Quaderni 11

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uaderni 11 Paesaggio NEL PIATTO

Summer School Emilio Sereni Storia del paesaggio agrario italiano VII Edizione 25 agosto - 29 agosto 2015

edizioni istituto alcide cervi





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uaderni 11

paesaggio nel piatto Lezioni e pratiche della Summer School Emilio Sereni A cura di Gabriella Bonini e Rossano Pazzagli

edizioni istituto alcide cervi


Volume realizzato con il contributo di

Cura redazionale di Gabriella Bonini, Gaia Monticelli e Marina Regosa Editing e Grafica di Gaia Monticelli e Emiliana Zigatti

Copyright Š OTTOBRE 2016 ISTITUTO ALCIDE CERVI - BIBLIOTECA ARCHIVIO EMILIO SERENI via Fratelli Cervi, 9 42043 Gattatico (RE) tel. 0522 678356 - fax 0522 477491 biblioteca-archivio@emiliosereni.it www.istitutocervi.it ISBN 978-88-941999-0-1 I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento anche parziale, con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi. Non sono assolutamente consentite le fotocopie senza il permesso scritto dell’Editore.

stampato su carta certificata


Il Quaderno 11 documenta e approfondisce i temi svolti all’interno della

Summer School Emilio Sereni Storia del paesaggio agrario italiano

VII Edizione Paesaggi del cibo 25-29 agosto 2015

Direzione Rossano Pazzagli Responsabile scientifico Massimo Montanari Comitato scientifico Mauro Agnoletti, Gabriella Bonini, Danilo Gasparini, Massimo Montanari, Rossano Pazzagli, Carlo Tosco

Ringraziamenti Per il rinnovato successo della VII edizione della Summer School Emilio Sereni ci è doveroso ringraziare: I tanti volontari, l’Associazione Culturale dAi Campi Rossi e tutti gli Amici di Casa Cervi e della Biblioteca Sereni che non hanno fatto mancare il loro supporto “morale e fisico”: Tiziano Catellani, Rina Cervi, Sidraco Codeluppi, Gianfranco Talignani, Maddalena Torreggiani; l’artista Antonella De Nisco per le installazioni PaesaggiopiattO e LAAI; Roberto Ibba per la gestione del Bookshop letterario; gli amici fotografi Enzo Zanni e Bruno Vagnini per l’importantissimo lavoro di documentazione; il personale dell’istituto Cervi: Liviana Davì, Gabriella Gotti, Sabrina Montipò, Morena Vannini, Paola Varesi, Mirco Zanoni; Riccardo Mossini con lo staff della ristorazione; Marika Davoli alla reception; Emiliana Zigatti della segreteria organizzativa; Luciana Cervi e Ernesto Malpeli. Un ringraziamento particolare va a tutti i partecipanti, corsisti, tutor e docenti: senza di loro questa VII Edizione della Summer School non sarebbe potuta esistere. Essi sono stati gli artefici con disponibilità ed energia di questa esperienza originale. Un ultimo ringraziamento va a coloro che, già tra i partecipanti delle precedenti edizioni, hanno riconfermato la loro presenza dando senso e rinnovato valore a questo progetto della Biblioteca Archivio Emilio Sereni dell’Istituto Cervi.

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Con il patrocinio e/o la collaborazione di

Ministero per i Beni e le Attività culturali Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici per le province di Bologna, Modena e Reggio Emilia

Comune di Campegine

Comune di Gattatico

Federazione Lavoratori Agroindustria

Reggio Emilia

Ordine e Fondazione Architetti Reggio Emilia

Ordine Dottori Agronomi e Dottori Forestali Reggio Emilia Società dei

Territorialisti

Accademia dei Georgofili

Archivio

Osvaldo Piacentini

International Council on

Monuments and Sites

Associazione Rurali Reggiani

Associazione di Insegnanti e Ricercatori sulla didattica della Storia

CONSORZIO DI BONIFICA DELL’EMILIA CENTRALE

In convenzione scientifica con Università degli Studi di Bari Centro di Ricerca Interuniversitario per l’Analisi del Territorio - CRIAT Università degli Studi di Bologna Dipartimento di Scienze e Tecnologie Agroalimentari - DISTAL

Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia Dipartimento BIOGEST_SITEIA Master in Catalogazione e Accessibilità del Patrimonio Culturale Università degli Studi del Molise

Università degli Studi di Cagliari Dipartimento di Ingegneria civile, ambientale e Architettura - DICAAR

Università degli Studi di Pavia, Centro di Ricerca Interdipartimentale per la Didattica dell’Archeologia classica e delle Tecnologie antiche - CRIDACT

Università degli Studi di Catania Dipartimento di Ingegneria Civile e Architettura

Sapienza Università di Roma Dipartimento di Architettura e Progetto Scuola di Specializzazione in Beni Architettonici e del Paesaggio

International Centre for Heritage Studies, Faculty of Architecture, Design & Fine Arts, Girne American University, Cyprus

Università degli Studi di Sassari Dipartimento di Architettura, Design e Urbanistica Architettura ad Alghero

Università degli Studi di Macerata Dipartimento di Studi Umanistici

Politecnico di Torino Scuola di Specializzazione in Beni Architettonici e del Paesaggio Centro Internazionale di Studi per la Storia della Città, Vetralla (VT)


Indice

Presentazione Albertina Soliani....................................................................................................13 Introduzione Gabriella Bonini, Rossano Pazzagli.................................................................15 PARTE I PAESAGGI DEL CIBO Paesaggi alimentari tra natura e cultura Massimo Montanari...............................................................................................19 Dalla carriola al carrello: paesaggi alimentari padani da Ruzzante a Ermanno Olmi Danilo Gasparini.....................................................................................................27 Ambiente, agricoltura, alimentazione nelle politiche nazionali ed europee. Aspetti di ricerca e ricadute operative Mauro Agnoletti......................................................................................... 57 Scenari evolutivi del concetto di ruralità Franco Sotte............................................................................................................65 Rigenerare il territorio ed il paesaggio agrourbano per la città di prossimità. Il caso di Prato nella piana metropolitana fiorentina David Fanfani............................................................................................................73 Il paesaggio agrario tra filiere e territorio, tra città e campagna. Il ruolo del cibo nella nuova agenda urbana Davide Marino..........................................................................................................91 Esodo e ritorni. La trasformazione del mondo rurale dal dopoguerra ad oggi Gabriella Bonini.....................................................................................................101 I paesaggi del cibo fra agricoltura e governo del territorio: prospettive operative e di ricerca. Relazione conclusiva Rossano Pazzagli ....................................................................................................111 7


PARTE II PAESAGGI DELLA PRODUZIONE La Produzione. La via lattea padana Luciano Sassi ............................................................................................................121 Il Grana Padano e il Parmigiano Reggiano nella storia. Una esplorazione (1344-1954) Marco Marigliano.................................................................................................127 Il paesaggio storico del riso in Piemonte. Sistema agrario e architettura della coltivazione risicola nel vercellese Gaia Monticelli e Denise Rusinà.......................................................................135 Agricoltura urbana. La Cascina “la Grangia” a Torino Alice Pozzati............................................................................................................151 Dalle lezioni di casi di studio Massimo Rizzati.......................................................................................................161 Perché no agli antimicrobici in apicoltura Giuliana Bondi.........................................................................................................175 PARTE III COOPERAZIONE E PAESAGGIO Annotazioni sull’origine e sulla continuazione degli usi civici in territorio agricolo Alessandro Camiz ..................................................................................................179 Annotazioni sull’origine e sulla continuazione degli usi civici in territorio agricolo. La lente della multifunzionalità. Un approccio metodologico ai paesaggi agrari Alessandro Ranieri................................................................................................191 I Gruppi di Acquisto Solidale. Palestre per la trasformazione sociale e paesaggistica? Oscar Porcelli.........................................................................................................201 Da Marcovaldo a Genuino Clandestino, dall’Italia all’America. Considerazioni sulle realtà del km zero nelle metropoli americane Ilaria Tabusso Marcyan........................................................................................207 PARTE IV EDUCARE AL PAESAGGIO Educazione al Paesaggio e educazione alimentare Mario Calidoni........................................................................................................219

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Il paesaggio agrario. La grande trasformazione. Museo Mondo piccolo, Fontanelle di Roccabianca (PR) Rosita Cacciali........................................................................................................225 Il Children Park di Expo Milano 2015 A cura di Annamaria Mucchi..............................................................................229 Il pensiero ecologico nell’esperienza educativa del Comune di Reggio Emilia Maddalena Tedeschi..............................................................................................231 Proposta di lavoro interdisciplinare a scuola. La settimana del paesaggio: conoscere, interpretare e vivere il paesaggio che ci circonda. Luciana Borghi .......................................................................................................237 PaesaggiopiattO. LAAI/Summer School 2015 Antonella De Nisco ..............................................................................................243 PARTE V L’Atlante Nazionale del territorio rurale L’Atlante Nazionale del territorio rurale. I caratteri, il percorso e gli approdi di una ricerca ventennale sullo spazio rurale e i suoi valori Ugo Baldini, Giampiero Lupatelli......................................................................255 PARTE VI APPENDICE Il valore civile del paesaggio. Il contributo dell’Istituto Cervi alla Carta di Milano .....291 Insegnare il Paesaggio! La formazione e l’educazione per una cultura del paesaggio nell’eredità di Emilio Sereni e nell’esperienza della Regione Emilia-Romagna ................295 I VOLTI DELLA SCUOLA ..................................................................................309 Autori .............................................................................................................315

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Dedicato a Ugo Baldini Dedichiamo il volume a Ugo Baldini, amico e prezioso compagno di lavoro nella progettazione delle attività della Biblioteca Archivio Emilio Sereni fin dalla sua apertura. Ugo ci ha lasciato all’improvviso all’inizio di questo 2016. Architetto tra i più conosciuti a Reggio Emilia, erede diretto di Osvaldo Piacentini, esperto di Pianificazione urbanistica, territoriale e strategica, coordinatore scientifico di progetti a carattere nazionale, presidente di Caire Urbanistica e fondatore dell’Archivio Piacentini. La sua vicenda umana e professionale si è intrecciata con la crescita e l’evoluzione di Reggio Emilia, del suo territorio e della sua società. A lui si deve l’istituzione dell’Archivio Osvaldo Piacentini.

* di Ugo Baldini il saggio a pag. 255



Presentazione

Albertina Soliani

Presidente Istituto Alcide Cervi

Nutrire il pianeta Energia per la vita è stato ben più di un titolo della Expo 2015 tenutasi a Milano. È un programma politico per il futuro dell’umanità e del mondo, per l’uguaglianza e la libertà a partire dall’alimentazione. Expo 2015 è stato un grande scambio e incontro tra le nazioni. L’Istituto Alcide Cervi ne è stato partecipe con la sua memoria di lotta per la libertà, di attaccamento alla campagne e al loro progresso, di visione del futuro. Il mappamondo sul trattore dei Fratelli Cervi interpreta questo spirito di fiducia e di apertura oltre ogni confine. Il pensiero di Emilio Sereni, di cui l’istituto custodisce l’Archivio e la Biblioteca, sul paesaggio agrario e le sue trasformazioni è un patrimonio permanente che arricchisce il dibattito contemporaneo. Così la Summer School dell’Istituto, inaugurata nel 2015 proprio ad Expo, ha offerto un contributo originale al tema del cibo, uno degli obiettivi eticamente più importanti dell’umanità intera. Paesaggio nel piatto è il titolo della pubblicazione che raccoglie i contributi di studiosi e politici che il Cervi ha sollecitato in questo anno speciale. Al comitato scientifico che li ha selezionati va il più sincero ringraziamento dell’Istituto. Cultura del cibo e paesaggio agrario, territori del cibo e ruralità, filiere del cibo, politiche del cibo, un itinerario di aspetti diversi, ma con un filo unitario che lo percorre. È il filo della responsabilità verso la nutrizione del pianeta, verso l’uguaglianza tra gli uomini. Chiama in causa la responsabilità di tutti, dei cittadini, delle Istituzioni, della cultura, degli operatori, della politica. Perché il mondo migliori. Ogni civiltà, in ogni parte del pianeta, ha vissuto il cibo come parte fondamentale di sé. Oggi la scienza e la tecnica ci offrono grandi possibilità insieme a grandi rischi. Solo il pensiero nutrito di libertà e di democrazia può dare speranza agli anni futuri dell’umanità. Nel suo messaggio all’EXPO 2015, Aung San Suu Kyi ha detto: “Nella sofferenza dei popoli sta la grande saggezza.” Come la memoria dei fratelli Cervi ci insegna.

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Introduzione

Gabriella Bonini, Rossano Pazzagli

Il volume raccoglie gli atti della settima edizione della Summer School Emilio Sereni, un’edizione speciale per il tema e il luogo in cui si è aperta. Da sette anni la Scuola di paesaggio organizzata dall’Istituto Cervi costituisce un punto d’incontro fra ricerca, scuola e governo del territorio. Un luogo dove studiosi, docenti, amministratori pubblici, agenti territoriali e operatori pubblici e privati possono incontrarsi e interrogarsi sull’efficacia sociale e politica della ricerca sul paesaggio, sui modi della sua tutela e valorizzazione, sulle tecniche e sulle strategie per il suo insegnamento, sul rapporto che occorre promuovere fra cittadinanza e patrimonio. Il territorio, il territorio rurale in particolare, è la prima risorsa dell’Italia e deve tornare al centro del modello di sviluppo. In questa prospettiva l’agricoltura riveste un ruolo di primo piano; essa ha bisogno di recuperare ruolo economico e dignità sociale e culturale. Dopo 50 anni di esodo dalle campagne e la marginalizzazione della terra conseguenza del modello urbano-industriale, stiamo assistendo oggi a interessanti fenomeni di ritorno alla terra e di rivitalizzazione delle filiere alimentari. Il paesaggio, il paesaggio agrario in particolare, è lo specchio fedele di questi fenomeni: dell’abbandono, come della rinascita. E nella nostra ottica il paesaggio si connette prioritariamente ad altri tre elementi: il territorio, l’agricoltura, il cibo. Ecco, attorno a queste tre parole, che rappresentano ambiti tematici e orizzonti politici, si è snodata questa edizione della Scuola, intitolata appunto I paesaggi del cibo e aperta in via straordinaria a Milano tra i padiglioni di EXPO 2015, e poi è proseguita nella tradizionale sede della Biblioteca Archivio Emilio Sereni dell’Istituto Alcide Cervi a Gattatico di Reggio Emilia. Un accostamento di alto valore simbolico, che rinvia alla necessità di incontro tra globale e locale in una prospettiva nuova: non l’uno contro l’altro armati, ma una integrazione di queste due dimensioni indispensabili entrambi. Un approccio glocale che riconosce protagonismo alle comunità, alle istituzioni di base, alla scuola e alle altre forme di organizzazione della vita sul territorio, di cui il paesaggio rappresenta uno specchio primario. Ma casa Cervi non è soltanto una località; è uno dei luoghi dove è nata la nostra Repubblica, la nostra democrazia. I luoghi non sono mai neutri, ma attori protagonisti di ciò che facciamo. I Cervi erano contadini, e noi sappiamo quanto la democrazia italiana deve al mondo rurale (Resistenza). Nell’esperienza storica italiana gli agricoltori sono stati e sono, possono ancora essere, al tempo stesso costruttori di paesaggio e costruttori di democrazia. 15


Il volume rispecchia il carattere multidisciplinare della Scuola, offre un effetto di contaminazione tra le molte discipline, mentre il territorio è uno e quindi l’obiettivo è stato quello di ricomporre i saperi attorno al tema del paesaggio, nell’intento di trasmettere conoscenze e sviluppare competenze per una crescita della coscienza del paesaggio e del rapporto tra questo e il cibo. Democrazia alimentare e ritorno al territorio sono due concetti, ma anche un insieme di politiche e di pratiche possibili, fondate sul riconoscimento del diritto di ogni individuo e di ogni comunità a provvedere alla propria alimentazione attraverso una produzione che valorizzi le risorse agricole del proprio territorio, i mercati locali, il rispetto della genuinità del cibo e l’autodeterminazione delle scelte. Per questo l’inaugurazione a Expo, perché il paesaggio è una delle facce, forse la più inclusiva, della medaglia di nutrire il pianeta. Ci ha guidato, in fondo, la ricerca di un’equazione: quella tra qualità del paesaggio, qualità del cibo, qualità della politica. Coi tempi che corrono l’impresa è ardua, ma non è tempo di scoraggiarsi di fronte al valore dell’agricoltura come settore primario, produttore di cibo e produttore di paesaggio. Se l’obiettivo è ricreare una coscienza di luogo o di territorio, cioè far diventare la questione del paesaggio una questione di tutti, quale filiera meglio di quella alimentare può contribuire a dare concretezza a tale obiettivo? Mangiare bene, tutti, e ridare valore al territorio e all’attività degli agricoltori, contadini che hanno in larga parte contribuito anche alla costruzione della democrazia italiana.

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PARTE I PAESAGGI DEL CIBO



Paesaggi alimentari tra natura e cultura

Massimo Montanari

Vorrei partire da un brano di Giacomo Leopardi: “Una grandissima parte di quello che noi chiamiamo naturale, non è; anzi è piuttosto artificiale: come a dire, i campi lavorati, gli alberi e le altre piante educate e disposte in ordine, i fiumi stretti infra certi termini e indirizzati a certo corso, e cose simili, non hanno quello stato né quella sembianza che avrebbero naturalmente. In modo che la vista di ogni paese abitato da qualunque generazione di uomini civili […] è cosa artificiata, e diversa molto da quella che sarebbe in natura.” Queste parole, tratte dall’Elogio degli uccelli, sono poste da Emilio Sereni a introduzione della Storia del paesaggio agrario italiano, la sua opera pionieristica redatta nel 1961, che è tuttora un punto di riferimento obbligato per chi si occupa di storia del territorio e del paesaggio. Quelle di Leopardi sono parole che sintetizzano in maniera molto chiara un’idea abbastanza semplice, ma che fatica ancora a entrare nell’immaginario collettivo, cioè il fatto che il paesaggio è una costruzione dell’uomo: non una cosa che si guarda, ma una cosa che si fa; e se talvolta ci fermiamo a guardarlo, anche semplicemente sul piano estetico, per ammirare le forme dei campi, le forme degli alberi, le curve delle colline, questo è perché l’uomo, nel corso del tempo, ha saputo coniugare l’utilità con la bellezza. Ci auguriamo che questo possa continuare in futuro. Ho utilizzato però un termine ambiguo: “utilità”. Che cos’è l’utilità? Utilità significa trarre dall’ambiente quello che può servire alla nostra vita, ma vuol dire anche preservarlo, in modo da non sciupare le risorse; instaurare cioè forme di uso e di utilità che siano, come si dice oggi, sostenibili, rispettose dei ritmi naturali a cui tutti noi siamo soggetti. In questo modo il paesaggio non è solo una costruzione dell’uomo ma anche un punto magico di incontro fra natura e storia, dove la storia, cioè la cultura dell’uomo, plasma ciò che si trova di fronte. Quando il paesaggio diventa “bello” è perché la sua vocazione naturale si è equilibrata in modo proficuo con i bisogni dell’uomo, a cominciare dal bisogno fondamentale che è quello del cibo. 19


Due riflessioni sono necessarie su cosa vuol dire “cibo”. Cibo è, innanzitutto, ciò che mangiamo per nutrire il corpo ai fini della sopravvivenza quotidiana; ma il cibo che portiamo alla bocca, ciò che è veramente cibo in quanto lo mangiamo, è solo il punto di arrivo di un lungo percorso, che inizia con il reperimento delle risorse e prosegue con la loro trasformazione. Quest’ultima è la fase che in senso lato possiamo definire della ‘cucina’, includendovi non solo la cottura nel senso stretto ma tutti i trattamenti e adattamenti, le trasformazioni e i miglioramenti che le risorse subiscono prima di diventare cibo: in realtà, solo dopo essere passate attraverso questa fase decisiva le materie prime diventano veramente cibo. Ed è questa, fondamentalmente, la differenza tra l’uomo e gli altri animali, cioè il fatto che gli altri animali generalmente consumano le risorse così come le trovano in natura (non tutti, a dire il vero: le api per esempio le trasformano) mentre l’uomo le trasforma e le cucina. Il suo intervento sulla natura, peraltro, non si esplica solamente in questa fase di trasformazione: l’uomo preliminarmente ha anche trasformato e costruito il paesaggio, per ricavarne materie prime che non necessariamente sono previste in natura, anche se ovviamente sono possibili. Voglio dire che il grano, prima di essere coltivato, esiste allo stato selvatico, così come la vite, prima di essere coltivata, esiste allo stato selvatico; però è una scelta di cultura decidere di piantare, addomesticare e dedicare spazio al grano o alla vite o a qualche altra pianta, oppure dedicare spazi ai prati per allevare certi animali. È una scelta culturale oltre che (prima che) economica. Persino le risorse selvatiche possono definirsi una risorsa culturale, nella misura in cui l’uomo decide di lasciare alcuni spazi così come li trova: quindi anche il bosco è una scelta culturale, e del resto non mancano forme di pulizia, di assestamento, di cura e manutenzione di questi spazi. Noti sono gli spazi che in Spagna vengono dedicati all’allevamento dei suini, che, secondo la tradizione medievale, sono nutriti allo stato brado sotto boschi di quercia. Il fatto è che questi boschi sono tutti coltivati: il paesaggio del querceto in varie regioni della Spagna assomiglia molto a dei filari ordinati di alberi che sembrano ulivi, invece sono querce, e sotto vi razzolano gli animali a mangiare le ghiande. È quindi un bosco costruito dall’uomo. Qualche tempo fa ho tenuto la lezione introduttiva al convegno di studi annuale del Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo a Spoleto, e ho intitolato la mia lezione “La fabbrica del cibo”, proprio per sottolineare questa idea-guida, cioè il fatto che le scelte alimentari di ogni società, di ogni gruppo, di ogni individuo sono orientate più o meno consapevolmente a fabbricare il cibo a nostra immagine e somiglianza, cioè a sceglierlo come lo vogliamo. È per questo che, in modo non paradossale, possiamo affermare che l’uomo è ciò che mangia - certo - ma anche mangia ciò che è. La celebre espressione di Ludwig Feuerbach, “l’uomo è ciò che mangia” (“der Mensch ist was er isst”) in tedesco si può leggere anche al contrario, perchè “isst” (“mangia”) e “ist” (“è”) sono praticamente la stessa parola, anche se scritte in modo leggermente diverso. Sembra quasi un gioco di parole: “l’uomo è ciò che mangia, l’uomo mangia ciò che è”. Mi piace intenderlo nel senso che quanto si ingerisce al termine del percorso che abbiamo evocato ha ben poco di naturale, essendo in gran parte frutto della cultura, cioè di quello che l’uomo pensa e fa, fa perché pensa. Tutti i gesti e le scelte dell’uomo, partendo della costruzione del paesaggio e delle risorse alimentari, nascono dall’idea che sia possibile farle. Dietro a ogni gesto c’è un’idea e in questa “fabbrica del cibo” c’è un incrocio, un accavallamento continuo di gesti e di idee che si rimandano 20


l’uno all’altra: l’ingestione del cibo, il cibo mangiato, non è in fondo che l’ultima delle decisioni, l’ultima delle scelte di un itinerario iniziato molto prima con l’individuazione delle risorse e della loro commestibilità. In realtà, lo stesso concetto di commestibilità non appartiene alla natura, ma alla cultura. Il percorso del cibo inizia con delle risorse che sono tali, e costituiscono il primo elemento della filiera alimentare, solo se e a causa del fatto che io le riconosco come risorse. Gli insetti ne sono un esempio evidente: sono essi una risorsa alimentare? Sì, ma allo stesso tempo no. Sì per chi li riconosce come risorsa; no per chi non li riconosce: se io vedo delle cavallette, la mia cultura non mi suggerisce di riconoscerle come risorsa alimentare; altre società le percepiscono come cibo in potenza. E se ci sono differenze nello spazio, fra società diverse, vi sono anche differenze nel tempo: noi non mangiamo come i nostri antenati del Medioevo, e fra cinquant’anni, chissà, i nostri figli includeranno gli insetti come possibile risorsa alimentare. La commestibilità può dunque definirsi una scelta culturale e ciò è possibile anche perché l’uomo è per natura onnivoro: può mangiare di tutto, ma proprio per questo non mangia di tutto, bensì sceglie cosa mangiare. È quello che il sociologo Claude Fischler ha definito il paradosso dell’onnivoro: l’uomo può mangiare di tutto, quindi non mangia tutto ma seleziona il cibo in base a criteri che hanno a che fare con l’economia (presenza o abbondanza di certe risorse in un certo luogo) e con la convenienza (quante energie spendere per procurarsele) ma anche con opzioni mentali, legate alla psicologia, alla filosofia, alla religione, alle ideologie, ossia valori che appartengono al patrimonio culturale di ogni individuo e di ogni società. In ogni caso, esiste una corrispondenza fra quello che gli antropologi chiamano buono da mangiare e buono da pensare: il “buono da mangiare” è ciò che noi, mentre mangiamo, valutiamo buono; il “buono da pensare” è ciò che noi, già prima di mangiare, riteniamo sia buono. Fra gli antropologi le posizioni a riguardo sono diverse: c’è chi, come Claude Levi-Strauss, ritiene che il buono da pensare venga prima del buono da mangiare, cioè che siano necessarie delle premesse di tipo culturale per rendere accettabile e “buono” un cibo: se io mangio una cavalletta è perché la mia cultura mi ha abituato all’idea che la cavalletta sia buona, la penso quindi buona, di conseguenza la mangio. Secondo questa impostazione i fattori di ordine ideologico, culturale, simbolico, comunque si formino, sono metodologicamente anteriori al fatto di riconoscere buono un cibo. Al contrario, antropologi di impianto “materialista” come Marvin Harris sostengono che tutto ciò che è buono da pensare lo diventa perché già prima è buono da mangiare, ossia conveniente dal punto di vista economico, in considerazione cioè del bilancio tra costi e benefici (quante energie ci vogliono per produrre un cibo, quali sono le capacità nutritive di un alimento). Se un cibo è utile, l’uomo lo riconosce come buono: solo successivamente, insomma, elabora l’idea che sia buono da pensare. Se da un punto di vista teorico questo dibattito è importante, interessante e direi appassionante, sul piano storico – consentitemi la provocazione – esso è tutto sommato irrilevante. O comunque secondario, perché di fatto le due cose procedono di pari passo: se venga prima l’economia o se venga prima la cultura è un dibattito che rischia di diventare metafisico, poiché storicamente le due cose funzionano insieme. Se le cose si fanno perché si ritengono utili, o si ritengano utili perché si fanno, poco cambia nella storia delle società umane. 21


Riconoscere commestibile un prodotto e porlo all’inizio di questa filiera, che comincia con la risorsa e finisce col cibo mangiato, è il primo e fondamentale atto di scelta: per farvi un esempio storico di che cosa questo possa significare, vorrei portarvi agli albori del Medioevo, anzi ai primi secoli dell’era volgare, secoli di passaggio tra Antichità e Medioevo. A quel tempo, qualcuno in Europa decide che la segale merita di essere coltivata, trasformata e consumata, soprattutto in forma di pane. Prima, nessuno lo aveva pensato: gli scrittori romani, come Plinio il Vecchio nella sua Storia Naturale, considerano la segale niente più che un’erbaccia infestante; nel Medioevo essa entra nelle pratiche agricole e nell’uso alimentare e un po’ alla volta diventa non solo una risorsa fra le tante, ma la principale risorsa cerealicola di molte popolazioni contadine – per esempio nel Nord Italia. Nell’alto Medioevo, nelle regioni dell’Italia del Nord, la segale è in assoluto il cereale più coltivato e più consumato dalla popolazione contadina: quindi non si tratta di una scelta marginale, ma di una scelta che assume un’importanza economica decisiva. È chiaro che decisioni come questa hanno un senso anche economico: la segale è robusta, resiste meglio alle avversità climatiche e alla difficoltà dei suoli; è chiaro che, all’interno di un contesto tecnologico fragile come quello altomedievale, puntare su un cereale di questo genere ha un preciso significato in vista della produzione e della sopravvivenza. Lo stesso accade in altre zone d’Europa, come la Francia del Nord e l’Inghilterra, per un altro cereale, l’avena, che diventa importante nell’agricoltura e nell’alimentazione medievale dopo essere stato, nell’Antichità, per secoli ignorata. Queste non sono scelte gratuite, ma profondamente motivate sul piano dell’utilità; ma è necessaria anche una svolta nel modo di pensare i prodotti selvatici – che nel Medioevo assumono una centralità prima ignota. Se passiamo a considerare le risorse animali, non troviamo esempi altrettanto spettacolari, ma è interessante che il Medioevo ci riservi situazioni in cui il confine fra selvatico e domestico appare piuttosto incerto. Ci sono animali come il coniglio, per noi per definizione ascrivibili all’ambito domestico, che nel Medioevo esistono solo allo stato selvatico: del coniglio si va a caccia, come ci mostra l’iconografia del tempo. Viceversa, nel Medioevo ci sono testimonianze documentarie di una pratica di allevamento del cervo come animale domestico, che poi sono state abbandonate. Situazioni mobili, che ridefiniscono continuamente il confine fra selvatico e domestico, decidendo di volta in volta quali risorse selezionare, come procurarsele. C’è poi la storia del maiale, molto interessante dal nostro punto di vista. Il maiale non è certo una “invenzione” del Medioevo: fin dall’Antichità – ci mancherebbe – esso è riconosciuto come una risorsa alimentare di prim’ordine. Nel Medioevo, però, questo animale vede straordinariamente moltiplicata la sua importanza, in base a parametri che sono al tempo stesso economici e culturali. Il maiale nel Medioevo diventa il perno del sistema produttivo, in gran parte nuovo perché legato a standard di valutazione del territorio – quindi di costruzione del paesaggio – che non sono antichi, ma per l’appunto medievali. Nell’antichità romana il bosco veniva pensato come lo spazio per eccellenza dei “barbari”: era usato, ovviamente, ma sul piano ideologico era percepito come il luogo della selvatichezza, della civiltà mancata; pensato insomma come uno spazio non plasmato dall’uomo, quindi pre-civile. Nella cultura antica, la nozione di civiltà è proprio questa: essere capaci di modificare il paesaggio, di costruirlo. In questo contesto ideologico, e non solo produttivo, il bosco è un punto debole. Si usa, ma non piace ammetterlo. Nel Medioevo, invece, con una scelta assolutamente consapevole e decisiva, il bosco viene incluso in 22


maniera sistematica all’interno del sistema di produzione, e ciò significa, dal punto di vista culturale, che l’economia e il paesaggio dei “barbari” sono diventati un’economia e un paesaggio per tutti. Nei secoli altomedievali i documenti europei cominciano a misurare il bosco in maiali: la misura del campo è il grano, la misura della vigna è il vino, la misura del prato è il fieno, la misura del bosco è il maiale. Questo significa pensare lo spazio in termini produttivi, cioè riconoscere nel bosco una risorsa alimentare: un luogo che produce carne. È quindi una scelta di tipo culturale, oltre (e insieme) che una scelta produttiva. Nel Medioevo poi accade che attorno al maiale si concentrano altri valori ancora: non solo esso funziona perfettamente come elemento di definizione dello spazio boschivo, non solo il maiale si presta perfettamente a essere conservato (ed è questo un tema fondamentale per l’economia contadina), ma esso diventa anche, paradossalmente, un simbolo di appartenenza religiosa, nel momento in cui l’Islam, come già anche l’Ebraismo, lo esclude dalla propria mensa: un caso tipico di non-riconoscimento di una risorsa come commestibile, per opzioni di tipo ideologico. Il maiale diventa quindi, assieme al pane e al vino, un simbolo della dieta cristiana, e su questo animale si concentra un insieme di valori – un buono da pensare – assolutamente estraneo agli schemi ideologici antichi, e che conferisce a questa risorsa una centralità nuova. L’economia che gli storici hanno chiamato “agro-silvo-pastorale”, perché combina insieme la tradizione agricola mediterranea con la tradizione pastorale e boschiva dei popoli che venivano chiamati “barbari”, non è una scelta ovvia o una forma di costrizione e di adattamento al paesaggio, ma il frutto di una innovazione culturale che produce un paesaggio diverso. Nel momento in cui vediamo che tutte le proprietà terriere – si tratti di aziende contadine o di proprietà signorili o monastiche – nel Medioevo sono costituite da una parte a pascolo e a bosco che fiancheggia la parte a cereali e a vigna, capiamo di trovarci di fronte a un paesaggio che è stato costruito in quel modo in maniera consapevole, e che è frutto di una certa cultura, di una certa scelta. Dal punto di vista storico questo fenomeno costituisce una realtà molto interessante, perché ci fa vedere come la cultura del paesaggio e la cultura del cibo si siano modificate nel corso del tempo, grazie all’incrocio di tradizioni diverse. Quando, agli inizi del Medioevo, i popoli di tradizione romana si confrontano con i popoli di tradizione barbarica, ci troviamo di fronte a quello che oggi chiameremmo uno “scontro di civiltà”. Non c’è dubbio su questo. Ma neppure c’è dubbio che questo scontro di civiltà sul lungo periodo produca degli effetti anche positivi, attraverso fenomeni di incrocio, di contaminazione, di arricchimento reciproco che confluiscono nella costruzione di una realtà nuova. Non si tratta perciò di negare l’importanza epocale degli scontri di civiltà, dei drammi e tragedie che questi producono, ma di riconoscere che proprio da questi drammi e da queste tragedie possono nascere delle realtà nuove, sul piano delle tradizioni alimentari come su ogni altro piano. La cultura dunque forgia il paesaggio e contribuisce in maniera decisiva a costruire lo spazio alimentare. Diciamo che la cultura definisce lo spazio. Parallelamente, il lavoro e la cultura dell’uomo agiscono sull’altra coordinata naturale fondamentale che è il tempo. Anche il tempo viene forgiato dall’uomo, ma in che modo? È certo che tutte le società contadine hanno operato in sintonia con i ritmi naturali; di qui l’auspicio che i ritmi stagionali siano giusti, regolari, e che la produzione avvenga in maniera continuativa: questo, tutte le società lo hanno auspicato in maniera prioritaria. 23


Ma anche in questo caso, che cosa auspicare è una scelta culturale. Nel momento in cui i documenti medievali non solo si augurano “che il tempo sia buono”, perché in questo caso i campi potranno produrre i moggi sperati di cereali, ma si preoccupano anche di precisare “speriamo che le ghiande crescano bene, in modo che possiamo allevare i nostri maiali”, oppure “speriamo che non ci sia gelo, né siccità nelle acque, altrimenti non ci sarà possibile andare a pesca”, ci troviamo di fronte a delle espressioni che rivelano forme molto particolari di rapporto fra l’uomo e il tempo, condizionate dalle scelte culturali che stanno a monte: se la mia economia è basata non solo sulla agricoltura, ma anche sulla pesca e sull’allevamento, la mia attenzione ai ritmi naturali non riguarderà solo i campi, ma anche i boschi anche le acque. E il rapporto con il tempo, quindi, è condizionato dalla cultura. Poi c’è il tema della conservazione del cibo, a cui già ho fatto cenno. Prendo come esempio un documento toscano del IX secolo, in cui si parla di un “tempo di ghiande” (tempus de glande) e di un “tempo di lardo” (tempus de larido). È l’idea della stagionalità, ma si tratta di due stagionalità diverse. Il tempo delle ghiande è un tempo naturale, il periodo in cui – clima permettendo – le querce fruttificano, e in cui ci si augura che fruttifichino bene. Il tempo del lardo invece è un tempo artificiale, costruito dall’uomo conservando sotto sale la carne, e il lardo, e tutti i prodotti che vengono dal bosco. Far durare le risorse oltre il loro limite naturale è, in un’economia di sussistenza, una delle prime risposte alla paura della fame. Come ci si difende dalla paura della fame in economie deboli, fragili, ma ben organizzate come quelle del Medioevo? Fondamentalmente in due modi: il primo è quello della conservazione, di cui abbiamo appena parlato; il secondo è quello di far durare la produzione il più a lungo possibile, moltiplicando le tipologie di prodotti per “tirarle” di più nel tempo. Un esempio anche qui: Carlo Magno nel Capitolare de Villis, anno 800, raccomanda di coltivare negli orti delle aziende regie “meli di diverso genere, peri di diverso genere, prugni di diverso genere, peschi di diverso genere, ciliegi di diverso genere”. Ciò a cui questo documento sta pensando non è solo la varietà del gusto, ma una diversificazione delle colture che possa garantire continuità nel tempo: perché ogni pianta ha i suoi tempi di crescita e se io coltivo meli di un solo tipo, avrò piante solo in quel periodo, mentre se ne coltivo di tre, quattro, cinque tipi avrò frutti in tre, quattro, cinque momenti diversi della stagione. Questo sarà utile sia per diversificare il gusto, sia per allungare il tempo in modo che gli alberi producano di più, non nel senso della quantità, ma nel senso della durata. E tanto meglio se le specie coltivate saranno adatte alla conservazione. Dei sette tipi di mele elencati nel Capitolare di Carlo Magno, sei sono definiti “servatoria”, cioè adatti a essere conservati. Lo stesso vale per le pere e gli altri frutti. Qui siamo di fronte a un documento regio, una sorta di manifesto dell’economia signorile, ma è ovvio che scelte di questo genere valgano a maggior ragione nell’economia contadina, che si difende dal pericolo della fame non solo col sale che conserva i cibi, ma anche moltiplicando le specie coltivate. Quindi molti cereali seminati nel terreno: non solo segale, non solo frumento, ma segale e frumento, e poi orzo, avena, miglio, spelta. Tutto questo soprattutto per difendersi dalle avversità climatiche. Detto in altri termini, la biodiversità è la prima risposta al bisogno di sicurezza alimentare e tutte le economie che hanno come scopo primario quello di mangiare (e non quello di vendere) puntano sulla biodiversità. L’economia di mercato, invece, tendenzialmente punta alla semplificazione delle colture e alla individuazione di alcune specie particolarmente produttive, che funzionano bene per la vendita. 24


Ecco perché i documenti medievali a volte ci mostrano conflitti, fra contadini e signori, generati da interessi contrastanti e da modi diversi di pensare il paesaggio e le risorse alimentari. In certe liti, per esempio in Catalogna, appaiono contadini che resistono alle pressioni dei signori per trasformare i boschi in campi coltivati. Perché resistono? Semplice: perché nella loro cultura la diversificazione delle risorse è una strategia di sicurezza e di difesa dalla fame, quindi sanno bene che privarsi del il bosco significherà rinunciare al pascolo dei maiali e a una risorsa alimentare (la carne) che si affianca a molte altre (cereali, legumi, verdure, ecc.) garantendo, con la diversificazione dei prodotti, una maggiore sicurezza. Il signore, invece, perché dice ai contadini “tagliate il bosco e coltivate grano”? Perché guarda al mercato e al profitto: il grano si immagazzina più facilmente dei maiali, è più facile da conservare e da vendere. Quindi vediamo scontrarsi da un lato un’idea di produzione finalizzata al mercato, dall’altro un’idea di produzione finalizzata alla sussistenza quotidiana. Quale delle due scelte è la più produttiva? Probabilmente quella del signore. Ma più produttiva per chi? Per il signore. Quale è più sicura? Quella dei contadini. Ma più sicura per chi? Per i contadini. È sempre importante tenere sempre presente che la storia economica e la storia sociale non necessariamente si sovrappongono, anzi, solitamente si svolgono su piani diversi, non di rado divergenti. E che la società non è omogenea, e tutto ciò che accade e che si fa può dare vantaggi a qualcuno, svantaggi ad altri. In ogni campo. A cominciare dal modo in cui si progetta e si costruisce il paesaggio alimentare.

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Dalla carriola al carrello: paesaggi alimentari padani da Ruzzante a Ermanno Olmi

Danilo Gasparini

Prima di entrare in campo… D’istinto, a parlare di paesaggi alimentari, vengono in mente i foodscapes di Carl Warner, il geniale fotografo di Liverpool, che usa vegetables e pane, burro, grissini… alimenti vari per creare foreste, catene montuose, laghi. Che si tratti di una sinestesia non c’è dubbio, parlando di paesaggio alimentare, figura retorica, la sinestesia, fenomeno sensoriale/percettivo, che indica una “contaminazione” dei sensi nella percezione. Nel nostro caso, la percezione sinestetica, viene esplicitata e dichiarata. Paesaggi che si guardano e che si mangiano, che finiscono in tavola con varie possibilità di invertire il senso: dalla tavola al paesaggio o meglio, e più intrigante, dal carrello della spesa ai campi. Dentro a quel paesaggio, per antonomasia agrario, ci stanno i campi, le colture, i contadini, a diverso grado di scala sociale e di diffusa precarietà, le fatiche, le stagioni nel tentativo di costruire una sorta di geografia alimentare1. E metteteci dentro tutte le contraddizioni, ma anche tutti i sapori, gli odori, i colori. Ma il lemma paesaggio in questi ultimi anni è comunque stato abbinato e accostato a tutto e di più. Da molto tempo ormai l’accezione crociana ed estetizzante è saltata: paesaggi agrari, urbani, energetici, letterari, industriali, di tutto e di più, e intere Fondazioni hanno costruito la loro ragion d’essere proprio sul paesaggio, salvo poi esercitare alla grande l’arte della fuga dal quotidiano, dalle emergenze, dai paesaggi del glyphosate e rifugiarsi tra Le foreste dei meli selvatici del Thien Shan2. Per dirla con Michaela Jakob “Il paesaggio non è il territorio, né il paese, né il sito. Da qui il problema e il successivo paradosso, della sua rappresentazione. Sia la rappresentazione iconica, sia quella verbale (la trascrizione, la descrizione) senza dimenticare quella individuale ed empirica, la Vorstellung che ci costruiamo di un paesaggio, in un momento dato, si scontrano con l’identità fluttuante, aperta, forse anche irritante del fenomeno”. Andiamo bene, ma meglio così, scardiniamo ogni certezza e procediamo più liberi3. 1  Per un uso suggestivo e innovativo del termine «geografia alimentare» si veda P. Camporesi, Alimentazione, folclore, società, Parma 1980, pp. 56-60. 2  Si pensi alle attività della Fondazione Benetton Studi Ricerche di Treviso o a tutte le Summer School della Fondazione Sereni. Alle foreste dei meli selvatici kazake è andato il Premio Internazionale Carlo Scarpa per il Giardino, XXVII edizione (2016). 3  Per ogni sicumera o sussiego in tema di definizione di paesaggio è salutare la lettura di M. Jakob, 27


Già nella Convenzione sul paesaggio di Firenze del 2000 si è tentato di definire in modo chiaro l’ambito: “…l’alimento è il conto economico di milioni di persone, è la contabilità ambientale fra risorse e prodotti generatrici dell’impronta ecologica dell’uomo sul pianeta, è la trasformazione della nostra ruralità e delle nostre montagne e boschi in beni e servizi, è la cultura e le mille tradizioni di convivialità che assumono nel mondo forme e colori diversi e contribuiscono a dare valore alla nostra vita (...) è lo specchio dei tempi, quale valore comune e non assimilabile a qualsiasi altro tipo di bene …”4. Il “Paesaggio alimentare” – hanno declinato in Friuli Venezia–Giulia è la manifestazione concreta degli aspetti economici, culturali, ambientali, territoriali e alimentari dell’Italia. È un bene da difendere ed accrescere in tutte le sue componenti in quanto è la giusta connessione fra i valori dell’ambiente, del territorio e dell’alimento, beni d’interesse primario della persona umana e delle comunità locali. Il “Paesaggio alimentare” racchiude un insieme di valori del Paese e per questo sono promosse idonee politiche di valorizzazione e azioni mirate di tutela”5. Andate a vedere: ogni regione, ogni ente, Slow Food, ma anche la confraternita della “patata”, ha formulato accezioni diverse e varie della nozione di paesaggio alimentare. Ad Expo 2015 si è rischiato la bulimia. Attorno poi a questi temi si è ragionato molto, tanto, e la bibliografia tracima6! Anche sui paesaggi rurali storici, oggetto di censimento e di inventariazione a scopo tutelatorio e conservativo, nelle nobili intenzioni7. A questo proposito a partire dal 2009 soprattutto, nell’afosa Gattatico si ragiona assaissimo sul paesaggire. Su questi nessi tra carriola e carrello gustosa la sezione Il paesaggio a tavola nell’edizione del 2010 dedicata ai paesaggi medievali8. Qualcosa sul tema avemmo modo di anticipare nell’edizione della Summer School del 2012 dedicata ai paesaggi novecenteschi9. Di certo il nesso paesaggio alimentare-paesaggio agrario è quasi scontato e pletorico, ma vallo a dire ai milioni di consumatori che riempiono il carrello del mondo o ai consumatori compulsivi di Nutella. Si veda a questo proposito la Mapping Global Value Chain della premiata: nocciole dalla Il paesaggio, Il Mulino, Bologna 2009; per la citazione Ivi, p. 27. 4  Si veda questo proposito il Primo rapporto sullo stato del paesaggio alimentare italiano a cura di Eurispes e Corpo Forestale dello Stato, Roma 2012. 5 http://www.regione.fvg.it/foreste 6  Rinvio a tutte le sessioni e ai relativi atti usciti in occasione delle annuali Summer school che l’Istituto Alcide Cervi ha dedicato al tema a partire dal 2009. In fila indiana: Il paesaggio agrario italiano protostorico e antico. Storia e didattica, (Quaderni 6), Edizioni Istituto Alcide Cervi, Gattatico, 2010; Il paesaggio agrario italiano medievale. Storia e didattica, (Quaderni 7), Edizioni Istituto Alcide Cervi, Gattatico, 2011; La costruzione del paesaggio agrario nell’età moderna, (Quaderni 8), Edizioni Istituto Alcide Cervi, Gattatico, 2012; Paesaggi agrari del Novecento: continuità e fratture (Quaderni 9) Edizioni Istituto Alcide Cervi, Gattatico, 2013; ma anche G. Bonini e C. Visentin (a cura di), Paesaggi in trasformazione. Teorie e pratiche della ricerca a cinquant’anni dalla Storia del paesaggio agrario italiano di Emilio Sereni Bologna 2014. 7  M. Agnoletti (a cura di), Paesaggi rurali storci. Per un catalogo nazionale, Editori Laterza, RomaBari 2010. 8  M. Montanari, Paesaggio e alimentazione nel Medioevo, in Il paesaggio agrario italiano medievale. Storia e didattica, (Quaderni 7), Edizioni Istituto Alcide Cervi, Gattatico, 2011, pp. 79-98. Nell’edizione successiva dedicata al paesaggio in età moderna si veda il contributo di A. Guigoni, Il paesaggio alimentare europeo post colombiano. La diffusione delle piante americane in La costruzione del paesaggio agrario nell’età moderna, (Quaderni 8), Edizioni Istituto Alcide Cervi, Gattatico 2012, pp. 139-148. 9  D. Gasparini, Cascine e sistemi agrari del Nord, in Paesaggi agrari del Novecento: continuità e fratture (Quaderni 9) Edizioni Istituto Alcide Cervi, Gattatico 2013, pp. 31-52. 28


Turchia, dalla Georgia, dall’Italia, olio di palma da Brasile, Malaysia e Nuova Guinea, cacao da Niger, Ghana, Costa d’Avorio, Equador, zucchero da Irlanda, Francia, Belgio, Germania, Canada, Brasile, vaniglia in sintesi dall’industria francese e americana, latte (tutto in polvere) e uova di origine non dichiarata10. Se, come dice Wendel Berry, “an American, Kentucky, man of letters, academic, cultural and economic critic, and farmer”, se “eating is an agricultural act” (mangiare è un atto agricolo), forse dietro i vari sistemi alimentari del mondo contadino, ma non solo, ci stanno paesaggi, sistemi colturali e soprattutto rapporti sociali ben determinati11. Che l’eccessivo appetito possa allora configurarsi un crimine nei confronti dell’ambiente e del paesaggio? Mah…

Dalla carriola alla tavola: il caso veneto in età moderna Sarà allora il nostro un assaggio, un happy hour che vaga per la Padania in modo libero, a nord e a sud dell’autostrada A4, soprattutto nella tratta lombardo-veneta, dal remoto Serenissimo dominio fino agli albori del Novecento a pellagra sconfitta e retrocessa, usando le fonti che s’adusano e che, come da mestiere, citerò. Ci siamo sempre incaponiti nel descrivere i diversi regimi alimentari e, sociologi e antropologi, ci hanno edotto sontuosamente, a partire da G. Simmel12. Le statut social du repas oramai è declinato! Allunghiamo la vista e invece di lire la société cerchiamo di lire la campagne. Partiamo dalle nicchie alimentari. Ad esempio dietro, questa tabella dei consumi alimentari del nobile vicentino Fabio Monza, quali campagne vicentine, venete, mediterranee, mondiali possiamo immaginare, quali paesaggi13? Chilometro zero vero!

Tab. 1 Spese alimentari anno 1564 Fabio Monza (in soldi 20 soldi = una lira) Generi Pane farina e cereali Pesce Vino Vini speciali Erbaggi e frutta Legumi Riso

Febbraio

Marzo

Aprile

Giugno

Luglio

Ottobre

Novembre

Dicembre

142

6

143

7

8

44,6

44

65

101 128

267 19

156 -

157 4

174 160

37 56

209 168

319 145

10

-

-

-

-

18

650

78

31

17

12

60

104

17

63

93,5

29

-

-

2

6

17

-

8

10  De Backer K. e Miroudot S. (2013), “Mapping Global Value Chains”, OECD Trade Policy Papers , No. 159, OECD Publishing. http://dx.doi.org/10.1787/5k3v1trgnbr4-en 11  Berry W., What are People for?, New York 1990, ora in La resurrezione della rosa. Agricoltura, luoghi, comunità, Slow Food Editore, Bra 2006, p. 127. 12  Pioneristico il suo lavoro: Simmel G., Soziologie der Mahlzeit, Der Zeitgeist, Beiblatt zum Berliner Tageblatt Nr. 41 vom 10 Oktober ; si veda anche l’esemplare The history and social influence of the potato di Redcliffe N. Salaman, Cambridge 1949 ora riedito in Italia, Storia sociale della patata. Alimentazione e carestie dall’America degli Incas all’Europa del Novecento, PGreco Edizioni, Milano 2016. 13  I «zornali» di Fabio Monza. Nella Vicenza di Palladio, I, a cura di Lomastro F. con la collaborazione di Pasqualotto L. e Tecchio S., Roma,2009. 29


Generi

Febbraio

Marzo

Aprile

Giugno

Luglio

Ottobre

Novembre

Dicembre

Olio e burro Aceto Frutta secca Spezie Uova Carne Latte e formaggi Miele Dolci e zucchero Totale

54

139

62

-

-

386

104

178,5

-

-

-

-

-

-

-

11

46

38

-

-

12

6

130

75

28 -

34 4 147

6 434

22 10 265

27,5 61

1 8 215

131 350 721

126 2 632

-

-

3

23

-

-

103

5

-

-

-

16

-

7

36

569

671

816

566

552

1.040

1240

17

3.949

1.755

Riassunti in queste macro categorie i dati dicono poco o niente se non, ad esempio, il largo consumo di pesce in marzo e il ridotto consumo di carne per via della Quaresima, (Pasqua in quell’anno cadde il 2 aprile), l’aumento delle spese per spezie nei mesi freddi, o di dolci e zucchero, di vini speciali all’approssimarsi dell’inverno e delle festività natalizie14. Novembre è il mese più “sontuoso”: si spendono denari per bracedeli (ciambelle) e calissoni di marzapane, ma molto in Malvasia e vini dolci, spezie – sofran (zafferano), pepe, zucharo da Madera, fino e grosso- uva passa e un’abbondante quantità di capponi e lepri. Da notare anche il poco consumo di riso. Forse è più curioso vedere, ad esempio per il pesce, la qualità e la varietà del pesce acquistato. Spesso viene indicato genericamente pese, ma il dettaglio c’è e così troviamo: angosigole, (aguglie) sarache, passare, menole, cape, barbon, sepe, sgombri, calamari, inchiò (acciuga salata) moeche, sardele, sardole, granceola, gambareti, cievali, sfogi, luzi, lamprede, scarlonghe, anguile anche salate, tenche, carpioni, orade, varoli, ma anche rane e cornioli (lumache)15. Quanto alla carne in tavola arriva vedello, manzo, figà, castrato, i prodotti del maiale e quindi salciza, lonza de porco, tripa, baldoni, bresaole e tutta la bassa corte fatta di polastri, caponi e la selvaggina, i lievori. Nella stagione buona sullo spiedo (a Schio non può non avere consumato un succulento speo de poenta e osei) girano tordi, lodole, columbi, magari torresani, il 12 ottobre infatti fa aggiustare dal fabbro il menarosto. Le pernici sono riservate alle grandi occasioni. Accompagnavano questi piatti lente, pizoli, veccia, salata, radechi e latughe, indivia, spinaze, capuzi,verze, ramponzoli. Come condimenti, per preparare anche salse, troviamo smalzo, botiro, sanaura (senape) lardo, asedo, rapano e, a sancire, se ce ne fosse bisogno, privilegio e appartenenza, la cucina e i piatti profumavano di sofran (zafferano dall’Aquila), specie dolce, pevere, garofoli, zucharo fin, rosso (di canna) e de Madera. A seguire 14  Sul vitto quaresimale e il consumo di pesci vedi G. Nigro, Mangiare di grasso, mangiar di magro: il consumo di carni e pesci tra Medioevo ed Età moderna, in Alimentazione e nutrizione secc. XIIIXVIII, Atti della Ventottesima settimana di studi dell’Istituto internazionale di Storia economica “F. Datini”, Prato 22-27 aprile 1996, S. Cavaciocchi (a cura di), Firenze 1997 (Le Monnier), pp. 113146. Anche F. Quellier, Gourmandise Histoire d’un péché capital, Paris 2010, soprattutto il capitolo Volupté catholique, austérité protestante. 15 “Questo è cibo per lo Autuno e per lo inverno- annota il Pisanelli - ma ricerca gioventù, complessione calda, stomaco gagliardo e grande essercitio”. In D. Pisanelli, Trattato della natura…, cit., p. 102. 30


naranzi, cedro, uva passa, mandole, mandole ambrosine, pistachi, figi, ciriese, marasche, peri, zucha, noselle, maroni, rabarbaro, uva passa. A chiudere casate de capra, formaggio salà e dolce, confetti de anese, maroni, miele, zucharo, marzapan, bracedeli, mandolato, il tutto innaffiato da cebibbo, vernaza, malvasia. Dimenticavamo: frequente l’acquisto di semole e pane per la quotidianità. Una parentesi: Vicenza, come altre città venete, aveva emanato a partire dagli anni ’50 del Cinquecento, delle parti contro gli eccessi del lusso. Nota e pubblicata quella del 31 marzo 1561: dopo essersi occupata, di abbigliamento, delle superfluità, maschile e femminile, di giochi, di carete e cochii, la parte entra nel merito dei banchetti. Ci gustiamo le disposizioni: 1. Vive se possino dar più de quattro man de alesso, quattro man de arosto, oltre uns allado con doe man de sappori allo alesso et doe mane allo arrosto, non proibendo alli latticini 2. Che mai a tempo alcuno de l’ano se posse dar salvadesina de sorte alcuna, ma qualgie, tordi per arrosto, settembre, ottobre, et lepori per tutto l’anno prohibendo anco li pasticci et pastelle de ogni sorte 3. Che i pavoni nostrani, galli de India siano prohibiti nelli conviti, ma non già le anidre selvatiche 4. Che alli conviti de pesce siano prohibiti i pesci forestieri, intendendo pesci forestieri quelli de mare et del lago de garda 5. Che non se possi dar colatione de sorte alcuna ne confectione ne ghelli de codogni, ma alli conviti de noze se possa dar solamente confetto sparso per la tavola 6. Che ocorendo che venisse qualche onorato personagio forestiero in questa città li censori infrascritti doe di essi possino dispensar con una lor licentia in scrito i conviti come a loro parerà 7. Che li vicari quando vanno alli vicariati non possino aver più de cavalli quindese in sua compagnia computati li servitori ne possino eccedere nelli conviti l’ordine antedeto 8. Che non se possino dar più di due mane de torte16. È da notare la consapevolezza del ruolo sociale, simbolico ed ostentatorio del cibo e del banchetto. Ho detto una banalità lo so, come tutte le parti chissà poi se nella pratica... Tornando a cose più serie, alla pernice appunto: la pernice, è bene ricordarlo, per capire l’infatuazione del nostro, tra la selvaggina di piuma, era la più ricercata e ce lo ricorda Michele Savonarola, medico di Borso d’ Este, “La pernise è carne temperata, molto cordiale e declina al secco come ditto. È carne da zentili e richi homini, imperò se fa preziosa. Vole essere zovene de meza grassa, come perniconi compiti. La carne della pernice antiqua non è bona et è dura da padire. La zovene facilmente se padisse e dà bono nutrimento e grande e è si bona che è bona alessa e rosta. Rosta strenze il corpo, imperò è bona a quelli che hanno il fluxo”17. Parere confortato anche in seguito da Domenico Pisanelli, medico bolognese: “Genera sottil nutrimento, presto si digerisce , disseca l’humidità dello stomaco, giova molto alli convalescenti. Le pernici giovani non nuocono se non a gente rustica ma le vecchie sono di durissima carne e di cattivo sapore. Non si mangiano se non quando sono giovinelle e le vecchie 16  F. Bandin, Una “grida” del 1561 contro il lusso dei signori a Vicenza, in P. Marini, P. Rigoli, A. Dall’Igna (a cura di), Cucine Cibi e Vini nell’età di Andrea Palladio, Vicenza 1981 pp. 89-103. 17  M. Savonarola, Libreto de lo excellentissimo physico maistro Michele Savonarola di tutte le cosse che se manzano comunamente, Venezia 1515, p. 27. 31


per lungo tempo si faccino venir frolle all’aria della notte. […] Pur che siano giovini, sono buone in ogni tempo per tutti, ma ricercano il tempo freddo”18. Anche Fiore da Collebeato, la massera da bé, dice la sua sulle pernici: “Tornùm a fa del rost de pernis e pivió […] Se conzi li pernìs i avri quelli de derè. D’imfura i ungi e i pé, el bec col gos che resta e la’m par bé una festa stemà i gos bó bochó”19. Potremmo sedere anche alla tavola di un monastero, ad esempio con i Certosini residenti nella stupenda Abbazia, la Certosa del Montello, ameno panettone lungo il Piave, luogo di vini eccelsi, ieri più di oggi. Tab. 2 Spese della Certosa del Montello Luglio - Agosto 1500 Generi Ove Pese Gambari Pesse de Piave Orade Masenete Cievali grandi de lire 4 l’uno e per orade Cevolle Fongi Verze Zuche Salata Sal Fige et meloni Naranze per infermi e zitron Pome granade e pome chogne Pome Meloni Angurie per infermi Susine Persege Fugaze Pan Oio Malvasia

Speso 450 36 3 72 100 3 70 3 2 1 2 4 40 8 8 6 2 6 12 1 4 2 16 18 13

Allora la di là della varietà e sontuosità dei due panieri, a cui non erano estranee ragioni e valori di tipo culturale - ad esempio il divieto di consumare carne per il mondo monacale e quindi giù con i formaggi e le uova- ma anche medico, di appartenenza, insomma non sono questi regimi che fanno il mercato, che determinano i paesaggi. Quello che ci interessa è capire in realtà quale agricoltura poteva sostenere in generale, in quelle congiunture, l’alta densità demografica e il forte consumo urbano che determinavano scelte di politica agricola 18  D. Pisanelli, Trattato della natura de’ cibi et del bere, Venezia 1586, p. 80. 19  Si veda l’edizione curata da G. Tonna: G. Dagli Orzi, La massera da bé, a cura di G. Tonna, Brescia: “Torniamo a fare dell’arrosto di starne, e piccioni, piviò […] Se cucino le starne, le apro, quelle, di dietro. All’infuori delle unghie e delle zampe, il becco e il gozzo gli restano in compagnia, e la mi par bene una cosa da ridere stimare i gozzi buoni bocconi” (p. 70). 32


chiare. Con una popolazione urbana che sfiorava il 21% la domanda di cereali, di biave era predominante a scapito dell’allevamento. Il problema della dipendenza dai mercati esteri, per la carne, si pone in modo drammatico per Venezia e la Terraferma durante la profonda crisi attorno agli anni trenta del ‘500. Come soddisfare il bisogno di carne di una popolazione di 120.000 abitanti (dato riferito a Venezia nel 1529) che necessitava dell’approvvigionamento annuo di 14.000 buoi, 13.000 vitelli e 70.000 animali menudi, cioè suini e ovini ma anche di 500 mila q. di grano e di 400 mila hl di vino20? Treviso, per stare a noi vicini, passa dai 9.000 abitanti di fine ‘400 ai 13.000 circa di metà ‘500. Secondo i dati pubblicati dal Beltrami al 1548 si registra una densità media in Terraferma di 48 ab./kmq, 1.200.000 abitanti con un tasso di urbanizzazione vicino al 21%, come ricordato. Venezia raggiunge negli anni cinquanta del ‘500 i 160.000 abitanti, una “metropoli” tutta particolare che necessitava giornalmente di tutto: vino, cereali, carne, legna… Ma non c’è solo Venezia: Verona e Brescia superano i 50.000 abitanti, quanto Londra, Vicenza e Padova i 20.000, Bergamo fra i 15 e i 20.000, Crema Treviso e Udine fra i 10 e i 15.000; Belluno, Feltre e Rovigo attorno ai 5.000. Sono solo numeri ma che palesano, un policentrismo che è caratteristica del Veneto d’oggi. E le città, grandi e piccole hanno fame, di pane soprattutto. Ora a partire dal ’400 non solo Venezia, ma anche le altre città di Terraferma si rifornivano per le loro beccherie in terra tedesca e in Ungheria, attivando scambi e accordi per l’importazione di migliaia di capi che percorrevano le notevoli distanze lungo dei tragitti stabiliti, dotati di abbeveratoi e pascoli. Allevati in mandrie con metodi estensivi nella grande pianura ungherese, i buoi raggiungevano Venezia via terra dopo circa un mese di marcia, attraversando il Piave proprio all’altezza di Maserada dove sostavano per recuperare parte del peso; è stato infatti calcolato che un animale adulto perdesse 80 kg per coprire una tratto di 330 km21. In diversi momenti si provvide anche al trasporto via mare, imbarcando i bovini a Zara. Sulla provenienza esotica e remota di questi animali la gente comune fantasticava; lo stesso Giovan Battista Barpo, canonico bellunese, scriveva nel 1634: “Gli buoi che vedi giornalmente di passaggio per i nostri confini che d’Ongheria a Vinegia e altrove servono à macelli, fanno sì lontani viaggi, che rende grandissimo stupore, passando ben spesso gli mercanti ongheri à comprarli in Moscovia, e Tartaria, e gli tartari, se bene n’hanno grandissima copia [...] gli traggono alle volte dal Cataio e anco dalla China, tanto può e val l’uso del oro, e l’interesse del guadagno22. Nel 1529 si determinò una grave carestia di carne, preceduta da due anni di pessimi raccolti: “la causa di tala penuria è stata per no haver possuto trazer bovi di terre aliene per causa della presente guerra”23. Venezia “…acciò non seguisca la penuria di carne come è 20  Il dato è riportato in U. Tucci, L’Ungheria e gli approvvigionamenti veneziani di bovini nel cinquecento, in “Studia Humanitatis”, n. 2, 1975, Rapporti veneto-ungheresi all’epoca del Rinascimento, Budapest 1975, pp. 153-171 21  B.H. Slicher Van Bath, Storia agraria dell’Europa occidentale (500-1850), Torino 1972, p. 390-412. 22  G.B. Barpo, Le delitie et i frutti dell’agricoltura e della villa, Venezia 1634, p. 71. 23  Si trattava della guerra turco-asburgica che opponeva Ferdinando d’Asburgo, re di Boemia, a Giovanni Szapolyai, re d’Ungheria, appoggiato dal sultano turco Solimano II. Per il tragitto seguito e per la dimensione dello scambio, U. Tucci, L’Ungheria... cit; inoltre V. Zimànyi, Esportazione di bovini ungheresi a Venezia nella seconda metà del secolo XVI, in V. Branca (a cura di), Venezia e Ungheria nel Rinascimento, Firenze 1973, pp. 145-156. Per gli anni di carestia: G. Del Torre, Venezia e la Ter33


seguito questi tempi passati de che si ha patito grandemente non ostante dar doni, levar il dacio et i fitti della bancha” volle cercare la soluzione entro schemi autoritari, propri della Dominante, imponendo alle città suddite, con due parti del Senato (25 novembre 1529 e 1 giugno 1530) un contingente annuo di 14.800 buoi, assegnandone 1.500 a Treviso e al suo territorio, 300 a Feltre e 300 a Cividale di Belluno. La ripartizione veniva eseguita in modo meccanico sopra il numero di campi rilevati dagli estimi, senza considerare le reali situazioni locali e il fatto che nessuna delle città era stata in grado di supplire al proprio fabbisogno24. L’imposizione, corretta poi nel 1530 (800 per Treviso e 200 per Feltre e per Belluno) incontrò forti resistenze, soprattutto allorché nel 1554 venne rinnovata l’ingiunzione e si innescò una forte contrapposizione tra Dominante e alcune città di Terraferma25. Ogni città si premurò di presentare delle memorie per giustificare l’impossibilità di adempiere all’obbligo e, pur nel generale tono recriminatorio e querulo, tali documenti contengono significative valutazioni ed argomentazioni di tipo economico-agrario, tenuto conto che l’imposizione avrebbe finito con lo sconvolgere gli assetti colturali e demografici delle campagne e aggiungiamo paesaggistici. Secondo le osservazioni che gli oratori di Treviso (e in parte di Rovigo) producono nelle loro memorie, il trevigiano può consumare circa 4.000 buoi all’anno; di questi, si asserisce, 3.000 sono “ongari schiavi et todeschi, il che testimonia come il territorio non è sufficiente a darli carne”. Il grande numero di vitelli che si vendono al mercato di Montebelluna, acquistati principalmente dai mercanti veneziani, “dimostra che non vi sono freni a sufficienza che possi arlevarli in buò [...], e comunque v’à sempre le porte aperte del trivisan [...] il che non è così delle altre città lontane”. La colorita espressione porte aperte è più di una suggestiva metafora e attesta una consolidata nonché collaudata rete di traffici e commerci d’impianto trecentesco e via via ampliatasi al momento della conquista. Gian Maria Varanini in un suo studio ha verificato che in un anno, tra 1441 e 1442, sono stati condotti a Venezia dal Trevigiano 5.576 buoi-vitelli e 11.102 castrati. Un mio riscontro ha accertato, tra settembre 1514 e dicembre 1515, in un frangente quindi di crisi e di difficile ripresa dopo la guerra di Cambrai, l’invio e Venezia di 996 buoi, 300 vacche, 446 manzi, 3.234 agnelli, 782 castrati e 193 capretti26. Il territorio, precisano gli oratori, ha pochi scarsi beni comunali, pochi pascoli e prati che risultano pessimi “… et questa causa arleva tristi bestiami che sono mancho de mezza carne et a far boni tal territorii bisognaria molte acque che li discoresse per adaquare perchè quella che scorre a pena basta per bevare”. Non vi balenano agli occhi paesaggi dove l’aratorio raferma dopo la guerra di Cambrai. Fiscalità e amministrazione (1515-1530), Milano 1987, pp. 199-216. 24  Tutta la vicenda si trova in ASTV (Archivio di Stato di Treviso), Comunale, b. 278, fasc. n. 9. Si veda anche: Gasparini D., Mortalità de’ bovini seguita nel territorio trevigiano nell’anno MDCCXI, in D. Perco (a cura di), Malgari e pascoli. L’alpeggio nella provincia d Belluno, Feltre 1992, pp. 171-204. 25  La documentazione si trova in ASTV, Comunale, b. 278, fasc. n. 9. 26  I dati in G. Varanini, Aspetti della produzione e del commercio del vino nel Veneto alla fine del Medioevo, in Il vino nell’economia e nella società italiana Medioevale e Moderna, Firenze 1988, p. 85; per il periodo medievale M. Knapton, Venezia e Treviso nel trecento: proposte per una ricerca sul primo dominio veneziano a Treviso, in Tomaso da Modena e il suo tempo, Treviso 1980, p. 73 n.89. Per i dati del 1514-1515 cfr. ASTV, Comunale, b. 1561. Sul sistema alimentare di Venezia si veda il complesso lavoro di F. Faugeron, Nourrir la ville. Ravitaillement, marchés et métiers de l’alimentation à Venise dans les derniers siècles du moyen âge, Roma 2014. Per la dominanza e la varietà dei cereali si veda G. Galletti, Bocche e biade. Popolazione e famiglie nelle campagne trevigiane dei secoli XV-XVI, Treviso 1994. 34


ricamato da piantate domina? In quartieri prossimi alla città di Treviso, secondo gli estimi cinquecenteschi, campi piantati, arativi e prativi, superavano il 70%27. Lo scriverà da par suo, qualche decennio più tardi, Michel de Montaigne: “Partimmo il sabato di buon mattino, procedendo per un bell’argine lungo il fiume – sta parlando del Brenta- ai lati avevamo delle pianure fertilissime di biade, assai ombrose per gli alberi piantati con ordine nei campi ed usati a sostegno delle viti”. A seguire Montesquieu, Charles de Brosses, Johann WoIfgang Goethe e gli altri gran touristi28. Ma torniamo alle nostre vicende. L’analisi si articola: tale ristrettezza di fieni “…ha insegnato alli homini a far fogia di arbori delle piantade con non piccol danno di esse piantason, tagliandose gli rami a tempi che l’arboro è ancor in amor…”, e quel poco di foraggio che si raccoglie costa caro; inoltre “il bestiame che se arleva non è molto bon per l’eccessivo pretio del sal”. Premesso questo, i manzi che si mandano a macellare sono vecchi “…et non più atti al arar, perché el bestiame bon che se puol arlevar nel paese se arleva per uso della agricoltura”. Sull’alto prezzo del fieno altre fonti concordano: nel 1537 a Noale era salito già a 12 lire al carro, importo destinato a non scendere se lo stesso Agostino Gallo, nel 1564 lo conferma nella prima edizione delle sue Dieci giornate; un valore praticamente raddoppiato in pochi anni29. Ma se nonostante tutto, scrivono gli oratori inviati a Venezia, l’imposizione diventasse esecutiva “…bisognaria che se venisse a uno delli infrascritti partiti: el bisognaria mandare a pradi al meno campi 12 millia par far fen el mancho chari 12 millia per pascer et pascolar i buò, qual buò non sariano mancho de 3 millia dovendone haver de più età per mantenire sempre il numero delli 800 et a questo modo se pascheranno i buò et sempre il numero delli 800 et se toorà il viver a persona dodese millia per ché non se perderia mancho de stari 60 millia biava che dariano tal campi e bisognaria far, over che bisognaria provederli per via de Venetia overo che de tempo in tempo fusse disgravato el teritorio de persone deducendo qualche colonia come faceva i romani”. Il nocciolo della questione è chiaramente nelle conclusioni: “…non puol quel paese isteso haver purasai persone et purasai animali perché dove sono assai persone bisogna che siano assai tere arative et pocche prative per arsunar il viver et dove sono assai animali come 27  Per un quadro sulle scelte colturali e la diffusione del sistema della piantata associata all’aratorio, si vedano i risultati della ricerca della Fondazione Betton Studi Ricerche da noi coordinata in: A. Bellavitis, Noale. Struttura sociale e regime fondiario di una podesteria della prima metà del secolo XVI, Treviso 1994; M. Pitteri, Mestrina. Proprietà, conduzione, colture nella prima metà del secolo XVI, Treviso 1994; M.T. Todesco, Oderzo e Motta. Paesaggio agrario, proprietà e conduzione di due podesterie nella prima metà del secolo XVI, Treviso 1995; A. Pozzan, Zosagna. Paesaggio agrario, proprietà e conduzione di un territorio tra Piave e Sile nella prima metà del secolo XVI, Treviso 1997; G. Nicoletti, Le Campagne. Un’area rurale tra Sile e Montello nei secoli XV e XVI, Treviso 1999; Biscaro M.G., Mestre. Paesaggio agrario, proprietà e conduzione di una podesteria nella prima metà del secolo XVI, Treviso 1999; L. Bulian, Asolo. Paesaggio, proprietà e credito nel territorio asolano del secolo XVI, Treviso 2001; Vigato M., Castelfranco. Società, ambiente, economia dalle fonti fiscali di una podesteria trevigiana tra Xv e XVI secolo, Treviso 2001; Pasqual C., Quartiere del Piave. Paesaggio, proprietà e produzione di una campagna pedemontana veneta nei secoli XV e XVI, Treviso 2006. Inoltre, per un caso specifico, D. Gasparini, “Di quanta spexa et interesse sono le posessione”. Le terre della famiglia Emo in Fanzolo, in Villa Emo a cura di D. Gasparini e L. Puppi, Treviso 2009, pp. 137-159. Inoltre D. Gasparini, Terre alla parte e alla metà: le diverse mezzadrie venete in Mezzadri e Mezzadrie tra Toscana e Mediterraneo a cura di G. Biagioli, R. Pazzagli, Pisa 2013, pp. 77-129. 28 M. De Montaigne, Viaggio in Italia, Bari 1991, Journal de voyage, 1580-1581. Sulla lettura gastronomica di questa fonte si veda il pioneristico lavoro di P. Gillet, Par mets et par vins. Voyage et gastronomie en Europe (16e-18e siècles), Paris, 1985. 29  Devo la notizia ad Anna Bellavitis, che ringrazio. 35


