali per una riqualificazione sono state e sono oggetto di GAL, PIT, PON, FEASR, strumenti tecnico-finanziari che hanno fornito un contributo di idee che, pur mostrandosi ancora blando, ha indicato una strada da percorrere. Esperimenti di Ri.U.So (Riabilitazione Urbana Sostenibile) stanno interessando Massa San Nicola, borgo fantasma disabitato nel quale l’Amministrazione Comunale di Messina intende riportare una comunità agricola consapevole e culturalmente supportata da un Cenobio, un Centro di ricerca e studi interdisciplinare e/o di attività culturali e didattiche, che dovrebbe promuovere e accogliere eventi specialistici, correlati o meno all’agricoltura. La fase di ricognizione, partecipata, deve ancora trovare, nell’attuazione di una gestione esecutiva efficace, evidenze concrete. Più incoraggianti e già “spendibili” sono le azioni intraprese per la promozione di alcuni centri storici arroccati sulle montagne o lungo i corsi d’acqua, scenari 308
suggestivi ma in declino. Manifestazioni culturali e rivisitazioni storiche, sagre agro-alimentali e rilancio di tradizioni artigianali hanno attirato recentemente flussi turistici significativi per aree così piccole. Savoca si è dedicata negli ultimi anni ai festival internazionali, della chitarra (Reverie Guitar Academy, 3° edizione), del cortometraggio (ZABUT International Animated Short-Film Festival, 1° edizione) con risultati davvero sorprendenti per qualità artistica e quantità di fruitori.
Fig. 5 Processi di ri-territorializzazione: esperienze del riqualificazione e gestione del patrimonio culturale Numerosi e sempre più frequenti sono sagre, festival e itinerari che propongono di valorizzare le specificità di centri storici e luoghi d’arte, rivolti a cittadini e a un turismo sostenibile gestito per piccoli flussi. Emblematici i percorsi compiuti in questa direzione da Savoca e Montalbano
Montalbano, promosso come borgo dei borghi nel 2015 ha saputo sfruttare la pubblicità mediatica articolando percorsi di visita (Il castello federiciano – Il territorio agro-forestale), riproponendo feste medievali di primavera (rievocazione di storia aragonese), incentivando il turismo diffuso nelle 66 unità del borgo storico sapientemente restaurato (dalla fine degli anni ’90), includendo il patrimonio naturale circostante fra le attrattive da proporre (Bosco di Malabotta e Megaliti dell’Argimusco).
Agricoltura “biodinamica” Una più recente visione olistica del settore agricolo, che richiede approcci multidisciplinari e relazioni con altri ambiti economici, turismo, formazione, cultura ha superato l’approccio bioecologico. Una direzione, questa, intrapresa a livello 309
regionale con l’istituzione dei Distretti produttivi finalizzati a creare aggregazioni orizzontali fra aziende agricole omogenee e/o verticali con altri settori imprenditoriali per fare rete e promuovere Patti di sviluppo triennali che evidenziano strategie da conseguire e processi di attuazione. Nel 2007 ne furono approvati 23; oggi sono 12 di cui 7 nel settore agroalimentare.17 I meta-distretti rappresentano aree produttive di eccellenza con forti legami esistenti o potenziali con il mondo della ricerca, della produzione e dell’innovazione. Una delle finalità è quella di promuovere la biodiversità mediante il riconoscimento dei marchi DOP, IGT, IGP ecc. come motore di sviluppo ad ampio spettro. Nell’area dei Peloritani gravita il Distretto degli Agrumi, fra i più attivi nel creare opportunità per la diffusione dei prodotti e di tutto quel che gravita attorno: percorsi naturalistici (Le vie della Zagara), formazione imprenditoriale (Educational tour), attività di trasformazione (dal pastazzo alle energie rinnovabili), filosofia biologica (marchi IGP e DOP). Altra realtà in fermento è il Distretto del Florovivaismo con sede a Milazzo che promuove percorsi di internazionalizzazione (IGP Limone Interdonato, Associazione Milazzoflora) e intraprende originali soluzioni eco-sostenibili (substrati in fibre di cocco). Nell’ambito del Distretto della Pesca si è inoltre sviluppato un approccio multisettoriale alle attività del mare, che ha assunto il senso di una nuova rivoluzione concettuale ed è divenuta definizione generale: la Blue Economy, una filosofia produttiva che si basa sui principi di sostenibilità e responsabilità, restauro e rigenerazione delle risorse, divenendo strumento di sviluppo economico, sociale, ambientale e culturale. Si sostiene che tale modello di sviluppo parte dal mare, dalla Sicilia, ma non si esaurisce né con il mare, né in Sicilia; non riguarda, infatti, soltanto la pesca, ma si estende a tutte le filiere produttive, dall’agroindustria al turismo e da qui al Mediterraneo.18 17 I Distretti Produttivi sono stati introdotti in Sicilia con la Legge Regionale 17 del 28 dicembre 2004 e sono disciplinati dal Decreto 152/2005, Ogni Distretto è supportato da un patto di sviluppo i cui sottoscrittori sono le Imprese, gli Enti Locali, le Camere di Commercio, le Rappresentanze delle Categorie, le Università, i Centri di Ricerca, ecc. La loro attività fa capo alla funzione istituzionale dell’Assessorato Regionale delle Attività Produttive che ne approva la costituzione e i programmi e ne concede il riconoscimento con proprio Decreto. Compito dei distretti produttivi è quello di aggregare e di organizzare le Filiere di competenza ai fini dello sviluppo del territorio attraverso la massima valorizzazione delle potenzialità produttive e qualitative e il migliore utilizzo delle risorse pubbliche. La Regione Siciliana con DA 546/12s del 16 marzo 2007 ne ha riconosciuti 23: 12 nel settore industriale e 11 nel settore agroalimentare. Oggi nel settore agroalimentare e della Pesca ne operano 9: Distretto degli Agrumi di Sicilia, Distretto unico regionale Cereali-SWV, Distretto produttivo siciliano Lattiero-Caseario, Distretto produttivo Dolci di Sicilia, Distretto del fico d’India del Calatino-Sud Simeto, Distretto della filiera della carne bovina, Distretto avicolo siciliano, Distretto del Florovivaismo siciliano e Distretto produttivo della Pesca. 18 10 Principi per la Blue Economy Pensare alle risorse ittiche e marine sulla base dell’effettiva capacità produttiva del mare. Protezione e preservazione dell’ambiente marino. Internazionalizzazione, intesa non come conquista di nuovi mercati ma in termini di cooperazione fra mercati. Gestione attraverso l’approccio scientifico, privilegiando ricerca e formazione. 310
Un’ultima opportunità, che comincia a diffondersi sul territorio regionale e che promuove trasversalmente il paesaggio agrario è lo sviluppo di idee rivolte all’innovazione, anche a partire da prodotti di scarto dell’agricoltura. I progetti coinvolgono Distretti produttivi, Università siciliane, Aziende agroalimentari e trovano legittimazione nella sottomisura 16.2 Sostegno a progetti pilota del PSR 2014-2020 che si propone lo sviluppo di nuovi prodotti, pratiche, processi e tecnologie nel settore agroalimentare forestale. Si propongono tre visioni, da brevetti a start up, implementate sul territorio regionale, per segnalare una prospettiva che può divenire un’ulteriore chiave di lettura del paesaggio agrario:
Fig. 6 Processi di ri-territorializzazione: esperienze olistiche di agricoltura biodinamica Le attività promosse dai distretti produttivi presenti sui Peloritani, degli agrumi e florovivaistico, provano a riunire in un approccio plurale iniziative legate all’agricoltura biologica di prodotti DOC, DOP, IGT, al turismo sostenibile lungo le vie del vino, degli agrumi, delle essenze e dei fiori, al riuso e riciclo di scarti degli agrumi, dei ficodindia, di canapa e altri prodotti agricoli
Disponibilità pubblica delle informazioni. Procedimenti decisionali trasparenti e aperti. Approccio cautelativo. Approccio sistemico. Utilizzo sostenibile ed equo delle risorse. Responsabilità degli Stati quali controllori dell’ambiente marino globale e dei singoli individui. 311
Pastazzo - Biomasse dagli scarti dagli agromi -2013 Dal Pastazzo all’energia sostenibile Utilizzo come combustibile o come matrice organica per la produzione di bioetanolo e biogas. The Coca-Cola Foundation; Distretto Produttivo Agrumi di Sicilia; Università di Catania Di3A Cladodo del fichidindia - pannelli isolanti ecosostenibili - 2011 Indice di coibentazione pari a λ 0,07 W/mK La pianta opportunamente trattata, disidratata, macinata ed essiccata, viene assemblata con leganti o collanti. Filippo Albamonte, Possibili utilizzazioni tecnologiche dei cladodi di opuntia ficus indica, Brevetto 2008 Università di Palermo (Antonio De Vecchi e Antonino Valenza), Brevetto 2011 Canapa bioplastica - Kanesis - 2015 Dagli scarti di lavorazione della canapa si produce un materiale composito termoplastico con proprietà affini alle plastiche petrolchimiche Università di Catania (Giovanni Millazzo) Posso affermare in conclusione di aver riscontrato come dato acquisito che le azioni per promuovere la ri-territorializzazione del contesto peloritano, potenzialmente ricco di valenze plurime, debbono essere gestite con approcci integrati che guardano al paesaggio agrario come la migliore garanzia per salvaguardare la qualità dell’ambiente (biodiversità, difesa del territorio, correzioni climatiche), come il deposito di un codice identitario culturale autoctono da preservare ma anche come il veicolo più forte per attrarre una domanda turistica e fruitiva che cerca nei luoghi il paesaggio colturale quanto quello culturale e nelle differenze locali orienta la propria preferenza.
Bibliografia AA.VV., I boschi di Sicilia, Edizioni Arbor, Palermo, 1992. Bufalino G., L’isola nuda, fotografie di G. Leone, Ed. Bompiani, Milano, 1988. Fiandaca O., All’origine era l’acqua: i mulini a palmenti di Messina, Aracne, Roma, 2009. Foti G. (a cura di), I luoghi della trasformazione: metodologie conoscitive e tecnologie, Rubettino, Soveria Mannelli, 2004.
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La campagna contesa Processi e trasformazioni nella campagna del sud-est siciliano Francesco Giunta
Le forme del paesaggio rurale della Sicilia sud-orientale rappresentano la straordinaria manifestazione di un palinsesto territoriale ricco di elementi e di spunti di riflessione sui temi del paesaggio e del suo progetto. In questo contesto molte forme dello spazio rurale si presentano come strutture complesse, ognuna delle quali è espressione di una ricca ed intrigante storia del paesaggio agrario. Processi e trasformazioni che ci invitano a porre l’attenzione nei confronti degli aspetti storici ed incrementali del paesaggio. Franco Farinelli negli anni ’80 riconosceva un profondo valore culturale alla storia non in quanto portatrice di memoria o testimonianza, ma in quanto rivelatrice di condizioni transitorie e processuali non separabili dagli aspetti visibili. In un contesto agricolo come quello della Sicilia sud-orientale, risultano infatti rilevanti questi aspetti storici che legano gli insediamenti produttivi al paesaggio ed in cui, riprendendo Farinelli, «l’apporto della dimensione storica appare di fondamentale importanza, in quanto ogni manifestazione del paesaggio sottende dei processi, e di conseguenza la comprensione non può che andare oltre l’aspetto visibile e topografico»1. Con un altro angolo di osservazione Lucio Gambi riconduce la riflessione storico-geografica ai caratteri sociali che si affermano nei paesaggi rurali e che ne condizionano gli aspetti sensibili. Nel descrivere la struttura dei tre principali paesaggi rurali in Europa2 (campi aperti, campi chiusi e promiscue mediterranee), Gambi non si limita a precisare i caratteri prettamente fisici dello spazio agricolo, ma inquadra le diverse strutture agrarie nei contesti sociali nei quali sono inseriti. Sono proprio i tipi di contratto, le forme di lavoro, le gerarchie sociali a regolare le forme agrarie, gli insediamenti, il tipo di coltivazione, l’orditura dei campi, ecc. Più in generale, alcuni contesti agricoli come quello del sud-est siciliano possono essere considerati come il risultato di diverse forme di organizzazione sociale, ovvero del modo in cui di volta in volta sono stati interpretati dalla società. Le campagne sono evidentemente 1 F. Farinelli, Due modelli in cerca di riflessione: insediamento e paesaggio, in G. Corna Pellegrini e C. Brusa (a cura di ), La ricerca geografica in Italia 1960-1980, Ask Edizioni, Varese, 1980, pp. 793-799. 2 Il riferimento specifico è il saggio di L. Gambi, Critica ai concetti geografici di paesaggio umano in Una geografia per la storia, Torino, Einaudi, 1973. 313
l’espressione formale dei diversi contesti storici nei quali i livelli di progresso e di valori culturali assegnati all’ambiente costruiscono l’immagine dello spazio. Nel caso della Sicilia sud-orientale si possono individuare3 almeno tre condizioni economico-sociali fondamentali nella costruzione dello spazio rurale: 1. A partire dai primi del Novecento, le campagne della Sicilia sud-orientale aprirono una lunga stagione di sviluppo che durò circa trenta anni. Durante questo periodo venne definita una precisa strategia di sviluppo agricolo indirizzata verso la monocoltura e più precisamente verso la coltivazione dell’uva. I protagonisti di questa redditizia condizione produttiva erano quasi esclusivamente grandi proprietari terrieri che possedevano mediamente più di 50 ettari di terra. 2. Subito dopo la seconda guerra mondiale grazie ai movimenti contadini ed in piccola parte grazie alla Riforma Agraria, avvenne un lento passaggio dal grande latifondo alla piccola proprietà. I braccianti agricoli si opposero alla loro condizione di subalternità rivendicando i loro diritti di lavoratori. In questo periodo cambiarono la maggior parte delle forme contrattuali; i contadini passarono dalla condizione di mezzadro, enfiteuta, bracciante4 a quella di piccolo proprietario terriero (in questo caso le proprietà erano mediamente di circa 3ha). Nonostante in questo periodo cambiarono gli attori sociali che investivano sull’agricoltura non cambiò il tipo di coltivazione che rimase ancora l’uva; in altri termini la frammentazione in più proprietà non coincise con una frammentazione produttiva. 3. Negli anni settanta, una grave crisi del settore vitivinicolo mise in crisi l’attività produttiva dei piccoli proprietari e delle piccole aziende che si erano formate. Tutte le figure agricole legate alla coltivazione dell’uva dovettero intraprendere in maniera obbligata una nuova stagione produttiva e la scelta ricadde sulla coltivazione intensiva sotto serra. In questa nuova fase economico-produttiva cambiò radicalmente il tipo di coltivazione, ma la struttura agraria e gli attori sociali impegnati nella produzione agricola rimasero fondamentalmente immutati rispetto al passato. Un lento processo di intensificazione produttiva che non ha coinvolto esclusivamente il terreno della neutralità agronomica (dune, coste, periferie) ma si è basato soprattutto su esigenze di riconversione produttiva dei suoli fertili. Fino ai primi anni ottanta dunque questo territorio aveva una tradizione agricola quasi esclusivamente vitivinicola. La quantità di vigneti presenti si aggirava infatti intorno ai 3.000 ettari; da questa quantità di viti si produceva un mosto molto pregiato dal quale le aziende ricavavano il vino da taglio che veniva esportato per arricchire i vini francesi e del nord Italia. 3 Senza la pretesa di ripercorrere l’intera storia di questo territorio, riteniamo fondamentale, per capire alcuni processi di costruzione del paesaggio rurale, considerare le principali vicende agrarie a partire dai primi anni del Novecento. 4 Per spiegare queste forme di contratto utilizziamo le definizioni contenute nel glossario del testo di P. Bevilacqua, Breve storia dell’Italia Meridionale dall’ottocento a oggi, Donzelli, Roma 1993. In questo glossario a cura di A.M. Banti alla voce Contratto agrario, pag. 166, si trova scritto: ”la Mezzadria è la concessione di un fondo ad una famiglia colonica, contro il pagamento della metà dei prodotti ricavati; l’Enfiteusi è la concessione di un fondo a lunghissima scadenza, più di vent’anni, contro il pagamento di un canone in natura o in denaro; secondo questo contratto l’affittuario poteva sia vendere a qualcun altro il diritto di coltivare il fondo, che trasmettere tale diritto ai propri eredi”. 314
Alla fine degli anni settanta, la crisi del settore vinicolo mise in ginocchio quasi tutte queste aziende; nell’arco di pochissimi anni si è passati da 3.000 a 500 ettari di vigneti, una riduzione radicale di circa il 75 per cento che vide l’abbandono e l’estirpamento di quasi tutti i vigneti. Nel 1988 la Comunità Europea, per cercare di porre rimedio alla profonda crisi in cui il settore era caduto, fu costretta a redigere un regolamento che incentivava l’abbandono delle vigne a vantaggio di altre attività5. La carta dell’Utilizzazione del suolo elaborata dall’Ente di Sviluppo Agricolo nel 1975 (fig.1), indica chiaramente come questo tratto della provincia di Siracusa era coltivato quasi esclusivamente a vigneto, mentre le serre erano limitate a qualche area della fascia costiera e cioè in quelle aree improduttive nelle quali era più conveniente sperimentare nuove attività agricole.
Fig. 1 Carta dell’Utilizzazione del suolo elaborata dall’Ente di Sviluppo Agricolo nel 1975. In viola i vigneti
5 Regolamento CEE n. 1442/88 relativo alla concessione, per le campagne viticole, di premi di abbandono definitivo di superfici viticole. 315
La perdita dei vigneti provocò contestualmente la perdita di un ricco patrimonio edilizio legato a questo tipo di coltivazione. Oggi sono infatti sparsi nel territorio numerosi palmenti dei quali alcuni sono rimasti integri mentre altri versano allo stato di rudere. I più importanti di questi palmenti (Burgio, Maucini e Rudinì, che risale alla fine dell’ottocento) sono ancora perfettamente integri e ben riconoscibili, essi rappresentano esempi di piccoli borghi rurali in cui oltre alla struttura principale del palmento sorgevano magazzini e case coloniche per i contadini.
Fig. 2 Il Palmento Maucini ed il sistema delle serre
Il ridisegno del sistema dei vigneti elaborato sulla base delle carte IGM, ci mostra come la struttura agraria di questo territorio abbia subito un crescente processo di frammentazione. Dalla struttura a grandi latifondi si è passati progressivamente alla frantumazione delle proprietà. In questo territorio l’azione della Riforma agraria6 del 1947, acquisita in Sicilia con la legge regionale 27 dicembre del 1950, n.1047, secondo la quale i grandi latifondi mal coltivati vennero ridistribuiti ai contadini più bisognosi non ebbe un grande effetto. I registri che documentano gli effetti della riforma nella provincia di Siracusa confermano che le aree maggiormente coinvolte da questa 6 Sugli aspetti generali prodotti dalla Riforma Agraria nei territori agricoli del mezzogiorno d’Italia rimandiamo a J. Le Coz, Le riforme agrarie, Il Saggiatore, Milano, 1976 e M. Rossi Doria, Riforma agraria e azione meridionalista, L’ancora del Mediterraneo, Napoli, 1956. 7 Questa legge è pubblicata integralmente in M. Fierotti, Legislazione agraria della Regione siciliana, SPES, Palermo, 1983. 316
azione furono soprattutto quelle più impervie ed improduttive dell’entroterra della provincia (in particolare i territori di Carlentini, Lentini e Palazzolo).
Fig. 3 Frammentazione del Sistema dei vigneti su base IGM
Come abbiamo visto, con la carta di utilizzazione del suolo del 1975, il territorio di cui ci stiamo occupando era già molto produttivo da un punto di vista agricolo, per queste aree infatti la riforma agraria individua solamente 3 grandi latifondi, per un totale di 262 ettari, da sottoporre ad esproprio8 (fig.4). 8 In realtà questa superficie sarebbe stata maggiore se alcuni latifondisti non avessero venduto le proprie terre con i cosiddetti atti di mezzanotte, e cioè atti veri solo formalmente, a finti 317
Fig. 4 Ente per la riforma agraria in Sicilia. Piano di ripartizione del 1961 in cui un latifondo di 158 ettari venne suddiviso in 53 appezzamenti di circa 3 ettari
Il processo di frammentazione dei grandi latifondi ha assunto invece dimensioni sempre più marcate a causa delle successioni affettive, ovvero a causa dei continui passaggi delle proprietà terriere ai figli (fig.5). Una riflessione sull’attuale paesaggio agrario deve considerare segni e regole prodotte dalla continua frammentazione del latifondo quali elementi in grado di strutturare ancora il sistema agrario. Al di là delle questioni strettamente connesse all’intensificazione dei terreni attraverso la monocultura ed alla crescente antropizzazione del suolo agricolo, ci sembra interessante considerare lo spazio rurale come un “fatto dinamico”, transitorio, costruito per continue sovrapposizioni di regole. Possiamo considerare questo paesaggio come un paesaggio orizzontale, fatto cioè di orditure, di piani, che nel tempo si sono sovrapposti alla struttura agraria arcaica senza tuttavia cancellarne le regole principali (fig.6). Lucio Gambi spiega bene il valore che lega gli attuali caratteri insediativi dello spazio rurale alla sovrapposizione e reinterpretazione di regole depositate nel corso della storia. «Che i campi siano recinti o no, che gli appezzamenti siano allungati, quadrati o irregolari - e questi aspetti non si devono trascurare - il problema essenziale per capire i paesaggi rurali è proprio quello delle piantagioni stesse, viti e sostegni. I filari costituiscono la trama del paesaggio, regolano o rivelano le forme e le dimensioni delle acquirenti, con il fine di scendere al di sotto della superficie prevista dalla riforma e necessaria per l’esproprio. 318
particelle agrarie, i tipi di sistemazione del suolo, e sono strettamente legati ai viottoli dei campi. Non è solo un problema che interessi i generi di coltura o la produzione, ma è spesso un fatto di struttura agraria nel senso più stretto della parola. Al di sopra del mutevole tappeto delle colture avvicendate, i filari innalzano un’architettura permanente [...]»9.