è in Ongaria bisogna che sia como sono purasai pradi et poche tere arative et esendo cose contradicenti insieme et repugnanti issendo molto de l’uno bisogna che sia mancho de l’altro et quanto che sia meglio che siano più homini et mancho bestie é tanto chiaro che non accade metterlo in controversie”. Non ci poteva essere denuncia più lucida e consapevole dell’impossibilità di poter conciliare, in quella fase e in quella congiuntura, con una popolazione ancora in fase di crescita, scelte di politica agraria alternative alla massima diffusione della cerealicoltura. Sembra quasi una degna anticipazione della futura e fascistissima battaglia del grano, con meno enfasi e impegno propagandistico e con una dialettica tra Dominante e governi cittadini più accesa. Ovviamente confronto solo di suggestione. Le motivazioni di questo contrasto tra coltivazione dei cereali e allevamento del bestiame, tema classico del dibattito storiografico, ubbidiscono a precisi e inequivocabili indirizzi economici che vanno verso la specializzazione, e non per mancata vocazione del suolo; in nessun caso, per buona parte dell’età moderna, conveniva allevare animali da carne. E come Treviso e Rovigo, anche Verona si oppone a questa ingiunzione, fondamentalmente per le stesse ragioni, perché li obbligava ad impegnarsi in un tipo di allevamento che corrispondeva ad uno stadio di sviluppo più arretrato30. Ma la lunga citazione ci serve per verificare la correttezza di alcuni conteggi riportati: si dice che occorrono 12.000 campi di prato (1 campo trevigiano = mq. 5.204) per sostenere una quota annua di 800 manzi. La quantità di prati utili risulta da questo calcolo, che si rifà ai dati registrati nel memoriale di Rovigo: per avere 800 manzi sempre pronti, al compimento del terzo anno, bisogna averne in allevamento 2.400 ai quali vanno aggiunte circa 2.600 vacche “per madre perché non tutte se impiono, tutte non vanno a bene et tutte non fanno maschi”: ne consegue che per mantenere 5.000 animali grossi, sarebbero necessari, a doi campi per ogni capo come è ordinario, 10.000 campi. I due campi (un ettaro a capo, detto indice di soffribilità) ritenuti indispensabili all’accrescimento e al mantenimento di un capo bovino, data la qualità dei prati e dei pascoli presenti, sono il risultato di una valutazione realistica e credibile che assegna ad un campo di prato la produzione di un carro di fieno del peso di 1.500 libbre, pari a quintali 7,74 circa, (q. 15,48 per ha), una resa che si allinea alla produttività del tempo per aree asciutte. A Montaldeo (Alessandria) a fine ‘600 i prati stabili asciutti dell’azienda Doria fruttano 10,5 q. di fieno per ha, quelli irrigui 32-33 q., un quarto del raccolto attuale31; ma si potevano ottenere anche rendimenti anche più alti32. Lo stesso Agostino Gallo sostiene che per allevare una vacca fino a 36 mesi circa servono dai sei ai sette carri, cioè due carri abbondanti all’anno del peso di quintali 7,80 ciascuno, vale a dire, tenuto conto dei quattro mesi di pascolo, una disponibilità teorica di 6 kg di fieno al giorno, razione che evidentemente andava integrata. Sulla qualità dei fieni e sul loro valore nutritivo influiva molto l’andamento climatico della stagione. 30  A questo proposito cfr. il lavoro di M. Lecce, Le condizioni zootecnico-agricole del territorio veronese nella prima metà del ‘500, in Id, Ricerche di storia economica, Verona 1975, pp. 83-116 (già edito nel 1958). Per l’allevamento nel Bellunese e nel Feltrino in età moderna cfr. l’importante lavoro di F. Vendramini, La mezzadria bellunese nel secondo cinquecento, Belluno 1977, pp. 85-100. 31  G. Doria, Uomini e terre di un borgo collinare dal XVI al XVII secolo, Milano 1968, p. 21. 32  Sempre nell’Alessandrino in altre aziende Doria si raggiungono anche i 60 q. Cfr. G. Doria, G. Sivori, Il declino di un’azienda agraria nella piana alessandrina tra la seconda metà del ‘500 e la fine del ‘600, in G. Coppola (a cura di), Agricoltura e aziende agrarie nell’Italia centro-settentrionale (Secoli XVI-XIX), Milano 1983, pp. 13-39. 36


Paesaggi appunto, paesaggi alimentari dedicati e risultato di scelte di politica agricola ben precisa. E il mondo contadino? A sentire l’anonimo autore dell’Alfabeto dei villani mica rose e fiori: Bruscar le vì e meter d’i pianton; a sé che ‘l vin che faòn no ne fa male: nu bevòn l’acqua e gi altri beve el bon.[…] Formento, mégio, spelta e ogni gran per gi altri semenòn; nu martoriègi co un può de sorgo se faòn del pan. Gàgii, galine, oche e polastriegi gi altri s’i magna; e nu co un po’ de nose magnòn d’i ravi, com fa i porciègi. […] Polenta e porri è ‘l nostro passimento; d’agio e scalogne el corpo se norìga; fra la zente n’andòm spuzando a vento.[…] Martori semo, e martori sarom A’ seom pruprio la s-ciuma de sto mondo33. Di altro tenore Angelo Beolco, il Ruzzate, che nel descrivere il padovano, si lascia andare ad una sorta di panegirico encomiastico, quasi parodistico, una sorta di Eden, di paese di cuccagna, con donne pavane di fattezze bestiali, data la loro sodezza, robustezza e attitudine procreatrice. Un passaggio: “Pavan, an? Mo no ghe nasce po de tuta fata legume del mondo? De fava? No favelare, che ‘1 no se pò far che no se gh’in magne quatro scuele a la fila, chi scomenza. Pezuoli, po, fasuoli? Mare Biata, che ciama verze imbraghè da mile mii. Mo cesere, mo? Mo lente, bisi, mo? Panizo, mo? Mo biave, po, cum è megio, sorgo, spelta, segala, orzo, scandela, vena e veza? Mo erbame, mo? Verze, verzuoti, capuçi, erbete, latughe, persimboli e radicio? Mo çeole; scalogne, agio e puori? Farae pur magnar a un mezo morto. E cogòmbari, zuche, molon, ravi, ravanegi, pestenagie e carote? Mo furti, po? Mo de furti no favelare: pumi musiti, pumi ruzene, pumi piolà, pumi calaman, pumi dolzani, pumi russi, pumi burti e buoni, pumi cielà, che è bianchi e russi com è un velù de sea. Po piri quanti? Piri ranci, piri moscatiegi, piri zucuoli, piri da San Piero, piri inverniçè, piri trangola-preve”34. 33  Il testo in E. Lovarini, Antichi testi di letteratura pavana, Bologna 1894, pp. 84-88. Bello il lavoro, su questi temi di Milani M., Vita e lavoro contadino negli autori pavani del XVI e XVII secolo, Padova 1996. 34 Da Ruzante, Teatro, L. Zorzi (a cura di), Einaudi, Torino 1957, p. 1189. Di seguito la traduzione operata dallo Zorzi stesso: «Pavano, no? Ma non ci nasce ogni sorta di legume del mondo? Le fave? Non ne parlare, che non può essere che chi incomincia non ne mangi quattro scodelle di fila. E ceci, poi, e fagiuoli? Madre Beata, che chiaman verze soffocate da mille miglia. E cicerchie? E lenticchie e piselli? E panico? E biade, poi, come miglio, sorgo, spelta, segala, orzo, scandella, avena, veccia? E gli erbaggi? Verze, verzotti, cappucci, erbette, lattughe, prezzemoli e radicchio? E cipolle, scalogne, aglio, porri? Farebbero pur mangiare un mezzo morto. E cetrioli, zucche, melloni, rape, ravanelli, pastinache e carote? E le frutta, poi? Delle frutta non ne parlare: mele musette, mele ruggini, mele appiuole, mele calamaie, mele dolci, mele rosse, mele brutte e buone, mele cielate, che sono bianche e rosse com’è un velluto di seta? E le pere? Quante mai: pere ranelle, pere moscatelle, pere zucchine, pere di San Pietro, pere invernicce, pere strangola-preti. E noci e nocciole? Ma che bisogna più dire? Perfino le siepi e i pruni, in questo paese fan frutto. I rovi fanno le more e i pruni neri fanno le coccole 37


Lunga la lista degli alimenti anche nelle Macaronee di Teofilo Folengo e nel Baldus: rinviamo agli studi35. Per non essere pavani, padovani, potremmo di certo accostare al panegirico di Ruzante quello di Giulio Landi, che nella sua Formaggiata ci propone le pianure piacentine e lombarde come una sorta di prosperosa e gustosa Via Lattea, regno di pascoli ubertosi, di grasse vacche sguissere, di bergamini, di mascherpe e mascherponi, di piasentin36. Eccovi un parco tagliere del suo appetitoso elogio: “Ma della nobiltà del latte che bisogna affaticarmi, conciosia che è cosa manifesta e conosciuta. Ma che il latte piacentino sia di qualunque altro più nobile e di più valore, facilmente si può per i pascoli e l’herbe più degli altrui paesi megliori e delicati, conoscere […]. Nondimeno per non essere troppo prolisso, ci bastarà ora dire che le bestie che sul piacentino pascolano, maggiori, più grasse, più sane, e più valenti dell’altre, il che chiaramente si è veduto, che sendovi alcune bestie nei prati di Piacenza pascolate, e poscia ad altri luochi condotte, sono del buono esser’ loro diminuite e magre e inferme divenute”. Ergo “Se adunque il bestiame del piacentino è di qualunque altro d’altre regioni più valoroso e grasso, ne segue che l’latte sia di meglior nutrimento, più perfetto e più gentile”37. Conclude “Chi sarà dunque così ignorante che nieghi il formaggio piacentino non solo esser’ buono ma anchora il meglior del mondo […] Che ‘l formaggio adunque piacentino sia utile al buono essere e alla sanità dell’huomo, habbiamo e per molte ragioni e per esempi, a sufficineza dimostrato. Che sia anch’utile alla vita civile e a negoci e al conseguir’ gli honori, è più facile il provarlo con gli effetti che con il dire o scrivere le ragioni. […] Tutte queste cose fa il formaggio piacentino, col quale non è così delicato frutto e così necessario che a tempo e a luoco volontieri non si permuti. Chi dà grano, chi vino, chi fieno, chi legumi, chi legne, chi frutti per haver’ formaggio. Tutte le sorti di mercantie con esso si cambiano. Vengono da tutte le parti d’Italia, vengono di Francia, vengono di Alemagna a Piacenza, a scambiar lor mercantie in tanti formaggi – e dunque – […] più obligo ha questa città a formaggiari che a conti o dottori o cavaglieri”38. e i biancospini i i graffia-culi, che sono anch’ essi dei frutti, e buoni per i pastorella». Imprescindibili i lavori di I. Paccagnella, “Et quid non faceret propter saciare la gulam?” Terminologia gastronomica tra fame macaronica e vita sobria in storia della lingua e storia della cucina, in C. Robustelli, D. Proietti (a cura di), Parole e cibo: due linguaggi per la storia della società italiana, Atti del VI Convegno ASLI (Modena, 20-22 settembre 2007), Cesati, Firenze 2007, pp. 175-90 e in particolare il recente I. Paccagnella, Il pavano e il padovano di Nane Oca, in L. Vallortigara (a cura di), Camminando per le foreste di Nane Oca. Atti della Giornata di Studio, Venezia, 19 maggio 2015, «Quaderni veneti. Studi e ricerche», 2, Edizioni Ca’ Foscari, Venezia, 2016, pp. 41-58. Inoltre: I. Paccaguella, “Sauritti e conse naturale” Cibo, alimenti, parole nel Veneto fra Quattro e Cinquecento, in Tramature. Questioni di lingua fra Veneto e Toscana nel Rinascimento, CLUEP, Padova 2013, pp. 313-362. Vanno ricordati anche i lavori pioneristici di L. Messedaglia, Vita e costume della Rinascenza in E. Billanovich, M. Billanovich (a cura di), con una premessa di G. Billanovich, Merlin Cocai, Antenore, Padova1973. 35  Per il Baldus, T. Folengo, Baldus, E. Faccioli (a cura di), Torino 1989 e la traduzione di G. Tonna, Il Baldo, Reggio Emilia, 2005. T. Folengo, (Merlin Cocai), Le maccheronee a cura di A. Luzio, 2 voll., Laterza, Bari-Roma 1911. 36  G. Landi, Formaggiata di Sere Stentato al Serenissimo Re dela Virtù, stampato in Piasenza per Ser Grassino Formaggiaro MDXLII, ora riedita a cura di A. Capatti: G. Landi, Formaggiata di sere stentato al Serenissimo re della virtude, Milano 1994. Piacevole anche la lettura della lode Del formaggio di Ercole Bentivoglio in Opere poetiche del signor Ercole Bentivoglio, a cura di G. da Capua, Parigi 1719. Dello stesso tenore e utili per costruire una sorta di geografia alimentare della Padania felix sono le seguenti opere ora edite a cura di F. Minonzio, Milano 1994, a cui si rinvia anche per le edizioni originali: A. Gatti, Il formaggio biasmato; B. Bolla, Mirabili conclusioni delle stupende lodi del formaggio; G.C. Croce, L’alfabett in lod dol buon formai. 37 G. Landi, Formaggiata…, cit. (1994) p. 41. 38  Ivi, p 54 e p. 62. 38


Qualche bocconiano ci lavorerebbe su: trattasi di ragioni di scambio, di bilancia dei pagamenti, di flussi import-export. Le economie così hanno funzionato e funzionano. Più ad est potremmo avventurarci nelle risaie, partendo dalla Lomellina. Altre storie, simili per altro a parte della bassa Veronese e al Polesine, ma su questi paesaggi già è stato scritto39. Si diceva fonti letterarie appunto, figlie anche della fame, dei sogni, delle allucinazioni e degli incubi provocati delle squassanti carestie che accompagnano la storia delle campagne fino al Settecento inoltrato e che vede imporsi al Nord dapprima la coltura del mais e a seguire quelle della patata40. Paesaggi della fame, delle carestie, ridisegnati per far fronte alle perniciose congiunture. Sul mais molto abbiamo scritto ed è stato scritto molto41. Una conquista e una penetrazione lenta, a volte contrastata. “Il frumentone americano, detto sorgoturco e sorgo giallo – scriveva Giovanni Arduino nel 1771– non s’introdusse in questi paesi che a stento e dalla prevenzione lungamente combattuto”42. Ma, stando ad alcuni dati sotto riportati, a fine Settecento la conquista era completata: il frumento indiano, per dirla alla Mattioli, medico senese, ha occupato le campagne e invaso le tavole. Tab. n. 3 Popolazione e consumo previsto di frumento e sorgoturco nella Terraferma 1764 (In staia. Uno storo veneziano pari a 83,3 hl)43 Occorrenze di frumento

Occorrenze di Sorgoturco

61.617

61.617

184.851

166.056 23.816 6.350

170.727 28.578 7.620

491.161 64.305 17.145

294. 547

308.436

862.807

3.003 19.940 30.373 23.765

6.006 19.938 35.415 27.768

4.504 59.823 83.556 65.290

Territori

Numero delle anime

Verona e territorio Vicenza e territorio Padova e territorio Rovigo, Lendinara, Badia e territori Treviso e territorio Bassano e territorio Legnago e territorio Udine e Friuli compresa la Carnia Palma Cadore Belluno e territorio Feltre e territorio

181.694 204.676 279.525

223.686 232.275 314.415

482.094 572.629 786.240

39  Per il riso cfr. la sintesi di D. Brianta, Il riso tra Stato e mercato. Un commercio agricolo padano, in Storia dell’agricoltura italiana, a cura di P. Bevilacqua, Venezia 1991, vol. III, Mercati e istituzioni, pp. 121-188; vedi supra nota 7. 40  Per tutti M. Montanari, La fame e l’abbondanza. Storia dell’alimentazione in Europa, Laterza, Roma-Bari 1992. Anche C.O. Gràda, Storia delle carestie, Il Mulino, Bologna 2011. Sulla patata, oltre il già citato lavoro di Salaman, per l’Italia si veda, con ricca bibliografia annessa, Gentilcore D., Italiani mangiapatate. Fortuna e sfortuna della patata nel Belpaese, Il Mulino, Bologna 2013. 41 D. Gasparini, Polenta e formenton. Il mais nelle campagne venete tra XVI e XX secolo, Cierre Edizioni, Verona 2002 e il recente Id., Dai pestarei… a Slow Food. Il mais nel sistema alimentare veneto, in D. Gasparini (a cura di), Il mais nella storia agricola dell’Italia iniziando dal Polesine, Rovigo 2015, pp. 87-123. 42 G. Arduino, Della coltura delle terre coll’uso del seminatore, in Giornale d’Italia, 14 settembre 1771, p. 91. 43  ASVE (Archivio di Stato di Venezia), Provveditori, Spraprovveditori e Collegio alle Biave, Inquisitori sopra biade in Terraferma. 39


Territori Brescia e territorio Bergamo e territorio Crema e territorio

Numero delle anime 320.942 203.726 35.606

Occorrenze di frumento 396.945 229.158 44.109

Occorrenze di Sorgoturco 848.821 573.030 94.063

In calce alla Piedilista gli estensori precisano: a questi bisogni è necessario provvedere a 110.000 staia di frumento per i biscotti alla dominante, la quantità di semenze altri accidenti ed emergenze. Più interessanti sono poi i criteri con cui hanno calcolato i bisogni: tre staia a persona di frumento più quattro di altre biade. Eccoli, come li specifica lo scontro Iseppo Longo: • Venezia: si computa il consumo in 7/8 a frumento e a 1/8 a sorgoturco • Chioggia, Grado, Cavarzere, Loreo, Cologna, Caorle, Legnago e Bassano: si computano 2/5 a frumento e 3/5 a sorgoturco • Brescia, Bergamo, Crema, Verona, Vicenza, Padova, Rovigo, Udine, Treviso, Belluno e Feltre, si computa: - nelle città: 2/3 frumento e 1/3 sorgoturco - nei territori: 1/3 frumento e 2/3 sorgoturco • Gambarare e Cadore: 1/3 frumento e 2/3 sorgoturco • Palma : 2/3 frumento e 1/3 sorgoturco • Murano: 4/5 frumento e 1/5 sorgoturco. Ne viene fuori una geografia con delle gerarchie precise sia tra i territori sia tra città e campagne, gerarchia che a suo tempo il Georgelin aveva tentato di rappresentare in una carta; campagne polentone, città e territori ancora in parte impermeabili al paiolo, insomma quanto basta per rivendicare primati etnici. Le campagne vanno a sorgoturco44. Una conquista, quella del mais, con i suoi bisogni agronomici, in primis acqua, che ha di sicuro ridisegnato campi e tavole: saranno di lì a poco i paesaggi della pellagra. L’Ottocento incombe, con le sue grigie e fosche tragedie. Excusatio non petita: siamo stati molto veneti in questo percorso, anche se quanto detto funzia anche per la parte orientale della Lombardia, per buona pare della Patria del Friuli.

Dalla carriola alla tavola: dai pestarei ai korn flakes Lo scollinamento tra Settecento e Ottocento, lo sappiamo, fu, compreso Napoleone, drammatico: guerre, passaggi di eserciti, requisizioni e sequestri militari, mercati compromessi, insomma economia di guerra con relativi paesaggi45. A Congresso di Vienna chiuso, ecco puntuale la gravissima carestia del 1816-17. L’anno senza estate conosciuto anche come l’anno della povertà e Eighteen hundred and froze to death fu il 1816, anno durante il quale gravi anomalie al clima estivo nel lombardo Veneto tra aprile e maggio la neve ricopriva tutti i campi distrussero i raccolti nell’Europa settentrionale, negli stati americani del nord-est e nel Canada orientale. Lo storico John D. Post lo ha battezzato 44  J. Georgelin, Venise au siècle des lumières, Paris 1978. 45  Un’ampia disanima dei problemi alimentari italiani in Storia d’Italia. Annali 13. L’alimentazione a cura di A. Capatti, A. De Bernardi e A. Varni, Torino 1998. 40


“l’ultima grande crisi di sopravvivenza nel mondo occidentale”46. Devastante, con il suo carico di malattie, fu il biennio in terra veneta e lombarda, come nel resto d’Italia47. Sono gli anni del trionfo della zuppa Rumford (Benjamin Thompson del Massachuttes) povera di ingredienti: patate, orzo e acqua e un osso con la polpa. Scrive Gentilcore: “Gli abitanti delle aree montane lombarde erano costretti a sostentarsi con radici e foglie; attorno a Brescia e Bergamo ci si nutriva di erba e radici. A Tramonti (Treviso - ma in realtà Pordenone n.a.) la maggior parte degli abitanti erano cadaveri ambulanti, ridottisi a cibarsi di avena. Ad Andreis (Udine) i poveri non avevano che la pula del mais di cui cibarsi. A Gorizia la popolazione era ridotta a una dieta di lattuga e zuppa di erbe, e molto spesso mancava del tutto il mangiare. […] I contadini scavavano dal terreno i semi di mais e di legumi per mangiarseli …”48. E così in tutta Italia, ma in Francia e nei Paesi Bassi andò peggio. Partirà da lì la conquista della patata, soprattutto delle aree montane e in concorrenza, si fa per dire, con la polenta e il mais. Di questa primato conteso ne è consapevole Joanh Burger, agronomo carinziano che nel resoconto del suo viaggio, Reise durch Ober-Italien, edito a Vienna nel 1831, scrive: “[…] non si saprebbe nemmeno trovar male che gli italiani preferiscono la loro polenta ai pomi di terra così insipidi sin tanto che hanno libera la scelta tra questi due generi di alimento. In ogni paese è difficile introdurre una mutazione nell’alimentazione del popolo e , certamente, egli sarebbe in diritto di opporicisi volesse obbligarlo a mangiare pomi di terra in cambio di polenta; sarebbe anzi assurdo pretendere di surrogare affatto i pomi di terra al mais; però ardisco affermare che ogni artigiano troverebbe vantaggio accettando questo tubero come aggiunta alla polenta[…]49. Il problema è avere libertà di scelta! La triade della tre P è fatta: polenta, patate e pasta, nel Meridione, cibi da carestia, da riempimento con annesso peggioramento, in termini qualitativi, del regime alimentare con buona pace di Antoine Augustin Parmentier50. Le monocolture Sette-Ottocentesche e i comportamenti alimentari collegati sono la sintesi della secolare tendenza alla semplificazione della dieta popolare e la dipendenza diventa un reale rischio: Irlanda e pellagra padana docent. Le numerose inchieste post-unitarie, quelle del conte Stefano Jacini51 sull’agricoltura e quelle di A. Bertani52 sulle condizioni sanitarie dei lavoratori della terra, non faranno altro che certificare in alcuni casi, di fronte alle diverse Italie agricole, vaste aree di arretratezza e di miseria con annessi regimi alimentari e paesaggi appunto di miseria53. Recentemente la revisione storica attorno ai ritardi dell’agricoltura italiana e alle 46  J.C. Post, The Last Great Subsistence Crisis in the Western World, The Johns Hopkins University Press, Baltimora, 1977. 47 D. Gentilocore, Italiani …, cit. pp. 13-19. Inoltre il recente “Moia la carestia”. La scarsità alimentare in età preindustriale, a cura di M.L. Ferrari e M. Vaquero Pineiro, Il Mulino, Bologna, 2015; in particolare il saggio di E. Demo e M.L. Ferrai, Crisi e nuove colture: il dibattito agronomico sulla patata tra XVII e XIX secolo. Alcune considerazioni riguardanti l’Italia, ivi, pp. 325-341. 48 D. Gentilocore, Italiani …, cit., p. 16. 49 G. Burger, Agricoltura del Lombardo Veneto, Milano 1843, p. 50. 50 A.A. Parmentier, Les Pommes de terre considérées relativement à la santé et à l’économie : ouvrage dans lequel on traite aussi du froment et du riz, chez Monory, Libraire (Paris) 1774. 51  Sui risultati: Morpourgo E., Le condizioni della proprietà rurale e dell’economia agraria nel Veneto, in Atti della Giunta per l’inchiesta agraria, IV, II, Roma 1882. 52  A. Bertani, M. Panizza, Inchiesta sulle condizioni sanitarie del lavoratori della terra in Italia, Roma 1890. 53  Tre classici della storiografia sull’Inchiesta Jacini, ancora utili: D.D. Novacco, L’inchiesta Jacini, in Storia del Parlamento italiano vol. 17, Palermo 1963; A. Caracciolo, L’inchiesta agraria Jacini, Torino, 1973; A. Lazzarini, Contadini e agricoltura: l’inchiesta Jacini nel Veneto, Milano 1983. 41


sue contraddizioni, ad esempio l’aumento del prodotto lordo vendibile vs miseria della popolazione agricola, ha elaborato nuove serie statistiche, nuovi dati, più rigorosi, che complicano e sfumano, arricchendolo, il quadro generale54. Il Veneto, all’interno della Padania Felix, deteneva una sorta di primato: “The venetian provinces – esordiva con realismo il diplomatico inglese W. Nelthorpe – exibit great misery prevalent amongts the peasants, whose sad condition imperatively demands amelioration. Emilia and Tuscany are in a like condition” 55. Una regione gravata da vecchie e radicate magagne: una proprietà ferma su posizioni di rendita, scarse propensioni imprenditoriali agli investimenti e alla modernizzazione56, un carico demografico oltre il limite, un peso fiscale insostenibile, un case-study da manuale, con conseguenti e obbligati flussi migratori57, progressiva proletarizzazione di vasti strati di manovalanza agricola. Il lessico è datato? Possiamo compensare e attualizzare: precarizzazione, mobilità, co.co.co., contratti a termine, prestazioni occasionali legate a una variegata miscellanea di lavoratori agricoli: mezzadri, giornalieri, avventizi, braccianti, obbligati, accordati, bovari, salariati, chiusuranti o cesuranti58. Casse rurali, banche popolari, società di mutuo soccorso, latterie sociali, chiesa cattolica59: si cercò di ovviare e tamponare il crescente disagio. Assumerei la pellagra a spot per queste condizioni: “The food of the agricultural classes is poor and insufficient, consisting chiefly in maize polenta. The men alone drink half a pint of wine on holidays at the village inn”; se n’era accorto sir William60. Si faceva interprete di queste condizioni, dalle colonne del giornale diocesano di Treviso, La vita del popolo, Paron Stefano massariotto, alias Illuminato Cecchini: “Se tegno un musso, un can «Stefano paga» E, par pagar, bisogna che sparagna; Polenta suta par ben che la vaga… E lori i magna!”; così nel 1894 una delle terzine della sua poesia “Lori i magna” 61. Proprio l’inchiesta Jacini, spremuta, compulsata e usata, quasi abusata, ci racconta, con eloquio, il sistema alimentare del mondo contadino62. All’interno della Sezione VI, 54  Su questo si veda: G. Federico, L’agricoltura italiana: successo o fallimento in Storia economica d’Italia, in P. Ciocca e G. Toniolo (a cura di), 3. Industrie, mercati, istituzioni. 1 Le strutture dell’economia, Bari 2002, pp. 98-136. 55  W. Nelthorpe Beauclerk, Rural Italy. An account of the present agricultural condition of the kingdom, London 1888. 56  Su queste figure si veda C. Fumian, Proprietari, imprenditori, agronomi, in Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi, a cura di S. Lanaro, Il Veneto, Torino 1984, pp. 99-162. 57  Ampia la bibliografia, per tutti E. Franzina, Dopo il 76. Una regione all’estero in Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi, a cura di S. Lanaro, Il Veneto, Torino, 1984, pp. 469-575. Il tutto riproposto e aggiornato poi in E. Franzina, Storia dell’emigrazione veneta. Dall’Unità al Fascismo, Verona 1991; per l’emigrazione ottocentesca cfr. A. Lazzarini, Campagne venete ed emigrazione di massa (1866-1900), Vicenza 1981. Una decina d’anni fa sono usciti i primi risultati di una ricerca promossa dalla Fondazione Benetton Studi Ricerche dedicata all’emigrazione feltrino-bellunese in Brasile, con interessanti appunti sulle catene alimentari migratorie, A. Zannini, D. Gazzi, Contadini, emigranti, colonos. Tra le Prealpi venete e il Brasile meridionale: storia e demografia, 1780-1910, Fondazione Benetton Studi Ricerche-Canova, Treviso 2003. Si veda anche, F. Meneghetti Casarin, TrevisoGenova, andata e ritorno, Gli albori dell’emigrazione transoceanica e l’inchiesta dell’Ateneo di Treviso (1876-1878), Fondazione Benetton Studi Ricerche-il Cardo, Treviso-Venezia 1990. 58  Su questa “stratificazione” sociale, suggestivo il saggio di P. Brunello, Contadini e “repetini”. Modelli di stratificazione, in Storia d’Italia…, cit. pp. 859-909. 59 A. Gambasin, Parroci e contadini nel Veneto alla fine dell’Ottocento, Roma 1973. 60  W. Nelthorpe Beauclerk, Rural Italy…, cit. p. 200. 61 L. Vanzetto, Paron Stefano Massarioto. La crisi della società contadina nel Veneto di fine Ottocento, Vicenza 1982, p. 138-39. 62  A questo proposito e su quanto una fonte come questa possa raccontare molto si veda il fonda42


dedicata alle condizioni fisiche, morali, intellettuali ed economiche dei lavoratori della terra, il paragrafo 5° titolava: “Alimentazione, qualità e quantità”63. Non esisteva, lo diciamo subito, solo il mondo contadino ma rappresentava oltre il 70% della popolazione e su di loro gravava la produzione di quanto il mercato urbano e la nascente borghesia consumava: Pellegrino Artusi lo certificherà. Ancora: proprio queste fonti testimoniano l’estrema varietà dei regimi alimentari a seconda delle regioni, delle aree, della posizione nell’articolata scala sociale, delle stagioni, dei lavori: un conto è il mangiare del boaro, o del giornaliero, altro ancora quello quello del mezzadro o del piccolo fittavolo: “Così la fertile Ferrara, – scrive Luigi Tanari – dominadovi il sistema della boaria pura, ci presenta un’alimentazione piuttosto infelice, e così a un dipresso anche il Parmense, il Reggiano e parte del Modenese, per la prevalenza o la importanza delle boarie, dei famigli da spesa […] Rispetto alle classi, resta da mettere in rilievo la mostruosa differenza in peggio dell’alimentazione del giornaliero. Questo di regola mangia sott’ogni aspetto malissimo; ma non egualmente tutto l’anno. Di vero, nel tempo dei lavori, e di certi specialmente, il suo vitto diventa discreto o possibile; dacchè il proprietario che lo impiega suol dare a complemento di salario, il vinello che, per quanto infimo, è confortante più dell’acqua; e il contadino che lo prende a sussidio vi aggiunge parte del vitto. Ma nei tempi di ozio obbligato la penuria sta proprio alla porta e con essa il patimento, tant’è che parecchie risposte descrivono il vitto del bracciante con la seguente durissima formola: polenta e acqua”. Generalizziamo? No: “Formola in vero troppo rigorosa, ma non del tutto impropria. Dichiariamo, terminando, che vi sono differenze dell’alimentazione dipendenti dalle stagioni dell’anno, e prima di tutto ricordiamo che i coloni fanno almeno tre pasti al giorno, diversi tra loro e variabili nei diversi tempi. Si possono riassumere le differenze nella regola generale, abbastanza osservata, di proporzionare alle fatiche il valore nutritivo degli alimenti. I più nutritivi si consumano quando il lavoro è maggiore o è più grave. Pertanto il pane, la minestra, il vino e la carne (quando se ne mangi), vengono usati l’estate, massime per le mietiture, le falciature, le macerazioni della canapa, ecc. mentre pel verno si riserbano, la polenta, i legumi, il vinello e via dicendo”64. Pochi anni prima, 1876, il Ministero aveva condensato in alcune straordinarie tavole di sintesi le principali colture agrarie. Sarebbe interessante sovrapporre alle tavole le sintesi che verremo proponendo: ne dovrebbe risultare un primitivo atlante gastronomico65. mentale lavoro di A. Portincasa, Pasta secca e identità nazionale. Note di storia dell’alimentazione, tesi di dottorato, Alma Mater Studiorum, Università degli studi di Bologna, Dipartimento di discipline storiche, 2008, Tutor di tesi Alberto De Bernardi. Sulle valenze dell’inchiesta come fonte insostituibile per la storia alimentare si veda P. Sorcinelli, L’alimentazione nella storia e nelle fonti, in «Il Risorgimento», anno XLIV, n. 2, 1992. 63  Per il nostro racconto abbiamo usato queste monografie: Atti dell’Inchiesta agraria coordinata da Stefano Jacini, in particolare: Relazione del Commissario avv. Francesco Meardi, deputato al Parlamento, sulla settima circoscrizione (prov. di Cuneo, Torino, Alessandria, Novara, Piacenza e circondari di Bobbio e Voghera), Roma 1883; Relazione del commissario Comm. Emilio Morpurgo sulla XI circoscrizione (provincie di Verona, Vicenza, Padova, Rovigo, Venezia, Treviso, Belluno e Udine). Roma, 1882; Relazione del commissario conte Stefano Jacini, senatore del Regno, sulla X Circoscrizione (Provincie di Pavia -meno i circondari di Voghera e di Bobbio- Milano, Cremona, Mantova, Como, Sondrio, Bergamo e Brescia e Monografie agrarie allegate alla Relazione medesima), Vol. VI, fascicoli II-III-IV, Roma 1882. Si veda anche A. Rosani, Monografia agraria dell’intera provincia di Treviso e dei distretti di S. Donà e Portogruaro, Treviso 1880. 64  Atti della giunta per la inchiesta agraria e sulle condizioni della classe agricola, Vol. II, Fasc. I, Relazione del Commissario, Marchese Luigi Tanari, Senatore del Regno, sulla Sesta Circoscrizione (Provincie di Forlì, Ravenna, Ferrara, Modena, Reggio Emilia e Parma, Roma 1881, pp. 233-34. 65 MAIC, Atlante delle principali colture agrarie in Italia a corredo della relazione intorno alle condi43


L’estrema diversità e ragione sociale degli estensori delle singole Relazioni – medici, professori, ingegneri, sacerdoti, agronomi, senatori, deputati – fa si che ci si imbatta, specie nelle prolusioni, a parte valutazioni o dichiarazioni di stampo moralistico o filantropico, in primi e timidi accenni ai principi di una acerba scienza della nutrizione. Dal 1840 si era cominciato a parlare di proteine, grassi, carboidrati, calorie, vitamine, di carenze: con Justus Liebig, Max Rubner, Casimir Funk nasce la scienza nutrizionista66. Rosario Romeo, a proposito degli estensori della monografie, sottolineava: “Gli uomini dell’inchiesta sono legati a quel ceto di grossi proprietari liberali legati ad una concezione ottimatizia della vita sociale e politica e alla terra come attività economica dominante, che avevano condotto l’ala moderata del risorgimento, ma che adesso veniva scomparendo, con un po’ tutto il loro mondo ideale, dalla scena della storia”67. Sempre il senatore marchese Luigi Tanari, sopra ricordato, autore della relazione per l’Emilia Romagna, dopo aver certificato che “L’alimentazione delle genti agricole, benché composta sempre dei medesimi materiali, varia moltissimo da zona a zona, da luogo a luogo, da classe a classe, da stagione a stagione […]” sottolinea: “Ricordiamo anche la qualità onnivora dell’animale umano, onde per lui si richiede una determinata mistura di elementi carbonosi ed azotati, vegetabili ed animali più il complemento di taluni condimenti, massime il sale”68. é lunga e prolissa, ma molto documentata sui risultati della novella scienza della nutrizione, l’introduzione del dottor Bartolomeo Besta, medico e relatore per la Provincia di Sondrio, valtellinese. Parte dall’etimo della parola alimento: “…i fisiologi definirono l’alimento: una sostanza che introdotta nell’apparecchio digestivo ripara le parti estrattive del sangue, e rinnovella e mantiene l’organismo”. Prosegue: “Gli studi accuratissimi della chimica organica, fra innumerevoli prove e sottili esperienze, hanno condotto i fisiologi a concludere che gli elementi primi, base d’ogni assimilazione digestiva, sono forniti dall’azoto, dall’idrogeno e dal carbonio. I principi azotati sono la sorgente delle riparazioni del corpo, ed essi soli possono convertirsi in carne: l’idrogeno invece, ed il carbonio, presentano la parte combustibile all’ossigeno introdotto nel sangue per mezzo della respirazione, e con una lenta combustione sviluppano e mantengono la termogenesi e l’attività dei movimenti della vita”69. E avanti per pagine e pagine, citando Liebig, Mantegazza, un vero vademecum, con citazioni colte e aforismi. Bello quello del Lancisi: “Che come è il cibo, così è il chilo; come è il chilo così è il sangue; e come è il sangue, così è lo spirito.” Discetta sulle diete, sui regimi alimentari legati all’età, sui fabbisogni. “Questa norma – sottolinea – dovrebbe servir di guida al Governo per regolare il mantenimento del soldato, e del prigioniero; ai conduttori di stabilimenti di educazione, e di ospizi pel modo di trattare i collegiali od i ricoverati. E questa stessa norma dovrebbe sciogliere, per naturale diritto, gli obblighi del proprietario verso i suoi dipendenti; e gli obblighi pure assoluti della società verso il colono, ed il povero. Il pauperismo – chiosa – come avverte saggiamente Mantegazza, deve essere distrutto dalla scienza, non dalla filantropia; deve essere reciso dal ferro della zioni dell’agricoltura nel quinquennio 1870-74, Roma 1876. 66  Molta la bibliografia. Per una sintesi si veda “A short History of Nutritional Science”, I-II-II-IV in Journal of Nutritional Science, Cambridge, 2003. 133, pp. 638-645, pp. 975-984, pp. 3023-3032, pp. 3331-342. 67  R. Romeo, L’inchiesta agraria Jacini e le prospettive economiche dell’Italia unita, in «Notiziario Einaudi», VII, 4 dicembre 1958, p. 10. 68  Atti della giunta per la inchiesta agraria e sulle condizioni della classe agricola, Vol. II, Fasc. I, cit., p.231. 69  Atti della giunta per la inchiesta agraria..., Vol. VI, Fasc. II, cit., pp. 219-220. 44


società, non accarezzato col balsamo impotente della carità cittadina”70. Echi straordinari dell’imperante cultura positivista, fiducia nella scienza: la Scienza in cucina chioserà di lì a poco Pellegrino Artusi. Poi si intrattiene sui modi di cucinare e, dimentico che si sta rivolgendo ad un mondo a cui la carne pareva un sogno, scrive: “La maniera più antica, ed anche più semplice , di cuocere le carni è l’arrostitura. Già i nostri padri gettavano la carne sulla brage; od infilata in uno schidione, l’avvicinano al fuoco: in tal modo le si conserva tutta la sostanza nutritiva, ed anche il suo aroma particolare. L’arrosto allo spiedo è molto superiore ad ogni altro – confermo! – ed il roastbeef, ed il beefsteack sono cibi eccellenti e di facile digestione”71. Provocazione pura dai …Bartolomeo: stai parlando di semi-pellagrosi e ti metti a disquisire ce-ce se è meglio rost-beef o il beefsteack. Poi la narrazione, elegante, letteraria, racconta: “Egli pertanto – il contadino valtellinese – sorge mattiniero, e si disperde nei campi e consuma circa un paio di ore di lavoro a stomaco digiuno. Fra le sette e le nove antimeridiane, a seconda della stagione, fa il suo pasto più abbondante della giornata, e questo consiste, si può dire indubitabilmente per tutti, e per tutti i giorni dell’anno, in polenta fatta con farina di zea mais, o di polygonum fagopirum, detta volgarmente fraina o formentone – grano saraceno – e quella polenta è accompagnata da scarso companatico di formaggio giovane, dolce, o da latte di vacca o di capra”. A mezzogiorno secondo pasto “[…] detto merenda, ed in questo si mangia un panettello di farina di segale, o di granturco, o polenta fredda: pochi accompagnano tale cibo con qualche companatico: alcuni vi uniscono piccola quantità di cacio o qualche pezzetto di salsiccia”. Speriamo che la sera sia meglio: “La cena è imbandita con minestra di semi di miglio, di panico, o di orzo brillati; talvolta di riso, o di tagliatelle fatte con farina di fagopiro – pizzoccheri – ed anche di segale. Questi componenti il bollito nuotano fra una densa farragine di verdure, di legumi e di patate, sicchè non sempre si saprebbe con quale nome battezzare la minestra stessa, ove si volesse desumerlo dalla sostanza che più abbonda della miscela. Il condimento di tanta copia di intingoli è dato da piccola dose di grasso animale o di burro, e spesso da latte di capra o di giovenca”72. Altroché rostbeef, Bartolomeo! E poi via a discorre dei singoli prodotti, del vino, delle castagne, della patata: “La patata che riesce più nutriente pel povero è quella cotta sotto la cenere, conservando in quel caso tutte le sue virtù” 73. Abbiamo cercato di condensare in alcune tabelle di sintesi la composizione di queste “diete” contadine74.

70  Ivi, pp. 222-23. Paolo Mantegazza (1831-1910) è stato fisiologo, antropologo, patriota. Autore prolifico. Si veda la voce P. Mantegazza in Il Dizionario Biografico degli Italiani, vol.69, a cura di G. Armocida e G.S. Rigo, Roma 2007, con ricca bibliografia sulle opere dell’autore, ad esempio L’arte di conservare gli alimenti e le bevande, 1887; La falsificazione degli alimenti e delle bevande, 1888. 71  Ivi, p. 227. 72  Ivi p. 230. 73  Ivi. p. 237. 74  Per la Lombardia si veda F. Della Peruta, L’alimentazione dei contadini nella Lombardia dell’Ottocento, in «Il Risorgimento», a. XLIV, n. 2, 1992, pp. 187-199. 45


Tab. 4 Composizione del regime alimentare contadino: Sondrio Area Sondrio (Valtellina)

Colazione

Pranzo

Cena

Note

Polenta di mais o di fraina o formentone (polygorum fagopirum) + formaggio dolce e giovane, latte di vacca o di capra Oppure “stiacciata di fagiuoli, o di patate, bollite nell’acqua poi fritta con burro, o lardo o grasso e vi si mischiano molte volte o verze o rape ad altre verdure” Ma anche un panetello di farina di segale

Detto merenda: panettello, polenta fredda poco cacio o poca salsiccia

Minestra di semi di miglio, di panico, o di orzo brillato, talvolta di riso o tagliatelle di fagopiro (pizzoccheri) e di segale. Il tutto con una densa “farragine di verdure, di legumi e di patate”. Si condisce con grasso animale, burro e da latte di capra o di gioevenca.

I più poveri solo patate. “Il latte è una carne liquida e diluita” Anche polenta di castagne Altro discorso per i benestanti Mescolanza di cucine lombarda e germanica Pizzoccheri e polenta taragna L’uso del vino è generalissimo. “è l’alimento nervoso per eccellenza…” Distinzione tra agricoltori che abitano in pianura e colline-montagna: molto più sani.

Tab. 5 Composizione del regime alimentare contadino: Lomellina, Mortara, Pavia Colazione

Pranzo

Lomellina Pane di meliga e Mortara

Minestra di riso con legumi con lardo o olio pane di melega e segala

Pavia

In generale Polenta e pane giallo cipolla aglio lardo Rare rane poco riso pochi erbaggi e fagioli Molto pane di melicotto

Polenta e pane preparati con farine pessime e tempi di cottura veloci…

Cena Pane di melega e segale

Note Grande quantità di rane Parmigiano Parmigiano Stracchini Mascarponi–mascarpa dolce Robiole Formaggi bianchi Ricotta Agra scotta

Tab. 6 Composizione del regime alimentare contadino: Lodi- Cremona- Lecco Area Lodi

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Colazione Pane ½ Kg

Pranzo Minestra di riso o paste con verdure, pane e companatico di salame o formaggio, oppure polenta in sostituzione alla minestra e al pane

Cena

Note

Formaggi: Grana Merenda: pane con acqua acetata e Granone Stracchini tipo Gorgonzola vinello Cena: polenta o minestra

In generale Pane di granoturco cotto ogni otto quindici giorni Riso condito con lardo e verdure Formaggio di scarto pesci salati rane In complesso 1,5 kg di pane


Cremona Polenta e formaggio

Polenta e uova Polenta e mascherpa secca

Merenda: pan biscotto/polenta e cipolla o pere cotte Cena: minestra o polenta e formaggio

Lecco

Pane o polenta , qualche latticino, insalata o verdure condite con burro o olio

Minestra di riso o pasta con cavoli, fagiuoli, patate, rape …in brodo condito con latte o lardo e sale.

Pane o polenta del giorno innanzi intrisa in latte o brodo di lardo

Formaggio grana In generale Polenta di pessima qualità Pane di frumento e di segale due tre volte l’anno “sempre biscotto perché si conservi” Giorno dei morti: pane di melicotto, d’avena e di miglio Pane di farina di castagne (farina castagnazza) detto Pattona

La forzata sintesi delle tabelle non dà conto alle volte della ricchezza delle annotazioni. Giacomo Marenghi, medico, sta disquisendo sulle carni: “Le carni consumate dal contadino sono pochissime, e forse di qui la disposizione a risentire i tristi effetti del maiz, specialmente se guasto. Quella di manzo non bolle nella sua pentola che due o tre volte l’anno, e quella di pollo è mangiata durante una convalescenza, pel Natale, per pasqua, e il di della sagra. Polli se ne allevano molti ma si vendono per sopperire alla perpetua mancanza di contanti. Piuttosto – chiosa – si mangiano, quando però se ne possono avere, rane, pesciolini, gamberetti e lumache”. Poi si lascia andare, davvero: “L’istinto per la carne vige sempre e con costanza naturale: peccato che il contadino non s’adoperi per soddisfarlo adeguatamente – questione di volontà, di sicuro! – Infatti egli potrebbe mangiare la carne dei gatti di cui ne mantiene inutilmente una quantità grande, me ne ha ribrezzo”… a differenza dei Vicentini!75. Prese nel loro insieme, dalla montagna alla pianura, è evidente come cambia il regime, a seconda delle risorse, ma anche del regime di proprietà e di conduzione, della condizione lavorativa. A Mantova, dopo aver constatato che la base dell’alimentazione è la polenta, Enrico Paglia geografizza i diversi regimi: “Nell’alta provincia, ossia nella prima zona confinate col Bresciano, il contadino si alimenta di polenta, pochi latticini, pane di frumento, comprato dal fornaio, ma di pessima qualità, pochissima carne, salumi, baccalà, cacciagione, poco e magro pesce (essendo scomparsi i gamberi di cui prima del 1860 approfittava largamente), verdure, frutta, più acquavite che vino, ed acqua eccellente”. A scendere: “Nella parte irrigata della seconda zona, confinate col Veronese e Rovighese, si mangia riso in minestra condita con poco lardo od olio, polenta, pesce, carne ogni otto giorni, uova, patate, cipolle, scarso pane, quasi punto vino ed acqua cattiva. Nella parte asciutta verso il Cremonese, si vive di polenta, fagiuoli, pasta in minestra condita d’olio o di lardo, pane di frumento, pochi latticini, carne ogni otto giorni, ed una volta la settimana focaccia impastata con farina mista di frumento e di frumentone e cipolle o noci, detta chizzolo; vinello per tre quarti dell’anno, verdure, cocomeri, ed acqua poco buona”. La geografia si precisa: “Nel resto della provincia il trattamento è migliore, ed il contadino si alimenta di pane di frumento, misto verso il Modenese di fava, polenta, riso, minestra con pasta di frumento, uova, latticini, polli, carne di maiale e di bue, pesce, salumi, verdure, patate, cipolle, fagiuoli, vinello per tre quarti 75  G. Marenghi, Il circondario di Cremona in Atti della giunta per la inchiesta agraria e sulle condizioni della classe agricola, Vol. VI, Fasc. II, cit. p. 498. 47


dell’anno, ed acqua abbastanza buona”. Quanta materia, anche per i patiti e i nostalgici del magnar de na ‘olta, ma anche per le pro-Loco e le loro laicissime sagre e confraternite. Tutto vero, ma subentrava la stagionalità, come ricordato sopra per l’Emilia Romagna, ma non nell’accezione retorica del presente pontificare. Ascoltate: “Tutti questi alimenti il contadino riesce a procurarseli d’estate con sufficiente abbondanza, principalmente durante quei lavori pei quali, oltre la mercede, il padrone somministra anche il vitto. Ma nell’inverno – qui vi voglio – la maggior parte dei braccianti disobbligati, si trova ridotta a vivere di sola e scarsa polenta, con companatico di peperoni od aringhe e pura acqua per bevanda”76. E, mutatis mutandi per il Veneto funziona lo stesso schema77. A Verona domina come piatto unico la polenta di farina di granoturco accompagnata, come companatico da latte, latticini, cacio, ricotta nella montagna e da salumi, lardo, broda di caffè, vinello, insalate verdi in estate, aringhe e sardelle salate in inverno nei versanti prealpini. Quanto alla carne di manzo, di vitello, di castrato o di maiale fresco il consumo era riservato alle maggiori festività. Si consumavano inoltre, sempre nei giorni festivi, minestre di tagliatelle, condite con lardo, olio, e qualche pezzo di capra salata ed affumicata. In collina ci si concede del vinello e qualche botticella di vino buono abbinato, si direbbe oggi, ad aringhe e sardelle. Due volte alla settimana il convento passa minestra di pasta con fagioli conditi con lardo e con l’olio di oliva “confezionato in paese”. Meno ricca la mensa della pianura: cessa il vino in casa, il vinello è rarissimo. Largo consumo di formaggio pecorino, lardo, cipolle, aglio, pesce salato e fresco, insalata e radicchio cotto durante l’estate. Durante le feste sempre minestra di riso, pasta con fagioli, conditi con lardo e qualche pezzo di salame cotto che serve anche per la cena. Rare volte carne di bue o un pollo magro, mentre al lago di Garda si consuma del pesce, come pure nelle risaie. A chiosare, ce ne fosse bisogno: “I companatici crescono nelle famiglie dei coloni e dei contadini proprietari e diminuiscono ai braccianti avventizi, che sovente sono costretti di adattarsi a poca polenta con poco sale”. A Vicenza, in tutte le famiglie si mangia polenta, calda a mezzogiorno, mentre a colazione e cena abbrustolita, poca carne, pollo nelle famiglie benestanti, “Ma in che parca misura” si sottolinea. Largo consumo di carne di maiale, di fagioli, di verze e di pesci salati e secchi (sardelle, aringhe, baccalà…), ma per i salariati solo polenta con un po’ di companatico, in compenso hanno orto e vinello. Per i braccianti il regime prevede polenta, aglio, aringa, salame “di cui ogni membro della famiglia percepisce una porzione tanto piccola che quasi sarebbe lo stesso non vi fosse”. In sintesi a colazione e a cena polenta e formaggio, a pranzo zuppa di fagioli o riso con carne di maiale. La mietitura, la celebre tubia cantata dagli scrittori pavani, diventa momento di festa, di sontuoso pasto: un litro di vino nero a testa al giorno e il vitto. Diffusa l’abitudine del caffè con cicoria: polenta e caffè.

76  E. Paglia, La provincia di Mantova, in Atti della giunta per la inchiesta agraria e sulle condizioni della classe agricola, Vol. VI, cit., p. 865. 77  Per il Veneto: Relazione del commissario Comm. Emilio Morpurgo,cit. 48


Nel resto del Veneto questo era il menu: Tab. 7 Composizione del regime alimentare contadino: Veneto Città

Cadore Agordo Fonzaso Castelfranco Treviso

Asolo Montebelluna Oderzo Rovigo Padova Conselve Este Chioggia Dolo Vigonovo Mirano Santa Maria di Sala Scorzé

Alimenti polenta e patate polenta, minestra di orzo, patate polenta e formaggio e polenta e fagioli e patate polenta, cacio, legumi, baccalà, aringhe polenta, uova, cacio, frutti, lardo, fagioli, pesci secchi e salati, vinello in inverno, acqua corretta con aceto in estate polenta, fagioli, latticini, insaccati polenta, fagioli, patate, latticini ed erbaggi vinello polenta fagioli, poca carne di pollo, pesce e salumi polenta, erbaggi e fagioli, minestra, risi, polli maiale in poca quantità polenta, fagioli, acqua non sempre sana, qualche volta riso, Natale e Pasqua: manzo polenta, i grandi fittavoli carne di pollo e di maiale e pesce polenta e generi vegetali, aglio, cipolle, insalata, i grossi fittavoli riso e nelle feste l’arrosto polenta, riso, fagioli, pesciolini pescati nei fossi, rari caffè, vino e latte polenta, pesce fresco e salato, salumi e cacio, erbe cotte e crude (i massariotti) anche carne e vinello fittavoli: polenta, fagioli, baccalà, pesce salato, formaggio ed erbaggi, nei dì di festa riso e carne di pecora o di bue polenta, merluzzo, pesce, carne salata e chi può latte e cacio polenta, erbe e formaggio salariati: polenta e acqua - “massariotti”: erbe, salumi, fagioli, riso all’olio per minestra, carne di vacca alla festa, qualche fetta di salame e “vinello marcio”.

Da notare la poca presenza della patata, nonostante il reverendo Talamini, parroco cadorino, ci racconti con entusiasmo le sue qualità78. Filippo Re annotava che sì, è stato il bisogno a favorire l’adozione della patata, ma che si deve alla tenacia del reverendo la battaglia vinta, superando “le opposizioni de’ contradditori”. Belle le annotazioni culinarie “Bollite con poca acqua forniscono, si può dire, per intero la cena a quasi tutti i contadini nella stagione in cui non sono occupati a lavori del campo, del prato o del bosco, cioè per sei e più mesi, a cui uniscono una bevanda di latte ed acqua bollita con pochissima farina. Preparate in varie guise fanno parte di molti pransi. Cucinate sotto la cenere contentano i fanciulli – una benedizione divinava – Il mendicante trova un sollievo. Gli animali pure partecipano con profitto. Qualche porzione si vende anche al piano. Si sa cavar l’amido; e quello che sarà di maggior utile si farà uso per nutrire i teneri vitelli […]”79. 78  F. Re, “Annali dell’Agricoltura del Regno d’Italia”, Memoria sull’agricoltura del Distretto di Cadore, dipartimento della Piave, del sig. Giacomo Antonio Talamini, parroco di Borca, tomo XX, (1813), pp. 133-157. 79  Ivi p. 134 e p. 144. Si veda anche: M. De Marchi, Dell’agricoltura nel distretto di Cadore nel dipartimento della Piave. Memoria, in “Annali dell’Agricoltura del Regno d’Italia”, III (1811), tomo XII, pp. 193-207. Per il bellunese in particolare rinvio a D. Gasparini, “Ond’è necessario per supplir al bisogno provedersi alle basse”. Il sistema alimentare della montagna bellunese tra penuria e ragioni di scambio in Montagne di cibo. Studi e ricerche in terra bellunese a cura di I. Da Deppo, D. Gasparini, D. Perco, Feltre, 2013, pp. 11-62. 49


La patata, scrive più tardi l’avvocato Riccardo Volpe, autore di una importante monografia sul Bellunese, “[…] è un cibo di supplemento, è in generale la tavola bianca degli alpigiani e non è l’alimento che di poche famiglie assolutamente, e nello stretto senso della parola, miserabili” 80. In quegli stessi anni il MAIC dava alle stampe una sua inchiesta sulle condizioni dei contadini nel bellunese. Non è un bel quadro. Esordisce: “È facile immaginare quale ne sarà il bilancio familiare e quanta la miseria di queste classi: basti dire che il suo vitto consiste generalmente in polenta senza sale-il più delle volte fatta di granoturco guasto- e raramente companatico. Le donne di questa famiglia filano l’inverno guadagnando pochi centesimi al giorno: l’estate vanno a lavorare nei campi per uno scarso vitto e per un salario, che varia dai 20 ai 40 centesimi al giorno. I ragazzi vanno mendicando fino a quando possono allogarsi, per un po’ di polenta, in qualche famiglia agricola o più spesso in aiuto ai pastori. I vecchi , finché si reggono, vanno alla questua e dalla questua passano allo spedale, quando non muoiono d’inedia e di logorio entro ai malsani casolari” 81. Quanto ai mezzadri viene specificato: “Soltanto in caso di grave malattia, o di feste solenni usano i mezzadri cibarsi di carne fresca; anche i salumi di pesce (?) sono poco usati, ordinariamente nei giorni di stretto digiuno. Il riso, i piselli, le fave, le lenti non entrano nel bilancio della economia se non in eccezioni tanto rare che quasi si sottraggono alla disanima: i frutti sono in via ordinaria ceduti al proprietario così pure quasi tutto il prodotto dell’uva […] Il solo capofamiglia beve ordinariamente un bicchiere di vino la festa, gli altri non ne assaggiono che i giorni di mercato, dove è costume stringere i contratti all’osteria, e bevono soltanto un po’ di vinello l’estate durante i lavori del campo e qualche po’ di acquavite l’inverno. Il caffè – conclude- può dirsi sconosciuto ai coloni: lo mescolano però qualche volta con la cicoria, ma in quantità tanto ristretta da non poter essere calcolata”. Sono degne le osservazioni riservate al mais: “Il prodotto del granoturco è insufficiente ai bisogni; tuttavia sarebbe desiderabile (come da qualcuno si è tentato di fare) che fossero allargate le conquiste del prato sul campo, coltivando il mais soltanto per sistema di rotazione…”82. Allora, non è nostra intenzione sposare tesi pauperistiche, ma vale quanto si diceva per la Lombardia. Si tratta di regimi alimentari che producevano “corpi malati”, in perpetuo deficit calorico e proteico, candidati di sicuro alla pellagra. Sull’Inchiesta di Agostino Bertani, medico chirurgo nato a Milano, molto attento alla questione sociale, parlamentare dell’estrema sinistra radicale, molto si è detto. Come scrive Portincasa, “Da una parte Jacini era per lo più interessato alla situazione agraria nel contesto del quadro economico-produttivo, dall’altra Bertani riteneva necessario indagare le relazioni sociali e le condizioni di vita dei lavoratori agricoli”83. Più attento alle condizioni igienico sanitarie e alle malattie, Bertani traccia un quadro di sintesi esaustivo. Ma non ci attardiamo su questa straordinaria fonte, e anche su 80  R. Volpe, Terra e agricoltori nella Provincia di Belluno, Belluno 1880, p. 238. 81 MAIC, Notizie intorno alle condizioni dell’agricoltura negli anni 1878-1879, Vol. III, Roma 1882, p. 624. 82  Ivi p. 630. 83  Sulla pellagra, per ogni capriccio o sfizio bibliografico, si veda l’importante lavoro di C. Bertolotti, La pellagra. Bibliografia degli studi dal 1776 al 2005, Mantova 2009; in particolare A. De Bernardi, Il male della rosa. Denutrizione e pellagra nelle campagne italiane, Franco Angeli, Milano, 1984. Non possiamo non citare però il lavoro di L. Vanzetto, I ricchi e i pellagrosi. Costante Gris e la fondazione del primo pellagrosario italiano (Mogliano Veneto 1883), Abano Terme, 1985; A. Portincasa, Pasta secca e identità meridionale..., cit., p. 30; A. Bertani, M. Panizza, Inchiesta sulle condizioni sanitarie dei lavoratori della terra Italia, Roma 1890. 50


quella dedicata ai comuni del Regno coeva84, altri meglio di noi ne hanno parlato. Solo sottolineare ad esempio quanta attenzione venga data all’alimentazione dei bambini e alle connesse malattie da carenza. Preferiamo arrivare a fine secolo, quando quella scienza tanto invocata procede, strumenti alla mano, a certificare quanto le inchieste avevano raccontato. Ci riferiamo in particolare agli studi di Albertoni e Novi dedicate al bilancio nutritivo del contadino italiano e della famiglia borghese italiana a confronto, con preziose informazioni anche sulle razioni del soldato italiano, visto il centenario in corso85. A corroborare gli studi anche lo sviluppo della recente industria alimentare. Cosa offriva l’industria alimentare? È pari al 35% della produzione industriale: ha un basso valore aggiunto, è ancora strutturata in piccole imprese se si fa eccezione per l’industria molitoria e saccarifera, molto locale e poco meccanizzata. Grandi novità sul piano della conservazione vennero introdotte grazie a Nicolas Appert e Louis Pasteur, alla nascente industria della refrigerazione e anche, perché no, ad Henri Nestlé. I due, Albertoni e Novi, procedono con scrupolo e con tutto il metodo e gli strumenti che la novella scienza mette in campo. Tutto viene pesato e misurato: pasti, feci, urina, ore di lavoro, tipo di lavoro, movimento: la famiglia borghese viene dotata di pioneristici podometri, antenati dei moderni Garmin, app comprese. I campioni delle famiglie scelte. La famiglia contadina è di Cona, Ferrara ed è composta da: Luigi Carletti 39 anni, giornaliero, sa leggere e scrivere stentatamente, pesa 68 kg. ed è alto 168 cm., la moglie, Maddalena Mazzoni, 38 anni, si sposa a 22 anni, ha sei parti, un bambino solo sopravvive, analfabeta, pesa 50 kg, è alta 152 cm e dal figlio Giuseppe Carletti, 14 anni che d’inverno fa il calzolaio. La famiglia borghese invece, di Ferrara, è composta dal capo famiglia – ci vengono dati solo le iniziali dei nomi… privacy per lor signori! – che lavora in un laboratorio chimico e parte della giornata si dà allo studio, alto 163 cm e pesa 73 kg, la moglie attende alle faccende domestiche, alta 1,60 cm per 44 kg, il bambino non fa nulla, alto 1 m e per 14,8 kg. La conta dei passi: l’uomo 15.830 passi al giorno, la donna 14.997, il ragazzo 12.763. Nell’inverno, 3-4-5 marzo, i Carletti consumano, in due pasti giornalieri, polenta, minestra, aringa, lardo, farina di castagne. La polenta viene mangiata o appena fatta divisa in fette, lasciata un po’ freddare o abbrustolita al fuoco. La minestra è servita con pasta e fagioli cotti nell’acqua con aggiunta di lardo e cipolle soppestati. Due aringhe servono per il pasto di tutte le tre persone, vengono cotte ai ferri, il lardo fritto nella padella la farina di castagne è stesa sulla polenta e mangiata così. Questi i consumi nei tre giorni invernali. Tab. 8 Consumi invernali della famiglia Carletti 3-4-5 marzo 1892 Cibi Polenta fresca Polenta arrostita Pancetta o lardo

Uomo 2,174 kg 3 kg 37 gr

Donna 1,68 kg 2, 46 kg 19 gr

Ragazzo 0,837 gr 2,46 kg 19 gr

Totale 4,691 kg. 7,920 kg. 75 gr.