Fig. 5 Frammentazione dei latifondi per successioni affettive
9 L. Gambi, Critica ai concetti geografici di paesaggio umano, in Una geografia per la storia, Einaudi, Torino, 1973. 319
Fig. 6 Sovrapposizione tra vecchi e nuovi dispositivi
La sovrapposizione di nuovi piani orizzontali ha naturalmente generato alcune incompatibilità strutturali tra l’organizzazione agraria precedente e le nuove regole di produzione. Tuttavia questa sovrapposizione è stata in grado di organizzare nuovamente lo spazio rurale producendo immagini spesso contraddittorie che rappresentano la base dalla quale partire per immaginare scenari futuri. In questo senso il territorio nella sua accezione fisica, ci racconta molto più di quanto possano fare i libri, gli archivi o i catasti. Un racconto lento, ricco di contraddizioni, che ci spiega passo dopo passo come gli abitanti hanno interagito con lo spazio che ereditavano, ci mostra un palinsesto territoriale ancora del tutto riconoscibile. Il repentino processo di trasformazione che ha portato in pochissimi anni dalla coltivazione dell’uva alla coltivazione intensiva in serra ci dimostra come i fenomeni di mercato, quindi non dipendenti dalla volontà degli abitanti, possano snaturare velocemente la vocazione agricola di un territorio, possano far sì che un paesaggio venga sostituito in poco tempo da un altro. In un contesto così complesso risulta evidente come oggi lo studio del territorio sia diventato il luogo di un’ampia convergenza disciplinare, dove accanto alla geografia che studia il territorio e le sue articolazioni, stanno anche l’economia, l’urbanistica, la sociologia, la storia ed altre discipline ancora. Una nuova elaborazione concettuale della campagna vorrebbe dire inoltre intraprendere dei percorsi progettuali riferiti ad una popolazione molto ampia ed eterogenea. Questa popolazione non può oggi intendersi semplicemente come rurale. Le campagne sono oggi infatti i luoghi dello stare, dell’attraversare, del fruire; diverse popolazioni di abitanti confluiscono in questi spazi o più semplicemente oggi esistono diversi soggetti che li usano. 320
La campagna, oltre ad essere il luogo della produzione, è ancora oggi il luogo della vita collettiva e dell’interazione sociale. Le singole zone agrarie individuavano vere e proprie comunità locali organizzate che stabiliscono stretti rapporti con l’ambiente. Per alcuni la campagna rappresenta il luogo di lavoro, per altri è invece lo spazio dello svago; molte persone la vivono e la abitano quotidianamente, molte altre ancora la attraversano osservandola velocemente dall’esterno e poi c’è chi la governa e chi la organizza; chi la mantiene e chi la consuma; ed è forse in questa complessità di combinazioni possibili che si devono ricercare le ragioni della trasformazione del paesaggio agrario e più in generale di tutta la dimensione agraria. Riprendendo la riflessione condotta da Guido Zucconi10 sulle nuove figure che tra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900 si contendevano i destini delle città, potremmo estendere questo ragionamento alla struttura complessiva delle campagne contemporanee. In un testo del 1857 intitolato “Dell’agricoltura inglese paragonata alla nostra” Carlo Cattaneo scriveva: «Egli è ben vero che in Inghilterra questo incremento di frutti provenne in parte dai terreni tolti per le nuove leggi al vago pascolo; epperò si deve a maggior estensione di lavoro; e in parte pur si deve all’illimitata copia di capitali, che risolutamente promosse il lavoro e lo anticipò, e ad altre cause economiche, come si vedrà, ancor più efficaci. Ma per altra grandissima parte si deve a ciò che non è lavoro né capitale, ma mero atto d’intelligenza»11. In effetti in questa area geografica, agricoltori, piccoli imprenditori hanno avuto le capacità di riorganizzare, attorno ad nuovo sistema di produzione; hanno immesso nel mondo agricolo i caratteri di serialità e di ripetitività produttiva propri dell’industria moderna. Le dinamiche della filiera rappresentano i caratteri di una regione industriale (fig.7) più che di una regione rurale. La campagna non è in questo caso un luogo naturale fortemente antropizzato, essa è semplicemente il prodotto, a scala territoriale, di una industrializzazione diffusa e ramificata in questa particolare regione geografica. Lo sviluppo industriale e la capacità organizzativa degli individui hanno prodotto, nei confronti del territorio, una forte agglomerazione di risorse e di materiali che oggi hanno forse raggiunto il valore sociale più rilevante. Il ribaltamento concettuale dello spazio agricolo della serricoltura a complesso industriale deriva dalla constatazione che esso, così come per la produzione industriale, stabilisce delle interrelazioni tecnologiche e commerciali tra i singoli processi produttivi riducendo in questo modo il concetto di paesaggio a porzione di spazio costituita da unità fortemente produttive. Naturalmente il fatto che questa industria non risulti concentrata in un singolo polo ma distribuita in una ristretta area geografica fa sì che essa generi molteplici relazioni riconducibili tutte a continui processi d’intensificazione, di prossimità, di contatti umani, di spirito collettivo, di evoluzione tecnologica. Le parole di Cattaneo ci invitano pertanto ed ancora una volta ad un ragionamento che vede nello spazio rurale uno spazio produttivo, plasmato dal lavoro e dall’intelligenza degli agricoltori. Nelle campagne si sono storicamente consumati 10 G. Zucconi, La città contesa. Dagli ingegneri sanitari agli urbanisti (1855-1942), Jaca Book, Milano, 1989. 11 C. Cattaneo, Dell’agricoltura inglese paragonata alla nostra, in Saggi di economia rurale a cura di Luigi Einaudi, Einaudi, Torino, 1975. 321
veri e propri “atti di intelligenza” in grado di rendere il mondo rurale dipendente in tutto e per tutto dalla città o dall’industria. Secondo questo punto di vista, anche la campagna deve essere considerato uno spazio conteso che da un lato sia in grado di produrre innovazioni produttive e dall’altro nuove infrastrutture collettive regolate da inediti atti di intelligenza.
Fig. 7 Il distretto industriale delle serre.
Bibliografia Becattini G., La sfida di Carlo Cattaneo, in Cafagna L., Crepax N. (a cura di), Atti di intelligenza e sviluppo economico. Saggi per il bicentenario della nascita di Carlo Cattaneo, Il Mulino, Bologna, 2001. Bevilacqua P., Breve storia dell’Italia Meridionale dall’ottocento a oggi, Donzelli, Roma, 1993. Farinelli F., Due modelli in cerca di riflessione: insediamento e paesaggio, in Corna Pellegrini G. e Brusa C. (a cura di ), La ricerca geografica in Italia 19601980, Ask Edizioni, Varese, 1980 Fierotti M., Legislazione agraria della Regione siciliana, SPES, Palermo, 1983. Gambi L., Una geografia per la storia, Torino, Einaudi, 1973. Le Coz J., Le riforme agrarie, Il Saggiatore, Milano, 1976 Rossi Doria M., Riforma agraria e azione meridionalista, L’ancora del Mediterraneo, Napoli, 1956. Zucconi G., La città contesa. Dagli ingegneri sanitari agli urbanisti (1855-1942), Jaca Book, Milano, 1989. 322
Borgo rurale Angelo Rizza a Siracusa L’utopia di un cantiere non finito Maria Rossana Caniglia
Nell’estate del 1939 il Duce affiderà alla Sicilia, auspicando che potesse trasformarsi in «una delle più fertili contrade della terra»1, il ruolo da protagonista nell’“assalto al latifondo”. Programma sancito con l’emanazione della legge sulla «Colonizzazione del latifondo siciliano» del 2 gennaio 1940-XVIII n.1, la quale dettava precisi interventi di ristrutturazione rurale e abitativa dei territori latifondistici. Nello stesso anno veniva istituito l’Ente di Colonizzazione del Latifondo Siciliano (ECLS), diretto da Nallo Mazzocchi Alemanni (1889-1967)2 con l’incarico di occuparsi della realizzazione dei borghi, delle case coloniche e delle infrastrutture idrauliche e stradali. «In tutte le provincie della Sicilia dove è in corso di colonizzazione il latifondo, e sono state fabbricate le nuove case coloniche, sono stati costruiti anche i borghi nuovi. In provincia di Agrigento c’è il borgo Bonsignore, in provincia di Caltanissetta borgo Gattuso, a Catania borgo Lupo, a Siracusa borgo Rizza, a Trapani borgo Fazio, a Palermo borgo Schirò, a Enna borgo Cascino. Questi paeselli sono stati situati in piano o in collina, in punti dove prima non c’era nemmeno un pagliaio, o in mezzo alla campagna migliorata: il posto è stato scelto dove l’aria era buona e c’era vicino lo stradale. […]. Questi paeselli sono freschi freschi, ancora bianchi di intonaco, e sembra un sogno come siano potuti nascere improvvisamente in quelle contrade deserte e solitarie, ma ognuno li vede»3.
1 V. Ullo, La colonizzazione del latifondo siciliano – Nasce una nuova Sicilia, in «Le Vie d’Italia», XLV, novembre 1939-XVIII, 11, p. 1444. 2 Nallo Mazzocchi Alemanni era un economista rurale e urbanista di fama internazionale. Nel 1912 si laurea presso il Regio istituto tecnico Vittorio Emanuele II di Perugia con una tesi sull’agricoltura coloniale. L’anno successivo viene nominato Segretario della Commissione per lo studio agrologico della Tripolitania presso il Ministero delle colonie, dove resterà fino agli anni Venti. Durante gli anni Trenta ricopre numerosi incarichi tra cui quello di direttore dell’Ente di colonizzazione del latifondo siciliano. Il culmine della sua attività scientifica arriverà nella metà degli anni Cinquanta, quando avrà un ruolo di rilievo nella realizzazione della Riforma agraria sia come consigliere della Cassa del Mezzogiorno e consulente dell’Opera Valorizzazione Sila sia con la stesura di diversi piani generali per i consorzi di bonifica. 3 N. Savarese, I nuovi borghi. Borgo Gattuso, in «Lunario del Contadino Siciliano», aprilemaggio-giugno 1941-XIX, pp. 24-26. 323
Il borgo rurale Angelo Rizza sorge su di una piccola collina nella contrada Tummarello, tra Lentini e Sortino, in provincia di Siracusa, non lontano dal villaggio operaio Bardara di Lentini anche detto del Biviere realizzato, tra il 1930 e il 1933, per la bonifica della zona del lago di Lentini. L’architetto Pietro Gramignani aveva ricevuto, già nel 1939, l’incarico da parte di Mazzocchi Alemanni di progettare il borgo4, infatti, nel gennaio del 1940 l’impresa di costruzioni Ferrobeton5 aveva iniziato i lavori di realizzazione che si conclusero nell’ottobre dello stesso anno, in tempo per la solenne cerimonia di inaugurazione che si doveva svolgere contemporaneamente nei primi “otto borghi” della colonizzazione. Il borgo, che occupa un’area di circa 100 x 107 metri, creava con la natura circostante una corrispondenza univoca come se «tutte le costruzioni pare vogliano respirare e gioire della campagna, per mezzo di terrazze, per ampie finestre, per arcate d’ingresso»6, fornendo, così, un suggestivo impatto visivo. L’idea progettuale sulla disposizione dei volumi non era casuale, ma attentamente studiata «in modo tale che lo spazio e la luce riescano a compenetrare la massa architettonica, senza che questa perda per nulla il suo valore volumetrico, anzi risultando limpidamente definita»7. L’impianto di borgo Rizza si distingue nettamente da quello degli altri, anche se costruiti negli stessi anni e basati quasi sempre su una piazza chiusa o semi chiusa con assi sfalsati. In questo caso, invece, «gli edifici costituenti il Borgo saranno disposti secondo tre lati di un rettangolo aperto verso la via di accesso, la quale al punto d’arrivo forma una piazza e si biforca formando un anello attraverso il Borgo»8. La piazza, infatti, è individuata dallo spazio vuoto generato da una maglia regolare ortogonale a scacchiera, che determina la posizione planimetrica di tutti gli edifici9. Il vuoto-piazza non ha un’area stabilita, ma attraversa gli edifici, a destra e a sinistra, fino ad arrivare alla chiesa, che non essendo in asse rispetto all’ingresso principale rompe la regolarità della maglia. Questo schema si rifà al progetto del “villaggio tipo” ideato nel 1925 per realizzare i villaggi operai in Sicilia, come borgo Littorio a Petralia Sottana (1926) e borgo Regalmici a Castronuovo (1928), entrambi in provincia Palermo. Gli edifici di borgo Rizza sono tutti dei volumi a due piani, dove quasi sempre al pianterreno vi erano le attività di servizio e al piano superiore gli alloggi (fig. 1). Immaginando un percorso in senso orario, entrando nel borgo, lungo il margine di sinistra, troviamo l’edificio destinato alla Casa10 dell’Ente di colonizzazione, con 4 “La progettazione dei borghi si volle affidare ad architetti siciliani” con queste parole Mazzocchi Alemanni spiegava la scelta che lui stesso aveva fatto. Si veda N. Mazzocchi Alemnni, La redenzione del latifondo siciliano. Opere e problemi, Quaderni de «L’ora», Edizione de L’ora, Palermo, 1942, p.32. 5 La Ferrobeton realizzò anche il borgo Antonino Bonsignore, in provincia di Agrigento. 6 M. Accascina, I Borghi di Sicilia, in «Architettura», XX, maggio 1941, V, p. 185, p. 194. 7 Ibidem. 8 L. Dufour, Nel segno del Littorio. Città e campagne siciliane nel Ventennio, Lussografica, Caltanissetta, 2005, p. 370. 9 Lo stesso schema planimetrico lo ritroviamo nei villaggi Luigi di Savoia a Labrag e Beda Littoria, El Beida, entrambi nella provincia di Derna, in Libia. 10 Il termine Casa scritto in maiuscolo enfatizza l’utilizzo di un determinato edificio, anche se di piccole dimensioni, alla sua funzione specifica, quasi come se fosse un nome proprio. 324
al piano terra un portico d’ingresso e al primo piano un terrazzo e una loggia con quattro archi, probabilmente a tutto sesto. L’edificio accanto doveva ospitare l’ufficio postale e la caserma dei carabinieri.
Fig. 1 Pietro Gramignani, borgo Angelo Rizza, Lentini-Siracusa, 1939. Planimetria generale: 1_casa dell’ente di colonizzazione, 2_caserma dei carabinieri e ufficio postale, 3_scuola, 4_chiesa e casa canonica, 5_casa del fascio, 6_casa sanitaria, 7_botteghe degli artigiani, 8_trattoria. (disegno rielaborato M. R. Caniglia)
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La scuola, che occupa un intero lato della piazza, si compone di una parte destinata alle aule, a una sola elevazione, affiancata da un blocco a due piani che ospitava gli uffici e l’alloggio della maestra. La chiesa, posta all’estremità nord-orientale dell’area del borgo, non si trova in direzione dell’ingresso principale, ma bisogna giungere al centro della piazza per poterla scorgere, inoltre l’accesso al sagrato avviene tramite una scalinata perché la chiesa e la Casa canonica sono sopraelevati di circa due metri rispetto alla piazza. Soluzione che potrebbe essere giustificata dalla necessità di conferire a questi edifici maggiore visibilità da lontano. Il volume semplice, la facciata e le pareti laterali scandite da lesene e piccole finestre, il tetto a doppia falda e una singola campana caratterizzano l’esterno della chiesa (fig. 2). L’interno a navata unica, invece, è articolato da tre arcate in calcestruzzo armato, con la funzione di struttura portante e dall’altare maggiore a forma di semiedicola incassato nella muratura (fig. 3). Si presume che non sia stata mai consacrata, diversamente dalle altre chiese dei borghi, forse perché il suo completamento è avvenuto solo dopo il totale abbandono da parte dei coloni. La canonica, anch’essa a due piani, con la sacrestia in corrispondenza della chiesa e al piano superiore l’abitazione del parroco con un ingresso indipendente nel retro dell’edificio.
Fig. 2 L’esterno della chiesa, a sinistra, veduta d’insieme della piazza con la Casa del Fascio e la scuola (da ACCASCINA MARIA, I Borghi di Sicilia, in «Architettura», XX, maggio 1941, p. 194); a destra, il volume della chiesa e della Casa canonica (foto M. R. Caniglia, 2016)
Fig. 3 L’interno della chiesa, a sinistra, le arcate in calcestruzzo armato; a destra, l’altare maggiore (foto M. R. Caniglia, 2016) 326
La Casa del Fascio domina il lato orientale della piazza, diventando punto di fuga della prospettiva centrale rispetto all’ampia strada ingresso (fig. 4). Il piano inferiore dell’edificio, caratterizzato da un portico chiuso, doveva ospitare le sedi dell’Opera nazionale dopolavoro e della Gioventù italiana del Littorio. Il primo piano, invece, sovrastato dallo slogan «credere obbedire combattere» e da una doppia scalinata, che si trasforma in una balconata con la funzione di arengario, doveva ospitare gli uffici dei sindacati e della delegazione podestarile, uno dei quali decorato con un pannello affrescato dal pittore Alfonso Amorelli (1898-1969)11.
Fig. 4 La Casa del Fascio, particolare del prospetto principale con lo slogan credere obbedire combattere, sullo sfondo la scuola (da BEVILACQUA PAOLO, Il paesaggio italiano nelle fotografie dell’Istituto Luce, 2002, p. 25)
La Casa sanitaria, posta nel vertice sud-orientale, rispetto agli altri è l’edifico più piccolo e non ha né logge né terrazze. In quello accanto, riservato alle botteghe degli artigiani (sarto, calzolaio, barbiere e carrettiere), due lati del piano terra sono articolati con un gioco di bucature e portici, corrispondenti al piano superiore a due terrazze. La trattoria, infine, oltre agli esercizi commerciali ospita al piano superiore l’abitazione del locandiere e una piccola pensione. Nel linguaggio architettonico usato da Gramignani emerge una logica costruttiva costante in tutti gli edifici, senza nessuna influenza da parte dell’architettura “tradizionale” siciliana e, soprattutto «non si perpetua il gusto per il chiuso, ma si mitiga il geloso e misterioso costruire a pareti piene con la tipica espansività delle case napoletane tutte terrazze e scalette»12. 11 Alfonso Amorelli nel 1940 affrescò l’abside della chiesa del borgo Amerigo Fazio, in provincia di Trapani. 12 M. Accascina, op. cit., p. 194. 327
Il progetto dell’impianto idrico, invece, è stato affidato all’ingegnere Filippo Marino, già incaricato per il progetto del borgo Pietro Lupo a Mineo, nei pressi di Catania. Il serbatoio dell’acqua, posto a circa 500 metri dal borgo, sembra quasi un mausoleo conservando ancora oggi il suo aspetto monumentale, le iscrizioni e i simboli originali. Durante la seconda guerra mondiale il borgo subisce danni ingenti, infatti, tra il 1945 e il 1946 l’ECLS esegue diversi controlli. Nello stesso anno veniva approvata una perizia per il consolidamento della caserma dei carabinieri, ma durante un sopralluogo, nel marzo del 1946, per verificare l’andamento dei lavori il borgo si presentava deserto, tutti gli uffici erano stati abbandonati. Dal 1956 furono eseguite altre valutazioni tecniche per effettuare lavori di manutenzione straordinaria (muratura portante, architravi, coperture e rifiniture). La caserma dei carabinieri viene trasferita nell’edificio della Casa del Fascio, che nel frattempo aveva la funzione di delegazione municipale. Questa nuova destinazione d’uso ha modificato, in maniera sostanziale, il prospetto principale della Casa del Fascio, corrispondente a quello attuale. Nel 1961, dopo diverse anomalie nelle gare di appalto, i lavori verranno affidati all’impresa Valvo, nonostante ciò questi subiranno continue interruzioni per motivi ancora poco noti, le fonti risultano frammentarie e in dissonanza tra loro. Tra gli anni Cinquanta e Settanta l’ECLS, ormai trasformato in Ente per la Riforma Agraria (ERAS) dalla Legge Regionale 104/1950, aveva ricevuto numerose richieste per usare i locali del borgo, anche temporaneamente, come abitazione, trattoria, colonia estiva, osservatorio astrofisico e scuole professionali. Le risposte dell’Ente sono state quasi sempre negative e con esigue motivazione. Nel 1971, completato l’impianto elettrico, verrà rescisso il contratto con l’impresa Valvo, dopo undici anni dall’inizio dei lavori. Anche se questi non sono stati ultimati hanno apportato delle piccole variazioni architettoniche nella visione d’insieme del borgo, come il rapporto tra la piazza e la strada d’accesso e gli edifici. La Casa del Fascio è l’edificio che ha subito più alterazioni sia in planimetria sia nel prospetto principale, infatti, rispetto al 1940 dove era forte l’effetto quasi scenico tra edificio-borgo-strada, oggi questa “veduta” è cambiata, anche dalla presenza degli alberi di eucalipto. Durante gli anni Novanta è stato costruito un edificio accanto alla chiesa, con l’entrata di accesso dalla parte retrostante la piazza, certo è che se non fosse per il linguaggio architettonico e per la destinazione d’uso, totalmente contrastanti con quelli degli altri fabbricati, sembrerebbe quasi far parte del progetto originale del borgo. Gli ingegneri Angelo Mangano e Francesco Rossello, nel 2001, ricevono l’incarico per redigere il progetto esecutivo «Recupero e Rifunzionalizzazione “Borgo A. Rizza” nel Comune di Carlentini» e, soltanto nel 2005 l’impresa Ortigia Restauri di Siracusa, risultando vincitrice, avvia i lavori di tre degli otto edifici esistenti13, la Casa del Fascio, la scuola e le botteghe degli artigiani (fig. 5):
13 Progetto approvato con il PIT Hyblon-Tukles per un importo di euro 845.956,000. Si veda Determina del responsabile area IIIa LL.PP., n. 45 del 13/02/2009. G. Grimaldi, A buon punto i lavori per il recupero del Borgo Angelo Rizza, in «La Sicilia», 16 febbraio 2007. https://www.google.it/search?q=det_dir_45_2009&oq=det_dir_45_2009&aqs=chrome..69i5 7.14454j0j8&sourceid=chrome&ie=UTF-8#q=comune+carlentini+hyblon+tukles. 328
«Un intervento di recupero funzionale, teso a non alterarne lo stilo architettonico e le caratteristiche strutturali. I locali da destinare alle attività previste ed i relativi servizi sono stati ubicati al piano terra degli edifici […]. I tre edifici recuperati, di superficie utile complessiva pari a circa mq. 1.000, […], sono costituiti da spazi collettivi, camere e servizi. […] sono stati resi disponibili n. 2 sale multiuso con capienza massima di n. 80 posti a sedere e camere utili a potere ospitare n. 40 posti letto, nonché spazi esterni, di circa 10.000 mq di superficie, utilizzabili per organizzare manifestazioni all’aperto e per la realizzazione di parcheggi»14.
Per il recupero dell’edificio dell’Ente e quello della caserma è stato necessario richiedere ulteriori finanziamenti attraverso il nuovo programma regionale FESR 2007-2013 (fig. 6): «Secondo le previsioni progettuali il Borgo è destinato ad ospitare aule di formazione e a svolgere funzione di centro di erogazione di servizi per iniziative atte a valorizzare i prodotti tipici del comprensorio. All’interno di uno degli edifici era inoltre prevista la realizzazione di un “Museo della Cultura Gastronomica Iblea”. […], l’obiettivo finale del progetto di valorizzazione del borgo, […] la sua trasformazione in una cittadella tecnologica e scientifica […]. Attualmente gli edifici recuperati sono utilizzati in maniera non continuativa dal Comune per incontri istituzionali e da locali associazioni religiose per ospitare campi scuola per giovani»15.
Il comune di Carlentini, nel 2008, ha pubblicato una manifestazione di interesse relativa alla gestione del borgo «come sede di un centro servizi destinato a sostenere lo sviluppo turistico rurale del comprensorio Val d’Anapo ed altre attività compatibili con lo sviluppo economico della zona»16, sono arrivate solo due proposte e una delle quali, risultata vincitrice, ancora nel 2011 non aveva ricevuto la concessione d’uso. Nel 2010 tra il comune e l’Assessorato Regionale delle Risorse Agricole e Alimentari è stato firmato un protocollo d’intesa per la realizzazione di un progetto sperimentale nella ricerca vivaistica e nello sviluppo delle colture degli agrumeti, prevedendo, inoltre la creazione di strutture dedicate alla didattica e alla ricerca17. L’edificio destinato alle botteghe oggi sembra l’unico utilizzato, almeno nel periodo estivo, dalla guardia forestale per le esercitazioni antincendio. Il processo di recupero e valorizzazione del borgo necessita di interventi molto più complessi e peculiari, mirati al vero e possibile riutilizzo, perché le ipotesi e gli infiniti progetti fino a questo momento ideati, non sono stato altro che un’incompiuta. Se da una parte c’è stata la volontà e le “finanze” dall’altra continuano ancora a interporsi invisibili ostacoli tra il borgo e le mutate condizioni per le quali era stato concepito. 14 L’attuazione dei PIT in Sicilia una valutazione finale dell’esperienza, Palermo, ottobre 2011, p. 161. http://www.dps.tesoro.it/documentazione/snv/piani_valutazione/sicilia/Valutazione_ PIT_Rapporto_Finale.pdf. 15 Ivi, p. 162. 16 Ivi, p. 155. 17 Piano Generale di sviluppo 2013-2017, (delibera Consiglio Comunale n°17, 20/05/2015), pp. 39-40. http://www.comune.carlentini.sr.it/files/Piano_Generale_di_Sviluppo.pdf Si veda http://www.webmarte.tv/2010/05/18/una-cittadella-tecnologica-a-carlentini/ http://www.vivienna.it/2010/05/05/agricoltura-sicilia-vivaio-paulsen-avvia-produzionisperimentali/. 329
Fig. 5 Gli edifici del borgo dopo i lavori di ristrutturazione iniziati nel 2005, da sinistra in alto, prospetto principale della Casa del Fascio con accanto la Casa sanitaria; profilo laterale della Casa del Fascio e sullo sfondo le botteghe degli artigiani; articolazione dei prospetti delle botteghe degli artigiani; prospetto principale della scuola (foto M. R. Caniglia, 2016)
Fig. 6 Gli edifici dell’Ente di colonizzazione e della caserma dei carabinieri dopo i lavori di ristrutturazione iniziati nel 2010 (foto M. R. Caniglia, 2016)
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Bibliografia Accascina M., I Borghi di Sicilia, in «Architettura», XX, maggio 1941. Accascina M., I borghi di Sicilia, in «Giglio di roccia», II, aprile-giugno 1942. Barbera P., Architettura in Sicilia tra le due guerre, Sellerio, Palermo, 2002. Bevilacqua P., Il paesaggio italiano nelle fotografie dell’Istituto Luce, Editori riuniti – Istituto Luce, Roma, 2002. Dufour L., Nel segno del Littorio. Città e campagne siciliane nel Ventennio, Lussografica, Caltanissetta, 2005. ECLS, La Colonizzazione del latifondo siciliano. Primo anno, Documenti fotografici, leggi e decreti, Ministero dell’Agricoltura e delle Foreste, Ente di Colonizzazione del Latifondo Siciliano, Tipografia della Camera dei Fasci e delle Corporazioni – Ditta Carlo Colombo, 1940. Grimaldi G., A buon punto i lavori per il recupero del Borgo Angelo Rizza, in «La Sicilia», 16 febbraio 2007. Il Duce ordina la colonizzazione e la trasformazione del latifondo isolano, in «Il Popolo di Sicilia», venerdì 21 luglio 1939-XVII. Mazzocchi Alemanni N., La redenzione del latifondo siciliano. Opere e problemi, Quaderni de «L’ora», Edizione de L’ora, Palermo, 1942. Savarese N., Borgo nuovo: vita nuova – Borgo Lupo, in «Lunario del Contadino Siciliano», ottobre-novembre-dicembre 1941-XIXXX. Ullo V., La colonizzazione del latifondo siciliano – Nasce una nuova Sicilia, in «Le Vie d’Italia», XLV, novembre 1939-XVIII. http://www.comune.carlentini.sr.it/files/Piano_Generale_di_Sviluppo.pdf (ultima consultazione 20/11/2016) http://www.dps.tesoro.it/documentazione/snv/piani_valutazione/sicilia/ Valutazione_PIT_Rapporto_Finale.pdf (ultima consultazione 20/11/2016) https://www.google.it/search?q=det_dir_45_2009&oq=det_dir_45_2009&aqs=c hrome..69i57.14454j0j8&sourceid=chrome&ie=UTF-8#q=comune+carlentini+hybl on+tukles (ultima consultazione 10/11/2016) http://www.vivienna.it/2010/05/05/agricoltura-sicilia-vivaio-paulsen-avviaproduzioni-sperimentali/ (ultima consultazione 02/12/2016) http://www.webmarte.tv/2010/05/18/una-cittadella-tecnologica-a-carlentini/ (ultima consultazione 02/12/2016)
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Paesaggi d’archivio
Maria Lina La China
Immergersi negli archivi che hanno documentato la trasformazione del territorio agrario siciliano impedisce di guardare i diversi fazzoletti di terra che a vario modo si distribuiscono sul territorio senza leggervi una lunga storia di lotte e progetti, soprusi e rivolte o semplice assuefazione. Per riscoprire la texture del paesaggio della riforma agraria, intesa come risultante di interventi di bonifica e colonizzazione, sviluppatisi nell’intento di scardinare il “regime” latifondistico, appare indispensabile enunciare alcune norme che hanno determinato la costruzione dei borghi rurali1, e una serie di modifiche all’assetto del territorio: la costruzione di una più fitta rete viaria, la distribuzione di migliaia di abbeveratoi, una rete di nuovi acquedotti e un il sistema complesso di elettrificazione. Borghi e piani risentono direttamente di cinque fasi storico normative. La prima fase va dall’abolizione della feudalità alle bonifiche del 1923. La legge sull’abolizione della feudalità, 1806, avrebbe dovuto dare un forte impulso al cambiamento dell’assetto dell’isola ma non riuscì a scalfire il potere dei baroni e dei grandi latifondisti. Anche le norme che aprono, nel 1906, il credito Agrario presso il Banco di Sicilia, incrementano anziché ridurre, il potere dei pochi possidenti. Quando nel 1917 viene creata l’Opera Nazionale Combattenti2 molte attese vengono disertate e in Sicilia nascono poche cooperative per l’esecuzione delle opere di bonifica. Mentre in tutta Italia nascono altre forme di cooperative, alle quali vengono assegnate quelle terre requisite dal decreto Visocchi, nell’isola, le cooperative dei reduci di guerra nascono nell’intento di emarginare le cooperative “rosse” e “bianche”, e non ebbero molto seguito.
1 Sono stati esclusi dall’indagine sia i borghi o villaggi per zolfatari che le borgate costruite come estensioni urbane e gli insediamenti per i cantonieri stradali, nonché nuove città nate dall’esigenza di spostare, per gravi eventi naturali (sismi o eruzioni) città già esistenti; l’attenzione vuole infatti rivolgersi a quei manufatti che erano strettamente connessi alla trasformazione dell’economia agricola. 2 Semplicemente ONC, nata dal decreto 1970 del 10-12-1917 e soppressa con decreto n. 616 del 1977. 333
La sconfitta del movimento contadino è segnata dal decreto dell’11 gennaio 1923 con cui vengono revocate le concessioni dei latifondi alle poche cooperative esistenti.3 Dalla Bonifica del 1923 al nuovo Testo del 1933 assistiamo alla seconda fase normativa. Con l’applicazione del Testo Unico4 sulle bonificazioni l’isola viene profondamente modificata, indicando molte località tra “Le Opere di Bonifica da Classificare in Prima Categoria”. Da questi luoghi parte la trasformazione complessiva del paesaggio agricolo con un aumento complessivo delle terre coltivabili.
Fig. 1 Diploma di partecipazione alla mostra nazionale fascista al I° decennale della bonificapresso il consorzio di Bonifica di Palermo
3 L. Franchetti, Condizioni politiche e amministrative della Sicilia, ed. IMES, Roma, 1992; F. Renda, Il movimento contadino nella società siciliana, Sicilia al lavoro, Palermo, 1956. 4 Il Regio decreto-legge n. 3256 del 30-12-1923, pubblicato nel 1924 che prevedeva anche l’assegnazione dei demani comunali a colonie agricole e/o comprensori per opere di bonifica. 334
L’imput più forte alla trasformazione è dato dalla battaglia del grano, lanciata nel 1925. L’intervento del regime fascista, che prevede un intenso processo di bonifica e colonizzazione, è da legarsi soprattutto alla volontà di incrementare il potere dello Stato anche nei luoghi dominati, non tanto dal latifondismo quanto dalla mafia. Pertanto, se la costruzione dei primi borghi in prossimità delle masserie esistenti o lungo nuove arterie viarie si deve alla politica di bonifica integrale, la costruzione di veri “centri rurali”5 o meglio “città-rurali”6 è opera della politica del regime intesa a cambiare radicalmente i rapporti tra la terra ed il contadino, nell’ottica della creazione dell’”uomo nuovo”7. Con decreto n. 2110 del 19-09-1925 viene istituito l’Istituto Vittorio Emanuele III per il bonificamento della Sicilia e l’assetto della proprietà terriera viene modificato con borghi che applicano il progetto “tipo” «per la costruzione di fabbricati per gli alloggi di operai occupati nell’esecuzione di opere pubbliche», successivamente destinati all’agricoltura. Non va tralasciata l’ordinanza di ripartizione in quote dei suoli appartenenti agli usi civici nel Regno, che produce un ulteriore arricchimento di alcuni potenti locali e una frammentazione di vasti boschi8.
Fig. 2 Faldoni riguardanti il Bosco di S. Pietro - presso l’archivio comunale di Caltagirone
5 G. Mangano, Per il popolamento delle campagne siciliane centri rurali e non villaggi rurali, in Centri rurali, studi monografie e rapporti dell’Istituto Vittorio Emanuele II n. 4, Istituto Vittorio Emanuele II per il Bonificamento della Sicilia, Palermo, 1937. 6 E. Caracciolo, La nuova urbanistica nella bonifica del latifondo siciliano, Palermo, 1942. 7 A. Pennacchi, Fascio e martello. Viaggio per le città del Duce, Laterza, Roma-Bari, 2008. 8 Esemplare il caso del Demanio di Santo Pietro a Caltagirone, dove sarebbe dovuta sorgere Mussolinia di Sicilia. 335
Infine è del 1927 la norma n. 1042 che prevede benefici in contributo a privati per operare la bonifica. Dal testo Unico della Bonifica del 1933 allo sbarco alleato in Sicilia si sviluppa la terza fase. Se il Testo Unico in Italia è del 1933, la legge che decreta la Colonizzazione è la n. 1 del 2 gennaio 1940, attuata dall’Ente di Colonizzazione del Latifondo Siciliano (ECLS), istituito solo un mese dopo. L’ente, generato dall’Istituto Vittorio Emanuele III, è da considerarsi uno dei più importanti attori della trasformazione del paesaggio, senza tralasciare tuttavia l’apporto dei diversi consorzi di bonifica9 autorizzati all’attuazione della bonifica e dalla colonizzazione.
Fig. 3 Scatola contenente il piano di bonifica di Lentini presso la sede del consorzio di bonifica di Lentini
Inoltre i proprietari terrieri che possedevano terreni ricadenti al di fuori dei comprensori di bonifica, avevano l’obbligo di attuare la colonizzazione dei propri fondi con la creazione di unità edilizie e colturali e con la stabilizzazione delle famiglie coloniche, imponendo il frazionamento terriero con la costruzione all’inizio di sole case coloniche, generalmente assolutamente prive di servizi civili. A tale inconveniente 9 Consorzi che potevano avere varie finalità, dalla costruzione di strade alla realizzazione di una bonifica paludosa, al riassetto dell’alveo fluviale. Gli attuali consorzi di Bonifica, secondo gli accorpamenti pubblicati il 29-5-1995 sulla Gazzetta Ufficiale Della Regione Siciliana, Parte I n. 29, includono i precedenti consorzi locali e sono 11 ed incorporando anche parti del territorio e in precedenza non interessate a specifici piani di trasformazione. 336
si ovviò con la costruzione di diversi borghi contenenti i servizi secondo quanto previsto dal decreto ministeriale n. 7087 del 25 giugno 1940. Questo prescriveva di colonizzare quelle zone comprese entro un raggio di 5 km dai borghi, mentre il successivo decreto 306 del 1941, estendeva l’obbligo di colonizzazione ad una fascia larga 15 km, nonché a sinistra a destra dei tratti di alcune specifiche strade. Tra il 1940 e il 1941 nascono borghi e sottoborghi e si procede all’appoderamento limitrofo con l’edificazione di case singole per i contadini che avrebbero fruito dell’assegnazione di 20 ettari di terreno.
Fig. 4 Assonometria del borgo rurale Caracciolo - presso archivio Arch. Fichera di Catania
Il decreto 890 del 1942 conferma il trasferimento gratuito ai Comuni degli edifici e degli impianti di loro competenza, costruiti a spese dello Stato nei centri rurali sorti nelle zone del latifondo siciliano, con vincolo della destinazione perpetua a uso di pubblica utilità, mentre la rimanente parte degli edifici ricadenti nei borghi rimena di proprietà del Demanio. La quarta fase esordisce con l’Italia repubblicana e si sviluppa con le lotte contadine. Dal luglio 43, la Sicilia è sottoposta all’AMGOT mentre i partiti “unitari” si 337
riorganizzano. Evento eccezionale in merito all’economia agricola fu il Consiglio dei Ministri del 31 agosto-1 settembre 1944 che decise: sull’istituzione dei granai del popolo, sulla legislazione agraria di emergenza e sulle forme di decentramento ed autonomia regionale. Problemi, questi, che avevano provocato i gravi sommovimenti nell’isola. Del 1944 sono i decreti del ministro Fausto Gullo10 riguardanti la concessione delle terre incolte alle cooperative di contadini e la modifica dei patti di mezzadria; partendo questi decreti si arriva alla Riforma Agraria. Per tutta questa fase di rivendicazioni l’ECLS continua a svolgere la sua funzione di coordinamento nella trasformazione dell’isola. Nel 1948 diventa attuatore del decreto legislativo n. 114, che prevede di favorire la piccola proprietà contadina: i suoli venivano “espropriati” a titolo oneroso ai proprietari inadempienti ed assegnati alle associazioni di contadini. La Riforma Agraria è l’ultima fase pre Europea. A partire dalla Legge Sila del 12 maggio 1950, detta anche Legge Stralcio, che delega al governo la delimitazione di alcuni comprensori d’intervento per rilanciare in essi l’economia agricola, fino al 1960, furono trasferiti ai contadini 417.000 ettari di suolo. Il disegno di legge che vede l’applicazione della Riforma in Sicilia, viene presentato dagli onorevoli Milazzo, Restivo, La Loggia e approvato sulla scia delle proteste dei contadini rispetto alla razionale utilizzazione delle terre. Anche nella legge isolana si decise l’esproprio delle proprietà eccedenti i duecento ettari e la distribuzione in quote. La legge regionale del 50 prevedeva l’assegnazione delle terre per sorteggio individuale con la suddivisione in lotti dell’ampiezza media di circa 3 ettari11, all’interno dei quali in genere veniva edificata la residenza rurale. La Legge Regionale n. 104 istituisce l’Ente per la Riforma Agraria in Sicilia (ERAS), che in realtà nasce dalla trasformazione nominale dell’ECLS, infatti dipendenti e dirigenti permangono e continuano a elaborare progetti uniformati alla legislazione precedente. Dall’osservazione delle forme adottate per gestire il territorio isolano, si può notare la continuità nei modelli di insediamento, almeno per quanto riguarda la scelta di sviluppare la maglia di borghi rurali come nodi di una nuova economia agricola. Pur nella trasformazione sociale degli anni 50 e 60, enunciata da tutti i mezzi di comunicazione, il fil rouge che lega tutti gli atti fondativi è la gestione del potere sulle masse rurali e sul territorio. Tale continuità, diventa più palese quando ci si occupa dell’assegnazione di case singole legate ai poderi: questi ultimi si riducono e le prime aumentano in numero ma non in qualità, rispondendo alla nuova esigenza di casa alla quale i politici rispondono per non ridurre il proprio bacino di elettori. L’ERAS, oggi ESA, è uno dei protagonisti della trasformazione agricola isolana, nella sua storia si può notare una continuità della volontà politica, volta forse più alla distribuzione ed al riassetto di equilibri di potere, che ad una reale visione economicistica nell’uso dei suoli agricoli. 10 Fausto Gullo, emana dall’ottobre 1944 ad aprile 1945 ben 6 decreti, ad integrazione dei precedenti decreti Falcioni-Visocchi. 11 Potevano essere assegnati lotti inferiori a tre ettari quando nel caso di terreni particolarmente fruttuosi o posti nelle immediate adiacenze dei centri abitati. 338
Per quanto attiene ai borghi le tipologie legate alle fasi normative sono: • borghi legati alla costruzione di infrastrutture viarie e quelli edificati da privati (Bonifica fino al 40); • borghi e sottoborghi del primo periodo di azione dell’ECLS, seguiti da borghi del tipo A, B e C secondo il decreto interministeriale del gennaio 1941. (Colonizzazione dal 309 al 50); • borghi del tipo A, B, C questi ultimi spesso nominati anche ridotti o di servizio e agglomerati di residenze rurali derivanti da piani di ripartizione. (Riforma Agraria dopo il 50); • per volontà edificatorie ed uso, possono essere suddivisi in quattro grandi categorie; • borghi edificati da nobili proprietari “illuminati”;12 • villaggi rurali legati alle operazioni di bonifica; • borghi e sottoborghi del periodo di colonizzazione fascista, ultimati entro il 1949; • borghi della Riforma Agraria, la cui costruzione comincia a partire dalla legge del 1950. La morfologia degli insediamenti, per tutto il periodo antecedente alla fase di colonizzazione, è caratterizzata dalla realizzazione di sole abitazioni rurali, disposte a schiera, con la successione di alloggi semplici, soprattutto nel caso di interventi promossi da privati a ridosso di grandi masserie esistenti. Per la realizzazione di villaggi operai si rispetta il tipo con piazza quadrangolare dagli angoli smussati, completo o dimezzato. Successivamente, per tutto il periodo fascista ed oltre, le tipologie edilizie si diversificano e i progettisti compongono i vari elementi secondo morfologie a volte legate ai luoghi, ma più spesso secondo un “estro” personale. Proprio l’ECLS nel 1939 dichiara «dovranno essere concepiti come modesti borghi rurali, non destinati ad ampliamenti per incrementi demografici che li porterebbero fatalmente a costituire il nuclei iniziali di future città di contadini». Tale affermazione conferma la volontà mussoliniana di ruralizzazione di cui tratta R. Mariani13, tuttavia non possiamo tralasciare i recenti scritti di A. Pennacchi che preferisce la definizione “città di fondazione”, almeno per i borghi edificati fino agli anni ‘50, date anche le similitudini morfologiche e tipologiche con le città nuove dell’Agro Pontino. Osservando la composizione degli elementi che li definiscono, possiamo individuare una serie di schemi ripetuti: • ad una sola piazza, in cui l’asse viario di accesso può essere: passante a baionetta, perfettamente assiale alla piazza o perimetrale ad essa; • a due piazze: con una piazza civica ed una “sacra”, con 2 piazze civiche, con una piazza chiusa ed una aperta; • articolati su pendii; • con un solo edificio di servizio che articola su una corte interna le diverse funzioni; • con più edifici di servizio articolati secondo uno schema aperto o in linea. 12 S. Di Fazio, Il problema insediativi e la pianificazione del territorio rurale in Sicilia nella prima metà del XX secolo, in «Tecnica Agricola», n. 3-4 del 2002. 13 R. Mariani, Fascismo e città nuove, Feltrinelli, Milano, 1976; R. Mariani, Citta e campagna: in Italia, 1917-1943, Edizioni di Comunita, Milano, 1986. 339
Per quanto riguarda gli agglomerati derivanti da piani di ripartizione, ove non è possibile individuare altri servizi comuni se non i magazzini o una piccola porzione residenziale riservata all’Ente, le residenze possono essere distribuite: o lungo un solo asse viario, lungo più assi viari paralleli raccordati solo perimetralmente, con un’orditura ippodamea, a” cul de sac”. Morfologicamente più complessi sono i casi di Sferro e Filaga dove ai primi insediamenti, vengono aggiunte altre edificazioni ed addirittura ampliamenti autonomi, tanto che per Sferro il Consorzio di Bonifica di Catania propone nel 1953 il progetto di un nuovo borgo14, costruendo quella parte che è ancor oggi adibita a sede consorziale, priva della chiesa, crollata poco dopo la sua costruzione.
Fig. 5 illustrazione schematica della morfologia dei borghi rurali - estratta dalla tesi di Laurea di Katia Carcione, Relatore F. Trapani, correlatrice La China Maria Lina, A.A. 2009-2010
Il progetto di trasformazione del territorio agricolo, pur non avendo un piano generale acclarato, come il più moderno piano regionale, fa comunque intuire la volontà di una gestione complessa articolata di una vasta rete di servizi di affiancamento all’attività rurale. Molti piani di bonifica vengono redatti dai consorzi e dall’ECLS, tanto che se si potesse realizzare un collage delle cartografie degli interventi, probabilmente nessuna parte del territorio rimarrebbe esclusa. L’assenza di una cartografia che testimoni un progetto generale non deve indurre a pensare all’assenza di un piano complessivo. Si ricordi che ancor prima del varo dell’intenso processo di colonizzazione «i piani di bonifica redatti fino al 1938, da 38 comprensori di bonifica […] coprivano una superficie pari a 728.588 ettari, ossia quasi tutta la superficie a latifondo e più di 14 Archivio voti del Provveditorato alle opere pubbliche di Palermo, Voto 30.471 del 12 maggio 1953. 340
1/3 della superficie agraria dell’isola»15, e che più tardi il numero dei comprensori fu aumentato imponendo attività di miglioria anche ai privati. Riguardo un mancato progetto generale di bonifica, tale ipotesi viene smentita dallo studioso Rossi Doria16 il quale afferma che «ciascun piano di bonifica integrale […] sembra avere tutti i requisiti d’un piano regionale “urbanisticamente” inteso, con la funzione principale della ricerca di soluzioni dei problemi di un territorio, con la realizzazione di interventi che risultino vitali cioè e capaci di sano e autonomo sviluppo dopo l’impianto». E. Caracciolo17 aveva descritto la città rurale come «non formata da elementi diversi: case sparse cui aggiungere il nucleo centrale […], ma un tutto unico armonico ed estremamente diradato nella campagna», una sorta di Broadacre city. Tuttavia il piano “regolatore” dei borghi rurali non può avere crescita illimitata giacché si fonda sull’estensione e la qualità del suolo coltivabile intorno ad esso. L’impossibilità di ampliare gli insediamenti, si imponeva più per una precisa volontà politico-economica che una scelta tipologica, ecco perché, con i cambiamenti economici, gran parte dei borghi viene abbandonata.