84  Direzione Generale Della Statistica, Risultati dell’inchiesta sulle condizioni igieniche e sanitarie nei comuni del Regno, Roma, 1886. 85  P. Albertoni e I. Novi, Sul bilancio nutritivo del contadino italiano, in Memorie della Reale Accademia di Scienze, Istituto di Bologna, Serie V, Tomo III, pp. 779-825, Bologna 1894; Sul bilancio nutritivo di una famiglia borghese italiana, Memoria della Reale Accademia di Scienze, Istituto di Bologna, letta nella sessione del 26 aprile 1896, confluite poi in P. Albertoni e A. Pugliese, Studi sulla alimentazione, Napoli 1937, pp. 1-37 e pp. 39- 107. 51


Minestra Aringa Farina di castagne Totale calorie

1,65 kg 65 gr 71,5 gr 3.751,5

1,65 kg 32 gr 71,5 gr 2.925,8

1,64 kg 32 gr 71,5 1963,9

4,94 Kg. 129 gr. 211,5 gr. 8.641,2

Il menù varia nel periodo estivo. Il pane sostituisce la polenta, cotto male con poco lievito, con farina di frumento, in pagnotte abbinate da 150 gr. La minestra viene servita con pasta e fagioli cotti nell’acqua con aggiunta di lardo e cipolle soppestati. In aggiunta gran quantità di cocomeri e un assaggio di tonno, 250 gr e un po’ di formaggio. Cambia il ritmo dei pasti, diventano quattro. Tab. 9 Il ritmo e i cibi consumati dei pasti estivi del contadino 13 -14-15 agosto 1892 Orari

Cibi consumati

12. 00 Pranzo

Uomo Pane, tonno ,acqua Pane e cocomero Pane e acqua Minestra pane e acqua Anche gli altri giorni ------------------Tonno pane acqua Pane formaggio e acqua Pane formaggio e acqua

8.30 Colazione 1° giorno 2° giorno 3° giorno 17 merenda 20.00 Cena 2° giorno 3° giorno

Donna Panne, tonno ,acqua Pane e cocomero, acqua Pane e acqua Minestra pane e acqua Anche gli altri giorni Pane Panne, tonno ,acqua Pane formaggio e acqua Pane formaggio e acqua

Tab. 10 Consumi estivi della famiglia Carletti 13-14-15 agosto 1892 Cibi Pane Tonno Cocomero Minestra Formaggio Totale calorie

Uomo 2,288 Kg 104 gr 0,976 Kg 3,316 Kg 83 gr 3.168,2

Donna 1,701 Kg 78 gr. 0,810 Kg 3,638 kg 67 gr. 2.263,9

Ragazzo 1,073 Kg. 82 gr. 0,746 Kg. 1,650 Kg. 75 gr.. 1473,8

Totale 5.062 Kg. 0.264 Kg. 2,532 Kg. 8, 604 Kg. 225 gr. 6.905,9

Non per assecondare morbose curiosità, ma nei tre giorni i Carletti rilasciano circa due chili e mezzo di merda, pardon fecce e quasi 10 l. di urine. Gli autori non possono non segnalare una certa ritrosia dei Carletti a sottoporsi a tali certificazioni chimiche della loro grama vita, violando quel poco di intimità... an cin di pudore: “A ciò inoltre si opponevano vivamente gli stessi individui, che circondati da persone ignoranti e ignoranti essi stessi, mal si prestavano a queste prove, cui erano attratti solamente dal desiderio di lucro e dall’autorità di chi – il proprietario della casa e del terreno che lavoravano – li aveva convinti ad acconsentire”86. Il ragguaglio è scontato: “Il bilancio ha un così grave deficit d’albuminoidi nell’inverno, perché in questa stagione i contadini mancano più che in altre dei mezzi necessari a procurarsi l’alimento. Nel periodo estivo[…] il guadagno maggiore del solito per il maggior lavoro eseguito permetteva a questi contadini di soddisfare interamente al loro appetito. Ciò vuol dire che la fisiologia conferma qui luminosamente come il contadino mangi quando ne ha, o può procurarsene; e per le sue condizioni economiche si trovi esposto

86  P. Albertoni, A. Pugliese, Studi sulla alimentazione…, cit., p.9. 52


a trasgredire inesorabilmente alle norme fisiologiche . La sua integrità fisica è subordinata ai guadagni e si comprende come egli nello inverno soprattutto, sì per questa che per altre cause, si trovi esposto ad ammalare”. Lo avevano capito gli estensori dell’inchiesta Jacini, ma ora, inoppugnabile, la scienza aveva suffragato il tutto con pesate, analisi, elaborazioni, conti. A seguire le conseguenze: “Il fatto che il contadino esce dalla stagione invernale così indebolito per il deficit nel suo bilancio degli albuminoidi getta qualche luce sull’infierire della pellagra nella primavera, cioè quando il contadino stremato nella nutrizione ritorna a faticosi lavori. L’organismo è sempre in stato di fallimento e sta in piedi per l’introduzione abbondante di carboidrati ed il risparmio di albuminoidi che può aver fatto nell’estate. Ma se per un momento le forze digestive ed assimilative vengono a fare difetto si capisce che il disastro è pronto: egli non ha nulla in riserva per farvi fronte. Il nostro bilancio nazionale rispecchia fedelmente queste condizioni”87. E allora è pellagra. Scriveva I. Giglioli: “Si può calcolare che, fra polenta, pane giallo, e focacce di granturco, circa due terzi dei contadini italiani, specialmente nel Piemonte, nella Lombardia, nel Veneto, nell’Emilia, nella Campania e nel Lazio, vivano principalmente di granturco”. Ergo “Con questo cibo troppo esclusivo, e spesso malsano, si genera la pellagra, flagello di tante delle più fertili campagne d’Italia, che miete ogni anno, in tutta Italia, da 3.000 a 4.000 vittime, mentre contamina e infievolisce un numero decuplo di quelli che uccide […]”88. I Carletti, sicuri candidati. Ma non vi è rimasta la curiosità di sapere come si nutriva il nostro tecnico ferrarese? Et voilà una tabella sintetica. Tab. 11 I Consumi invernali della famiglia borghese. 25-26-27 febbraio 1895 Cibi

Pane Caffè e latte Tonno Patate lessate Patate fritte Purée di patate Pasta in brodo Riso in brodo Riso con burro Risotto Fritto (testa di vitello) Salame (cotechino) Cotolette Pollo lessato Fegato sui ferri Fichi secchi Vino Caffè Torta Totale calorie

Uomo

1,04 Kg ------------113,5 gr. 156 gr 144 66 gr 336,5 gr 311,gr -----307,5 gr 67,5 gr 33 gr 73,5 gr 106,5 gr 96 gr 69,8 gr 1,6 kg. 300 gr 128,3 gr 2.726,5

Donna

0,59 Kg 627 gr 104 gr 181,5 gr 148,5 36 gr 324,5 288 gr ------301,5 -----

29 gr 74 gr 83,5 gr 51 gr 89,2 gr 1,06 Kg 600 gr (infuso) 132,9 gr 2.537

Ragazzo

0,48 Kg 120 gr 64,2 66,8 gr 105 gr 32 gr 100,5 gr 297 gr 170,5 gr ------46 gr

27 gr 51 gr 39 gr 28 gr 54,2 gr 0,547 kg ------94,3 gr 1415

Totale

2,11 Kg 747 gr 281,7 gr 404,3 gr 397,5 gr 134 gr 761,5 896 gr 170,5 gr 609 gr 113,5

89 gr 198,5 229 gr 175 gr 213,2 gr 3,2 kg. 900 gr 355,5 gr 6.678,5

87  Ivi, p. 32. 88  I. Giglioli, Malessere agrario ed alimentare in Italia, Portici, 1903, p.213. 53


Credo che non servano commenti e sulla varietà e sulla quantità di quanto mangiato secondo un ritmo regolare e codificato dei pasti. “In complesso dunque il materiale alimentare, che si trovò a disposizione della famiglia borghese durante il periodo invernale di prova fu più vario e più ricco ancora di quello estivo; accentuandosi così il distacco da quello che avvenne per la famiglia dei contadini, i quali avevano a loro disposizione nell’inverno un’alimentazione più limitata per varietà, più povera per qualità, più meschina per quantità di principi nutritivi”89. Ecco invece i consumi estivi. Tab. 12 I Consumi estivi della famiglia borghese. 17-18-19 luglio 1894 Cibi

Pane Caffè e latte Tonno Prosciutto Riso con brodo Riso con burro Maccheroni con burro Polpette Manzo lessato Rognone in umido Stracotto di manzo Pesca Vino Rosolio Totale calorie

Uomo

Donna

Ragazzo

Totale

0,788 Kg ------------45 gr 105 gr 329,5 gr 465,5 gr

0,578 Kg 175 gr 44gr 95,7 gr 320,7 gr 467,70 gr

0,394 Kg. 100 gr 29 gr 98 gr 77,9 gr 157,5 gr

1,76 Kg 275 gr 118 299 gr 727 gr 1,09 kg

366 gr

324.5

78,8 gr

769,3 gr

73 gr 32,5 gr 196,5 gr 189,5 gr 131,5 gr 1,93 kg. 20 gr. 2.726,5

57 gr 30 gr 184 gr 172,3 408,7 gr 1,9 kg 20 gr 2.537

77 gr 19 gr 90 gr 60,33 170,7 gr 1,01 kg ------1415

207 gr 81,5 gr 463,5 422,1 710,9 4,84 40 gr 6.678

Alla fine il confronto è impari, anche solo a valutare le fecce emesse: “Osserviamo subito che la quantità complessiva di fecce emesse dai contadini è di molto superiore, di 4 a 5 volte, a quella dei borghesi. Fatto ben noto del resto e che si rende completo con l’osservazione della quantità di sostanza secca. Questa è pure circa del doppio maggiore di quella dei borghesi, ma è particolarmente l’acqua che abbonda nelle fecce del contadino, appunto dimostrandosi una volta di più che è la peristalsi intestinale, la quale, più vivace nel contadino, lascia soggiornare per più breve tempo le sostanze nel tubo gastro-enterico e limita così l’assorbimento dell’acqua”90. Verrebbe proprio da dire: vita di merda. E come tre secoli prima “…fra la zente n’andom spuzando a vento /martori semo e martori saron / A’ seom pruprio la s-ciuma de sto mondo”.

E intanto… per chiudere Ci fermiamo qui con la nostra narrazione. Ci sarebbe da considerare anche l’alimentazione della nascente classe operaia, a cui il Pugliese stesso dedicherà importanti studi91. Un’altra volta! 89  P. Albertoni, A. Pugliese, Studi sulla alimentazione…, cit., p. 71 90  Ivi., p.78 91  A. Pugliese, Il bilancio alimentare di 51 famiglie operaie milanesi in P. Albertoni, A. Pugliese, Studi sulla alimentazione…, cit., pp. 347-387. 54


Abbiamo perso in parte per strada i paesaggi. Ma li abbiamo di sicuro immaginati. Magari ci facciamo aiutare da Ermanno Olmi. Chissà se a suo tempo, mentre preparava la sceneggiatura de L’albero degli zoccoli, ha avuto modo di compulsare le colte relazioni dei commissari dell’Inchiesta Jacini, magari per la provincia di Bergamo. L’aderenza a quel mondo è totale, la ricostruzione del paesaggio rurale, delle dimore, delle condizioni di vita è accurata e filologica, come totale è la partecipata, religiosa e umanissima comprensione di un mondo di vinti rassegnato. Checché ne dicano malmostosi e puntigliosi critici, non possiamo non provare quegli stessi sentimenti. Intanto, al di là dell’Oceano, John Harvey Kellog, è alla continua ricerca di alimenti vegetariani per la colazione dei suoi pazienti. Nel 1877 la svolta. Una sera, John dimentica in ammollo del grano bollito, il mattino seguente vide che era diventato raffermo e per non buttarlo decise di appiattirlo con dei rulli sperando di ottenerne delle sfoglie. In realtà ottennero dei fiocchi (flakes) che tostò e servì ai pazienti con il latte. È il 31 maggio del 1894 quando il prodotto venne brevettato dal fratello William Keith con il nome di granose. Il mais, che per decenni aveva suo malgrado marchiato e connotato la miseria e la povertà delle classi contadine, risorge a nuova vita. Nel frattempo la pellagra arretra. Il nuovo secolo sembra promettere qualcosa di buono… sembra! E dentro ai nostri carrelli da spesa, oggi, ridondanti, sovraccarichi, sovrabbondanti ci stanno anche questi secoli di storia, ci stanno anche questi paesaggi persi, ci stanno generazioni di contadini che li hanno disegnati con le loro fatiche. Un po’ di retorica petriniana ci sta!

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Ambiente, agricoltura, alimentazione nelle politiche nazionali ed europee Aspetti di ricerca e ricadute operative Mauro Agnoletti*

L’obiettivo di questa relazione è di mettere in evidenza alcuni fattori che a scala internazionale e nazionale hanno influenzato gli indirizzi delle politiche agricole in relazione all’ambiente e al paesaggio. In particolare, vorrei evidenziare la difficoltà di proporre un “modello italiano” nell’ambito del grande tema della sostenibilità, per la mancanza di chiarezza riguardo alle caratteristiche ambientali ed agli obiettivi delle politiche agricole del nostro paese. Dalla riforma Mac Sharry in poi, l’attenzione agli aspetti ambientali dell’agricoltura è molto cresciuta. Non solo portando all’attenzione del pubblico questo tema, ma anche investendo risorse economiche molto importanti. Questo è avvenuto tramite un sostegno economico diretto agli agricoltori all’interno dei programmi di sviluppo rurale regionale, con indirizzi definiti a livello internazionale, mobilizzando risorse economiche importanti, ma con effetti altrettanto importanti sul paesaggio. Per quanto riguarda l’ambiente, le più importanti sfide globali a cui l’Unione Europea presta attenzione riguardano il cambiamento climatico, quindi la mitigazione e l’adattamento, che si sono affiancate a indirizzi inizialmente concentrati sul tema della biodiversità. Quello che sembra passare in secondo piano, è invece l’altra grande sfida che la FAO ha cercato di porre in evidenza, cioè la sfida alimentare. Se confrontiamo questi due temi, sicuramente il primo è quello che domina anche i media e l’opinione pubblica. L’agricoltura e la produzione alimentare, è vista più spesso come un qualcosa che non deve interferire negativamente sul conseguimento degli obiettivi ambientali e climatici. Tutto ciò dovrebbe sollevare qualche domanda. Infatti, osservare le dinamiche della popolazione mondiale, cresciuta da un miliardo e seicento milioni a sette miliardi e quattrocento milioni in solo un secolo, dovrebbe porre la sfida alimentare al primo posto. È bene sottolineare che non stiamo parlando di previsioni di aumento della temperatura, come avviane in ambito climatico, stiamo parliamo di dati certi che pongono problemi altrettanto certi in materia alimentare. Il problema assume un significato particolare nel contesto europeo, all’interno del quale, dalla Svezia all’Italia, dalla Polonia alla Francia, assistiamo ad un inarrestabile processo di abbandono delle aree coltivate, con una forestazione post abbandono che avanza al ritmo di circa 800.000 ettari all’anno, secondo l’ultimo World Forestry Assessment della FAO. Se abbandoniamo una tale quantità di territorio agricolo, se 57


questo territorio poi diventa foresta, o comunque è lasciato alla naturalizzazione, su quel territorio non potrò produrre più cibo per sfamare la popolazione europea.

Fig. 1 Importazioni europee di prodotti alimentari.

L’Europa si può permettere di fare ulteriori politiche di riforestazione, di favorire l’abbandono e il ritorno della natura solo scaricando su altri paesi il problema della produzione alimentare. Tutto ciò senza considerare che Il prezzo delle commodities è in crescita, il che vuol dire che lo status quo non potrà continuare in eterno, ne dal punto di vista economico ne da quello della sostenibilità. Quando si parla infatti di impronta ecologica, quindi di bio-capacità, la terra che usiamo per coltivare il cibo al di fuori dell’Europa o dell’Italia devono essere inseriti nel calcolo totale dell’impronta ecologica. In altre parole, mentre la deforestazione e la desertificazione che nel 1992 venivano annunciate come probabili per il continente europeo e per l’Italia, non si sono verificate, assistiamo invece ad un costante aumento delle foreste e all’abbandono delle attività agricole, fenomeno riguardo al quale sembra non ci siano motivi di allarme. Al contrario, la riforestazione viene generalmente presentata come un dato positivo. Pochi si rendono conto del fatto che le trasformazioni di uso del suolo avvenute per fenomeni socioeconomici diretti dell’ultimo secolo sono di gran lunga superiori a quelle ipotizzabili come effetto dell’aumento della temperatura ipotizzato dagli scenari più catastrofici del cambiamento climatico. Dal punto di vista paesaggistico, siamo passati da una situazione policolturale, in cui il bosco si inframezzava a vari tipi di colture agricole, creando paesaggi diversificati, ad una in cui soprattutto in montagna ed in alta collina abbiamo ormai una uniformità del paesaggio dovuta alla presenza di grandi estensioni di foreste, del tutto paragonabile, 58


come effetto visivo, all’aumento delle monocolture industriali agricole. Altrettanto importante è come giudichiamo tale fenomeno. Se questo processo di abbandono e i suoi effetti vengono favoriti sia dalle normative, sia dai mezzi di informazione, si finisce inevitabilmente per procurare una trasformazione culturale anche nella pubblica opinione, la quale perde progressivamente la percezione di cosa sia il paesaggio italiano, in favore di una visione di “ritorno alla natura” proposta dalla cultura nord europea e nord americana. In questa visione, operazioni culturali con una storia secolare, quali il governo del bosco a ceduo, secondo piani di gestione scientificamente realizzati, vengono sanzionate dalle soprintendenze, per presunte “modificazioni permanenti” apportate allo stato dei luoghi, come avvenuto nel Sulcis in Sardegna, grazie a campagne stampa viziate da informazioni distorte e parziali. Ugualmente potrebbe dirsi della proibizione del pascolo applicata dal Parco Nazionale della Maiella al bosco di Sant’Antonio, bosco di capitozze di faggio, creato dalle attività di pascolo. Pochi sembrano rendersi conto di come tutto questo vada a disgregare, più di quanto già non avvenga, la nostra cultura e la possibilità di mantenere un ruolo originale nel panorama internazionale, che non riguarda solo i tanti siti UNESCO o altri beni culturali, ma anche un modello che integra ambiente ed economia rappresentato dal paesaggio. Quando nel comitato scientifico per la realizzazione del Registro Nazionale Paesaggi Storici sono stati valutati aspetti come la vulnerabilità, trovarsi di fronte a un risultato che poneva l’abbandono come il tema principale è stato qualcosa che ha colpito tutti. Purtroppo, gli strumenti di tutela oggi a disposizione sono tarati sul favorire l’abbandono, non la conservazione del paesaggio agrario. Vincolo paesaggistico, SIC e sistema delle aree protette non sono adeguati al paesaggio rurale, sono il risultato di una visione ambientaliste che, già dalla legge del 1939, ha interpretato il paesaggio come “quadro naturale”, negando la sua natura sociale ed economica, messa in evidenza da Sereni, ma rimasta isolata nel contesto normativo e nella cultura del paese. Si è creata quindi una sorta “congiunzione astrale”, che mette insieme un processo socio-economico che ha prodotto l’abbandono, con un apparato normativo che lo valorizza e lo certifica, con il risultato di degradare ulteriormente il paesaggio italiano.

Fig. 2 Importazioni alimentari italiane 2001-2011. 59


Per la verità, gran parte degli squilibri derivanti da questi fenomeni, quali l’eccessivo aumento della fauna selvatica, nascono anche da una visione spesso parziale e scorretta del funzionamento di un ecosistema. Pochi si sono resi conto che la riproposizione di una piramide alimentare “ideale” con predatori, specie predate e base primaria, senza considerare il fattore antropico se non come un fattore di disturbo, è un grave errore in un paesaggio antropizzato come quello italiano. Manca la consapevolezza che l’uomo è una specie che compete con le altre per lo spazio e le risorse alimentari. Per mantenere questo spazio che noi diamo per scontato - se abbiamo fame infatti andiamo in un supermercato, non coltiviamo più la terra o andiamo a caccia - dobbiamo limitare gli habitat di altre specie animali, che come noi hanno bisogno di spazio. Se abbiamo 208 abitanti per km2, ed un lupo può avere un habitat dai 100 ai 200 km2, è ovvio che qualcuno è di troppo nell’ecosistema. Se poi questo habitat lo definisco “prioritario” e lo difendo a scapito del contadino, stiamo definendo una nuova gerarchia dei valori che presiedono alla nostra vita e della quale pagheremo le conseguenze. Se in Scandinavia o in nord America il rapporto fra popolazione e spazio naturale consente forse una tale situazione da noi si tratta di un sovvertimento pericoloso, anche perché, tornando al problema della competitività del sistema paese, non potremmo essere competitivi su un’offerta turistica basata sulla naturalità del territorio, che è dominio di quei paesi che ci hanno colonizzato anche da questo punto di vista. Dalla fine dell’Ottocento, con lo sviluppo delle scienze naturali e quindi dell’ecologia, la cultura ambientale e la scala dei valori è cambiata, ed il nostro paese ha svolto un ruolo non secondario in questo processo. John Perkins Mash, considerato uno dei padri dell’ambientalismo Americano, scrisse infatti il suo fondamentale volume sull’effetto negativo dell’uomo sulla natura (Man and Nature), non in America ma in Italia, a Vallombrosa, in Toscana. La cosa interessante è che se lo paragoniamo ai viaggiatori del Grand Tour e a suoi contemporanei, anche statunitensi, come lo scrittore Hawthorne, anche lui venuto in Italia a metà Ottocento, Mash non spende una parola sulla bellezza del paesaggio italiano, sembra quasi che abbia visto un altro luogo. Lo sviluppo a cui si assiste successivamente a Marsh, sia nella letteratura ambientale che in quella scientifica, è un rafforzamento della visione degradazionista, basata su un sistema di valori che hanno spostato l’agricoltura da fattore centrale del paesaggio, a fattore di disturbo e degrado. Non c’è dubbio che in questo processo, ancora in corso ai nostri giorni, sia l’Italia ad avere perso una posizione centrale a favore di altri paesi, perlomeno dal punto di vista dei modelli presi ad esempio per la sostenibilità e per l’interesse prevalente del pubblico, oggi molto più orientato sui paesaggi naturali che non sui paesaggi culturali. In uno schema del ‘99 la Commissione Europea definisce il paesaggio europeo principalmente come un paesaggio culturale con solo un 5% di paesaggio naturale. Tenendo presente questo dato, come potremmo giudicare l’attuale estensione della rete di aree naturali protette della rete Natura 2000, pari al 18-20% del territorio europeo? In realtà non ci sono il 20 % di aree naturali in Europa, c’è una grande volontà politica di interpretare estesi territori come naturali, di fare in modo che certe aree si rinaturalizzino, o che siano destinate a avere questa funzione. E’ una visione diffusa ed indipendente dalla realtà del paesaggio e della storia, ma che riguarda anche il paesaggio forestale. Negli indirizzi per la gestione forestale sostenibile attuati dalla Conferenza inter-Ministeriale per la Protezione delle Foreste in Europa (MCPFE), i tre pilastri fondamentali riguardano l’aspetto ecologico, quello economico e quello socio-culturale. Come coordinatore del 60


gruppo di lavoro dell’MCPFE per la redazione delle linee guida per l’implementazione del pilastro socioculturale, non è stato sorprendente osservare che l’Assemblea dei 40 paesi che fanno parte della conferenza, non avesse molto interesse a proporre risoluzioni su questo argomento, ma soprattutto che l’Italia, con i suoi rappresentanti, non ritenesse di spingere su questo tema. L’aspetto socio-culturale legato al paesaggio forestale è infatti assolutamente minoritario anche nel contesto nazionale, nonostante la maggioranza delle foreste italiane siano state modificate dall’uomo e facciano quindi parte del paesaggio culturale. Considerato quanto discusso fin qui non deve sorprendere che quando il paesaggio è stato introdotto come obiettivo strategico del Piano Nazionale di Sviluppo Rurale 2007-2013, le regioni abbiano hanno interpretato le misure in modo poco efficace. Sotto la definizione di paesaggio furono infatti messe azioni che non erano proprio a favore del paesaggio, ma spesso a favore della conservazione della natura, pensando che fosse più o meno lo stesso. Si tratta di un altro aspetto culturale piuttosto interessante. Ambiente e paesaggio, nell’accezione comune, sono equivalenti, se si fa un’azione per la conservazione della natura si migliora anche il paesaggio. Il risultato è stata naturalmente una scarsa efficacia delle azioni e quindi dei risultati, con risultati spesso paradossali, quali gli incentivi dati per recintare le colture minacciata dalla fauna selvatica o fondi offerti a piani di gestione di aree protette che favoriscono l’ulteriore aumento della fauna.

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Fig. 3 Valutazione delle misure per il paesaggio definite dalle Regioni nel PSN 2007-13 (Dati Gruppo di Lavoro Paesaggio, MIPAAF).

Quali iniziative mettere in atto nel futuro? Con la nuova politica agricola 2014-20, abbiamo una notevole quantità di risorse, ma in un contesto in cui la crisi dell’agricoltura peggiora, con una situazione che ci vede sempre di più come paese importatore. Stiamo diventando, anche nel settore alimentare, un paese trasformatore, importiamo prodotti alimentari dall’estero e poi li rivendiamo sotto forma di prodotti tipici. Quindi, anche l’idea 61


di una Italia produttrice di prodotti legati al territorio è sempre meno reale. Stiamo facendo quello che è stato fatto in altri settori industriali, importiamo materie prime e vendiamo i prodotti finiti. Siamo grandi trasformatori, ma ci perdiamo il paesaggio, con l’aiuto di grandi gruppi industriali, vedi i produttori di pasta o di olio, i quali sostengono la scarsa qualità della produzione italiana, per poter comprare a più bassi costi all’estero. In realtà il nostro patrimonio culturale e paesaggistico è diventato un asset che ha a che fare con la nostra competitività complessiva. Dai dati sull’agriturismo, vediamo che sicuramente esso si basa sull’apprezzamento di aspetti paesaggistici ed è in aumento. Purtroppo territori come il sud e le Isole, dove abbiamo enormi risorse dal punto di vista del paesaggio, hanno uno sviluppo di attività agrituristiche inferiore rispetto al Centro e al Nord. In Toscana, i dati del periodo della grande crisi 2009-2013 certificano che sono stati persi tanti posti di lavoro nell’industria, mentre vi è stato l’aumento nel settore del turismo. La possibilità di avere non solo prodotti diversi, ma anche una varietà di forme legate alle colture agricole è importante, perché questa diversità è sicuramente gioca a favore dell’attrattività complessiva del territorio rurale.

Fig. 4 Ripartizione delle aziende agrituristiche per regione geografica (2003-13) dati ISMEA.

Fra gli strumenti normativi potenzialmente efficaci per modificare la situazione, le modifiche apportate alla legge forestale 227 del 2001, che ora consente il recupero dei paesaggi agrari abbandonati e coperti dal bosco, sono molto importanti. Purtroppo, gli organi preposti alle autorizzazioni, quali Soprintendenza ed ex Corpo Forestale dello Stato, agiscono normalmente come se questa legge non ci fosse, scoraggiando o minacciando i privati di possibili sanzioni. Per fare un esempio, in termini legali, un terrazzamento invaso dal bosco oggi non è più bosco e quindi non si applicano ad esso le normative di legge previste. Tutta la costruzione normativa che si basa sulla definizione legale di bosco è stata di fatto modificata. La questione è complessa e non scevra da rischi, ma le emergenze determinate dall’abbandono richiedevano soluzioni urgenti. Il restauro di un paesaggio storico di cui siamo progettisti fatto con il FAI in Cinque Terre, a Punta Mesco, in un 62


Parco nato per proteggere e conservare i terrazzamenti, ha richiesto una lunghissima serie di procedure e di autorizzazioni, semplicemente per poter fare un restauro di 2,5 ha di terrazzamenti abbandonati e poter riportare la zona a quello che era il paesaggio originale. Per tenere sotto controllo lo stato del paesaggio rurale e monitorare le trasformazioni è stato costruito un sistema fisso di monitoraggio, a livello nazionale, che ha realizzato un uso del suolo dettagliato di 120 paesaggi sparsi in tutte le regioni italiane, che ogni 6-7 anni andremo a verificare per poter leggere non tanto la trasformazione a livello di superfici complessive, ma il dettaglio del mosaico paesistico. Tutto questo è stata condiviso con l’Istat con il quale abbiamo messo a punto degli indicatori per l’introduzione della qualità del paesaggio nella valutazione del benessere della popolazione. è poi significativo segnalare che il Registro Nazionale dei Paesaggi Rurali Storici, nato per proteggere i paesaggi rurali più preziosi creati dall’uomo in Italia, ha oggi ufficialmente nominato tre paesaggi storici, mentre almeno altri 40 territori hanno chiesto di entrare nel registro. Ciò segnala, la esigenza di molti territori di vedere riconosciuti dei valori che ne il sistema delle aree protette, ne istituzioni come l’UNESCO potranno salvaguardare. L’ultimo aspetto che vorrei affrontare è che non siamo più soli in questi nuovi approcci alla sostenibilità. In particolare, con la Convezione per la Diversità Biologica delle Nazioni Unite e l’Unesco è stata prodotta una dichiarazione sulla diversità bioculturale, che si riallaccia al Joint Program sui legami fra diversità biologica e culturale del 2010. Secondo questa dichiarazione, la diversità biologica e culturale in Europa è il risultato della combinazione di fattori storici, dinamiche ambientali di uso del suolo e del patrimonio culturale, il paesaggio rurale europeo è inoltre descritto come un paesaggio bio-culturale multifunzionale. Questa dichiarazione, per tutti coloro che a livello mondiale lavorano sugli indirizzi di conservazione della biodiversità e del paesaggio, rappresenta un passaggio importante, ma è anche un assist per l’Italia. Realizzare questa dichiarazione a Firenze, è stata una scelta importante, perché l’Italia è stata ritenuta il paese che può meglio rappresentare questi concetti. In una prospettiva di lungo periodo, il paesaggio rurale italiano costituisce un esempio di positiva integrazione fra aspetti naturali e aspetti antropici e questo è l’obiettivo verso il quale dovremmo convergere a livello internazionale.

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Scenari evolutivi del concetto di ruralità

Franco Sotte

Introduzione Questo articolo si pone due obiettivi. Il primo è fornire un contributo alla costruzione di una teoria dello sviluppo rurale e delle relazioni fra sviluppo rurale e sviluppo complessivo di un Paese, dove rurale e urbano si integrano e svolgono ruoli complementari. Il secondo obiettivo è derivare un quadro analitico per la politica di sviluppo dei territori rurali, alla cui luce valutare e interpretare progressi e limiti dell’attuale politica di sviluppo rurale dell’UE e delle altre politiche di carattere regionale e territoriale. Lo scopo finale è fornire spunti per orientare la ricerca e gli interventi futuri, valutando la situazione attuale e mostrando i sentieri di sviluppo, i riferimenti metodologici e le competenze necessarie a tal fine.

La “ruralità agraria” dei decenni Cinquanta e Sessanta In base alle sue origini etimologiche e alle definizioni riportate nei principali dizionari, sia il sostantivo che l’aggettivo “rurale” riconducono inequivocabilmente ad “agricoltore” e “agricolo”. Utilizzato comunemente come sinonimo di “agricoltura”, il termine “rurale” ha comunque un significato più estensivo: mentre il termine “agricoltura” è, infatti, maggiormente usato per indicare le attività inerenti alla coltivazione dei terreni e all’allevamento di animali, il termine “rurale” abbraccia anche la sfera sociale e il territorio. Tuttavia, la similitudine (l’intercambiabilità) è stata tale che, per lungo tempo, fino agli studi dell’OCSE sopra ricordati, per misurare il grado di ruralità e separare le aree rurali da quelle urbane si è adottato il criterio di riferirsi a qualche misura del peso relativo dell’agricoltura (principalmente in termini di tasso di occupazione o di quota del prodotto interno lordo). Si consideri d’altra parte che il censimento della popolazione del 1951 rilevava nella media italiana un tasso di occupazione agricola pari al 41%, mentre nelle regioni tipicamente rurali esso superava abbondantemente il 50%; nelle Marche ad esempio era pari al 60,2%. Nel dopoguerra, in Italia e in Europa, potremmo collocare temporalmente il modello della ruralità agraria nei decenni Cinquanta e Sessanta. Sono gli anni dell’istituzione e della messa a regime della politica agricola comune europea (Pac), il ruolo dell’agricoltura nelle aree rurali (se si comprendono anche le attività produttive e commerciali al servizio 65


dell’agricoltura e degli agricoltori) era così soverchiante e le sue performance erano tali da condizionare la dinamica economico-sociale complessiva nelle aree rurali, insieme al livello di benessere. Per i suoi aspetti settoriali, possiamo dare a questo stadio evolutivo della ruralità l’appellativo di “ruralità agraria”. La “ruralità agraria” è caratterizzata dalla netta separazione fra territori rurali e territori urbani e dalla specializzazione o addirittura dall’esclusività agricola nei primi. I fondamenti teorici della “ruralità agraria” vanno ricercati nella debolezza delle aree periferiche e rurali, condizionate dall’esclusività dell’agricoltura, alla luce dei vantaggi delle posizioni centrali (urbane) e delle migliori performance dei settori industriale prima e terziario poi, nei confronti dell’agricoltura. Essi alimentano un’interpretazione dualistica del processo di sviluppo basato sulla gerarchia spaziale, sulle economie di agglomerazione e sui paradigmi tayloristici nella teoria dell’impresa industriale. Le aree rurali possono così essere definite, come spesso accade in quel contesto socio-economico e culturale, essenzialmente in modo negativo. Rurale è “non urbano”; rurale è “the white between the dots” (il bianco, nelle vecchie carte geografiche, tra i punti che rappresentano i centri urbani). Rurale è sinonimo di marginalità, discriminazione economica e culturale, svantaggio, dipendenza. I territori urbani, spinti verso la concentrazione dalle economie di agglomerazione (di scala, di specializzazione, di urbanizzazione), sono ricchi e in grado di raggiungere tassi di crescita più elevati. Le aree rurali, di contro, sono quelle in cui si riscontrano livelli di reddito più bassi, maggiore disoccupazione, povertà, emigrazione. Seguendo questo approccio, nel corso dello sviluppo economico generale alle aree rurali è assegnato un duplice ruolo passivo: quello di sostenere la crescita dei centri urbani garantendo ad essi sufficienti quantità di alimenti e fibre (tipici beni salario) per una popolazione in aumento; e quello di contribuire allo sviluppo dell’industria attraverso la messa a disposizione di forza lavoro a basso costo attraverso l’emigrazione dalle campagne. In queste circostanze, la politica agricola (reclamata e sostenuta da una consistente capacità di rappresentanza politica degli agricoltori attraverso le proprie organizzazioni sindacali e di categoria e attraverso i partiti) assume carattere settoriale e punta ad assolvere due compiti: (a) sostenere la produzione in termini quantitativi per garantire la sicurezza alimentare, attraverso misure protezionistiche e alti livelli dei prezzi (come la Pac ha fatto), favorendo in particolare le aziende agricole più grandi, i prodotti di prima necessità e la rendita; (b) compensare la “povertà rurale” attraverso politiche di redistribuzione, consistenti in un’ampia serie di misure caratterizzate da una spesa “a pioggia” o da una generalizzata esenzione fiscale e contributiva per tutte le componenti del settore agricolo.

La “ruralità industriale” dei decenni Settanta e Ottanta Il modello della ruralità industriale si colloca in Italia e in Europa nei decenni dal 1970 al 1990. Nell’Unione europea, in tutte le aree rurali, il peso dell’agricoltura è rapidamente declinato, tanto che poche zone possono essere ormai definite come dipendenti da essa, che comunque è stata quasi ovunque sorpassata in termini di occupazione e di reddito dall’industria e, successivamente, dai servizi. Con la riduzione del tasso di occupazione agricola, il modello della “ruralità agraria” ha perso di conseguenza il suo fondamento. Questa è la ragione per cui sono stati individuati altri indicatori della ruralità. La soluzione proposta dall’OCSE, richiamata nell’introduzione 66


di questo articolo, basata sulla densità della popolazione, è quella oggi diffusamente accolta. Ma altri elementi centrali del modello di “ruralità agraria” hanno perso consistenza. Per prima cosa, è caduta l’assunzione che le aree rurali siano inevitabilmente destinate ad essere in ritardo socio-economico, incapaci di sviluppo autonomo e quindi dipendenti dai trasferimenti dai poli motori dello sviluppo. Malgrado la distanza dal centro, la dispersione delle attività sul territorio e i limitati rendimenti di scala dovuti ad un sistema economico basato su piccole-medie imprese, l’economia e la società rurale si dimostrano un terreno fertile per far nascere e crescere le imprese industriali e terziarie. Una lunga lista di fattori endogeni dello sviluppo è contenuta nelle aree rurali: il poliformismo socio-economico, la mobilità e la flessibilità sociale, il comportamento cooperativo che deriva dalla struttura allargata della famiglia e dalle istituzioni rurali, la conoscenza pratica diffusa, l’abilità negli affari, la propensione al rischio di chi deve la sua sopravvivenza a redditi oscillanti per l’effetto imprevedibile delle variabili climatiche, biologiche e di mercato. Le aree rurali, sono state particolarmente stimolate quando, come nel periodo che stiamo analizzando, una serie di fattori esogeni ha offerto loro la possibilità di riscattarsi mettendo a frutto le potenzialità latenti. Tra questi fattori, la domanda dei consumatori si è spostata da prodotti standardizzati verso una serie diversificata di prodotti personalizzati e di nicchia e quando la trasformazione della tecnologia ha permesso alle piccole-medie imprese di raggiungere (attraverso economie esterne di rete) livelli di competitività che in precedenza venivano realizzati solo dalle imprese di grande dimensione. La “ruralità agraria” del periodo precedente è stata così sostituita da un modello che abbiamo chiamato di “ruralità industriale”. L’Italia è un buon caso di studio per capire i principali fondamenti del successo industriale nelle aree rurali e per analizzare le implicazioni evolutive di un tale processo sulla società rurale e agricola. Dagli anni Sessanta in avanti e poi soprattutto nei decenni Settanta e Ottanta, diverse aree italiane localizzate nel Nord-Est e nel Centro (le cosiddette regioni Nec), caratterizzate da un’economia rurale e da una società spesso basata sulla mezzadria, lontane dai centri tradizionali di crescita e di localizzazione industriale, hanno sperimentato un rapido dinamismo economico radicato nel rurale e basato sulle reti dei distretti industriali. Altri, osservando che molte regioni Adriatiche (Friuli Venezia Giulia, Veneto, Emilia-Romagna, Marche, Abruzzo, Molise e più di recente anche Puglia) sono state variamente coinvolte in una tale esperienza, hanno parlato di “via adriatica allo sviluppo”. Ma per quello che ci riguarda in particolare, le Marche sono state la regione che, forse più di altre ha rappresentato un’eccezione. Il suo peculiare sviluppo al quale è stato attribuito l’attributo di “modello marchigiano”, costituisce un esempio eclatante di sviluppo industriale e terziario in territori rurali. L’evoluzione delle precedenti aree rurali verso sistemi locali moderni e integrati di piccole-medie imprese è stata tale da spostare il baricentro dell’economia italiana e da caratterizzare l’attuale specializzazione della manifattura italiana su prodotti “per la persona” (scarpe, abbigliamento, cappelli, occhiali, oreficeria…) oppure “per la casa” (mobili, ceramiche, tendaggi, ecc.) e turismo. Si tratta del cosiddetto “made in Italy”, connesso alla moda, alla differenziazione e alla personalizzazione del prodotto, soggetto al cambiamento dei gusti e alla continua innovazione. La prima considerazione riguarda le condizioni dello sviluppo. Lo sviluppo economico basato sulla crescita industriale, è realmente possibile nelle aree rurali, come nel caso dei distretti industriali italiani, ma se viene guidato esclusivamente dal mercato senza una 67


politica responsabile del territorio, la sua distribuzione territoriale è lontana dall’essere omogenea, in quanto tende a concentrarsi in alcune parti del territorio rurale facendo nascere un nuovo dualismo al suo interno. La parte più dinamica del territorio si specializza nel core business dei distretti industriali, guadagnando in tal senso competitività per i suoi prodotti nel mercato globale, ma irrigidendosi e perdendo via via la flessibilità necessaria per adattarsi ai nuovi scenari competitivi, mentre i costi dei fattori (ad esempio, i costi del lavoro) e i costi di transizione aumentano. Il resto del territorio (come quello delle aree montane oppure quello delle aree meno favorite e scarsamente servite in termini di infrastrutture) viene indebolito dallo spopolamento (specialmente dalla fuga dei giovani) e le sue dotazioni di ruralità sono sfruttate in modo tale che la relativa capacità di produrre in maniera autonoma e originale si esauriscono. In generale, comunque, si assiste ad una profonda e, in alcuni casi, allarmante perdita di qualità ambientali, paesaggistiche e anche storico-culturali. Nel lungo periodo, il risultato a cui si perviene è che soltanto alcune specifiche aree rurali hanno realmente successo, mostrando e sviluppando una capacità di autosostentamento per competere nel mercato globale, mentre le altre falliscono e rimangono incapaci di uno sviluppo auto-sostenuto. La recente attenzione per le “aree interne” si giustifica in quest’ottica. La seconda considerazione riguarda l’agricoltura, dopo che per tanto tempo si era assunto che alle aree dove l’agricoltura stessa era localizzata dovesse essere riservato un presunto inevitabile e triste destino di marginalità, compensato soltanto dal sostegno dei prezzi e dalle politiche re-distributive. Il segnale di una possibile salvezza attraverso l’industrializzazione e lo sviluppo dei distretti è stato dato anche dagli agricoltori. Così il “rifiuto dell’agricoltura” ha accompagnato la rivalsa della periferia incentrata sullo sviluppo industriale. È così che nella periferia si è prodotto un nuovo dualismo, questa volta più ravvicinato, segnato da una nuova migrazione dalla campagna circostante e dai centri minori meno prossimi, verso i vicini distretti industriali e le zone più direttamente connesse alle grandi vie di comunicazione. Una migrazione di persone alla quale ha anche corrisposto una riallocazione dei servizi pubblici e delle funzioni (ospedali, scuole, servizi amministrativi, ecc.) da tutto il territorio verso i centri di successo. Nel modello di “ruralità industriale”, all’agricoltura viene nuovamente attribuito un ruolo passivo: quello di contribuire alla stabilità economica-sociale e di trasferire forza lavoro, capitale, terra e capacità imprenditoriali verso le attività industriali tipiche dell’economia distrettuale. L’agricoltura è stata in tal modo spinta ad abbandonare il tradizionale assetto multicolturale, intensivo di lavoro e l’organizzazione integrata, orientandola verso una visione industrialista segnata dalle seguenti peculiarità tipiche dell’organizzazione industriale, ma incompatibili con la sostenibilità e le vocazioni dell’agricoltura nel lungo termine: (a) forme di produzione capital intensive; (b) tecniche risparmiatrici di lavoro; (c) specializzazione produttiva, fino alla monocultura; (d) standardizzazione sia dei processi che dei prodotti; (e) semplificazione, al punto che in alcuni casi anche la terra (il fattore produttivo cruciale in agricoltura) viene marginalizzata o addirittura esclusa, come ad esempio nell’allevamento industriale (“industriale” appunto).

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La “ruralità post-industriale” degli anni Novanta e Duemila Molte ragioni suggeriscono che già con gli anni Novanta e soprattutto con il nuovo millennio stia emergendo un nuovo scenario di ruralità: quello che potremmo denominare della “ruralità post-industriale”. Questo cambiamento è dovuto in primo luogo al nuovo ruolo che la società sta chiedendo alle aree rurali di svolgere. Le preoccupazioni inerenti alla conservazione e alla tutela dell’ambiente, così come quelle del consumatore per la sicurezza e la qualità alimentare, vengono considerate in Europa come priorità fondamentali nell’agenda politica. Il cambiamento è inoltre dovuto al progresso tecnologico: progressi nei sistemi di trasporto e di comunicazione vengono favoriti da nuovi collegamenti fisici e virtuali, che hanno ridotto le tradizionali penalizzazioni delle aree rurali, quali la distanza e l’isolamento, mentre è cresciuta una nuova propensione a risiedere nelle aree rurali da parte di soggetti che svolgono funzioni in settori economici diversi dall’agricoltura e precedentemente di esclusiva pertinenza urbana: progettisti, artisti, professionisti ICT, ricercatori, ecc. La diffusione del tele-lavoro e, più in generale, la facilità di comunicare, agevolano questa tendenza. La domanda di nuove residenze di non agricoltori interessa specialmente i territori rurali intorno alle aree metropolitane e nelle località ad elevato valore turistico e naturalistico, ma per i suoi valori paesaggistici e per la sua conformazione, si estende pressoché a tutta l’Italia e a tutta l’Europa, escluse le localizzazioni estreme. Come risultato, le aree rurali registrano una originale e crescente domanda di mercato generata dalle preferenze del consumatore. Allo stesso tempo i cittadini chiedono interventi pubblici più articolati e efficaci in difesa dei beni collettivi e nuovi servizi relativi all’ambiente, al paesaggio e alla qualità della vita. Due principali elementi caratterizzano il nuovo modello. Il primo è la dimensione territoriale e non più settoriale della ruralità, il che significa che ora il carattere distintivo delle aree rurali è l’integrazione da diversi punti di vista: (a) integrazione fra le attività economiche, dal momento che né l’agricoltura né l’industria prevalgono, come invece accadeva nei modelli precedenti, mentre sono i servizi (per l’impresa così come per la persona o per la famiglia) che sono cresciuti al di sopra della soglia del 50% dell’occupazione totale; (b) integrazione fra aspetti naturali e aspetti sociali; (c) integrazione fra territori rurali e territori urbani (tanto che i confini tra rurale e urbano sono sfumati fino a scomparire del tutto); (d) integrazione fra i mercati locali e i mercati globali, e così via. Qui emerge un ruolo specifico dell’agricoltura come componente di nuovo spessore dell’integrazione e dell’intersettorialità. Una agricoltura profondamente diversa da quella attuale, riorganizzata in base ai nuovi orientamenti dei consumatori consapevoli e dei cittadini partecipi, ma anche in base alle nuove opportunità tecnologiche. Si configura un nuovo modello di ruralità nel cui ambito l’agricoltura si riappropria di un ruolo di per sé autonomamente rilevante, non più semplicemente accessorio rispetto allo sviluppo delle attività manifatturiere e di servizio. Il secondo aspetto centrale della ruralità è la diversità. La diversità è la parola chiave dello sviluppo rurale nel modello della “ruralità post-industriale”. Essa è in opposizione alla omologazione delle società urbane, ai modelli standardizzati di vita e di consumo di un mondo globalizzato. I territori rurali costituiscono, questo è evidente, una riserva fondamentale di biodiversità, di paesaggio, di patrimonio storico e di tradizione agricola: in una parola di capitale naturale. Dal punto di vista socio-economico, essi possono 69


costituire anche una riserva di capitale umano e sociale, dai quali dipendono la flessibilità di un sistema locale, la sua capacità di adattamento e la sua suscettività a cogliere le nuove opportunità che si offrono in un mercato globale sempre più volatile ed imprevedibile. Ciò significa che un ruolo fondamentale per lo sviluppo delle aree rurali dovrebbe essere giocato dalle piccole-medie imprese agricole e non agricole (attive nell’industria e nel settore terziario) e che politiche specifiche dovrebbero essere destinate per aiutare la loro formazione e il loro sviluppo. Ma la differenza rispetto al modello della “ruralità industriale” è che qui la ruralità appare come un valore in ragione della sua peculiare complessità e del tipico polimorfismo, tanto che la conservazione e valorizzazione di questi attributi costituisce il principale obiettivo delle politiche di sviluppo rurale. In un approccio evoluzionistico e che non rinunci a misurarsi con la complessità, lo sviluppo delle aree rurali consiste nell’integrazione di quattro tipi di capitale: naturale, sociale, umano e artificiale: (a) il capitale naturale è composto da risorse naturali, biodiversità, fertilità, acqua, equilibrio idrogeologico, ecc.; (b) il capitale sociale consiste in istituzioni formali ed informali, regole e costumi, diritti, patrimonio culturale, partecipazione e organizzazione, ecc.; (c) il capitale umano è rappresentato dalla conoscenza, dall’esperienza, dalla capacità imprenditoriale, dalle aspettative, dalla dignità, dall’età, dalla salute, ecc.; (d) il capitale artificiale comprende gli impianti e i macchinari, il livello e la distribuzione del reddito, le infrastrutture, ecc. Questi quattro tipi di capitale sono strettamente interrelati. Lo sviluppo locale poggia sulla qualità di questa connessione, come anche sul valore del paesaggio, sulla qualità della vita e, in breve, sull’attrattività di un sistema locale. Lo sviluppo rurale e, in esso, il rilancio del settore primario sono, dunque, prima di tutto una strategia di lunga durata che punta alla conservazione della complessità e dell’equilibrio fra le componenti e all’integrazione delle aree rurali in un processo di sviluppo sostenibile. Dal punto di vista socio-economico, ciò significa attribuire funzioni e ruoli agricoli e non agricoli alle aree rurali, incoraggiando gli scambi fra i settori e i territori e in tal modo rompendo sia l’isolamento che la specializzazione mono-funzionale agricola del passato (tanto della “ruralità agraria” che di quella “industriale”). L’azione collettiva dovrebbe essere intensificata e finalizzata alla riduzione dei costi di transazione e alla promozione di iniziative individuali.

Considerazioni conclusive Mentre la ruralità nel tempo passa da una definizione settoriale ad una territoriale, il ruolo dell’agricoltura nello sviluppo rurale cambia. Nella “ruralità agraria”, l’agricoltura era dominante e il benessere generale delle aree rurali ne veniva direttamente influenzato. Per questa ragione, alla politica agricola venivano spesso assegnate funzioni più generali, di tipo sociale e territoriale, rispetto a quelle di una politica settoriale. Nella “ruralità industriale” l’agricoltura aveva spazio soltanto “industrializzandosi” cioè negando le sue peculiarità e originalità, connesse alle vocazioni territoriali, alle tradizioni, alla sua integrazione con territorio e natura. La situazione è ora generalmente capovolta. La prospettiva, nel lungo periodo, di un’agricoltura sostenibile non è più possibile senza un parallelo (o forse addirittura precedente) sviluppo di tutte le altre attività delle aree rurali. L’implicazione in termini di politica è che se, nel passato, la politica agricola era pensata per soddisfare la maggior parte 70


delle aspettative delle aree rurali, oggi, altre politiche sono condizione necessaria per uno sviluppo sostenibile delle aree rurali e, in queste, della stessa agricoltura.

Bibliografia S. Anselmi, Chi ha letame non avrà mai fame: studi di storia dell’agricoltura, 1975-1999, Proposte e ricerche, Ancona, 2000. G. Becattini, Modelli locali di sviluppo, Il Mulino, Bologna, 1989. B. Camaioni, R. Esposti, A. Lobianco, F. Pagliacci, F. Sotte, Looking for Peripherurality, Task 504.2 “In depth analysis of the EU-27 spatial development”, Ricerca europea WWWforEurope, Work Package 504, 2013. B. Camaioni, R. Esposti, F. Pagliacci, F. Sotte, Quanto è ‘rurale’ la Politica di Sviluppo Rurale? Relazione e Paper al Convegno dell’Associazione Italiana di Scienze Regionali AISRe, Palermo, 3 settembre 2013. R. Esposti, F. Sotte, Territorial Heterogeneity and Institutional Structures in Shaping Rural Development Policies in Europe, EAAE 9th Congress, Warsaw, 1999. R. Esposti, F. Sotte, Ruremplo Team, Rural employment dynamics in the EU; Key Findings For Policy Consideration Emerging from the Ruremplo Project; The Hague, LEIDLO, 1999. P. Lowe, N. Ward, Rural Futures: A socio-geographical approach to scenarios analysis, in Regional Studies, vol. 43 (10), 2009. S. Lucatelli, P. Salez, La dimensione territoriale nel prossimo periodo di programmazione, Agriregionieuropa, n. 31. F. Mantino, Dove sta andando la politica di sviluppo rurale comunitaria? Una analisi dei possibili scenari, in Agriregionieuropa, n. 11, 2007. E. Moyano Estrada, Nuevas orientaciones de la política europea de desarrollo rural, in Revista de Fomento Social, n. 238, 2005. F. Musotti, La politica europea di sviluppo rurale alla luce (anche) di alcuni insegnamenti di Federico Caffè, in Agriregionieuropa, n.10, 2007. OECD, Creating rural indicators for shaping territorial policy, Paris, 1994. OECD, Territorial Indicators of Employment. Focusing on Rural Development, Paris, 1996. F. Sotte, R. Esposti (a cura), Le dinamiche del rurale, Franco Angeli, Milano 2001. 71



Rigenerare il territorio ed il paesaggio agrourbano per la città di prossimità Il caso di Prato nella piana metropolitana fiorentina David Fanfani

Premessa La prospettiva della transizione della società umana verso un regime energetico più sostenibile implica un radicale, seppure progressivo, processo di ‘ri-territorializzazione’ dell’insediamento urbano rispetto al proprio territorio di prossimità, adeguato a ridurre gli input di materia e di energia di derivazione prevalentemente fossile. Tale processo, se accolto nelle sue piene conseguenze, comporta non tanto e non solo il recupero di forme di tutela ed uso durevole delle risorse, ma un radicale cambiamento nel modello dello sviluppo locale; cambiamento dove il patrimonio territoriale, anche nella sua espressione paesaggistica, diviene ‘valore aggiunto’ per la creazione di nuove forme di economia di prossimità incentrate sulle specificità regionali. Ciò che appare necessario, in questo quadro, è dunque la proposizione di paradigmi analitico/interpretativi adeguati a rappresentare questo tipo di processo e a contestualizzare, in questo quadro, i numerosi tentativi di recupero di un legame co-evolutivo fra insediamento umano e territorio che sono messi in atto in diversi contesti ed esperienze e dove la costruzione di sistemi agro-alimentari locali – per le sue multiple implicazioni – riveste un ruolo di particolare importanza. Il contributo che segue propone il modello bio-regionale come possibile risposta a questa domanda di tipo euristico e come strumento progettuale adeguato ad interpretare in forma innovativa una nuova alleanza fra dominio urbano e rurale. Ciò non solo come fattore generativo di nuove economie di prossimità ma anche di nuove forme di ‘spazio pubblico’ e paesaggio agrourbano.

Ri-territorializzazione dell’insediamento umano e paradigma bioregionale Il distacco fra insediamento e territorio La modernità, ed in particolare la tarda modernità, ci ha consegnato un insediamento umano – costituito non solo da ambienti urbani, ma anche di tipo rurale – sempre più distaccato dal suo milieu o “bacino” territoriale di prossimità. Con tale tipo di considerazione si intende evidenziare in particolare il progressivo allentamento dei legami – in termini scambio di flussi, di materia ed energia, ma anche di conoscenza – che storicamente si 73


erano sviluppati fra le attività umane localizzate, gli artefatti e strutture materiali esito di tali attività e il territorio più prossimo. Si tratta di una perdita di legami che si è verificata in gran parte in relazione alla grande quantità di materia ed energia a relativamente basso costo disponibile da fonti ‘globali’ ed esogene di cui l’umanità ha goduto negli ultimi 150 anni, che ha permesso un formidabile progresso tecnologico1 ed una articolazione del sistema economico capitalista secondo una forte tendenza alla specializzazione economica delle diverse aree e nodi urbani del pianeta2. Tale processo, malgrado la sua “intensità, concentrata in un periodo brevissimo dell’antropocene”, che ha dato ad alcuni l’illusione di uno sviluppo indefinito, si è rivelato chiaramente ‘a termine a causa dei limiti dovuti alla disponibilità di quelle stesse fonti energetiche e di e materia e della accelerazione prodotta nel processo di “degrado entropico” del pianeta3. A fronte di tali sbilanciamenti, che non sono solo di tipo ambientale ma che hanno una rilevante dimensione sociale ed economica, si pone il problema non solo di avviare una “transizione” dell’intero sistema socio-economico e territoriale verso una riduzione della dipendenza da fonti fossili e dell’insieme dell’apparato “socio-tecnico” che corrisponde a tale regime energetico, ma anche di ri-localizzare4 o ri-territorializzare5 l’insediamento umano al fine di ridurre il ricorso ad input esogeni di materia ed energia e in tal modo di recuperare anche una sovranità materiale e cognitiva sui processi di sviluppo ed uso delle risorse.

Il paradigma bioregionale per una nuova co-evoluzione La limitazione locale o regionale – pre-moderna – in termini di risorse aveva in genere permesso lo svilupparsi – in termini co-evolutivi – di uno stretto legame fra dominio tecnico, cultura ed ambiente e scelte di governo6, tale da rappresentare un formidabile incentivo allo sviluppo di competenze contestuali, innovazioni e soluzioni tecnologiche ‘appropriate’ uniche ed efficaci proprio perché sviluppate e “misurate” su di un contesto definito rispetto a problematiche specifiche. Ciò in un quadro di necessario uso riproducibile e saggio di risorse spesso limitate o scarse. Tale processo co-evolutivo di lunga durata, anche in termini economici, aveva anche permesso a determinate comunità di sviluppare nel lungo periodo competenze o “bernoccoli produttivi”7 specifici e talvolta in combinazioni uniche, tali da garantire un ottimo posizionamento nel sistema degli scambi commerciali. Il legame co-evolutivo, appena indicato, fra geo-ecosistema, società e sviluppo locale trova un suo importante punto di riferimento nella storia – non solo del planning, ma anche dello studio dei modelli insediativi – nel paradigma regionalista e nella sua più 1  J.M. Jancovici, Transition energetique pour tous. Ce que les politiques n’osent pas vous dire, Odile Jacob, Paris, 2103. 2 K. Polany, La grande trasformazione, Einaudi, Torino, 1974. 3  Roegen, 1982. 4 R.Jr. Thayer, The world shrinks the world expands: information, energy and relocalization, in E. Cook, J.J. Lara, (eds), Remaking metropolis, Routledge, Milton Park, Abingdon (UK), 2013, pp.39-59. 5  A. Magnaghi, Il progetto locale, Bollati-Boringhieri, Torino (2° edizione) 2010. 6  R.B. Norgaard, Development betrayed, the end of progress an a coevolutionary revisioning of the future, Routledge, London-New York, 1994. 7  G. Becattini, La coscienza dei luoghi, il territorio come soggetto corale, Donzelli, Roma, 2015. 74


recente versione bio-regionale. Sintetizzando in maniera sommaria, si tratta di una eredità culturale che a partire dagli approcci regionalisti “culturalisti” di Vidal de la Blache e di Patrick Geddes, attraverso il fondamentale snodo e contributo del regionalismo americano della Regional Planning Association di Lewis Mumford e Benton Mc Kaye e del southern regionalism di Howard W. Odum8 arriva ai più recenti approcci bio-regionalisti di Peter Berg, G. Snyder e K. Sale9. Il valore ed obiettivo del riferimento al modello bio-regionale non risiede ovviamente nell’ intento di riproporre e perseguire una ricostituzione di sistemi insediativi autonomi ‘chiusi’ in se stessi in un – peraltro impossibile – stato “stazionario” di scambio con l’ambiente circostante ma, piuttosto, nella necessità medodologica di recuperare, seppure in un mutato contesto socio-tecnico ed economico, il principio di co-evoluzione come elemento guida per una organizzazione durevole dell’insediamento fondato su di un uso sostenibile ed equo delle risorse ed adeguato, pertanto, a fare fronte alle sfide accennate in precedenza. Tale paradigma non va peraltro colto solo nelle sue, per quanto importanti, dimensioni di carattere spaziale e funzionale. Esso rimanda infatti anche al valore fondativo, per l’insediamento e per le scelte di sviluppo, della dimensione di ‘auto-governo’ alimentata dall’attivo, responsabile, “formato ed informato” coinvolgimento degli abitanti nei processi decisionali. Un modello bio-regionale privo di tale dimensione educativa, di cittadinanza attiva o ruolo pro-attivo dei territorio risulta essere senz’altro parziale e non aderente al valore originario del paradigma stesso. La rilevanza e pervasività della espansione urbana verificatasi negli ultimi decenni, dai profili plurali e scalari certamente anche più rilevanti rispetto a quelli con cui si è dovuto confrontare il primo regionalismo, ha condotto più di recente a specificare il concetto di bio-regione secondo quello di “bio-regione urbana”10. Tale specificazione è finalizzata a meglio caratterizzare e focalizzare il complesso insieme di relazioni che si sviluppano fra dominio urbano e rurale e i mutui adattamenti che conseguono alla necessità del recupero di un rapporto co-evolutivo fra questi due ambiti. In particolare Magnaghi definisce la bioregione urbana come <<…il riferimento concettuale appropriato per trattare in modo integrato le pertinenze economiche (sistema locale territoriale), politiche (autogoverno) ambientali (ecosistema territoriale) e dell’abitare (luoghi funzionali e di vita di un insieme di città, borghi e villaggi) di un sistema socio-territoriale che persegue un equilibrio co-evolutivo fra insediamento umano e ambiente, fra città e campagna, verso l’equità territoriale»11. Sul piano della lettura dei processi di sviluppo locale e, più in generale delle modalità più appropriate id affrontare il tema dello sviluppo economico e delle politiche ad esso connesse, il tema della relazione fra città e territorio è stata in particolare affrontata in maniera piuttosto efficace, almeno per alcuni aspetti, da Jane Jacobs. La Jacobs, tramite il 8  J. Friedmann, C.Weaver , Territory and function. The evolution of regional planning, University of California Press, Berkely, Los Angeles, 1979, pp. 21-46. 9  P. Berg, R. Dasmann , Reinhabiting California, in The Ecologist, 7,(10), 1997, pp. 339-401; Sale K, Dwellers in the Land. The bioregional vision, The University of Georgia Press, 2000. 10  Atkinsons, The urban bioregion as sustainable development paradigm, in Third world planning review, vol.14:4, 1992; A. Magnaghi, a cura di, La regola e il progetto. Un approccio bioregionalista alla pianificazione del territorio, Firenze University Press, Firenze, 2014; A. Magnaghi, La bioregion urbaine. Petit traité sur le territoir bien commun. Eterotopia, Paris, 2014. 11  A. Magnaghi, a cura di, La regola e il progetto…, p. 6. 75


concetto di city region12 ed un adeguato quadro analitico fondato su di una documentata analisi storica, evidenzia in ultima analisi la natura intrinsecamente endogena dei processi di sviluppo locale e, in particolare, il fatto che un processo di sviluppo effettivo non possa prescindere da una stretta interrelazione fra dominio urbano e contesto rurale e territoriale di riferimento. In questo senso la bio-regione urbana, anche a fronte dei crescenti disequilibri economici fra i vari contesti territoriali mondiali, può essere colta congiuntamente sia come adeguata e reale alternativa in termini di sviluppo economico che, aspetto meno sondato dalla Jacobs, come paradigma di riorganizzazione spaziale durevole dell’insediamento umano. Ciò sia a fronte dei processi di emersione di megalopoli ‘primaziali’13 caratterizzate da forti profili di povertà e segregazione, sia rispetto ad hub metropolitani globali ove ai processi di polarizzazione economico/direzionale presenti nelle core cities si accompagnano, per gli evidenti costi e diseconomie che si generano nelle aree più dense, a crescenti processi di diffusione e sprawl urbano14.

L’economia e lo sviluppo della bioregione urbana Il profilo della bioregione urbana come ambito strategico per il recupero di una ‘misura’ integrata e sostenibile dello sviluppo, induce una profonda revisione delle categorie e dei modelli economici in relazione al rapporto di questi con il territorio, le sue dotazioni e le sue comunità insediate. Tale revisione si articola intorno ad alcuni elementi e categorie fondamentali. In primo luogo si tratta di recuperare nei processi e scelte di sviluppo locale la dimensione della sovranità culturale e cognitiva – dunque anche tecnica – della dimensione locale rispetto alle dinamiche economiche globali con cui tale dimensione si confronta15. Tale dimensione di sovranità risulta prioritaria e fondativa anche rispetto anche alle stesse esigenza di tutele materiale dei luoghi che, in assenza di quella, risultano talvolta in scelte ‘conservative’ e scarsamente argomentabili o difendibili. Solo il recupero della competenza e responsabilità locale circa la natura dei problemi territoriali, delle risorse, dei trade off con le reti sovralocali, permette il recupero di una capacità di uso consapevole ed appropriato della tecnica, responsabilità ed equità rispetto all’impiego delle risorse stesse. Ciò anche in relazione ad altri territori, nel contesto di una “economia totale” che assuma la centralità anche di fattori qualitativi di benessere, non ultime le amenities di tipo ambientale e paesaggistico16. La diretta espressione del recupero di sovranità – almeno in forma parziale – da parte della dimensione locale risiede nella capacità di sviluppare processi di sviluppo e forme di 12  J. Jacobs, Cities and the wealth of nations. Principles of Economic Life, Vintage, New York, 1984. 13  S. Sassen, Le città nella economia globale, Il Mulino, Bologna, 2004; Paquot T., Terre urbaine. Cinc défis pour le devenir urbaine de la planéte, La Découverte, Paris, 2006. 14  European Environment Agency (EEA), Urban Sprawl in Europe-The ignored challenge, Report, Louxembourg, 2006. 15  Vandana Shiva, G. Brunori, et al., a cura di, Manifesto sul futuro dei sistemi di conoscenza. Sovranità della conoscenza per un pianeta vitale, Commissione Internazionale per il future dell’alimentazione e dell’agricoltura, ed a cura di ARSIA Toscana, Firenze, 2009. 16  Power T.M., Lost landscapes and failed economies. The search for a value of place, Island Press, Washington D.C., 1996, pp. 27-28. 76


Fig.1 Modello economico competitivo Vs modello bioreigonale cooperativo degli scambi commerciali (fonte. Thayer, 2013).

organizzazione economico-produttiva auto-sostenibili17 o di self-reliance18 secondo i quali ciascuna bioregione urbana sviluppa al massimo le proprie capacità produttive attraverso un bilanciato incrocio fra capacità di innovazione, possibilità di risorse e limiti – fisici e dell’ecosistema – caratterizzanti il contesto regionale. Ciò permette l’innesco di un costante ed endogeno processo di import-replacing19 e scambio con i sistemi sovralocali ed altre regioni. Tutto ciò si traduce dunque non in una ricerca di autosufficienza ed autarchìa economica, bensì in un sistema di relazioni economiche non più competitive e fuori dal controllo dei luoghi, ma nella attivazione di legami cooperativi in cui ciascuno luogo scambia con l’esterno il proprio sovrappiù o specificità produttive, acquisendo invece ciò che non può produrre (cfr. Fig. 1). Si tratta dunque di un processo economico equilibrato che pur valorizzando le specificità locali si fonda su di un principio di responsabilità circa l’uso delle proprie risorse e di acquisizione crescente di competenze produttive tali da ridurre drasticamente l’import da regioni talvolta sfruttate oltre i propri limiti. L’autosostenibilità induce dunque, sul piano economico ed energetico, il rifiuto di forme “estrattive di economia”20 cogliendo invece il valore strategico delle dotazioni patrimoniali (ecosistema, paesaggio, conoscenze contestuali, beni culturali) come fattori fondamentali per la costruzione di territori attrattivi anche dal punto di vista economico e per la produzione di valore aggiunto territoriale come esito di uno specifico “moltiplicatore economico” locale (cfr. Fig. 2). é secondo l’architettura di questo modello che il sistema economico locale può selezionare dall’esterno gli input per la attivazione di processi economici virtuosi, per la costruzione di ‘economie corali’ dove, ricorrendo ancora al lessico becattiniano, non è il capitale che ‘ingaggia’ territorio e lavoro ma viceversa21. Economie della bioregione urbana così configurate risultano adeguate a coniugare resilienza economica e resilienza ambientale, ed a produrre ambienti in grado di affrontare 17  A. Magnaghi, Il progetto…. 18  M.S. Cato, The bioregional economy. Land, liberty and the pursuit of happiness, Earthscan, 2013. 19  J. Jacobs, Cities and the wealth of…, cit. 20  T.M. Power, Lost landscapes…, cit., pp. 235-254. 21  G. Becattini, La coscienza dei luoghi, il territorio come soggetto corale, Donzelli, Roma, 2015. 77


Fig. 2 Modello economico regionale estrattivo Vs processo moltiplicatore endogeno del reddito determinato dalla tutela e messa in valore delle amenities de territorio (fonte Power 1996).

i sempre più frequenti shock energetici, così come le sfide ed opportunità proposte dal processo necessario di transizione dell’economia verso un nuovo regime energetico e materiale22 nel contesto dei già ricordati e sempre più evidenti limiti entropici del pianeta23. Come conseguenza ultima del quadro descritto è importante sottolineare come l’approdo ad una dinamica e profilo di self-reliance del territorio e della economia locale fondato sulla ‘territorialità attiva’24 descritta in precedenza implichi, talvolta, la necessità di una ‘chiusura selettiva regionale’25 rispetto ad alcune relazioni di mercato e fattori esogeni e globali di sistema. Ciò, in particolare, quando alcune di tali relazioni si configurino come agenti ‘estrattivi’ di valore dal territorio – invece che come moltiplicatori di reddito – riduttivi dei bacini di risorse non riproducibili e quindi limitate, ma anche della capacità di sviluppare percorsi autonomi ed endogeni di sviluppo da parte del sistema locale. Vedremo nel paragrafo 5, nel caso concreto delle filiere locali, come tale aspetto sia fondamentale nella costruzione dei primi elementi di una economia bioregionale.