Bibliografia Caracciolo E., La nuova urbanistica nella bonifica del latifondo siciliano, in L’assalto al latifondo siciliano, Ministero dell’Agricoltura e delle Foreste, Ente di colonizzazione del latifondo siciliano, Palermo, 1942 . Franchetti L., Condizioni politiche e amministrative della Sicilia, IMES, Roma, 1992. Mangano G. , Per il popolamento delle campagne siciliane centri rurali e non villaggi rurali, in Centri rurali, studi monografie e rapporti dell’Istituto Vittorio Emanuele II n. 4, Istituto Vittorio Emanuele II per il Bonificamento della Sicilia, Palermo, 1937. Mariani R., Citta e campagna: in Italia, 1917-1943, Edizioni di Comunita, Milano, 1986. Mariani R., Fascismo e città nuove, Feltrinelli, Milano, 1976. Pennacchi A., Fascio e martello. Viaggio per le città del Duce, Laterza, RomaBari, 2008. Renda F., Il movimento contadino nella società siciliana, Sicilia al lavoro, Palermo, 1956. Rossi Doria M., I rilevamenti agronomici ed economico-agrari nella preparazione dei piani di bonifica e dei piani regionali, INU, Roma, 1953. Ruini C., Le vicende del Latifondo Siciliano, Sansoni, Firenze, 1946.
15 C. Ruini, Le vicende del Latifondo Siciliano, Sansoni, Firenze, 1946. 16 M. Rossi Doria, I rilevamenti agronomici ed economico-agrari nella preparazione dei piani di bonifica e dei piani regionali, Roma, 1953. 17 E. Caracciolo, La nuova urbanistica nella bonifica del latifondo siciliano, Palermo, 1942. 341
I paesaggi della riforma agraria: dalla rivolta popolare alle prospettive di valorizzazione delle terre dell’Arneo
Alessandro Viva
Premessa Le vicende storiche dei territori dell’Arneo, legate alla Riforma Agraria (“Legge Stralcio” del 21 ottobre 1950, n. 841), si collocano all’interno del complesso quadro storico del Mezzogiorno del secondo dopoguerra e costituiscono un elemento di fondamentale importanza per rivalutare alcuni aspetti della questione meridionale. La ricostruzione della storia dei moti popolari dell’Arneo si intreccia infatti con la politica di modernizzazione capitalistica, favorita dal Piano Marshall e dalle iniziative della Cassa del Mezzogiorno, nonché con le linee di pensiero dei partiti della Sinistra (Psi e Pci). Nel caso pugliese, alle istanze dei moti contadini corrispose una politica violenta di repressione di uno Stato clerico-liberale centrista, sostenuta da ceti agrari basati su un modello di agricoltura latifondistica. In particolare l’occupazione delle terre dell’Arneo, tra la fine del 1950 e l’inizio del 1951, scaturì proprio dall’esclusione, in un primo momento, di questi territori da quelli beneficiati dalla Legge “Stralcio” del 1950. Il movimento sindacale per la liberazione delle terre salentine era già attivo durante i governi di coalizione antifascista, dal 1944 al 1947, nel contesto delle lotte per la concessione delle terre incolte e per il rinnovamento dei patti agrari, previsti dalle leggi di quegli anni. Questo contributo si concentrerà sugli eventi che porteranno all’inclusione dei territori dell’Arneo nei territori beneficiati dalla già citata Legge 841 del 1950. A conclusione di questo breve scritto, sarà possibile anche estrapolare alcune analisi tematiche di attualità, che suggeriscono possibili linee guida strategiche per una valorizzazione del prezioso patrimonio di testimonianze materiali ed immateriali del territorio dell’Arneo.
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Alcune riflessioni sulla vicenda storica dell’occupazione delle terre dell’Arneo La crisi socio-economica1 che l’Italia attraversava tra la fine del 1947 ed i primi mesi del 1948, costituì lo scenario di riferimento di una serie di tragiche agitazioni nella terra dell’Arneo2. Questi scontri, sedati nel sangue3, posero al centro alcune importanti istanze dei lavoratori agricoli riguardanti il salario e le condizioni di occupazione4. Come rilevò in un suo celebre discorso, Luciano Romagnoli, segretario nazionale della Federbraccianti5, il problema della “miseria” dei bracciantili, cominciava così ad assumere una dimensione sempre più nazionale.
Fig.1 Da sinistra a destra: Corografia che rappresenta i limiti del Comprensorio della Riforma Agraria con evidenziazione dei terreni ricadenti nel territorio della Provincia di Lecce (elaborazione grafica dell’autore sulla base della planimetria tratta dal libro: La riforma fondiaria in Puglia Lucania e Molise. Prime realizzazioni, Laterza, Bari 1952, p.24-25). Corografia della Regione Puglia con evidenziazione il territorio dell’Arneo (elaborazione grafica dell’autore sulla base del PPTR)
1 Sull’argomento si veda: A. D’Alessandro, Politica economica e politica agraria in Italia (1944-1970), in Campagne e movimento contadino nel Mezzogiorno d’Italia, vol. II, Bari, 1980, p. 411-437. P. Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra ad oggi (Storia e politica 1943-1988). F. Renda, Campagne e movimento contadino nel Mezzogiorno d’Italia dal dopoguerra ad oggi, Laterza, Bari, 1979. 2 La terra dell’Arneo è così descritta dal poeta Vittorio Bodini in un reportage per la rivista Omnibus del 1951: “siamo in una landa macchiosa che ci circonda a perdita d’occhio tutta groppe ispide come di una sterminata mandria di bufali […] ma dei 42.000 ettari che occupa e che sottrae alla vita delle popolazioni la parte maggiore e per disgrazia la più deserta, la più ispida e priva di acqua, […] Da Nardò sino a Taranto non c’è nulla, c’è l’Arneo”. 3 Durante gli scontri nella terra d’Arneo, la sera del 20 nel Comune di Campi Salentina, trovarono la morte due lavoratori Nino Maci e Antonio Tramacere. S. Coppola, Quegli uomini coperti di stracci. Grafiche Giorgiani, Lecce, 1997. 4 M. Spedicato, Politica e conflitti sociali nel Salento post-fascista, Conte, Lecce, 1998; S. Coppola, Il movimento contadino in Terra d’Otranto (1910-1960), Capone Editore, Cavallino (Le), 1992. 5 L. Romagnoli, Scritti e Discorsi, Ed. Sindacale Italiana, Roma, 1968, p. 86-92. 344
A tale proposito, uno dei fattori determinanti che portò la critica politica, ed in seguito storiografica, a coordinare il consenso attorno alle retoriche sugli aspetti fallimentari della riforma, fu quello messo in evidenza da Aramis Guelfi. Il segretario del PCI salentino, evidenziò infatti come queste rivolte avessero dovuto concentrarsi sui «problemi di carattere produttivo […] per dare una coscienza produttiva alle masse contadine bracciantili ampliando gli obiettivi delle rivendicazioni alla concessione di 22.000 ettari di terre coltivabili e alla concessione di 50.000 ettari di oliveto a favore dei lavoratori, con contratti di mezzadria, di affitto oppure di entiteusi […] senza abbandonare il terreno della lotta per l’aumento salariale». All’atto pratico, si registrò qualche segnale in questa direzione, con conquiste sociali, ancor più che materiali6, seppur in maniera molto graduale ed in assenza di reali piani strategici programmatici sindacali. Se una cifra ancor più generale si può individuare riguardo questi temi, essa resta quella della loro trasversalità ad un concatenarsi di eventi fortementi legati tra loro: proprio in quel periodo giungevano infatti notizie dell’occupazione dei latifondi da parte dei braccianti siciliani e calabresi. Nei primi giorni di dicembre del 1949, migliaia di contadini si portarono con gli attrezzi di lavoro sulle terre dell’Arneo, dando inizio ad un’occupazione che si protrasse per più di un mese. A concorrere all’attacco del sistema del latifondo, la CGIL aveva posto con forza l’obiettivo dell’assegnazione delle terre in favore non solo delle strutture associative ma anche delle singole aziende familiari con un diritto di riscatto dopo 15 o 29 anni e non più limitate ad un periodo di quattro o nove anni, come previsto dalle Leggi Gullo-Segni7. A differenza di quanto era avvenuto nel novembre 1947, con le stragi di Melissa, Montescaglioso e Torremaggiore degli stessi mesi, non si verifcarono incidenti gravi, ma la repressione fu comunque molto dura: più di duecento lavoratori e dirigenti sindacali furono arrestati, fermati o denunciati. Tra la fine di dicembre del 1949 ed i primi giorni di gennaio del 1950 furono emanati alcuni decreti di concessione delle terre. Tuttavia nonostante tutti i grandi latifondisti salentini, tra cui il senatore Achille Tamborino promisero in totale 4.500 ettari di terra, in realtà se ne distribuirono soltanto un migliaio. I risultati raggiunti grazie alle lotte del 1949-1950, portarono, nel complesso, all’assegnazione di poco più di mille ettari con contratti di enfiteusi che prevedevano per lo più, un canone in natura e il diritto di riscatto dopo 15 anni; Nonostante queste possano essere considerate «le prime autentiche conquiste di classe per la terra del Salento»8, poco varranno ad un effettiva rivoluzione dello status sociale dei bracciantili. Ed è per questo che la Confederterra provinciale decise di riprendere le agitazioni concentrando la lotta non solo sul latifondo classico ma anche sugli oliveti per chiedere la concessione con contratti di compartecipazione. I lavoratori che 6 I contadini avevano saputo sviluppare forme di solidarietà da parte di vari strati sociali compresi commercianti ed esercenti. A. Catamo, V. Prati, W. Mazzotta, Arneo, Aspetti storico-sociali di uno dei comprensori più discussi del Mezzogiorno d’Italia, Tipografia Cairo, Veglie, 1983; S. Re, Arneo. Lotte contadine e riforma agraria, Biesse, Nardò, 1988. 7 A. Rossi-Doria, Il ministro e i contadini. Decreti Gullo e lotte del Mezzogiorno 1944-1949, Bulzoni, Roma, 1983. 8 S. Coppola, Il movimento contadino in Terra d’Otranto (1910-1960), Capone Editore, Cavallino (Le), 1992. 345
maggiormente avevano preso parte al movimento di protesta, furono, infatti, vittima di pratiche discriminatorie nella fase della concessione. All’interno dello stesso fronte dei lavoratori queste lotte contribuirono a favorire la costruzione politica di quella che il segretario del PCI salentino aveva indicato come “l’unità ideologica” del partito: negli scontri si unirono ai poveri braccianti salentini anche i coltivatori diretti, commercianti e altre categorie dei ceti medi9. Nonostante gli sforzi delle istituzioni politiche, quali la CGIL e la Confederterra10, la critica storiografica ha individuato un certo grado di paralisi del movimento sindacalista, sottolineando come nel Salento: «a) mancavano le cooperative di conduzione; b) non erano state fatte domande di concessione delle terre incolte, come da legge; c) le zone da occupare erano distanti dalle zone abitate e quindi non desiderate dai contadini»11. La primavera del 1950 costituisce un punto di craquement importante non solo per la ripresa delle occupazioni delle terre nel Salento ma anche perché, con l’approvazione da parte del nuovo governo De Gasperi, vennero adottati i primi provvedimenti di riforma agraria della “Legge Stralcio”, che escludevano la provincia di Lecce. Ciò costituì l’occasione per veicolare le mutate esigenze della classe lavoratrice in una nuova lotta di portata ideologica ancora più grande delle precedenti. Nei paesi del comprensorio dell’Arneo, ci fu una mobilitazione popolare guidata dai dirigenti politici del PCI e del PSI, insieme ai sindacalisti della CGIL, che organizzarono assemblee e comizi. All’alba del 28 dicembre del 1950 oltre duemila lavoratori, guidati dai capilega e dai segretari delle Camere del Lavoro, occuparono con le loro biciclette, imbracciando gli arnesi di lavoro e bandiere rosse e tricolori, le zone dell’Arneo limitrofe a quelle già interessate dalle concessioni dell’anno precedente (fig.2). La reazione repressiva non tardò: un intero contingente di polizia servendosi di lacrimogeni e manganelli, nonché di un aereo militare, allontanò i manifestanti grazie anche a spari intimidatori. Alla fine della giornata, come ricorda l’esponente della Confederterra Antonio Ventura «i pochi contadini rimasti lasciarono l’Arneo, a piedi, le loro biciclette contorte e bruciate erano rimaste sotto gli alberi d’ulivo, simbolo emblematico d’una sconfitta che poteva non essere tale». Questa sofferta lotta dei contadini, segnata da centinaia di arresti, portò ad una grande conquista: ben presto il governo estese alla provincia di Lecce la “Legge Stralcio”, istituendo anche gli Enti di Riforma. Nei primi mesi del 1951, la vicenda dell’Arneo raggiunse l’opinione pubblica nazionale, attraverso una diffuzione di cui se ne occupò la stampa locale e nazionale (fig.3).
9 D. De Giorgi-Nassisi, Antifascismo e lotte di classe nel Salento 1943-1947, Milella, Lecce, 1979, pp. 170-184. 10 I dirigenti della CGIL e della Confederterra, tra i quali si erano segnalati soprattutto Giorgio Casalino e Antonio Ventura si erano spostati nei diversi paesi della provincia per propragandare i temi della lotta. 11 M. Proto (a cura di), Agricoltura, Mezzogiorno, Europa. A conquant’anni dalle lotte contadine nell’Arneo e nel Salento, Piero Lacaita Editrice, Roma, 2001. 346
La Provincia di Lecce venne così inclusa nei territori oggetto di riforma per una superficie di 55.000 ettari su complessivi 266.000: ai terreni dell’Arneo (ricadenti nei Comuni di Nardò e Surbo) oltre a Otranto, S. Cesarea Terme, Lecce, Surbo, Melendugno e Vernole (Fig.1). Le concessioni furono licenziate nella forma dell’assegnazione di poderi con un’estensione da 5 a 9 ettari per i contadini privi di terra, e di quote da 1 a 3 ettari in favore dei piccoli proprietari. A più di cinquant’anni dall’occupazione delle terre dell’Arneo, il dibattito sulle effettive conquiste dei lavoratori agricoli, è ancora aperto: se una parte della critica storiografica12 tende a ridimensionarne i benefici ottenuti, dall’altra non è possibile negare l’apporto qualitativo dei cambiamenti che la riforma ha prodotto. Lo stesso studioso Emilio Sereni, pur essendo molto critico sull’utilità della riforma, ha messo in rilievo come la produzione lorda vendibile derivante dalle terre interessate dalla riforma agraria sia aumentata da 71.000 a 115.000 lire per ettaro, evidenziando in questo modo l’incremento non solo quantitativo ma anche qualitativo dell’espansione produttiva. D’altro canto, secondo il suddetto storico, «si è potuti giungere solo con l’esproprio (e sia pure parziale) dei proprietari latifondisti e con le realizzazione (sia pure parziale e distorta) del principio “la terra a chi lavora”».
Fig.2 Da sinistra a destra: Foto storiche raffiguranti i lavoratori di Carmiano che partecipano all’occupazione delle terre (foto tratte dal libro di S. Coppola, Quegli uomini coperti di stracci). Foto raffiguranti le rivolte degli anni 1950-1951 (foto tratte da M. Proto, Agricoltura, Mezzogiorno, Europa)
12 M. Proto, La leadership del Pci salentino tra arretratezza culturale e modernizzazione capitalistica, in M. Proto (a cura di), Agricoltura, Mezzogiorno, Europa, op. cit., p. 163-177. 347
Fig. 3 Da sinistra a destra: Articolo pubblicato sul «L’Unità» del 9/12/1951. Articolo de Il «Paese» del 5/1/1951. Articolo de «L’Unità» del 11/3/1952
Fig.4 Foto dei territori della terra d’Arneo (foto tratte dal PPTR della Regione Puglia)
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Alcune riflessioni su possibili indirizzi di valorizzazione Le sfide messe in gioco dal processo di globalizzazione, portano con sé dei rischi, presenti anche nel settore alimentare, aggravati persino da alcune direttive della Comunità Europea. Si potrebbe, quindi, affermare che l’agricoltura del territorio dell’Arneo è passata dal dramma dell’occupazione delle terre ai problemi della globalizzazione alimentare. In questo modo, ai deficitarii risultati del passato per i terreni agricoli, si sono andati a sovrapporre i rischi di un futuro caratterizzato dalle leggi del profitto internazionale che si sovrappongono a quelli annosi relativi allo sfruttamento locale. Il tema inerente a possibili strategie di valorizzazione del patrimonio culturale del territorio dell’Arneo, è stato messo al centro del dibattito catalizzato non solo da Enti Pubblici, quali la Regione Puglia (con la redazione del PPTR - Piano Paesaggistico Territoriale Regionale, tramite una sezione dedicata ai territori dell’Arneo, così individuata dal Piano: “Regioni geografiche storiche:Puglia Grande (Piana di Lecce 2° liv. Ambito 10 – Tavoliere salentino. Figure territoriali paesaggistiche: 10.2 – La terra dell’Arneo) ma anche da un acceso dibattito storiografico. Da quest’ultimo emergono interessanti filoni di ricerca, che hanno trovato un punto di contatto, di approfondimento e di confronto in alcuni convegni come quello curato dal Prof. Mario Proto dell’Università di Lecce, “A cinquant’anni dalle lotte contadine nell’Arneo e nel Salento”, tenutosi nel 2001. Dalle analisi tematiche estrapolabili dai lavori del Convegno, emerge l’esigenza dell’istituzione di un Osservatorio Provinciale di economia agraria (collegato con l’Istituto nazionale di Economia agraria), con l’obiettivo di monitorare l’agricoltura salentina, in collaborazione costante con i privati interessati e con le pubbliche istituzioni, così da censire le terre incolte per conto di enti locali. Per essere realmente efficiente, quest’ente dovrebbe poi essere affiancato da uno Sportello di credito agrario (con il nulla-osta delle banche), con l’obiettivo di agevolare imprenditori e produttori agricoli per facilitare il loro ingresso nel mercato internazionale. L’iniziativa, congiuntamente alla istituzione di una authority di controllo potrebbe così costituire un deterrente contro il fenomeno dell’usura (pubblica e privata), favorendo l’attività di piccole e medie imprese agricole, nonché la formazione di cooperative sociali. Come forma di risarcimento morale e materiale delle zone dell’Arneo, si potrebbe istituire una sede di un Museo Etnografico della civiltà contadina, ubicato in una zona dell’Arneo, quale spazio strutturato per la raccolta la conservazione e l’esposizione dei beni materiali ed immateriali legati al lavoro agricolo del passato e della tradizione contadina salentina provvisto di un’aula per convegni e di una biblioteca . Tra le iniziative suggerite durante i lavori del suddetto Convegno, degne d’attenzione sono anche l’introduzione di una Facoltà di Agraria a Lecce e di un orto botanico. Quest’ultimo, (per il quale esiste già un progetto elaborato dall’Università di Lecce) potrebbe essere progettato per funzionare su tre livelli: per i fruitori più piccoli; per i cittadini di media cultura ed infine per gli studiosi e gli specialisti. All’interno della sua attività sarebbe auspicabile, inoltre, la gestione di una Banca dei semi del Mediterraneo, per evitare l’ estinzione di specie botaniche autoctone. La Facoltà di Agraria a Lecce tramite gli obiettivi istituzionali per la ricerca scientificotecnologica dovrebbe assolvere un ruolo importante di consulenza del sistema produttivo e agronomico locale, oltre che quello di agevolare la formazione di una nuova classe imprenditoriale. 349
Bibliografia AA.VV., Campagne e movimento contadino nel Mezzogiorno d’Italia, vol. II, Laterza, Bari, 1980. Coppola S., Il movimento contadino in Terra d’Otranto (1910-1960), Capone Editore, Cavallino (Le), 1992. Coppola S., Quegli uomini coperti di stracci, Grafiche Giorgiani, Lecce, 1997. De Giorgi-Nassisi D., Antifascismo e lotte di classe nel Salento 1943-1947, Milella, Lecce, 1979. Ginsborg P. , Storia d’Italia dal dopoguerra ad oggi (Storia e politica 1943-1988), Einaudi, Torino, 1989. Proto M. (a cura di), Agricoltura, Mezzogiorno, Europa. A conquant’anni dalle lotte contadine nell’Arneo e nel Salento, Piero Lacaita Editrice, Roma, 2001. Re S., Arneo. Lotte contadine e riforma agraria, Biesse, Nardò, 1988. Renda F., Campagne e movimento contadino nel Mezzogiorno d’Italia dal dopoguerra ad oggi, Bari, 1979. Romagnoli L., Scritti e Discorsi, Ed. Sindacale Italiana, Roma, 1968. Rossi-Doria A., Il ministro e i contadini. Decreti Gullo e lotte del Mezzogiorno 1944-1949, Bulzoni, Roma, 1983.
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Studi sui paesaggi sonori della sicilia rurale Dagli anni ’20 fino alla Riforma Agraria Fabio R. Lattuca, Pietro Bonanno
Introduzione La ricerca condotta in questi anni da VacuaMœnia – dal latino “mura vuote” – esplora i caratteri salienti del paesaggio sonoro della Sicilia rurale con un focus particolare e analitico sugli aspetti architettonici, storici e socio-culturali che lo hanno plasmato. Esempio fondamentale di tale evoluzione sono, dal nostro punto di vista, i borghi rurali voluti dal Fascismo e successivamente dagli enti regionali in epoca repubblicana. Attraverso l’indagine acustica, VacuaMœnia tenta di attribuire nuovi significati e dignità ad aree spesso misconosciute o trascurate della Sicilia, tentando di ricostruire, grazie ai documenti di archivio e alle fonti storiche, i motivi della fondazione dei diversi centri fino alle dinamiche che ne hanno causato l’abbandono. Spinto dall’urbanesimo o dalle catastrofi naturali, l’uomo lascia alle sue spalle le mura che lo hanno accolto, lasciandole vuote di significato. I luoghi perdono le loro definizioni e diventano “atmosfere”. VacuaMœnia riscopre queste atmosfere attraverso un’azione materica che propone un vuoto di natura densa, una scatola armonica. I materiali sono gli orchestrali, i percorsi e le strade sono partiture scritte sulla terra. Grazie al tatto e agli altri sensi, ogni paesaggio sonoro diventa così luogo di suoni e strumento musicale in costruzione. Secondo il manifesto, VacuaMœnia è un atto sonoro identitario ed ecologico di rivoluzione dei significati profondi. La rivoluzione estetica di VacuaMœnia parte dai luoghi abbandonati dall’uomo e dal suono che essi producono: uno studio sui suoni già presenti e su quelli che è possibile organizzare in loco attraverso la militanza escursionistica, la registrazione su campo e il contatto con il territorio.
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Dalla legge 1/1940 al suono dei borghi rurali di sicilia
Fabio R. Lattuca
Come per il landscape, di cui da tempo esistono diversi elementi per definirne i caratteri, anche per il soundscape si è cercato di codificare dei termini che potessero descriverlo. Per l’ecologia acustica, il paesaggio sonoro è «il risultato di sovrapposizioni sonore date dalle geofonie (vento, terremoti, eruzioni vulcaniche, etc), dalle biofonie (canti di uccelli e versi animali) e dalle antropofonie (attività urbane e industriali, traffico stradale, aereo e marino)». L’individuo non è l’unico elemento da considerare ma parte di un sistema complesso, articolato e dinamico in cui detta regole ma, al tempo stesso, le subisce. Tale idea è stata sviluppata nei primi anni ’70 dal filosofo norvegese Arne Naess, spostando il baricentro sulla organizzazione ambientale. Secondo Naess, infatti, è necessario pensare ad una nuova ecologia – definita come “profonda” – che metta da parte il ruolo primario dell’uomo per ridimensionarlo rispetto al suo contesto. L’umwelt, per dirla con J. Von Uexkuell, è da intendere ora secondo una nuova prospettiva: non semplice entità geografica ma vero e proprio medium cognitivo1, spazio semiotico in cui gli elementi organizzano il proprio sistema vitale complesso seguendo regole e leggi ben definite.