L’interfaccia urbano/rurale come dominio strategico per la bioregione urbana La sfida della ricostruzione di legami di prossimità fra dominio urbano e regione di riferimento, verso il recupero di un sistema insediativo bioregionale, è di carattere multimensionale. Essa attiene non solo alla ridefinizione degli aspetti produttivi e cognitivo/ relazionali del sistema economico, ma anche, data la natura integrata dell’approccio bioregionale, alla dimensione spaziale e territoriale come medium fondamentale per il riavvicinamento fra questi due ambiti. In particolare tale sfida si gioca, in maniera più evidente, stimolante ma anche problematica, proprio dove questi due domìni, più che 22  M.S. Cato, R.F. James, From resilient regions to bioregions: an exploration of green post-keynesianism, in Post keynesianism economics study group,Working paper 1407, 2014. 23  Roegen, 1975, cit. 24  G. Dematteis, Per una geografia della territorialità attiva e dei valori territoriali, in a cura di P. Bonora, SLoT, quaderno1., Baskerville, Bologna, pp. 11-30. 25  Stöhr, Thödling, Spatial equity, some antitheses to current regional development strategy, in

Regional Sciences, vol. 38/1, 1977, pp. 33-53. 78


altrove, si confrontano in maniera più diretta, e cioè nell’ambito di interfaccia urbano/ rurale. Malgrado i crescenti, già ricordati, fenomeni di sprawl e diffusione insediativa, rispetto ai quali molti contributi analitico/interpretativi della geografia terrtoriale ed urbana tendono ad archiviare la distinzione urbano rurale introducendo categorie “ibride”26, dal punto di vista della bioregione urbana, tale distinzione appare, malgrado la complessità de fenomeno urbano, ancora di rilievo e dotata di valore euristico. Ciò in particolare in relazione alla necessità di ricostruire, anche in termini progettuali una “matrice agroecosistemica” adeguata a ridefinire sia in termini morfologici che funzionali l’ambiente urbano e a garantire un livello adeguato di qualità ambientale e paesaggistica del territorio. In tale prospettiva l’interfaccia urbano rurale, che potremmo definire come una fascia di transizione – a geometria e spessore variabile – fra questi due diversi domini, diviene un ambito spaziale strategico nello studio e ridefinizione delle relazioni fra ambiente insediato ed ecosistema nella bioregione urbana27. Ambito di prossimità ed interscambio fra natura e cultura, fra città e campagna, ove ridefinire, sia in termini di governance e di costruzione di politiche che in termini progettuali, flussi e relazioni e dove, più che altrove, mettere in campo e sviluppare le forme economiche di prossimità indicate in precedenza. Si tratta di un dominio spaziale i cui diversi caratteri sono stati identificati e nominati in varie maniere nell’ambito della pianificazione urbana e territoriale, spesso per indicare fenomeni non proprio assimilabili fra di loro. Categorie come aree perirubane, aree di frangia, ambito urbano/rurale, aree intercluse, brownfields, corone e cunei verdi... etc... etc... – non sempre sono risultate soddisfacenti e in genere sono caratterizzate da una prevalente visione urbanocentrica, che non rende ragione delle qualità originali e potenzialità ecosistemiche di questi ambiti di transizione, così come delle attività agricole e ‘non urbane’ che vi sono svolte. Queste ultime, peraltro, assumono talvolta forme non residuali e si presentano anche come induttive di forme innovative di gestione del territorio. Come una membrana cellulare l’interfaccia urbano/rurale può essere interpretata come un dispositivo, cognitivo, materiale e spaziale regolativo finalizzato a mantenere la distinzione fra domini ed organismi diversi ma senza separare in maniera netta, permettendo comunque il passaggio di flussi informativi e materiali, adeguati comunque a garantire la co-evoluzione fra tali domini o, per rimanere la terminologia biologica, a permettere la “autopoiesi” della bioregione attraverso il loro “accoppiamento strutturale”28. É in questo ambito, dunque, più che altrove, che si presentano le sfide ma anche le opportunità per la sperimentazione e messa in atto di dispositivi regolativi, scenari strategici e progetti integrati per la costruzione dei primi elementi della bioregione urbana e dove, progetto di territorio e economie di prossimità possono essere congiuntamente ridefinite in una prospettiva di sviluppo endogeno autosostenibile. Nel prossimo paragrafo vedremo, brevemente, alcune esperienze condotte ed animate in accordo con questo tipo di orientamento e paradigma secondo una metodologia di ricerca/azione. 26  Gli esempi sarebbero innumerevoli e renderne conto richiederebbe uno studio apposito, anche perché riferito, ciascuno di questi, a contesti regionali specifici. Ne ricordo solo alcuni, che vanno dalla “nebulosa urbana” di Gottman negli anni ‘60, alle aree rururbane coniate da Roux negli anni ’70, fino alla città diffusa coniata da Indovina negli anni ’90 per arrivare alla idea di ‘città porosa’ proposta da Secchi nel primo decennio di questo secolo. 27  A. Allen, Environmental planning and management of the peri-urban interface: perspectives on an emerging field, in Environment and Urbanization, 15, 2003, pp. 135-148. 28  Maturana, Varela, Autopoiesi. La realizzazione del vivente, Marsilio, Roma, 1985. 79


Fig. 3 Il contesto insediativo metropolitano Firenze, Prato, Pistoia.

Filiere agroalimentari locali come parti di una economia bioregionale: il caso del progetto per il Parco Agricolo di Prato Il bacino urbano/metropolitano che, in Toscana, si estende da Firenze a Pistoia, costituisce il “cuore urbano” ed insediativo della Toscana (cfr. Fig. 3). Ciò sia per quanto riguarda il numero di abitanti, che supera il milione, sia per il livello di attività e servizi che vi sono situati. Tale contesto si configura al contempo come un quasi ideale sub-bacino, tributario di alcuni corsi fluviali e rappresentabile con una sua identità unitaria, esito di processi insediativi e di strutture idro-geomorfologiche di lunga durata dove appare pertinente sondare la validità del modello della bioregione urbana per un approccio rigenerativo della relazione fra dimensione agroambientale, ecosistemica ed urbana (cfr. Fig. 4). In tale contesto, ed in particolare nel sub-ambito della piana che va da Firenze a Prato la Regione Toscana ha promosso dal 2007 un percorso per la creazione di un Parco Agricolo multifunzionale che ha condotto alla formale approvazione di tale parco nel contesto del Piano di Indirizzo Territoriale Regionale29 (Fig. 5). Parallelamente a tale percorso, ed a partire da una attività di ricerca/azione promossa dall’Università di Firenze30, è stato costituito ed attivato fin dal 2006 un forum di attori locali per la promozione di un progetto di parco agricolo riferito nello specifico al 29  Deliberazione del Consiglio Regionale n. 61 del 16 luglio 2014. Approvazione dell’integrazione al piano di indirizzo territoriale (PIT) per la definizione del Parco agricolo della Piana e per la qualificazione dell’aeroporto di Firenze. In merito alle caratteristiche e criticità di tale progetto si veda D. Fanfani, Il parco Agricolo della piana fiorentina. Un progetto integrato di territorio tra opportunità e conflitti, in Urbanistica Informazioni, INU edizioni, Roma, 2016. 30  Ricerca PRIN 2004-06, Il Parco agricolo come strumento innovativo di pianificazione degli spazi aperti (coord. Naz.le A. Magnaghi). 80


Fig. 4 L’ambito paesaggistico Firenze, Prato Pistoia (fonte Regione Toscana, Piano Paesaggistico Territoriale, 2015).

Fig. 5 L’area del Parco Agricolo della Piana Fiorentina (retino verde chiaro) e gli ambiti dei parchi agricoli di Prato e di rive sinistra d’Arno (comuni di Firenze, Scandicci e Signa). 81


Fig. 6 Progetto di Scenario per il Parco Agricolo di Prato (fonte. Tesi di Laurea Triennale, CdS Urbanistica e Pianificazione del Territorio e dell’Ambiente, G.Calvelli, M.Mengo, rel. D. Fanfani, AA 2007/08, Università di Firenze).

territorio del comune e della provincia di Prato. Il forum31, a seguito della condivisione di una “protocollo di intenti” finalizzato in particolare alla tutela del territorio agricolo periurbano attraverso la promozione di una agricoltura multifunzionale di prossimità, ha sviluppato una azione di sensibilizzazione presso abitanti ed amministrazioni locali. Tale attività ha assunto un suo profilo di carattere culturale attraverso la promozione di seminari e convegni, ma si è anche concretizzata in una intensa attività di rete con gli attori locali. Ciò in particolare attraverso la costituzione di una “consulta degli operatori agro alimentari” del territorio pratese ed avvalendosi anche del supporto di un comitato tecnico-scientifico. L’expertise universitaria nell’ambito della pianificazione fisica, si è in particolare focalizzata nella progressiva implementazione di uno scenario di progetto per il parco agricolo di Prato, attività condotta anche attraverso esercitazioni didattiche (cfr. Fig. 6). In particolare il forum, formalizzatosi dal 2010 nella “Associazione di associazioni Parco Agricolo di Prato”, ha dato continuità a tale attività di rete sviluppando dei progetti di filiera produzione-consumo su scala locale. Ciò al fine, in particolare, di verificare e dimostrare 31  Per le attività del forum e relativi materiali si veda www.parcoagricoloprato.org 82


Figg. 7 - a,b,c Prodotti ed attori della filiera cerealicola locale “GranPrato”.

la reale fattibilità di forme di economia di prossimità legate alla agricoltura periurbana ed in grado di perseguire non solo obiettivi di sostenibilità ambientale ma anche il mantenimento di un presidio agricolo sostenibile dal punto di vista eco-sistemico ed economico nel quadro di relazioni di cooperazione fra produttori agricoli e popolazione urbana, in particolare consumatori. Il primo progetto in questa direzione è consistito nella creazione di una filiera cerealicola locale che, valorizzando una specifica vocazione colturale – la cerealicoltura – ed artigianale locale – la panificazione – ha permesso di mettere in rete, nella attuale fase a regime, oltre 10 aziende agricole, 10 forni ed un mulino, che permettono la produzione di pane a km 0 attraverso l’impiego di grano locale e la panificazione a lievitazione naturale. Aspetto particolare di tale progetto è costituito dalla modalità di costruzione partecipata del progetto con gli attori locali e dalla ricerca del congiunto obiettivo della convenienza economica per tutti gli attori e del giusto prezzo e garanzia qualitativa per i consumatori32 (Figg. 7 - a, b, c). 32  Il grano viene pagato all’agricoltore 40 €/qle e per un prezzo stabile su tutta l’annata agraria. Si pensi che tale prezzo normalmente oscilla durante l’anno e su livelli che non arrivano nemmeno alla metà di quello riconosciuto in filiera. Ciò non si riflette nel raddoppio del prezzo per il consumatore in quanto consumatore il pane a lievitazione naturale costa circa 3 €/kg. 83


In questo principio di giusta remunerazione e di costruzione di una economia bioregionale equa33 intorno alla produzione e mercato del cibo34 si esplica peraltro il già richiamato concetto di ‘chiusura regionale selettiva’ dal mercato globale e, allo stesso tempo, il recupero a livello locale di un ‘moltiplicatore’ di un reddito35, come valore aggiunto della produzione, che altrimenti andrebbe ‘dissipato’ verso l’esterno. Il successo ed espansione che attualmente sta avendo il progetto36 indica la fattibilità reale della costruzione di un modello economico bio-regionale, incentrato in particolare sullo sviluppo di relazioni di reciprocità, tutela e messa in valore delle risorse locali e cooperazione agro-urbana. Non dissimile da questo primo progetto, tuttavia in una fase più iniziale, risulta anche il progetto di filiera per il recupero e sviluppo di un conveniente mercato locale per l’allevamento di una razza bovina autoctona denominata ‘Calvana’. Anche in questo caso l’associazione ha operato nel contesto di un chiaro ‘fallimento’ del mercato nell’apprezzamento di una valore come la biodiversità autoctona e dei limiti manifestati dal soggetto pubblico nel governare tale fallimento37. Ciò introducendo una azione di indirizzo e coordinamento ‘dal basso’ di una nuova filiera produzione consumo. L’azione della Associazione Parco Agricolo di Prato si è infatti concentrata nel ricondurre alla valorizzazione su di un mercato locale, attraverso la filiera corta, questo tipo di produzione che, inserita nel mercato della grande distribuzione, per ragioni di omologazione dei processi di trasformazione e commercializzazione, non solo non aveva successo ma rischiava di condurre alla interruzione dell’allevamento stesso. Agendo ad una vera e propria scala di bioregione urbana -i sub-bacini idrografici della val di Bisenzio, del Mugello e la città di Prato- il progetto, ha già mostrato l’ampia fattibilità e vitalità della filiera, evidenziando anche il sussistere delle condizioni per un suo recupero ed integrazione con l’attuale sistema agricolo periurbano38. Ciò, anche sul piano del paesaggio e dell’ambiente agrario, è un aspetto sicuramente ricco di conseguenze, poiché pone le condizioni per un modello di agricoltura pluri-produttiva che, attraverso la cooperazione 33  K. Pezzoli, Bioregional justice: a framework for ecological restoration, (draft statement prepared for the good neighbor environmental board), Global Action Research Center, San Diego, 2013. 34  K. Morgan, Feeding the city: the challenge of urban food planning, in International Plan-

ning Studies, no 4, vol.14, 2009, pp.341-348; Morgan K., Sonnino, The urban foodscape. World cities and the new food equation, Cambridge Journal of Regions, in Economy and Society, 2010; Marino D., Cicatiello C., a cura di, Farmer’s markets, la mano visibile del mercato. Aspetti economici, sociali e ambientali delle filiere corte, Franco Angeli, Milano, 2012.

35  T.M. Power, Lost landscapes and failed economies. The search for a value of place, Island Press, Washington D.C., 1996, cit.; Dwarshuis, Van de Beek, Rurubal, Local Food systems, presentation proposé a le Rencontre International sur Les systemes agroalimentaires locales et les nouvelles politiques europeennes, 2011. 36  Negli anni si è assistito ad una crescita costante della vendita di farina, anche direttamente ai consumatori. Si è passati da 25 Tonn del 2013, a 52 Tonn nel 2015 (+108%) fino alle 64 tonn nel 2015 (+23%). Insieme all’apprezzamento del prodotto. Il progetto incontra inoltre interesse sia a livello regionale che nazionale ed internazionale. 37  Tale razza è stata infatti tutelata dalla regione Toscana, insieme ad altre, come patrimonio genetico autoctono a rischio di scomparsa attraverso il sostegno economico agli agricoltori per capo allevato. A tale azione non si è tuttavia accompagnata una complementare e necessaria attività di supporto ed indirizzo per la ricostruzione delle relazioni di tale produzione con possibili forme di mercato finale. 38  La commercializzazione dei pacchi di carne, di diversa pezzatura e taglio, avviene al momento con periodicità mensile ed interessa oltre 50 nuclei familiari di consumatori, a fronte di una domanda che, comunque, è più ampia. L’obiettivo prioritario, dopo questa prima fase pilota, risulta essere quello di stabilizzare consolidare i meccanismi di vendita e di rapporto con il mercato. Ciò sia sul piano amministrativo/gestionale che individuando uno o più strutture fisiche come spazi di vendita. 84


fra aziende zootecniche e cerealicole39 può sviluppare forme di complementarità colturale, cluster aziendali, e rotazioni agrarie tali da ridurre il ricorso a prodotti ed apporti chimici e, con questo, il suo impatto ambientale. Sul versante della pianificazione fisica questi due esempi, che ad una prima analisi possono apparire distanti da tale ambito, dimostrano che il progetto di territorio per la bioregione urbana non può essere semplicemente limitato ad assetti di carattere fisico/ spaziale ignorando alcune fondamentali condizioni al contorno che determinano le stesse scelte di pianificazione fisica. Intersettorialità ed integrazione sono infatti alla base di un possibile modello insediativo e di sviluppo “agropolitano”40 dove ad una organizzazione policentrica e co-evolutiva fra dimensione urbana e rurale, corrisponde un modello socio economico di reciprocità e mutuo supporto fra questi due ambiti. Ciò in particolare in termini di scambio di valore, fra abitanti, attività produttive e servizi urbani e rurali41. In questo senso il ruolo del planner si configura come un soggetto in grado di strutturare ed alimentare un “dialogo deliberativo e strategico” fra attori locali, pubblici e privati, alla ricerca di continue e sempre migliori coerenze fra obiettivi di sviluppo locale e regole ed assetti fisici per un progetto integrato di territorio.

Considerazioni in prospettiva La prospettiva di una transizione per il superamento di un regime energetico incentrato su ormai insostenibili apporti esogeni ai sistemi locali e regionali significa, come abbiamo visto, attribuire nuova rilevanza alla categoria della prossimità dei flussi di materia ed energia nell’insediamento umano. In questo quadro e nei termini concreti delle categorie territoriali, l’ambito di interfaccia urbano/rurale assume un valore strategico in questo processo di transizione per una nuova ed originale integrazione fra dominio urbano e rurale. Ciò non solo ai fini di migliorare la qualità eco-sistemica e le prestazioni ambientali finalizzati ad accrescere la resilienza del territorio ai cambiamenti climatici, ma anche in relazione alla possibilità di sviluppare processi di sviluppo locale endogeni, fondati sulla messa in valore del patrimonio territoriale. In questo quadro la produzione di cibo – per l’insieme di valori ed implicazioni culturali, economiche, ambientali, territoriali che tale ambito comporta – rappresenta sicuramente un ambito strategico rispetto al quale si giocano le possibilità di successo di un reale processo di transizione ed un campo di innovazione per la pianificazione ed il progetto urbano42. I casi illustrati, come esperienze di avvio di un processo di transizione bioregionale, rivelano la possibilità di successo di tale 39  H. Korevaar, M.C. Hanegraaf, J.T. Regan, Is a combination of crop and livestock production profitable and supporting sustainability at regional level?, short paper presentato alla Second International Conference Agriculture in an urbanizing society, Reconnecting agricolture and food chains to social needs, WG n.8, Food systems and spatial planning. Towards a reconnection Rome 14-17, September 2015. 40  J. Friedmann, C. Weaver, Territory and function. The evolution of regional planning, University of California Press, Berkely, Los Angeles, 1979, cit. 186-216). 41  G. Ferraresi, a cura di, Produrre e scambiare valore territoriale, Alinea, Firenze, 2009. 42  A. Viljoen, K. Bohn, J. Howe, CPULS. Continous productive urban landscapes, Designing urban agriculture for sustainable cities, Elsevier, 2005; J. Donovan, K. Larsen, J. Mc Winnie, Food sensitive Planning and urban design: a conceptual framwork for achieving a sustainable and healthy food system. Melburne: Report commissioned by the National Hearth Foundation of Australia (Victorian Division), 2011. 85


prospettiva, così come la necessità di un approccio metodologico di tipo incrementale ed incentrato su nicchie locali di innesco verso una incisività sistemica più ampia43. Le attività di ricerca azione illustrate evidenziano al contempo alcune questioni di carattere metodologico/operativo che sono centrali rispetto alle possibilità di successo del percorso di transizione e di ri-localizzazione insediativa. Sul piano del progetto fisico, il progettista urbano ed il pianificatore sono chiamati ad ampliare notevolmente le proprie categorie analitico/interpretative e progettuali introducendo categorie e tipologie di patterns spaziali e funzionali caratterizzati da nuove modalità di interazione e composizione fra funzioni e servizi urbani, strutture dell’agroecosistema ed agroalimentare. Ciò si traduce nella individuazione di una interfaccia ‘urbano–rurale’ come, una nuova ‘frangia di intensità agro-urbana’ ove si sviluppano reti di connessione ambientale, nuovi spazi di produzione e vendita, sistemi innovativi di residenza e logistica, come veri e propri hub di funzioni integrate, generatori talvolta di nuove forme di spazio pubblico (Figg. 8, 9). Inoltre, rispetto alla costruzione delle politiche pubbliche, l’azione sulle aree periurbane di interazione urbano/rurale implica una rinnovata ed originale capacità di governance per integrazione fra piani e progetti territoriali e strumenti di sviluppo rurale. Ciò appare tanto più complesso sia nella tradizione della pianificazione urbanistica italiana, sia, in prospettiva, rispetto al recente processo di riforma delle autonomie locali in Italia dove del ruolo provinciale che – per presenza territoriale – poteva forse più facilmente interagire rispetto alla pianificazione comunale, tende ad essere ricondotto al livello regionale. Peraltro ciò che appare necessario in questo senso è un vero e proprio cambiamento di paradigma44, dove la dimensione della matrice agro-ambientale del territorio, a partire da un nuovo processo di condivisione sociale, venga assunta come fattore generativo e strutturale non solo della forma urbana ma anche della possibilità di misurare ed orientare le scelte di sviluppo locale. Da questo punto di vista le recenti indicazioni della Unione Europea in merito alla diffusione e pratica di forma di Community Led Local Development (CLLD) o sviluppo locale partecipato indicano una chiara direzione da seguire. Si tratta di un approccio di particolare pertinenza proprio rispetto alla natura multidimensionale ed integrata dei contesti periurbani nei quali sviluppare progetti integrati di territorio costruiti secondo modalità partecipative e partenariali ed adeguati anche ad attingere a più misure e fondi strutturali comunitari e regionali. In questa direzione vale la pena segnalare la recente iniziativa della Regione Toscana per la definizione, partecipata ed in forma partenariale multiattore, di specifici “Progetti Integrati di Territorio” (PIT) finalizzati alla applicazione integrata di più misure che, seppure a valere sui fondi del Piano di Sviluppo Rurale, permettano di affrontare in maniera efficace ed in termini progettuali le problematiche di specifici contesti territoriali, in particolare riferiti alle aree agricole periurbane45. 43  T.J. Foxon, A coevolutionary framework for analysing a transition to a sustainable low carbon economy, in Ecological Economics, 70, 12 (2011), pp. 2258–67. 44  C. Peltier, Agriculture er projet urbain durables en périurbain:la nécessité d’un reel changement de paradigme, in VertigO-La revue electronique en scieces de l’environnement, 10:2, 2010, pp. 1-21. 45  I primi due Progetti Integrati di Territorio sembrano in questa fase essere indirizzati proprio verso i contesti periurbani della piana metropolitana fiorentina. Essi sono tematizzati in relazione ai due parchi agricoli uno in riva sinistra d’Arno - oggetto di un processo partecipativo animato anch’esso e di recente dall’ Università di Firenze denominato ‘progettare con l’Arno’(si veda anche fig. 5) - e, l’altro descritto in precedenza, nella piana metropolitana in riva destra. 86


Fig. 8 Studio progettuale per l’interfaccia urbano/rurale multifunzionale nel territorio di Prato (paese di Iolo).

Fig. 9 Studio per un progetto integrato agro-paesaggistico nel settore sud/est dell’area agricola di Prato. 87


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Il paesaggio agrario tra filiere e territorio, tra città e campagna Il ruolo del cibo nella nuova agenda urbana Davide Marino

Introduzione I rapporti tra agricoltura, produzione e consumo di cibo e paesaggio sono oggi al centro di profonde trasformazioni. La continua crescita della popolazione e il suo rapido inurbamento, la prospettiva di una riduzione delle risorse primarie come suolo, acqua e biodiversità, i crescenti processi di concentrazione economica che, insieme alla globalizzazione, ridisegnano la geografia della produzione e dei consumi come i rapporti di forza all’interno delle filiere sono solo alcuni dei driver che concorrono a queste trasformazioni. L’agricoltura nei prossimi decenni sarà chiamata a svolgere un ruolo fondamentale non solo per le sue tradizionali funzioni di “settore primario” (produzione di alimenti, materie prime, biocarburanti, ecc.), ma anche alla luce di questioni “globali”, legate all’aumento dell’instabilità delle produzioni, con alternanza di periodi di eccedenze e periodi di scarsità, all’incremento dei costi dell’energia e dei trasporti, previsioni che assegnano un ruolo chiave alla regionalizzazione delle produzioni e dei consumi. In questo scenario, la relazione tra produzione e consumo può assumere un ruolo baricentrico nel ri-orientamento dei flussi verso logiche sostenibili. In questo quadro, il presente contributo si pone l’obiettivo di indagare i rapporti tra scelte economiche, relazioni interne alle filiere agroalimentari e trasformazioni del paesaggio. Il primo paragrafo è dedicato ad analizzare il rapporto tra produzione agricola e paesaggio anche alla luce del concetto di filiera. Successivamente si analizzano le relazioni tra città e campagna, alla luce dei cambiamenti in atto. Infine si discute del ruolo della dimensione locale delle politiche alimentari con l’intento di mettere a fuoco possibili strategie di riequilibrio tra le parti.

Dimensione aziendale e mercati nella costruzione dei paesaggi agrari Le strutture e le forme dei paesaggi agrari possono essere studiate in relazione ai fattori che li hanno costituiti e modificati nel corso di un processo coevolutivo tra l’uomo e il suo habitat. In particolare, nei paesaggi agrari la dinamica coevolutiva si deve all’interazione tra il progetto sociale dell’uomo imprenditore agricolo e i vincoli posti dal sistema naturale. 91


Il paesaggio agrario quale forma percettiva e ancora di più nelle sue strutture e nella sua organizzazione, può essere analizzato quindi secondo un approccio sistemico che consideri tanto il ruolo delle strutture sociali e dei processi economici quanto dei caratteri ecologici, a partire dalla disponibilità – in quantità e qualità – di risorse naturali1. Il paesaggio deriva dalle scelte umane, in termini economici è una eternalità – nel caso dei paesaggi agrari spesso positiva ma a a volte anche negativa – dei processi produttivi che derivano dagli obiettivi aziendali. Lo spazio in cui è possibile osservare l’azione antropica s’identifica nello spazio economico, e non solo fisico, dei mercati, uno spazio definito dall’azione dell’uomo quale agente economico, con il complesso dei suoi obiettivi e delle sue scelte. I mercati sui quali l’imprenditore compie le proprie scelte, sono relativi, quindi ai prodotti, ai fattori di produzione, al lavoro, ai capitali, sino a interessare l’ambito delle relazioni istituzionali e sociali. Gli obiettivi, secondo un consolidato approccio economico-agrario allo studio dell’impresa, possono essere declinati in termini imprenditoriali, aziendali e familiari; in termini generali, si può assumere come obiettivo comune alle diverse tipologie d’impresa la massimizzazione della funzione di utilità del suolo agrario. In altri termini, quali che siano gli obiettivi dell’impresa – massimizzazione del reddito agrario, impiego del lavoro familiare – essi hanno un immediato riscontro nell’uso del suolo – produttivo, insediativo, conservativo – ossia, nello spazio fisico sul quale si esercita l’attività agricola. Dagli obiettivi imprenditoriali scaturiscono una serie di scelte economiche e sociali dell’imprenditore agricolo e della sua famiglia. Le scelte, dall’impresa agraria familiare a quelle delle grandi aziende, sono operate in un contesto economico e sociale – l’ambiente operativo – non coincidente, e di norma più ampio, rispetto a quello fisico in cui le stesse vengono poi applicate. La scala dell’ambiente operativo può essere molto variabile e – anche se oggi sembra scontato studiare le relazioni tra dinamiche economiche globali e scelte aziendali, con i conseguenti riflessi in termini di evoluzione del territorio – il fenomeno non è certo nuovo. Medici nel 1951 descriveva così il complesso di tali relazioni: “a chi attentamente osservi la complessa e intricata struttura agricola e fondiaria del Mezzogiorno continentale e della Sicilia appare chiaro che i fattori di ordine fisico, clima e terreno, hanno avuto una parte preponderante nel determinare il sistema di coltura e, quindi, il tipo d’impresa. Non è difficile rendersi conto che là dove ancor oggi domina la grande proprietà di tipo latifondistico prevalgono i terreni pesanti, argillosi, sui quali l’albero cresce a fatica o muore per asfissia radicale, oppure richiede costosi lavori di impianto di convenienza ed efficacia dubbie. Ed è altrettanto facile costatare che, nel cuore delle estese zone latifondistiche, l’esistenza di terreni grossolani o porosi e leggeri o comunque idonei alla vite, all’olivo oppure al mandorlo ha permesso il rapido diffondersi di imponenti arboreti”2. I fattori naturali, quindi, condizionano quelli economici e tale relazione è biunivoca e recursiva. Bevilacqua ha messo in luce come quelli che sono oggi considerati gli elementi portanti del paesaggio agrario del Mezzogiorno siano stati influenzati dall’evoluzione del commercio internazionale di frumento della seconda metà dell’ottocento, quando “gran parte delle campagne del Sud furono teatro di una trasformazione sensibile e sempre più accelerata 1  D. Marino e A. Cavallo, Rapporti coevolutivi tra costruzione sociale e caratteri naturali: il paesaggio agrario tradizionale, in Rivista di Economia Agraria, n. 3 – 4, 2009, pp. 443 – 464; D. Marino e A. Cavallo, Lo studio delle trasformazioni del paesaggio agrario: un modello interpretativo, in G. Barbera, R. Biasi, D. Marino (a cura di), Il Paesaggio agrario tradizionale, un percorso per la conoscenza, Ed. Franco Angeli, Milano 2014. 2  G. Medici, I tipi d’impresa dell’agricoltura italiana, Edizioni Agricole, Bologna-Roma 1951. 92


del paesaggio agrario”3, secondo l’autore si trattò di una “via mediterranea allo sviluppo dell’agricoltura” con una forte espansione delle colture arboricole – soprattutto olivo, agrumi e frutta – e degli ortaggi, dovuta all’interazione di una serie di fattori di diversa natura: mercantili con la concorrenza dei grani nord-europei, di progresso tecnologico nei trasporti (che consentì ai prodotti del Meridione di raggiungere nuovi mercati, ma che aprì anche i mercati italiani alla concorrenza estera per prodotti allora tradizionali come zucchero e tabacco), l’espansione urbana con la nuova domanda di prodotti freschi e la crescita delle colture orticole nelle fasce periurbane. Un modello che, sulla base dei vantaggi comparati, portò alla specializzazione produttiva dei sistemi agrari del Mezzogiorno. A scala di unità produttiva il processo coevolutivo tra sistema sociale – le scelte economiche – e sistema ambientale – i caratteri ecologici primari – è ancora più evidente. Il classico schema delle scelte “aziendali” di Serpieri, in cui la “scelta della combinazione produttiva da parte dell’imprenditore agricolo è determinata da fattori vari che sono in parte oggettivi, in parte soggettivi”4, sembra particolarmente utile nel considerare insieme i due elementi. Tra i fattori oggettivi si trovano quelli agroambientali (clima, acqua, terreno) e quei fattori socioeconomici sui quali l’imprenditore non ha capacità di influire, come i prezzi. Serpieri, inoltre, opera una gerarchizzazione tra le scelte: la prima scelta, secondo l’autore, riguarda il fondo che condiziona l’ordinamento produttivo, “fondo e ordinamento aziendale sono interdipendenti: la combinazione produttiva risulta dal loro reciproco adattamento”. Il fondo – ossia, le caratteristiche agro pedologiche – può essere adattato alla combinazione produttiva o questa adattarsi a esso. Il reciproco adattamento di cui parla Serpieri, così come le due “costanti storiche”, ossia clima e mercato, individuate da Bevilacqua, danno vita a un paesaggio “disegnato dalle conoscenze tecniche degli agricoltori e le richieste dei mercati”5, che esplicita il rapporto coevolutivo tra sistema naturale e sistema socioeconomico. Ecco allora che è possibile riconoscere gli effetti che la componente naturale ha avuto sulle scelte dell’uomo e su come questi ha trasformato il paesaggio. A tale fine è possibile ripercorrere il tradizionale schema delle scelte aziendali di Serpieri, ipotizzando le scelte economiche di una impresa vitivinicola6. Nello schema di Serpieri alla determinazione della combinazione produttiva seguono poi – a cascata – le scelte organizzative e quelle che riguardano la tecnologia produttiva. Tale approccio può essere utilizzato per “spiegare” la costruzione del paesaggio agrario come risultato delle scelte imprenditoriali, sottoposte ai vincoli dettati dal sistema ambientale. Le scelte in merito alla “combinazione produttiva” – e ai processi produttivi – sono quindi l’espressione del processo di adattamento ma, allo stesso tempo, determinano le forme dei paesaggi agrari, ossia la struttura e l’organizzazione dell’agroecosistema, così come le relazioni tra questo e il più ampio sistema socioeconomico. In questo quadro, le trasformazioni del paesaggio possono essere meglio comprese attraverso un’unità di indagine intermedia – le filiere agroalimentari – tra il processo produttivo e il sistema economico, all’interno delle quali sono articolate, in senso economico, tutte le attività che vanno dalle singole produzioni della fase agricola alla trasformazione industriale ed alla distribuzione organizzata. 3  P. Bevilaqua (a cura di), Storia dell’agricoltura italiana, Marsilio, Venezia 1990. 4  A. Serpieri, Istituzioni di economia agraria, Edagricole, Bologna 1947. 5  C. Barberis (a cura di), La rivincita delle campagne, Donzelli, Roma 2009. 6  D. Marino e A. Cavallo, Rapporti coevolutivi tra costruzione sociale e caratteri naturali: il paesaggio agrario tradizionale, Rivista di Economia Agraria, n. 3-4, 2009. 93


La specializzazione produttiva e i processi di riorganizzazione strutturale, che hanno investito il primario nel Novecento7, hanno condotto infatti a un radicale cambiamento dell’organizzazione delle imprese agricole connesso, tra gli altri fattori, ai processi di destrutturazione e disattivazione aziendale8 e allo stesso ruolo della meccanizzazione e dell’innovazione tecnologica, nel quadro delle politiche di sostegno dei prezzi e dei mercati. Le trasformazioni interne al settore agricolo alla luce dei cambiamenti intervenuti a partire dagli anni Cinquanta nel più ampio sistema agroalimentare, sono dettate essenzialmente da una crescente integrazione a monte e a valle dei processi produttivi agricoli e ai mutamenti interni al tessuto produttivo e alle imprese stesse. Nel passaggio dalla dimensione aziendale a quella di sistema agroalimentare il concetto di filiera9, è un potente strumento interpretativo che consente di analizzare la struttura intersettoriale del sistema agroalimentare. Nelle filiere si determinano le relazioni orizzontali e verticali di carattere mercantile e non mercantile tra le unità produttive (a esempio, imprese, associazioni di produttori) e gli altri agenti (a esempio l’operatore pubblico) coinvolti nel processo di produzione. La filiera che – specie nell’economia globale e interconnessa in cui il cibo è al centro di un processo di produzione, trasformazione distribuzione e consumo in gran parte “aspaziale”10 – determina con la sua “forma”, con i rapporti economici tra le diverse componenti che ne fanno parte, con la relazione tra luoghi di produzione e di consumo, forme e funzioni paesaggistiche altamente differenziate. Lo strumento analitico della filiera consente di evidenziare le trasformazioni sociali, economiche e ambientali del processo di produzione-distribuzione-consumo di cibo. Questi, a loro volta, per gli impatti che producono sull’elemento di base del paesaggio agrario, ossia le imprese agricole, divengono il principale fattore determinante del paesaggio agrario e rurale. Un concetto per sua natura del tutto “aspaziale” come la filiera da luogo, se pure spesso indirettamente – a paesaggi agrari e rurali differenti in luoghi – quelli della produzione e quelli del consumo sempre più spesso lontani fisicamente – differenti. Tale meccanismo ha prodotto trasformazioni evidenti su uno dei rapporti che – sotto i profili economico, identitario, ambientale – hanno caratterizzato la storia del Mediterraneo, ossia il rapporto tra città e campagna.

Agricoltura e paesaggio tra città e campagna Infatti nell’analisi del rapporto tra produzione e consumo di cibo, non è possibile prescindere dalla tradizionale organizzazione spaziale mediterranea, che si identifica nella relazione tra tra urbano e rurale, tra città e campagna. I mutamenti intervenuti nel rapporto tra tali dimensioni, per molti aspetti, costituiscono le determinanti delle trasformazioni della dinamica coevolutiva che lega le comunità rurali ai loro territori. I paesaggi urbano-rurali sono il risultato di assetti produttivi, economici, di modelli di consumo e di filiere ben determinati che caratterizzano il rapporto funzionale tra agricoltura e territorio, tra le città e le campagne. 7  R. Pazzagli, Il paesaggio agrario nel lungo Novecento, in Territori, n. 15-16, 2013, pp. 57-70. 8  R. Fanfani e E. Montresor, Filiere, multinazionali e dimensioni spaziali nel sistema agro-alimentare italiano, in La Questione Agraria, n. 41, 1991, pp. 165-201. 9  G. Scarano, Le filiere agro-alimentari italiane: una metodologia di analisi, La Questione Agraria, n. 36, 1989, pp. 119-156. 10  Si fa riferimento all’uso che fa Beccattini del termine di “aspazialità” in: G. Beccattini, La coscienza dei luoghi, Donzelli Editore, Bari 2015. 94


Se dal dopoguerra a oggi il modello agricolo è profondamente cambiato, sono cambiati i suoi impatti sul tessuto socioeconomico come la struttura delle aziende e le relazioni sociali che regolano il mondo rurale di cui l’agricoltura come settore produttivo, sembra non essere più incontestabile e unica espressione. Anche la relazione urbano-rurale è oggi più che mai complessa e articolata sia dal punto di vista sociologico che rispetto alle relazioni economiche11. Barberis sottolinea come l’economia rurale, almeno fino alla fine degli anni ’50, abbia visto una forte specializzazione agraria, tanto da consentire l’uso degli aggettivi “agricolo” e “rurale” come sinonimi12. Oggi questa sinonimia è venuta meno in virtù di una crescente diversificazione dell’economia rurale in seno alla quale l’agricoltura conserva il suo ruolo di caratterizzazione del territorio in termini di paesaggio, tradizioni e cultura. Rispetto al passato, tuttavia, non è più la fonte di occupazione e di reddito principale e, anzi, il suo peso in questo senso si è drasticamente ridotto. Dall’altra parte i processi di trasformazione che interessano l’attività primaria in ambito periurbano mostrano i segni di un’agricoltura che, lì dove sopravvive alla pressione insediativa, costruisce (e produce) forme e funzioni “nuove”. Un tessuto produttivo che, attraverso la diversificazione, la pluriattività, la vendita diretta13, cerca di rispondere a una domanda urbana che non è più esclusivamente alimentare, ma guarda in direzione di bisogni sociali e ambientali con risultati rilevanti in termini di occupazione, di valore aggiunto, di ruoli educativi e culturali14. I profondi cambiamenti che stanno attraversando il mondo contadino e rurale, in particolare in Europa, sono attentamente analizzati da Van der Ploeg che sottolinea come esso sia oggi molto più autonomo rispetto ai grandi poteri agroalimentari e perfettamente in grado di mobilitare risorse locali in un processo produttivo che non solo è capace di produrre quei beni pubblici agroambientali di cui si diceva poc’anzi, ma di farlo anche in modo sostenibile e conservativo15. Secondo l’autore, accanto a un’industrializzazione agricola diffusa, si sta affermando un’emergente “ricontadinizzazione” in risposta a una globalizzazione che cancella ogni peculiarità territoriale e ogni diversità produttiva. Van der Ploeg fa notare che questa nuova classe contadina non ambisce ad aumentare i propri profitti, consapevole che l’agricoltura sarà sempre meno redditizia, dentro e fuori i grandi sistemi agroindustriali, ma vuole piuttosto difendere i propri mezzi di produzione al solo fine di ottenere il sostentamento per sopravvivere. In Italia dall’Unità a oggi, all’incremento della quota di popolazione – e all’urbanizzazione connessa – si accompagna una flessione della quota di superfici coltivate e l’aumento di quelle boscate16. La stagione di urbanizzazione diffusa che interessa le aree metropolitane ha pesanti effetti sul territorio agrario. In Italia se le aree di pianura e le fasce costiere sono storicamente gli ambiti più urbanizzati, negli ultimi decenni la quota di zone interne montane e collinari interessate da fenomeni di diffusione insediativa sono in aumento, espressione della profonda fragilità degli ambiti rurali. 11  F. Sotte, Scenari evolutivi del concetto di ruralità, in Proposte e ricerche, economie e società nella storia dell’Italia centrale, n. 71, 2013. 12  C. Barberis (a cura di), op. cit. 13  B. Torquati e G. Giacché, Rapporto città campagna e sviluppo rurale, in Agriregionieuropa, n. 20, 2010. 14  F. Di Iacovo (a cura di), Agricoltura sociale: quando le campagne coltivano valori, Ed. Franco Angeli, Milano 2008. 15  J. Van Der Ploeg, I nuovi contadini, Donzelli, Roma 2009. 16  A. Arcidiacono, D. Di Simone, F. Oliva, S. Ronchi, S. Salata (a cura di), Nuove sfide per il suolo. Rapporto 2016, INU Edizioni Srl, Ravenna-Roma 2016. 95


In questo quadro, le città rappresentano una delle principali sfide ambientali del nostro tempo, un ambito d’intervento strategico per orientare l’agenda politica verso modelli urbani resilienti. In questo senso, gli agroecosistemi possono essere il fondamento della rigenerazione dei rapporti urbano rurali e della ricomposizione delle relazioni a scala locale e metropolitana, secondo un modello policentrico e cooperativo.

Verso nuovi equilibri: politiche alimentari e dimensione locale I sistemi urbani, con le loro campagne, sono stati negli ultimi anni laboratori di innovazione in cui hanno preso corpo nuove relazioni economiche tra produzione e consumo di cibo. Nuove filiere, nuove funzioni, nuovi attori che nel loro complesso costituiscono quelli che, nella letteratura scientifica internazionale, vengono definiti gli Alternative Food Networks (AFN). Il sistema urbano rurale, il cibo, gli AFN hanno assunto un ruolo centrale nell’agenda urbana, in cui le politiche alimentari a scala locale costituiscono un ambito d’intervento strategico. Le politiche alimentari locali sono quell’insieme di strumenti norme, incentivi, tasse e campagne di informazione o educazione varate dalle istituzioni sulle diverse attività economiche e sociali e ambientali connesse ai sistemi agroalimentari, con particolare riferimento alla scala locale. Esse hanno l’obiettivo di governare il modo in cui i prodotti agroalimentari sono prodotti, processati, distribuiti e consumati, garantendo la salute delle persone, della società e dell’ambiente, favorendo l’occupazione e promuovendo l’innovazione. In sintesi, le politiche alimentari incidono su cosa, quando e come si mangia, e sulle relative conseguenze economiche, sociali e ambientali. Queste politiche riguardano direttamente o indirettamente diversi attori e nella loro elaborazione e attuazione richiedono un approccio interdisciplinare che coinvolge diversi aspetti, tra cui: le politiche agrarie e la programmazione dello sviluppo rurale, la partecipazione e la comunicazione sulle tematiche agricole, l’educazione alimentare e ambientale, la pianificazione territoriale, le politiche agroambientali. Lo scorso Ottobre i rappresentati di 100 città del pianeta hanno sottoscritto il patto sulle politiche alimentari urbane – Milan Urban Food Policy Pact. L’impegno delle amministrazioni comunali che hanno preso parte al processo è di rendere i sistemi alimentari urbani più equi e sostenibili, il patto mira, tra gli altri obiettivi, a: “incoraggiare e sostenere le attività di solidarietà economica e sociale”, “favorire l’erogazione di servizi per i produttori alimentari nelle città e nelle zone limitrofe”, “sostenere le filiere alimentari corte” e “aumentare la consapevolezza in materia di scarti e sprechi”. Al documento hanno aderito i sindaci di otto città italiane (Alessandria, Bari, Bologna, Genova, Milano Roma, Torino e Venezia, oltre alla stessa Milano), che verosimilmente proprie svilupperanno strategie alimentari. In Italia, come in alcune esperienze estere il tema delle relazioni fra cibo, spazio rurale e territorio trova espressione all’interno di processi bottom up, connessi all’attività del mercato o a forme civiche di partecipazione e co-produzione17. É complesso restituire il quadro del fermento connesso a queste iniziative, frequentemente esito di micro-reti informali che in alcuni casi incontrano i processi decisionali istituzionali. Le amministrazioni locali, infatti, non sempre riescono a riconoscere il valore delle pratiche in atto e a consolidarne 17  D. Marino, A. Cavallo, Agricoltura e città: attori, geografie e prospettive, in Agriregionieuropa, n. 44, 2016. 96


gli sviluppi. Ne deriva la necessità di muovere dalle singole e frammentate esperienze locali a un quadro sistemico e coerente di governance e comunicazione delle politiche alimentari urbane, inserito nel quadro della PAC e dei PSR, capace di integrare le molteplici funzioni del rapporto tra agricoltura e territorio nelle politiche pubbliche, tenendo insieme la complessità dei valori e degli interessi. Di là delle specificità connesse ai singoli ambiti territoriali e agli sviluppi dei PSR regionali, i processi di ri-territorializzazione e pianificazione dei sistemi alimentari urbani mirano a costruire un dialogo con i cittadini e le comunità rurali finalizzato al loro coinvolgimento nei processi decisionali, alla conoscenza dei temi chiave connessi alla produzione agricola e più in generale a valorizzare il territorio e a ricomporre le relazioni urbano rurali. Non soltanto la produzione ma anche i processi di trasformazione e stoccaggio del cibo, così come l’evoluzione dell’apparato normativo e la sensibilizzazione della società, devono essere coinvolti nella costruzione di un nuovo modello di food planning. Di pari passo con la definizione di obiettivi transcalari valgono la riduzione delle limitazioni rispetto allo sviluppo agricolo e la definizione di strategie di governo del territorio orientate a favorire la presenza e la crescita della dimensione agricola in ambito urbano. In questo senso, il secondo aspetto fondamentale di una politica di pianificazione alimentare efficace riguarda la necessità di definire una strategia in rapporto all’assetto del territorio stabilito in sede di pianificazione alle diverse scale, in modo da incoraggiare e sostenere l’agricoltura in ambito urbano e periurbano, favorire il consolidamento della dimensione locale e i rapporti di scambio con le aree rurali. Di fatto il food planning concorre alla ridefinizione del valore strategico dell’agricoltura nella gestione sostenibile delle aree urbane. Non a caso le politiche dei diversi contesti europei e internazionali stanno lavorando all’elaborazione di una nuova pianificazione territoriale che sceglie il cibo come uno dei termini del suo ragionamento18. Il sistema alimentare costruito su queste premesse ha caratteristiche molto diverse da quello convenzionale, poiché si basa sulle nozioni di territorio, di qualità alimentare e di inclusione sociale. Wiskerke sostiene che al paradigma agro-industriale ipermoderno si stia contrapponendo con forza quello delle produzioni agro-alimentari integrate nel territorio e attribuisce a quest’ultimo tre dimensioni che rappresentano altrettante relazioni tra istituzioni, mercati e società civile19. L’espressione più importante delle relazioni tra mercati e società è rappresentata, secondo l’autore, dagli Alternatives Food Networks, quella tra mercati e istituzioni è rappresentata dai diversi interventi a livello statale e locale volti alla ri-localizzazione produttiva, infine le varie forme di food strategy che esprimono la relazione tra società civile e istituzioni. Brunori a sua volta attribuisce al cibo locale cinque categorie di significati a cui è possibile associare tematiche fondamentali nel pensiero e nella vita dell’individuo20. Sulla base delle teorie semiotiche, al cibo sono associate caratteristiche, sensazioni e ambientazioni che prescindono dalla sua materialità e che sono, al tempo stesso, presupposto e risultato di relazioni che si originano lungo l’intera catena alimentare e ne diventano caratteristiche peculiari. Il cibo locale è il risultato dell’interazione tra attori e simboli coinvolti nella produzione, nella distribuzione e nel consumo, da intendersi non come fasi separate e reciprocamente estranee del sistema ma come processi simultanei 18  D. Marino, A. Cavallo, op. cit., 2014. 19  J.S.C. Wiskerke, On Places Lost and Places Regained: Reflections on the Alternative Food Geography and Sustainable Regional Development, in International Planning Studies, n. 4, 2009, pp. 369-387. 20  G. Brunori, Local food and Alternative Food Networks: a communication perspective, in Anthropology of Food, Special Issue, n. 2, 2010. 97


e interconnessi il cui risultato ultimo è la creazione di un network. L’autore definisce tre gradi di ri-localizzazione: la ri-localizzazione simbolica riguarda la possibilità da parte del consumatore di conoscere le origini del cibo e di associare a esso dei luoghi e delle tradizioni; a questa, propria soprattutto dell’immaginario collettivo del consumatore, fa seguito quella fisica, posta in essere dal produttore come strategia per conquistare il mercato al fine di ridurre i costi facendo uso di risorse locali; infine, la ri-localizzazione relazionale implica una riconfigurazione del sistema locale sulla base di nuove relazioni e iniziative che organizzano produttori e consumatori secondo schemi e forme diverse di filiera corta21. In questo quadro si inseriscono il ruolo – e la capacità – delle politiche pubbliche e della pianificazione di ricomporre gli equilibri sottesi ai processi in atto all’interno delle città, alle pratiche e ai comportamenti, alle esperienze di co-produzione. Il cibo locale può divenire, quindi, una strategia per spostare gli equilibri tra gli attori del sistema alimentare attraverso il processo di ri-localizzazione. Affinché questo processo sia efficace, esso deve realizzarsi in un contesto di condivisione di significati e di obiettivi tra tutti gli stakeholder del network. Pertanto, la ri-localizzazione non riguarda solo la “collocazione spaziale” e la riduzione di scala del processo di produzione-consumo, ma si profila come un processo piuttosto complesso da attuarsi su più piani strategici che si integrano sinergicamente e i cui riflessi sul paesaggio e sulla resilienza dei territori e delle comunità possono essere di primaria importanza. Nella nuova agenda urbana il cibo diviene un fattore strategico intorno al quale è possibile pensare politiche innovative di natura economica, sociale ed ambientale. Tali politiche incidono sulla struttura delle filiere di produzione e consumo, e sui rapporti tra gli agenti economici che le caratterizzano. Gli AFN in questo senso assumono un ruolo non solo di innovazione, ma anche simbolico e paradigmatico. Le “nuove filiere” e le nuove funzioni dello spazio agricolo periurbano producono anche nuovi processi di territorializzazione, nuovi paesaggi agricoli più resilienti sia sotto il profilo socioeconomico che sotto quello ambientale22.

21  D. Marino, A. Cavallo, F. Galli, C. Cicatiello, P. Borri, P. Borsotto, D. De Gregorio, L. Mastronardi, Esperienze di filiera corta in contesti urbani. Alcuni casi studio, in Agriregionieuropa, n. 32, 2013. 22  Ibidem. 98


Bibliografia A. Arcidiacono, D. Di Simone, F. Oliva, S. Ronchi E S. Salata (a cura di), Nuove sfide per il suolo. Rapporto 2016, INU Edizioni Srl, Ravenna-Roma 2016. G. Beccattini, La coscienza dei luoghi, Donzelli Editore, Bari 2015. C. Barberis (a cura di), La rivincita delle campagne, Donzelli Editore, Roma 2009. P. Bevilaqua (a cura di), Storia dell’agricoltura italiana, Marsilio, Venezia1990. G. Brunori, Local food and Alternative Food Networks: a communication perspective, in Anthropology of Food, Special Issue, n. 2, 2010. F. Di Iacovo (a cura di), Agricoltura sociale: quando le campagne coltivano valori, Ed. Franco Angeli, Milano 2008. R. Fanfani, e. Montresor, Filiere, multinazionali e dimensioni spaziali nel sistema agro-alimentare italiano, in La Questione Agraria, n. 41, 1991, pp. 165-201. G. Medici, I tipi d’impresa dell’agricoltura italiana, Edizioni Agricole, Bologna - Roma 1951. D. Marino, A. Cavallo, Agricoltura e città: attori, geografie e prospettive, in Agriregionieuropa, n. 44, 2016; D. Marino, A. Cavallo, Rapporti coevolutivi tra costruzione sociale e caratteri naturali: il paesaggio agrario tradizionale, Rivista di Economia Agraria, n. 3-4, 2009. D. Marino, A. Cavallo, Lo studio delle trasformazioni del paesaggio agrario: un modello interpretativo, in G. Barbera, R. Biasi, D. Marino (a cura di), Il Paesaggio agrario tradizionale, un percorso per la conoscenza, Ed. Franco Angeli, Milano 2014. D. Marino, A. Cavallo, F. Galli, C. Cicatiello, P. Borri, P. Borsotto, D. De Gregorio, L. Mastronardi, Esperienze di filiera corta in contesti urbani. Alcuni casi studio, in Agriregionieuropa, n. 32, 2013. D. Marino, A. Cavallo, Rapporti coevolutivi tra costruzione sociale e caratteri naturali: il paesaggio agrario tradizionale, in Rivista di Economia Agraria, n. 3 – 4, 2009, pp. 443 – 464; R. Pazzagli, Il paesaggio agrario nel lungo Novecento, in Territori, n. 15-16, 2013, pp. 57-70. G. Scarano, Le filiere agro-alimentari italiane: una metodologia di analisi, La Questione Agraria, n. 36, 1989, pp. 119-156. A. Serpieri, Istituzioni di economia agraria, Edagricole, Bologna 1947. 99


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Esodo e ritorni La trasformazione del mondo rurale dal dopoguerra ad oggi* Gabriella Bonini

Il secolo scorso è cominciato con l’agricoltura come settore prevalente dell’economia e della società e si è chiuso con le campagne abbandonate, ripiegate su se stesse, quasi un tramonto del mondo agricolo e della ruralità, invece in questi ultimi decenni la fine del mito della crescita illimitata, il peggioramento della qualità della vita nelle grandi città più grandi e la preoccupazione della questione ambientale da parte di un numero sempre maggiore di persone, hanno portato alla rivalutazione del mondo rurale, prima di carattere culturale e poi a livello pratico con l’inizio di processi di ritorno, legati alla multifunzionalità dell’agricoltura, alle produzioni tipiche, alla ricerca di nuovi stili di vita e alla ricostruzione del rapporto città-campagna. Sicuramente sono fenomeni ancora limitati nei numeri, ma sono qualitativamente significativi. Poco alla volta, aree interne o depresse stanno riacquistando nuova centralità; le economie contadine, il paesaggio agrario, le aziende di piccole e medie dimensioni, prima marginalizzate dal modello di sviluppo agroindustriale sono sempre più nell’attenzione dei consumatori e di un nuovo stile di vita più sobrio e pacato. Ora spetta soprattutto alla politica indicare le condizioni per una nuova agricoltura in grado di ridare valore al territorio e alle popolazioni rurali.

Solo cinquant’anni fa, un’Italia ancora agricola Nella seconda metà del Novecento, nel pieno della trasformazione economica del Paese, si fecero passi importanti nella conoscenza del settore agricolo italiano: nel 1956 fu completato il catasto terreni, mentre nella primavera del 1961 il primo censimento generale dell’agricoltura. Per la prima volta nella storia d’Italia, gli occupati nell’industria (40,4%) e quelli nel terziario (30,6) superavano quelli dell’agricoltura (29). Le donne trovavano occupazione soprattutto nel terziario (37,6% contro il 28,3% dei maschi), mentre l’industria continuava a essere un settore prettamente maschile (il 43,3 contro il 31,7 di donne)1. L’agricoltura era invece ancora il settore che occupava circa la stessa percentuale (il 28,4 dei maschi contro il 30,7 delle donne). La regione con la più alta quota di popolazione attiva occupata nell’industria era la Lombardia (58,9) mentre quella con la più alta percentuale di occupati in agricoltura era il Molise (47,4); dieci anni prima la più agricola era la Basilicata con il 73,2 nel primario. 1 Istat, Censimento generale della popolazione, 1961. 101


La produzione agricola nel 1961 vedeva al primo posto i cereali: il frumento con più di 83 milioni di quintali, seguito dal mais con (39 milioni di q.), il riso, l’avena e l’orzo. Tra le produzioni di campo più significative si collocavano anche le patate, i pomodori e la barbabietola da zucchero. Sul lato delle coltivazioni legnose si distinguevano il vino con 52,482 milioni di ettolitri, l’olio d’oliva e gli agrumi. Sempre secondo i dati del censimento generale dell’agricoltura del 1961, il territorio rurale italiano era ancora contrassegnato in modo diffuso dalla presenza del bestiame: i bovini erano 9 milioni e 485.000, allevati in buona parte (22,5%) in piccole aziende agricole che disponevano ciascuna da 6 a 10 capi; le grandi aziende con oltre 100 capi erano poco più di 3.500, appena lo 0,2% del totale, e in esse risultava allevato circa il 6% dei bovini. Completavano il quadro della zootecnia italiana le pecore (ovini e caprini ammontavano a oltre 9 milioni di capi), i suini e gli equini. I 26 milioni e mezzo di ettari che costituivano la superficie agroforestale dell’Italia erano organizzati in quasi 4,3 milioni di aziende frammentate in 15,6 milioni di corpi. Le campagne italiane rappresentavano quindi un mosaico di tessere la cui ampiezza media era di ettari 1,7. Tale frammentazione colpiva non solo le aziende di grande dimensione, ma anche i mini-fondi, tant’è che gli oltre 1,3 milioni di aziende inferiori all’ettaro, nonostante fossero compresse su appena 700.000 ettari, trovavano il modo di dividersi in quasi due milioni e mezzo di appezzamenti, a un quarto di ettaro per lotto medio, ma spesso ancor meno. Non sempre, quindi, lo spazio era sufficiente a far girare le vacche con l’aratro!

L’esodo dei contadini e la fine della civiltà contadina Tra il 1950 e il 1970 un imponente esodo agricolo segna il tramonto dell’Italia contadina. Soprattutto i figli dei contadini di allora, sono attratti dalle possibilità di lavoro del settore industriale e dall’aria libera delle città per cancellare le condizioni di arretratezza, la carenza di servizi e infrastrutture nelle campagne, l’odor di stalla vissuto come inferiorità sociale. La conseguenza immediata è l’invecchiamento degli addetti e la crisi della struttura familiare dell’azienda agraria. I lavoratori agricoli diminuiscono di quasi 5 milioni nel periodo 1951-71, mentre nel solo decennio 1961-70 il numero delle aziende diminuisce di circa 700.000 unità e altre 300.000 circa scompaiono negli anni Settanta. Ciò avviene, come anche prima indicato, su un tessuto aziendale molto frammentato e già in situazione di precarietà strutturale e agronomica2. Nel breve arco di una ventina d’anni cambia il volto lavorativo dell’Italia: non si tratta solto di un cambiamento economico, ma soprattutto di una trasformazione sociale e culturale. Si modifica nettamente anche il modello insediativo e abitativo: «Dal podere all’appartamento», ha sintetizzato efficacemente Corrado Barberis, che ha parlato anche di un modello italiano dell’esodo, in virtù del quale sarebbero stati i «forti» a uscire dall’agricoltura (giovani, settentrionali, uomini alfabetizzati, ecc.), mentre i soggetti più deboli tendevano a restare (anziani, donne, meridionali, analfabeti…)3. Sono in effetti le campagne dell’Italia settentrionale le prime ad avvertire i mutamenti in senso 2  Delle circa 4.294.000 aziende censite nel 1961, quelle con una superficie superiore a 5 ettari sono meno di un quarto, quelle con più di due capi di bovini appena 649.000, mentre a una cifra di poco più alta ammontano quelle dotate di impianti di irrigazione. Alla diminuzione della quantità delle aziende si accompagnava anche una loro trasformazione qualitativa: gli anni Sessanta, e ancor più il decennio successivo, vedono emergere un’azienda mista, nella quale il reddito della famiglia che la coltivava è sempre più di provenienza extra-agricola. 3  Corrado Barberis, Le campagne italiane dall’Ottocento a oggi, Laterza, Roma-Bari, 1999, p. 498. 102


industriale e l’agricoltura ne avverte i crolli maggiori: tra 1950 e 1960 nel Veneto e in EmiliaRomagna gli occupati nell’industria superano, per la prima volta, quelli nell’agricoltura. Il Polesine diventa l’area dove lo spopolamento è più elevato, anche in considerazione della rotta del Po nel 1951 e del susseguirsi di altre inondazioni. Anche la struttura delle aziende agricole cambia: al Nord si assiste al rapido passaggio da una società prevalentemente rurale a una prettamente industriale con la grande emigrazione verso il triangolo industriale; si sgretola il latifondo del Mezzogiorno e scompare la mezzadria dell’Italia centrale e nordorientale. L’esodo agricolo incontrollato va ora di pari passo con il forte sviluppo della meccanizzazione: azioni che caratterizzarono il periodo del cosiddetto miracolo economico. Gli uomini giovani vanno a lavorare in fabbrica le otto ore e dedicano le restanti al lavoro dei campi dove hanno lasciato i vecchi genitori e le donne. Si può a ragione affermare che dal 1970 scompare la società contadina intesa come realtà produttiva e culturale che per secoli aveva mantenuto un legame strettissimo con il proprio ambito territoriale plasmandone gli assetti e mantenendoli in equilibrio, alimentando le filiere città-campagna, il circuito alimentare e quello energetico. Un continuo e inarrestabile addio alla terra con il parallelo e progressivo scollamento tra paesaggio, insediamento e coltivazione. La fine della civiltà contadina è stata molte volte ripresa e descritta da narratori, poeti, registi e anche cantautori: Rocco Scotellaro per la Basilicata, Francesco Jovine per i contadini molisani, Corrado Alvaro per la Calabria, Luigi Pirandello e Leonardo Sciascia per la Sicilia, Ignazio Silone per l’Abruzzo, Carlo Levi per un po’ tutto il Sud. Ma anche Pier Paolo Pasolini e Vasco Pratolini e i piemontesi Cesare Pavese, Beppe Fenoglio, Davide Lajolo e Nuto Revelli con la storia della montagna e della campagna povera cuneese. E il poeta Vittorio Sereni, lo scrittore e regista Mario Soldati con i paesaggi e i contadini della Bassa padana e il vino in tutte le regioni, Guido Piovene e il suo Viaggio in Italia, il reportage letterario che negli anni Cinquanta raffigurava un Paese in cui la situazione sociale e paesaggistica «cambiava alle spalle» nel tempo stesso in cui la si descriveva. Gli scrittori riscoprono un nuovo impegno morale e civile, una vocazione realistica che si riallacciava all’esperienza verghiana; essi parlano di ambienti e di personaggi del popolo, di contadini soprattutto, con un linguaggio che attinge dal dialetto freschezza ed efficacia. Le loro rappresentazioni letterarie recuperano l’icona culturale del contadino, rivoluzionandone e rinnovandone il senso collateralmente alla grande stagione del neorealismo nel cinema, di Roberto Rossellini (Roma città aperta, 1945, Paisà, 1946), Vittorio De Sica (Sciuscià, 1946, Ladri di biciclette, 1948, Miracolo a Milano, 1951, Umberto D, 1952), Luchino Visconti (Ossessione, 1943, La terra trema, 1948, Rocco e i suoi fratelli, 1960) e, in tempi più recenti, Bernardo Bertolucci con Novecento (1976), Ermanno Olmi con L’albero degli zoccoli (1978). E ancora Adriano Celentano con Il ragazzo della Via Gluck, la canzone autobiografica del 1966 che racconta il suo difficile distacco dai campi, attraverso l’artificio del colloquio con se stesso nei panni dell’amico rimasto a giocare a piedi nudi nei prati, mentre lui in centro è costretto a respirare il cemento. Anche il Marcovaldo di Italo Calvino vive in una città simbolo di ogni città, con cemento, ciminiere, fumo, grattacieli e traffico, e lavora in una ditta che è la Ditta per eccellenza. È la società della città moderna che influenza le persone e il loro rapporto con la natura. Lo stesso Calvino aveva aperto queste tematiche con il romanzo La speculazione edilizia del 1957. Pier Paolo Pasolini sintetizzava magistralmente il crollo del mondo contadino e i suoi risvolti socio-ambientali nel noto articolo delle lucciole apparso sul «Corriere della Sera» il primo febbraio 1975: dopo pochi anni – scriveva – le lucciole non c’erano più, e in quel momento l’immagine letteraria coglieva forse più degli storici, 103


degli studiosi e dei politici la reale portata della trasformazione delle campagne4. Di lì a breve, in varie regioni italiane, a partire dal Centro-Nord, cominciano a nascere i musei della civiltà contadina come riprova materiale della fine di un mondo di cui andavano salvati la memoria e i valori di fondo5.

Tecniche e prodotti nell’era del boom Con l’esodo rurale calano i seminativi perché vengono abbandonate le terre marginali. Tra le colture erbacee, la coltivazione del frumento diminuisce di oltre 200.000 ettari tra il 1961 e il 1970, mentre aumentano, almeno nei rendimenti, il riso e il mais. La superficie a vite cresce in coltura specializzata (76.000 ettari) e diminuisce molto in quella promiscua (1.832.000 ettari). La stessa tendenza, anche se meno pronunciata, si registra per l’olivo e per tutte le piante da frutto. L’azoto immesso nei campi passa nello stesso periodo da 22 a 40 chilogrammi per ettaro; l’anidride fosforica da 26 a 36; l’ossido di potassio da 7 a 156. All’esodo agricolo si lega anche la massiccia espansione della meccanizzazione: macchine motofalciatrici, mietitrebbiatrici, macchine per la raccolta di patate e barbabietole, pur restando ancora la manodopera la vera forza lavoro, con 10 milioni di addetti. Questo inizio di meccanizzazione dà un contributo determinante all’evoluzione dell’agricoltura e della zootecnia e trova la sua fonte essenziale di finanziamento nei Piani quinquennali di sviluppo (Piani Verdi), nel piano dodecennale del 1952, che prevedeva prestiti e mutui per l’acquisto di macchine agricole di produzione nazionale. Il più grosso istituto di credito che elargisce i finanziamenti in tal senso è la Federconsorzi di Paolo Bonomi, anche con il monopolio di acquisto dei trattori Fiat. Se nel 1970 i trattori immatricolati ammontano a oltre 45.0007, già nel 1975 sono attive 822.900 trattrici e 27.800 mietitrebbiatrici. Per alcune colture, come la barbabietola, si arriva già nei primi anni Settanta alla meccanizzazione del ciclo completo. Un altro fronte su cui si ebbero consistenti progressi fu quello della lotta ai parassiti e della difesa dalle avversità ambientali con l’introduzione sempre più massiva dei fitofarmaci, determinando l’inizio del grave inquinamento delle produzioni agricole e dell’ambiente a cui solo tardivamente si cercherà di porre rimedio. I processi di evoluzione tecnica, la motorizzazione in primo luogo, sono più il frutto che la causa dell’esodo rurale; essi permettono la crescita di un’agricoltura part-time, condotta da operai industriali, che costituisce un tratto saliente di buona parte delle campagne italiane, specialmente in quelle circostanti i centri industriali. Dell’agricoltura part-time fanno le spese soprattutto gli allevamenti e quelle coltivazioni che richiedono un lavoro assiduo; ciò porta a infrangere alcuni criteri agronomici fondamentali che avevano consentito all’azienda tradizionale di mantenere l’equilibrio e la produttività della terra: la diminuzione del letame e l’abbandono di colture in rotazione hanno, infatti, come conseguenza un uso crescente di concimi chimici, fitofarmaci e antiparassitari, nonché una diminuzione della 4  Pier Paolo Pasolini, Scritti corsari, Garzanti, Milano, 2008, pp. 128-134. 5  Lucio Gambi, I musei della cultura materiale, in Campagna e industria. I segni del lavoro, Touring Club Italiano, Milano, 1981, pp. 194-195. 6  Egidio Rossini, Carlo Vanzetti, Storia della agricoltura italiana, Edagricole, Bologna, 1986, pp. 740-741. 7  Dati Uma (Utenti motori agricoli). 104


manutenzione dei fondi con inevitabili effetti di inquinamento e di danno ambientale. L’uso delle macchine marginalizza ulteriormente le aree svantaggiate; il sempre più diffuso impiego di mezzi chimici e meccanici porta alla scomparsa degli alberi da molti seminativi, cambiando faccia al paesaggio agrario di parecchie aree italiane e causando danni alla tenuta e fertilità dei suoli. Negli anni Settanta le difficoltà della congiuntura economica internazionale si aggiungono alle contraddizioni insite nel nostro modello di sviluppo che, fin dal dopoguerra aveva puntato sull’esportazione di manufatti industriali in cambio dell’importazione di derrate agricole, assegnando di fatto all’agricoltura un ruolo subalterno. Così, malgrado i progressi compiuti e le spinte verso l’industrializzazione e la specializzazione del lavoro dei campi, l’agricoltura italiana si presenta agli osservatori come un organismo ancora arretrato, disorganizzato, inefficiente, con produzioni continentali poco competitive nei confronti dei partner europei e produzioni mediterranee ancor meno competitive nei confronti dei Paesi terzi. Ma l’aspetto più preoccupante (oltre a una meridionalizzazione del settore) è il cospicuo restringimento della base produttiva dell’agricoltura nel suo complesso e le importazioni di generi alimentari aumentano fino a raggiungere un saldo negativo superiore a duemila miliardi di lire attorno al 1975. In questo momento in Italia c’è la più bassa produttività agricola dell’Europa comunitaria, mentre la frammentazione fondiaria e la polverizzazione aziendale è tra le più alte. Continua fino all’ultimo ventennio del secolo la diminuzione delle aziende e la superficie coltivata si restringe: molte zone collinari e montane, a lungo caratterizzate da un’economia agricola, vengono completamente abbandonate causando un processo di rinaturalizzazione non governato con conseguente spopolamento, degrado ambientale e alterazioni paesaggistiche. Alla fine del secolo l’agricoltura contribuisce solo per il 3,3% al valore aggiunto nazionale e assorbe il 7,8% della forza lavoro: la prevalenza delle piccole aziende, con limitato sfruttamento delle economie di scala, e l’età avanzata degli imprenditori agricoli sono i segni di debolezza che si riflettono negativamente nella bilancia commerciale e che sembrano vanificare gli sforzi ultradecennali per una omologazione dell’agricoltura italiana al modello europeo dell’agricoltura industriale

Nella marginalità anche la scoperta della multifunzionalità dell’agricoltura Nell’ultimo decennio del XX secolo si registra ancora una diminuzione del 14,2% del numero delle aziende agricole, forestali e zootecniche rispetto al precedente censimento agricolo del 1990, accompagnata da una riduzione del 13,6 della superficie totale e del 12,2 della SAU: il quadro riferito alla data del 22 ottobre 2000 è formato da 2.593.090 imprese, con una netta prevalenza di quelle individuali, operanti su una superficie totale di 19,6 milioni di ettari, di cui 13,2 di superficie agricola utilizzata. Dal punto di vista delle forme di gestione aziendale prevale ancora nettamente, sia come numerosità che come superficie interessata, la conduzione diretta del coltivatore con circa il 95% del totale e, all’interno di questa, delle imprese che utilizzano esclusivamente manodopera familiare. Il calo delle aziende è ancora una volta più vistoso nel Nord-Ovest (Piemonte, Liguria e Lombardia), ma le percentuali di decremento risultano alte anche per il Nord-Est (in particolare nel Friuli Venezia Giulia), in Emilia-Romagna e in Abruzzo. Al contrario, la 105


diminuzione della SAU è stata più contenuta nel Settentrione e più accentuata nell’Italia centro-meridionale e insulare8. In Italia permane, in sostanza, una elevata frammentazione del tessuto aziendale, con oltre la metà delle imprese che non superavano i 2 ettari di superficie. L’elevato numero di aziende di piccole dimensioni accentua i problemi strutturali e i rapporti con il mercato, parzialmente attenuati dalla cooperazione, ma sembra costituire anche la base per il rilancio dell’agricoltura contadina, per un cambio di paradigma che riporti in equilibrio il rapporto tra agricoltura italiana e territorio, tra ruralità e comunità. A fronte della riduzione dello spazio disponibile, si punta invece sulla crescita della produttività. La performance di alcuni prodotti rappresenta bene questa linea: ciò vale per il granturco, che in trent’anni ha visto aumentare di due volte e mezzo la resa per ettaro, per il grano, la barbabietola, il pomodoro. Si instaura, inoltre, la tendenza alla specializzazione produttiva e territoriale dell’agricoltura e a un rafforzamento dei rapporti tra settore agricolo e altri settori dell’economia, con una crescente importanza della grande distribuzione da un lato, e la ripresa di filiere del consumo locale dall’altra. Si comincia sempre più a parlare di «multifunzionalità» dell’agricoltura. Il termine prende corpo nel Summit di Rio de Janeiro (1992), ma è solo dal 1999, con Agenda 2000, che viene riconosciuto all’agricoltura un ruolo che storicamente aveva più o meno consapevolmente sempre giocato: oltre alla funzione produttiva di cibo, il contributo alla conservazione del paesaggio, alla protezione dell’ambiente, alla qualità e alla sicurezza dei prodotti alimentari e del benessere degli animali, basi per lo sviluppo di un’agricoltura sostenibile9. Da sempre l’agricoltura aveva giocato un ruolo predominante nello sviluppo delle aree rurali sia dal punto di vista economico che da quello sociale e paesaggistico. In fondo, il riconoscimento del ruolo multifunzionale dell’agricoltura ripropone in termini nuovi il rapporto città-campagna e l’integrazione tra le diverse attività che possono svolgersi in ambito rurale, compresa quella turistica. L’azienda agricola e il mondo rurale a cui essa appartiene diventano il luogo dove la società urbana vede la possibilità di un soggiorno attivo, l’ambito in cui ritrovare la propria memoria, recuperare radici e tradizioni, storia e natura, ri-conoscere il lavoro agricolo nel ruolo di difesa e salvaguardia del territorio, vivere momenti di benessere, di relax e sport, di vacanza con esperienze autentiche, in quanto inserite nella dimensione collettiva del luogo, e non costruita e fittizia. Così, agricoltura e turismo rurale iniziano a interagire per differenziare in modo sinergico l’attività produttiva locale: come la vocazione agricola consente di valorizzare il paesaggio sotto il profilo estetico, identitario, culturale, della tipicità dei prodotti che diventano fonte di attrazione turistica, così lo sviluppo della vocazione turistica consenta di garantire un mercato per i produttori locali e di affiancare alle attività tradizionali nuove forme di lavoro e di imprenditorialità (ospitalità, ristorazione, manifestazioni, musei, visite ai luoghi e ai centri di produzione, 8  Istat, Italia in cifre, 2002. 9  La Commissione agricoltura dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico della Comunità europea così definisce la multifunzionalità in agricoltura: «Oltre alla sua funzione primaria di produrre cibo e fibre, l’agricoltura può anche disegnare il paesaggio, proteggere l’ambiente e il territorio e conservare la biodiversità, gestire in maniera sostenibile le risorse, contribuire alla sopravvivenza socio-economica delle aree rurali, garantire la sicurezza alimentare. Quando l’agricoltura aggiunge al suo ruolo primario una o più di queste funzioni può essere definita multifunzionale». Il ruolo multifunzionale dell’agricoltura ha trovato riscontro, in Italia, nel decreto legislativo n. 228 del 18 maggio 2001. 106


degustazione e acquisto di prodotti agricoli). È da questo binomio cultura-territorio che nasce la valorizzazione turistica del patrimonio culturale. L’ambito locale viene sempre più a rappresentare un punto di forza per lo sviluppo turistico nelle aree rurali e la comunità, come l’identità culturale di un luogo, diventa uno dei fattori determinanti nella costruzione del profilo del turismo nelle zone rurali. Agriturismi, strade del vino, dell’olio, dei sapori, fattorie didattiche e sociali, reti escursionistiche (trekking, bike, equitazione…), ecomusei, aree protette, turismo enogastronomico e altre varie modalità di soggiorno in campagna, costituiscono, alle soglie del Duemila, uno degli assi di sviluppo delle aree rurali, pur sempre da considerarsi come attività integrativa, complementare e non sostitutiva di quella agricola, ma comunque in grado di incidere sul reddito degli agricoltori. Si tratta di una strategia aziendale che risponde alla domanda di beni e servizi espressa dai cittadini/consumatori nei confronti del settore primario, che implica un ripensamento della produzione agricola in senso stretto a favore di attività culturali, educative-ambientali, sociali, che permettono di generare occupazione e redditi aggiuntivi.

Ri-nascita del territorio e nuovi contadini Nei primi anni del Duemila si è cominciato a interrogare in misura crescente su come porre rimedio a processi che hanno semplificato e banalizzato il paesaggio, rendendo più vulnerabile il suolo e spesso interrompendo la trama territoriale costruita nei secoli. Anche il Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali si è posto l’obiettivo di ricostruire un’immagine nazionale del territorio rurale, nelle sue componenti socio-economiche, ambientali e insediative, attraverso la predisposizione di un sistema di indicatori a vasto spettro tematico. Con il progetto Atlante nazionale del territorio rurale è stato così possibile costruire gli scenari territoriali delle condizioni di svantaggio del territorio agricolo e del popolamento rurale in Italia, pervenendo alla elaborazione di uno strumento essenziale di supporto alle politiche di sviluppo rurale: «La nuova agricoltura», si legge nel preambolo dell’Atlante, «ha bisogno del proprio territorio per essere valorizzata, perché il “prodotto locale” garantito e tracciato è il prodotto che si associa al patrimonio culturale di cui questo Paese è ricco come nessun altro al mondo. Ricco e diverso. Cultura agricola, e del cibo, patrimonio civile, ospitalità nuova e antica tradizione e innovazione di un territorio che può offrirsi a nuovi modelli insediativi e a nuovi turismi. Un territorio rurale che produce opportunità, sicurezza ambientale e identità»10. Contemporaneamente emerge in modo abbastanza diffuso, ma non ancora sufficientemente condiviso, la consapevolezza che l’agricoltura torni ad essere un aspetto importante non solo del dibattito scientifico e culturale, ma anche della pianificazione territoriale, la base delle politiche e degli strumenti locali di governo del territorio – da quelli urbanistici a quelli ambientali, da quelli economici a quelli sociali – coniugando la sostenibilità economica delle aziende agricole con la conservazione della trama storica dei paesaggi, limitando la specializzazione estrema e la separazione degli spazi rurali, riconnettendo agricoltura e comunità, città e campagna, consumo locale e mercato globale. Non possiamo più eludere l’obiettivo di una coerente cura del territorio, della manutenzione ambientale e paesaggistica, della protezione dai rischi di vario genere, da 10 MIPAAF, Atlante nazionale del territorio rurale. Nuove geografie per le politiche di sviluppo rurale, a cura di Caire-Urbanistica, Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali, Roma, 2007, pag. 5. 107


quello idrogeologico a quello degli incendi e delle inondazioni. I temi del bosco e delle acque si affiancano necessariamente all’analisi del territorio rurale; ricordiamoci come in molte aree costiere e interne l’Italia sia una «patria artificiale costruita sulle acque» per riprendere un’espressione di Carlo Cattaneo. Le campagne sono state a lungo presidiate dalla popolazione contadina e questo presidio è stato fondamentale anche per le città. Le grandi e diffuse bonifiche collinari e di pianura esercitate per secoli da generazioni di proprietari e contadini creano un paesaggio artificiale – come già scriveva Giacomo Leopardi – una «cosa artificiata» che non contempla l’abbandono, se non al prezzo di degenerazioni, derive e disastri territoriali. Si pensi, ad esempio, che nella sola Pianura padana migliaia di ettari sono ancora oggi tenuti liberi dalle acque delle pompe idrovore perché sono ad altimetria negativa. Il paesaggio agrario è appoggiato sul territorio, e questo appoggio è regolato dalla presenza dell’uomo e in particolare degli agricoltori. Senza gli agricoltori viene meno, in collina come in pianura e in montagna, l’opera molecolare di controllo e manutenzione del territorio. Se non si inverte la rotta, se non si ripopolano le campagne di nuovi agricoltori, se non si incentivano quelli tradizionali a raggiungere livelli di reddito sufficienti a restare sulla terra, i rischi prevarranno sulle opportunità e il paesaggio ne risentirà sempre più negativamente. La biodiversità agricola e forestale, la coltivazione dei terreni declivi, la ceduazione regolata dei boschi e della macchia mediterranea proteggono il suolo, custodiscono il paesaggio, permettono nuove forme di turismo, valorizzano le tradizioni agroalimentari e aprono la strada a nuovi stili di vita che a loro volta rappresentano un passaggio inevitabile nella ridefinizione dei modelli economici e sociali di sviluppo. È per questa via che sembrano poter fiorire nuove economie legate ai territori e che la campagna potrà riconnettersi non solo idealmente con la città. Ripartire dai territori, dunque. Come già detto, la nuova frontiera dell’economia agraria è la multifunzionalità, nell’ambito di un nuovo rapporto agricoltura-ambientesocietà. Dopo aver posto per gli anni Sessanta-Settanta l’interrogativo sulla «fine dei contadini», in tempi recenti alcuni studiosi a livello internazionale non hanno esitato a parlare di «ricontadinizzazione» o di «ritorno dei contadini» o addirittura di rivincita delle campagne come processo in grado di ridare dignità sociale all’agricoltura e di fronteggiare le nuove e continue crisi internazionali multidimensionali. «Il mondo è migliore se ci sono i contadini», ha scritto il sociologo rurale olandese Van der Ploeg11 Anche a livello italiano si è posto l’accento sui «ritorni alla terra» e perfino sulla «rivincita delle campagne», tematiche a cui sia vecchi studiosi che nuovi ricercatori stanno dedicando una significativa attenzione, come dimostra la nuova rivista «Scienze del Territorio» che ha dedicato i primi due numeri monografici proprio al «ritorno alla terra»�. Per secoli i contadini avevano rappresentato, in effetti, una classe sociale ed economica evidente e onnipresente, tanto da non richiedere la necessità di investigarne e comprenderne l’esistenza e il ruolo, mentre l’agricoltura nel suo insieme ha costituito il principale elemento del processo di territorializzazione e del rapporto uomo-natura. Poi negli ultimi due secoli, quelli delle trasformazioni industriali, e soprattutto negli anni del boom economico, i contadini sono diventati scomodi, una figura sociale da superare vista come ostacolo al cambiamento e quindi destinata alla scomparsa. Ora, dalla fine del secondo millennio, il mondo contadino non solo si presenta in molte forme nuove e inaspettate, ma sembra addirittura incarnare una risposta chiave per soddisfare i fabbisogni alimentari mondiali 11  Jan Douwe Van Der Ploeg, I nuovi contadini, Donzelli, Roma, 2009, pag. 5. 108


nella direzione di uno sviluppo sostenibile dell’agricoltura e delle economie rurali. Sia nei Paesi industrializzati, e quindi anche in Italia, sia in quelli in via di sviluppo si assiste così a fenomeni complessi di ritorno a un modo contadino di fare agricoltura e all’aumento dei «nuovi contadini». Il cuore di questo nuovo modello è la ricerca di autonomia dal potere ordinatore degli imperi agroalimentari, un’autonomia basata sulla mobilizzazione delle risorse territoriali all’interno di un processo produttivo che ne garantisca allo stesso tempo la riproduzione e una nuova armonia tra agricoltura, società e natura. Anche l’attenzione al paesaggio, alla biodiversità e alla qualità del cibo sono elementi importanti di questo diverso modello volto a rafforzare il pilastro dello sviluppo rurale e a favorire l’emergere di un’agricoltura nuova, costruita attraverso un processo diffuso in grado di coniugare produzione e ambiente, locale e globale, impresa e lavoro, mercato e democrazia alimentare12. Il ritorno alla terra è già cominciato, ha scritto recentemente l’urbanista Daniela Poli: «Lo si scorge in diverse pratiche molecolari che portano sempre più persone, specialmente giovani, a rivolgersi o a riconvertirsi all’agricoltura. C’è chi lo fa arrivando da consuetudini urbane e approda in borghi collinari o montani, chi scommette nella transizione verso la multifunzionalità o chi si inventa attività legate all’agricoltura come le filiere corte del pane o il co-housing rurale»13. Se lanciamo lo sguardo oltre i dati degli ultimi censimenti agricoli, che hanno fatto emergere le difficoltà delle aziende di trovare un ricambio generazionale, leggiamo in quelli del 2010 un graduale ritorno dei giovani grazie a una ritrovata vitalità del settore, dovuta alla diversificazione produttiva delle aziende, che hanno tra l’altro visto anche una crescita del ruolo delle donne. Ma c’è anche una nuova realtà diffusa, non sempre rilevabile tramite i censimenti ufficiali, che esprime il bisogno di un ritorno consapevole alla campagna. Sarà un compito politico di primaria importanza rimettere l’agricoltura e il territorio al centro dei processi di programmazione, coniugando l’incoraggiamento di queste nuove tendenze con il ri-orientamento e rafforzamento del settore agricolo tradizionalmente inteso. Se Ambrogio Lorenzetti potesse tornare e parlare ai moderni decisori politici, ricorderebbe loro che gli effetti di un Buon Governo si riflettono su un paesaggio rurale ben curato e disegnato, su una agricoltura utile, su una corretta gestione ambientale del territorio, su azioni di contrasto dei cambiamenti climatici, sulla sicurezza dei prodotti alimentari, su uno sviluppo economico equilibrato fra zone urbane e rurali, su un territorio lavorato, addomesticato e rispettato dall’agricoltore per produrre il benessere suo e della società. Il risultato si ha se tutti questi ingranaggi funzionano, se producono beni, se danno senso di identità, se garantiscono un corretto equilibrio tra bisogni dell’uomo, lavoro, rispetto della natura, risorse e loro utilizzo. Ancora una volta vale riaffermare che agricoltura e paesaggio agrario non sono elementi di contorno, ma la risultante dell’integrazione tra territorio e storia, tra ambiente e uomo col suo lavoro. * Il testo riporta una sintesi del saggio Esodo e ritorni. Il lavoro agricolo e la trasformazione del mondo rurale in Italia, in Storia del lavoro in Italia, Il Novecento 1945-2000, a cura di S.

Musso, Roma, Castelvecchi, 2015, pp. 102-169; (con Rossano Pazzagli).

12  Vitoria Silvia-Pérez, Il ritorno dei contadini, Jaca Book, Milano, 2007; Giorgio Boatti, Un paese ben coltivato. Viaggio nell’Italia che torna alla terra e, forse, a se stessa, Laterza, Bari, 2014; Anna Kauber, Le vie dei campi, Maestri di giardino editori, Parma, 2014. 13  Daniela Poli, Problematiche e strategie per il ritorno alla terra, in «Scienze del Territorio», n. 1, 2013, pag. 17. 109


Fig. 1 Silvano Fontanesi, Ori Emiliani: La sintesi del frutto del lavoro nei campi che porta sulle nostre tavole sapori e profumi indimenticabili. Primo premio del Concorso Fotografico Premio Summer School Emilio Sereni 2015.

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I paesaggi del cibo fra agricoltura e governo del territorio: prospettive operative e di ricerca Relazione conclusiva Rossano Pazzagli

Settima Edizione Summer School Emilio Sereni, un’esperienza formativa e culturale in un mondo che cambia, il paesaggio incluso, che ne è al tempo stesso lo specchio e la biografia. Il cibo, invece che è l’altro termine di questa edizione, è una necessità ineludibile dell’umanità, ma anche abbiamo visto uno degli elementi fondamentali del processo infinito di costruzione del paesaggio. Parto da una considerazione: il nostro è un lavoro di tipo culturale e il lavoro culturale si inscrive nell’orizzonte del cambiamento così come la famiglia Cervi che ha cambiato il paesaggio perché aveva una visione del mondo in cambiamento. Questo è il primo punto che sottopongo, come riflessione, anche legata a quello che abbiamo ascoltato in questi giorni. Noi ci poniamo nell’ottica di un modello invariato e invariabile di un sistema economico come dato, oppure possiamo ragionare nei termini della necessità di una critica al modello dominante, a un modello in crisi per altro, strutturalmente in crisi, e, che in quanto tale, perché in crisi, ci domanda di cercare sperimentazioni, elaborazioni di nuovi sentieri diversi da quelli che hanno segnato e disegnato il Novecento. L’ottica cambia, se quello che noi facciamo sta nell’ottica di un modello dato è un conto, se sta invece nell’ottica della ricerca di qualcosa che è alterna, diverso rispetto a quello, è un altro. Allora il paesaggio e il cibo sono due temi che ci hanno accompagnato. Il cibo come cultura, diceva Montanari, il cibo come problema di scarsità ma anche di abbondanza, ci ha detto stamani Gianluca Brunori, quindi una risorsa da utilizzare, ma anche da cui difenderci talvolta, e il paesaggio invece in varie declinazioni. Questa è una costante della nostra Scuola: ogni volta che parliamo di paesaggio ci attardiamo sulla sua polisemia, sulla diversità dei suoi significati. Possiamo dire ormai, sulla base di queste giornate, ma anche sull’esperienza pluriennale della Summer School Emilio Sereni, che il paesaggio è per noi un bene comune, frutto dell’interazione tra uomo e natura, come diceva Sereni, la forma che l’uomo imprime al territorio con la produzione di prodotti alimentari tramite l’agricoltura e l’allevamento. Paesaggio agrario quindi come frutto del lavoro che produce alimentazione, perché paesaggio e cibo (alimentazione) erano i due termini, in mezzo c’è quest’altro termine che non abbiamo messo nel titolo, ma che è emerso in continuazione, cioè quello del lavoro: paesaggio, cibo, lavoro. Diciamo che siamo partiti con due termini, paesaggio e cibo, e finiamo con la consegna di questi tre, paesaggio e cibo e in mezzo il 111


lavoro. Stiamo parlando tra l’altro della filiera energetica fondamentale della vita umana. Il cibo è una filiera, e la filiera del cibo è una filiera energetica. Il lavoro è il modo per restituire alla terra appunto questa energia. Il paesaggio è inteso in tutti questi sensi, riprendendo la definizione della dichiarazione di Firenze che ci ha ricordato Mauro Agnoletti, del paesaggio bio-culturale e multifunzionale. Noi siamo in Italia, il paesaggio agrario è parte del patrimonio culturale tutelato dall’articolo 9 della Costituzione, dalla Convenzione Europea del Paesaggio, dal Codice dei Beni Bulturali che richiede una nuova attenzione dunque, proprio perché siamo nell’attuale fase di crisi, cioè una crisi che ci spinge a cercare modelli, risorse alternative. Questa trasformazione, il paesaggio è trasformazione, ma di fronte alla trasformazione anche qui ci sono due approcci possibili, uno è quello di subire le trasformazioni come in gran parte stiamo facendo e l’altro è quello di governare le trasformazioni, naturalmente è evidente che noi siamo tutti qui perché scegliamo questa seconda ottica. Il paesaggio è trasformazione, ma questa trasformazione deve essere governata e per governarla bisogna produrre conoscenza che si trasforma in coscienza, e per produrre conoscenza c’è bisogno di tutti i saperi, di quelli contestuali, di quelli esperti, dei saperi disciplinari, ma in un’ottica che è quella di mettere in contatto, di contaminare, di confondere le discipline. Non uso il termine interdisciplinarietà perché si usa troppo spesso nei convegni e troppo poco poi si pratica realmente, però noi questo dobbiamo fare, ciascuno di noi avverte, credo, l’insufficienza della propria disciplina quando ci avviciniamo a temi come il paesaggio. Bisogna sfuggire ai recinti disciplinari che spesso ci hanno abituati a una visione monoculare, noi dobbiamo dotarci di diversi strumenti che possiamo utilizzare secondo necessità; più strumenti abbiamo maggiore è la possibilità di trovare quello utile al lavoro da fare. Come diceva lo psicologo-filosofo americano Maslow, “quando l’unico strumento che possiedi è un martello ogni problema tende ad assomigliare ad un chiodo”. Pensate alla medicina: nella medicina è chiarissimo, uno si sente male: va dall’ortopedico, è un problema di ossa, va dallo psicoterapeuta è un problema di stress, dall’odontoiatra è un problema di mandibola. Questo è il problema, è uscire da questa metafora del martello come unico strumento per dire che dobbiamo mettere nella nostra cassetta degli attrezzi tutti gli strumenti necessari. Il paesaggio è il frutto di una trasformazione, e questo concetto è ritornato, come già ben presente nelle edizioni precedenti, nel Novecento che abbiamo alle spalle e che certamente rappresenta uno snodo. Lo rappresenta anche a livello planetario, come ci dicono i dati sulla demografia, il mondo che in un secolo solo è passato da un miliardo e mezzo o poco più di abitanti a 6/7 miliardi dell’oggi. Avevamo impiegato tutti i secoli precedenti ad arrivare ad un miliardo e mezzo, in solo cento anni ha quadruplicato la sua popolazione. Il ‘900 è un secolo planetario, ma anche per l’Italia ha significato un radicale cambiamento. È un secolo cominciato con l’agricoltura come settore prevalente dell’economia e della società e si è chiuso con le campagne abbandonate, ripiegate su se stesse, trascurate, aggredite abbandonate o cementificate, sia pure con le proporzioni che Agnoletti correttamente ci ha riproposto. Abbandono e sfruttamento spinto sono stati due fenomeni apparentemente opposti ma convergenti nel produrre degrado, nel produrre frattura di relazioni sociali, nel produrre frattura di relazioni tra componenti territoriali. Qui è emerso molto forte in questa edizione il tema della città e del rapporto città-campagna, che certo sono argomenti forti della storia di Italia. 112


Gramsci, e anche Sereni, ha costruito una bella parte del suo pensiero su questo tema del rapporto città-campagna, ma non ci sono solamente la città e la campagna, ci sono anche la montagna e la pianura, ci sono le coste e l’entroterra in un Paese come il nostro. Queste componenti territoriali fondamentali per secoli hanno dialogato tra loro in varie forme, siano state queste l’approvvigionamento delle derrate alimentari da parte della città, la transumanza tra montagna e pianura, il rapporto tra i porti, la navigazione interna, i centri urbani. Ma oggi non comunicano più tra loro, hanno rotto questo sistema di relazione che in gran parte erano relazioni centrate sul tema del cibo e dell’alimentazione. Il Novecento è cominciato con l’agricoltura che costituiva il settore prevalente dell’economia nazionale e si è chiuso con l’idea che l’agricoltura come attività residuale, marginale. Spesso chi si occupa di agricoltura viene sottoposto a “passatismo”; invece bisogna provare a pensare e immaginare che l’agricoltura, la campagna, il territorio rurale, sono anche il futuro e non soltanto il passato. Sembrava un addio, l’esodo rurale, la perdita del numero delle aziende, lo spopolamento, la fine dei contadini, sembrava un addio, un tramonto definitivo del mondo agricolo e della ruralità italiana; e invece, negli ultimi decenni del ‘900 alcuni aspetti, la fine del mito del progresso, la crescita illimitata, il peggioramento della qualità della vita nelle città più grandi, l’emergere della questione ambientale, sono aspetti che hanno spinto verso una rivalutazione del mondo rurale. C’è stato un momento negli anni ‘60 in cui ci si vergognava di stare in campagna; oggi noi ragioniamo nei termini di una ritrovata dignità della vita in campagna, sia pure con tutti i problemi che la vita in campagna mantiene ed anzi vede talvolta incrementare. Si sono comunque aperti processi come il ritorno legato alla multifunzionalità dell’agricoltura, alle produzioni tipiche, all’agriturismo, alla ricerca di nuovi stili di vita, alla ricostruzione di questi rapporti città-campagna, anche se sono fenomeni ancora quantitativamente limitati. La statistica non li registra ancora come reali, però avvengono sul territorio dove sono qualitativamente significativi perché dimostrano non ancora la forza quantitativa, ma la possibilità di seguire sentieri alternativi. Non siamo ancora in presenza di un modello alternativo, ma si possono intravedere in certe pratiche regionali, locali e timidamente in qualche politica, le condizioni o la necessità per una nuova agricoltura in grado di dare dignità al territorio e alle nuove popolazioni rurali. Però c’è un problema di misura che è emerso anche questa volta, c’è un problema di unità di misura, perché se noi adottiamo i tradizionali parametri economici sembra che non ci sia speranza. Sembra che il nostro tessuto agricolo rurale, che le caratteristiche e le condizioni del nostro territorio per come è fatta la penisola, non ci lascino scampo, ma le leggi economiche forse sono anche un po’ figlie del sistema economico vigente, e quindi noi possiamo ragionare in un’ottica di frontiera, di sperimentazione. Questo tema, di come si misurano i fenomeni, credo sia qualcosa che ci serve per leggere una realtà in movimento; non sempre il cambiamento può essere letto con gli occhi del sistema che sta cambiando, non so se il concetto è chiaro. C ’è stato questo esodo, questo abbandono, questa perdita di peso economico, di dignità sociale e culturale dell’agricoltura, ma negli ultimi decenni è emerso anche la consapevolezza che l’agricoltura torni ad essere un aspetto importante non solo del dibattito scientifico-culturale ma anche della pianificazione territoriale, la base delle politiche, degli strumenti locali di governo del territorio, quelli urbanistici in primo luogo. È venuta fuori tante volte la parola riconnessione, riconnettere agricoltura-comunità, città-campagna, consumo locale-mercato globale, e il paesaggio 113


in quanto bene comune, in quanto effetto, specchio di questi processi di cambiamento deve essere governato, accessibile, condiviso aprendosi al concetto e alla pratica della partecipazione che trova la dimensione, la partecipazione, il legame con la pianificazione territoriale e infine il rapporto tra paesaggio e democrazia, chi prende le scelte, quanto siamo liberi di scegliere… Noi abbiamo parlato in particolare della democrazia alimentare, come diritto, come accesso, come accessibilità al cibo ecc., ma il tema di chi decide è emerso nei nostri dibattiti, chi ha il potere. È una domanda che in parte è rimasta senza risposta, in parte ha trovato delle risposte nel peso della grande distribuzione, dei grandi gruppi. Franco Sotte ha provato a darci una sua risposta che è quella di prendere atto della presenza delle multinazionali, il problema non è lottare contro di esse, ma dare loro delle regole mondiali per il loro operato. Ma se sono le multinazionali stesse a governare e a dettare le regole? Dove sta il nesso? Emerge da queste risposte, a mio parere, la grande debolezza della politica di oggi, una debolezza locale, nazionale, forse anche mondiale; siamo in presenza di tradizionali e persistenti soggetti politici che non fanno più elaborazione politica vera, si limitano cioè a tradurre in programmi e scelte politiche delle scelte delle decisioni ecc. prese da qualche altra parte, altrove. Qui ritorniamo al tema della partecipazione, alla crisi della rappresentanza. È possibile che la nostra lettura del paesaggio rispecchi e rifletta anche questa difficoltà? Questi aspetti problematici? In un recente libro di Pierre Donadier, Scienze del paesaggio, che in questi giorni è stato citato più volte, l’autore, uno dei più importanti paesaggisti europei, sembra confermare che la crisi attuale del paesaggio, cioè le sue ferite, le sue malattie, sia in qualche misura corrispondente alla crisi della democrazia. Per quanto riguarda l’Italia, allora, al tradimento della Costituzione e alla crisi dei metodi partecipati di elaborazione delle scelte. Il discorso, dunque, si sposta dai metodi alle politiche. Cosa vuol dire questo? Vuol dire che noi siamo consapevoli che la politica ci vuole, che è indispensabile, che le politiche agricole ed urbanistiche rappresentano lo strumento principale per il governo delle trasformazioni, ma si devono parlare tra di loro, perché emergeva anche stamattina che c’è ancora una difficoltà di rapporto tra politiche di pianificazione territoriale e politiche di sviluppo agricolo. Riconnettere non solo la ruralità, l’agricoltura, la sua importanza, ma riconnettere anche cultura e politica. È il tema che noi ci portiamo dietro da diverse edizioni, che proietteremo anche nella prossima, che è quello di come fare in modo che le acquisizioni culturali, scientifiche, tecniche che noi mettiamo su questo tavolo possano avere un qualche effetto sui decisori, sugli operatori, sugli ambiti che hanno a che vedere con l’elaborazione delle scelte politiche. In questo senso la Summer School Emilio Sereni non si limita, non vuole limitarsi, all’orizzonte scientifico-didattico, ma intende porsi sempre di più come punto di riferimento per le politiche, locali regionali e nazionali, al fine di una pianificazione orientata alla salvaguardia del paesaggio agrario, non rifiutando le trasformazioni ma governandole, salvaguardando le trame storiche ed evitando anche la questione importante, forte della riduzione del consumo di suolo, che ogni anno sembra un bollettino di guerra. Basta guardare i dati del rapporto dell’Ispra messi a disposizione di anno in anno. Recuperiamo terreno e recuperiamo la centralità dell’agricoltura. Ma quale agricoltura? Altra domanda che è emersa in queste giornate, e che ora lancio alla vostra riflessione. Molte agricolture, diceva ancora Sotte, non una sola, ma molte agricolture, ma non si 114


può poi dire che ne funziona una sola! Molte agricolture che rendano giustizia ad una caratteristica fondamentale del nostro Paese, che è quello della pluralità, della diversità della distintività. C’è stato detto in questi giorni, ma alla fine dell’Ottocento lo diceva Stefano Iacini a conclusione della sua grande inchiesta sull’agricoltura italiana, la prima inchiesta sull’agricoltura italiana dacché si era fatta l’Unità della Nazione. Iacini parlava non di un’Italia agricola, ma di parecchie Italie agricole differenti tra di loro, dopo di lui e successivamente nel Novecento, si è pensato ad una sola agricoltura, invece noi dobbiamo tornare a quest’idea delle parecchie Italie agricole come elemento forte distintivo. Non assumere un modello unico, non standardizzare il tutto, ritornare al rapporto città-campagna che è stato posto fin dall’inizio, nelle relazioni di Montanari e Gasparini. Anche il dibattito sul Km 0 è spesso distorto; il Km 0 del mercato a filiera corta non è la risposta ai problemi economici dell’agricoltura tout court ma uno strumento utile per riannodare dei fili, per ritrovare un contatto tra i consumatori e il produttore, per ridare a chi vive in città la consapevolezza che il cibo viene dalla campagna, per costruire educazione alimentare e coscienza ambientale. Allora se degli strumenti sono utili, utilizziamoli. Diceva Massimo Montanari che la città ha sempre cercato lontano da sé i prodotti; non è vero, ha cercato lontano da sé quei prodotti che non era possibile avere dall’approvvigionamento del proprio territorio. I geografi ci hanno dimostrato che gli insediamenti urbani rappresentano che le filiere sono corte finché si può, e poi vanno bene anche quelle lunghe quando non si può. Ma perché io devo mangiare i pomodori che vengono da 2000km quando posso mangiare quelli che vengono da 10 km? Il pomodoro è anche un prodotto deperibile tra l’altro, e lascio stare tutta la questione ambientale, dell’appesantimento dei consumi energetici dei trasporti ecc., questo tema che va nel senso di un’altra indicazione di Fanfani, quella della logica bio-regionale. Fanfani ci ha proposto una visione del locale ragionando nei termini della bioregione, di logiche distrettuali, di policentrismo al posto della polarizzazione urbana. Questa è la nostra Italia, non dobbiamo concentrare tutto, ma recuperare questa ruralità. Utile, da questo punto di vista, la lezione di Sotte perché lui stesso ci ha detto che l’indicatore Oxe, che misura la ruralità, è un indicatore insufficiente, quella degli abitanti per km2. Il territorio al centro, prima di tutto come frutto di quel processo di territorializzazione di lunghissimo periodo di cui l’agricoltura ha costituito indubbiamente l’elemento principale e primario; ma anche il territorio come terreno. L’invito che noi abbiamo avuto è quello di riflettere sui rapporti tra paesaggio e società, tra paesaggio e benessere delle persone e delle risorse dell’ambiente, io vedo progressivamente spuntare un’equazione tra bel paesaggio e buona politica. È possibile questa equazione? Pensiamoci. Si tratta di un mondo ideale? Si chiede sempre Donadier nel suo libro, ma tutte queste cose saranno utopie? In questo riecheggia un po’ quello che dice Magnaghi sul suo libro sul progetto locale, e risponde di sì, forse sono utopie ma lancia un ossimoro molto interessante, dice sì, forse sono utopie, ma sono utopie realiste, dice Donadier. Allora il paesaggio agrario come specchio fedele dei problemi, ma anche delle opportunità che l’Italia, le sue giovani generazioni, in particolare, devono affrontare e cogliere. La profonda tradizione economica e civile delle campagne italiane e l’innovazione, il rispetto dei cicli naturali, e l’idea di un fluire, è la bellissima metafora di Alcide Cervi che dice che dopo un raccolto ne viene un altro, non è solo un incipit, ma una metafora di straordinario valore da lanciare all’esterno. 115


La spinta di questa Scuola è a conoscere, a difendere, a valorizzare il paesaggio agrario che rappresenta non solo il volto della nostra agricoltura, ma anche un bene comune un patrimonio appunto che ci può aiutare a rispondere alla crisi del nostro tempo. Dovessi ricavare 3 indicazioni indicherei queste: il valore del territorio di cui il paesaggio è la dimensione visibile; il protagonismo del locale, cioè delle comunità del fare comunità; l’orizzonte globale. Non sono in contraddizione l’importanza del locale e l’orizzonte globale, sbagliamo se facciamo di questa dicotomia un’antitesi; sono in una visione non gerarchica ma reti dello scambio, è quella complessità, quella visione sistemica di cui parlava Brunori. Certo ci sono anche i problemi come perché il paesaggio non è solo da difendere, perché il paesaggio è già un malato e in alcuni casi un malato grave. Ci chiedeva Barbera come interrompere la distruzione del paesaggio? In alcuni casi sono rovine, Simona Vinci in Rovina, sono racconti sulla perdita di identità e sulla cementificazione e la distruzione della terra intorno alla via Emilia. La Vinci parla di rovine del presente, del paesaggio come rovina del presente, non più del passato, non dell’archeologia, non della retorica, ma del presente. A volte bisogna andare sui romanzieri, sui letterati, perchè spesso succede gli artisti vedono prima le cose dei politici, prima degli studiosi. Del resto qui sono stati citati Calvino, Soldati, Zavattini, Cederna; quell’ambito intellettuale degli anni ‘50 non necessariamente accademico che aveva visto un mondo che finiva e metteva in guardia. Bellissima la citazione del turismo esperienziale tratta da Calvino riportata da Erica Croce. Sul lungo periodo, Montanari ha parlato di un’appropriazione privata di una storia collettiva. Poi c’è il problema istituzionale che ha fatto capolino ogni tanto, perché, per ridare centralità al territorio, noi non bisogna smantellare la rete istituzionale sul territorio, ma bisogna rafforzarla e invece, anche qui, in questa regione, assistiamo ad un processo di smantellamento delle autonomie comunali, facendo lo stesso ragionamento che abbiamo erroneamente per le aziende, solo dimensione aziendale, solo dimensione grande, così siamo competitivi. Per il territorio non funziona così, per i comuni non funziona così, perché i comuni sono anche sede della rappresentanza della partecipazione, del presidio. Diamo gli strumenti per vivere non accompagniamoli a morire come stiamo facendo. E oltre alla questione istituzionale c’è la questione della scuola, dell’educazione. A me sembra molto opportuno che questa Summer School mantenga al suo interno questa finestra sull’educazione al paesaggio, sui progetti che la scuola fa su questo, per riattivare questi legami, sulle giovani generazioni che non hanno più la capacità di leggere quello che gli sta intorno. È la scuola che deve dare i primi strumenti per la lettura di quello che ci sta intorno, ma gli strumenti glieli dobbiamo fare. Né la famiglia, né la scuola per molti decenni hanno fatto questo lavoro; hanno magari abituato, hanno fornito ai ragazzi strumenti per leggere cose lontane, per conoscere cose lontane, hanno bypassato l’ambito formativo educativo del proprio intorno. L’intorno e i ritorni, questi due elementi dobbiamo considerarli. Con Gabriella Bonini abbiamo passato l’inverno scorso a scrivere un saggio che sta in quella storia del lavoro un po’ monumentale, poco maneggevole, che Castelvecchi ha pubblicato, l’abbiamo intitolato proprio così, Esodo e ritorno, trasformazione del lavoro e del mondo rurale dal 1945 al 2000. Questi aspetti che toccano argomenti non sempre visibili nelle nostre statistiche, ma che appunto sembrano utopie, invece sono possibilità. Cibo uguale concretezza, ogni nostro piatto corrisponde sempre a un paesaggio, lo ricrea e contribuisce a costruirlo. Questo è l’insegnamento che ci hanno dato non solo 116


le lezioni, ma anche i pranzi e le cene che abbiamo fatto insieme, però è venuto fuori il problema del mangiare bene, del mangiare tutti e del ridare valore al territorio e all’attività degli agricoltori, dei contadini che hanno in larga parte contribuito alla costruzione della democrazia italiana, e mangiare bene e mangiare tutti significa di nuovo un problema di democrazia, di democrazia alimentare e di uguaglianza. Ragionare attorno al cibo e alle filiere energetiche, cibo anche come filiera energetica dicevo, alla ricostruzione di circuiti virtuosi, non autarchici ma chiusi. Non è un ritorno a categorie vecchie, l’autarchia ci fa paura, si sa il perché storicamente, il protezionismo pure, però non c’è niente di male a chiudere il più possibile i circuiti energetici, quello del cibo prima di tutto. Chiuderli al primo livello possibile, senza escludere i circuiti lunghi, lontani, lontanissimi. Ecco cosa vuol dire coniugare locale e globale, non è un giochino di parole, può voler dire ragionare attorno al cibo e alle filiere energetiche per abbandonare un’ottica semplicemente globale e recuperare la complessità dei sistemi agricoli territoriali dotandoli della capacità di resistere alla prepotenza del mercato. Questo è politica. Si dice: tanto gli agricoltori non contano più niente perché c’è la grande distribuzione che detta legge. Sì, abbiamo fatto un’analisi, ma non ne abbiamo detto la conseguenza, cioè che le politiche devono equilibrare questo rapporto, devono mettere in condizione i sistemi territoriali di vivere. Allora vedere nel paesaggio lo specchio di queste tendenze è il nostro compito. Portiamoci dietro queste cose nei nostri luoghi nelle nostre attività, avendo presente quella visione sistemica che qui è emersa più volte, questo tema dell’economia circolare al posto di quella lineare in direzione di un nuovo patto sociale, come ancora Gianluca Brunori ci ricordava. La Summer School, pur nel breve tragitto di cinque giornate, è stata una carrellata di esperienze, un’occasione di incontro e di assaggi, un ritmo serrato in una terra accogliente, in un luogo accogliente e significativo e voglio allora ringraziare l’Istituto Cervi, la sua presidente Albertina Soliani, con un pensiero anche a Rossella Cantoni sotto la cui presidenza la Scuola è nata e cresciuta e un grazie speciale a Gabriella Bonini, vero cuore pulsante dell’iniziativa e dell’organizzazione. Insieme a lei Emiliana, Marika e tutto il personale dell’istituto; il cuoco Riccardo e i suoi aiutanti, non voglio dimenticare nessuno. Tra questi Rina Cervi che per me è la presenza discreta, umile ma significativa della famiglia Cervi all’interno dell’Istituto. Finisco con una battuta: dico a volte ai miei studenti che faccio lo storico perché mi interessa il futuro, e poi tutti sanno che la storia si occupa del passato. Ma noi dobbiamo porre domande che sono le nostre domande qualunque cosa facciamo, che si faccia storia, cinema, noi chiediamo sempre alle nostre fonti, alle cose che interroghiamo, facciamo delle domande e in quelle risposte troviamo risposte ai problemi del nostro tempo, anche quando riguardano le cose lontane. E allora questo dell’agricoltura, di capire come si è evoluta un mondo rurale è una agricoltura mossa non da qualche recondito bisogno ma dal bisogno fondamentale dell’umanità: quello di mangiare di nutrirsi, inevitabile. Questa Scuola ha una partecipazione che è uno degli elementi di valore, il fatto che proveniamo da ogni parte di Italia, dalla Sardegna, al Molise, al Veneto, al Friuli, all’area padana, a Torino, alla Toscana. Un illuminista molisano alla fine del ‘700, Giuseppe Maria Galanti, diceva che l’agricoltura è quella nobile arte senza la quale niuno esisterebbe; una semplice definizione che però penso resti attuale anche nel tempo. Non è un guardare all’indietro occuparci di questi temi, lo dice anche chi ha vissuto personalmente quella traiettoria, lo afferma il grande 117


sociologo rurale, uno dei capostipiti della sociologia rurale in Italia, Corrado Barberis nel suo libro, La rivincita delle campagne. Per Barberis non si tratta di un puro ripristino delle vecchie egemonie della produzione agricola, ma dell’insieme dei modi di produzione e di consumo, dei modelli e degli stili di vita dei valori e delle culture, dal turismo all’economia, dalle formule abitative alle abitudini alimentari, dall’abbigliamento al tempo libero, dalla cura del corpo a quella dello spirito a riprendere la strada della campagna. In questo inizio di nuovo millennio nel quale proprio la nuova ruralizzazione sembra rappresentare un assetto del benessere contemporaneo. Io penso che sarà possibile anche ripopolare insieme al territorio lo spazio sempre più vuoto della politica e rianimare la democrazia in crisi, riunificare l’utile il buono e il bello, cioè il lavoro, il cibo e il paesaggio. Questa mi pare possa essere la sintesi del nostro lavoro utile e appassionato che insieme in questi giorni abbiamo portato avanti qui all’Istituto Cervi.

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PARTE II PAESAGGI DELLA PRODUZIONE



La Produzione. La via lattea padana

Luciano Sassi

Dividere il cibo dal paesaggio agrario è impossibile; osservare all’interno di questo paesaggio i segni della produzione governata dalle politiche agrarie, per occhi non allenati è ancora più difficile. Siamo partiti quindi dall’esigenza di legare la produzione degli ingredienti primari, la loro trasformazione nel prodotto finale con il paesaggio agrario, aiutando a costruire occhi che vanno oltre i campi. La proposta laboratoriale parte da una provocazione “padana” cioè quella che riguarda l’ambito di produzione di due orgogli nazionali: il Parmigiano Reggiano e il Grana Padano. Chi non è abituato a frequentare il mondo agricolo con le sue dinamiche non riesce a comprendere chiaramente la filiera che circonda la produzione di un formaggio, filiera spesso governata da rigidi disciplinari che rendono quel formaggio molto simile in tutti i luoghi dove esso viene prodotto all’interno dei confini dei consorzi di tutela. Bisogna tuttavia precisare che l’esperienza che si è proposta non analizzava la validità o meno di trasformazione del paesaggio su basi economiche. La modifica nel tempo di ampi comprensori che hanno modificato la policoltura in coltivazioni monotipo, le quali naturalmente hanno caratterizzato il territorio in maniera tale da renderla alla fine una caratteristica, anche turistica se si vuol vedere, incidente. La proposta di riflessione in questa Summer School 2015 dedicata ai paesaggi del cibo parte appunto dall’esame di due paesaggi specifici e paralleli, disegnati, o meglio indotti dai disciplinari che i consorzi si sono dati. Il laboratorio ha concentrato l’osservazione sull’area padana a cavallo del Po, dove questo grande fiume divide in parte i due ambiti di produzione, quando fra giugno ed agosto si manifestano visivamente ed in maniera evidente, le differenze delle politiche agrarie scelte dai due consorzi. La chiave di tutto è la coltivazione del mais, oggi coltivato in pianura padana in larga parte per l’alimentazione dei bovini da latte, questo specialmente, o meglio quasi esclusivamente negli allevamenti aderenti al consorzio del Grana Padano1. 1  La zona di produzione e di grattugiatura del Grana Padano DOP è il territorio delle province di Alessandria, Asti, Biella, Bergamo, Verbania, Bologna a destra del Reno, Brescia, Como, Cremona, Lecco, Cuneo, Ferrara, Forlì-Cesena, Lodi, Mantova a sinistra del Po, Milano, Monza e della Brianza, Novara, Padova, Pavia, Piacenza, Ravenna, Rimini, Rovigo, Sondrio, Provincia di Torino, Provincia autonoma di Trento,Treviso, Varese, Venezia, Vercelli, Verona e Vicenza. Esclusivamente 121


Fig. 1 Campo di mais caratterizzante il paesaggio della bassa pianura Padana.

Il paesaggio del grana padano da marzo a settembre piano piano si modifica e la crescita delle alte piante di mais nascondono lentamente l’orizzonte creando veri e propri muri vegetali. Il muro verde scompare quando fra luglio e agosto la maggior parte dei campi di mais viene “trinciato” ed insilato per accumulare l’alimento base dei bovini per tutto l’anno. La rapida modifica dello scenario agrario dato dalle varie tipologie di coltivazioni foraggiere definite dai due consorzi, rende eclatante la loro incidenza sui paesaggi padani in ogni stagione. Il fulcro è l’alimentazione bovina normata dal Consorzio Grana Padano, denominata unifeed, è praticamente il pasto unico a base di insilato di mais, quasi sempre identico per 365 gg all’anno, naturalmente con il contributo di fieno e farine di cereali. Il cambio rapido del disegno delle coltivazioni nel paesaggio fa percepire a chi lo guarda un senso di sgomento quando, nel momento del raccolto delle piante di mais, si passa in breve tempo da un panorama nascosto dalle alte piante di mais al vuoto immediato, quindi al loro taglio il disvelarsi dell’orizzonte. Speso l’orizzonte del grana padano è un muro verde dove svettano solo i campanili e le chiome degli alberi che superano il continuo delle cime del mais. Le direttive che il consorzio del Grana padano propone ed in parte impone, determinate dall’alimentazione a base di insilato di mais, cosa proibita se non in percentuale minima nel consorzio del Parmigiano Reggiano, determina così un cambio radicale della visione e percezione del paesaggio. con riferimento alla produzione del latte, la zona di origine si estende anche all’intero territorio amministrativo dei comuni di: Anterivo, Lauregno, Proves, Senale-San Felice e Trodena nella provincia autonoma di Bolzano. 122


Il consorzio del Parmigiano Reggiano2 utilizza, invece, come base foraggera fieno d’erba medica o di prato stabile polifita, con il contributo di farine di cereali ed in piccola parte di mais insilato, quindi se lo vogliamo sottolineare, un ambiente scontato fatto di prati verdi, rogge e file di alberi. Già il paesaggio invernale, osservando una foto satellitare dei territori dei due consorzi, mette in evidenza i terreni arati – marroni – del Consorzio Grana Padano in attesa delle semine del mais di marzo aprile rispetto a quelle verdi dove il prato stabile polifita ed i prati di erba medica – verdi – stabiliscono anche in una stagione di ferma, delle differenze paesaggistiche evidenti – per chi sa leggerle. Nell’incontro di apertura del laboratorio siamo entrati, attraverso un intervento tecnico, nell’argomento proposto come provocazione alla riflessione, indicando anche, oltre le specifiche agronomiche, le strategie che i due consorzi mettono in campo per gestire e normare le proprie produzioni. Un accenno eloquente vi è stato mostrando alcune pubblicità3 trasmesse sulle televisioni nazionali sino a non molto tempo fa, dove il consorzio del Parmigiano Reggiano parlava sì al pubblico dei consumatori, ma soprattutto con allusioni precise al consorzio concorrente, fondando appunto il messaggio pubblicitario sulla dichiarazione che un simpatico e baffuto emiliano dichiarava: non so che cosa mangi! riferito ad una mucca concorrente che voleva entrare nel recinto delle mucche “parmigiane”. Una forma di pubblicità che verteva sulla, velatamente contestata, composizione dell’unifeed – grana padano spesso formato da numerosi ed “incogniti” secondo la concorrenza, componenti vegetali. Non sappiamo quanti telespettatori avessero coscienza del significato di questo 2  Le provincie aderenti al consorzio sono: Parma, Reggio Emilia, Modena, Mantova destra Po, Bologna. 3  https://www.youtube.com/watch?v=jWmhcezT-oU; https://www.youtube.com/ watch?v=U2Y9YngxfwI; https://www.youtube.com/watch?v=nzbyZTejsrU; https://www.youtube.com/watch?v=wZrgpCJGt20.

Fig. 2 Rotoballe di erba medica. 123


messaggio e quanto questo avesse inciso sulle loro scelte di mercato, ma sicuramente ha fornito a noi lo spunto per proporre in discussione un tema complicato ma diffuso che è quello dei comprensori di produzione, spesso con un consorzio di tutela, che impone le pratiche agrarie utili, necessarie ed uniche per ottenere il prodotto in tutela. Sta di fatto che i territori interessati geograficamente si votano al prodotto, naturalmente perché garantisce mercato e quindi una fonte di reddito e perché caratterizza e/o rientra nelle tradizioni, vere o presunte che siano. I territori quindi, con ambiti geografici definiti, sono spesso fonte di grandi e sotterranei scontri, fra chi è dentro e chi è fuori; qui si propone il dilemma fra chi è incluso e chi è escluso. Un esempio di valore del prodotto rispetto all’appartenenza al consorzio riguarda il territorio del Brunello di Montalcino dove, appena fuori dal consorzio di produzione, gli stessi vigneti vedono depauperato il prodotto con un drastico calo del costo al dettaglio. Chiaramente i disciplinari impongono appunto una “disciplina” che lega l’imprenditore agricolo in un percorso produttivo certo e che garantisca al massimo il consumatore al momento dell’acquisto. La proposta di analisi illustrata durante il laboratorio parte appunto dalla domanda che si evince osservando un territorio con le sue caratteristiche agrarie, legate ad un prodotto sia primario che trasformato, ed eventualmente l’osservazione del cambio delle tecniche agrarie e del relativo paesaggio quando le terre vengono assoggettate/conquistate dai disciplinari di produzione. Si può osservare cosa è avvenuto in diverse aree del territorio nazionale, dove nel corso di pochi decenni hanno completamente modificato il loro stato, che da policolturale è divenuto monoculturale, non sempre arricchendo – se escludiamo la parte economica – il territorio che occupano. La visita al Caseificio Agricolo del Milanello di Terre di Canossa di Campegine R.E. appartenente al consorzio del Parmigiano Reggiano e successivamente ad un grande allevamento di bovini da latte conferente a questo caseificio, ha permesso di comprendere il panorama che si compone fra produzione agricola, alimentazione del bestiame, conferimento del latte, produzione e vendita del prodotto finale e quindi l’incidenza sul paesaggio agrario circostante. Le osservazioni ed i confronti con i luoghi di provenienza dei partecipanti al laboratorio

Fig. 3 e 4 Lavorazione e stagionatura della forma di Parmigiano Reggiano 124


ha permesso di far emergere una serie di tematiche che i componenti del gruppo di lavoro hanno poi trasformato in proposte per riflessioni/lavori da condurre in piccoli gruppi con i seguenti temi: • Una base metodologica per l’osservazione dei paesaggi agrari del sud est attraverso la multifunzionalità. • Zootecnia nell’Italia settentrionale del ‘900: il paesaggio cangiante della provincia di Cremona. • Biodiversità e polisemantica paesaggistica: dalla mezzadria marchigiana al Rosso Conero. • L’assalto del prosecco alle colture differenziate del bellunese. Criticità attorno alla candidatura UNESCO. • I paesaggi del riso nel nord ovest d’Italia: caratteri, impatti e opportunità. • Disciplinari e successo commerciale dell’Amarone e del Lambrusco nella trasformazione del paesaggio in Valpolicella e in Emilia. Da questi titoli già si può leggere che la provocazione è stata colta, concentrando lo sguardo sul confronto con i territori di provenienza, soprattutto anche alla luce degli interventi dei relatori della Summer School che hanno disvelato ancora più chiaramente la non “naturalità” dei paesaggi agrari contemporanei e soprattutto la brevità temporale intercorsa fra lo stato originario “storico” e la nuova realtà agraria. Il consorzio del Grana Padano, ad esempio, come quello del Parmigiano Reggiano furono riconosciuti da leggi promulgate nei primi anni ‘50 del ‘900, anche se la loro storia è chiaramente molto più antica. Potremmo soffermarci così sui paesaggi del Chianti o delle Langhe o ancora dell’olivo di Puglia, o ancora degli aranceti o dell’uva da tavola, territori dove non un consorzio ma una scelta agraria/economica ha trasformato radicalmente e stabilmente realtà colturali certamente diverse o meglio più varie sino a non moltissimi decenni fa. Le spinte economiche, che giustamente il mondo agricolo segue, non possono non farci esimere dall’osservare il profondo cambiamento che il paesaggio subisce. Un caso oggi pesante è quello legato ai biodigestori che specialmente in Pianura Padana vedono piegare alcune porzioni di territorio in coltivazioni non più foraggere e non più legate al cibo, ma a cerealicoltura da biomassa per alimentare non bovini ma impianti produttori di biogas. Tutte realtà in movimento, che vedono il territorio legarsi sempre più alle politiche dei prezzi comunitari ed alle concorrenze sempre più spietate che propongono/impongono veloci cambi di strategia agraria. La proposta di confronto di questo laboratorio è servita per tentare di costruire una base metodologica per l’osservazione, come si è visto, di altri paesaggi agrari monosettoriali, allargando lo sguardo a tutto quanto incide sull’agricoltura. Un invito ad osservare il paesaggio delle coltivazioni e degli allevamenti attraverso un occhio critico che incide la superficie e considera le scelte degli agricoltori non il frutto solo di una scelta personale, ma di un governo del territorio che dipende da politiche agricole, di mercato, di costume, molto più alte e lontane dalla terra dove queste si applicano.

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Il Grana Padano e il Parmigiano Reggiano nella storia Una esplorazione (1344-1954) Marco Marigliano

Risulta quasi tautologico affermare che in Italia – e soprattutto nel nord della Penisola – la produzione di latte vaccino e la sua trasformazione alchemica in prodotti caseari rivestono un’ampia rilevanza tanto nella mera economia quanto nelle più difficilmente sondabili pieghe sociali e culturali nostrane. Negli ultimi decenni gli scritti sull’argomento sono andati via via aumentando – a tal proposito Naso scrive che «dal punto di vista della ricerca storica si deve rilevare che a un modestissimo numero di studi specifici fanno riscontro molteplici riferimenti reperibili in pubblicazione di storia agraria, storia economica, storia dell’alimentazione […]»1 – ma, nonostante ciò, ancora molto resta da fare se a proposito del caso lombardo, certamente uno dei più studiati2, Besana scrive: Nella realtà economica della regione lombarda la produzione del latte vaccino e la sua trasformazione in burro e formaggio hanno avuto, e ancora conservano, un grande rilievo. Questa importanza non ha trovato corrispondenza in uno sviluppo adeguato della riflessione storiografica sul settore, sulla sua evoluzione nel tempo, sui protagonisti di attività di particolare significato economico, specie in alcuni contesti territoriali della Lombardia3. Questo breve intervento, lungi dal voler tentare di rimediare a tale mancanza, ha il solo obiettivo di sintetizzare criticamente quanto è già stato scritto sulla storia di due dei formaggi più conosciuti e apprezzati in Italia e nel mondo: il Parmigiano-Reggiano e il Grana Padano. Entrambi i prodotti vengono realizzati nel nord Italia ed entrambi sono simili nel colore e nel profumo ma le somiglianze, come si è soliti dire, finiscono qui, mentre le differenze, certamente maggiori, vanno dal tipo di alimentazione degli animali, ai vari processi di 1  I. Naso, “Biblioteca casearia”. Saggio bibliografico della ricerca storica sul latte e i suoi derivati, in M. Tozzi fontana, m. Montanari (a cura di), Il latte. Storia, lessici, fonti, [s.n.], Bologna, 2000, p. 43. 2  A titolo di esempio citiamo qui: P. Battilani e G. Bigatti (a cura di), Oro bianco. Il settore lattiero-caseario in Val Padana tra Otto e Novecento, Giona, Milano, 2002. In esso sono presenti numerosi saggi che sondano tale argomento da punti di vista diversi. 3  C. Besana, Tra agricoltura e industria. Il settore caseario nella Lombardia dell’Ottocento, Vita e Pensiero, Milano, 2012, p. VII. 127


Fig. 1 Grana Padano.

lavorazione, alla stagionatura4. È bene sottolineare, però, che fino al secolo scorso non esisteva una distinzione formale tra i due prodotti. Tutto il formaggio, infatti, veniva denominato “grana” e ciò che differenziava un formaggio da un altro era la località di produzione che lo accompagnava nella generica dicitura: il grana lodigiano, ad esempio, era venduto a fianco del grana modenese, e ciò era considerato del tutto normale. *** La storia dei formaggi grana si perde nel tempo: è certamente vero che intorno al XII secolo i monaci Benedettini e Cistercensi di Parma e Reggio-Emilia, nonché quelli dell’abbazia di Chiaravalle, si ingegnarono a produrre il cosiddetto caseus vetus, ma è probabile che tale prodotto derivi da quei precedenti caseari già noti in Val Padana e ricordati da Virgilio, Ovidio, Marziale, Columella e Varrone. Come ci segnala Amiotti: A proposito dei formaggi che si realizzano con il latte i più nutrienti sono, secondo Varrone, quelli di mucca (maximi cibi sunt bubuli) […]. Viene sottolineata un’ulteriore differenza tra i formaggi teneri e freschi (molles ac recentes) e i formaggi duri e stagionati (aridi et veteres) [ … ]5. Il termine caseus vetus, attestato già nel 37 a.C., anno della composizione del De re rustica, resiste quindi fino al basso medioevo, almeno negli ambienti colti. Il popolo, che 4  Per informazioni specifiche si rimanda ai disciplinari di produzione dei due formaggi, visionabili ai link: http://www.parmigiano-reggiano.it/consorzio/documento_unico/default.aspx e https://www. politicheagricole.it/flex/files/d/0/9/D.eb95882067970c747963/Disciplinare_Grana_Padano.pdf. 5  g. Amiotti, Produzione, commercio e uso del formaggio nell’antica Roma, in G. Archetti, A. Baronio (a cura di), La civiltà del latte. Fonti, simboli e prodotti dal Tardoantico al Novecento, fondazione civiltà bresciana, Brescia, 2011, p. 16. 128


Fig. 2 Parmigiano Reggiano.

non aveva dimestichezza con la lingua latina, gli diede un altro nome, derivato forse dalla pasta compatta ma granulosa del prodotto, da cui il nome di “grana”. In quel tempo le attività agricole e di bonifica delle terre legate ai monasteri portarono allo sviluppo delle cosiddette grancie, nome di origine francese che gli ordini monastici diedero alle grandi aziende agricole di proprietà delle abbazie, dove si iniziò a sviluppare l’allevamento di vacche, utili sia per il lavoro che per la produzione del latte. Fu in quel periodo che venne introdotta la tecnica della “marcita”, particolare coltura pratense tipica della pianura padana a nord del Po. In precedenza gli agricoltori erano soliti coltivare cereali solo su metà del campo a loro disposizione, lasciando a maggese la restante parte del terreno. Nonostante questo accorgimento, la produttività diminuiva con il passare degli anni, portando alla necessità di abbandonare il campo dopo una serie di raccolti per coltivarne uno vergine. La bonifica dei territori effettuata dai monaci, però, permise di utilizzare al meglio l’acqua proveniente dalle risorgive anche nella stagione invernale. Come scrive Vivenza, infatti: Durante l’estate la marcita non differisce sostanzialmente da un comune buon prato naturale irriguo. Ma d’inverno essa assume il suo speciale carattere mantenendosi verde e producendo erba che, in più volte, viene falciata al principio e alla fine dell’inverno. Ciò è dovuto all’acqua che, specie se di fontanile, ha una temperatura relativamente elevata, circa 10°; scorrendo di continuo sulla superficie, impedisce il raffreddamento della pelliccia del prato, e permette all’erba di crescere, anche se la temperatura dell’aria è molto bassa. Né il permanere sott’acqua nuoce alle erbe, perché l’acqua, rinnovandosi di continuo, fornisce alle radici l’ossigeno di cui abbisognano6.

Nelle marcite, dunque, non erano previsti periodi di riposo del terreno. Si permetteva, 6  A. Vivenza, Marcita, in Enciclopedia Italiana – Treccani, 1934, dal link http://www.treccani.it/ enciclopedia/marcita_(Enciclopedia-Italiana). 129


così, lo sviluppo della vegetazione anche durante l’inverno, rendendo possibile effettuare dai sette ai nove tagli del foraggio contro i quattro o cinque ottenibili solo con i tagli primaverili ed estivi. Risulta chiaro che tale tecnica permetteva ai contadini di alimentare il bestiame anche d’inverno con foraggio fresco, incrementando fortemente la produzione di latte. Tale grande aumento di disponibilità lattiera spinse i monaci a cercare soluzioni alternative al caseus mollis ac recens di varroniana memoria, il cui deperimento era troppo rapido. Ciò fu reso possibile grazie al sale proveniente dalle saline di Salsomaggiore. I monaci, tramite l’utilizzo delle salamoie, erano in grado di asciugare la cagliata, aumentando le dimensioni delle forme e consentendo così al formaggio di conservarsi più a lungo e di essere trasportato in territori lontani. Se è assodato che le prime testimonianze sulla commercializzazione di tale formaggio risalgono al 12007, bisogna però attende il 1344 «per trovare un primo sicuro riferimento al formaggio grana e ciò viene fatto nel registro delle spese per la mensa dei Priori di Firenze ove si legge di “parmigiano”, di formaggio “da Parma” e di cacio di “forma”8». Ben più interessante – e gustosa – appare la conosciutissima citazione boccacciana che vede il sempliciotto Calandrino credere all’utopico paese di Bengodi. In particolare leggiamo: Maso rispose che le più si trovavano in Berlinzone, terra de’ baschi, in una contrada che si chiamava Bengodi, nella quale si legano le vigne con le salsicce e avevavisi un’oca a denaio e un papero giunta; e eravi una montagna tutta di formaggio parmigiano grattugiato, sopra la quale stavan genti che niuna altra cosa facevano che far maccheroni e raviuoli e cuocergli in brodo di capponi, e poi gli gittavan quindi giù, e chi più ne pigliava più se n’aveva […]9. Un sogno simile, tipicamente popolare, deve certamente essere la conseguenza dell’impiego del prodotto nelle case borghesi e nelle corti nobiliari, riprova del fatto che il “nuovo” formaggio era certamente già conosciuto e apprezzato ben al di là dei suoi naturali luoghi d’origine10. Nel primo trattato sui latticini a noi noto, la Summa lacticiniorum del 1477, opera del medico vercellese nonché professore all’Università di Pavia Pantaleone da Confienza, troviamo la descrizione dei più importanti formaggi italiani, francesi, tedeschi, inglesi, bretoni e fiamminghi. A proposito delle eccellenze della Penisola, egli ascrive tra le eccellenze il “Piacentino” di vacca, «da alcuni detto parmigiano», che a suo dire veniva prodotto anche a Milano, Pavia, Novara e Vercelli. Anche se l’idea di un grana piacentino detto parmigiano prodotto a Milano può far sorridere, non dimentichiamo che non esisteva una netta distinzione tra i diversi formaggi grana. Questo non significa che le differenze non fossero presenti. Fu, anzi, in questo periodo che iniziarono a delinearsi distinzioni tanto negli allevamenti quanto nei caseifici della 7  Si rimanda, a tal proposito, a M. Zannoni, Il Parmigiano-Reggiano nella storia, Silva Editore, Parma, 1999, pp. 14 e segg. 8  V. Bottazzi, Parmigiano-Reggiano. Grana Padano., in Ramo Editoriale degli Agricoltori (a cura di), Enciclopedia Agraria Italiana, REDA, Roma, 1975, vol. VIII, p. 902. 9  G. Boccaccio, Decameron, Giornata VIII, novella 3, nell’edizione curata da M. Bevilacqua, Editori Riuniti, Roma, 1980, vol. III, p. 654. 10  M. Montanari, La fame e l’abbondanza. Storia dell’alimentazione in Europa, Laterza, RomaBari, 1993, p. 119. 130


Fig. 3 Irrigazione della marcita. Carattere esclusivo della marcita è il sistema irriguo, mediante il quale si fa deluire continuamente, dalla fine di settembre ai primi di marzo, una sottile lama d’acqua destinata a cedere calore alla vegetazione (Archivio Reda).

piana del Po: grandi dimensioni a nord del fiume, allevamenti e caseifici ridotti a sud; e ciò non stupisce, perché le marcite nelle pianure lombarde facevano certamente la differenza nell’aumento della produzione, soprattutto nel periodo invernale. Al contempo feudatari e abbazie concorsero assieme ad un aumento produttivo nella pianura parmigiana e reggiana, dove la realizzazione del formaggio si era ormai diffusa ovunque vi fosse la possibilità di avere foraggi. Non essendoci, però, macroscopiche differenze tra i diversi formaggi, divenne naturale legarli al luogo di produzione; ecco quindi citati il “Lodigiano” forse il più antico, il “Milanese”, il “Parmigiano”, il “Piacentino” e il “Mantovano”. Se – come afferma Montanari – nel XVI e XVII secolo il formaggio appare saldamente attestato negli usi alimentari delle classi alte, non più solo come ingrediente utilizzato nelle preparazioni di cucina ma anche da solo, da mettere in tavola durante il pasto11, è chiaro che tale prodotto aumentò considerevolmente d’importanza anche dal punto di vista economico. Per il ducato di Parma, ad esempio, Zannoni scrive: Il giro economico non doveva essere indifferente ed infatti nel bilancio dello stato del 1627 le entrate dei prodotti caseari delle vaccherie del duca erano pari a 15.722 scudi ossia il 3,7% delle entrate dei ducati di Parma, Piacenza e dei vari feudi sparsi per l’Italia12. Ecco perché il duca Ranuccio I, tramite atto notarile, aveva ufficializzato nel 1612 11  M. Montanari, Prodotti e simboli alimentari. Latte e formaggio tra economia e cultura, in G. Archetti, A. Baronio (a cura di), La civiltà del latte, op. cit., pp. 3-14. 12  M. Zannoni, Il Parmigiano-Reggiano, op. cit., p. 49. 131


la denominazione d’origine del Parmigiano, nome che poteva essere utilizzato, nelle contrattazioni, per i soli prodotti del circondario di Parma. Le guerre, le epidemie e la progressiva diminuzione di importanza, a livello tanto politico quanto economico, dell’intera penisola italiana, però, fecero ben presto dimenticare questo tentativo ante litteram di denominazione d’origine e, ancora nel ‘700, il Parmigiano, il Reggiano e addirittura il Lodigiano venivano spesso confusi tra di loro in ambito commerciale. Per tutta la durata del XIX secolo, l’allevamento bovino da latte nella pianura padana registrò un aumento produttivo rispetto ai periodi precedenti. Non altrettanto si può dire per le conoscenze relative alla preparazione del formaggio. Per spiegare tale particolare situazione faccio mie le parole di Tedeschi e Stranieri: A permettere al settore lattiero-caseario un’espansione in assenza di sostanziali innovazioni […] fu la particolare congiuntura economica registrata nella prima metà dell’800: la progressiva riduzione dei prezzi dei cereali fu contemporanea all’incremento di quelli di burro e formaggio e questo favorì […] l’aumento degli spazi per le colture foraggere; […] alla crescita della domanda di latticini sul mercato lombardo […] si aggiunse poi il successo dei prodotti di maggiore qualità, primo fra tutti il grana lodigiano, che non venivano ceduti solo ai ceti più agiati delle città lombarde, ma venivano esportati in Veneto, oltralpe e nello Stato Pontificio13. Per far fronte a questo aumento della richiesta di prodotto e per abbassare le spese al fine di sistemare il terreno per le marcite, si iniziò a coltivare cereali da insilare. Questi, più produttivi rispetto alle piante foraggere tradizionali, venivano raccolti a maturazione incompleta e lasciati fermentare in assenza di luce e aria. Ciò, pur portando ad un aumento della produzione foraggera per il bestiame, causava anche la diminuzione dei tempi di conservazione del formaggio per la presenza di microorganismi che ne abbassavano l’acidità. Nelle campagne emiliane, intanto, la situazione era diventata più difficile: l’esercito francese, dopo il 1796, aveva sequestrato le proprietà fondiarie delle abbazie e, con la successiva annessione del Ducato all’Impero Francese, le aveva rivendute ai borghesi, i quali vedevano in tali investimenti un sicuro impiego del loro denaro. Il loro scarso interesse verso la zootecnia da latte, però, relegò di fatto il Parmigiano a un ruolo secondario nell’economia locale. Nonostante ciò, il livello qualitativo del formaggio continuava ad essere elevato perché il tipo di alimentazione degli animali era rimasto invariato rispetto ai secoli precedenti. Il periodo antistante la Prima Guerra Mondiale segnò un trapasso dal punto di vista tecnico-scientifico per la produzione di tutti i formaggi grana. L’avvento del siero-innesto e del riscaldamento a vapore – attraverso i quali è possibile coagulare una maggiore quantità di grasso rispetto alle metodologie precedenti14 – aumentarono notevolmente il 13  P. Tedeschi, S. Stranieri, L’evoluzione del settore lattiero-caseario lombardo dall’Ottocento al Duemila, in G. Archetti, A. Baronio (a cura di), La civiltà del latte, op. cit., pp. 700-701. 14  F. Clementi, alla voce Siero-fermento, XI volume dell’Enciclopedia Agraria Italiana (op. cit.), scrive: «Agli inizi del ‘900, nella lavorazione del grana, si impiegava un siero-fermento […] fatto maturare a 30°C, in cui si assisteva allo sviluppo delle forme mesofile di fermenti lattici […], successivamente si è orientati verso l’impiego di siero-fermenti con elevate temperature di incubazione (40-48°C) con conseguente sviluppo delle forme termofile della microflora lattica». 132


Fig. 4 Zone di produzione del Parmigiano-Reggiano e del Grana Padano (Archivio Reda).

livello quantitativo della produzione. Ciò, unito all’intervento via via più consistente delle istituzioni pubbliche nel settore primario, permise di ampliare tanto il numero quanto la superficie delle aziende padane, soprattutto nella zona a nord del Po: La Lombardia era seconda solo all’Emilia in termini di numero di caseifici (circa 2.000), ma poteva contare su un numero maggiore di impianti di grandi dimensioni, dotati di moderni macchinari e di una struttura produttiva e distributiva ben organizzata15. I produttori emiliani, per potersi confrontare con i “colossi” padani, approfittarono del progressivo e costante aumento della domanda dei prodotti lattiero-caseari, tanto sul mercato nazionale quanto su quello internazionale, enfatizzando la qualità del proprio formaggio, realizzato senza prodotti insilati. Ulteriore e fondamentale passaggio di questa “campagna pubblicitaria” fu l’istituzione, il 27 luglio 1934, del “Consorzio Volontario Interprovinciale Grana Tipico” – comprendente le province di Parma, Reggio Emilia, Modena, Mantova (destra Po) e, dal 1937, parte della provincia di Bologna – a cui seguì, quasi per reazione, il consorzio grana padano “Padangrana”, che interessava un territorio decisamente più ampio, comprendente trenta province di Piemonte, Lombardia, Veneto, 15  P. Tedeschi, S. Stranieri, L’evoluzione, op. cit., in G. Archetti, A. Baronio (a cura di), La civiltà del latte, op. cit., p. 717. 133


Trentino, Alto Adige ed Emilia Romagna. Con il 1938, grazie al decreto del 17 maggio, il formaggio “Grana Parmigiano-Reggiano” ottenne una sua propria denominazione e, con la conferenza di Stresa del 1 giugno 1951, tale distinzione venne sancita anche a livello internazionale grazie al riconoscimento delle Denominazioni d’Origine di tutti i formaggi tipici. Fu questo il punto di partenza per la stesura delle normative che tutt’ora regolano i prodotti agroalimentari europei con denominazione d’origine. Il 10 aprile 1954 la legge italiana n. 125 recepì quanto stabilito a Stresa, dettando le norme sulla tutela delle denominazioni di origine dei formaggi e ufficializzando, in questo modo, la totale distinzione tra Grana Padano e Parmigiano-Reggiano. I successivi provvedimenti, per quanto fondamentali nell’opera di salvaguardia dei prodotti, interessano relativamente in questa trattazione, essendo ormai chiara la distinzione dei due formaggi tanto dal punto di vista produttivo quanto dalla percezione del consumatore.