Alla luce di tali considerazioni, i concetti di biofonie, geofonie e antropofonie creano un nucleo – definito pattern sonoro o sonotope – in cui ogni elemento interagisce, si influenza e modifica l’altro in modo più o meno considerevole. 1 A. Farina, N. Pieretti, From Umwelt to Soundtope: An Epistemological Essay on Cognitive Ecology, in Biosemiotics, Vol. VII, n. 1, Springer Netherlands, 2014, pp. 1 – 10. 353
Analizzando, dunque, la ricchezza e la varietà del contesto sonoro in cui i borghi rurali siciliani sono inseriti, è possibile leggere e indagare i fattori modificatori, gli elementi costanti o dimenticati del pattern sonoro rurale siciliano2. A sostegno della nostra ricerca è lo studio dei documenti storici dell’ESA e del piccolo ma interessante fondo di VacuaMœnia. Tra le fonti analizzate nel corso del tempo, va citato l’opuscolo «La Redenzione del Latifondo Siciliano»3 in cui Nallo Mazzocchi Alemanni, direttore dell’Ente di Colonizzazione del Latifondo, descrive l’ubicazione dei centri rurali e l’uso dei materiali costruttivi. Nel primo caso, si legge come fosse necessario scegliere una «posizione ben visibile dalla popolazione sparsa»4 per fini propagandistici ma anche funzionali. Le parole di Alemanni, a distanza di circa 70 anni, sono state per noi un utilissimo punto di partenza per varie analisi. Intesi come «rispettosi dell’ambiente»5, i borghi rurali dell’Ente di Colonizzazione sarebbero dovuti essere in armonia con il paesaggio circostante e, cosa fondamentale alla luce di un’accettazione da parte delle popolazioni contadine, storicamente restie a lasciare le città o i piccoli paesi, avrebbero dovuto riprendere forme e caratteri «del tutto aderenti alla terra e all’uomo»6, come indicato in un articolo di Maria Accascina sulle pagine del Giornale di Sicilia. Oggi, difatti, i borghi del periodo fascista hanno, grazie alla loro posizione e alla loro “grana”, caratteristiche acustiche ben delineate e uniche. Chiari esempi sono Borgo Regalmici e Borgo Fazio, nel trapanese. Il primo è caratterizzato geofonicamente dal vento come trigger acustico di elementi di costruzione del borgo e di elementi naturali che possono essere classificati secondo l’organologia musicale. Come una grande orchestra, infatti, ci troviamo in presenza di “strumenti a percussione” – le finestre che, grazie al cedimento delle giunture, si aprono sbattendo sul muro – di “strumenti a corde” – i fili della luce che vibrano tra una casa e un’altra, i rami secchi – di “strumenti a tubi” – il vento che sibila tra i tetti delle case e nelle cisterne. In giornate molto ventose, è possibile muoversi all’interno del borgo ad occhi chiusi grazie ad una perfetta aderenza tra paesaggio visivo e paesaggio sonoro. Le biofonie, raramente presenti, sono quasi del tutto annullate dall’azione costante del vento. L’unica antropofonia presente è la sorgente sonora delle pale eoliche. Il secondo, invece, conferma una delle concezioni principali dell’ecologia acustica: il rapporto biofonie - antropofonie, laddove la teoria parla, come abbiamo visto in precedenza di un rapporto inversamente proporzionale tra potenza sonora biofonica (qui intendiamo anche le voci degli uomini) e potenza sonora antropofonica. La sorgente antropofonica delle pale eoliche costante e fortemente presente rende un ipotetico ripopolamento impossibile e conferma, quindi, l’ipotesi che le figure sonore 2 R. F. Lattuca, P. Bonanno, Borgo Regalmici e Borgo Amerigo Fazio, La storia del suono di due borghi rurali siciliani, in «Agorà», N. 50, Catania, 2014. 3 N. Mazzocchi Alemanni, La redenzione del latifondo siciliano: opere e problemi, in «I Quaderni De L’Ora», Edizioni de L’Ora, Palermo, 1942. 4 N. Mazzocchi Alemanni, op. cit. 5 N. Mazzocchi Alemanni, op. cit. 6 M. Accascina, Progetti dei Borghi nella Mostra Rurale di Palermo, in «Giornale di Sicilia», Palermo, 1940. 354
(contrapposte ad uno sfondo) hanno un importante ruolo nel formare le comunità locali – in questo caso al negativo. La desertificazione acustica del luogo, in termini di prossimità cognitiva, è senza ombra di dubbio causata dagli elementi antropici che riorganizzano il ritmo del paesaggio sonoro in un luogo intermittente. Pensati per “spezzare” le sconfinate terre latifondistiche, oggi i borghi rurali siciliani possono essere definiti come “spazi indecisi”. Da qui, si generano dei “terrain vague” in cui non è più evidente un ordine ma solo un’evoluzione naturale che sfrutta l’inappetenza umana alla rinascita. La natura si riappropria di questi spazi di cui è stata nel corso del tempo sottratta, creando un nuovo territorio, un nuovo contesto che è una terza possibilità, una terza via. L’abbandono, dunque, può essere inteso come una possibilità di rigenerazione e non solo come un oblio, una dimenticata noncuranza. Certo è che, i borghi rappresentano ottimi esempi di architettura rurale, esempio della tradizione contadina dell’isola ma anche un tracciato storico molto spesso trascurato. Rispetto al rifiuto del Nazismo tedesco, affrontato attraverso il primo esempio di processo mediatico – quello di Norimberga – in Italia, si è voluta negare la storia di un ventennio. Con questo atto, però, si è cancellato un periodo storico tout court, facendone un’unica espressione negativa. Va ricordato che i massimi esponenti dell’architettura rurale in Sicilia furono tra le più eminenti figure nel campo e anticipatori di correnti influenti del ‘900: tra questi Edoardo Caracciolo, Luigi Epifanio e Pietro Airoldi, giovani personalità che da quel momento cambiarono il linguaggio dell’architettura in Italia. Ludovico Quaroni in occasione della morte di Caracciolo diceva: «è morto il fondatore, in Italia, di una nuova scuola. Il suo modo di individuare, di affrontare e risolvere i problemi partendo dal contatto diretto con la strada e le case, con le persone, con la miseria, con il cielo e con il sole splendente, con la pietra dei monumenti e la storia viva della città – “la storia operante” – era un modo al quale un po’ tutti, dopo la guerra, le sofferenze e le ripetute prove umane alle quali in un modo o in un altro siamo stati sottoposti per molti anni, avevamo pensato, un modo che tutti abbiamo tentato. Lui solo, tuttavia, ne ha fatto una scuola vera, la sua scuola»7.
7 L. Quaroni, In memoria di Edoardo Caracciolo, in «Urbanistica», Torino, 1962 pp. 136-138. 355
Fig. 1 Ruderi della Chiesa e del Municipio di Borgo Fazio
Fig. 2 Borgo Regalmici
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Esplorare l’inesplorato VacuaMœnia, i borghi rurali e il paesaggio sonoro Pietro Bonanno
VacuaMoenia nasce all’interno dei Soundscape Studies per dare voce ad un particolare tipo di paesaggio: il paesaggio sonoro abbandonato dall’uomo. Questo, definito più volte come terzo paesaggio – il primo rappresentato da quello urbano e il secondo e da quello rurale – possiede delle caratteristiche “fluide” derivanti dalla capacità della natura di riappropriarsi di un luogo e da come l’uomo che vive in quei luoghi lo considera in termini simbolico-semantici (cosa rappresenta per lui e che significato ha) e in termini archetipo-comunitari (cosa rappresenta per la comunità intesa in senso identitario nelle sue componenti storiche e geografiche). Il paesaggio sonoro abbandonato è spesso sintetizzabile grossolanamente con una totale mancanza di unicità sonora di sfondo, immergendo il luogo in un assordante anonimato deciso dai suoni circostanti e, allo stesso tempo, in una non consueta unicità di figura, in cui ciò che è stato abbandonato diventa generatore di suoni non presenti nel suo stato di vitalità, grazie agli agenti trigger atmosferici (il vento, per esempio) e antropici (l’uomo che può “suonare” il luogo). La ricerca iniziale di VacuaMoenia verteva quasi unicamente su quest’ultimo aspetto. Considerando, alla stregua del concetto di Design Acustico definito da R. Murray Schafer1, il luogo come una grande orchestra, l’intento era quello di scrivere delle partiture (l’esplorazione della mappa) facendo suonare i membri di questa orchestra, attraverso il tatto e la registrazione. Così, nel manifesto dell’Associazione si parla di “Rivoluzione estetica dei significati” e di “militanza escursionistica”2. Da un punto di vista cognitivo, nel tentativo di dare una forma alle proprie ricerche, VacuaMoenia ha deciso che il suo campo fosse, appunto, il paesaggio acustico abbandonato, che la sua figura fosse il borgo rurale e che lo sfondo fosse l’ambiente che lo circondava. Il soundscape è uno scenario fatto di eventi uditi e non di oggetti visti.3 Portando alle estreme conseguenze questa definizione, possiamo interpretare, per esempio, come scenario una composizione musicale, un programma radiofonico, un ambiente 1 R. Murray Schafer, Il Paesaggio Sonoro, Ricordi LIM, 1985 2 http://vacuamoenia.net/it/manifesto/ 3 R. Murray Schafer, op. cit. 357
acustico e studiare ognuna di queste tre forme con le stesse caratteristiche tecniche con cui studieremmo un paesaggio visivo. I primi paesaggisti sonori hanno classificato il paesaggio secondo tipologie e morfologie specifiche. La tipologia è un sistema di classificazione dei suoni mediante le loro forme e funzioni. La morfologia, invece, permette di raggruppare assieme, cronologicamente e geograficamente, suoni che abbiano forme e funzioni simili, mettendone così in luce le variazioni e le linee evolutive.4 Questa metodologia permetterebbe di mettere alla luce suoni caratteristici di un paesaggio sonoro particolare, nel corso della storia, materiali predominanti e anche evoluzioni della quantità di rumore. La tipologia classica del paesaggio sonoro, segue la trattazione compiuta da R. Murray Schafer e dal World Sounscape Project, ancora oggi utilizzata dalle Soundscape Theories. Le caratteristiche significative di un paesaggio sonoro (dal punto di vista della loro individualità, quantità e presenza dominante) sono: • le toniche • i segnali • le impronte sonore • i suoni archetipici. Questi ultimi sono trasversali a tutt’e tre e sono suoni tramandati dalla preistoria che hanno un loro preciso e particolare simbolismo.5 6 La Tonica prende il nome dal termine musicale (la nota che identifica la chiave o la tonalità di una particolare composizione) e nel caso del paesaggio sonoro è costituita dai suoni creati dalla geografia e dal clima del paesaggio stesso (acqua, vento, foreste, pianure, uccelli, insetti e animali). Spesso è un suono che caratterizza i materiali predominanti di una zona, come il legno in America del Nord o la pietra nei villaggi europei. Alcuni di questi suoni hanno anche un significato archetipico.7 Successivamente all’era elettrica le toniche, più frequentemente, sono rappresentate dal traffico cittadino o dal rumore della frequenza dei dispositivi elettrici (hum). A questo proposito un interessante studio del WSP ha dimostrato come l’orecchio assoluto sia relativo all’Hum. La nota corrispondente alla frequenza della corrente elettrica diventa la nota più facilmente memorizzabile. In Europa, con la frequenza dell’elettricità a 50 Hz si memorizza più facilmente l’area intorno al SOL (il G1 è 48.99 Hz); in America, con una frequenza di 60 Hz, si memorizza più facilmente l’area intorno al SI (il B1 è 61.7 Hz). Queste note, chiamate da Schafer Unità primarie, sono note caratterizzanti il centro tonale delle nostre società che di fatto hanno mutato radicalmente il fare musica, così come l’ascolto.8
4 R. Murray Schafer, op. cit, p. 225. 5 http://www.sfu.ca/~truax/vanscape.html 6 R. Murray Schafer, op. cit. 7 R. Murray Schafer, op. cit. 8 R. Murray Schafer, op. cit., p. 142. 358
I Segnali sono i suoni in primo piano ascoltati consapevolmente. [R. Murray Schafer, Ibid.] Per chi li sa ascoltare questi suoni rappresentano spesso dei richiami. L’Impronta Sonora è un suono caratteristico di una comunità. Una volta individuata, per R. Murray Schafer, andrebbe mantenuta e protetta.
I suoni del paesaggio sonoro hanno quindi un significato referenziale. Per chi studia il paesaggio sonoro non rappresentano soltanto degli oggetti sonori astratti, ma anche dei segni, dei segnali e dei simboli acustici e come tali devono essere analizzati. Un segno è la rappresentazione di una realtà fisica; un segno non ha un suono, si limita a indicarlo (le note su un pentagramma). Un segnale è un suono carico di una significazione specifica e richiede spesso una risposta diretta (il trillo del telefono). Un simbolo, da parte sua, possiede delle connotazioni ancora più ricche. Un fatto sonoro è simbolico quando suscita in noi emozioni o pensieri che vanno oltre la meccanicità delle sensazioni o la funzione di segnale che può esercitare, quando possiede un che di soprannaturale o di riverberante che risuona attraverso i più profondi recessi della psiche.9 Esempi di suoni simbolici sono quelli che Schafer chiama suoni a funzione centripeta e suoni a funzione centrifuga, che sono caratterizzanti la vita di una città. I suoni a funzione centripeta, come le campane di una chiesa, hanno lo scopo di avvicinare un ascoltatore alla sorgente. I suoni a funzione centrifuga hanno lo scopo di allontanare un ascoltatore dalla sorgente (per esempio un gong che serve a scacciare gli ‘spiriti’, o il suono della sirena di un’ambulanza).10 Un’analisi morfologica del paesaggio sonoro deve considerare delle mappe particolari chiamate da Schaffer sonografie aeree.11 Le sonografie aeree possono essere di tre tipi: 1. Una carta a curve di livello, costruita mediante diversi rilevamenti effettuati mediante un indicatore del livello sonoro. In seguito, facendo una media dei suoni rilevati si delimitano le aree di uguale intensità. Questa carta è utile per 9 R. Murray Schafer, op. cit., p. 237. 10 R. Murray Schafer, op. cit., p. 243. 11 R. Murray Schafer, op. cit., pag. 184 359
capire subito, dall’alto, le aree con maggiore o minore rumore. 2. Una mappa degli eventi sonori in cui vengono indicate la distribuzione e la ricorrenza dei suoni. Questa mappa risulta molto utile per paragonare aree diverse di una città, da un punto di vista acustico. 3. Sonografia aerea di Michael Southworth. Creata utilizzando un campione di ascoltatori a cui viene fatta percorrere un’area chiedendo di commentare i suoni che hanno udito. Alla fine di questa indagine si analizzeranno queste osservazioni per tracciare un quadro complessivo. Questi elementi sono quelli confluiti nella Time Geography e in particolare nel concetto di traiettoria, campo di ricerca analizzato in profondita da Albert Mayr che ha origine nelle stazioni sonore di Lenntrop. L’idea è quella, come nel caso di una mappa ferroviaria e delle sue stazioni, di tracciare dei percorsi urbani sonori sulla base della peculiarità sonica del percorso e dei luoghi. Una mappa che tenga conto del fattore temporale, come una sorta di tabella di marcia, e che venga disegnata su un ipotetico cittadino che compie un percorso dalla mattina a quando va a letto. Una mappa che sulla base dei fattori temporali individui anche dei patterns, dei suoni caratteristici ripetuti di un luogo: Una mappa dei suoni che sia complementare ad una mappa dei luoghi.12 La scelta del borgo rurale costruito per popolare le aree rurali e oggi quasi completamente abbandonato è stata condizionata dal fatto che i borghi fossero presenti in tutta la Sicilia e che percorrendoli in una linea immaginaria era possibile trarre informazioni sonore differenti. Queste informazioni mettevano in crisi le teorie generali del paesaggio rurale e urbano sonoro in quanto, sebbene cognitivamente siano chiare le strutture formali per esplorare il luogo, tutte quelle tipologie e morfologie legate alla Soundscape Theory classica sono messe in discussione e il principale motivo è la ricerca del significato. A differenza del paesaggio urbano, il borgo non ha - almeno nella quasi totalità - delle attività antropiche rappresentabili come dei patterns (non esistono lavori che producono suoni a fasce diverse del giorno, persone che rientrano nelle loro abitazioni, passaggi di macchine, etc) A differenza del paesaggio rurale, il borgo non ha, inoltre, necessariamente una sua identità definibile come separata dal contesto maggiore e spesso questo è visto come un disturbo (visivo e architettonico) alla possibilità di costruire una strada o di aggiungere una pala eolica in più. A questa assenza - o fluidità - di significato, che carica spesso il luogo delle stesse tensioni che legano l’uomo all’altrove (il luogo dove potere essere altro da sè, ubriacandosi, distruggendo o semplicemente fuggire), Vacuamoenia propone il suo significato, utilizzando il borgo, e il suo suono nelle coordinate, come elemento creativo da cui partire per realizzare composizioni e installazioni musicali, ma anche per indicare la storia e la geografia in un contesto non ancora esplorato. VacuaMoenia possiede due linee di sviluppo, allo stato attuale. Una, educativa, riguarda l’Ecologia Profonda e in particolare quella acustica. L’altra, produttiva e performativa, riguarda il Design Acustico e la Composizione musicale. 12 A. Mayr, Il paesaggio sonoro tra musica sperimentale e Time Geography, in A. Colimberti, Ecologia della musica, Donzelli, 2005. 360
Con la nascita dell’associazione, nel 2013, VM ha voluto unire i 4 principi del Design acustico di Schafer (il rispetto per l’orecchio e la voce, la consapevolezza del valore simbolico del suono, la conoscenza dei ritmi e dei tempi del paesaggio sonoro naturale e la comprensione dei meccanismi di equilibrio grazie ai quali è possibile correggere un paesaggio sonoro compromesso) al suo campo di indagine, il paesaggio sonoro abbandonato. L’idea era quella di portare fisicamente le persone in un luogo non più vissuto e, portando l’attenzione al suono, capire quale fosse l’esperienza dei partecipanti. Per rendere la ricerca più sensibile statisticamente sono state fatte esperienze simili anche in luoghi urbani e luoghi rurali. Per questo obiettivo è stato usato il mezzo della soundwalk, che consiste, molto semplicemente, nell’esplorare un luogo in silenzio portando l’attenzione sull’ascolto. Quando ci si fermava a riflettere sull’esperienza dei tre luoghi, era molto facile capire la differenza tra luoghi urbani e rurali. In questi due paesaggi i partecipanti descrivevano bene la loro esperienza acustica secondo le categorie classiche della soundscape theory, definendo, pur non conoscendone il nome, le le toniche, i segnali, le impronte ma anche le caratteristiche più oggettive, dallo sviluppo fisico del suono agli aspetti referenziali. L’aspettativa visiva del terzo luogo, il borgo, quasi sempre rimaneva non confermata. Il partecipante, chiudendo gli occhi, non possedeva alcun tipo di informazione riguardo li luogo in sè, se non le stesse informazioni che ricavava dall’ambiente esterno al borgo. In contesti più estremi, laddove eventi sismici avevano distrutto interi paesi, nel caso di Poggioreale (TP), la popolazione che faceva da guida ha persino trovato irritante il fatto che le persone nel descrivere il suono non parlassero della tragedia che aveva investito il luogo da cui viene fuori il forte condizionamento visivo e referenziale che non intaccava l’esploratore straniero quando questi considerava il paesaggio sonoro. Dove porta tutto questo? Innanzitutto se siamo favorevoli all’idea che ciò che vediamo è condizionato dallo spazio e ciò che sentiamo dal tempo (un quadro è una porzione geografica, la musica una porzione temporale dedicata all’ascolto), non possiamo non allargare l’ascolto alla narrazione. Sta a noi come associazione, infatti, fare da tramite tra il significato possibile di un luogo in divenire e il significato che è stato, attraverso la ricerca di archivio, il racconto di chi ha vissuto il posto e la storia vicina o lontana. Questa narrazione condiziona l’ascolto e arricchisce le coordinate dell’esploratore. Allo stesso tempo la possibilità di utilizzare lo spazio per narrare rende possibile porsi in una condizione aliena, differente da ciò che è stato: come può suonare oggi questo luogo? come posso suonare questo luogo? E qui interviene la nostra idea di design acustico e composizione. La registrazione di un suono è per sua natura schizofonica. Noi isoliamo un suono dal suo vissuto e lo sentiamo in un altro luogo non partecipando più del gesto della sorgente sonora. Un cane non abbaia più ma rimane il suo suono registrato. Il musicista di un’esecuzione sonora può essere morto, noi non vedremo il suo sudore ma la composizione rimarrà potenzialmente per sempre.
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Quando questo si applica a linguaggi consolidati, come la musica, la nostra mente è abituata, dal grammofono in poi, alla possibilità di astrarre l’esperienza acustica dal suo contesto originario. Differente è quanto si “incide” un paesaggio acustico. Nelle registrazioni è determinante la referenzialità. Infatti, sin da subito, chi ascolta cerca di capire, molto semplicemente, “da dove viene il suono”. Un mercato non “sembra” un mercato perchè non corrisponde alla nostra idea di mercato e la stessa cosa vale per le città o i singoli quartieri. A questo si aggiunge una problematica tecnologica. I microfoni convertono il fenomeno acustico del suono in un fenomeno elettrico che occorre “amplificare” e – nel digitale – convertire in numeri. Ognuno di questi passaggi deforma il suono originario. I microfoni hanno infinite differenze che enunciano alcune frequenze e non altre. Essendo strumenti elettrici, inoltre, aggiungono il loro rumore (selfnoise) a cui va sommato quello delle amplificazioni e quello dell’errore digitale della conversione. Chiunque, dopo aver provato un microfono e un registratore, abbia provato a registrare un paesaggio naturale rimane per lo più deluso dal constatare che quello che ha registrato è un continuo fruscio con qualche suono naturale. Invece di aumentare le possibilità esplorative in un senso percettivo, così, il mezzo tecnologico tende, se mal compreso, ad aggiungere alla schizofonia una diminuizione della propria percezione, alla pari di chi fruisce della musica solo attraverso impianti di bassa qualità con un ascolto continuo, prolungato, passivo e compresso. In VacuaMoenia, in quella che chiamiamo rivoluzione estetica dei significati profondi, intendiamo utilizzare i mezzi dell’arte sonora per estrarre, come dei moderni alchimisti, dei significati da ciò che è stato e da ciò che può essere. In questo senso, le nostre attrezzature sono l’estensione di un tramite, cioè noi stessi, con cui portiamo l’esperienza del borgo (allargata nelle sue componenti storiche e geografiche) all’ascoltatore. Attraverso le microfonazioni cerchiamo un suono che, se da un lato è il più naturale possibile, dall’altro lato enuncia le caratteristiche èiù importanti, da noi definite più volte “il cuore”. Microfoni a contatto, parabole, fucili e riprese stereo servono a trovare un punto ben preciso in cui essere memorizzatori passivi (non intervendo) o attivi (intervendo come trigger a suonare il luogo) al fine di catturare quella che per noi è l’essenza del luogo, il cuore appunto. Questo atteggiamento è lo stesso del compositore che vuole scrivere un brano per violino e che, quindi, indaga il violino scrivendo alla fine il suo brano. E’ un atteggiamento militante perchè, come il compositore, non si può fare a meno di non conoscere lo strumento e quindi è richiesto l’essere nel luogo. L’idea che sottende le nostre composizioni e le installazioni è la stessa. Trovare un modo, esplorativo in senso fisico (muovendosi in un altro luogo) o mentale (ascoltando) per esplorare un luogo. Scrive Gernot Bohme, principale teorico dell’atmosferalismo estetico:
«Originariamente l’estetica era stata concepita da Alexander Gottlieb Baumgarten alla metà del XVIII secolo come teoria della percezione sensoriale. Ma troppo rapidamente essa si è sviluppata in direzione di una teoria del gusto limitandosi alle opere d’arte come oggetto d’indagine. Mentre l’estetica presso Kant pare essere ancora sostanzialmente un’estetica della natura, con Hegel essa diventa l’anticamera dell’estetica vera e propria, ossia una teoria 362
dell’opera d’arte. Da allora, l’estetica è servita primariamente alla formazione del giudizio estetico e dunque della critica d’arte e ha abbandonato del tutto il campo dell’esperienza sensoriale e dell’impatto affettivo».13
La composizione occidentale, a differenza di altre forme geografiche di composizione, si è sviluppata sull’oggetto artistico più che sull’esperienza artistica. L’idea alla base delle teorie estetiche legate al paesaggio sonoro è quella di riportare l’attenzione sull’esperienza dell’arte (in questo caso dell’ascolto) utilizzando mezzi che abbiano come fine quello di allargare la propria esperienza ai fini della propria coscienza.