Bibliografia G. Amiotti, Produzione, commercio e uso del formaggio nell’antica Roma, in G. Archetti, A. Baronio (a cura di), La civiltà del latte. Fonti, simboli e prodotti dal Tardoantico al Novecento, Brescia, fondazione civiltà bresciana, 2011. C. Besana, Tra agricoltura e industria. Il settore caseario nella Lombardia dell’Ottocento, Milano, Vita e Pensiero, 2012. M. Montanari, La fame e l’abbondanza. Storia dell’alimentazione in Europa, RomaBari, Laterza, 1993. M. Montanari, Prodotti e simboli alimentari. Latte e formaggio tra economia e cultura, in G. Archetti, A. Baronio (a cura di), La civiltà del latte. Fonti, simboli e prodotti dal Tardoantico al Novecento, Brescia, fondazione civiltà bresciana, 2011. I. Naso, “Biblioteca casearia”. Saggio bibliografico della ricerca storica sul latte e i suoi derivati, in M. Tozzi Fontana, M. Montanari (a cura di), Il latte. Storia, lessici, fonti, Bologna, 2000. P. Tedeschi, S. Stranieri, L’evoluzione del settore lattiero-caseario lombardo dall’Ottocento al Duemila, in G. Archetti, A. Baronio (a cura di), La civiltà del latte. Fonti, simboli e prodotti dal Tardoantico al Novecento, Brescia, fondazione civiltà bresciana, 2011. M. Zannoni, Il Parmigiano-Reggiano nella storia, Parma, Silva Editore, 1999.

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Il paesaggio storico del riso in Piemonte Sistema agrario e architettura della coltivazione risicola nel vercellese Gaia Monticelli e Denise Rusinà*

Premessa Se guardassimo dall’alto la pianura vercellese compresa tra il Po e l’arco alpino ci apparirebbe come una “scacchiera”, un mosaico agricolo in cui ciascuna coltivazione ne rappresenta una tessera suddivisa da lunghi filari alberati e canali d’irrigazione. È la sistemazione a risaia che, a seconda delle stagioni, determina cambiamenti profondi e suggestivi nel paesaggio, rendendolo unico nel suo genere. Le prime opere di canalizzazione ci rimandano ad una vicenda molto antica: attestate al tardo medioevo, vennero perfezionate ulteriormente nel Sette e Ottocento ed estese con nuovi importanti rami, come il Canale Cavour. Le risaie invece hanno una storia meno remota: la coltivazione del riso, inizialmente praticata in forma semisporadica sui terreni paludosi che non avrebbero potuto essere altrimenti produttivi, alla fine del Seicento si trasforma in coltura di alto reddito, estendendosi su gran parte del territorio vercellese. Al susseguirsi delle bonifiche dei terreni per mezzo dell’estensione della rete irrigua aveva corrisposto la simultanea avanzata del popolamento. Le ondate demografiche progressive che popolarono le campagne a partire dal XII secolo con una prima fase di dispersione intercalare, successivamente, tra i secoli XIV e XV, con un addensamento di questi insediamenti ed infine con il loro consolidamento nei secoli XVIII e XIX, hanno investito anche il vercellese, come il resto del Piemonte, pur se in forma meno visibile data la presenza di numerose proprietà latifondiste1. Il paesaggio agrario vercellese nella forma in cui oggi ci appare si è venuto formando in un periodo relativamente recente, ma esso non è che l’ultima fase della profonda e stratificata storia che lo ha plasmato per opera dell’uomo. Proprio come scriveva Vito Fumagalli è […] difficile immaginare gli uomini non collocati in un territorio, rurale o urbano. Le loro azioni, le loro idee, i loro progetti, anche quando ciò non appare con evidenza, hanno condiviso poco o tanto con lo spazio in cui sono vissuti, si trattasse di potenti o di umili, borghesi o contadini, laici o gente di chiesa. Ma i paesaggi veramente incombono sull’uomo e questo su di loro 1  L. Palmucci, Canali, cascine, proto industria: i segni della presenza irrigua nella storia del territorio vercellese, in V. Comoli Mandracci, Piemonte, Laterza, Roma-Bari, 1988, pp. 132-142. 135


allorché egli intenda crearli, modificarli, correggerli: conquistare nuovi spazi all’agricoltura, organizzare la proprietà, incentivare coltivazioni, dar vita a poderi, villaggi, città, chiese e oratori, proteggere alcune piante, abbatterne altre, allevare particolari specie animali. Nel medioevo, tutto questo avveniva generalmente con grande lentezza. Oggi, rivediamo lo stesso paesaggio radicalmente mutato, in città e in campagna. Molti luoghi tendono ormai ad assomigliarsi, a divenire uguali e spesso, anonimi e grigi, riflettono prepotenti volontà di trasformazione. Riusciamo a meglio comprendere questa rivoluzione se guardiamo anche al passato, il più indietro possibile: allora, la nostra epoca appare anche come il punto in cui una linea lunghissima s’è bruscamente spezzata. Vito Fumagalli, Uomini e paesaggio medievali.

Organizzazione territoriale ed agraria nel vercellese Nell’XI secolo su gran parte del Piemonte si estendeva un vasto manto forestale, così anche nel vercellese il bosco, intervallato da zone acquitrinose dovute alla presenza delle numerose risorgive e da brughiere, doveva ricoprire la maggior parte del territorio. Due diplomi di Ottone III, mai autenticati, a favore del Vescovo di Vercelli degli anni 999 e 1000 testimoniano infatti la presenza di quattro selve: la Silva Rovaxinda, Silva Palazolasca, Silva Locedi e Silva Salsa. Si trattava probabilmente di un’unica selva che assumeva denominazioni diverse a seconda dei luoghi in cui si estendeva2. Al periodo romano risalgono i primi tentativi di canalizzazione e bonifica dell’area attraverso l’assegnazione di alcuni terreni incolti in prossimità delle strade imperiali di collegamento tra i principali centri della pianura3. Le coltivazioni più diffuse erano quelle del miglio e del panico, cereali di piccole dimensioni molto resistenti ai climi freddi e in grado di fornire due raccolti all’anno; questi prodotti continueranno ad essere coltivati anche nei secoli successivi, fino a quando il riso non prenderà il sopravvento4. In età longobarda furono rivitalizzati alcuni centri rurali del basso vercellese, a seguito della contrazione di epoca tardo antica, e conseguentemente recuperate alcune aree a coltivo, organizzate in brayde ed attestate nel territorio trinese5. La stessa fondazione dell’abbazia di S. Michele, poi di S. Genuario, è segno della presenza longobarda nella zona e di un loro intervento abbastanza rilevante nel settore agricolo. Ma è tra XI e XIII secolo che l’intero paesaggio agrario italiano subì una prima importante trasformazione: vennero infatti promossi grandi interventi di bonifica, di irrigazione e di dissodamento, da parte di gruppi cittadini in associazione tra loro oppure, più spesso, da grandi feudatari che, per sfruttare porzioni di territorio inabitate e quindi poco produttive, 2  F. Panero, Il monastero di S. Maria di Lucedio e le sue grange: la formazione e la gestione del patrimonio fondiario 1123-1310, in L’Abbazia di Lucedio e l’ordine cistercense nell’Italia Occidentale nei secoli XII e XIII, Atti del III congresso storico vercellese (Vercelli, Salone Dugentesco, 24-26 ottobre 1997), Società Storica Vercellese, Vercelli 1999, pp. 351-363. 3  A.A. Settia, Insediamenti abbandonati; mentalità popolare e fantasie erudite, Torino 1974, LXXII, p. 71. 4  F.M. Gambari, Elementi per una ricostruzione del paesaggio agrario del Vercellese tra la protostoria e la prima romanizzazione, in M. Balboni (a cura di), Il territorio delle grange di Lucedio protagonista della storia. Atti del convegno di studi dell’aprile 2008, Edizioni Mercurio, Vercelli, 2009, pp. 14-15. 5  D. Durandi, Il Piemonte cispadano antico, Torino 1774, p. 127 136


Fig. 1 Vista del Monastero di Santa Maria di Lucedio circondata delle risaie.

favorirono l’impianto in tali aree di abazie6. Per il territorio vercellese, emblematica è la fondazione del Monastero di Santa Maria di Lucedio, secondo una tradizione interna avvenuta nel 11237, che, unitamente all’intreccio di poteri temporali e religiosi presenti sul territorio che contrappose i Marchesi di Monferrato alla Città di Vercelli, incidette fortemente sia sul popolamento e le sue forme insediative che, di conseguenza, sul paesaggio. A chiamare i monaci sarebbero stati i marchesi di Monferrato, che dotarono il monastero inizialmente di due appezzamenti, il primo a Lucedio ed il secondo a Montarolo, dove dal 1186 è segnalata la presenza di una grangia, in corrispondenza con l’antica corte Auriola8. Il cenobio si impone fin da subito come destinatario di cospicue donazioni da parte di esponenti della dinastia aleramica, ma anche dei vescovi di Vercelli e di altri membri dell’aristocrazia laica del territorio, entrando in tal modo in possesso di un vasto patrimonio, comprendente terre nel Pavese, nell’Eporediese, nel Torinese e in Valle di Susa. In questo modo, il monastero riuscì a consolidare, grazie anche alla concessione di immunità e privilegi da parte di papi, imperatori e signori locali9, il suo potere territoriale su scala sovralocale. 6  E. Sereni, Storia del paesaggio agrario italiano, Laterza, Roma, 1961, p. 68. 7  La data del 21 marzo 1123 compare in un manoscritto della Biblioteca Ambrosiana a Milano (Liber Capituli, foglio 9v, p. 167). Questa data si fissa poi nella tradizione interna al monastero ed è ripresa in documenti settecenteschi (A.O.M., Lucedio, Scritture rimesse, m. 73, n. 1690) in S.M. Fantoni, Memorie sull’origine del monastero di Lucedio, sull’abbazia regolare e sull’abbazia commendataria di Lucedio, mss. presso la Biblioteca Reale di Torino (Misc. 22, n. 11 e Misc. 94, n. 2). 8  R. Comba, I Cistercensi fra città e campagne nei secoli XII e XIII, in Studi Storici, n. 26, aprilegiugno, 1985, p. 250. 9  G. Giordano, L’abbazia di Lucedio e le sue grange, in “Bollettino storico vercellese”, n. 13-14, Società Storica Vercellese, 1979, p. 79. 137


La scelta di questo territorio caratterizzato dalla presenza di boschi e aree paludose non era causale: negli statuti dell’Ordine era contemplato che le nuove fondazioni dovessero sorgere in luoghi deserti, paludosi o boscosi, lontano da centri abitati, in territori ancora da bonificare e dissodare, in vista del futuro sfruttamento produttivo10. I cistercensi operarono a Lucedio i primi dissodamenti e divulgarono i modi della tecnica agricola, suddividendo le terre del convento in unità agricole, le grange, a conduzione diretta. Queste ultime godevano di una certa autonomia rispetto alla sede abbaziale che le aveva costituite e si avvalevano della manodopera di conversi e lavoratori salariati11. Avendo come punto di riferimento iniziale soltanto due e poi tre grange, l’organizzazione economica del monastero inizialmente si rivolse verso due direzioni: una parte degli incolti veniva progressivamente messa a coltura, un’altra parte era invece destinata ad attività silvopastorali, dove l’allevamento (inizialmente suini e ovini) rappresentava un impegno molto importante per i conversi, se non predominante. Lo stesso documento di dotazione prevedeva che i monaci potessero pascolare liberamente ogni sorta di animale sulle terre dei Marchesi di Monferrato, con la facoltà di utilizzare il legname dei boschi marchionali e questo spiega la lentezza dell’avvio di una razionalizzazione della proprietà fondiaria in grange. Successivamente alle prime operazioni di bonifica delle zone paludose e la costruzione dei canali di irrigazione come il roggione di Trino, per riuscire a rendere coltivabili i suoli, i monaci introdussero le prime risaie, unica forma di coltura adatta ai terreni limosi dell’area; si trattava però di sperimentazioni limitate che in questa prima fase non conobbero un grande sviluppo. La trasformazione del paesaggio attraverso la riduzione delle selve dovette avvenire non solo ad opera dei monaci, ma anche delle comunità locali e di singoli contadini, come si può notare dal fatto che molte terre risultano già messe a coltura al momento delle acquisizioni successive al 1158 da parte del monastero. La maggior parte delle terre di Lucedio erano situate nella parte settentrionale del comune di Trino Vercellese e suddivise in sette grange (le grange di Lucedio, di Leri, della Darola, di Castelmerlino, di Montarucco, di Ramezzana e di Montarolo). A questo nucleo originale si aggiunsero successivamente altre grange o poderi (di Montonero, di Pobietto, ecc…) che nel periodo di massima espansione dei possedimenti del monastero formavano un sistema insediativo inscindibile e sottoposto a sistemi di governo del territorio omogenei. Diversamente della gestione economia benedettina fondata sull’organizzazione della curtis, tipicamente feudale, la grangia cistercense si differenziava sia per essere composta esclusivamente da fondi dominicali, sia perché la sua conduzione, non più legata al sistema delle corvées e delle terre in concessione, appariva imperniata sull’applicazione di forme di gestione diretta e sullo sfruttamento sistematico di una forza-lavoro fornita soprattutto da conversi12, quindi giuridicamente l’abbazia assumeva in sè la figura del proprietario, dell’imprenditore e del lavoratore. Ogni monastero poteva possedere diverse grange, formando un sistema con i connotati di una grande azienda agraria, creando una coesione di carattere religioso ed economico, a cui fa capo l’abate, mentre il cellarius era la persona posta alla guida dell’attività amministrativa13. La direzione di una singola grangia era affidata al grangerius, il quale 10  Ivi, p. 73. 11  F. Panero, op. cit., p. 351 - 363. 12  C. Rotelli, Una campagna medievale, storia agraria del Piemonte, Torino, 1973, pp. 41-42. 13  R. Comba, Contadini, signori e mercanti nel Piemonte medievale, Laterza, Roma-Bari, 1988, p. 23. 138


rendeva conto della sua amministrazione al cellarius; accanto ai frati nei campi lavoravano i conversi, ovvero frati laici che prestavano servizi profani e lavori manuali, essi non erano vincolati alla terra, come si riscontrava ancora nelle abbazie benedettine, ma già dotati di libertà giuridica e sociale14. A partire dagli anni Trenta del XIII secolo, grazie alla protezione e ai privilegi ottenuti, il monastero di Lucedio diventò un soggetto economico di primaria importanza a livello regionale, attivo soprattutto nel tratto padano compreso fra la Dora Riparia e il Ticino15. Una grangia possedeva raramente meno di 100 ettari di terreno e le più importanti si avvicinavano anche ai 500 ettari. In questo periodo le attività agricole delle grange sono connesse con la cerealicoltura, la praticoltura e l’attività pastorale che continuava a progredire e in alcuni casi a specializzarsi. Cresceva sicuramente la capacità di produzione agricola, testimoniata dalla costante ricerca dell’esenzione dalla decima per le terre a gestione diretta, dall’attività molitoria e dalla preoccupazione di approvvigionamento delle macine da mulino in Valle d’Aosta senza dover pagare pedaggi. Le colture più diffuse erano grano, orzo, segale e panico, con alternanza di canapa, lino e sorgo; si era dunque affermato un tipo di economia che, sfruttando una rete molto fitta di grange, riusciva a mettere a frutto una quantità crescente di terreni sottratti all’incolto, oltre che a potenziare le attività di allevamento e di lavorazione dei panni. Dall’inizio del XV secolo, prenderà sempre più piede la coltivazione del riso, con alternanza di cereali e foraggio sino a divenire l’indirizzo prevalente16. L’erezione in commenda da parte di Papa Callisto III nel 1475 dell’abbazia determinò l’inizio di una fase di flessione nella storia di Lucedio, contrassegnata da quel momento in avanti da una situazione di frequente conflittualità tra l’abate claustrale, capo spirituale alla guida del monastero, e l’abate commendatario17. In realtà le origini della crisi istituzionale dell’organizzazione cistercense vanno ricercate in un discorso di ampio respiro che si riallaccia alle vicende del contado nel corso del XIV e XV secolo. L’organizzazione in grange contrastava il continuo frazionamento dei possessi fondiari, tipico dell’epoca medievale, e la loro autonomia determinava una situazione di aperta rottura con i principali diritti della popolazione dei villaggi, organizzati attorno alle terre comuni mediante il sistema dei campi aperti18. Nel corso del XV secolo i monasteri faticavano a gestire le terre dei loro enormi possedimenti a causa dell’alto livello raggiunto dai salari e per la scarsa affluenza di forza lavoro da parte di nuovi conversi, per mantenere l’antico tenore gli appezzamenti in eccesso venivano venduti19. Nell’ottica di una riorganizzazione sociale ed economica e per una puntuale riscossione delle rendite da parte dei cardinali commendatari e della nobiltà protettrice, dal 1552 le varie grange vennero affittate tramite contratti che garantivano l’uso dei terreni e di tutti gli edifici della proprietà della grangia stessa, generalmente per un periodo di sei anni20. Per contratto l’affittuario diventava garante del buon funzionamento 14  G. Donna, L’organizzazione agricola della grangia cistercense, in «Rivista di Estimo agrario e genio rurale», Torino, 1943, pp. 7-8. 15  F. Panero, op. cit., pp. 351-363. 16  L. Scaraffia, P. Sereno, Monocoltura e conduzione capitalistica: la risaia vercellese, in “Cabrei e catasti fra i secoli XVI e XIX”, “Storia d’Italia”, Vol. VI, Einaudi, Torino, 1976, p. 510. 17  C. Sincero, Trino, i suoi tipografi e l’abbazia di Lucedio, Frat. Bocca, Torino, 1797, p. 217. 18  G. Luzzato, Storia economica d’Italia, il Medioevo, Sansoni, Roma, 1948, p. 94. 19  C. Rotelli, op.cit., p. 158. 20 A.O.M., Lucedio, Scritture diverse, mazzo 5E, Capitoli per li nuovi affittamenti dei beni dell’ab139


del sistema territoriale, impegnandosi annualmente a compiere riparazioni dei canali e mauntenere gli edifici21. La figura dell’affittuario conduttore diretto si modifica però nel corso del XVI secolo in quella di grande affittuario, proveniente dall’alta borghesia mercantile che, non partecipando attivamente alla conduzione del podere, subaffitterà i terreni in diversi lotti, mentre il ruolo dell’abbazia e dei monaci, ai quali viene affidata una piccola parte della rendita costituita da pochi appezzamenti, sarà sempre più marginale. Le proprietà latifondiste gestite dai grandi affittuari contribuiscono a determinare, alla fine del Seicento, la svolta fondamentale nel volto del paesaggio agrario vercellese: l’estensione della risaia, definita negli studi di Pugliese22 e di Bullio23 come “il più grande fenomeno di specializzazione colturale”, vide il suo apice proprio nel XVIII secolo, proseguendo fino all’Ottocento inoltrato. L’impulso maggiore all’introduzione della risicoltura nel territorio vercellese provenne dal Ducato di Milano, dove nel corso del XV secolo l’attività risicola si diffuse molto velocemente in seguito ad una serie di interventi di bonifica idraulica promossi dagli Sforza che conferirono una nuova connotazione al paesaggio dell’area lombarda. Gradualmente la coltivazione si estese anche verso Ovest, in quelle zone della pianura vercellese caratterizzate da terreni improduttivi e paludosi, in forma via via sempre più estensiva. La coltura del riso non richiedeva una grande manutenzione, per cui la mano d’opera era poco numerosa e poco costosa24. Per queste ragioni, nonostante la produttività fosse inizialmente molto scarsa, la risaia costituiva una delle colture più redditizie: la coltivazione richiedeva solamente operazioni di semina e di raccolta, inoltre non era in uso mondare il riso dalle erbe estranee e non si ricorreva a concimazione, in quanto le terre venivano lasciate alternativamente a maggese servendo da pascolo ai maiali; perciò la risicoltura era favorita da proprietari ed affittuari, mentre il governo cercava di ostacolarla, riconoscendola nociva alla salute pubblica e all’incremento della popolazione25. Osservando la disposizione delle colture nei cabrei di inizio Settecento notiamo come il paesaggio agrario fosse già profondamente caratterizzato dalla risicoltura: nel 1710 occupava l’8% del territorio, nel 1812 era cresciuta al 9% e nel 1860 al 15%. In un secondo momento la risaia si estese non solo a scapito delle terre incolte o paludose, ma venne gradatamente a sostituire i terreni arativi, che si ridussero dal 50 al 33%, indicando dunque la precisa volontà dei grandi proprietari di ottenere il massimo profitto dal fondo agricolo, votandosi ad una conduzione di tipo “capitalistico”26. Ne conseguì una nuova conformazione del paesaggio che, dall’assetto tipico della “piantata”, segnato dall’andamento regolare dei campi, inquadrati da piantagioni arboree, sui confini e lungo i canali, e popolato da un insediamento disperso intercalare, volse bazia di Lucedio, in M. Perazzo, Le “Grange di Lucedio”: lineamenti delle trasformazioni edilizie di una grande azienda rurale tra Medioevo e Ottocento, Tesi di laurea, rel. Laura Palmucci, Facoltà di Architettura, Politecnico di Torino, A.A. 1982/83. 21 A.O.M., Lucedio, Scritture diverse, mazzo 7G, Capitoli d’affittamento, 1570, in M. Perazzo, op. cit. 22  S. Pugliese, Due secoli di vita agricola: produzione e valore dei terreni, contratti agrari e prezzi nel vercellese nei secoli XVII e XVIII, Torino, 1908, p. 39. 23  P. Bullio, Problemi e geografia della risicoltura in Piemonte nei secoli XVII e XVIII, in “Annali della fondazione Einaudi”, III, 1969, pp. 37-93. 24  I cabrei del 1716 riguardanti il territorio delle grange di Lucedio vengono eseguiti da Vincenzo Scapitta, misuratore e agrimensore, in M. Perazzo, op. cit. 25  S. Pugliese, op. cit., p. 41. 26  L. Scaraffa, P. Sereno, op. cit., p. 510. 140


gradatamente verso quell’aspetto uniforme “piatto, scuro e desolato” che i viaggiatori settecenteschi avevano annotato con disappunto27. Nel 1796, con l’occupazione del Piemonte da parte di Napoleone Bonaparte e l’annessione alla Francia, vennero soppressi gli ordini monastici e incamerati i beni in loro possesso: tale evento rivoluzionò completamente la proprietà terriera della campagna vercellese, fino a quel momento appartenuta a nobili e a grandi complessi ecclesiastici, assegnando gli appezzamenti tra gli esponenti del ceto borghese e ponendo le basi per lo sviluppo agricolo del periodo successivo28. Questo portò alla definitiva disgregazione del sistema a conduzione centralizzato di un territorio omogeneo ed al consolidamento del capitalismo agrario nelle campagne. La borghesia è portatrice di un nuovo spirito di intraprendenza, che si minifesta con una maggiore organizzazione produttiva e con l’introduzione di nuovi mezzi tecnici, comportando per la grande proprietà fondiaria un periodo di intenso progresso e sviluppo. In seguito alla caduta di Napoleone, le sette grange di Lucedio furono vendute nel 1816 al marchese Michele Benso di Cavour, al marchese Giovanni Gozzani di S. Giorgio e al signor Luigi Festa29. In particolare, i beni di Leri, Montarucco e parte del bosco di Lucedio, passate ai Conti di Cavour saranno protagonisti di una buona crescita produttiva ed economica, che vedrà una loro trasformazione radicale per opera di Camillo Cavour; subentrato all’attività paterna nel 1835, apporterà numerose modifiche nella gestione dell’azienda agricola soprattutto grazie ai rapporti con Giacinto Corio, grosso agricoltore di Livorno Vercellese30. I Cavour assumevano così un ruolo di grandi imprenditori agricoli nella pianura vercellese31, operando importanti interventi anche nella risistemazione idraulica del territorio. Nel 1851, Camillo Cavour, a quel tempo Ministro dell’agricoltura, fondò l’Associazione d’Irrigazione Ovest Sesia con l’obiettivo di affidare la gestione delle acque direttamente agli agricoltori uniti in consorzio. L’Associazione inizialmente gestì soltanto il Naviglio di Ivrea, il canale di Cigliano, ampliato nel 1859 e nel 1887 intitolato ad Agostino Depretis e il canale del Rotto, espandendosi poi nel periodo successivo, fino a divenire oggi l’ente più importante per la risicoltura vercellese. Promosse il progetto per il canale Cavour, presentato dall’ing. Carlo Noè nel 1846, iniziato solamente nel 1863, dopo l’unificazione nazionale e dopo la morte di Camillo Cavour32. Altro importante canale ottocentesco ad essere realizzato fu il sussidiario Farini, costruito nel 1868 per incrementare la portata del canale Cavour; con lo stesso obiettivo, tra il 1909 e il 1910, fu ingrandito il Naviglio di Ivrea nel tratto compreso tra il canale Depretis e il canale Cavour33. Con queste operazioni si conclusero i grandi interventi di potenziamento della rete irrigua vercellese; nei decenni successivi si apportarono migliorie ai tratti esistenti inserendo 27  L. Palmucci, op. cit., pp. 132-142. 28  G. Giordano, op.cit., p. 85. 29  C. Sincero, op. cit., p. 222. 30 A.O.M., Lucedio, Vol. II, Marzo 6, in M. Perazzo, op cit. 31  R. Romeo, Cavour e il suo tempo, Laterza, Bari, 1977, p. 15. 32  L. Bussardi, Il sistema dei canali Cavour tra storia e modernità, in M. Balboni (a cura di) Il territorio delle Grange di Lucedio protagonista della sotria. Atti del convegno di studi dell’aprile 2008, Edizioni Mercurio, Vercelli, 2009, pp. 67-69. 33  L. Segre, Agricoltura e costruzione di un sistema idraulico nella pianura piemontese: 1800-1880, Banca Commerciale Italiana, Milano, 1983, pp. 19-26. 141


sistemi meccanici all’avanguardia per regolare la distribuzione dell’acqua. Attualmente la superficie irrigua della Bassa pianura vercellese è pari al 96% della superficie coltivata mentre quella della fascia di alta pianura è pari all’86%.

Emergenze architettoniche: la cascina a corte nel paesaggio risicolo L’architettura rurale, argomento che verrà trattato di seguito, è da sempre l’espressione tangibile delle relazioni sociali ed economiche del mondo contadino e rappresenta la risposta alle esigenze della vita agreste, creando così uno stretto legame tra uomo e natura. Pertanto, gli edifici rurali, devono essere considerati parte integrante del paesaggio poichè interagiscono con esso attraverso forme e materiali specifici e, caricandosi di significato, diventano testimoni di un passato che ormai non c’è più. Le grange di Lucedio, elementi architettonici caratterizzanti la piana risicola vercellese, rientrano in una specifica tipologia di architettura rurale rappresentata dalla corte chiusa settecentesca che, malgrado abbia subito diverse trasformazioni in epoca moderna, si è conservata nelle sue forme fondamentali dal medioevo ai giorni nostri34 e vede negli ampliamenti della fine dell’Ottocento le sue ultime fasi. Secondo alcune ricerche tale tipologia potrebbe già risalire alla villa rustica romana35 poiché, da scavi archeologici, è emerso che l’abitazione principale, dove risiedeva il proprietario, era circondata da ambienti adibiti ai servi, ai magazzini, alle stalle e ai granai, però questa struttura era molto complessa formata da numerosi edifici, composti da grandi ambienti molto differenti tra loro36, non paragonabili alla semplicità di quelli situati nella corte settecentesca. Scartata questa teoria, i successivi studi hanno portato alla formulazione di una seconda ipotesi: il Donna37 e il Saibene38 ritengono infatti che l’assetto edilizio, delle grange cistercensi, abbia come prototipo il chiostro conventuale medievale. Gli studiosi sostengono che i fabbricati di una grangia cistercense seguissero uno schema preordinato: le costruzioni, addossate l’una all’altra, delimitavano lo spazio intorno ad un ampio cortile quadrato comprendendo su un lato un semplice oratorio, l’abitazione del grangere, le case dei conversi e dei salariati; sul lato opposto invece si trovavano le stalle per il bestiame e i magazzini per la conservazione dei prodotti mentre all’esterno si estendevano gli orti e i campi. L’accesso alla corte era garantito da una porta principale, davanti alla casa del grangere, e una secondaria aperta sui campi, sufficientemente larghe per permettere il passaggio dei carri39. Le abitazioni si presentavano come capanne in legno col tetto di paglia, con un’apertura al centro per la fuoriuscita del fumo del focolare, composte da un unico vano dove trovavano ricovero persone e animali, ma già nel XIII secolo, le abitazioni dei grangeri che erano lavoratori privilegiati, venivano costruite in muratura su due piani: al piano terreno 34  C. Nutolo, La nascita delle grange in età medievale, in M. BALBONI (a cura di), Le grange di Lucedio fra arte, cultura e spiritualità, Edizioni Mercurio, Vercelli 2008, p. 25. 35  G. Caraci, Le corti lombarde e l’origine della corte, in Scritti vari sulla geografia fisica e antropica dell’Italia, Società Geografica Italiana, Roma 1932, vol. XVII, p. 58. 36  R. Bianchi Bandinelli, Roma. L’arte romana nel centro del potere, Rizzoli, Milano 1976, p. 54. 37  G. Donna, op. cit., pp. 10-11. 38  C. Saibene, La casa rurale nella pianura e collina lombarda, Olschki, Firenze 1955, p. 201. 39  C. Nutolo, op. cit., p. 30. 142


Fig. 2 Archivio di Stato di Torino, Sez. Riunite, Economato benefici vacanti, Lucedio, mazzo 1, Catasti, Torino, allegato “a”, n. 244, particolare della grangia di Darola. Fig. 3 ASTo, Sez. Riunite, Economato benefici vacanti, Lucedio, mazzo 1, Catasti, Torino, allegato “a”, n. 244, particolare della grangia di Montarolo.

Fig. 4 ASTo, Sez. Riunite, Economato benefici vacanti, Lucedio, mazzo 1, Catasti, Torino, allegato “a”, n. 244, particolare delle grangie di Leri e Castelmerlino. 143


un ambiente unico fungeva da abitazione dove si mangiava e si dormiva, accanto si trovava la stalla e sopra vi erano i locali adibiti a fienile e magazzino40. Questa interpretazione però non può essere riscontrata nelle grange in esame, poiché si sa che a Darola, già nel 933, esisteva un nucleo rurale facente parte del feudo dei marchesi di Monferrato, il centro di Leri era presente dal 99941 e da ritrovamenti archeologici si ipotizza una continuità insediativa a Lucedio42, così anche per le altre grange doveva esserci una qualche forma abitativa prima della fondazione del monastero avvenuta nel 1123, motivo per cui una derivazione da parte del chiostro monastico può essere esclusa. Se quindi originariamente le grange si presentavano come insediamenti aperti43, solo in un secondo momento si aggiunse l’elemento difensivo per proteggere le aziende rurali isolate nelle campagne divenute insicure, come viene anche specificato nel Liber ruralium commodorum pubblicato nel 1305 dall’agronomo bolognese Pier de Crescenzi, che consigliava di cingere la corte agricola con «fosse, ripe e siepi adeguate [...] a meno che un’ampia disponibilità di ricchezze metta il proprietario in condizione di ergervi un castello o una solida rocca da battaglia»44, per cui anche i monaci dovettero adeguarsi difendendo le grange da assalti e da saccheggi con palizzate, torri e a volte fossati realizzati intorno al nucleo originario, conferendogli così l’aspetto di fortino45. In un documento risalente al 1248 viene specificato che le grange di Gazzo e di Lucedio sono sprovviste di elementi difensivi46, fatto che lascia supporre la presenza nelle altre grange di fortificazioni, e di cui vi sono due esempi significativi a Darola e a Montonero. Nella prima grangia si trova ancora oggi una porta con torre, risalente al tardo XV secolo, che costituiva l’entrata ad una corte fortificata rettangolare; nella seconda sono rimaste due torri circolari agli angoli con ancora le merlature a coda di rondine risalenti al XIV secolo, unite da un braccio di fabbrica sul cui muro è ancora possibile leggere i segni di una serie di merli inglobati in un intervento edilizio successivo. Quello che emerge da questa prima analisi, partita dalla fondazione dell’abbazia nel XII secolo fino all’erezione in commenda nel 1475, è che l’assetto insediativo delle grange sia stato influenzato soprattutto dalle vicende politiche e amministrative succedutesi in questo arco temporale poiché, la forma regolare a corte chiusa, fu assunta in seguito al bisogno di sicurezza che spinse i monaci a inglobare gli edifici presenti sul territorio con cinte murarie. Tuttavia si riscontrano altri momenti fondamentali per la loro storia edilizia relazionata in particolar modo alla sfera agricola; infatti una prima ristrutturazione delle grange è avvenuta tra la fine del Seicento e il primo trentennio del Settecento coincidente con la ripresa economica, la quale richiese un incremento della capacità produttiva dei tenimenti attraverso l’aumento delle risaie e dell’allevamento, ma anche grazie al sopraggiungere delle innovazioni agricole, che hanno modificato il territorio e di conseguenza il lavoro nelle campagne. Le grange alla metà del Seicento avevano raggiunto una conformazione stabile dove le case dei massari, dei lavoranti, il ricovero del bestiame, i locali per la conservazione e la 40  Ivi p. 31. 41  C. Sincero, op. cit., p. 215. 42  G. Banfo, Insediamenti monastici e società nel vercellese medievale: repertorio e problemi storiografici, Tesi di laurea di Storia medievale, anno 1991-1992, Università di Torino, pp. 82-83. 43  C. Nutolo, op. cit., p. 28. 44  G. Luzzatto, op. cit., p. 181. 45  G. Caraci, op. cit., p. 56-72. 46  A.O.M., Lucedio, “Scritture diverse”, mazzo 3, cam. 139, in M. PERAZZO, op cit. 144


lavorazione dei prodotti si erano formati attorno a una struttura importante47 come poteva essere il palazzo dell’abate a Lucedio, un torrione a Castelmerlino, un castello a Darola e Montonero, un palazzo a Leri, una torre colombaia a Montarolo e Montarucco, ma dal resoconto delle visite, si può anche riscontrare le pessime condizioni in cui versavano, date dalla cattiva manutenzione e dalla crisi portata dalle guerre del secolo precedente. In tutte le grange si registra, in modo dettagliato, lo stato di degrado e di trascuratezza dei rustici48 ritrovati in condizioni di precarietà strutturale: le case dei braccianti sono inabitabili e malsane con tetti rovinati e muri mal composti che faticano a stare in piedi, a Castelmerlino si ha persino notizia che le case dei manovali sono senza finestre e senza solaro49; anche le chiese e le abitazioni dei massari sono in stato precario, tant’è che a Leri la casa del massaro ha il solaro tutto rotto50; al contrario si trovano in condizioni migliori gli ambienti adibiti al lavoro, legato soprattutto alle coltivazioni agricole e all’allevamento del bestiame. Ancora nei primi anni del Settecento le condizioni non appaiono mutate, ma attraverso lo studio delle mappe catastali, redatte entro la metà del XVIII secolo e di quelle del successivo periodo napoleonico, si ha la conferma che si stiano verificando delle profonde mutazioni edilizie come la riedificazione di alcune strutture o sullo stesso sedime dei vecchi corpi di fabbrica51, organizzandole secondo una scansione logica e ripetuta di abitazioni, stalle, fienili e tettoie, o di nuovi corpi in prosecuzione dei vecchi, per chiudere le corti aperte in modo regolare52, adottando scelte e criteri strutturali più moderni, trasferiti dalla cultura architettonica urbana, come i voltini in muratura sorretti da travi il legno, meno infiammabili rispetto all’assito dei solai53. Nel 1714 a Castelmerlino, presso la casa del massaro, si costruiscono una nuova stalla e un ricovero coperto per i risi in paglia con annesso magazzino, la cui traccia di fondazione dell’ala nuova, è visibile nel cabreo del 1716 come un edificio isolato di fronte alla corte antica tale da modificare il disegno dell’intero complesso54; a Montarucco nel 1710 si costruisce la nuova casa del massaro e nel 1728 si aggiunge una stalla55; a Darola nel 1714 viene costruita una nuova pista da riso con magazzino e tettoia e nel 1726 una cascina nuova, mentre fuori dal recinto si ritrova l’osteria, la bottega del fabbro e otto abitazioni di manovali56; infine a Leri nel 1713 si edificano una fabbrica, una casa nuova del manovale e nove cascine riparate57. 47  L. Palmucci, Le grange di Lucedio: persistenza e mutamenti nell’architettura dei fabbricati rurali, in L’Abbazia di Lucedio e l’ordine cistercense nell’Italia Occidentale nei secoli XII e XIII, Atti del III congresso storico vercellese (Vercelli, Salone Dugentesco, 24-26 ottobre 1997), Società Storica Vercellese, Vercelli, 1999, p. 343. 48  L. Palmucci, op. cit., p. 344. 49  A.O.M., Lucedio, “Scritture diverse”, mazzo 27, n. 5, cam. 730 “visita alle grange di Lucedio, a. 1643”, in M. Perazzo, op. cit. 50  A.O.M., Lucedio, mazzo 18 T, cam. 372, (visita 1605), in M. Perazzo, op. cit. 51  C. Nutolo, op. cit., p. 36. 52  Ivi p. 37. 53  P. Sereno, Una trasformazione dell’insediamento rurale in età moderna: l’origine della dimora “a corte” in Piemonte, in «Archeologia Medievale: cultura materiale, insediamenti, territorio», CLUSF, Firenze 1980, n. 7, p. 271-299. 54  A.O.M., Lucedio, Tipi e Cabrei, “Misura e Cabreo di tutti i beni delle grange di Castelmerlino 1716”, in M. PERAZZO, op. cit. 55  A.O.M., Lucedio, Scritture diverse, m 50, n. 28, cam. 1339, in M. Perazzo, op. cit. 56  A.O.M., Lucedio, Scritture diverse, m 48, n. 26, cam. 1325 (Darola), in M. Perazzo, op. cit. 57  A.O.M., Lucedio, Scritture diverse, m 37, n. 15, cam. 1118 (Leri), in M. Perazzo, op. cit. 145


Da questa intensa attività edilizia si comprende l’intenzione dei proprietari delle grosse aziende, di incrementare gli introiti tramite l’estensione delle risaie; obiettivo che comportò una maggior richiesta di mano d’opera e di forza lavoro nei tenimenti e, di conseguenza, più lavoratori fissi da alloggiare nelle abitazioni per braccianti, nuovi fabbricati per stanziare il bestiame e nuovi spazi per la lavorazione del riso. Nonostante gli interventi effettuati nelle grange, dovuti agli importanti cambiamenti agrari che stavano trasformando la campagna, gli schemi planimetrici originari non si modificarono in maniera consistente per tutto il Settecento: la caratteristica dello sviluppo morfologico fu rappresentata dall’atteggiamento razionale che portò alla formazione di case salubri, in linea continua o risvoltanti attorno al grande spazio regolare dell’aia intervallate da tettoie, al fine di alloggiare più personale, aumentare le zone di deposito e di lavorazione del prodotto, disponendo i singoli corpi di fabbrica secondo il percorso più opportuno, pratica non pensata a priori, come aveva osservato Paola Sereno58, ma risultante da interventi consolidati nella pianura risicola vercellese. Successivamente nella prima metà dell’Ottocento, quando le cascine furono avviate a destini diversi poiché furono smembrate e vendute a privati nel 181659, i nuovi metodi di produzione dati dal cambiamento delle tecniche di coltivazione e dall’organizzazione del lavoro, richiesero ulteriori miglioramenti come la maggiore comodità e il ridisegno complessivo dei corpi abitativi e produttivi, sulla base planimetrica dei vecchi edifici. Il 28 febbraio 1822 avveniva la spartizione delle proprietà tramite estrazione a sorte: Lucedio, Castelmerlino, Montarolo, e parte di Ramezzana al marchese Gozzani; Darola e l’altra parte di Ramezzana a Luigi Festa; al marchese Michele Benso di Cavour passavano i beni di Leri e Montarucco con il restante bosco di Lucedio. Gli insediamenti di Leri e Montarucco si presentarono all’inizio del XIX secolo immutati, con le stesse caratteristiche planimetriche e tipologiche che li avevano contraddistinti nel XVIII secolo, ma già nel 1838 a Leri si iniziarono dei lavori nelle abitazione e nei porcili, nel 1840 si risanarono le piste da riso e si sistemarono le strade60 che conducevano alla grangia poiché il trasporto del raccolto, trovandosi in pessime condizioni, era difficoltoso. Contemporaneamente l’impulso produttivo creò la necessità di nuovi impianti per la lavorazione del riso, che si basava ancora sulla battitura dei fasci di risone, acquistando il trebbiatoio, reso affidabile dall’ingegnere Rocco Colli nel 1836; ciò portò l’azienda ad essere ingrandita con l’aggiunta di una seconda corte61: la forma planimetrica finale fu quella di due corti chiuse attigue, con la scomparsa totale delle tracce dell’antica formazione, nonostante i nuovi fabbricati fossero in parte costruiti sul sedime delle vecchie costruzioni. Mentre Leri veniva ingrandita, con una seconda corte, Montarucco venne completamente ridisegnata con un unico grande spazio centrale rettangolare chiuso sui lati da edifici a schiera62; l’unica costruzione rimasta del XVIII secolo era la chiesa, concepita come edificio isolato, ma col nuovo intervento venne anch’essa accorpata con le nuove costruzioni diventando parte di un braccio di fabbrica. A Darola, la piccola corte originaria fortificata, 58  P. Sereno, op. cit., p. 298. 59  L. Palmucci, op. cit., p. 344. 60  Archivio Cavour, III lettere a Cavour, 1838, lettere di Tosco Martino, sovrintendente a Leri, in M. Perazzo, op. cit. 61  Archivio Cavour, III lettere a Cavour, 1845-1859, lettere di Corio Giacinto, in M. Perazzo, op. cit. 62  Cascinale di Montarucco, Ufficio d’Arte del Regio Ospizio Generale di Carità di Torino, 1877, (A. I. R. V., Categoria XVI, Parte Prima, Busta 27), in M. Perazzo, op. cit. 146


Fig. 5 ASTo, Sez. Riunite, Economato benefici vacanti, Lucedio, mazzo 1, Catasti, Torino, allegato “a”, n. 244, particolare della grangia di Lucedio.

Fig. 6 ASTo, Sez. Riunite, Economato benefici vacanti, Lucedio, mazzo 1, Catasti, Torino, allegato “a”, n. 244, particolare della grangia di Montarucco. Fig. 7 ASTo, Sez. Riunite, Economato benefici vacanti, Lucedio, mazzo 1, Catasti, Torino, allegato “a”, n. 244, particolare della grangia di Ramezzana. 147


venne quasi totalmente ricostruita e sui quattro lati si edificarono nuovi magazzini, piste da riso e i locali del trebbiatoio che seguivano l’antico schema planimetrico. Anche a Montonero la nuova spinta produttiva portò alla costruzione di magazzini più ampi e un locale dove poter ricoverare il trebbiatoio63 reso necessario ormai, viste le rendite che si riusciva a raggiungere. Infine anche la grangia di Castelmerlino subì quasi una ricostruzione totale: venne costruita una nuova pista da riso nella manica retrostante la chiesa e si ingrandì tale corpo fino a definire una vera e propria corte dei risi chiusa da porticati. Si può quindi dedurre che la caratteristica degli interventi nella prima metà dell’Ottocento è l’affiancamento di due corti da riso che presentavano le medesime caratteristiche: su un lato la casa padronale composta da due o tre piani, tutt’attorno si disponevano le abitazioni del conduttore e dei lavoratori fissi; sui restanti due lati si trovano le stalle di varie dimensioni sopra ad esse i fienili e accanto i magazzini per i prodotti e le rimesse per gli attrezzi. In conclusione, nella linearità della pianura vercellese, le corti rurali rappresentano ancora oggi le emergenze maggiormente caratterizzanti il paesaggio agrario, punti di riferimento nei secoli di vita contadina e testimonianza di un passato fatto di fatica e sfruttamento. Si tratta di un patrimonio ancora in uso, che vede nelle cascine a corte chiusa settecentesche una continuità dal punto di vista produttivo e architettonico, nonostante si siano operati interventi e ampliamenti, soprattutto nel corso dell’Ottocento, che però non hanno mai stravolto e cancellato le impostazioni originarie. Senza dubbio gli adeguamenti e le aggiunte apportate ai complessi, i cui elementi architettonici di epoche diverse coesistono sino a combinarsi armoniosamente tra loro, rappresentando per le grange lucediesi un ulteriore elemento caratterizzante e determinante l’unicità del paesaggio risicolo vercellese.

*Premessa scritta da G. Monticelli e D. Rusinà; L’organizzazione territoriale ed agraria del vercellese di G. Monticelli; Emergenze architettoniche: la cascina a corte nel paesaggio risicolo di D. Rusinà. 63 A.O.M., Registro Sessioni, Vol. 106, a carte 549 – 581, in M. Perazzo, op. cit. 148


Bibliografia G. Banfo, Insediamenti monastici e società nel vercellese medievale: repertorio e problemi storiografici, Tesi di laurea di Storia medievale, anno 1991-1992, Università di Torino. R. Bianchi Bandinelli, Roma. L’arte romana nel centro del potere, Rizzoli, Milano 1976. P. Bullio, Problemi e geografia della risicoltura in Piemonte nei secoli XVII e XVIII, in “Annali della fondazione Einaudi”, III, 1969. L. Bussardi, Il sistema dei canali Cavour tra storia e modernità, in M. Balboni (a cura di) Il territorio delle Grange di Lucedio protagonista della sotria. Atti del convegno di studi dell’aprile 2008, Edizioni Mercurio, Vercelli, 2009. G. Caraci, Le corti lombarde e l’origine della corte, in Scritti vari sulla geografia fisica e antropica dell’Italia, vol. XVII, Società Geografica Italiana, Roma 1932. R. Comba, Contadini, signori e mercanti nel Piemonte medievale, Laterza, Roma-Bari 1988. R. Comba, I Cistercensi fra città e campagne nei secoli XII e XIII, in Studi Storici, n. 26, aprile-giugno 1985. G. Donna, L’organizzazione agricola della grangia cistercense, in «Rivista di Estimo agrario e genio rurale», Torino 1943. D. Durandi, Il Piemonte cispadano antico, Torino 1774. V. Fumagalli, Premessa, in Uomini e paesaggi medievali, Il Mulino, Bologna 1989. G. Giordano, L’abbazia di Lucedio e le sue grange, in “Bollettino storico vercellese”, n. 13-14, Società Storica Vercellese, 1979. G. Luzzato, Storia economica d’Italia, il Medioevo, Sansoni, Roma 1948. C. Nutolo, La nascita delle grange in età medievale, in M. Balboni (a cura di), Le grange di Lucedio fra arte, cultura e spiritualità, Edizioni Mercurio, Vercelli 2008. L. Palmucci, Le grange di Lucedio: persistenza e mutamenti nell’architettura dei fabbricati rurali, in L’Abbazia di Lucedio e l’ordine cistercense nell’Italia Occidentale nei secoli XII e XIII, Atti del III congresso storico vercellese (Vercelli, Salone Dugentesco, 24-26 ottobre 1997), Società Storica Vercellese, Vercelli 1999. L. Palmucci, Canali, cascine, proto industria: i segni della presenza irrigua nella storia del territorio vercellese, in V. Comoli Mandracci, Piemonte, Laterza, Roma-Bari 1988. M. Perazzo, Le “Grange di Lucedio”: lineamenti delle trasformazioni edilizie di una 149


grande azienda rurale tra Medioevo e Ottocento, Tesi di laurea, rel. Laura Palmucci, Facoltà di Architettura, Politecnico di Torino, A.A. 1982/83. R. Romeo, Cavour e il suo tempo, Laterza, Bari 1977. C. Rotelli, Una campagna medievale, storia agraria del Piemonte, Torino 1973. C. Saibene, La casa rurale nella pianura e collina lombarda, Olschki, Firenze 1955. L. Scaraffia, P. Sereno, Monocoltura e conduzione capitalistica: la risaia vercellese, in “Cabrei e catasti fra i secoli XVI e XIX”, “Storia d’Italia”, Vol. VI, Einaudi, Torino 1976. L. Segre, Agricoltura e costruzione di un sistema idraulico nella pianura piemontese: 1800-1880, Banca Commerciale Italiana, Milano 1983. E. Sereni, Storia del paesaggio agrario italiano, Laterza, Roma 1961. P. Sereno, Una trasformazione dell’insediamento rurale in età moderna: l’origine della dimora “a corte” in Piemonte, in «Archeologia Medievale: cultura materiale, insediamenti, territorio», n. 7, CLUSF, Firenze 1980.

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Agricoltura urbana La Cascina “la Grangia” a Torino Alice Pozzati

L’immaginario comune associa la città di Torino a un passato prettamente industriale e si tende a dimenticare un capitolo molto interessante della storia del capoluogo piemontese caratterizzato, invece, dalla produzione agricola. Questo saggio si pone dunque l’obiettivo di portare alla memoria la tradizione agricola della città che oggi si sta quasi del tutto perdendo. Infatti i rari testimoni del passato che si vuole in questa sede raccontare spesso non vengono riconosciuti come elementi di un patrimonio storico-architettonico da preservare e valorizzare1. Per analizzare l’agro-torinese si è scelto un caso studio: la scomparsa cascina «La Grangia». Luogo che oggi, a più di sei secoli dalla sua costruzione, ha ritrovato quel passato agricolo grazie all’attività del Movimento per la Decrescita Felice che è riuscito a ottenere dal Comune di Torino la gestione di una parte del Giardino Morbillo2, realizzato sul sedime dell’antica cascina, per un progetto di orto urbano condiviso. Prima di arrivare ad analizzare la cascina «La Grangia» occorre tuttavia fornire una panoramica sulla storia della città e del paesaggio di Torino.

La costruzione di un paesaggio agricolo Il Cinquecento è il secolo che cambia le sorti della romana Augusta Taurinorum3. Con 1  Alcuni esempi di interventi virtuosi sul patrimonio architettonico dell’agro torinese si possono trovare in f. Masino, Frammenti di un paesaggio agrario nella conurbazione torinese, in L.S. Pelissetti, L. Scazzosi (a cura di), Giardini, contesto, paesaggio. Sistemi di giardini e architetture vegetali nel paesaggio. Metodi di studio, valutazione, tutela, vol. II, Leo S. Olschki, Firenze 2005, pp. 393-401. 2  Il giardino di via Ricaldone (quartiere Santa Rita, Circoscrizione 2, Torino) è stato intitolato il 22 maggio 2015 a Laura Morvillo, moglie del giudice Giovanni Falcone, scomparsa con il marito il 23 maggio 1982 in quella che le cronache ricordano come la Strage di Capaci. 3  «Torino aveva ancora, a metà Cinquecento caratteri urbanistici prettamente medievali. La città, pur essendo divenuta più importante tra Quattro e Cinquecento per l’introduzione di alcune funzioni burocratiche e commerciali con aumento demografico, era confinata nell’antico perimetro d’impianto romano, con un’area di 700 per 760 metri circa di lato, con meno di 20000 abitanti». V. Comoli Mandracci, S. Mamino, A. Scotti Tosini, Lo sviluppo urbanistico e l’assetto della città, in G. Ricuperati (a cura di). Storia di Torino. Dalla dominazione francese alla ricomposizione dello Stato, 1536-1630. Vol. III, G. Einaudi, Torino 1998, pp. 383-384. 151


il trattato di Cateau-Cambrésis (1559) si pone temporaneamente fine alle guerre d’Italia4. Tra le diverse disposizioni del trattato si ripristina anche la sovranità del duca Emanuele Filiberto5 che nel febbraio del 1563 fa il suo ingresso in città. Questo gesto è il simbolo di un momento storico cruciale per Torino: Emanuele Filiberto afferma la sua posizione di neutralità ribaltando il baricentro del ducato al di qua delle Alpi, dalla transalpina Chambery a Torino6. Il duca promuove innumerevoli riforme per l’adeguamento di Torino a capitale moderna non solo in materia urbanistica ed architettonica7, ma anche economica e produttiva8. Inoltre incentiva le produzioni artigianali, agricole e forestali per arricchire gli scambi economici e, quindi, innescare la ripresa economica della città. Tra le varie iniziative si occupa anche di un programma di sistemazione dell’approvvigionamento idrico attraverso la realizzazione di opere idrauliche e la modifica dei canali esistenti per l’incremento della produzione agricola necessaria alla sussistenza della popolazione in forte aumento demografico9. Durante il XVI secolo si realizzano numerose nuove costruzioni nell’agro-torinese e le esigue preesistenze vennero acquistate non solo dalla nobiltà locale, ma anche da mercanti arricchiti nei decenni precedenti grazie alle riforme del duca10. Tutto il XVII secolo è caratterizzato da un’altalenante ciclicità di crisi e trend economicamente positivi11. Si deve aspettare la “rivoluzione contadina”, dei primi decenni del Settecento, e l’introduzione del mais e del gelso abbinato ai bachi da seta per consolidare la spinta propulsiva di quest’epoca di grande sviluppo economico12. Un rigido sistema infrastrutturale, composto da “bealere” e strade vicinali, rimane 4  A.L. Cardoza, G. Symcox, Storia di Torino, G. Einaudi, Torino 2006, pp. 116-117. Per approfondire si veda G. Ricuperati (a cura di). Storia di Torino. Dalla dominazione francese alla ricomposizione dello Stato, 1536-1630. Vol. III, op. cit. 5  Il ducato di Savoia andava così ad assumere una funzione cuscinetto tra la Francia e il ducato spagnolo di Milano. 6  V. Comoli Mandracci, Torino, Laterza, Grandi Opere, Roma-Bari 1983 (ed. consultata 2010), p. 8; A.L. Cardoza, G. Symcox, Storia di Torino, op. cit., p. 117. 7  V. Comoli Mandracci, S. Mamino, A. Scotti Tosini, Lo sviluppo urbanistico e l’assetto della città, op. cit., pp. 355-44; v. Comoli mandracci, Torino, op. cit., pp. 7-18. 8  Come ad esempio la piantumazione di gelsi da seta da esportare in stato grezzo verso le grandi manifatture di Lione. G. Chicco, Città e campagna: una partita aperta, in G. Ricuperati (a cura di), Storia di Torino, IV, La città fra crisi e ripresa (1630-1730), Giulio Einaudi Editore, Torino 2002, p. 274; A.L. Cardoza, G. Symcox, Storia di Torino, op. cit., p. 120. 9  V. Comoli Mandracci, L’urbanistica per la capitale e il territorio nella «politica del regno», in G. Ricuperati (a cura di), Storia di Torino, IV, La città fra crisi e ripresa (1630-1730), op. cit., p. 943. Per approfondimenti si veda G. Bracco, Acque, ruote e mulini a Torino, 2 voll. Città di Torino – Archivio Storico, Torino 1988. 10  E. Gribaudi Rossi, Cascine e ville della pianura torinese, briciole di storia torinese rispolverate nei solai delle ville e nei granai delle cascine, Le Bouquiniste, Torino 1970, p. 9. 11  Per approfondimenti in merito a questo periodo si vedano i due testi a cura di G. Ricuperati, Storia di Torino. Dalla dominazione francese alla ricomposizione dello Stato, 1536-1630. Vol. III, op. cit. (in particolare: P. Merlin, Amministrazione e politica tra Cinque e Seicento: Torino da Emanuele Filiberto a Carlo Emanuele I, pp. 111-182) e Storia di Torino, IV, La città fra crisi e ripresa (1630-1730), op. cit. (in particolare: E. Stumpo, Economia urbana e gruppi sociali, pp. 246-271; G. Chicco, Città e campagna: una partita aperta, pp. 273-290) e ancora L. Manzo, F. Peirone (a cura di), La Città in Archivio. Storia di Torino dalle origini alla vigilia della Grande Guerra, Città di Torino – Archivio Storico, Torino 2014. 12  La coltivazione del mais accresce la ricchezza dei contadini nonostante la mole di lavoro maggiorata mentre la coltivazione del gelso abbinato ai bachi da seta da lavoro a donne e bambini e permette di aumentare il reddito familiare. G. Chicco, Città e campagna: una partita aperta, op. cit., pp. 273-290. 152


sovraimpresso al territorio agricolo delle cascine fino alla fine del Settecento «delineando un’organizzazione spaziale la cui pregnanza va collocata nella dimensione di un autentico progetto territoriale»13. Con l’avvio della demolizione della cinta fortificata per volere di Napoleone14, dall’Ottocento la città è finalmente libera di espandersi senza il vincolo di un perimetro circoscritto. Da questo momento in poi «il dialogo tra la realtà urbana torinese e le aree foranee cambia radicalmente: venuti meno i limiti fisici prima imprescindibili per lo sviluppo, la città si apre al territorio secondo la nuova logica della permeabilità visiva e fattiva, senza più confini tangibili, ma solo amministrativi»15. «L’estensione della maglia ortogonale ottenuta dalla proiezione della struttura dei corsi, alla base dei piani della prima metà dell’Ottocento, inizia presto a intersecarsi con l’espansione “per direttrici funzionali”, cioè per linee nel territorio che rappresentano il riuso di strade foranee, o segni nuovi quali le cinte daziarie e le strade ferrate». Durante il XX secolo, in particolar modo dopo il boom economico, la città si impossessa dei terreni agricoli andando a saturare quello che un tempo era l’agro torinese fino a congiungersi con i comuni limitrofi16.

La cascina nei secoli La prima fonte documentale che descrive la rete delle cascine nell’agro torinese risale alla fine del Settecento: Amedeo Grossi, studioso di agronomia, pubblica un testo minuzioso e accurato che si rivela un’utile testimonianza per conoscere le vicende che interessano i dintorni di Torino17. A differenza delle «vigne» la bibliografia sugli edifici che costellavano la campagna torinese in pianura ad oggi pare non essere molto cospicua. A due secoli di distanza dal Grossi, Elisa Gribaudi Rossi pubblica un libro che ad oggi rappresenta una delle fonti più esaustive per capire le vicende che consolidarono quella che oggi è chiamata la “rete delle cascine nell’agro torinese”18. Sin dal Medioevo erano presenti numerose cascine in tutto il territorio circostante la città di Torino, ma tra il XVII e il XVIII secolo cambiano progressivamente le caratteristiche degli edifici rurali in relazione alla dimensione dei possedimenti19. La storiografia consolidata ci testimonia una fotografia di questo periodo che vede i nobili torinesi più interessati alla vita di corte in città che alla campagna torinese20. Nonostante i cambiamenti economici di Torino le tradizioni rurali non vengo abbandonate e cresce il numero dei contadini proprietari, chiamati “i particolari”, che assumono il ruolo di fulcro dell’equilibrio 13  V. Comoli Mandracci, L’urbanistica per la capitale e il territorio nella «politica del regno»,op. cit., p. 964; V. Comoli Mandracci, La proiezione del potere nella costruzione del territorio, in A. Griseri, G. Romano (a cura di), Filippo Juvarra a Torino. Nuovi progetti per la città, Cassa di Risparmio di Torino, Torino 1989, p. 72. 14  V. Comoli Mandracci, Torino, op. cit., pp. 93-99. 15  F. Masino, Frammenti di un paesaggio agrario nella conurbazione torinese, op. cit., p. 393 16  V. Comoli Mandracci, Torino, op. cit., pp. 207-238. 17  G.L.A. Grossi, Guida alle cascine, e ville del territorio di Torino e’ suoi contorni, Torino 1790. 18  Il lavoro di Gribaudi (Cascine e ville della pianura torinese, op. cit.) si propone di ricalcare e aggiornare gli studi compiuti da Amedeo Grossi vecchi ormai di duecento anni. 19  E. Gribaudi Rossi, Cascine e ville della pianura torinese op. cit., pp. 10-11. 20  E. Stumpo, Economia urbana e gruppi sociali, op. cit., pp. 251-252. 153


economico del ducato21. La rinascita dell’economia rurale è rilevabile a partire dalla metà del Seicento grazie al perfezionamento delle tecniche agricole e all’incremento dello sfruttamento del bestiame, fattori incentivati dalla vicinanza della città e quindi ai mercati locali per la vendita dei prodotti alimentari. Questi fattori uniti alla sistemazione delle acque con la costruzione di bealere sono le principali spinte che mettono in moto il mutamento dell’architettura delle cascine. In questo periodo di trasformazioni nei caratteri distributivi degli edifici si sfruttano i muri di recinzione delle antiche “mansiones”22, conservati nella maggior parte dei casi, per addossarvi «le stalle, i fienili, i fabbricati per la lavorazione dei prodotti agricoli e le abitazioni rustiche»23. Tra le novità architettoniche troviamo però «le arcate dei fienili e i grandi tetti di coppi alla piemontese, spesso sporgenti verso l’aia»24. L’aia, come già la corte nel “mansio”, rimane il fulcro della vita agricola, chiusa tra almeno tre dei quattro lati da edifici rustici. A seguito della spinta dell’economia agraria a partire dagli ultimi decenni del XVII secolo un nuovo edifico trova posto accanto alla cascina: è la “fabbrica civile”, palazzina o villa25. La situazione rimane pressoché immutata fino all’Ottocento quando la cascina cambia la sua destinazione d’uso da agricola a agricolo-industriale: ai fabbricati esistenti si addossano nuovi corpi di fabbrica i quali trovano spesso posto nel cortile dell’aia, ma nella maggior parte dei casi sono costruiti con materiali di recupero più facilmente deteriorabili26.

«La Grangia» La cascina «la Grangia» si inserisce nel contesto territoriale appena analizzato. Questa cascina di pianura a corte chiusa di origine quattro-cinquecentesca27 è un esempio significativo di casaforte medievale che durante il XVII secolo viene trasformata in cascina. Gribaudi attribuisce l’antica costruzione al capitolo di San Giovanni e dice che originariamente era chiamata “Cascina dei Canonici”28. Nel Seicento e per tutto il Settecento la cascina rimane di proprietà dei Conti Capris di Cigliè che ne perdono però la proprietà all’inizio del XX secolo. La conformazione architettonica di stampo medievale fa sì che «la Grangia» venga scelta come base strategica per la difesa di quest’area durante l’assedio di Torino nel 21  A differenza di altri stati accentratori (come quello francese o napoletano) dove le classi più agiate detengono il predominio delle terre coltivate e quindi della produzione agricola (E. Gribaudi Rossi, Cascine e ville della pianura torinese, op. cit., p. 10). 22  Mansio: stazione di tappa sulle arterie stradali dell’antichità; con il tempo le mansiones divennero stazioni postali e di guardia abitabili e tali da assicurare l’approvvigionamento dei viaggiatori. (da Enciclopedia Treccani, www.treccani.it, ultima consultazione aprile 2016) 23  E. Gribaudi Rossi, Cascine e ville della pianura torinese, op. cit., p. 11. 24  Ibidem. 25  Ibidem, pp. 11-12. Il Grossi fornisce nel suo testo un elenco dettagliato di tutti i proprietari delle cascine nel territorio torinese divisi per classe sociale (G.L.A. Grossi, Guida alle cascine, e ville del territorio di Torino e’ suoi contorni, op. cit., pp. 247-257). 26  Ibidem, p. 11. 27  L’origine quattro-cinquecentesca di questa cascina è posta in evidenza dalla stessa denominazione: la tipologia “a grangia”, era costituita da un corpo unico di fabbrica suddiviso su due livelli fuori terra, con abitazione e stalla al primo piano, camera e fienile al secondo ( www.museotorino.it ultima consultazione aprile 2016). 28  E. Gribaudi Rossi, Cascine e ville della pianura torinese, op. cit., p. 36. 154


Fig, 1 Anonimo, Carte de la Montagne de Turinavec l’etendue de la pleinedépuis le Sangonjusqu’a la Sture, 1694-1703, AST, Sezione Corte, Carte topografiche per A e B, Torino, Torino 14. Fig. 2 Anonimo, Carta Topografica della Caccia, 1760-1766, AST, Sezione Corte, Carte topografiche segrete, Torino 15 A VI Rosso.