Fig. 3 Borgo Littorio
Fig. 4 Casa Colonica del Consorzio di Bonifica Cuti-Ciolino-Monaco-San Nicola
13 G. Böhme, Atmosfere acustiche, in A. Colimberti, Ecologia della Musica, Donzelli Editore, 2005. 363
La Riforma agraria nel delta padano emiliano-romagnolo tra passato e presente L’esperienza del documentario Dall’acqua ai campi, dai campi al silenzio Stefano Piastra
Com’è noto, il delta del Po rappresentò il territorio più settentrionale d’Italia interessato dalla Riforma agraria, nonché l’unico facente parte della pianura padana. Si trattava sì di un’area cronicamente sottosviluppata come altre nella Penisola, ma con caratteri paesistici propri (basti pensare in primo luogo alle sue aree umide, le cosiddette “valli”), del tutto diversi dai quadri ambientali dei latifondi siciliani o pugliesi; la sua arretratezza strideva inoltre fortemente con le finitime pianure bolognese e lombarda, realtà tra le più avanzate del paese, imponendosi agli occhi sia del legislatore che dell’opinione pubblica come una di quelle che in questo periodo vennero definite «vergogne d’Italia»1, la cui risoluzione assumeva quindi connotazioni di estrema urgenza. Nel delta, la Riforma prese le mosse dall’istituzione dell’Ente per la colonizzazione del Delta Padano (più comunemente citato come “Ente Delta Padano”, EDP), creato, sulla base del DPR n. 69 del 07/02/1951, a pochi mesi di distanza dalla cosiddetta “Legge Stralcio” dell’ottobre 1950. Esso costituiva l’organismo localmente preposto alla Riforma agraria, destinato a rimanere in vita sino al 19762, quando venne sciolto in seguito ad una dura contrapposizione con l’emergente fronte ambientalista, capeggiato da Italia Nostra, impegnato per la conservazione di quella natura “anfibia” del territorio che gli interventi dell’EDP minacciavano. L’areale su cui l’Ente Delta Padano era attivo si estendeva tra Veneto ed Emilia-Romagna, per un totale di 23 comuni ricompresi nelle province di Venezia, Rovigo, Ferrara e Ravenna; il Rodigino e il Ferrarese rappresentavano le aree maggiormente problematiche, e di conseguenza lì si concentrò la parte maggiore degli sforzi. L’EDP riconobbe sin da subito che nel delta, a differenza di altrove, i soli espropri terrieri sarebbero stati insufficienti a far attecchire il progetto socio-economico della piccola proprietà fondiaria a cui mirava la Riforma. Si decise perciò di affiancare agli 1 Il riferimento è alle affermazioni sia di De Gasperi che di Togliatti fatte a proposito dei Sassi di Matera negli anni Cinquanta del Novecento (B. Gravagnuolo, La progettazione urbana in Europa, 1750-1960, Laterza, Roma-Bari 1991, p. 135), poi applicate in senso estensivo ad altre realtà arretrate e marginali italiane dell’epoca. 2 P. Dagradi, Bonifica e riforma agraria nel Delta Padano, in B. Menegatti (a cura di), Ricerche geografiche sulle pianure orientali dell’Emilia-Romagna, Pàtron, Bologna, 1979, pp. 15-39. 365
espropri un vasto programma di opere pubbliche, finalizzate alla creazione di nuove terre tramite il drenaggio meccanico delle aree umide deltizie3. I progetti bonificatori riguardarono anche il settore veneto di competenza dell’Ente Delta Padano, ma fu soprattutto nell’area emiliana, in provincia di Ferrara, che essi raggiunsero le dimensioni (e, come vedremo, le implicazioni) maggiori. Le bonifiche, notoriamente caratterizzate da tempi lunghi, si protrassero per circa un ventennio a causa delle notevoli difficoltà tecniche e degli alti costi: si trattava infatti di prosciugare, tramite imponenti idrovore, bacini in massima parte salmastri e frequentemente posti al di sotto del livello del mare medio; i fondali vallivi così asciugati necessitavano quindi di interventi di correzione pedologica prima di poter essere propriamente considerati suoli agricoli; nelle “terre nuove” risultava infine da costruire l’intera rete scolante e infrastrutturale e la maglia insediativa (scoline, strade, viabilità interpoderale, impiantistica, case rurali, ecc.). Gli appezzamenti così creati vennero affidati, tramite sorteggi, ad assegnatari, i quali dovevano rispettare un periodo minimo di lavoro sul fondo, e avrebbero successivamente potuto riscattare quest’ultimo ad un prezzo calmierato.
Fig. 1 – Bonifica di Valle Pega (Comacchio): opere infrastrutturali dell’Ente Delta Padano in corso. Il cartello riporta la toponomastica di neo-invenzione adottata per l’area drenata (Istria, Fiume, Arsa, Capodistria), di impronta nazionalistica e figlia della Guerra Fredda: una sorta di virtuale ricostituzione, nei territori ferraresi sottratti alle acque in seguito alla Riforma agraria, dei territori italiani ceduti, dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, alla Iugoslavia, unico stato comunista confinante con la Penisola. Anni Cinquanta del Novecento (Archivio Fotografico Ente Delta Padano, ora presso l’Istituto per i Beni Artistici, Culturali e Naturali della Regione Emilia-Romagna).
3 S. Piastra, Riforma agraria e bonifica nel delta padano emiliano-romagnolo. Appunti per una rilettura, in G. Bonini (a cura di), Riforma fondiaria e paesaggio, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2012, pp. 155-168; ID., Paesaggi della riforma agraria nel Delta padano emilianoromagnolo, in G. Bonini, A. Brusa, R. Pazzagli (a cura di), Paesaggi agrari del Novecento. Continuità e fratture, (Istituto Alcide Cervi, Quaderni 9. Summer School “Emilio Sereni”, Storia del paesaggio agrario italiano – IV Edizione, Il Novecento), s.l. 2013, pp. 85-92. 366
Accanto alle realizzazioni “fisiche”, l’Ente per la colonizzazione del Delta Padano prestò poi molta attenzione ad una narrazione in termini ultra-positivi e cristianosociali, nell’alveo più generale della metafora della rinascita nazionale, dei programmi portati avanti, veicolata tramite fotografie, filmati, pubblicazioni4 (fig. 1): in questi anni, mai come in Emilia-Romagna, regione rossa per eccellenza, la Riforma agraria, voluta dalla Democrazia Cristiana, diventava infatti materia di scontro politico e di confronto tra due visioni antitetiche del paese, sul più generale sfondo della Guerra Fredda e dell’utilizzo dei fondi del Piano Marshall in funzione di tale programma5. A distanza di quarant’anni dalla soppressione dell’EDP, gli interventi sopra descritti sono spesso riletti criticamente: essi snaturarono in maniera violenta i caratteri originari dell’ambiente deltizio, provocandone una rapida transizione artificiale dall’acqua alla terra; i drenaggi (da tempo praticati nel delta, ma durante questa fase di proporzioni gigantistiche) si prolungarono anacronisticamente sino all’inizio degli anni Settanta, quando la realtà socio-economica italiana era ormai profondamente mutata e le coordinate socio-economiche della Riforma agraria risultavano ormai non più attuali per un paese che aveva ormai già virato in modo conclamato verso l’industrializzazione; lo stesso progetto sociale di fondo, ovvero la promozione del popolamento rurale e della piccola proprietà terriera, naufragò: gli assegnatari delle terre della Riforma agraria rivendettero il prima possibile i propri fondi, ponendo le basi per una rapida ricostituzione della grande proprietà e per lo spopolamento dei terreni asciugati. In sostanza, a posteriori, la Riforma agraria tra Veneto ed Emilia-Romagna non mantenne le promesse di rottura dell’isolamento e di rilancio strutturale di questo territorio. Essa, anzi, privò il delta, soprattutto la sua componente ferrarese, di quel paesaggio “anfibio”, il quale oggi avrebbe potuto costituirne la vera risorsa economica in chiave eco-turistica, a favore di terre oggi sotto-utilizzate o comunque poco redditizie, semi-abbandonate, mantenute asciutte pagando un’altissima “bolletta energetica” per via del fatto che le idrovore impiegate a tale scopo risultano alimentate elettricamente. Il riallagamento delle ex aree umide, più volte proposto dalla comunità scientifica, non ha ad oggi avuto sbocchi pratici, e, nel caso, si scontrerebbe con problemi notevoli, sia economici che legali (in primis il riacquisto o l’esproprio da parte dello stato delle terre bonificate dalla Riforma agraria)6. Come emerge nitidamente dalle dinamiche discusse sopra, tali temi e problemi, sostanzialmente irrisolti, non costituiscono unicamente un argomento di ricerca, 4 P. Zucco, S. Pezzoli, I. Fabbri (a cura di), Terre nuove. Immagini dell’archivio fotografico dell’Ente Delta Padano, Compositori, Bologna, 2011. 5 E. Bernardi, La Riforma agraria in Italia e gli Stati Uniti. Guerra fredda, Piano Marshall e interventi per il Mezzogiorno negli anni del Centrismo degasperiano, Il Mulino, Bologna, 2006. 6 S. Piastra, Land Reclamations in the Po and Danube Deltas: Similar Backgrounds, Different Future Perspectives?, in M. Bianchi, L. Del Bene, L. Tampieri, S. Zaric (a cura di), Bacini territoriali e bacini culturali nello sviluppo delle piccole e medie imprese, Il Ponte Vecchio, Cesena, 2010, pp. 305-315; ID., Le “larghe” e il paesaggio della bonifica nel Delta padano emiliano-romagnolo: valori storico-culturali e temi gestionali a cinquant’anni di distanza dalla Storia del paesaggio agrario italiano di Emilio Sereni, in G. Bonini, C. Visentin (a cura di), Paesaggi in trasformazione. Teorie e pratiche della ricerca a cinquant’anni dalla Storia del paesaggio agrario italiano di Emilio Sereni, Compositori, Bologna, 2014, pp. 167-172. 367
bensì rappresentano materia ancora viva e oggetto di dibattito, particolarmente sentita presso le comunità locali, considerata retroterra della situazione odierna e di un futuro quanto mai incerto per questi territori. Di qui l’idea di un documentario che narrasse tali vicende tramite parole e immagini7, e desse voce ai testimoni degli eventi, prima che, per motivi anagrafici, scomparissero gli ultimi assegnatari e bonificatori, protagonisti di quegli anni. Non però un filmato storico, o legato alla memoria collettiva; bensì un documentario geografico, incardinato sull’evoluzione del paesaggio e sulla gestione del territorio, allora e oggi. Si trattava di una modalità di esposizione dei contenuti più informale rispetto alla produzione scientifica in senso stretto, e che mescolava oggettività con coinvolgimento emotivo; essa risultava inoltre efficace, grazie al linguaggio filmico, nella direzione di un allargamento del bacino di spettatori/fruitori al di fuori della comunità accademica e in una spendibilità in campo educativo e di sensibilizzazione. La natura digitale, soprattutto, faceva del video un prodotto facilmente veicolabile attraverso internet. In aggiunta a ciò, l’operazione rispondeva all’esigenza di salvare, prima che fosse troppo tardi, le esperienze e le percezioni dei testimoni diretti, in un’ottica di conservazione di fonti orali significative che altrimenti, di qui a breve, sarebbero andate perdute per sempre, e di preservazione di un genius loci di neo-formazione8. L’occasione concreta per passare da una pura teorizzazione del documentario ad una sua realizzazione pratica è stata il lancio della Special School “Emilio Sereni” Storia e gestione del paesaggio nelle aree rurali. I paesaggi della Riforma agraria, programmata dal 26 al 30 settembre 2016 presso l’Università di Catania, Struttura Didattica Speciale di Architettura di Siracusa, e co-organizzata da quest’ultima università e l’Istituto Alcide Cervi – Biblioteca-Archivio Emilio Sereni. Il respiro nazionale dell’iniziativa e il suo taglio interdisciplinare rendevano infatti stimolante l’analisi delle analogie e differenze tra i vari territori italiani coinvolti nella Riforma, nell’ambito della quale i vasti drenaggi del delta padano assumevano caratteri di peculiarità assoluta; la formula della Special School, rivolta preferenzialmente a studenti, specializzandi e dottorandi, ben si prestava alla presentazione pubblica di un prodotto multimediale, a metà strada tra l’approccio scientifico e quello divulgativo. In accordo con l’Istituto Alcide Cervi – Biblioteca-Archivio Emilio Sereni e con la sua Presidenza, nell’estate 2016 si è creato quindi un gruppo di lavoro sul progetto (Stefano Piastra, Gabriella Bonini, Marina Regosa, Emiliana Zigatti); lo stesso istituto si è poi fatto caricato dall’individuazione del regista, individuato in Liviana Davì, filmmaker e collaboratrice della stessa struttura. 7 Sul tema emergente del nesso tra geografia, ricerca visuale e disseminazione dei risultati raggiunti, si veda E. Bignante, Geografia e ricerca visuale. Strumenti e metodi, Laterza, Roma-Bari, 2011. Circa alcune recenti esperienze al riguardo in area emiliano-romagnola, anche in chiave educativa e divulgativa: S. Piastra, Memoria del territorio, identità locale, cittadinanza. Esperienze e buone pratiche in area romagnola, in B. Borghi, F.F. García Pérez, O. Moreno Fernández (a cura di), Novi Cives. Cittadini dall’infanzia in poi, Pàtron, Bologna, 2015, pp. 293-299. 8 Sull’argomento, si veda S. Piastra, Terre nuove. Bonifica e memoria a sessant’anni dall’istituzione dell’Ente per la colonizzazione del delta padano, in «IBC», XIX, 4, 2011, pp. 3638 (versione on-line, arricchita con immagini a corredo, alla pagina http://rivista.ibc.regione. emilia-romagna.it/xw-201104/xw-201104-a0010). 368
Operativamente, si è scelto di concentrarsi sul solo territorio ferrarese del delta, laddove le opere realizzate dalla Riforma agraria raggiunsero le dimensioni (e, di riflesso, gli impatti e le implicazioni) maggiori. Sono inoltre state messe a fuoco le coordinate di fondo del filmato: un lavoro “grezzo”, senza speakeraggio fuori campo e in presa diretta, caratterizzato da mezzi tecnici, grafica ed effetti minimali, avente come filo-conduttore l’idea di un viaggio nelle terre deltizie tra presente (materializzato da riprese sul terreno) e passato (testimoniato da materiali filmici e fotografie d’archivio). Riguardo a quest’ultimo punto, è risultato fondamentale il fatto che l’Istituto Alcide Cervi – Biblioteca-Archivio Emilio Sereni abbia acquisito i diritti od ottenuto il permesso all’uso gratuito di una serie di filmati storici sulla Riforma agraria nel Ferrarese provenienti dall’Archivio dell’Istituto Luce e di fotografie dell’Archivio dell’Ente Delta Padano, oggi presso la Regione Emilia-Romagna, Direzione generale Agricoltura, caccia e pesca e l’Istituto Beni Artistici Culturali Naturali Emilia-Romagna. Accanto ai luoghi, come detto anche le persone risultano importanti nell’economia del racconto, nel dipanarsi del quale si alternano le testimonianze di Ferruccio e Sergio Cavalieri, ex assegnatari della Riforma agraria nella bonifica di Valle Pega (Comacchio) (fig. 2), Valter Zago, già Presidente del Parco regionale del Delta del Po Emilia-Romagna, Tonino Zanni, ex Segretario della Camera del Lavoro di Comacchio.
Fig. 2 – Screenshot tratto dal documentario: Sergio e Ferruccio Cavalieri, ex assegnatari della Riforma agraria nella bonifica di Valle Pega (Comacchio), intervistati nell’ambito del filmato
Ne è scaturito un documentario intitolato Dall’acqua ai campi, dai campi al silenzio. Le traiettorie della Riforma agraria nel delta padano emiliano-romagnolo (fig. 3), di circa 38 minuti, presentato per la prima volta alla sopramenzionata Special School siracusana di fine settembre 2016. In una prospettiva di massima divulgazione del lavoro, nell’ottobre dello stesso anno lo stesso filmato è stato caricato sul canale youtube dell’Istituto Alcide Cervi9, ottenendo in poco più di un mese circa 150 visualizzazioni. 9 https://www.youtube.com/watch?v=Zb0rRv4tAKM. 369
Fig. 3 – Screenshot finale del documentario: un rettifilo della bonifica di Valle Pega (Comacchio), drenata negli anni della Riforma agraria, ripreso in soggettiva tramite una camera-car, con sovrimpresso il titolo del filmato
Il titolo prescelto vuole rimandare alla figura retorica della sinestesia, facendo riferimento ai quadri paesistici creati dai drenaggi delle “valli” deltizie per ottenere fondi agricoli, operati negli anni della Riforma, e al silenzio che oggi contraddistingue quelle stesse terre bonificate, a cinquant’anni di distanza in gran parte spopolate. Il video analizza in un’ottica culturale ampia l’evoluzione e gli esiti finali della Riforma agraria nel territorio ferrarese, delineandone luci e ombre e le tante implicazioni (si pensi alla stagione di notevoli scoperte archeologiche, in primis le tombe e l’abitato della città etrusca di Spina, rese possibili dai drenaggi, o ai riflessi della Riforma nella produzione letteraria locale10). Si tratta di un documentario dichiaratamente “a tesi” e di approccio critico, che si riallaccia agli appunti a questo programma già mossi durante il suo svolgimento, con accenti diversi, da Mario Ortolani11 o da Antonio Cederna12: dalla constatazione che, nel contesto del progetto, i motivi politici e assistenzialistici erano spesso prevalenti, al suo anacronismo rispetto al quadro economico italiano successivo al boom, ormai direzionato verso il Secondario, oppure ancora al fatto che l’impatto ambientale e 10 S. Piastra, Spunti paesistici nell’opera di Francesco Serantini, in «Studi Romagnoli», LXI, 2010, pp. 1061-1071; ID., La bonifica della valle del Mezzano tra memoria e progetto: percezione presso le comunità locali, rappresentazioni letterarie e filmiche, problemi e prospettive gestionali, in C. Visentin (a cura di), Il paesaggio della bonifica. Architetture e paesaggi d’acqua, Aracne, Roma, 2011, pp. 129-138. 11 M. Ortolani, Scompariranno le Valli di Comacchio?, in «Natura e Montagna», s. II, I, 3, 1961, pp. 28-34. 12 A. Cederna, La riabilitazione delle paludi, in «Corriere della Sera», 5 novembre 1970 (ora riedito in G. Gallerani, C. Tovoli (a cura di), In nome del Bel Paese. Scritti di Antonio Cederna sull’Emilia-Romagna, Zanini, Anzola 1998, pp. 51-53); ID., La distruzione della natura in Italia, Einaudi, Torino, 1975, pp. 56-57. 370
paesistico degli interventi fu poco e male considerato (una specie di esperimento “al buio”), con un limitato orizzonte sul medio-lungo periodo. In relazione all’“eredità” odierna della Riforma agraria nel delta, nel video si ribadisce come essa abbia tuttora alti costi, destinati a salire ancora di più nel futuro prossimo: non solo in termini ecologici, perché i terreni asciugati, salati e torbosi, necessitano di un ampio uso di correttivi e fertilizzanti, i quali poi passano alle “valli” residue; ma anche in termini economici, in quanto le terre bonificate risultano asciutte in seguito all’azione continua, negli ultimi cinquanta-sessanta anni, di idrovore elettriche che le mantengono tali. Il documentario si conclude guardando verso il futuro, interrogandosi se è possibile un ritorno al passato e realistico pensare a un ripristino ambientale delle aree umide del delta. L’opzione è tecnicamente fattibile. Ma gli ostacoli per una sua messa in pratica, su vasta scala e in tempi brevi, appaiono ad oggi insormontabili: si tratterebbe infatti di una “scommessa”, anche politica, notevole, che coinciderebbe col ripensare integralmente questo territorio per l’ennesima volta nel giro di pochi decenni; per il suo innesco, occorrerebbero poi una progettualità approfondita e vasti investimenti pubblici, difficilmente ipotizzabili in tempi di crisi degli enti locali, cancellazione delle province e nebulosità delle aree vaste (in seguito alla L. 7 aprile 2014, n. 56), aree protette regionali (alcune ex “valli” bonificate sono infatti ricomprese all’interno o limitrofe al Parco regionale del Delta del Po Emilia-Romagna) riorganizzate in EmiliaRomagna nel 2011 tramite una legge molto discussa (L.R. 23 dicembre 2011, n. 24).
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Promemoria dei borghi
Rocco Giudice
L’idea di uno studio sui borghi della Riforma Agraria, di una inchiesta sui borghi, di un documentario sui borghi… Come non pensarci – prima che i borghi si svuotassero, prima che diventassero il reperto di un’epoca che non sembra appartenere alla storia ufficiale, vidimata dal sistema del sapere e dall’eredità di una memoria, come si suol dire, certificata e condivisa? I borghi stessi sono un’idea ovvero quanto più, fra le cose tangibili, si avvicina a un’idea: corrispondono a un progetto sovrimpresso alle stratificazioni e concrezioni storiche, fanno pensare a un’opera lasciata a metà, a un discorso interrotto, a uno stato di sospensione dell’incredulità, a un monologo interiore dell’architettura o della pittura metafisica. I borghi, nella loro flagranza oggettuale, ontica, si vorrebbe dire, c’erano e ci sono. Ma declinano il loro essere in tempi e modi che il verbo storico non pronuncia in modo chiaro. Li vedi e non li vedi, che ci stanno a fare, come saranno spuntati, chi ce li ha messi, chi mai ci avrà abitato; le campagne si sono spopolate a perdita d’occhio, in una zoomata infinita all’incontrario, mentre quell’orizzonte storico circoscritto a una geografia propria e non mimetizzabile muta, non si allontana soltanto, non ripara dietro le quinte del mondo che si prepara, non si fa da parte rifluendo sulle linee di un conflitto sociale dalle prospettive definitivamente chiuse al futuro, in un tempo esaurito in cui l’esperienza che vide sorgere i borghi è superata, forse, senza mai essersi davvero conclusa. Quei luoghi si prestano a fare da materiale per un racconto che si dispone proprio come si era svolta la vicenda intensa e breve dell’epopea della Riforma, come una parentesi all’interno di processi e mappe storiche che non ne contenevano le dimensioni reali entro una misura univoca, in un discorso che non sarà mai il suo, perché non detto, disertato anche dal benjaminiano Angelo della Storia. Un luogo che diventa esso stesso documento è una remora a ‘documentare’: gli stessi documenti d’archivio, laddove reperibili, erano sottoposti al medesimo stress, al logorio di una incuria prolungata che poteva apparire deliberata, perfino: gli atti che ne avevano segnato e accompagnato il sorgere seguivano lo stesso destino. A chi avesse voluto raccontare quel paesaggio toccava preservare anche la memoria di un oblio che inverava come Utopia l’Arcadia perduta, il miraggio di un riscatto sociale come viatico alla modernità. In questo vuoto di memoria collettiva, la maieutica per immagini può cadere nella retorica prima ancora e anzi, senza nemmeno bisogno di articolarsi 373
in un linguaggio e senza diventare parte del discorso in cui trovare una rispondenza o un’eco. Potrebbe essere un modo per sottrarsi alle mistificazioni ideologiche, ma, nello stesso tempo, è anche il mezzo per adempierne gli interdetti, per rimuovere quel vuoto di una storia mancata, ma che a quella reale fa da contrappunto/contrappasso, di nuovo e ancora più utopico – in fondo, il non luogo, nella formulazione di Marc Augé, non è che un’utopia contraffatta. Da dove cominciare, dunque? Che raccontare o interrogare? Come esprimere nella lingua della memoria non solo l’oblio, ma un percorso storico senza sbocchi? Le linee spezzate e di frattura del racconto, i sentieri interrotti di quel percorso incrociavano, di fatto, le luci di un’infanzia vissuta nelle adiacenze di uno dei borghi: che aveva meritato non a caso il titolo di ‘Paese delle Fate.’ Arrivarci di notte, una notte magica che aveva nelle viscere di una valle buia le luci di Borgo Lupo illuminato per una festa e relativa fiera di fine estate, una costellazione fantastica che, da sola, nel tempo del sogno dell’infanzia che avrebbe visto la fine di un mondo, esaudiva o reiterava la promessa di una favola/utopia sociale, era una delle poche conseguenze che, a futura memoria, si potessero ascrivere a quella vicenda e offrirsi al racconto, sia pure, frammentario in cui inverare la dispersione effettiva e simbolica del luogo nel paesaggio segnato da una deriva storica che sembra irreversibile. Infine, quello che intendevamo evitare con tutte le nostre forze era la riproposizione del cliché della Sicilia come metafora: proprio perché più forte e legittimo sarebbe stato, nel vuoto dello spopolamento delle campagne, ricalcare quella parabola che si intreccia all’impatto della modernità sull’isola ‘incantata’: ma che, del resto, definisce solo in parte, ancorché maggioritaria e fonte di legittimazione anche laddove contestata, la storia della Sicilia che fu come di quella che rimane, cui manca quanto si colloca al di fuori degli assunti codificati di una terra condannata alla marginalità, alla miseria, al fallimento dell’Autonomia e così, in ultimo, all’Autonomia, che ne ratifica l’esclusione. Questo spiega l’esserci posti come interlocutori anche quando potrebbe sembrare che, rispetto al discorso di primo grado, degli intervistati quanto delle suggestioni dei luoghi, intendevamo ‘mediare’, ovvero manipolare a tutto vantaggio dei destinatari, un discorso che non ha avuto per sé alcun repertorio di immagini su cui sostenere un ruolo – di accusa, di difesa, di vittima, testimone, protagonista, oggetto o soggetto di giudizio. Ciò che non potevamo avocare per noi, innanzi tutto: ma anche l’occasione per fare del nostro punto di vista lo specchio delle voci chiamate a fornire un riscontro vissuto, in carne e ossa di quell’idea, di quei progetti e processi sociali concorrenti che non hanno determinato, però, il senso di un’esperienza che, nelle sue finalità, sembrava conclusa all’origine. Ma oggi, pertanto, i borghi reclamano una nuova identità: a essa vada questo nostro contributo.
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Fra Arcadia e Utopia La vicenda dei borghi rurali in Sicilia Angelo Barberi
Ci sono borghi e borghi, borghi abitati e borghi disabitati, borghi integri e borghi diroccati, borghi recuperati ad altre funzioni e borghi i cui ultimi abitanti sono stati sfrattati per motivi incomprensibili. Ci sono borghi abbandonati e borghi che provano a resistere, dentro e attorno a cui vivono esperienze minoritarie di rilancio economico. Ma tutti i borghi rurali siciliani rappresentano oggi solamente un pallido simulacro di quello che sarebbero dovuti diventare: un ordinato e laborioso microcosmo dove stato, chiesa, preti e carabinieri avrebbero dovuto essere garanti di un ciclo sociale e produttivo regolato e fecondo, una piccola cellula specchio e fondamenta di un’intera società. I servizi del borgo, il medico, il mulino, il maniscalco, la rivendita di sali e tabacchi, la scuola, l’ufficio postale e attorno le case sparse nella campagna in cui la famiglia contadina avrebbe espletato tutte le sue funzioni produttive e riproduttive. Questo progetto, che si è perpetuato quasi senza soluzione di continuità dai primi borghi costruiti dal fascismo tra il 1939 e il 1940 agli ultimi degli anni ‘50, realizzati a seguito della riforma agraria voluta dal parlamento democratico, tuttavia ha fin da subito mostrato tutti i limiti e le difficoltà di un progetto calato dall’alto, studiato a tavolino così come lo erano in parte i progetti architettonici dei borghi. “ In tutte le province della Sicilia dove è in corso la colonizzazione del latifondo, e sono state fabbricate le nuove case coloniche sono stati costruiti anche i borghi nuovi. In provincia di Agrigento c’è borgo Bonsignore, in provincia di Caltanissetta borgo Gattuso, a Catania borgo Lupo, a Siracusa borgo Rizza, a Trapani borgo Fazio, a Palermo borgo Schirò, a Enna borgo Cascino. Questi paeselli sono situati in piano o in collina, in punti dove prima non c’era nemmeno un pagliaio, o in mezzo alla campagna migliorata: il posto è stato scelto dove l’aria era buona e c’era vicino lo stradale. Ora c’è tutto: la chiesa con la sua canonica, e l’ufficio postale, la scuola, la casa del medico e la trattoria, e ci sono le botteghe dei mastri che lavorano tutto quello che serve, e quelle dei commercianti che vendono tutto quello di cui una famiglia ha bisogno. Questi paeselli sono freschi freschi, ancora bianchi di intonaco e sembra un sogno come siano potuti nascere improvvisamente in quelle contrade deserte e solitarie, ma ognuno li vede”. Così sul primo numero dell’aprile del 1941 del Lunario del contadino siciliano, il trimestrale diretto da Nallo Mazzocchi Alemanni e a cura dell’Ente di colonizzazione del latifondo siciliano, si celebravano i borghi con un 375
articolo dal titolo Borgo Gattuso, scritto quasi certamente da Nino Savarese. Mentre, con tutta la fiducia che i tecnocrati nutrivano nella loro azione, l’economista e studioso umbro presentava con queste parole il primo numero della rivista : “ E’ questo il tuo “Lunario”, colono del latifondo siciliano. Fanne il compagno utile e fedele della tua fatica, nella nuova vita che oggi ti è possibile vivere, con tutta la tua famiglia accanto, sul podere che stai fecondando col tuo lavoro e la tua capacità. […] Nelle ore di riposo e prima di avviare il tuo quotidiano travaglio, leggi queste pagine, che ti aiuteranno, ti conforteranno e anche ti diletteranno. Leggile e leggile: si affinerà la tua intelligenza, si rasserenerà il tuo spirito, si moltiplicheranno le tue conoscenze. Vi troverai l’ordine dei giorni, i suggerimenti pratici per il tuo lavoro, i consigli dettati dall’antica saggezza e dalle nuove esperienze”. Ma al di là della retorica, che l’operazione di colonizzazione del latifondo si presentava piuttosto complessa e problematica emerge anche da un articolo sullo stesso numero firmato da tale padre Gerlando, parroco di paese, che individua un preciso capro espiatorio alle difficoltà di convincere i contadini ad accettare terre lontane dai paesi: “ Tu che pure sei contadina e figlia di contadini, in campagna non ci vuoi stare. Il tuo uomo è confuso, non sa capacitarsi, non comprende il perché. Te lo dirò io il perché, donna ostinata e frivola: tu non vuoi stare in campagna per non staccarti dal vicolo e dalle comari”. La vicenda dei borghi rurali siciliani, in verità, si è consumata in un breve arco temporale a dir poco travagliato. Iniziati a ridosso del coinvolgimento italiano nella seconda guerra mondiale, vengono interrotti con l’acuirsi della guerra in Sicilia, attraversano il tempestoso “dopoguerra”, dall’occupazione alleata alle lotte contadine per la terra, fino a saldarsi con la nuova stagione della riforma agraria che culmina con le leggi approvate nel 1950. Nel corso degli anni Cinquanta, in quasi perfetta continuità con quanto era stato inaugurato con l’assalto al latifondo, si prova a ridare vita al progetto di portare i contadini a vivere nelle campagne. Ma da lì a poco, l’accelerazione dell’industrializzazione e il conseguente spostamento di masse di contadini dalle campagne alle città spegneranno definitivamente le velleità di “ruralizzazione”. I borghi sopravvivranno fino alla fine degli anni Sessanta e qualcuno agli anni Settanta, ma si ridurranno sempre più a fantasmi di se stessi. Se qualcuno dei borghi oggi si è salvato ciò è avvenuto a dispetto e contro l’idea che il borgo non doveva essere abitato dai contadini ma fungere solo da servizio. Così sono sopravvissuti solo quei borghi che sono stati occupati, spesso ”abusivamente”, dai pochi contadini rimasti nelle campagne, da ex impiegati degli uffici, o dai loro eredi. Uno di questi è sicuramente borgo Cascino dove, sul finire degli anni Settanta, gli edifici prima adibiti ad uffici sono stati occupati e trasformati in civili abitazioni. Certo il fatto che il borgo si trovi nei pressi della statale 122 che collega Caltanissetta ed Enna e che non disti molto da quest’ultima città, ha facilitato questa evoluzione. Altro borgo ben conservato è Bonsignore, nei pressi della riserva naturale della foce del fiume Platani, utilizzato soprattutto in estate per le vacanze. Mentre Borgo Lupo, in posizione piuttosto isolata nella campagna tra Mineo e Ramacca, è abitato da pochissime famiglie, tuttavia quasi tutte le abitazioni hanno un possessore che le utilizza saltuariamente. Anche se strutturalmente il borgo è abbastanza integro, i segni dell’abbandono sono però evidenti. 376
Un caso a parte è rappresentato da Libertinia e da Filaga, due insediamenti precedenti le riforme degli anni quaranta-cinquanta, concepiti come veri e propri paesi rurali e ancora oggi abitati, sebbene la crisi dell’agricoltura ne metta a repentaglio il futuro, soprattutto per Libertinia, appartata nella campagna tra Agira e Raddusa, ma non distante dalla A 19, mentre Filaga è oramai un’appendice di Prizzi. Una situazione paradossale è quella di due borghi del trapanese: Bruca e Ummari. Abitati fino a poco tempo fa in modo “abusivo”, adesso gli ultimi abitanti sono stati sfrattati dai comuni di Buseto Palizzolo e Trapani per motivi non del tutto comprensibili e le abitazioni già versano in stato di evidente degrado. Un diverso destino è toccato ad alcuni borghi che sono stati recuperati ad altri usi. Borgo Ventimiglia, tra Caltagirone, Acate e Mazzarrone, circondato da vigneti, è diventato un centro per il recupero di persone affette da alcolismo; mentre borgo La Loggia, nei pressi di Naro, è un centro per immigrati. Anche borgo Pizzillo, nel comune di Contessa Entellina, è stato adattato ad un’altra funzione. La costruzione risale a metà degli anni cinquanta, ma vennero edificati solo la chiesa, la scuola e l’ambulatorio medico. Presto abbandonato, è stato utilizzato come ricovero per animali, finché un prete lo ha preso in custodia, fondandovi una comunità che attualmente vi vive e lo ha salvato dal degrado, ristrutturandolo e abbellendolo. Ma la lista dei borghi abbandonati e/o in decadimento, con edifici semi diroccati o crollati è piuttosto lunga: Guttadauro, Giuliano, Baccarato, Riena, Schirò, Borzellino, Fazio, Schisina, Gallitano, Braemi, Mandre Tonde. Negli ultimi anni c’è stato un ritorno di interesse per questi borghi. Idee, studi e progetti ne propongono un recupero, non solo per salvarli dal disfacimento, ma anche per trasformarli in un possibile volano dell’economia del territorio. Uno di questi progetti è quello redatto dall’Ente di Sviluppo Agricolo, che tra l’altro è proprietario di diversi borghi. Il progetto indicato come Via dei Borghi così viene motivato: “Gli avvenimenti economici recenti hanno scalfito molte abitudini e certezze della vita di ogni giorno, riportando d’attualità un nuovo modello di regionalizzazione, di “prodotti a chilometro zero”, attento alle scelte di qualità e di tutela della tipicità della produzione in alternativa alle opzioni della globalizzazione. […] Infatti, se è palese che l’impossibilità di competere con i costi di produzione molto più bassi frena la diffusione sui mercati mondiali di tanti prodotti siciliani, la facilità e la relativa economicità nei collegamenti con ogni parte del mondo, l’offerta di paesaggi agricoli ancora scarsamente antropizzati, la ricchezza di prodotti di elevata qualità, le favorevoli caratteristiche climatiche in ogni stagione possono innescare un processo virtuoso di rivalutazione dell’ambiente rurale e del settore agricolo”. Tuttavia, girando per questi borghi e parlando con chi ancora vi vive e vi lavora, emerge un quadro desolante e problematico. L’agricoltura attraversa una profonda crisi, che si lega a quella generale, e produce un marcato spopolamento delle campagne, salvo qualche rara eccezione di giovane che ritorna alla terra. L’impressione generale è che l’agricoltura siciliana, anche quando ha tentato di rinnovarsi, di diversificare le produzioni, rimanga schiacciata da meccanismi di mercato e concorrenziali tanto più forti, dallo strapotere della grande distribuzione, oppure tutt’al più, nei casi migliori, finisca per occupare piccole nicchie di mercato, nei peggiori, ad orientare la produzione per l’esportazione, ripercorrendo vecchie strade di un mercato semicoloniale che lascia sul territorio solo le briciole. 377
A borgo Roccella, proprio sotto la mitica rocca d’Entella, un giovane appena diplomato è subentrato nel caseificio di famiglia ed è entrato nel consorzio di tutela per la produzione della vastedda del Belìce, prodotto Dop e presidio slow food. A borgo Santa Rita, in territorio di Caltanissetta, un altro giovane ha convertito l’azienda di famiglia al biologico, recuperato le varietà antiche di grano, aperto un panificio e un piccolo pastificio artigianale. Ecco, sono solo due esempi delle potenzialità e delle capacità che si possono esprimere. Eppure in entrambi i casi sono costretti ad operare in una condizione di isolamento, quasi disincarnati dal territorio circostante, isole che si dibattono in un mare insidioso e difficile da navigare. I borghi rurali siciliani potrebbero e dovrebbero essere salvati e sottratti ad un inesorabile declino, ma la scommessa sta nel ricostruirvi o costruirvi attorno un tessuto, non solo economico, vivo e attivo. Ma siamo proprio sicuri che per fare ciò non occorra uscire dal consueto paradigma dello sviluppo economico e delle strategie di mercato e inventare e percorrere strade diverse?
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Appunti per un documentario sui borghi della colonizzazione e della riforma agraria in Sicilia
Sebastiano Pennisi
Idea per un soggetto: una scarpa nuova in un campo. L’idea di girare un documentario sui borghi della Colonizzazione e della Riforma in Sicilia nacque nel 2008 in seguito ad una sortita a Borgo Lupo con Rocco Giudice, in un momento di pausa dalle attività scolastiche. Insegnavamo a Mineo e Giudice, al corrente del mio interesse per il cinema, presto mi persuase della necessità di riportare alla luce questa emergenza storica, artistica e culturale del nostro paesaggio, poco repertoriata dal cinema, anche documentario, se non in pochi filmati dell’Istituto Luce, nel cortometraggio Panorami di Sicilia di Vittorio Solìto, e in pochissime, brevi sequenze de L’avventura, capolavoro del 1960 di Michelangelo Antonioni, emblematiche dello stato di abbandono in cui versavano, pochi anni dopo la costruzione, i borghi presso Francavilla, veri e propri “cimiteri”. Giudice mi raccontò che, da bambino, non ricordava come, era capitato a Borgo Lupo e, a distanza di anni, conservava l’impressione di incanto e meraviglia che il borgo gli aveva destato, come un paese dei balocchi illuminato a festa, un miraggio nel buio inospitale e allora pressoché desertico delle campagne sotto Mineo. E in realtà il viaggiatore che percorrendo le strade provinciali e le regie trazzere dell’interno della Sicilia, casualmente si imbatte in queste costruzioni, non può esimersi dal chiedersi: “Che ci fanno qua queste case? Da quando sono qua?” Carola Susani scrive, nel suo breve racconto di viaggio nelle campagne interne del palermitano, pubblicato sul numero 157 de Lo Straniero del 2013: “Se trovi una scarpa nuova in un campo, ti vengono in mente delle domande. Questo il bello degli oggetti che sembrano fuori contesto: ti chiedono di interrogarli, ti mettono in crisi.” Sono questi borghi dei luoghi della memoria e dell’identità, in cui possiamo riconoscere ciò che fummo e che ora non siamo, luoghi di un’Arcadia reale o sognata, un’Utopia radicata nel territorio, o sono sempre stati “nonluoghi, non identificati, non localizzati, non socializzati”, come direbbe Marc Augé?
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Un aspetto inedito dell’isola plurale. Motivi di interesse per la realizzazione del documentario. Erano, dunque, svariati e della più disparata natura i motivi che mi persuadevano della necessità di occuparmene: poter declinare per immagini un aspetto inedito della nostra terra, approfondire alcuni aspetti storico-artistici, come il tentativo di adattamento dei canoni architettonici razionalisti nazionali e internazionali da parte dei giovani architetti siciliani della prima metà del Novecento, analizzare il contesto politico, sociale e culturale del ventennio precedente e seguente la seconda guerra mondiale; ma, soprattutto, quello che più mi interessava era la prosecuzione del lavoro di documentazione che avevamo iniziato con Angelo Barberi sulle lotte contadine e sulla riforma agraria con l’esplorazione degli aspetti paesaggistici e della condizione agraria attuali. Un lavoro di indagine sulla possibile sopravvivenza dei borghi e delle case coloniche diventava così un’inchiesta sulle reali prospettive del ripristino delle abilità contadine, della preservazione dell’ambiente e del mangiare responsabile. Anche mangiare è un atto agricolo e politico. Le scelte di politica alimentare oggi più che mai riguardano la nostra libertà e la sperequazione socio-economica tra Nord e Sud del mondo. Ai saggi dello storico Salvatore Lupo sull’utopia totalitaria fascista e sull’esperimento di ingegneria sociale della colonizzazione del latifondo e alla attenta ricognizione delle varie tipologie di borghi del Fascismo nel libro Nel segno del littorio di Liliane Dufour, che ci è servito da guida, sono poi seguite altre pubblicazioni: Fascio e Martello di Antonio Pennacchi, che aveva precedentemente però pubblicato le sue ricerche sulla borghificazione e ruralizzazione fascista in Sicilia e sul fascismo come dittatura del proletariato su Limes; La colonizzazione del latifondo siciliano di Vincenzo Sapienza, prezioso per la disamina sugli aspetti architettonici e costruttivi dei siti, sulle tecniche e sui materiali dei fabbricati e il progetto dell’Esa La via dei borghi, ideato dall’ingegnere Angelo Morello per riqualificare i borghi rurali. In esso si pianifica la messa in opera di percorsi turistici e culturali (greenways, ippovie, itinerari naturalistici con strutture ricettive, attività didattiche legate al mondo rurale, esposizione e vendita di prodotti tipici e a chilometro zero) lungo un asse che da Borgo Schirò a Borgo Lupo attraversa la Sicilia interna, danneggiata da politiche agricole sbagliate e dallo stato disastrato delle infrastrutture, ma, ciò nondimeno, dotata di un forte appeal per un turismo lento e locale, grazie alla sua scarsa antropizzazione, alla ricchezza di prodotti di alta qualità, alla bellezza e varietà paesaggistica e antropologica, e alle favorevoli condizioni climatiche. Siamo venuti a conoscenza degli studi sul paesaggio agricolo e della catalogazione dei borghi della Colonizzazione e della Riforma da parte di Maria Lina La China, degli interessanti studi sul soundscape dei borghi rurali di Fabio Lattuca e Pietro Bonanno e abbiamo assistito in poco meno di un decennio alla rinascita di un interesse generalizzato per l’argomento fino all’attuale convegno a Siracusa della Special School Emilio Sereni sulla storia e gestione del paesaggio nelle aree rurali e sui paesaggi della riforma.