170629: gli spessi muri, muniti ancora di feritoie e la vicinanza alla cascina Martinaia dove viene sfornato il pane destinato alle truppe, cui era collegata da un sistema di trincee, ne garantiscono il ruolo di roccaforte30. Un successivo rilievo del 176231 testimonia dei cambiamenti nell’impianto dell’immobile il quale viene rappresentato come una cascina a corte chiusa in mezzo a orti, giardini e filari di alberi. Grazie al lavoro di censimento di Amedeo Grossi32 possiamo vedere come la cascina sia rimasta invariata nelle forme fino alla fine del XVIII secolo, anche se nel Catasto napoleonico33 di poco successivo si possono già riscontrare alcuni cambiamenti di tipo spaziale. Come è possibile vedere nel Plan Geomêtrique de la Commune de Turin, l’edificio nel 1805 appare privato di una delle maniche che lo connotavano come “cascina a corte chiusa”. Ma nel catasto Gatti degli anni Venti dell’Ottocento la cascina ritorna ad essere un blocco di forma quadrangolare con corte centrale34. «La Grangia» resta, nonostante i bombardamenti della seconda guerra mondiale35, pressoché invariata per tutto il corso del XX secolo. 29  Ibidem, p. 50. Per approfondimenti sull’assedio di Torino del 1706 si veda D. Balani, S. Benedetto (a cura di), Torino 1706, Città di Torino – Archivio Storico, Torino 2006. 30  Voce: Cascina la Grangia, le grange in www.museotorino.it (ultima consultazione aprile 2016). 31  Carta Topografica della Caccia, 1760-1766, AST, Sezione Corte, Carte topografiche segrete, Torino 15 A VI Rosso. 32  G.L.A. Grossi, Guida alle cascine, e ville del territorio di Torino e’ suoi contorni, op. cit., p. 76; G.L.A. Grossi, Carta Corografica dimostrativa del territorio della Città di Torino, ASCT, Collezione Simeom, SIM D1800. 33  Sappa, Belli, Conti, Castelli, Degradi, Giovine, Osello, Oria, Toscano, Trucchi, Zoccola, Plan Geomêtrique de la Commune de Turin, 1805, AST, Sezioni Riunite, Catasti, Catasto Francese, Allegato A, Mappe del Catasto Francese, Circondario di Torino, Mandamento di Torino. 34  «Nelle mappe del Catasto Gatti del 1820 non si registrano variazioni planimetriche e la cascina risulta composta da casa civile, casa rustica, cappella, scuderie, campi, prati e orti. Il Gatti attribuisce la proprietà al conte Caidano Matrigni di Bagnato» www.museotorino.it (ultima consultazione Aprile 2016). 35  Città di Torino, Bombe e mezzi incendiari lanciati 1:5000, 1942-1945. Zona 10: S. Rita da Cascia - Stadio Comunale - Ospizio di Carità- Nuovi Mercati. ASCT, TD, 68.1.10. 155


Per quanto riguarda il paesaggio agricolo di quest’area rimane congelato fino al boom edilizio della metà del Novecento innescato dallo sviluppo industriale e in particolar modo automobilistico36. Elisa Gribaudi fornisce una interessante testimonianza nel suo testo: «prima del boom edilizio degli anni ‘60 che ha dato notevole impulso allo sfruttamento di questi paraggi, la Grangia (da tempo di proprietà della famiglia Antonetto), beneficava di trenta giornate di prati e di sessanta mucche che d’estate erano portate ai pascoli di Bardonecchia. Anche oggi, quotidianamente, una lenta mandria di placidi bovini s’avvia per e attraversa con la sua innata, esasperante calma la movimentata via Gradisca bloccando regolarmente il traffico: se gli automobilisti fossero meno impazienti potrebbero illudersi di trovarsi, anziché in piena città, in aperta campagna»37. Inoltre l’autrice segnala il fatto che all’epoca dei suoi studi le cascine in periferia erano di proprietà di torinesi mentre quelle ormai affogate nell’agglomerato urbano erano abitate per lo più da immigrati stranieri e che i giovani, fatta eccezione per qualche perito agrario o universitario, si stessero disinteressando delle cascine e del passato della loro dimora38. Infatti a parte qualche tesi di laurea39 nessuno pare essersi interessato a questo oggetto architettonico. La cascina «la Grangia» oggi non esiste più se non per alcune parti del muro di recinzione e del portale d’accesso quattrocenteschi che sono sopravvissuti alla demolizione del 2001. Sicuramente tale modus operandi ha un costo d’intervento inferiore al risanamento di un pezzo di città antico e problematico, ma questa scelta porta a un impoverimento del patrimonio culturale della comunità. Dal 2013 però il Circolo di Torino del Movimento per la decrescita Felice40 ha intrapreso un dialogo con la circoscrizione 2 del Comune di Torino per ottenere la gestione di una parte del Giardino Morvillo situato in via Ricaldone angolo via Tripoli destinato a orto di quartiere condiviso. A distanza di due anni dalla prima proposta presentata al coordinatore della VI Commissione della Circoscrizione 241, dal maggio del 2015 i volontari del Circolo si prendono cura dell’Orto Morvillo. L’orto di 800 metri quadrati è uno spazio aperto a tutte le ore del giorno e coltivato collettivamente dai volontari del Movimento insieme alla collettività del quartiere. «Un’opportunità per riscoprire i ritmi, le fatiche e le bellezze dell’orticoltura, rafforzare le relazioni tra i cittadini e sperimentare insieme nuove forme vita comunitaria»42. 36  N. TRANFAGLIA (a cura di). Storia di Torino. Gli anni della Repubblica. Vol. IX, G. Einaudi, Torino 1999. 37  E. Gribaudi Rossi, Cascine e ville della pianura torinese, op. cit., p. 50. 38  Ibidem, p. 17. 39  G. Salsa, Tesi di Laurea: La ristrutturazione della cascina “la Grangia” in Torino, Rel. M. F.Roggero, Politecnico di Torino, a.a. 1985/86; M. Mariotti, Tesi di Laurea: Un’area di servizi per la città: ipotesi di riuso della cascina “la Grangia”, Rel. E. Tamagno, Correl. M.De Cristoforo, Politecnico di Torino, a.a. 1997/98; G. Vecchio, Tesi di Laurea: “la Grangia” di Torino: storia di un vuoto urbano, Rel. E. Moncalvo, Politecnico di Torino, a.a. 2013/14; G.Ceste, Tesi di Laurea triennale: Design partecipativo e spazi pubblici, progettazione di un giardino condiviso in circoscrizione 2, Rel. C. Campagnaro, Politecnico di Torino, a.a. 2014/15. 40  S. Latouche, Decolonizzare l’immaginario. Il pensiero creativo contro l’economia dell’assurdo, Editrice Missionaria Italiana, Bologna 2004; M. Pallante, La decrescita felice. La qualità della vita non dipende dal pil, Editori Riuniti, Roma 2005; M. Pallante, La decrescita felice, Edizioni per la decrescita felice, Roma 2011; M. Bonaiuti, La grande transizione. Dal declino alla società di decrescita, Bollati Boringhieri, Torino 2013. Per approfondimenti si veda www.decrescitafelice.it e www.mdftorino.it (ultimeconsultazioni aprile 2016). 41  Organismo preposto alla gestione del verde pubblico del quartiere. 42  Gruppo Orto: www.mdftorino.it (ultima consultazione Aprile 2016). 156


Fig. 3 G.L.A. Grossi, Carta Corografica dimostrativa del territorio della Città di Torino, 1791, ASCT, Collezione Simeom, SIM D1800. Fig. 4 Sappa, Belli, Conti, Castelli, Degradi, Giovine, Osello, Oria, Toscano, Trucchi, Zoccola, Plan Geomêtrique de la Commune de Turin, 1805, AST, Sezioni Riunite, Catasti, Catasto Francese, Allegato A, Mappe del Catasto Francese, Circondario di Torino, Mandamento di Torino.

Fig. 5 A. Gatti, Catasto Gatti, 1820-30, ASCT, CAG, Sezione 55. Fig. 6 A. Rabbini, Topografia della Città e Territorio di Torino, 1866, ASCT, Collezione Simeom, SIM D1803”.

Sitografia (ultime consultazioni aprile 2016) www.treccani.it www.museotorino.it www.decrescitafelice.it www.mdftorino.it 157


Bibliografia G.L.A. Grossi, Corografia del Territorio di Torino e contorni, Torino 1791 (Ristampa anastatica: Bottega d’Erasmo, Torino 1968). G. Bragagnolo e E. Bettazzi, Torino nella storia del Piemonte e d’Italia, Torino 1915-19. A. Cavallari Murat, Breve storia dell’urbanistica in Piemonte, in Storia del Piemonte, Casanova, Torino 1960. E. Gribaudi Rossi, Cascine e ville della pianura torinese, briciole di storia torinese rispolverate nei solai delle ville e nei granai delle cascine, Le Bouquiniste, Torino 1970 . E. Gribaudi Rossi, Ville e vigne della collina torinese, personaggi e storia dal XVI al XIX secolo, Piero Gribaudi Editore, Torino 1975 (ed consultata 1981). V. Comoli Mandracci, Torino, Laterza, Grandi Opere, Roma-Bari 1983 (ed. consultata 2010). Politecnico di Torino. Dipartimento Casa Città, Beni culturali ambientali nel Comune di Torino, Vol. 1, Società degli ingegneri e degli architetti in Torino, Torino 1984. G. Salsa, Tesi di Laurea: La ristrutturazione della cascina “la Grangia” in Torino, Rel. M.F. Roggero, Politecnico di Torino, a.a. 1985/86. M. Mariotti, Tesi di Laurea: Un’area di servizi per la città: ipotesi di riuso della cascina “la Grangia”, Rel. E. Tamagno, Correl. M. De Cristoforo, Politecnico di Torino, a.a. 1997/98. G. Ricuperati (a cura di), Storia di Torino, IV, La città fra crisi e ripresa (1630-1730), Giulio Einaudi Editore, Torino 2002. D. Balani, B. Stefano (a cura di), Torino 1706, Città di Torino – Archivio Storico, Torino 2006. L. Cardoza Anthony, W. Symcox Geoffrey, Storia di Torino, G. Einaudi, Torino 2006 G. Vecchio, Tesi di Laurea: “la Grangia” di Torino: storia di un vuoto urbano, Relatore Enrico Moncalvo, Politecnico di Torino, a.a. 2013/14 G. Ceste, Tesi di Laurea triennale: Design partecipativo e spazi pubblici, progettazione di un giardino condiviso in circoscrizione 2, Rel. C. Campagnaro, Politecnico di Torino, a.a. 2014/15.

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Figg. 7, 8, 9, 10 Foto delle attivitĂ promosse dal Circolo di Torino del Movimento per la Decrescita Felice. 159



Dalle lezioni di casi di studio

Massimo Rizzati

Propongo alcune sintesi delle lezioni seguite, in particolare sui temi della storia dell’alimentazione, l’antropologia e la geografia economica.

Professor Massimo Montanari, Università di Bologna Paesaggi Alimentari tra natura e cultura La lezione del professor Montanari si apre con una citazione di un brano che è posto all’inizio dal testo di Emilio Sereni Storia del paesaggio agrario italiano : “Ora in queste cose, una grandissima parte di quello che noi chiamiamo naturale, non è; anzi è piuttosto artificiale: come a dire, i campi lavorati, gli alberi e le altre piante educate e disposte in ordine, i fiumi stretti infra certi termini e indirizzati a certo corso, e cose simili, non hanno quello stato né quella sembianza che avrebbero naturalmente. In modo che la vista di ogni paese abitato da qualunque generazione di uomini civili, eziandio non considerando le città, e gli altri luoghi dove gli uomini si riducono a stare insieme; è cosa artificiata, e diversa molto da quella che sarebbe in natura.” A sua volta citazione dell’Elogio degli Uccelli dalle Operette Morali di Giacomo Leopardi. Il paesaggio è quindi una costruzione dell’uomo, con l’ambiguità del concetto di utilità e del conseguente sfruttamento del territorio, paesaggio che è frutto dell’incontro tra natura e storia, e del concetto di bellezza come equilibrio tra stato naturale e opera dell’uomo. Lo sfruttamento del territorio consiste in diverse pratiche di reperimento di risorse utili all’essere umano, come l’agricoltura e la trasformazione dei prodotti coltivati o allevati (dalla trasformazione di materie prime in prodotti finiti fino alle pratiche culinarie) che portano alla produzione di alimenti e di cibo. L’uomo generalmente (a parte alcune eccezioni nel mondo animale come api, altri insetti pronubi, termiti, alcune scimmie ecc...) è il solo trasformatore delle risorse per avere il cibo. La cultura è il motore delle scelte di trasformazione del paesaggio con la scelta delle colture da impiantare, delle specie animali 161


da allevare, scelta che si applica in tutti gli ambienti e stadi di sviluppo della società. Un contemporaneo esempio di queste scelte e delle ricadute sulla conformazione del paesaggio agrario è la coltivazione del querceto in Spagna con pratiche agronomiche moderne quali l’impianto con sesti regolari e la meccanizzazione delle pratiche agrarie, per la creazione di un ambiente dove i maiali possano essere allevati allo stato brado alimentandosi di ghiande (recupero di pratiche medievali di conduzione del Saltus). I maiali così allevati saranno utilizzati per la produzione di salumi di pregio come il prosciutto denominato “Jamon Iberico”, prodotto a denominazione di origine protetta a livello europeo. L’uomo è ciò che mangia (cit. da Il mistero del sacrificio o l’uomo è ciò che mangia di Ludwig Andreas Feuerbach), l’alimentazione è conseguenza di scelte, idee, azioni: l’idea di commestibilità è un concetto culturale, il riconoscimento delle risorse come tali è il primo passo per la produzione di cibo. La varietà alimentare è caratteristica dell’uomo dovuta a fattori economici, ecologici, psicologici, religiosi, storici (“Paradosso dell’onnivoro” da Michael Pollan, Il dilemma dell’onnivoro). Un’interpretazione materialista (vedi gli studi antropologi di Marwin Harris) di questo paradosso consiste nella valutazione dell’utilità di un cibo, della sua economicità in un bilancio energetico. In base a tali analisi una cultura adotta un cibo in quanto conveniente, “buono da mangiare quindi buono da pensare”. Per un altro tipo di analisi (antropologia strutturalista) la cultura viene prima del riconoscimento del cibo in quanto tale, che è “buono da pensare, quindi buono da mangiare”. Alcuni esempi di questi paradossi sono la coltura della segale che era considerata dalla cultura latina come un’erba infestante (Plinio Il Vecchio) che viene introdotta in Italia nei primi secoli del Medioevo, diventando la risorsa cerealicola principale nel Nord Italia nel periodo tra l’VIII ed il XII secolo; oppure il Saltus, il bosco che per la cultura romana rappresentava la barbarie, l’uomo che non controlla il territorio, che diventa perno del sistema agro silvo pastorale medievale con l’allevamento di animali come i maiali. In tale cultura anche i cervi erano allevati, mentre i conigli non erano considerati utili. Il bosco medievale è espressione della cultura, lo spazio era considerato in termini produttivi, i boschi erano misurati per il numero di maiali che potevano essere sostenuti dalle ghiande prodotte dalle querce. L’economia agro-silvo-pastorale medievale è un’innovazione, l’uso del bosco e delle colture cerealicole diversificate rispetto al grano permette una differenziazione alimentare che si adatta ad un territorio che ha subito cambiamenti di possesso e gestione e ad un clima che è cambiato nel corso dei secoli, (fine dell’optimum climatico romano); la cultura forgia il paesaggio. Il maiale è un simbolo di questa nuova economia, il suo allevamento estensivo modifica il paesaggio, il cibarsi delle sue carni fornisce un’identificazione culturale dato il divieto di consumo per chi è mussulmano o ebreo, il tempo dei contadini viene plasmato dai ritmi dell’attività pastorale con il tempo delle ghiande (tempo naturale), o del lardo (tempo del maiale conservato sotto sale come molte risorse del Saltus). Le pratiche di conservazione degli alimenti fanno parte della strategia di moltiplicazione delle risorse per assicurarsi l’approvvigionamento alimentare, così come la moltiplicazione delle varietà colturali di cereali e frutta, con varietà a maturazione scalare ed adatte alla conservazione e trasformazione; la bio diversità emerge come cardine di un sistema di produzione di cibo che ha lo scopo di assicurare la sopravvivenza in un’ epoca in cui il territorio più prossimo era l’unica fonte alimentare e la carestia era un evento ben presente 162


nell’immaginario collettivo, lo spettro della carestia era anche il motore della cultura della sopravvivenza con risorse alimentari scarse, si cita il “pane di carestia” realizzato con farina di felci seccate e pressate e le molte e particolari ricette di cibi utilizzati dai poveri descritti nelle cronache delle carestie che si sono avvicendate nella storia europea. Cultura del foraging, del recupero di risorse naturali che è andata completamente perduta quando gli abitanti delle campagne ne hanno progressivamente perduto il controllo e la bio diversità è stata erosa. La pellagra, malattia dovuta alla malnutrizione, era tipica di persone povere che si alimentavano poco, ma soprattutto male, visto l’impiego massiccio della polenta di farina di mais, pianta introdotta dopo la conquista delle americhe, che utilizzata nella dieta in maniera quasi esclusiva non garantisce un apporto proteico sufficiente. La modernità, con l’introduzione dell’economia di mercato porta alla riduzione delle varietà di piante coltivate per scopi alimentari; la monocultura estensiva, (vedi il caso sopra citato dell’introduzione del mais nella dieta dei contadini europei poveri) ed il land grabbing, (acquisto di grandi estensioni di terreni ed espulsione degli abitanti da parte di grandi compagnie multinazionali o entità statali, con sfruttamento intensivo dei terreni per colture destinate all’esportazione), attuati nella contemporaneità, sono eredi del colonialismo europeo e statunitense. Il paesaggio agrario monoculturale dipende nella sua espressione sempre di più da fattori prodotti dal mercato globalizzato, la dimensione dell’economia di chi vive nel paesaggio non ha più la forza per plasmarlo. Si ripropongono quindi in epoca contemporanea i contrasti, la lotta di classe medievale e rinascimentale tra i contadini che si battevano per la conservazione dei boschi e del loro uso civico, ed i nobili che intendevano abbattere i boschi per estendere colture cerealicole destinate ad essere vendute sul mercato libero, l’economia di mercato viene ad essere in contrasto con lo sviluppo sociale. La sovranità alimentare comporta il controllo del paesaggio agricolo. Osservando le tendenze contemporanee del consumo di cibo, e quindi anche di territorio, si può notare come sia proposta la valenza positiva del cosiddetto consumo a Km. zero con filiera corta di produzione, in pratica il consumo di derrate alimentari del territorio o prodotte molto vicine al luogo di consumo. In epoche pre contemporanee il consumo di cibo del territorio era prerogativa delle classi sociali più povere economicamente e culturalmente. Si rileva che in molti Stati, luoghi dove le esportazioni agro alimentari italiane sono consistenti, non è possibile il consumo a Km. zero di alimenti come il vino, la pasta, o di prodotti ortofrutticoli tipici del clima e della dieta mediterranea, e che molte derrate alimentari ora consumate a livello nazionale come gli agrumi possono essere coltivate soltanto in luoghi molto lontani dai centri di consumo come le grandi città del nord Italia. La pasta, eccellenza alimentare della tradizione e dell’agro industria italiana, è prodotta in quantità industriali grazie alla massiccia importazione di grano duro dall’estero,da paesi lontani come il Canada od il Messico. La definizione di tradizione nel consumo alimentare si riferisce ad un tempo presente in cui delle pratiche culturali riferite ad un tempo passato non ben definito sono vitali in quanto ancora praticate, l’attualità della tradizione è data dalla pratica contemporanea, il passato ha radici di storie che possiamo ancora adesso analizzare e studiare.

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Professor Pietro Clemente, Università di Firenze Tra Unesco e web. I bizzarri paesaggi del cibo La creazione di un paesaggio agrario è il frutto della connessione tra economia e cultura. Il cibo è un prodotto culturale, con divieti fondativi di sistemi religiosi o di pensiero come il divieto e l’assoluta stigmatizzazione del consumo di carne umana. Il cibo si presta anche ad essere strumento di comunicazione con avvenimenti come il banchetto, la festa, o di simbolo con la pratica del dono e della rinuncia (Quaresima, Ramadan, pratiche alimentari di monaci ed eremiti). Il riconoscimento della particolarità di un paesaggio agrario e della sua percezione è un problema attuale, ma con radici nel passato. Il paesaggio toscano del secondo dopoguerra descritto dallo scrittore ambientalista statunitense Wendell Berry, che elogia un paesaggio ricco della biodiversità dovuta alla gestione del territorio da parte di medie e piccole aziende condotte a mezzadria, è profondamente mutato. Dagli anni Settanta del Novecento è segnato dalla presenza da grandi tenute, spesso di proprietà di aziende multinazionali, che hanno portato alla creazione di un paesaggio agrario monotono con grandi estensioni di vigneti impoverito di bio diversità. Tale paesaggio ha ottenuto il riconoscimento dell’Unesco come patrimonio dell’umanità. I recenti tentativi da parte delle autorità regionali toscane di porre dei limiti alla coltivazione industriale della vigna con l’emanazione di un Piano Paesaggistico sono stati oggetto di una fortissima opposizione da parte dei produttori (e venditori) di vino, e dai loro consorzi ed organismi associativi. Tali entità hanno visto nel riconoscimento da parte dell’Unesco della particolarità del paesaggio in cui sono attori economici come un avvallo alle loro attività di modifica del paesaggio rurale con il conseguente mutamento verso l’omogeneità, e l’erosione della bio diversità. Si pone con forza il problema del rapporto tra modernità e realtà del paesaggio agrario, tra realtà della vita quotidiana, aspettative dei contadini che popolano un territorio e fruitori del paesaggio agrario. Altro problema che viene posto con forza nella contemporaneità è quello della immagine del paesaggio, o del paesaggio come immagine nell’epoca del web. Il web è diventato, come fonte di immagini del paesaggio, un mitico altrove, una nebulosa incognita di immagini non fissabili. Le immagini generate dai mezzi di comunicazione hanno creato un paesaggio virtuale in cui ora tutti ci muoviamo e che influenza profondamente la nostra percezione del paesaggio reale, fornendoci dei preconcetti a cui inconsciamente aderire nella nostra attività di fruizione e percezione del paesaggio reale. L’Unesco ha riconosciuto come patrimonio dell’umanità le pratiche culinarie, ad esempio nell’anno 2010 è stata riconosciuta come patrimonio culturale immateriale dell’umanità la cucina tradizionale messicana. L’abilità nelle preparazioni delle colture gastronomiche e la ritualità del consumo alimentare, con gli usi sociali e religiosi del cibo. Sono ora riconosciuti come parte della cultura di tutta l’umanità, anche se a tali riconoscimenti non si è ancora legata l’idea di tutela del paesaggio agrario. Il consumo di beni (come espresso dall’antropologa Mary Douglas) ha una valenza di comunicazione, alla base di tale comunicazione esiste una cultura della classificazione, del riconoscimento degli elementi della realtà, ad esempio il maiale in quanto animale impuro non si alleva. Il riconoscimento del reale può essere utilizzato come chiave di analisi interpretativa di un paesaggio in cui le industrie, le stalle industriali, le porcilaie, i macelli, anche se visivamente presenti e fonti di evidenti problemi come l’inquinamento ed il consumo di risorse come acqua e suolo, non sono percepiti dall’osservatore in quanto 164


nascosti allo sguardo e mimetizzati tra altri elementi del paesaggio. Parlando di consumo si può rilevare come il cittadino del mondo occidentale, grazie anche all’espansione della comunicazione in tempo reale, è diventato un forte soggetto degli scambi che si realizzano all’interno della civiltà dei consumi, con positive ricadute sulla tutela della salute pubblica e della qualità dei prodotti alimentari. Il riconoscimento di qualità assicurato a molti alimenti da disciplinari di Denominazione di Origine Controllata DOC, o Denominazione di Origine Controllata e Garantita DOCG, appare sempre di più come un fondamentale elemento di protezione degli interessi di entità come associazioni di industriali o produttori che si occupano di vendita e trasformazione dei prodotti alimentari, non degli agricoltori che hanno prodotto le derrate utilizzate per la preparazione di specialità alimentari a denominazione di origina protetta, o dei consumatori che andranno ad acquistare tali alimenti.

Professor Vincenzo Padiglione, Università di Roma La sapienza, Direttore di “Antropologia Museale” I territori del cibo e ruralità. Per una connessione della percezione della realtà delle attività agricole e di produzione del cibo, si rileva l’importanza dei musei della civiltà contadina e del loro dialogo con il territorio ed il sistema educativo. Viene ricordata la figura di Gino Girolomoni, pioniere dell’agricoltura biologica italiana, della protezione e valorizzazione di vecchie varietà di frutti e cereali, fondatore della cooperativa “Alce Nero”, agricoltore ed imprenditore innovativo che propone la fondazione di un museo della civiltà contadina. Nella contemporanea difficoltà per il cittadino della civiltà occidentale di “vedere” il paesaggio rurale il museo della civiltà contadina si evolve da luogo della memoria e testimonianza ad elemento di dialogo con la realtà. Il cibo che si fa paesaggio, questa è una contemporanea immagine pervasiva, proposta dai media, utilizzata in martellanti campagne pubblicitarie, che diventa allucinata nella sua consacrazione presso l’Expo di Milano 2015, dove l’alimentazione diventa oggetto di esposizione, oggetto di pratiche commerciali che vanno oltre il singolo prodotto, che veicolano nelle loro pratiche di persuasione al consumo l’immagine di interi sistemi alimentari (cibo italiano, cibo etnico, cibo a denominazione di origine, ecc.). Qui viene venduta una dieta (vegetariana, mediterranea, ecc.) e un territorio diviene oggetto di consumo alimentare. La definizione di paesaggio è sempre più ambigua per via dalla sua sempre più estesa e diffusa riduzione ad ambito con sole valenze estetiche, la necessità del superamento del paesaggio come pura immagine è data da questa crisi della percezione del reale. Le tracce di chi abita e lavora nel paesaggio agrario sono sempre più labili per via del furto dell’identità contadina e indigena, data la costruzione di una rappresentazione posticcia dell’altro che si applica al paesaggio ed a chi lo abita da parte dei fruitori o sfruttatori del paesaggio stesso. Si rileva la produzione di un’estetica che allontana le altre, un’estetica dominante che crea un sub paesaggio. Paesaggio nascosto che non si vuole vedere, le cui immagini non sono veicolate dai media; paesaggio rimosso dalla grande parte dei fruitori; nascoste le stalle industriali, i macelli, le discariche per limitarsi a strutture che sono impiantate nel paesaggio agrario. Come negare la rimozione della percezione della cementificazione del territorio e la sua 165


accettazione da parte della cittadinanza, la creazione dei megacentri commerciali al di fuori delle aree urbane, l’inserzione nel paesaggio rurale di un complesso di piccole e medie fabbriche non coordinate in zone industriali, l’espansione disordinata della costruzione di case unifamiliari (villettopoli)? Il recupero della percezione del sub paesaggio e la sua riqualificazione sono elementi di ri-appropriazione della realtà.

Franco Sotte Università Politecnica delle Marche Direttore di “Agriregionieuropa” Scenari evolutivi del concetto di ruralità. Rurale derivazione dal latino rus – ruris, della campagna, pertinente alla campagna. Qual è il concetto di rurale o meglio di area rurale? Possiamo cercare di definirne l’evoluzione nel territorio italiano con tre definizioni: 1. Agraria per gli anni 50-60 del XX secolo. 2. Industriale per gli anni 60-90 del XX secolo. 3. Post Industriale dagli anni 90 del XX secolo in poi. L’area rurale agraria è un’area che è fuori dal centro dello sviluppo, che è la città e dove l’economia è in ritardo rispetto ai ritmi produttivi e all’intensità degli scambi che si hanno nelle aree urbanizzate. Chi la abita è penalizzato nell’accesso alla comunicazione (strade, reti telefoniche), all’educazione (presenza diffusa di analfabetismo), ai servizi essenziali (ospedali, ecc). Nel secondo dopoguerra questo tipo di territorio è attraversato da una grande corrente migratoria, le persone più povere si spostano in città alla ricerca della sicurezza economica, di un lavoro stabile ed all’accesso ai servizi. L’area rurale industriale è un ambito in cui l’agricoltura si è modernamente evoluta con l’espulsione della popolazione eccedentaria (braccianti, contadini poveri, senza terra ecc.). La meccanizzazione e l’uso delle moderne sostanze chimiche di sintesi (antiparassitari, diserbanti, concimi) e di sementi commerciali certificate e varietà ibride permettono un enorme incremento delle rese rispetto ad un’agricoltura tradizionale con l’impiego di molta meno manodopera. Tale modernizzazione comporta la perdita del patrimonio culturale tipico di una società contadina, con l’erosione della bio diversità per via dell’introduzione di monoculture e per il trasferimento dagli agricoltori a grandi aziende, spesso multinazionali, della conoscenza e proprietà delle varietà di prodotti coltivati. L’introduzione di compensazioni comunitarie alla produzione agricola permette il sostegno al reddito degli agricoltori, anche in presenza di un mercato globalizzato, dove occorre difendere il mercato interno europeo dall’importazione di prodotti agricoli prodotti al di fuori dell’Europa a basso prezzo. Anche la composizione sociale è mutata, dopo l’esodo post bellico di popolazione le aree rurali si coniugano con la piccola attività industriale ed artigiana, nasce l’Italia dei distretti. Distretti di produzione agricola specializzata (zootecnia intensiva, viticoltura, frutticoltura) con le connesse attività di trasformazione (agroindustria) e distretti industriali, dove l’attività artigiana ed industriale periferica si affianca all’agricoltura, dove spesso l’industria locale fornisce beni e servizi al territorio rurale (produzione macchine e beni per l’agricoltura) e l’operaio della piccola industria esercita spesso anche attività tipiche dell’agricoltore (il metalmezzadro). Si ha un trasferimento di capitale e competenza dalle famiglie dotate di competenza professionale, di capitali e di spirito imprenditoriale, tipicamente provenienti dal ceto mezzadrile o dei piccoli e medi proprietari terrieri, ad 166


attività artigiane; tali attività artigiane potranno poi evolvere ulteriormente in attività economiche di dimensione maggiori, sempre caratterizzate dalla conduzione familiare. Nella ruralità post industriale l’importanza economica del settore dei servizi diventa molto più consistente rispetto alla fase di sviluppo industriale precedente, il settore dei servizi è il più economicamente rilevante nel mondo globalizzato post moderno. Alla crisi delle attività produttive artigiane ed industriali esplosa nei primi anni del XXI secolo si è aggiunta la crisi del reddito degli agricoltori dovuta alla compressione dei prezzi dei beni prodotti. Le attività agricole si evolvono verso la produzione di derrate ad alto valore aggiunto o con certificazione di qualità per avere una remunerazione più sicura in un mercato globalizzato. Lo stesso sostegno al reddito degli agricoltori da parte dell’Unione Europea (PAC) si è evoluto con la riduzione delle produzioni eccedentarie (come lo zucchero), ed il sostegno alle produzioni di qualità ed alla tutela ambientale. Gli agricoltori, grazie anche al sostegno delle politiche comunitarie, evolvono verso l’esercizio di nuove attività come l’ospitalità, l’agriturismo, la manutenzione del territorio. L’azienda agricola tende alla multifunzionalità; la produzione di cibo supera il concetto di sicurezza alimentare della popolazione italiana ed europea, vista la fine del sostegno alla produzione di commodity alimentari e della protezione alle produzioni eccedentarie l’Unione Europea è diventata un’entità che importa derrate alimentari. La produzione agricola si evolve verso la produzione di cibo sicuro, cioè prodotto secondo una precisa regolamentazione che ne garantisca la qualità e salubrità. L’assetto del territorio muta ulteriormente, il confine tra urbano e rurale sfuma per l’invadenza incontrollata dell’impermeabilizzazione (cementificazione) del paesaggio rurale, data l’espansione di aree urbanizzate (villettopoli, centri commerciali e fieristici, grandi infrastrutture per la comunicazione come autostrade e ferrovie).

Fig. 1 Fotografia di Anceschi Fabio, Lavoro agricolo. Contadino nelle campagne di Gavassa. Gavassa, RE, 2014. 167


Casi studio La trasformazione del paesaggio in Emilia. Il successo della coltivazione del Lambrusco e le ricadute sulla produzione frutticola in particolare su un prodotto di eccellenza: la ciliegia di Vignola. L’attualità della Storia del paesaggio agrario di Emilio Sereni per l’analisi del paesaggio di un territorio contemporaneo ad alta specializzazione agricola1. Dai dati produttivi dichiarati da enti pubblici o da consorzi di produttori come il Consorzio Tutela Lambrusco di Modena (http://www.tutelalambrusco.it/documentazione/ uve-statistiche-di-produzione/) è possibile rilevare alcuni dati. Innanzitutto il successo della azione di aggregazione svolta dalle associazioni dei produttori di uve da vino. Tale successo è anche frutto dell’elaborazione di disciplinari (http://www.tutelalambrusco. it/disciplinari/lambrusco-di-sorbara/) che hanno consentito un dialogo proficuo con i produttori, permettendo la generazione di innovazione di prodotto (vini spumanti) e di immagine (valorizzazione del prodotto, successo commerciale dovuto anche alla capacità di esportare grandi quantità di vino all’estero). La valorizzazione del prodotto è invece un elemento critico per quello che riguarda la ciliegia di Vignola, esistono infatti due entità aggregative: Consorzio della Ciliegia, della Susina e della Frutta Tipica di Vignola e Consorzio di Tutela della Ciliegia di Vignola IGP. Il Consorzio della Ciliegia, della Susina, e della Frutta tipica di Vignola è un marchio storico esistente fin dagli anni ‘60, un’entità che ha permesso di aggregare molti produttori legati alla produzione di drupacce su area vasta. Il Consorzio di Tutela della Ciliegia di Vignola IGP ha invece svolto un’ azione di promozione molto specifica della ciliegia con l’attribuzione di un marchio di qualità valido a livello dell’intera UE, con forti limitazioni sulla tipologia (varietà) di prodotto cui è attribuibile il marchio rispetto a quelle già diffuse nel territorio, in via di diffusione in quanto più produttive, o di nuova introduzione per rinnovo varietale. Si tratta di un problema che ha limitato lo sviluppo della cerasicultura creando concorrenza tra produzioni di qualità e disfunzioni di mercato; l’aggregazione è stata proposta senza considerare adeguatamente gli interessi dei produttori (www. agronotizie.imagelinenetwork.com/vivaismo-e-sementi/2015/06/26/le-ciliegie-di-vignolabloccate-dalla-burocrazia/44577), ma con un forte interesse per l’immagine del prodotto ed il relativo ambito commerciale. Il successo di un disciplinare produttivo, nella moderna e globalizzata agricoltura italiana, è un fattore del successo della diffusione di una coltura; la modifica di un paesaggio è anche frutto del successo economico di un prodotto. L’avanzata del vigneto nel comprensorio della ciliegia di Vignola, con la relativa modifica del paesaggio, trova tra le sue cause anche le difficoltà della valorizzazione commerciale della produzione cerasicola, con la conseguente necessità degli agricoltori di adeguare la produzione aziendale verso un prodotto (vino Lambrusco) che, grazie al suo consolidato successo commerciale, garantisce una remunerazione più sicura rispetto ad altre produzioni frutticole, anche di pregio, come le ciliegie di Vignola. L’uva da vino è una coltura che ha avuto un importante progresso dovuto all’intervento pubblico, mi riferisco all’introduzione di misure di disciplina e 1  Questo elaborato utilizza nozioni ricavate dal testo di Sereni: storia della piantata nella pianura Padana, la conduzione a mezzadria, le sistemazioni idraulico agrarie in collina e loro evoluzione; inoltre fa riferimento al capitolo 4 Geografia e paesaggio del testo Geografie di Carla Giovannini e Stefano Torresani. 168


sostegno economico da parte pubblica, in particolare l’introduzione dell’OCM vino (https:// www.politicheagricole.it/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/3584). L’attenzione da parte pubblica con l’emanazione di regolamenti comunitari ha permesso il rinnovo del vigneto a livello europeo, con premi per l’espianto di vecchi impianti, introduzione di quote produttive per la valorizzazione del prodotto di qualità, premi per la realizzazione di nuovi impianti specializzati. L’entità di tale investimento, coordinato nella sua attuazione da consorzi di produttori, associazioni di produttori, autorità regionali ecc. ha permesso l’evoluzione della produzione del vino. Da commodity, (prodotto agricolo realizzato con l’obiettivo di raggiungere elevate produzioni anche a scapito della qualità del prodotto), con sovrapproduzione a livello comunitario, per cui erano previsti interventi pubblici per il ritiro dal mercato delle quantità eccedentarie, (che deprimono il prezzo di mercato), a prodotto di punta del sistema agro alimentare di qualità europeo. Anche in questo caso è evidente l’azione della politica sul paesaggio, la diffusione del vigneto in zone che sono spesso inizialmente valorizzate grazie all’azione dei consorzi di produttori, è frutto di una precisa azione politica di gestione della produzione agricola. A questo proposito è interessante notare lo scarso rilievo che la protezione del suolo, quindi del paesaggio ha nell’espressione del disciplinare di produzione dei vini a denominazione di origine controllata “Reggiano” di cui è parte il Lambrusco Reggiano (http://www.valoritalia.it/ VALORI20/media/PA/DTR_V_115.pdf, Art. 3 e 4). Tra le pratiche agronomiche suggerite od obbligatorie non si fa alcun riferimento esplicito all’adozione di misure di tutela dall’erosione quali l’inerbimento dei filari in funzione di limitazione del ruscellamento delle acque piovane, e la limitazione per quanto possibile dell’uso della sistemazione a “ritocchino” nei declivi collinari; si ricorda che tale sistemazione agraria consente di rendere più agevole la meccanizzazione delle operazioni svolte nel vigneto, ma l’orientamento dei filari delle vigne lungo la direttrice di massima pendenza in senso verticale crea anche un ambiente ideale per il violento ruscellamento delle acque piovane, l’erosione del terreno in ambito collinare è favorita da questo tipo di sistemazione del terreno. Altri tipi di sistemazioni idraulico agrarie, di realizzazione più onerosa, come i terrazzamenti o le sistemazioni dette “a girapoggio” o “cavalcapoggio” realizzate lungo le linee di pendenza trasversali delle alture sono molto più rispettose dell’assetto idrogeologico collinare eliminando i problemi dovuti all’erosione dei terreni, ma dato l’elevato costo di realizzazione e la difficoltà di pianificazione dovuta alla necessità di coinvolgere vaste estensioni di terreni, sono poco diffuse sul territorio (cap. 75, Storia del paesaggio agrario italiano di Emilio Sereni). L’efficacia di una sistemazione idraulico agraria per la corretta gestione del territorio non è evidentemente considerata un elemento di valorizzazione del paesaggio. Il paesaggio vitivinicolo con colture a “ritocchino”, che facilitano l’erosione collinare, è oggetto di tutela Unesco in diverse aree produttive della viticoltura italiana, (come l’area del Chianti toscano o delle Langhe piemontesi), viticoltura che, grazie ad un mercato sostenuto dall’intervento pubblico, diviene sempre di più un elemento di modifica del paesaggio agrario italiano con riduzione della bio diversità acquisita in anni di gestione equilibrata dell’agricoltura (grandi superfici e comprensori a monocultura viticola, spesso monovarietale), con evidenti ricadute sul territorio (erosione del terreno in declivio, difficoltà della gestione del deflusso delle acque, concentrazione di fonti di inquinamento da pesticidi). La sistemazione idraulico agraria detta a piantata, coltivazione della vigna maritata a filari permanenti di olmi o gelsi in coltura promiscua con cereali o altre colture anche permanenti come le foraggiere, tipica della pianura padana fino ai primi anni Sessanta del secolo scorso, è quasi completamente scomparsa (capitolo 169


84, Storia del paesaggio agrario italiano di Emilio Sereni), anche per la sua sostituzione con vigneti in cultura specializzata che permettono una meccanizzazione quasi integrale del ciclo produttivo, con conseguente riduzione dei costi e facilitazione della programmazione produttiva da parte delle cantine, in particolare da parte delle grandi cantine con dimensioni industriali. è interessante notare che i disciplinari produttivi del Lambrusco forniscono indicazioni sulla quantità (tonnellate per ettaro di superficie) e qualità (grado alcolico ed acidità del mosto) dell’uva da produrre, ma non forniscono alcuna indicazione sul tipo di forma di allevamento e sistemazione idraulico agraria da utilizzare per la coltura dell’uva da vino (per il Lambrusco prodotto nella provincia di Modena si veda ad esempio http:// www.tutelalambrusco.it/disciplinari/lambrusco-salamino-di-santa-croce/, art. 4 e 5 e per il Lambrusco di Reggio Emilia si veda http://www.valoritalia.it/VALORI20/media/PA/ DTR_V_115.pdf, Art. 3 e 4).

Conclusioni Dall’analisi del caso studio proposto è possibile la comprensione della complessità dell’analisi di un paesaggio, in particolare di un paesaggio agrario. Un paesaggio è rappresentato da “strati”, con diversi livelli di comprensione per l’osservatore che è soggetto della visione e quindi fruitore di un paesaggio. Un’efficace sintesi di questi diversi strati di un territorio è data dai “layer” dell’interpretazione computerizzata georeferenziata di immagini del territorio (GIS), che permettono di osservarne lo sviluppo, i cambiamenti morfologici, l’urbanizzazione, la presenza di insediamenti agricoli, la diffusione o il declino delle sistemazioni idraulico agrarie e l’espansione delle diverse colture. Nel nostro caso il primo livello di analisi è rappresentato dall’avanzata della viticoltura rispetto ad altre forme di arboricoltura specializzata da reddito, in particolare della tradizionale coltura del ciliegio, il livello dell’esperienza della visione personale, che può essere espanso in tempo reale con l’aiuto delle mappe computerizzate geo referenziate e dei dati statistici espressi da varie fonti (consorzi produttori, autorità statali ecc) si lega, nella ricerca delle motivazioni di un mutamento, alle analisi economiche di scelte di gestione e trasformazione di un territorio. Il successo commerciale della tipologia di vino Lambrusco è dovuto alla capacità dei detentori di un marchio (Consorzi di tutela), cioè a delle entità economiche legate essenzialmente al mondo della trasformazione e del commercio di prodotti agricoli, non a degli agricoltori che vivono e lavorano nel paesaggio oggetto di osservazione (ad esclusione del numero rilevante di agricoltori membri di cooperative di trasformazione) di proporre ad un territorio un modello produttivo di successo. L’adozione di tale modello ha comportato la modifica del territorio e quindi del paesaggio visibile ed ai vari livelli (layers) che è possibile rilevare nell’analisi del paesaggio stesso. Il paesaggio vitivinicolo del comprensorio del Lambrusco (di Modena e Reggio Emilia) è un paesaggio costruito da produttori di un bene, ed essendo il territorio una risorsa finita, questa produzione si è posta in concorrenza con altre forme di produzione agricola come la cerasicoltura, determinando la riduzione di superficie utilizzata per la cultura della Ciliegia Tipica di Vignola. Analizzando ulteriormente il territorio dove si è diffusa la viticoltura specializzata, abbiamo la conferma, in termini reali dovuti all’aumento del dissesto idrogeologico delle zone collinari e della semplificazione e banalizzazione del paesaggio agrario, anche in 170


pianura, con la sparizione della sistemazione idraulico agraria a piantata e la conseguente perdita di biodiversità dovuta alla diffusione di una monocultura specializzata, di come la gestione del territorio, e quindi la creazione di un paesaggio, affidata soltanto ad interessi economici di determinate categorie produttive, possa generare problemi che sono a carico di un’intera collettività. Con l’analisi del paesaggio agrario, il tema della gestione del territorio per la tutela del benessere e della sicurezza di tutta la collettività che lo abita si propone con forza.

Appunti per un analisi del paesaggio agrario. In particolare del rapporto tra paesaggio e colture agrarie attraverso lo strumento della misura dell’estensione delle stesse superfici con conseguente indagine analitica2. Visti i casi di studio proposti ed emersi nell’ambito della discussione sul tema proposto della influenza sul territorio della presenza o meno di colture organizzate su grandi estensioni legate a disciplinari produttivi (formaggi come il Grana Padano, il Parmigiano Reggiano, vini come il Chianti, produzioni frutticole come le mele della Val di Non) che impongono sulla trama del paesaggio, sul territorio, tracce profonde e riconoscibili, come possono essere riconosciute questa tracce? Com’è possibile un’analisi profonda del territorio che permetta di considerare i mutamenti profondi del paesaggio rispetto a semplici mutamenti dell’aspetto visivo legato all’avvicendamento delle colture? Ed ai loro significati? Un appezzamento coltivato con diversi tipi di colture seminative estensive ha lo stesso impatto sul territorio rispetto ad una monocultura? Cosa muta, al di là di una superficiale emozione estetica per lo spettatore se un campo è investito a lino o canapa? A mais o a barbabietole da zucchero? A mais o ad erba medica? Cosa muta per chi amministra un territorio se tale ambito presenta una bio diversità ridotta vista la grande estensione di una coltura per l’alimentazione animale come il mais, che necessita di grandi quantità di acqua concimi e diserbanti, rispetto ad altre colture foraggiere come l’erba medica odi prati polifiti permanenti? Se la zootecnia presente sul territorio è costituita da aziende che producono animali da carne o se il prodotto principale è dato dal latte e dai suoi derivati? Cosa influenza l’analisi sociologica ed antropologica di un territorio rurale e delle necessità di chi ci abita? La Storia del Paesaggio Agrario di Emilio Sereni (capp. 61 e 64) ci racconta la nascita di paesaggi agrari legati a colture specializzate, ad esempio la viticoltura con piantata della Pianura Padana che si evolve ulteriormente in gelsi bachicoltura specializzata; tale sviluppo ha assunto una rapidità estrema nel secondo dopoguerra. L’evoluzione della meccanizzazione agraria, l’espansione dell’uso della chimica di sintesi in agricoltura con la diffusione dell’uso di fertilizzanti, fungicidi ed insetticidi, il mutamento di assetti proprietari con la progressiva sparizione di rapporti di proprietà come la mezzadria, ha permesso di rivoluzionare il concetto di agricoltura polifunzionale di sussistenza, per imporre sul territorio italiano modelli di agricoltura specializzata rivolta al mercato, e di dismettere pratiche agronomiche “tradizionali”, come le rotazioni ed il sovescio, rivolte al mantenimento ed incremento della 2  Questo elaborato utilizza nozioni ricavate dai capitoli 4 Geografia e paesaggio, 5 Geografia sociale, 8 Carte, 9 Comunicazione del testo Geografie di Carla Giovannini e Stefano Torresani; e dal testo di Sereni: la pianificazione del territorio in epoca romana, le sistemazioni idraulico agrarie in collina e loro evoluzione, il panorama agrario dell’Italia contemporanea. 171


fertilità e produttività del suolo. Un esempio di questa evoluzione è la nascita della zootecnia specializzata con stabulazione intensiva tipica della pianura padana; modello produttivo che ha permesso di placare la fame di carne e latticini della popolazione italiana negli anni dello sviluppo economico, attuato con l’introduzione di pratiche agricole innovative come l’uso di ibridi di mais estremamente produttivi, e l’introduzione dell’uso su larga scala nella zootecnia bovina, da latte e da carne, di insilati di mais come alimento per l’alimentazione animale. Tali sviluppi tecnici hanno permesso di costituire grandi complessi produttivi: stalle dove il bestiame è allevato senza ricorso al pascolo, ma alimentato con prodotti, come il mais e la soia che possono anche non essere prodotti sul territorio, ma importati anche dall’estero. Ogni volta che si consuma una porzione di formaggio Parmigiano Reggiano si consuma anche una porzione di territorio: Pianura Padana, ma anche Pampa Argentina o foresta amazzonica pluviale del Brasile, territori in cui vengono coltivate, a prezzo di enormi squilibri sociali e alla distruzione di paesaggi naturali con tutto il loro ricco ed insostituibile patrimonio naturalistico, le commodity come il mais e la soia destinate all’esportazione che sono diventate necessarie per le produzioni zootecniche italiane, anche e soprattutto per le più blasonate e tutelate da disciplinari produttivi come il formaggio Parmigiano Reggiano ed il Prosciutto di Parma. All’industrializzazione della produzione agricola dovuta all’introduzione della meccanizzazione delle principali attività agricole come la semina, lavorazione del terreno, ecc..., all’uso di prodotti chimici di sintesi per la difesa dalle avversità (come malattie fungine, insetti parassiti, erbe infestanti, ecc...), e concimazione delle colture è seguita una fase evolutiva ulteriore, con la creazione di veri e propri distretti specializzati in diverse produzioni, l’assetto attuale del paesaggio agricolo italiano è frutto di tale evoluzione. Come quindi prendere coscienza dell’influenza di una assetto specializzato dell’agricoltura sul paesaggio? Come analizzare un processo evolutivo che ha poche fonti storiche, essendo iniziato di recente. Attualmente lo strumento della misura, strumento con cui gli agrimensori romani crearono un paesaggio dando un assetto al territorio partendo da dati reali (capp. 4, 5, 6 Storia del Paesaggio Agrario di Emilio Sereni), può essere utilizzato con l’efficienza e la precisione permessa dall’evoluzione della tecnica; aerofotografie, immagini fotografiche georeferenziate con l’uso di satelliti, telemetri laser, sistemi di illustrazione di dati GIS consentono una misura precisa degli elementi del territorio, con una rapidità ed efficacia sconosciuta fino a pochi anni fa. La misura dell’estensione in un paesaggio di una coltura, con la conseguente analisi in tempo reale e visione della geometria degli elementi del paesaggio agrario come le dimensione dei campi, le sistemazioni idraulico agrarie, la rete viaria, la presenza e le dimensioni di stalle, insediamenti produttivi, case rurali, consente di determinare l’influenza di tale coltura su di un territorio. L’immagine fotografica aerea o satellitare di vigneti con sistemazione del terreno a “ritocchino”, con filari che si indirizzano nella direzione di massima pendenza di un declivio, come spesso avviene nei distretti vitivinicoli collinari specializzati della Toscana, può consentire di rilevare lo stato di rischio idrogeologico di un territorio, o il numero di persone che risiedono nel territorio in determinati periodi dell’anno. Con la sistemazione a “ritocchino” del paesaggio agrario la meccanizzazione della raccolta dell’uva da vino è realizzabile anche in territorio collinare, quindi in tale ambito produttivo la presenza di braccianti impiegati per la raccolta del prodotto sarà meno elevata rispetto a zone in cui le colture arboree prevalenti sono il melo o gli agrumi. Dall’analisi di immagini che consentono una misura di un appezzamento si possono quindi ricavare dati che permettono di capire da cosa è costituto un paesaggio, dai rapporti economici e sociali che collegano le persone che vivono e costruiscono un territorio 172


e la sua ecologia, ed a prospettare le evoluzioni di tali rapporti. La misura quindi come chiave per permettere l’interpretazione del reale, un paesaggio agrario, agli occhi suggestivo di immagini romantiche, analizzato e misurato potrà rivelare la presenza di aziende, più o meno grandi, il suo grado di popolamento e benessere sociale. La conoscenza degli elementi costitutivi di un paesaggio, oltre i limiti e la superficialità del piacere della visione o della fruizione turistica, e la misura di tali elementi sono, come già sapevano gli antichi agrimensori romani, strumenti di gestione, quindi di potere. Con la misura si possono porre dei limiti ad attività produttive svolte in un territorio, se ne può quindi programmare, anche inconsapevolmente, lo sviluppo. Gli amministratori della Regione Emilia Romagna, che hanno posto limiti allo sviluppo della zootecnia intensiva per la tutela della salute pubblica, hanno influenzato anche lo sviluppo del paesaggio agrario di regioni confinanti all’Emilia, come la Lombardia in cui molti allevamenti con carico zootecnico eccedente i limiti imposti per legge sono stati de localizzati. Con i moderni strumenti di misura, che permettono il dominio analitico del territorio può essere esercitata una forma di controllo nei confronti dello sviluppo industriale del paesaggio agrario, la misura del carico zootecnico ad ettaro ha imposto dei limiti alla consistenza degli allevamenti nella Regione Emilia Romagna per limitare l’inquinamento dovuto all’infiltrazione dei reflui zootecnici nei corpi d’acqua superficiali e verso la falda freatica. Nel testo di Sereni si fa spesso riferimento alla necessità di una pianificazione delle modifiche del paesaggio agrario, uno degli esempi di tale mancata e scorretta pianificazione più evidenti, in un’attuale analisi del territorio agricolo italiano, è la cristallizzazione dell’uso della sistemazione a “ritocchino” dei vigneti nella regione del Chianti in Toscana, con il riconoscimento da parte dell’Unesco della particolarità di un paesaggio costituito da una sistemazione del terreno che porta a frane ed erosioni delle colline in cui è adottata, dato il difficile controllo del ruscellamento delle acque piovane lungo le linee di massima pendenza dei declivi in cui sono impiantate le vigne. I casi di gestione del territorio sopra riportati sono un piccolo esempio di come la conoscenza e la misura o quantificazione analitica degli elementi di un paesaggio possono essere utilmente utilizzati per la pianificazione e la gestione dello stesso soltanto da un’amministrazione attenta e che dialoghi con gli abitanti del territorio. Data la potenza analitica degli strumenti a disposizione per la visione delle particolarità del paesaggio è corretto porre dei limiti all’evoluzione di un paesaggio agrario? L’imposizione di tali limiti o di una regolamentazione è possibile ed attuabile. Quali devono essere gli attori di una gestione democratica, nel senso della tutela dell’interesse comune senza travalicare i diritti dei cittadini a svolgere attività produttive che incidono sull’assetto del paesaggio? Si ritiene corretto trasferire al di fuori di un territorio le criticità del proprio sistema produttivo come l’inquinamento o la produzione di commodity che vanno ad alterare altri paesaggi. Queste sono domande che vengono poste pubblicamente fin dal secondo dopoguerra ai pubblici amministratori data la massiccia cementificazione del territorio italiano con conseguente perdita di spazio per le attività agricole, non sono poste con altrettanta forza a proposito sull’uso specifico del territorio per le attività agricole. Il recente riconoscimento Unesco come patrimonio dell’umanità di paesaggi rurali impoveriti di bio diversità e fortemente banalizzati data la loro uniformità visuale e produttiva come i distretti della produzione vitivinicola del Chianti Toscano o delle Langhe Piemontesi pone molti interrogativi su cosa si intenda per paesaggio agrario, sulla sua funzione, e sul destino delle popolazioni che vivono ed animano tale territorio. 173



Perché no agli antimicrobici in apicoltura

Giuliana Bondi

Sino ad oggi l’industria farmaceutica europea non sembra aver trovato interesse a registrare farmaci antimicrobici per l’utilizzo in apicoltura. Questa circostanza potrebbe, in ultima analisi, aver reso un gran beneficio al settore. Ma qualcosa sta cambiando: sollecitate dagli stessi apicoltori, alcune case farmaceutiche sembrano in procinto di registrare antimicrobici per le api e questo potrebbe rappresentare un serio pericolo per l’ambiente. L’opinione pubblica deve essere quindi sensibilizzata affinché possa esercitare una valida opposizione a che ciò non avvenga. Allo stato attuale non esiste in commercio nessun farmaco antimicrobico registrato per l’apicoltura, pertanto non è di fatto possibile e quindi lecito utilizzarne in questo settore. L’uso in deroga, ossia utilizzare nelle api farmaci antimicrobici registrati per altre specie animali, è la sola strada percorribile per il loro utilizzo. Ma i veterinari apistici non prescrivono antimicrobici per le api, perché sanno che così facendo consentirebbero ad uno dei batteri più pericolosi per l’alveare, il Paenibacillus larvae, di sporulare. La spora è una forma di resistenza che permette al batterio di sopravvivere in situazioni a lui avverse: in presenza di antibiotici, il Paenibacillus larvae si chiude nella spora e rimane vitale per lungo tempo nel legno dell’arnia, nella cera, nella propoli, nel miele, nel polline, nella pappa reale, nelle larve ed nelle api, nelle attrezzature. Nel terreno le spore possono rimanere vitali addirittura sino a 20 anni. L’apicoltore che tratta con antibiotici, non è più in grado di distinguere gli alveari ammalati da quelli sani ed inconsapevolmente, con le sue manualità e con i materiali, propaga le spore ad ogni alveare, diventando quindi un untore per se stesso e per tutti gli altri apicoltori. Una volta intrapresa la strada dei trattamenti antibiotici, interrompere la terapia risulta quasi impossibile pena gravi perdite economiche, diventa una sorta di dipendenza. L’apicoltore che tratta illegalmente con antimicrobici è un reale pericolo per ogni altro apicoltore: per il fenomeno del saccheggio, la pratica del nomadismo, il commercio di animali, lo scambio di materiali. Il segreto per vincere la peste americana quindi, non è addormentare il batterio con un farmaco, ma identificare gli alveari ammalati, bruciarli col fuoco previa uccisione, disinfettare accuratamente tutti i materiali contaminati, sterilizzare 175


la cera, per abbassare quanto più possibile la concentrazione di spore in apiario. Se le spore fossero visibili, gli apicoltori si renderebbero conto del loro livello di contaminazione e potrebbero porre in atto misure di risanamento e profilassi. Nella apicoltura industriale l’utilizzo di antibiotici viene praticato per ridurre il numero delle visite agli alveari quindi per risparmiare sui costi della manodopera e su quelli della rimonta.Vi consiglio a questo proposito la visione del film di Markus Imhoof, Un mondo in pericolo. Gli antimicrobici utilizzati dentro l’alveare contaminano ogni matrice: 18 settimane dopo il trattamento è ancora possibile ritrovarli nel miele di nido. È quindi difficile stabilire un corretto tempo di attesa per esser certi di non commercializzare alimenti con residui di farmaco. Quale genuinità dei prodotti apistici potremmo sostenere e promuovere, dopo l’utilizzo di antimicrobici? Inoltre, bisogna considerare che a parità di contaminazione, il miele cinese costa cinque volte meno del nostro. Autorizzando l’uso degli antimicrobici nell’apicoltura europea si otterrebbe come diretta conseguenza quella di aprire il mercato a tutto il miele con residuo di antibiotici del mondo, fermo adesso alle frontiere. La caduta del prezzo del miele europeo produrrebbe la disincentivazione dell’attività imprenditoriale apistica interna, con risvolti negativi per l’economia agricola e l’ecosistema europeo. Sappiamo infatti che le api sono indispensabili per impollinare le essenze vegetali che servono per nutrirci. L’apicoltura è un allevamento a carattere sociale e gli apicoltori sono imprenditori indispensabili all’economia ed alla salute di un paese, devono esser salvaguardati. Sotto la pressione degli antimicrobici si sviluppano cloni di batteri resistenti, contro i quali non c’è più farmaco che tenga. Per vincere questi batteri corrazzati, potremmo usare dosi crescenti di farmaco, oppure utilizzare molecole di nuova generazione. Ma la disponibilità di nuove molecole è limitata. Ben presto non avremo più armi per combattere le malattie batteriche, alcune di queste diventeranno incurabili, mortali per animali e per l’uomo. Pertanto bisogna rivedere il consumo generale degli antimicrobici e fare assoluta parsimonia degli stessi in zootecnica ed in umana. Il raggio di azione di un’ape è di circa 1,5 km attorno all’alveare. Ogni alveare contiene circa 60.000 api e di queste almeno 30.000 si muovono nell’ambiente per cercare il cibo, toccando ogni fiore, defecando ovunque. Sostenere che non rappresentano un pericolo ambientale, una volta trattate con antimicrobici è pericolosamente superficiale. Dire che non bisogna criminalizzare le api in quanto tutto è già inquinato, non è corretto. Di certo l’attività pronuba delle api è un fenomeno enorme e nessuno può sapere dove si posano e cosa toccano le api di 14.000.000 di alveari europei. E se le api trasportassero batteri antibiotico resistenti selezionatisi in alveare, direttamente sul fiore sino al cuore del frutto? Chi lo può escludere? L’ape da insetto indispensabile alla vita, potrebbe diventare un pericoloso trailer: fare antibiotici ad animali che volano significa farli all’ambiente. In un sistema dove tutto è collegato, tutto può rientrare nella catena alimentare. Pertanto grande è la responsabilità di ogni medico, di ogni veterinario e di ogni agronomo quando prescrivono un antimicrobico a persone, animali e piante.

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PARTE III COOPERAZIONE E PAESAGGIO



Annotazioni sull’origine e sulla continuazione degli usi civici in territorio agricolo

Alessandro Camiz

«Experto crede: aliquid amplius invenies in silvis, quam in libris. Ligna et lapides docebunt te, quod a magistris audire non possis.»1

Una storia senza storici La storia degli usi civici può essere tracciata considerando la loro esistenza odierna quale documento immateriale, o meglio serie documentale, in grado di testimoniare – come un fossile – l’uso comune del suolo nel passato. Occorre notare che il termine “usi civici” è una nozione convenzionale che raggruppa forme diverse d’uso e proprietà comune che hanno probabilmente origini e storie distinte: più che di storia degli usi civici, sarebbe piuttosto corretto parlare di storie degli usi civici. A fronte di una diffusa concezione genericamente collettivista dell’uso comune della terra, si intende qui delineare la storia degli usi civici con il metodo regressivo per individuare la fase storica della loro origine, il sistema giuridico che ne ha sancito la nascita e soprattutto le ragioni economiche, tecniche e politiche della loro invenzione. Una volta individuata l’origine occorrerà anche chiarire le dinamiche degli usi civici fino a oggi, attraverso le diverse fasi storiche, l’evoluzione dei regimi e del diritto. La piena comprensione dell’origine e dell’evoluzione del fenomeno diviene il presupposto per nuove ipotesi di continuazione e per le prospettive future.

Le diverse teorie: storia e storiografia Dalla disamina della letteratura sulla storia degli usi civici troviamo diverse ipotesi sulla loro origine. Per alcuni si tratterebbe di un’istituzione medievale: l’impostazione giusnaturalista proponeva un’origine feudale del fenomeno, facendolo derivare dai diritti regali sul demanio concessi alla collettività e distinti dall’«uti frui» del feudatario. Alcuni studiosi2 negano 1  S. Bernardis Abbatis Claraevallensis, Epistola CVI, Ad Magistrum Henrico Murdach, 2, J.P. Migne, Patrologiae cursus completus, Series Latina, vol. 182, Garnier, Paris 1879, cc. 241-242. 2  A. De Sanctis Mangelli, Gli usi civici nella provincia romana. Il feudo di Bracciano e la tenuta di san Vito, Roma, 1912, p. 69. 179


esplicitamente l’origine romana degli usi civici, che sarebbero invece nati dall’abbandono dei beni municipali dal VI al XII sec., beni che vescovi e conti avrebbero assunto e non usurpato. La stessa teoria del Mangelli è sostenuta anche dal Calisse3. Secondo questa interpretazione l’obbligo di coltivare la terra per i contadini non deriverebbe dal diritto romano ma dal sistema vescovile e signorile, l’uso civico sarebbe pertanto il corrispettivo in natura che i contadini concedevano ai proprietari in cambio di un uso comune del suolo. Andrebbero citati però i casi di corrispettivo in cambio di un uso comune agricolo; sappiamo piuttosto di corrispettivi in natura per uso privato del bene, come in numerose forme di livello o enfiteusi, ma nei terreni a pascolo e a bosco, non solo non vi è la sostanza del corrispettivo, ma non è rinvenibile neanche l’uso agricolo. Per altri si tratta della permanenza di consuetudini risalenti a prima dell’introduzione della proprietà privata: la koiné chora, una suddivisione destinata ad uso comune operata già dai coloni greci in Italia; oppure l’ipotesi cara i giuristi di fine secolo XIX di una derivazione dal modello organizzativo dei cosiddetti agri gentilicii, la cui proprietà era suddivisa tra i maiores ed era coltivata dai minores, senza una vera proprietà comune; oppure la discendenza da specifiche suddivisione religiose del territorio, ad esempio il lucus arcaico regolamentato dal divieto «Honce loucom ne quis violatod»4 della Lex Luci spoletina. Si trovano indicazioni degli usi civici come sottoprodotto dell’evoluzione alto-medievale della proprietà. A nostro avviso questo avviene a partire dall’ammassamento longobardo e la costituzione delle pertinenze della curtis tramite l’importazione di diritti germanici con le cosiddette invasioni barbariche. Questo orientamento è seguito anche dalla tesi weberiana5 di una derivazione germanica dell’uso comune della terra tramite il «gemeine mark». Occorre ricordare l’impostazione “marxista ingenua”, derivata da una lettura sommaria del primo libro del Capitale, che intravede un’originaria proprietà collettiva gradualmente divorata dall’avanzata della proprietà privata, costituendo l’accumulazione originaria del modo di produzione borghese: in questo caso il rapporto tra usi civici e feudalità viene ricondotto alla prassi della «enclosure of commons»6. Esistono infine in letteratura alcune ipotesi sull’origine romana degli usi civici come sopravvivenza di particolari diritti d’uso dell’ager publicus determinatisi a partire dall’epoca repubblicana7. Dall’ager publicus derivavano le assegnazioni di terre pubbliche in varie forme, comprese le assegnazioni prediali ai veterani dell’esercito. Si tratta di un istituto repubblicano che equivale – fatte le dovute differenze – al nostro concetto di Demanio pubblico. Emilio Sereni, in un breve passo della sua Storia del paesaggio agrario8, nel capitolo sulle terre del compascuo, del maggese dei campi chiusi e aperti, individuava l’origine repubblicana degli usi civici, legandola al rapporto strutturale tra agricoltura e allevamento. La sua visione strutturalista, basata sulla lettura dei rapporti di produzione e dei nessi sovrastrutturali, richiedeva l’individuazione sul territorio di «una “struttura” e cioè un “sistema di rapporti necessari”»9. Occorre citare infine gli ademprivia, 3  C. Calisse, Usi Civici nella provincia di Roma: osservazioni, Prato, 1906. 4  Lex Luci Spoletina, III sec. a.C., CIL XI 4766. 5  M. Weber, Storia agraria romana dal punto di vista del diritto pubblico e privato, Milano 1967. 6  C. Marx, Il Capitale. Critica dell’Economia Politica, Roma 1964. I, 24. 7  U. Laffi, Studi di storia romana e di diritto, Roma 2001, p. 381-413, vedi soprattutto il capitolo sull’ager compascuus con le posizioni continuiste e discontinuiste sull’origine degli usi civici. 8  E. Sereni, Storia del paesaggio agrario italiano, Bari 1961, 1961 pp. 53-55; sulle diverse modalità istitutive del compascuo in epoca romana attraverso l’agrimensura si veda B. Brugi, Le dottrine giuridiche degli agrimensori romani comparate a quelle del digesto, Verona e Padova, 1897, pp. 319 e ss. 9  E. Sereni, Prefazione alla traduzione italiana di M. Weber, Storia agraria romana dal punto di 180


diritti d’uso non agricolo su terreni agricoli, che si ritrovano con questo particolare termine solamente in Sardegna. Il Solmi10 li connette direttamente al compascuus romano, tracciandone la continuità attraverso la dominazione bizantina dell’isola, il periodo dei giudicati e la dominazione pisana fino all’invasione aragonese e l’introduzione del feudo che ne determinò il graduale declino11.