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Un giro d’istruzione: l’Utopia nell’Arcadia. Il buon senso di oggi è quello di ieri. Con Angelo abbiamo intrapreso dal 2012 ad oggi un nuovo percorso di ricerca sul territorio rastrellando in lungo e in largo la Sicilia per indagare la condizione attuale di borghi e villaggi, ma soprattutto per valutarne il senso di una possibile rinascita, ricostruzione o sviluppo considerando anche la vita, la storia, le occupazioni, i desideri e le attese, insomma, la volontà di radicarsi e di inventarsi un futuro da parte degli abitanti delle campagne intorno. Nel quadro di una indubitabile continuità di obiettivi e modalità realizzative tra fascismo e democrazia, l’edificazione dei borghi rurali di servizio, in gran parte oggi abbandonati e fatiscenti, rappresentò un tentativo contraddittorio e fallito di rivitalizzare l’agricoltura siciliana. Quando non era addirittura stata un’illusione da pellicola, da cinematografo, materializzatasi dall’ingegnoso fotomontaggio di un maldestro architetto, come nel caso di Mussolinia, la città-giardino nei pressi di Caltagirone. In ogni caso il programma di assalto al latifondo e più in là di Riforma furono inficiati dall’idea di partenza di imporre ai contadini e alle loro famiglie un modello di vita e di apportare sì migliorie nella vita rurale, ma coercitivamente e non rispondendo a una pianificazione di città e territorio legata alla produzione umana di coesione sociale e gestione dello spazio. What are cities but people? - ci ammonisce Franco La Cecla citando Shakespeare in “Contro l’urbanistica”, e ci mette in guardia contro la pericolosa ideologia dell’inurbamento planetario e delle città-mondo che si annida dietro la formula di urban prosperity, “come se l’agricoltura e la produzione di cibo non fossero altrettanto essenziali per la prosperity e come se nelle campagne fosse impossibile un modello di cultura e di vita differente da quello delle città ma altrettanto radicato nella storia umana e capace di produrre cultura e società”. Gli abitanti dei borghi e delle campagne attorno lamentano ancora oggi lo stato di abbandono da parte delle istituzioni sia degli edifici che delle infrastrutture e ritengono ogni progetto, quando ne sono a conoscenza, di difficile attuazione, bello solo sulla carta o troppo bello per essere vero. In molti casi occupanti abusivi hanno salvato dalle ruberie e dallo sciacallaggio gli edifici dei borghi. Abbiamo spesso riscontrato uno scollamento tra le intenzioni delle istituzioni, anche dell’Esa, e l’esperienza e i bisogni degli abitanti dei luoghi. Per questioni burocratiche o difficoltà comunicative. I giovani non sono in genere coinvolti. O, se lo sono, è perché hanno scelto di impegnarsi in un loro progetto di agricoltura biologica o di valorizzazione dei prodotti locali tipici o di produzione indipendente estranea ai grossi flussi dei mercati internazionali, in un’oasi sospesa tra l’arcadico ritorno ad una agricoltura contadina, biologica e rispettosa degli ecosistemi, e l’utopia di una democrazia ecologica in cui si agisca localmente per pensare globalmente. In un quadro in cui l’Economia va bene ma i cittadini stanno male, tra timidi tentativi per un recupero delle strutture dei borghi e la profonda crisi in cui versa un’agricoltura siciliana schiacciata dai meccanismi del mercato globale, c’è chi prova a percorrere e a indicare strade alternative: rilocalizzare, decolonizzare l’immaginario, risparmiare, ricollocare gli essere umani e la loro diversità al centro di qualsivoglia modello economico, ridurre la velocità, demercificare il tempo e ritrovare il senso del limite e i valori di equilibrio e frugalità delle antiche civiltà contadine. 381
Questioni di metodo: partire dal piccolo, dal semplice, dall’umile. Il documentario sui borghi della Colonizzazione e della Riforma rappresenta per noi un’altra tappa di un’inchiesta sociale e antropologica tesa a ricostruire la storia dal basso, a partire dalle testimonianze di chi spesso non ha voce ma avrebbe molto da dire, di chi le decisioni spesso se le vede imporre dall’alto, della gente semplice sulla cui pelle spesso la storia si fa e si scrive. Tutto documentato con mezzi poveri e leggeri, senza una vera e propria troupe, in modo che l’eccessiva cura tecnica e formale non possa attenuare il senso del nostro discorso e distanziare il nostro sguardo dalla materia viva della realtà. Riserviamo al momento creativo del montaggio la ricomposizione degli eventi, preoccupandoci di non tradire il pensiero delle persone intervistate. Dal puzzle delle testimonianze selezionate e incastrate, emerge il loro, il nostro punto di vista. Riteniamo, infatti, che le interviste sistematicamente realizzate sul campo offrano una preziosa occasione per un riscontro oggettivo delle ipotesi formulate. Rifiutiamo, inoltre, l’uso della voce fuori campo come voce di un autore onnisciente. Il senso deve emergere dall’impianto corale del racconto. L’ambiente non è mai scelto, come può esserlo uno sfondo o location da cineturismo. Spesso la persona del testimone incarna lo spirito del luogo in cui ci capita di intervistarlo. Il commento musicale, quando è presente, non è invadente, non guida o sovrasta le immagini. Non amiamo gli effetti speciali e la spettacolarizzazione del racconto. Le parole di Vittorio De Seta in una videointervista ad Alessandro Rais ci indicano la strada da percorrere.: “Il cinema dovrebbe far comprendere alla gente come è cambiata la vita, cosa dobbiamo fare. Questo è il fine, l’arte non è solo un abbellimento…Il mio sentimento è che forse in futuro sarà come in una partenza dalla base. È come se la gente adesso si riferisse ad una realtà come quella che legge nei giornali, con dei valori che mi sembrano tutto sommato sovrapposti, finti, esagerati, enfatizzati, perché la vita non è la politica che esce sui giornali, la vita è quella molecolare….credo che la direzione nella quale dovrebbero andare i registi non è quella di pensare ai manifesti, alle cose grandi, ma di partire dal piccolo, dal semplice e dall’umile”.
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Autori
Franco Amata Già professore ordinario di Storia dell’agricoltura e docente di Storia dell’ambiente e del paesaggio rurale nell’Università di Catania, ha condotto studi e ricerche nel campo dell’economia e della politica agraria, con una particolare attenzione per le tematiche storiche ed economico-sociali e per quelle concernenti le interazioni tra lo sviluppo dell’agricoltura e le trasformazioni del paesaggio agrario e dell’ambiente. Tra i suoi lavori si ricordano: Crisi politica e questione agraria in Sicilia alla vigilia degli anni Ottanta (1979); L’agricoltura francese negli anni della Grande Crisi (1983); La Francia dalla crisi del ‘29 al Fronte popolare (1984); I caratteri originari dell’agricoltura e del paesaggio rurale nell’area iblea (1999); L’agricoltura catanese dagli anni Venti alla riforma agraria (2000); Le vin dans le contexte socio-économique de la Sicile (2003); Commenti e valutazioni su uno studio sulla riforma agraria in Italia e gli Stati Uniti, in “Rivista di Economia Agraria”, 1/2006; Il paesaggio del grano e dello zolfo nella Sicilia dell’Inchiesta Jacini. Economia e mondo rurale in una monografia di Giovan Battista Salerno sul Circondario di Piazza Armerina (1879), (2008); Per una storia della vite e del vino in Sicilia tra Otto e Novecento (2009). Giuseppe Barbera Professore ordinario di Colture Arboree presso l’Università degli Studi di Palermo, si occupa di sistemi e paesaggi della tradizione agricola mediterranea. Ha ricevuto numerosi titoli accademici e scientifici ed è stato coordinatore di numerose ricerche scientifiche nazionali tra cui le più recenti riguardanti l’identificazione di paesaggi agricoli tradizionali. Paola Barbera Architetto e Dottore di ricerca, è ricercatore di Storia dell’architettura presso l’Università degli Studi di Catania, Struttura Didattica speciale di architettura di Siracusa, dove insegna dal 2004. Svolge la propria attività scientifica e didattica prevalentemente nell’ambito della storia dell’architettura dell’Ottocento e del Novecento. È autrice di diversi volumi, oltre che di saggi e articoli.
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Angelo Barberi Docente di Lettere presso Istituto Federico II di Enna. E’ redattore del mensile Sicilia Libertaria e, con Sebastiano Pennisi, si occupa di documentari sociali e antropologici. Ha curato il volume Chista vita ca si faciva barbara, testimonianze di zolfatari siciliani. E’ presidente dell’associazione culturale I Zanni - cinema di Enna. Emanuele Bernardi Dottore di ricerca in Storia Moderna e Contemporanea presso la facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Firenze, ha svolto attività di ricerca nei National Archives di Washington. Assegnista di ricerca dal 2007 al 2009, è ricercatore di Storia Contemporanea presso il Dipartimento di Storia, Culture, Religioni dell’Università La Sapienza di Roma. Collabora con l’Istituto Gramsci di Roma, l’Istituto Luigi Sturzo, la Fondazione Alcide De Gasperi, il Senato della Repubblica. Gabriella Bonini Responsabile scientifico della Biblioteca Archivio Emilio Sereni dell’Istituto Alcide Cervi, convegnistica, pubblicazioni, Summer School Emilio Sereni Storia del Paesaggio agrario italiano, Scuola di governo del territorio SdGT E. Sereni. Dottore di Ricerca in Scienze Tecnologiche e Biotecnologiche Agroalimentari, Università di Modena e Reggio Emilia. Pietro Bonanno Diplomato in Pianoforte e specializzato in Musica elettronica, insegna Tecnologie Musicali al Liceo Musicale Regina Margherita di Palermo. Alla professione di insegnante affianca quella di studioso e compositore di paesaggi sonori con un focus sugli aspetti tecnologici, compositivi e filosofici. Ha lavorato come Sound Designer per il mondo del cinema e si interessa dell’utilizzo artistico delle radio a onde corte. Nel 2013 è fondatore, assieme a Fabio R. Lattuca, del progetto Vacuamoenia il cui campo di studi si concentra sul paesaggio sonoro abbandonato siciliano. Rossana Caniglia Laureata in Architettura presso l’Università degli studi Mediterranea di Reggio Calabria, consegue il titolo di Dottore di ricerca in Conservazione dei Beni Architettonici e Ambientali con la tesi dal titolo Borghi e villaggi della Colonizzazione fascista dalla Sicilia alla Libia. Architettura, propaganda e utopia. Dal 2014 è cultore della materia in Storia dell’architettura (ICAR 18). I suoi interessi scientifici concernono la storia dell’architettura contemporanea e in particolar modo quella relativa al periodo tra le due guerre mondiali. È autore di articoli e saggi pubblicati su libri e riviste online di architettura. Sebastiano Cullotta Ricercatore confermato presso il Dipartimento Scienze Agrarie e Forestali e PhD in Ingegneria Paesaggistica-Ecologia Forestale, dal 2003. Autore di circa 60 pubblicazioni di carattere scientifico e tecnico e di tre libri inerenti le tematiche delle tipologie forestali, della gestione forestale, dei paesaggi agro-forestali tradizionali mediterranei. E’ prematuramente scomparso il 27 marzo 2016. 384
Francesco Di Bartolo Ha svolto attività di ricerca presso l’Università degli studi di Palermo sui temi del fascismo, della riforma agraria, dell’Italia repubblicana e della criminalità organizzata. E’ stato ideatore della ricerca di storia orale e del fondo audiovisivo sulla strage di Portella della Ginestra. E’ autore di diverse monografie e saggi in riviste. Attualmente svolge uno studio sulla memoria della strage di Portella della Ginestra. Fa parte dell’associazione di storia Clionet. Ornella Fiandaca Ingegnere, è professore associato di ICAR/10 – Architettura tecnica. Insegna Tecnologia degli elementi costruttivi, Storia delle tecniche edilizie e Progetto del recupero presso il Dipartimento di Ingegneria dell’Università di Messina. I suoi interessi di ricerca si rivolgono prevalentemente al deterioramento e conservazione dei materiali tradizionali, all’innovazione tecnologica nell’ambito del mercato edilizio, alle tecniche costruttive nell’architettura storica. È autore di articoli, saggi e monografie sui materiali e tecniche costruttive dell’edilizia storica e sulle tendenze innovative nell’impiego di vetro, legno e materiali riciclati. Nicola Gabellieri Laureato in Storia presso l’Università di Pisa, ho completato il dottorato in Geografia storica presso l’Università di Genova nel marzo 2016. Durante il percorso accademico ho avuto esperienze di visiting presso la UCD di Dublino, il CEIDA di La Coruña e il Rachel Carson Center di Monaco. Attualmente assegnista di ricerca in Geografia presso l’Università di Genova. Gli interessi di ricerca comprendono la storia del paesaggio rurale, la cartografia storica e gli historical GIS e la storia applicata. Rocco Giudice Docente di Lettere all’I.I.S.S. “Francesco Redi”, dove insegna presso l’Istituto Professionale per l’Agricoltura e l’Ambiente “Santo Asero” di Paternò. Collabora alla rivista di Arti e Lettere Newl’Ink con saggi e articoli sull’arte (Botticelli, Hans Baldung Grien, Caravaggio) e sul pensiero e la letteratura contemporanea (Manlio Sgalambro, Pasolini). Francesco Giunta Architetto dal 2005, Dottore di ricerca dal 2009 in Analisi Pianificazione e Gestione integrate del territorio. Ha scritto saggi su progetto e paesaggio locale, architettura e territorio per varie riviste e testi di settore. Dal 2010 svolge attività di libero professionista occupandosi principalmente di recupero e restauro del paesaggio e di innovazione progettuale rivolta al ripristino ambientale dei contesti rurali. Valentina Iacoponi Dottore di ricerca in Storia contemporanea, ricercatrice indipendente, si occupa di migrazioni, paesaggio e ambiente. Ha collaborato al Catalogo nazionale dei paesaggi rurali storici (Laterza, 2011) per la regione Lazio. Tra le sue pubblicazioni, Campi d’oro e strade di ferro. Il Sudafrica e l’immigrazione italiana tra Ottocento e Novecento, XL edizioni 2013, Il paesaggio della riforma in Maremma. Prima e dopo, in Riforma 385
fondiaria e paesaggio, Rubettino 2012, Popolazione e paesaggio in mutamento. Storie di Vernazza e delle Cinque Terre tra Ottocento e Novecento, in Istituto Alcide Cervi, Annali, 29, 2007. Maria Lina La China Laureata in architettura ad indirizzo storico e Dottore di ricerca presso l’Università di Palermo in Pianificazione urbana e territoriale. Già docente a contratto presso le Università di Agrigento ed Enna per le discipline architettura del paesaggio e disegno. Attualmente insegnate di Arte e immagine presso l’I.C. Nino Di Maria di SommatinoDelia (CL). Responsabile provinciale per Caltanissetta dell’associazione SiciliAntica. Esperta in borghi rurali e studiosa di architettura del e nel paesaggio. Fabio R. Lattuca Nasce a Palermo e completa gli studi tra il capoluogo siciliano e Roma. È musicologo e studioso del paesaggio sonoro: la sua tesi di Laurea Magistrale – dal titolo Paesaggio Sonoro e Nuovi Media – indaga le possibilità di ricreare e divulgare ambienti sonori tramite l’utilizzo delle nuove tecnologie multimediali. Ha partecipato come soundartist a vari festival internazionali. È fondatore, assieme a Pietro Bonanno, del progetto Vacuamoenia. Francesca Lotta Nata nel 1984 si è laureata in Ecologia e Pianificazione del Paesaggio nel 2008. Ha conseguito il titolo di Dottore di ricerca in Pianificazione urbana e territoriale e Doctor Europaeus presso l’Università degli Studi di Palermo in cotutela con la Politecnica de Madrid con una tesi sulle infrastrutture verdi urbane. Dal 2013 svolge attività di ricerca presso enti pubblici su tematiche inerenti quartieri, paesaggi e pianificazione territoriale. Francesco Martinico Professore ordinario di Urbanistica nell’Università degli Studi di Catania, vice presidente della Struttura Didattica di Architettura con sede a Siracusa. I suoi interessi di ricerca comprendono la pianificazione degli insediamenti produttivi, le aree metropolitane, la pianificazione strategica e paesaggistica. È stato responsabile scientifico delle convenzioni di ricerca per il piano Provinciale di Siracusa e per il Prg di Catania. È responsabile della convenzione per il Prg di Avola. Ha coordinato i gruppi di lavoro del Piano Paesaggistico Regionale (Siracusa ed Enna). Mariavaleria Mininni Ecologa e urbanista, professore associato di Urbanistica al Dipartimento delle Culture Europee e del Mediterraneo: Architettura, Ambiente, Patrimoni culturali presso l’Università degli Studi della Basilicata. Lavora sulla nozione e sul progetto di paesaggio sia nella sua declinazione di landscape e urban ecology sia nella dimensione dell’abitare contemporaneo. È nell’editorial board di «Urbanistica». Fausto Carmelo Nigrelli Professore ordinario di Tecnica e Pianificazione Urbanistica presso l’Università di Catania, SDS di Architettura con sede in Siracusa. Specializzato in Architettura Urbana 386
all’Ecole d’Architecture de Paris Belleville, Dottore di ricerca in Pianificazione Urbana e Territoriale, è direttore del CEDOC, Centro interdipartimentale di documentazione e studi sulle organizzazioni complesse e i sistemi locali. Francesca Passalacqua Architetto e Dottore di ricerca in Storia e conservazione dei beni architettonici e ambientali. Ricercatore confermato di Storia dell’Architettura (ICAR /18) svolge attività di ricerca e didattica presso il Dipartimento Patrimonio, Architettura, Urbanistica (PAU) dell’Università degli Studi Mediterranea di Reggio Calabria. Si occupa di storia urbana e architetture siciliane tra Settecento e Novecento e delle ricostruzioni della città di Messina e Reggio Calabria dopo i terremoti del 1783 e 1908. È componente del comitato direttivo della rivista open-access «Archistor architettura storia e restauro – architecture history restoration» (www.archistor.unirc.it). Sebastiano Pennisi Insegna Lettere negli istituti superiori. È stato cultore di Storia e critica del cinema all’Università di Catania e ha collaborato col Centro per lo sviluppo creativo del sociologo Danilo Dolci. È presidente dell’associazione culturale Cinecircolo L’Eclisse e cofondatore della Rassegna itinerante audio-video non-fiction La Paura Mangia L’anima. Collabora alla rassegna cinematografica I zanni di Enna e con il Festival internazionale del cinema di Frontiera di Marzamemi. Ha pubblicato diversi saggi e ha realizzato documentari sociali e antropologici, videoinstallazioni e workshops con scuole, università e festival del cinema. Stefano Piastra Professore associato di geografia presso l’Alma Mater Studiorum Università di Bologna, Dipartimento di Scienze dell’Educazione. Già Associate Professor presso la Fudan University, Institute of Historical Geography, Shanghai (2011-2014), e Adjunct Professor in una cattedra UNEP presso la Tongji University, IESD, Shanghai (20112014), i suoi studi sono rivolti all’evoluzione del paesaggio, ai rapporti uomo-ambiente, alla cartografia storica e a temi di geografia culturale, con particolare riferimento all’Emilia-Romagna e alla Cina orientale. Simona Salvo Architetto, specialista e Dottore di ricerca nel restauro architettonico, è professore aggregato presso la Facoltà di Architettura la Sapienza, Università di Roma. Svolge buona parte della sua attività di ricerca in collaborazione con centri universitari internazionali, europei, nord e sud americani e orientali. I suoi interessi scientifici sono rivolti alle questioni di teoria e tecnica del restauro dell’architettura contemporanea, tema su cui ha scritto vari contributi, in specie sul restauro delle facciate del grattacielo Pirelli di Milano al quale ha anche contribuito. Attualmente si occupa delle dinamiche con cui la cultura della conservazione si sta diffondendo nel mondo e delle relazioni fra l’approccio internazionale alla conservazione del patrimonio architettonico e la tradizione italiana del restauro. Ha trattato questi argomenti in saggi e articoli apparsi su riviste nazionali e internazionali e, di recente, ha pubblicato Restaurare il Novecento. Storia, esperienze prospettive in architettura, Quodlibet, Macerata 2016. 387
Vincenzo Sapienza Professore associato presso l’Università di Catania, è vicedirettore del Dipartimento Ingegneria Civile ed Architettura (DICAR). Insegna Architettura Tecnica, è stato supplente di Storia della Architettura Moderna. L’attività scientifica si articola principalmente in due settori tematici: la Storia della Costruzione e l’Innovazione Tecnologica. Gli esiti di tale attività sono riportati in quasi cento lavori a stampa. Claudio Saragosa Professore associato di Urbanistica presso il Dipartimento di Architettura (DidA) dell’Università di Firenze, Dottore di Ricerca in Progettazione Urbana, Territoriale e Ambientale, è presidente del corso di laurea in Pianificazione della città, del territorio e del paesaggio in cui insegna Storia dell’urbanistica e Pianificazione territoriale e ambientale. È socio della Società dei territorialisti. Serena Savelli Dottore di ricerca in Progettazione e Gestione dell’Ambiente e del Paesaggio dal novembre 2013 con una tesi sulla valorizzazione paesaggistica degli Itinerari Culturali a percorrenza pedonale come strutture narrative del paesaggio, è laureata in Architettura del Paesaggio nel 2009 e in Scienze Forestali nel 2004. Da quattro anni svolge attività di ricerca presso università, pubbliche amministrazioni e istituti privati, principalmente sui temi della mappatura e catalogazione dei paesaggi agrari tradizionali e sulla loro valorizzazione mediata dai cammini. Michelangelo Savino Professore associato di Tecnica e Pianificazione Urbanistica del Dipartimento di Ingegneria Civile, Edile e Ambientale (DICEA) dell’Università di Padova. Dal 2007 è co-direttore della rivista «Archivio di studi urbani e regionali». La sua ricerca scientifica tende ad orientarsi prevalentemente ai processi di rigenerazione urbana contemporanea. Dopo gli anni di intensa ricerca sulla città diffusa del Veneto, è tornato a occuparsi di organizzazione insediativa e di politiche territoriali. Antonella Versaci Ingegnere civile, Dottore di ricerca in Architettura, è assistant professor di Restauro e responsabile del Laboratorio di Diagnostica e Restauro dei Beni Architettonici e Culturali presso l’Università KORE di Enna. É, inoltre, ricercatore associato all’IPRAUS, laboratorio di ricerca dell’École Nationale Superieure d’Architecture de Paris-Belleville. La sua attività di ricerca si applica ai temi della tutela, conservazione e recupero del patrimonio di interesse storico-architettonico e paesistico, con particolare attenzione ai beni diffusi sul territorio. Alessandro Viva Studente della Scuola di Specializzazione in Beni Architettonici e del Paesaggio del Politecnico di Torino.
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I volti e le immagini della scuola
Siracusa, Villa Reimann l’inaugurazione della Special School
Siracusa, Villa Reimann Gabriella Bonini, Fausto Carmelo Nigrelli, Anna Sereni, Carlo Tosco alla inaugurazione della Special School 389
Siracusa, Belvedere di largo Aretusa Gabriella Bonini, Rossano Pazzagli e Claudio Saragosa Siracusa, SDS di Architettura Franco Amata
Siracusa, SDS di Architettura - Durante i seminari
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Siracusa, SDS di Architettura - Alessandra Casu, Francesco Martinico, Rossano Pazzagli, Claudio Saragosa, Michelangelo Savino, Carlo Tosco
Siracusa, SDS di Architettura - Stefano Piastra presenta il documentario "Dall'acqua ai campi, dai campi al silenzio. Le traiettorie della Riforma agraria nel delta padano emiliano-romagnolo"
Siracusa, SDS di Architettura Emiro Endrighi, Ornella Fiandaca, Francesco Martinico 391
Siracusa, SDS di Architettura Vincenzo Sapienza e Maria Rosaria Vitale
Siracusa, Ortigia Finalmente a cena! 392
Borgo Cascino (En) I partecipanti alla Special School
Borgo Cascino (Enna) Chiesa di S. Francesco e S. Caterina Proiezione del documentario "Ci credevamo. Memorie di lotte contadine" di A. Barberi e S. Pennisi 393
Borgo Rizza (Carlentini, Sr)
Borgo Rizza (Carlentini, Sr) I partecipanti alla Special School nella piazza 394
Ferla (Sr) - Proiezione del documentario I borghi della riforma agraria in Sicilia di A. Barberi e S. Pennisi
Borgo Sferro (Paternò) - Aperilibro. Paolo La Greca presenta il libro di Vincenzo Sapienza La colonizzazione del latifondo siciliano, esiti e possibili sviluppi 395
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