Metodo regressivo: continuità dell’uso comune Se le diverse storie delle origini possono essere interpretate come sequenza diacronica che descrive la transizione della proprietà e dell’uso comune, allora possiamo ordinarle cronologicamente delineando una storia degli usi civici, questa sì al singolare, semplicemente elencando le diverse forme che si sono susseguite nei secoli. La fase più interessante, anche se non originaria, è senz’altro quella altomedievale: un periodo molto più vicino a noi nel tempo che non la mitica età dell’oro, o il regno di Saturno, o le riforme agrarie dei Gracchi. Possiamo quindi interpretare ognuna di queste tesi sull’origine come fase evolutiva di un processo ancora in atto, la cui origine però deve essere chiarita. Occorre fare alcune considerazioni generali che serviranno per l’interpretazione diacronica del fenomeno. Gli usi civici sono generalmente riferiti ad un gruppo definito di persone: non sono pertanto diritti universali, ma diritti particolari. Gli usi civici sono prevalentemente legati ad usi non agricoli del suolo (pastorizia, legna, pesca, raccolta frutti, ecc.). Ma elenchiamo alcuni diritti d’uso comune: glandaticum (diritto di raccogliere ghiande), herbaticum (diritto di raccogliere erba), escaticum (diritto di pascolo dei suini nel bosco), spicaticum (diritto di pascolo di suini nei campi dopo la mietitura), spicilegium (diritto di raccolta delle spighe nei campi dopo la mietitura), vacantivum (diritto di transumanza), frondaticum (diritto di raccoglier fronde), acquaticum (diritto di’uso delle acque), ius pasculandi (diritto di pascolo), ius piscandi (diritto di pesca), ius venandi (diritto di caccia), ius serendi (diritto di semina), ius incidendi, legnaticum (diritto di taglio della legna), ius capulandi (diritto di raccolta della legna). Possiamo notare facilmente che hanno tutti nomi di origine latina, anche se compaiono le loro contaminazioni barbariche durante il medioevo: es. lignagium, buscagium, glandagium. Se elenchiamo invece alcuni diritti di origine barabrica: bannum (imposizione d’uso esclusivo), arimannia (censo dovuto dai soldati all’imperatore), allodio (proprietà libera da obblighi o prestazioni), feudo (diritto d’uso concesso in cambio di servizio continuativo), cawarfidae (tradizione giuridica orale longobarda), mundiburdio (protezione in cambio di sottomissione), guidrigildo (risarcimento per danni), wadia (pegno pecuniario), wiza (appropriazione per apposizione di segno), oltre a comprendere la forte influenza barbarica sul diritto medievale, non vi riconosciamo alcun termine connesso agli usi civici. Se gli usi civici hanno nomi latini, sembra chiaro che si tratta di un fenomeno che si è determinato quando la lingua corrente era quella latina, e quindi potrebbero essere interpretati come evoluzione di una prassi di origine latina attraverso il medioevo. I tre caratteri individuati, diritto legato alla residenza in un territorio delimitato, vista del diritto pubblico e privato, Il Saggiatore, Milano, 1967, p. XIII. 10  A. Solmi, Ademprivia, studi sulla proprietà fondiaria in Sardegna, in Archivio Giuridico Filippo Serafini, Pisa, 1904. 11  A. Soddu, Per uno studio sulle terre collettive nella Sardegna medievale, «Bollettino di Studi Sardi», 2 (2009), pp. 23-48. 181


l’origine latina dei nomi e la destinazione prevalentemente “non agricola”, rimandano tutte in modo evidente alla tesi di Sereni e all’origine degli usi civici nella costituzione di terreni legati alle colonie e ai municipi durante l’espansione politica di Roma a partire dall’epoca repubblicana. La divisione del suolo agrario operata dopo la conquista, o alleanza federata di un territorio, avveniva tramite suddivisione e assegnazione a singoli di sortes. Tutto il suolo che non poteva essere assegnato direttamente per usi agricoli veniva riversato per ripartirne lo sfruttamento in un contenitore, l’ager publicus, e da questo si costituivano dei diritti “collettivi” riferiti agli abitanti di quel municipio, o di quella colonia, o agli assegnatari di quei viritanei. Si trattava di una strutturazione particolare che assegnava a privati la coltura estensiva e ripartiva ad uso promiscuo il pascolo e la foresta [fig. 1]. Il modello produttivo messo in atto dalla colonizzazione romana riorganizzava sostanzialmente il territorio con la distinzione tra i territori destinati alle colture agricole,“qua falx et arater ierit”12, impostati su proprietà privata e conduzione schiavile, e le parti a bosco, a pascolo e umide, il cui uso era riservato ai coloni, che solo lì potevano raccoglier legna, o condurre gli animali al pascolo, quando il restante territorio era riservato alla coltura agricola. Tale riorganizzazione del territorio deve avere assunto caratteri molto forti, tanto che la permanenza del suo impianto resiste, forse l’unico elemento di vera continuità con il mondo antico, anche nella toponomastica prediale13. Tale struttura si protrae intatta fino alla tarda età imperiale, seppure con modificazioni a partire dalla crisi del III secolo con l’accorpamento delle proprietà in unità di dimensioni maggiori, il latifundus, e si protrae fino all’organizzazione feudale. In questa fase le terre “non agricole” non sono destinate ad alcuno e vanno a riempire il demanio regio, che talvolta vi attinge per costituirvi feudi. In realtà molti degli agricoltori, già verso la fine dell’impero, vivevano in regime di colonato14, usando tali terre comuni, comunalia, per i fini non direttamente svolgibili dentro il fundus assegnato. Nella transizione dal colonato all’enfiteusi ecclesiastica, tendono a mantenersi gli usi promiscui del pascolo e del legnatico al di fuori dal lotto a coltivazione estensiva. Quando subentra la struttura feudale, a partire dall’epoca carolingia, eredita le consuetudini antiche, talvolta anche scritte, d’uso promiscuo. Molti usi civici “feudali” citati dai documenti trascrivono, per conferma, consuetudini più antiche. Come ad esempio il diritto di legnare del popolo di Veroli: papa Lucio III nel 1188 ripristina “que in silvis cesis et aliis habueratis antiquitus”, diritto che era stato usurpato dagli abitanti di Alatri, in modo da ridare alla comunità di Veroli “illum usum in silvis cesis faciendis et laborandis”15. Nella fase alto-medievale, in seguito alla dissoluzione del sistema economico e politico dell’impero, che oggi sappiamo essere stata particolarmente catastrofica nell’anno 535 d.C16, si gettano le basi di quella che poi evolvendosi diventa la società odierna, ed è lì che a nostro avviso vanno ricercate, non tanto le origine mitiche, ma le precise condizioni storiche per la continuazione del fenomeno. Se dal punto di vista politico e amministrativo la fine dell’impero romano costituisce un momento di forte discontinuità, con la dissoluzione dell’esercito e del mercato, per quanto 12  Hygini Gromatici, De limitibus costituendis, Corpus agrimensorum Romanorum, Die Schriften der römischen Feldmesser, a cura di F. Blume, K. Lachmann, A. Rudorff, Berlin, 1848, p. 203. 13  A. Camiz, Fonti moderne per la storia del paesaggio medievale: i toponimi prediali nel territorio sublacense, in Paesaggi agrari del Novecento. Continuità e fratture. Lezioni e pratiche della Summer School Emilio Sereni, a cura di G. Bonini, A. Brusa, R. Cervi, Gattatico, 2013, pp. 157-172. 14  P.S. Leicht, Studi sulla proprietà fondiaria nel Medioevo, I, Verona 1903. 15  A. Theiner, Codex diplomaticus dominii temporalis S. Sedis, 756-1334, I, Rome, 1861, CLXXI, p. 101. 16  D.P. Keys, Catastrophe: An Investigation into the Origins of the Modern World, New York, 2000. 182


riguarda l’evoluzione degli assetti proprietari vi è invece una fortissima continuità. La forte crisi politica ed economica, già affermatasi alla fine del terzo secolo con la tetrarchia, si protrae per quasi due secoli congelando alcuni istituti giuridici e dandogli pertanto una continuità di lungo periodo attraverso tutto il medioevo. Uno di questi è il colonato, che prevedeva l’obbligo di non allontanarsi dal fondo per il colono e che si trasformerà nella servitù della gleba medievale. La scarsità di circolazione monetaria e la difficoltà di trovare mano d’opera furono le basi per una economia agraria basata sul latifondo e sulla concessione coloniaria che richiedeva una manodopera vincolata a non spostarsi. Questo era l’assetto agrario più diffuso quando la penisola subisce una serie di invasioni da parte di popolazioni germaniche, eruli, goti, vandali, ostrogoti, e poi infine longobardi. Gli invasori non erano molto numerosi ma inizialmente pretesero ed ottennero la hospitalitas, cioè l’assegnazione di parti di terre, la terza parte con Teodorico, di proprietà dei latini. Queste suddivisioni avvennero probabilmente senza interessare, se non indirettamente, i numerosi coloni che si trovavano insediati nei fondi: eppure l’impero formalmente esisteva. Ma è nella fase successiva alla caduta dell’impero, con l’arrivo dei longobardi che si diffonde un modello organizzativo della proprietà terriera, la massa, nata dall’accorpamento, o dovremmo dire ammassamento, di numerosi fondi del sistema precedente. Le misure di un lotto agricolo nel sistema romano andavano da ½ ettaro (2 iugeri) a 1,5 ettari (6 iugeri), anche se già esistevano i latifondi con misure di oltre 126 ettari (500 iugeri). Nell’organizzazione longobarda la dimensione prevalente del manso raggiunge i 3 ettari (12 iugeri), testimoniando il maggior numero di coloni insediati al suo interno oltre che il calo di produttività agricola.

Ager publicus, demanio regio, comune. Sotto i Longobardi questo modello organizzativo diviene la regola in stretta continuità con il latifondo e il colonato: enormi estensioni di terra sono gestiti da un solo amministratore, il gastaldo, per conto del duca, con una popolazione residente e coltivante vincolata a non spostarsi da quel territorio. è in questa cornice che si sviluppa e diffonde la consuetudine dell’uso comune della terra. I ministeriales della curtis longobarda, vincolati alla permanenza in un territorio di estensioni paragonabili a quelle di un odierno piccolo comune, organizzarono un nuovo modello insediativo ed economico completamente introverso e quasi senza scambi, dove tanti piccoli “non proprietari” ma forzando il termine potremmo dire “coloni”, individuarono lo spazio funzionale specializzato per il pascolo o la raccolta di legna all’interno di una proprietà formalmente ducale, ma di fatto amministrata da un gastaldo. è qui che si afferma un modello politico basato su consuetudini, per l’amministrazione della giustizia, che in alcuni luoghi si localizza in uno spazio apposito, gli interconcilia e i campora comunalia, diversi dai compascui, luogo di scambio di bestiame tra massari confinanti. Tali consuetudini, da una parte l’uso comune di determinate parti del territorio comprese le strade e la platea communis e dall’altra, l’amministrazione di tali parti da parte di un gruppo organizzato, diventano il presupposto per la nascita del comune come istituzione politica nel medioevo.

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Roma e gli usi civici. Prospettive di ricerca: documentazione e valorizzazione La distribuzione spaziale degli usi civici [fig. 2] mostra un rapporto con Roma nel delinearsi di una corona di maggiore concentrazione compresa tra le 15 e le 30 miglia di distanza dalla città: l’interpretazione di questo fenomeno deve essere ancora chiarita e richiederebbe una trattazione ben più lunga. Presentiamo però alcune ipotesi: che in quella fascia si sia determinata durante la prima espansione della repubblica, in virtù di alcune federazioni, una particolare densità di ager subsicivus, o ager publicus, o ager publicus non adsignatus; oppure che una particolare politica abbia definito una corona di feudi a protezione del ducato di Roma a partire dal X secolo determinando o consolidando una maggiore concentrazione degli usi civici; infine che la politica di affrancamento degli usi civici del Novecento17 abbia risparmiato le zone intorno a Roma, per garantire una continuità feudale. Tra le prospettive future di ricerca sul tema degli usi civici, nel quadro di una alleanza strategica tra paesaggio agrario e beni culturali, possiamo elencare: le carte degli usi civici per la pianificazione dell’uso agricolo alla scala regionale; il censimento degli usi civici liquidati dalla legge 1766 del 1927, l’approfondimento su ciascun uso civico sia per descrivere la serie storica degli assetti proprietari di un territorio, che in termini di progetto di valorizzazione; e infine lo studio comparato degli usi civici, delle colture e della toponomastica: ad esempio i toponimi “bandita” e “bandinella”, molto frequenti, che testimoniano un’area il cui uso agricolo in una certa fase storica veniva gestito tramite bando pubblico.

Bibliografia A.P. Barresi, Gli usi civici in Sicilia: ricerche di storia del diritto, Catania, 1903. B. Brugi, Le dottrine giuridiche degli agrimensori romani comparate a quelle del digesto, Verona e Padova, 1897. R.J. Buck, Agriculture and agricultural practice in Roman law, Steiner, Wiesbaden, 1983. L. Bussi, Terre comuni ed usi civici: dalle origini all’alto medioevo, in Storia del Mezzogiorno. Alto Medioevo, Napoli, 1990, vol. III, pp. 211-255. A. Camiz (a cura di), Progettare Castel Madama. Lettura e progetto dei tessuti e del patrimonio archeologico, Roma, 2011. A. Camiz, Fonti moderne per la storia del paesaggio medievale: i toponimi prediali nel territorio sublacense, in Paesaggi agrari del Novecento. Continuità e fratture. Lezioni e pratiche della Summer School Emilio Sereni, a cura di G. Bonini, A. Brusa, R. Cervi, Gattatico RE, 2013.

17  Legge n.1766 del 1927, sulla liquidazione o regolamentazione degli usi civici. 184


A. Camiz, Continuità e discontinuità centuriale per una lettura del paesaggio medievale gattaticense, in Il Paesaggio Agrario Italiano Medievale. Storia e didattica, a cura di G. Bonini et al., Quaderni, n. 7, Gattatico RE, 2011. G. Cassandro, Storia delle terre comuni e degli usi civici nell’Italia meridionale, Laterza, Roma-Bari 1943. A. Ciaralli, Un panorama delle fonti relative agli assetti della proprietà fondiaria nell’Agro Romano, in R. Morelli, E. Sonnino, C.M. Travaglini (a cura di), I territori di Roma. Storie, popolazioni, geografie, Roma, 2003. G. Curis, Usi civici, proprietà collettive e latifondi nell’Italia centrale e nell’Emilia con riferimento ai demanii comunali del Mezzogiorno: dottrina, legislazione e giurisprudenza. Studio storico-giuridico, Napoli, 1917. F. De Bellis (a cura di), L’Università agraria di Castel Madama: Storia, attualità e prospettive, Castel Madama, 2003. G. Di Genio (a cura di), Problemi e prospettive sugli usi civici, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2010. A. Guidi, Preistoria della complessità sociale, Laterza, Roma-Bari, 2000.

E. Guidoni, Nota sulla dimensione storico-antropologica dell’ambiente, “Rassegna di architettura e urbanistica”, XVI (1980), 47-48, pp.97-106. P.S. Leicht, Studi sulla proprietà fondiaria nel Medioevo, I, Verona, 1903. A. Lodolini, Gli Usi Civici. Storia e legislazione preunitaria, Firenze, 1952. U. Petronio, Usi e demani civici fra tradizione storica e dogmatica giuridica, in La proprietà e le proprietà, a cura di E. Cortese, Milano. 1988, pp. 491-542.

E. Sereni, Storia del paesaggio agrario italiano, Laterza, Roma-Bari, 1961. M. Weber, Storia agraria romana dal punto di vista del diritto pubblico e privato, Il sagiatore, Milano, 1967.

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Fig. 1 Alcune formae romane, tratte dai Gromatici Veteres, rappresentano diversi tipi di terreni ad uso collettivo: compascua, pascua publica, regio extraclusa et non adsignata e ager subsicivus, si tratta di terre non destinate alla coltivazione ma impiegate in altro modo dagli assegnatari vicini.

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Fig. 2 La distribuzione spaziale degli Usi Civici mostra un rapporto con Roma: si noti la corona interna di 15 miglia e la corona esterna di 30 miglia della loro maggiore concentrazione (fonte: UniversitĂ , Comunanze, Consolati ed Associazioni agrarie esistenti o soppresse, da http://www. universitagrarie.org)

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Fig. 3 Mappa del corpo macchioso, bosco di altofusto, e pezzi pascolivi atti anche a seminarsi posto nel territorio di Castel Madama in vocabolo La selva, pettante a S.E. sig.r Marchese D.N. Alessandro Pallavicini di Parma 1825, Archivio di Stato di Roma, Congregazione speciale di sanitĂ , reg. 601.

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Fig. 4 Ingresso dell’Università agraria di Castel Madama lungo la via Empolitana, si noti la progressione dal prato-pascolo al pascolo cespugliato, all’arbusteto e infine al bosco (foto Umberto Morelli, 2013).

Fig. 5 Università agraria di Castel Madama, maestoso esemplare di quercia già presente nel sistema boscato delimitato dal PTPR, e curiosamente escluso dalla nuova perimetrazione (foto Italo Carrarini, 2013). 189



La lente della multifunzionalità Un approccio metodologico ai paesaggi agrari Alessandro Ranieri

Quando si parla di multifunzionalità, si fa riferimento al fatto che un’attività economica può avere più uscite e, in virtù di questo, può contribuire a diversi obiettivi sociali contemporaneamente1. Secondo l’Unione europea, il termine multifunzionalità in agricoltura illustra “il nesso fondamentale tra agricoltura sostenibile, sicurezza alimentare, equilibrio territoriale, conservazione del paesaggio e dell’ambiente, nonché garanzia dell’approvvigionamento alimentare”. Dunque, l’agricoltura multifunzionale include tre funzioni centrali, che riguardano le relazioni con lo spazio (ambiente, paesaggio), con la produzione (salubrità e sicurezza degli alimenti, ma anche diversificazione qualitativa degli alimenti) e con i servizi (gestione aree rurali, biodiversità, amenità). Questo rappresenta sicuramente il mio punto di partenza. Da qui scaturisce l’obiettivo principale: osservare il paesaggio agrario, l’intrecciarsi delle funzioni dei vuoti con quelle dei pieni e riscoprire la tipologia e le caratteristiche del legame insito tra queste dinamiche; sottolineare il livello di interazione delle aziende agricole tra la produzione alimentare, quale tipica funzione dell’agricoltura, e altre, nuove, attività agricole. Si tenta inoltre di affrontare la questione fondamentale relativa al tema dell’agricoltura multifunzionale, e come questa contribuisce all’obiettivo strategico di sostegno alla sicurezza alimentare, proposto da Europa 2020. I sostenitori delle funzioni convenzionali dell’agricoltura spesso sostengono che la diversificazione delle attività agricole è in contrasto con l’obiettivo di mantenere o aumentare i livelli della produttività alimentare. A loro avviso, la multifunzionalità è, nella migliore delle ipotesi, una strategia di sopravvivenza per gli agricoltori delle piccole zone interne2. È evidente che coloro che sono a favore della multifunzionalità, invece, credono in un sistema in cui la sostenibilità ambientale gioca un ruolo chiave3. Numerosi studi empirici sottolineano che la multifunzionalità può contribuire alla 1  OCSE, 2001. 2  T. Josling, Competing paradigms in the OECD and their impact on the WTO agricultural talks. In L. Tweeten, S.R. Thompson eds, Agricultural policy for the 21st century, Ames Iowa State Press, 2002. 3  G.A. Wilson, Multifunctional agriculture. A transition theory perspective, Cabi Publishing, Cambridge MA (USA) e Wallingford (UK), 2007; N. Evans, C. Morris, M. Winter, Conceptualizing agriculture: a critique of postproductivism as the new-orthodoxy. Progress in Human Geography, 26 (3), 2002. 191


sostenibilità ecologica, pur mantenendo stabili i livelli di produzione alimentare4. I diversi approcci teorici all’agricoltura multifunzionale condividono una comune tendenza a costruire (o implicitamente assumere) una dicotomia tra agricoltura convenzionale, da un lato, e agricoltura multifunzionale, dall’altro. Entrando nel dettaglio e analizzando la casa multifunzionale di Fleskens (2009), emergono cinque elementi funzionali: • l’ecologia: la base dello spazio abitativo –fondamenta–; • la produzione: che fornisce i prodotti della natura –pilastro–; • l'economia: i ricavi del sistema –tetto–; • la società: la dimensione sociale del sistema –tetto–; • la cultura: il trait d’union tra l’ecologia e la società –pilastro–.

A questo modello, vengono aggiunte due dimensioni5: • educativa: per supportare tutte le funzioni; • relazionale: cruciale 'giunzione' fra le funzioni e le diverse parti interessate.

4  Rooij et al., 2014. 5  F. Contò, M. Fiore, A. Di Matteo, Building a multifunctionality agricultural house and indicators for social/health farms. PAGRI/IAP. Vol. 3/2013. 192


Per quanto concerne la dimensione educativa, una casa conserverà la sua funzionalità e operatività solo se la capacità portante della superficie dell’educational sarà adeguata; ciò è essenziale per la stabilità durevole. Dalla dimensione relazionale, mentre, emerge l’importanza dei nodi (relazioni) tra gli elementi strutturali (funzioni) e le diverse parti interessate. La cultura collega l’ecologia e la società mentre la produzione collega l’ecologia e l’economia; quindi funzioni economiche e sociali sono collegate con il colmo nel tetto. Mi soffermo sulla dimensione educativa e sul termine educational modificandolo in edutainment – dalla fusione dei due termini educational (educativo) ed entertainment (intrattenimento): letteralmente “intrattenimento educativo”. Quindi, su una ulteriore dimensione educativo-esperienziale (che verrà ripresa di seguito) che rappresenta la base di supporto per tutte le funzioni. I nodi (relazioni) diventano fondamentali se vengono attivati ​​dalle parti interessate con un approccio bottom-up: l’obiettivo è quello di sviluppare una superficie utilizzando il suo potenziale di sviluppo endogeno. Ai sensi dell’art. 61 del regolamento CE (1698/2005), l’approccio Leader è caratterizzato soprattutto dal concetto di strategia multi-settore basata sull’interazione tra le parti e progetti di settori/funzioni diverse dell’economia locale e sulla realizzazione di approcci innovativi, sulla cooperazione tra progetti, guidati proprio da iniziative bottom-up miranti a uno sviluppo rurale sostenibile, con particolare attenzione al partenariato e allo scambio di esperienze di rete locale. Questa può rappresentare la giusta lente per osservare il paesaggio agrario: uno strumento di valutazione per l’analisi dell’intero sistema.

Rurale: tra vuoti e pieni La maggior parte dello spazio aperto del territorio italiano, è mediamente occupato da attività agricole (coltivazione, allevamento selvicoltura); pensare ad una progettazione in maniera ecologica, significa promuovere la riorganizzazione del territorio agricolo e forestale nel suo complesso facendolo diventare uno strumento attuativo dei progetti strategici di trasformazione ecologica del territorio stesso. I vuoti, gli spazi aperti residuali, diventano le figure generatrici del nuovo ordine territoriale e urbano. La loro visione d’insieme (il progetto del territorio agricolo e forestale, dei corridoi biotici ed eco-territoriali, dei sistemi idrografici, delle zone di pertinenza fluviale, delle reti ecologiche, delle fasce agricole periurbane) vista come sistema di ecosistemi, ordina e restituisce forma e proporzioni virtuose al disegno dei “pieni” (lo spazio costruito, le città, le infrastrutture, ecc.). Nella carta urbanistica, sostanzialmente il “vuoto”, l’extraurbano si riempie di regole ambientali e insediative: si mette in relazione con l’urbano nell’imporre la propria presenza corposa, vivente, ridefinendo la propria identità. La valorizzazione del patrimonio territoriale degli spazi aperti, la produzione di beni peculiari a questa valorizzazione, la selezione delle attività produttive da insediare a tale scopo, diventano la base della produzione di ricchezza durevole. L’individualità del luogo, la sua autenticità riscopre la prima fonte di ricchezza: l’ambiente regionale. Con i suoi materiali, energie ed informazioni costitutive della qualità, della peculiarità e della ricchezza durevole dell’insediamento, propone una nuova alleanza. Il paesaggio rurale storico, rappresenta uno scrigno di regole sapienti di produzione di territorio, di riproduzione autonoma delle risorse produttive, di potenziamento dell’identità 193


regionale6 che permette di regolamentare gli statuti del territorio e di contribuire al superamento delle diseconomie degli attuali modelli agroindustriali. Esso rappresenta il nucleo patrimoniale su cui si fonda il parco agricolo multifunzionale, sia che si tratti di valorizzazione di aree agricole di pregio, sia di riqualificazione delle regioni urbane. I paesaggi agrari italiani, pur nella diversità che li distingue, sono il risultato di una grande variabilità naturale e di una storia umana antica e complessa e mostrano nella diffusa presenza di alberi da frutto il loro tratto maggiormente distintivo. La variabilità naturale è basata su una grande diversità biologica sia a livello genetico che di specie, popolazione ed ecosistema e si è trasmessa attraverso le azioni dell’uomo nel paesaggio colturale, nel mosaico ambientale e nella rete ecologica. Il significato storico-culturale non è l’unico che giustifica la preziosità dei paesaggi o delle pratiche agricole tradizionali che ne consentono il perpetuarsi: è necessario evidenziare determinati elementi costitutivi dell’agricoltura tradizionale, come: • la produzione in proprio delle risorse riproduttive del sistema, autonoma rispetto al mercato7; • la salvaguardia idrogeologica attraverso la cura del bosco, del terrazzamento, dei torrenti: indicazioni queste, essenziali per i piano integrati di bacino; • la produzione di complessità ecologica, iniziando dalla complessità degli ecosistemi nella policoltura; • la valorizzazione delle risorse ambientali locali, essenziale all’autoriproduzione delle risorse produttive; • la chiusura locale dei cicli ambientali: dell’alimentazione (dal produttore al consumatore, prodotti a km zero, ecc), dei rifiuti (sinergia nel rapporto allevamento-coltivazione), delle acque (colture poco energivore e più che altro, legate ai caratteri climatici e ai regimi delle precipitazioni locali); • le produzioni tipiche in paesaggi tipici; • la qualità alimentare.

La multifunzionalità nei sistemi agrari Si deduce chiaramente che diventa strategico il ruolo che i sistemi agrari hanno nella conservazione di una multifunzionalità della pratica agricola ricercata nella costruzione dei paesaggi moderni coltivati. Questi paesaggi si configurano come luoghi di agricoltura multifunzionale perché hanno in sè un valore intrinseco legato alla cultura e all’identità locale, ma anche ad un valore derivato dalla possibilità di concorrere al mantenimento della qualità dell’ambiente e della vita delle popolazioni rurali8. La nuova agricoltura non dev’essere solo concepita come una mera attività di produzione dei beni alimentari, ma ad essa dev’essere riconosciuto il ruolo di difesa dell’ambiente, salvaguardia delle risorse naturali, tutela del patrimonio culturale dei luoghi, generatrice di 6  A. Magnaghi, Patto città campagna: un progetto di bioregione urbana per la Toscana centrale, in A. Magnaghi, D. Fanfani (a cura di), Alinea Editrice, 2010; Mipaaf, 2010 7  J.D. Van Der Ploeg, H. Rentting, G. Brunori, et al., Rural development: from practices and policies towards theory, in Sociologia Ruralis n. 40, 2000. 8  OCSE, 2001; Idda et Al., 2005 194


servizi (es. turistico-ricreativi) ed in generale miglioratrice della qualità della vita. Alcune di queste funzioni nuove, trovano ragione d’essere in seguito all’espansione di nuovi spazi, da quelli peri-urbani a quelli urbani, recente insediamento delle colture ortofrutticole. Una delle massime espressioni della multifunzionalità si può trovare nei paesaggi culturali che rappresentano aree agricole estremamente eterogenee dal punto di vista dell’utilizzo dei suoli il più delle volte ricoperti da erbacee, piante arbustive e architetture rurali artistiche. In questa complessità infatti si possono ritrovare alcuni elementi di quella multifunzionalità di cui si parla: • regimentazione delle acque; • ottimizzazione del ciclo degli elementi per la fertilità del suolo; • stabilizzazione dei pendii assicurata dalle sistemazioni con terrazzamenti o ciglionamenti; • continuità dei paesaggi garantita dai numerosi residui di coperture naturali nelle forme di siepi e macchie. Queste funzioni, da sempre insite nella complessità costitutiva di questi spazi, sono state riattualizzate nel loro significato dato che uno degli obiettivi emergenti per la riqualificazione dell’agricoltura è l’attuazione di modelli produttivi volti anche alla salvaguardia dell’ambiente e delle sue risorse, inclusa la biodiversità e il paesaggio9. Dunque, i nuovi agricoltori, i protagonisti della dimensione educativo-esperienziale, diventano produttori di filiere alimentari locali di qualità che contribuiscono a ridefinire il codice genetico dell’identità del luogo, partendo dalla rivitalizzazione delle cultivar e dei saperi produttivi locali; di conseguenza, come un effetto domino, si innesca produzione di beni pubblici che determina la qualità ambientale e il paesaggio del sistema regionale. Alle funzioni ecologiche e paesistiche si aggiungono quelle relative all’ospitalità agrituristica didattica e scientifica e alla costruzione di sistemi economici locali. Nel verde periurbano avviene una riqualificazione degli orti per i mercati rionali, per i mercati delle erbe, che perdono il loro carattere povero e degradato per divenire parte integrante del parco agricolo periurbano. I parchi sono ridotti al minimo necessario per salvaguardare oasi di natura (oasi floricole e faunistiche, foreste) e per attrezzare le città attraverso i giardini urbani e parchi agricoli periurbani. Il territorio concepito in questo modo è un territorio aperto, considerato interamente come area protetta: La fattoria viene associata ad un parco, dove il pubblico ha diritto di stare e, rendere tutti i parchi regionali come fattorie funzionanti. Creare cura fra gruppi di persone, famiglie e cooperative, con ciascuna comunità di cura responsabile per una parte di campagna. Ai curatori è dato un affitto per la terra ed essi sono liberi di definire regole del luogo per il suo uso – come una piccola fattoria, una foresta, un’area umida, un deserto e così via. Il pubblico è libero di visitare la terra, farci escursioni, pic-nic, esplorare, navigare, nella misura in cui si adegua alle regole del luogo. Con tale sistema, una fattoria potrebbe avere visitatori nei suoi campi ogni giorno durante l’estate. Alexander, 1967, p.39. 9  Barbera, 2003. 195


La sua progettazione è da inquadrare in un sistema ambientale continuo formato da corridoi ecologici fra un centro urbano e l’altro che formano una maglia reticolare fruibile; assistendo al passaggio da parco naturale a parco agricolo, in questo reticolo si inseriscono le aree produttive appropriate alla valorizzazione ambientale. L’agricoltore diventa attore/ produttore che scambia cultura inserendosi attivamente nelle reti di comunicazione urbana. Si tratta di una figura che produce ricerca scientifica, promuove stili di vita, attiva relazioni dirette, intesse reti locali sul territorio di cui ha cura. Il tutto avviene in un paesaggio agrario caratterizzato da un territorio in cui spiccano “monasteri laici”, “ville fattoria”10, borghi-albergo. Si tratta di veri e propri centri di bonifica del territorio, di organizzazione e di innovazione agricola, di cultura, di formazione, di cura dell’ambiente, che conciliano il valore estetico del paesaggio con il suo valore economico. Qui sono presenti laboratori didattici e di ricerca in sinergia con le università regionali, a loro volta territorializzate a rete; qui si intrecciano la struttura produttiva, residenziale, la qualità ambientale e paesaggistica. In un contesto fortemente territorializzato, il turismo e nel dettaglio quello culturale, l’agriturismo, l’ecoturismo enogastronomico – la varie sfaccettature del turismo esperienziale, intriso di ambiente e cultura – giocano un ruolo fondamentale e diventano, oltre che obiettivo economico, anche occasione per rafforzare il capitale umano e sociale, il sistema delle relazioni a livello regionale e l’identità stessa dei luoghi e delle comunità locali.

Salvaguardia del suolo: paesaggi intensivi ed estensivi Una delle funzioni ambientali più importanti attribuibili all’organizzazione del paesaggio tradizionale è l’azione di salvaguardia del suolo; quest’ultimo rappresenta una vera e propria risorsa ambientale, continuamente stressata da importanti fattori di degrado soprattutto nei casi di agricoltura intensiva. La coesistenza di diversi elementi, quali: • la gestione in loco dei residui colturali che consente il mantenimento della fertilità del suolo; • una più uniforme copertura del terreno dovuta anche a colture intercalari; • impiego di fertilizzanti organici; • lavorazioni più contenute e, nelle zone con maggiore pendenza, disposizioni meno predisponenti i fenomeni erosivi per fa sì che le pratiche agricole tradizionali posseggano un’elevata valenza ecologica11. Osservare quindi l’edu-tainment significa prendere atto, coscienza, conoscere la pratica agricola tradizionale, e in che modo può influire sul paesaggio. Lo sfalcio regolare dei prati, così come la coltivazione dei declivi, vanno a compromettere l’equilibrio dei versanti; l’abbandono dei coltivi innesca fenomeni di erosione del suolo con forte impatto anche sugli habitat naturali ed espone al rischio di incendi nelle zone aride a causa della vegetazione colonizzante le aree abbandonate; la produzione di biomassa sui pendii prima governati a prato-pascolo predispone in inverno la formazione di valanghe. 10  A. Magnaghi, Il progetto locale: verso la coscienza di luogo, Bollati Boringhieri, Torino, 2010. 11  E.A. Abbona, S.J. Sarandon, M.E. Marasas , M. Astier, Ecological sustainability evaluation of traditional management in different vineyard system, in Berisso, Argentina. Agricolture, Ecosystems and Environment, 2007. 196


La funzione di salvaguardia del suolo attribuibile ai paesaggi tradizionali è dovuta non solo alle pratiche agronomiche su cui si basa la loro gestione, ma anche al presidio da essi attuato su spazi altrimenti molto vulnerabili. Il paesaggio mediterraneo, nelle aree a forte pendenza, è caratterizzato dall’abbandono dell’agricoltura tradizionale e ciò ha portato ad una vera e propria desertificazione, intesa come perdita irreversibile di biodiversità e capacità produttiva del suolo oltre alla compromissione della stabilità idrogeologica dei versanti. Ne è un esempio l’abbandono dei terrazzamenti di castagno in Toscana12. Questo fenomeno ha interessato anche le pianure costiere: in Sardegna, ad esempio, in alcuni fra i comprensori viticoli più connotativi delle produzioni enologiche. Le pratiche agricole tradizionali, ancora, per la stessa natura, mostrano un elevato grado di sostenibilità ambientale, anche in termini di contributo alla riduzione dell’effetto serra: essendo basso il grado di meccanizzazione e intensificazione colturale, si realizzano modelli a bassa emissione colturale di CO2 poiché il ricorso ad input produttivi esterni è estremamente limitato.

Custodia e difesa della biodiversità I paesaggi agrari tradizionali sono caratterizzati da una complessità di forme e strutture che rappresenta la base di una ricca complessità biocenotica riscontrabile e misurabile in diverse entità: • nella ricchezza di specie esistenti, sia spontanee che coltivate; • nella complessità di usi dei suoli che spesso coesistono nella coltura promiscua; • nella diversità degli ecosistemi presenti (aree coltivate e naturali); • nella variabilità genetica dei coltivi; • nella complessità del mosaico ambientale13. La coltivazione di un gran numero di specie e varietà locali, anche di importanza storica, che si sviluppa in questi contesti diventa basilare per diversificare le produzioni, per mantenere il loro legame con il territorio, per migliorare la sostenibilità dei modelli produttivi. Inoltre, l’elevata presenza di variabilità coltivata riveste un ruolo fondamentale per il mantenimento di una ricca biodiversità animale pesantemente disturbata nei sistemi di agricoltura intensiva. Da considerare che molte forme tradizionali di uso del suolo sono in vario modo legate alla pastorizia o all’allevamento e garantiscono pertanto ulteriore biodiversità. Le stesse pratiche agricole tradizionali, essendo caratterizzate da bassi input, promuovono la conservazione della biodiversità animale. Il mantenimento della complessità biologica concorre anche alla complessità strutturale rappresentata dai manufatti e 12  M. Agnoletti, Paesaggio e Sviluppo Rurale. Il ruolo del paesaggio all’interno dei “Programmi di Sviluppo Rurale 2007-2013, Rete Rurale Nazionale, Ministero delle Politiche Agricole Alimentari Forestali, 2009. 13  S. Culotta, G. Barbera, Mapping traditional cultural landscapes in the Mediterranean area using a combined multidisciplinary approach: Method and application to Mount Etna (Sicily; Italy). Landscape and Urban Planning, 100 (1-2), 2011; D. Mc Donald, J.R. Crabtree , G. Wiesinger, T. Dax, N. Stamou, P. Fleury, J. Gutierrez Lazpita, A. Gibon, Agricultural abandonment in mountain areas of Europe: Environmental consequences and policy response, in Journal of Environmental Management, n. 59, 2000. 197


architetture rurali tipiche come i muretti a secco, gli steccati, i fontanili. La numerosità degli habitat naturali o seminaturali nei paesaggi culturali risulta correlata con la ricchezza di specie presenti la cui presenza, pertanto, è un indicatore di biodiversità14. Quindi misurare la biodiversità a scala di ecosistemi, habitat e comunità, con la lente della multifunzionalità è un approccio efficace per valutare l’impatto dell’agricoltura sulla complessità biologica, la numerosità dell’uso dei suoli e degli ecosistemi. Ancora, la lente della multifunzionalità permette di osservare l’aumento di omogeneità paesaggistica come conseguenza della globalizzazione dei processi produttivi per cui diventa un importante approccio per valutare la perdita di diversità dei paesaggi, soprattutto nelle aree costiere sottoposte a maggiore pressione antropica. Si aggiunge poi il carattere di residenzialità delle aree di campagna, soprattutto in vicinanza dei grandi agglomerati urbani, e la richiesta di suolo a fini energetici per la realizzazione di impianti fotovoltaici a terra laddove prima si coltivavano fruttiferi. Grazie ad una maggiore capacità di resistenza agli stress abiotici, come il fuoco o gli allagamenti, grazie al regolare governo delle acque, alla periodica rimozione delle biomasse, ancora alla maggiore capacità di resistenza da parte dei genotipi presenti in questi sistemi, ad infestazioni e malattie da patogeni rispetto alle varietà migliorate, i paesaggi culturali sono sistemi equilibrati e sono meno soggetti ad azioni di disturbo intrinseche od estrinseche del sistema stesso. Ecco perché promuovere la loro percezione e in questo la lente può essere un valido strumento: riveste un ruolo fondamentale nel contrastare la perdita di paesaggi tradizionali. Una gestione sostenibile del paesaggio nella diversità delle sue forme e delle sue funzioni non può e non deve prescindere dal riconoscimento del ruolo di centralità di questi agro ecosistemi e una gestione sostenibile del territorio e delle sue attività incluso il turismo. Nello studio dei paesaggi, l’ecologia del paesaggio, riveste un ruolo culturale chiave che va a mettere in correlazione scienze agronomiche e scienze ecologiche ai fini di una efficace ed efficiente pianificazione territoriale volta al raggiungimento di una sostenibilità economica, ambientale e culturale che dev’essere perseguita sia a livello di microscala (aziendale) che di macroscala (regionale e nazionale). La multidisciplinarietà dell’ecologia del paesaggio permette di integrare dei saperi e delle conoscenze che per tradizione si ritengono lontani: quelli storici, etici ed estetici.

14  R. Billeter, J. Liira, D. Bailey, R. Bugter, P. Arens, I. Augenstein, S. Aviron, J. Baudry, et al., Indicators for biodiversity in agricultural landscapes: a pan-European. Journal of Applied Ecology, n.45, 2008. 198


Bibliografia E.A. Abbona, S.J. Sarandon, M.E. Marasas, M. Astier, Ecological sustainability evaluation of traditional management in different vineyard system, in Berisso, Argentina. Agricolture, Ecosystems and Environment, 2007. M. Agnoletti, Paesaggio e Sviluppo Rurale. Il ruolo del paesaggio all’interno dei “Programmi di Sviluppo Rurale 2007-2013. Rete Rurale Nazionale, Ministero delle Politiche Agricole Alimentari Forestali, 2009. R. Billeter, J. Liira, D. Bailey, R. Bugter, P. Arens, I. Augenstein, S. Aviron, J. Baudry, et al., Indicators for biodiversity in agricultural landscapes: a pan-European, Journal of Applied Ecology, n. 45, 2008. F. Contò, M. Fiore, A. Di Matteo, Building a multifunctionality agricultural house and indicators for social/health farms. PAGRI/IAP. Vol. 3/2013. F. Contò, M. Fiore, P. La Sala, Quality of Life and human isolation: the case of Rural area of Puglia, Romanian Journal of Regional Science, n. 2, 2012. F. Contò, M. Fiore , P. La Sala, P. Papapietro, The role of education, knowledge and human resources for the agricultural development in the perspective of new CAP: an hypothesis of change, in Basilicata, Educational Research, n. 2, 2011. S. Culotta, G. Barbera, Mapping traditional cultural landscapes in the Mediterranean area using a combined multidisciplinary approach: Method and application to Mount Etna (Sicily; Italy), Landscape and Urban Planning, 100 (1-2), 2011. N. Evans, C. Morris, M. Winter, Conceptualizing agriculture: a critique of postproductivism as the new-orthodoxy, Progress in Human Geography, 26 (3), 2002. L. Fleskens, F. Duarte, I. Eicher, A conceptual framework for the assessment of multiple functions of agro-ecosystems: A case study of Tra´s-os-Montes olive groves, Journal of Rural Studies, n. 25, 2009. V. Girgenti, L’agricoltura multifunzionale, Scienza attiva: edizione speciale 2014/2015, 2014. T. Josling, Competing paradigms in the OECD and their impact on the WTO agricultural talks, in L. Tweeten, S.R. Thompson eds, Agricultural policy for the 21st century, Ames Iowa State Press, 2002. A. Magnaghi, Il progetto locale: verso la coscienza di luogo, Bollati Boringhieri, Torino, 2010. A. Magnaghi, Patto città campagna: un progetto di bioregione urbana per la Toscana centrale, in A. Magnaghi, D. Fanfani (a cura di), Alinea Editrice, 2010.

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D. Mc Donald, J.R. Crabtree, G. Wiesinger, T. Dax, N. Stamou, P. Fleury, J. Gutierrez Lazpita, A. Gibon, Agricultural abandonment in mountain areas of Europe: Environmental consequences and policy response, in Journal of Environmental Management, n. 59, 2000. J.D. Van Der Ploeg, H. Rentting, G. Brunori, et al., Rural development: from practices and policies towards theory, in Sociologia Ruralis, n. 40, 2000. J.D. Van Der Ploeg, C. Laurent, F. Blondeau, P. Bonnafous, Farm diversity, classification schemes and multifunctionality, in Journal of Environmental Management, n. 90, 2009. G.A. Wilson, Multifunctional agriculture. A transition theory perspective, Cabi Publishing, Cambridge MA (USA) e Wallingford (UK), 2007.

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I Gruppi di Acquisto Solidale Palestre per la trasformazione sociale e paesaggistica? Oscar Porcelli

Faccio parte, per ragioni anagrafiche, ma anche famigliari, della generazione che il professor Pileri identifica con preoccupazione come una delle prime ad essere culturalmente sradicate dalla terra1. Dopo la generazione della guerra e quella che ha conquistato il benessere, la mia è la terza della famiglia a non aver avuto a che fare direttamente con la terra, la quale è passata dall’essere indirettamente legata alle attività lavorative – commercio del Parmigiano e molitura – all’avere una valenza principalmente paesaggistica. L’opportunità della Summer School Emilio Sereni presso l’Istituto Cervi è stata la prima reale occasione per confrontarmi in maniera strutturata ed appassionante con il complesso tema del paesaggio, della terra e dei forti legami che questi hanno con l’attività umana. In questo senso e grazie a questa possibilità, spero di poter essere parte di coloro che nella mia generazione stanno dando vita, a vario titolo, ad un necessario e prezioso ritorno alla terra, contribuendo al ricambio generazionale nel lavoro, nello studio e nella tutela di queste risorse, della terra, da cui si articola l’inalienabile diritto – ancora privilegio riservato ad una minoranza – dell’accesso al cibo. Il laboratorio tre, denominato Il Consumo. Chilometri zero della tavola si è posto degli obiettivi ambiziosi. L’individuazione dei punti di forza e di debolezza del modello denominato chilometri zero, la valorizzazione di questi strumenti per la tutela della biodiversità e la salvaguardia dell’autoctonia di specie vegetali ed animali, l’analisi degli strumenti di sostegno alle filiere corte con un richiamo nell’uscita al concetto di GAS e della vendita diretta. La brevità dell’esperienza ha impedito una esaustiva trattazione degli obiettivi del laboratorio, a cui va il merito di aver cercato di inserire la questione in un ambito di ampio respiro. La molteplicità di competenze e di esperienze dei partecipanti, insieme ad alcuni degli interventi previsti nei seminari, ha permesso di evidenziare da subito una questione: la necessità di affrontare il problema del consumo – e dunque della produzione – come un fenomeno complesso per le sue problematiche ed irrimediabilmente per le soluzioni che devono essere elaborate. Snodo centrale è comprendere la varietà di modalità di acquisto dei consumatori. Questo punto è fondamentale per provare a scomporre la complessità della 1  P. Pileri, Sradicati da riappassionare, in«Altreconomia», n. 182, Maggio 2016, p.60. 201


questione dei consumi, partendo ragionevolmente dalle situazioni più strettamente legate all’oggetto del laboratorio: il mercato contadino o di prossimità, la vendita diretta, i GAS. Vorrei sgombrare il campo da equivoci: il mio interesse per l’attività dei GAS e la conversione dei terreni vuole essere libero da qualsiasi feticismo verso/nei confronti di ciò che viene analizzato con il criterio del locale o piccolo, smentendo l’equazione piccolo uguale a bello, o almeno la necessità di quest’equazione. Ci tengo infatti ad approfondire il potenziale di questi strumenti, avendo sempre ben presente l’osservazione del professor Franco Sotte riguardo il ruolo dei grandi attori multinazionali e alle «enormi quantità di alimenti che il mondo richiede»2 e dunque anche la scala – o meglio le diverse scale – a cui questi problemi debbono essere affrontati. In merito al riferimento del professore riguardo agli attori che potrebbero assolvere a questo compito, le multinazionali, mi sento di tenerli in viva considerazione. Non tanto perché io le ritenga imprescindibili nel panorama futuro, quanto piuttosto come spunto necessario per interrogarsi sull’annosa questione della replicabilità su larga scala dei processi innovatori. Inoltre, nel tentativo di governare la complessità - trasformandola ove necessario - non si può prescindere dal relazionarsi con lo stato di cose presenti. Certamente, siamo di fronte ad un periodo di nel quale coesistono attori privati dalle dimensioni sempre più importanti, in grado di influenzare – anche in maniera estremamente negativa – i mercati di vari settori, tra cui quello agroalimentare. L’economista Andrea Baranes ad esempio ci ricorda che in borsa, su cento transazioni relative al grano statisticamente solo una coinvolge realmente chi ha a che fare con la produzione, la trasformazione ed il consumo3. I centri politico-amministrativi devono essere in grado di valutare attentamente le potenzialità e le criticità di questi attori, in virtù degli obiettivi di lungo periodo che si è data la comunità internazionale, non da ultimo tramite la Carta di Milano. Siamo di fronte infatti ad una dichiarazione d’intenti estremamente esplicita ed articolata che già da oggi richiede ai centri decisionali, a tutti i livelli, una grande dose di determinazione e perseveranza. Bisognerà intervenire per normare in maniera efficace l’operato dei diversi attori intorno a settori fondamentali per la sfera dei diritti come quello dell’accesso al cibo. Questo per contrastare l’inerzia negativa degli interessi particolari4 e per implementare con misure adeguate progetti e politiche territoriali utili. Accanto a questo quadro generale di necessari governo e normazione delle attività, si fa pressante la necessità di procedere con l’attuazione di sperimentazioni concrete – vista anche la forza dei cosiddetti progetti pilota – verso possibili processi produttivi virtuosi così 2  Vedi diapositiva n. 40 dal titolo “Non una ma tante agricolture”, dalla presentazione del professor Sotte dal titolo Sotte- Ist Cervi Gattatico-2015 Scenari evolutivi del concetto di ruralità (sic!) per la sua relazione presso la Summer School 2015. 3  A. Baranes ,Le scommesse chiamate derivati, in «L’espresso», 10 ottobre 2013.http://inchieste. repubblica.it/it/repubblica/rep-it/2013/10/10/news/fame_nel_mondo_cos_la_finanza_specula_sul_ cibo-68297661/. Sito consultato il 10maggio. 4  Vedi, ad esempio, quanto successo in una realtà a me vicina, la difficile collaborazione tra privati ed enti pubblici sugli interventi da svolgere nell’area del Sito di Interesse Nazionale della città di Mantova http://gazzettadimantova.gelocal.it/mantova/cronaca/2013/12/20/news/bonifiche-al-palospuntano-altri-4-ricorsi-1.8335675. 202


come verso vantaggiosi assetti e usi territoriali5. Negli ultimi vent’anni abbiamo assistito ad una continua crescita e sperimentazione di iniziative «concrete e praticate»6riconducibili alla galassia dei GAS. Ad oggi questo fenomeno è cresciuto fino a raccogliere duemila realtà stabili censite a livello nazionale7. Ma, come definire questo genere di pratiche? Secondo Massimo Acanfora, giornalista esperto di economia solidale, «I Gruppi di acquisto solidali (GAS) si presentano come fenomeno davvero originale, in quanto gruppi, quindi collettivi di persone, che acquistano – quindi si autodefiniscono preminentemente per la loro funzione collettiva di consumo – e solidali, cioè che ambiscono a superare il modello del mercato come meccanismo in cui offerta e domanda si influenzano a vicenda prevalentemente tramite reciproci aggiustamenti di prezzo»8. Ancor più esplicito risulta il documento comune dei Gas quando afferma che «Di fronte al potere dilagante delle multinazionali che esercitano un forte condizionamento sulle abitudini dei consumatori, ci assale un senso di impotenza e di solitudine.(…) In realtà esistono alternative che consentono di uscire dall’isolamento e di instaurare un rapporto diretto tra l’acquirente ed il produttore. Una di queste possibilità è rappresentata dai Gruppi d’acquisto solidali (GAS), espressione del bisogno individuale di socializzare le scelte critiche fatte nella vita quotidiana.»9. Si rivela qui, a parer mio, il cuore della questione: l’elemento sociale e l’elemento di trasformazione dell’esistente costituiscono l’apparato radicale e il frutto di questo metodo di condivisione. Ne risulta un approccio molto distante dall’automobilistico chilometri zero che spesso si riduce ad una mera considerazione di distanze prestando il fianco ad episodi di scarso rispetto della suolo (inteso come ecosistema), dei lavoratori ed anche a spiacevoli casi di frode commerciale, come è stato possibile accertare dalle testimonianze all’interno del laboratorio. A mio modo di vedere, si rivela dunque necessario insistere sulla differenziazione del prodotto venduto nelle filiere corte o nei GAS rispetto a quanto si trova nella grande distribuzione, non solo in quanto vicino, ma soprattutto perché etico e sostenibile. In questo modo, quello che può accadere – ed accade – è che a parità di prezzo per l’acquirente finale, si rivaluta in maniera significativa la capacità del consumatore di sostenere, influenzare e dunque promuovere una diversa modalità di produzione del contadino a livello locale. Con lo stesso ragionamento, è possibile influenzare anche la responsabilità della produzione nelle filiere più lunghe per necessità: pensiamo agli agrumi o ancor di più ai frutti esotici, in particolar modo ai tre più esportati – caffè, ananas, banane – che sfuggono completamente alla categoria del chilometro zero ma data la loro diffusione, non possiamo non provare a considerare. Nella maggioranza assoluta dei casi, insistono ancora gravi meccanismi di sfruttamento della forza-lavoro e del territorio, come dall’altro lato sempre più Gas sono impegnati nell’acquisto di questi prodotti da realtà equosolidali e sostenibili, favorendo la redistribuzione della ricchezza, la tutela di produttori e consumatori, della biodiversità e del suolo anche in territori lontani10. Non va dimenticato, in ogni caso, che accanto a queste buone pratiche sarebbe necessario inserirne un’altra di 5  Estremamente interessanti sono stati in questo senso i progetti della filiera cerealicola sviluppate in provincia di Reggio Emilia – Pan De Re – e i sistemi di gestione dei parchi agricoli toscani esposti dal professor David Fanfani. 6  M. Acanfora (a cura di), Il libro dei Gas, Altreconomia Edizioni, Milano 2015, p. 8. 7  Ivi, p. 92. 8  Ivi, p. 21. 9  Ivi, p. 13. 10  Per una trattazione esaustiva al riguardo rimando al buon articolo di G. Pellegrini, Banane a basso costo: a rimetterci sei anche tu, in «Terra Nuova», n.314, Marzo 2016, pp. 11-18. 203


estrema importanza, in un mondo dalle risorse – il suolo è uno di queste – limitate: la moderazione nell’acquisto di prodotti come misura di lotta allo spreco e l’acquisto dei soli prodotti necessari che consente di abbattere tutta una serie di ricadute ambientali e sociali negative. A seconda delle dimensioni del progetto, è possibile sostenere a livelli diversi il produttore: dal semplice acquisto del prodotto finito alla partecipazione al rischio d’impresa tramite il prefinanziamento collettivo11. Assistiamo infatti ad alcune linee guida attraverso cui si sviluppano i concetti di sostenibilità, solidarietà, prossimità e condivisione in forme non sempre uguali a se stesse. Dalla crescita di un GAS – informale o riunito in associazione – si può assistere alla nascita a sua volta di mercati etici e periodici di prossimità, di collaborazioni tra GAS e circoli associativi, fino ad arrivare a vere e proprie Reti di Economia Solidale o sistemi agricoli sostenuti dalle comunità (CSA, dall’acronimo inglese)12. Ad un occhio allenato, queste pratiche più complesse, potrebbero mostrare parvenze di quel controllo sulla produzione – qui, qualitativo più che quantitativo – di marxiana memoria, declinato in maniera molto interessante in ambito rurale. Inoltre, aumentando il bacino dei consumatori di questo tipo, aumenta la probabilità di una trasformazione – e tutela dal rischio di impermeabilizzazione – in senso ecosostenibile dei suoli. Anche in Italia, gli esperimenti più progrediti hanno mostrato la fattibilità concreta di un’interazione proficua tra agricoltura sostenibile, economia equa e tutela del suolo. Il Parco Agricolo Milano Sud ospita ad esempio un progetto nato dall’unione di numerosi GAS per la coltivazione di diversi ettari di cereali in regime biologico, assicurando una giusta retribuzione ai contadini e un rafforzamento della vocazione agricola di fronte all’avanzamento dell’urbanizzazione incontrollata in una zona strategica e fertile come la Pianura Padana. I dati infatti parlano chiaro: l’Italia non può più permettersi di perdere ulteriore suolo coltivabile13, che per il 99,7% è sorgente della nostra alimentazione14. Anche in questo caso, i dati degli studi sul fenomeno GAS sono incoraggianti: è infatti possibile rintracciare una maggior sensibilità e vicinanza verso le problematiche socio-ambientali legate alla produzione e al consumo di cibo. Questo lavoro di consapevolizzazione progressiva15 costituisce un incoraggiante tentativo di ricostruzione di un argine culturale utile a tutelare le buone pratiche e a contenere quel tipo di politiche urbanistiche ed infrastrutturali su cui è stata costruita una parte consistente dello sviluppo economico italiano nella seconda metà del Novecento. Per quanto riguarda l’aspetto della coesione sociale, dallo studio condotto riguardo i GAS – oltre 400 – della regione Lombardia dall’Osservatorio CORES dell’Università di Bergamo risulta estremamente incoraggiante il dato dell’ottanta per cento degli intervistati che si dicono più propensi alla collaborazione, avendo accresciuto i legami di fiducia interpersonali; oltre l’ottanta percento degli intervistati ritiene che partecipare ai GAS abbiamo modificato il proprio agire sociale16. Tramite questi risultati, il professor Graziano sottolinea come «Tanto la partecipazione sociale quanto la partecipazione politica richiedono fiducia negli altri membri della comunità, oltre che nelle istituzioni.» E queste considerazioni aprono a prospettive, a parer mio, ancora più incoraggianti, considerata la debolezza del tessuto sociale all’interno del quale – molto spesso – viviamo: «I GAS, 11  D. Facchini, La filiera biodiversa del grano nel Parco agricolo a Sud di Milano, in «Altreconomia», n. 181, Aprile 2016, p. 50. 12  P. Raitano, La nuova agricoltura europea, in «Altreconomia», n. 183, Giugno 2016, p. 6. 13  P. Pileri, Che cosa c’è sotto, Altreconomia Edizioni, Milano 2015, p. 53. 14  Ivi, p. 52. 15  M. Acanfora (a cura di), op. cit. , p. 11. 16  P. Graziano, Più Gas per tutti, in «Altreconomia», n. 181, Aprile 2016, p. 49. 204


quindi, non solo sono importanti perché promuovono un’altra cultura dell’alimentazione (con l’attenzione alla stagionalità, ai prodotti genuini, ai prodotti locali), ma anche – e forse soprattutto – perché forniscono l’occasione per creare o consolidare coesione sociale all’interno di comunità sempre più fragili». Un dato che all’interno del solco tracciato dal lavoro dell’Istituto Cervi non può passare inosservato, né essere messo in secondo piano, se concordiamo con il professor Rossano Pazzagli quando sostiene, nella sua relazione conclusiva, che la dimensione locale, la partecipazione, il legame con la pianificazione territoriale e il rapporto tra paesaggio e democrazia sono aspetti su cui approfondire il dibattito in questi tempi di crisi del paesaggio, riflesso di una crisi più complessa che investe anche i metodi partecipati di elaborazione delle scelte. Le relazioni sono il capitale più importante17, ci ricorda Massimo Acanfora. E come abbiamo visto, da quel patrimonio di relazioni è possibile innescare percorsi di governo del destino di un territorio, più o meno vasto. All’interno di questi nuovi spazi partecipativi si esercita una funzione educativa fondamentale per i membri del GAS ed il territorio circostante18. Contemporaneamente si contribuisce a creare un luogo in grado di liberare «le risorse intellettuali, umane e agricole per cambiare il modello di produzione e consumo del nostro territorio». In virtù di questo, possiamo ora più consapevolmente affermare che al netto di possibili insuccessi,dalla scala mediamente ridotta di questo strumento, siamo in possesso di un esperimento vivace ed umile che merita di essere a valorizzato: allena e rafforza il tentativo di sostanziare il percorso costituente di una cittadinanza vigile, sensibile, protagonista in grado di contrastare l’architettura della rassegnazione19, restituire centralità ad una sana costruzione partecipata e porre le basi per un necessario paesaggio della consapevolezza.

17  M. Acanfora (a cura di), op. cit. , p. 93. 18  Ivi, p. 94. 19  P. Pileri, op. cit. , p. 67. 205



Da Marcovaldo a Genuino Clandestino, dall’Italia all’America Considerazioni sulle realtà del km zero nelle metropoli americane Ilaria Tabusso Marcyan

Nella presentazione alla prima edizione di Marcovaldo Italo Calvino scrive: «In mezzo alla città di cemento e asfalto, Marcovaldo va in cerca della Natura. Ma esiste ancora, la Natura? Quella che egli trova è una Natura dispettosa, contraffatta, compromessa con la vita artificiale»1. Siamo nel 1963, a vent’anni dalla Resistenza e nel pieno boom economico. L’Italia si è ormai affacciata al panorama internazionale e cerca di essere competitiva nella produzione industriale attraverso i generi alimentari, la moda e l’industria automobilistica. La campagna ha vissuto e sta ancora vivendo, in questo periodo, una fase di trasformazione e abbandono, molti contadini vendono o lasciano la loro terra per trasferirsi in città. Le città esplodono di vita e abitanti, mentre le campagne gradualmente perdono i loro contadini, che fino alla fine della seconda guerra mondiale costituivano ancora la maggioranza della popolazione italiana. Calvino, che non ha mai smesso di apprezzare il paesaggio e la natura con una sensibilità che si potrebbe definire precursore di una coscienza ambientalista, non può non notare e far notare i cambiamenti della «Natura» condizionati dall’impatto umano. Nella novella Funghi in città leggiamo: «Aveva questo Marcovaldo un occhio poco adatto alla vita di città: cartelli, semafori, vetrine, insegne luminose, manifesti, per studiati che fossero a colpire l’attenzione, mai fermavano il suo sguardo che pareva scorrere sulle sabbie del deserto. Invece, una foglia che ingiallisse su un ramo, una piuma che si impigliasse ad una tegola, non gli sfuggivano mai: non c’era tafano sul dorso d’un cavallo, pertugio di tarlo in una tavola, buccia di fico spiaccicata sul marciapiede che Marcovaldo non notasse, e non facesse oggetto di ragionamento, scoprendo i mutamenti della stagione, i desideri del suo animo, e le miserie della sua esistenza»2. Il protagonista, da cui il libro prende il nome, è un immigrato dalla campagna che cerca nella città la presenza della natura, elementi familiari che lo facciano sentire, almeno nella sua immaginazione e per un breve momento, a casa. In queste novelle Calvino prende di mira l’idillio industriale del boom economico ma allo stesso tempo non presenta una nota nostalgica della vita di campagna o del mondo rurale. La città in cui Marcovaldo vive non ha un nome specifico, ma rappresenta la città industriale per antonomasia. Potrebbe essere Milano o Torino, ma anche una qualsiasi città industrializzata del mondo come Londra, Parigi, New York, Los Angeles o San Diego. 1  I. Calvino, Marcovaldo, Oscar Mondadori, Milano 2012, p. vi. 2  Ivi, p. 3. 207


Perché fare riferimento a Marcovaldo in un contributo che parla sulle realtà contemporanee del cibo e del suo consumo a livello locale? Le novelle di Calvino sono ambientate negli anni sessanta e molte si riferiscono al cibo. Specialmente, come ogni buon testo letterario che sopravvive nel tempo, le problematiche presentate nelle storie, sia potenziali che evidenziate, riflettono situazioni contemporanee molto visibili e parlano a realtà trasnazionali, o meglio, a realtà che oggi definiremmo globali. Quindi, la domanda più opportuna forse sarebbe, dopo oltre cinquant’anni dalla prima edizione di Marcovaldo, che cosa è cambiato e come si sono trasformati i cittadini dei così detti paesi del primo mondo? Come vedono e vivono la natura? In un’epoca come quella contemporanea in cui i disastri ambientali e gli effetti del surriscaldamento terrestre sono innegabili, cos’è cambiato nella relazione città-campagna? Queste domande nascono dalle considerazioni emerse durante e dopo il laboratorio «Il Consumo. I Km zero della tavola» a cui ho avuto il privilegio di partecipare durante la settima edizione della Summer School Emilio Sereni del 2015 dal titolo «I paesaggi del cibo». Il mio contributo guarda alle realtà dei farmers’ markets, community garden e urban farming, ossia i mercati rionali o mercati dei contadini, gli orti urbani e agricoltura di prossimità nella città americana di San Diego, in California. Lo scopo è di offrire spunti di riflessione per un confronto su realtà nate da esigenze simili, ma sviluppate in contesti culturali, storici, economici e politici differenti. In un momento in cui il locale e il globale s’intreccia costantemente, si sovrappone e a volte si fonde, avere uno sguardo aperto e attento verso realtà geografiche lontane può aiutare a vedere e capire le proprie problematiche locali con una nuova prospettiva. Sempre nella presentazione a Marcovaldo, Calvino scrive che «l’uomo contemporaneo ha perduto l’armonia tra sé e l’ambiente in cui vive, e il superamento di questa disarmonia è un compito arduo, le speranze troppo facili e idilliche si rivelano sempre illusorie»3. Il problema della relazione uomo e natura, se negli anni sessanta sarebbero potute essere interpretate come una provocazione, e Marcovaldo un ingenuo sognatore, rappresenta oggi una realtà indiscutibile. Troppo spesso, soprattutto nelle città, e in modo ancor più evidente nelle metropoli americane, è possibile notare persone usare il cellulare mentre camminano, attraversano la strada, o guidano. Non solo il livello di distrazione è aumentato, abbassando conseguentemente la capacità di concentrazione, ma soprattutto l’essere umano, di natura animale sociale, rimanendo costantemente “connesso” ai suoi mezzi elettronici si è gradualmente isolato, disconnesso dagli altri esseri umani, perdendo la consapevolezza e capacità di apprezzare ed essere immerso nel proprio ambiente circostante e naturale. Paradossalmente, questa recente forma di alienazione e distacco dal proprio habitat ha generato la nascita di movimenti locali legati all’ambiente e il cibo che direttamente e indirettamente stanno contribuendo a riavvicinare l’uomo alla natura rendendolo anche più consapevole del proprio impatto sull’ambiente. Nell’ultimo decennio le metropoli americane, tra cui San Diego, hanno visto il fiorire dei farmers’ market e degli orti urbani. Considerando San Diego come esempio di metropoli americana, questo contributo vuole evidenziare come la presenza dei farmers’ market e degli orti urbani stia cambiando non solo il rapporto con il cibo tra i cittadini americani, ma implementi anche una rinnovata consapevolezza del ruolo e del rapporto del cibo con l’ambiente e la natura, creando nel frattempo un’economia locale e alternativa alle corporazioni e alla grande industria alimentare e agricola. San Diego è l’ottava città più popolata degli Stati Uniti e la seconda 3  Ivi, p. xix. 208


Fig. 1 Mercato del sabato di Little Italy, San Diego. Banco degli agrumi. Questo banco offre anche spremute fresche.

della California. Famosa per il suo clima temperato, il sole e l’oceano, è una grande città turistica divisa dai canyon e dalle autostrade che passano nel centro urbano e che vive una realtà unica grazie alla sua posizione geografica di città confine con il Messico. Una città in sostanza bilingue con un’alta percentuale di messicani, San Diego vive le stesse contraddizioni sociali e razziali di altre città americane ma con l’apertura culturale propria della costa occidentale americana. I farmers’ market o mercati rionali di San Diego, rispetto all’Italia, sono organizzati settimanalmente nelle strade normalmente aperte al traffico. Ad oggi esistono circa 60 farmers’ market certificati dall’amministrazione agricola della contea di San Diego, la quale assicura che i prodotti venduti nei mercati siano coltivati dal venditore o un agricoltore certificato, provengano dalla California e raggiungano gli standard di qualità richiesti dallo stato4. La maggioranza dei contadini e dei prodotti venduti nei farmers’ market, sebbene non conoscano la filosofia della decrescita e il concetto espresso da Serge Latouche secondo il quale è da considerare “locale” ogni produzione alimentare che sia «stagionale, fresca, tradizionale, [e] agroecologica»5, sono locali e la loro offerta è in grado di sostituire 4  http://www.ediblesandiego.com/local-food/farmers-markets.html 5  S. Latouche, Come si esce dalla società dei consumi. Corsi e percorsi della decrescita. Bollati Boringhieri, Torino 2011, trad. Fabrizio Grillenzoni, p. 59. 209


la grande distribuzione offrendo, nello stesso tempo, un mercato ai piccoli distributori. Ogni quartiere principale ha il suo farmers’ market e per partecipare si paga una quota per l’affitto dello spazio del mercato all’organizzazione che si occupa dei farmers’ market. La quota d’affitto può cambiare in base al quartiere e la zona dove si svolge il mercato. Per offrire un’idea su come questo fenomeno si stia sviluppando e quale impatto abbia tra i cittadini, soffermerò la mia attenzione su tre casi specifici: New Roots Community Garden, Wild Willow Farm e Chino Farm. I primi due esempi sono realtà direttamente collegate ai farmers’ market, mentre Chino Farm offre un esempio di un’agricoltura a gestione familiare specializzata in varietà vegetali e frutti tradizionali di origine internazionale all’interno del centro urbano di San Diego, nella valle di San Dieguito. Partendo dal presupposto che le società dei paesi industrializzati, americane ed europee, comprendono oggi i più disparati scenari culturali, è importante considerare come realtà locali e globali si relazionino creando ambienti più sostenibili. Utilizzando spazi urbani, dai giardini delle case agli spazi vuoti tra i palazzi o le strade, dai canyon fino ai tetti dei grattacieli, i cittadini stanno creando risorse alimentari autonome e forme di reddito alternative. Allo stesso tempo, gli orti urbani e i farmers’ market rivitalizzano e spesso riproducono forme di agricoltura tradizionale. Grazie al cammino intrapreso negli ultimi decenni dalle diverse organizzazioni di orientamento sociale e ambientalista, gli orti comuni e urbani, insieme ai mercati dei contadini rappresentano oggi valide alternative e possibili soluzioni per le comunità locali per diventare maggiormente indipendenti dall’industria alimentare. New Roots è la prima organizzazione approvata dalla città di San Diego di orti comuni ed ha aperto la strada, a livello legale, alla creazione di nuove norme per la sicurezza alimentare nel centro urbano e al proliferare, negli ultimi 10 anni, di innumerevoli orti cittadini. Creato nel 2007, New Roots è un progetto associato ad IRC, International Rescue Committee, un’organizzazione umanitaria internazionale che si occupa di aiutare a ristabilire le condizioni di salute, economiche e di istruzione dei popoli vittime di conflitti e disastri ambientali6. Fondata nel 1933 da Albert Einstein come branca americana dell’europea International Relief Association (IRA), IRC oggi lavora in 40 paesi nel mondo e in 26 città americane aiutando i rifugiati ad integrarsi nei nuovi paesi che li hanno adottati. Il programma di New Roots di San Diego si concentra su vari progetti tra cui New Roots Community Farm, New Roots Aqua Farm, New Roots Fresh Farm Community Garden in El Cajon, New Roots Food Hub e i farmers’ market. New Roots Community Farm è situato in una fascia di terreno di circa un ettaro che divide le corsie della 54esima strada di San Diego, nel quartiere di City Heights. Lo spazio è stato reso coltivabile e diviso in lotti che sono stati dati in gestione ad oltre 85 famiglie di rifugiati. La maggioranza dei rifugiati ha origini contadine e per loro avere un appezzamento di terreno coltivabile è una preziosa opportunità di riconnettersi con la terra nel loro nuovo paese di residenza permettendogli allo stesso tempo di avere quella sicurezza alimentare che spesso manca quando si arriva in un nuovo paese. L’idea di creare New Roots Community Farm è stata proposta nel 2009 da un gruppo di rifugiati somali-bantu che espresse ad IRC il desiderio di iniziare a coltivare il proprio cibo. Costretti a lasciarsi improvvisamente alle spalle i propri averi ed affetti, uno dei primi ostacoli che i rifugiati incontrano negli Stati Uniti è la capacità di ricreare le proprie culture ed abitudini alimentari, o trovare il cibo tradizionale del proprio paese. Come spesso ha evidenziato Carlo Petrini negli ultimi trent’anni attraverso Slow Food, «Il cibo 6  http://www.rescue.org/about 210


Fig. 2 New Roots Community Farm nella 54esima strada, San Diego. Rifugiato africano intento alla cura del suo spazio, in cui coltiva senape indiana e diverse varietà di cavolo riccio. La rete dietro, dove cresce la pianta rampicante, divide l’orto dalla strada.

è ben più che un semplice prodotto da consumare: è felicità, identità, cultura, convivialità, nutrimento, economia di territorio, sopravvivenza»7. È nell’atto di cucinare cibi tradizionali, nell’assaporare gusti familiari, e soprattutto nella possibilità di usare prodotti culinari caratteristici del proprio paese che ci si sente finalmente a casa, che si può sorridere, che si è connessi, anche se solo nel periodo di un pasto, alle proprie radici culturali e territoriali. Molti rifugiati arrivano negli Stati Uniti in buona salute, ma dopo qualche anno vissuto alimentandosi con i bollini pasto cominciano a manifestare problemi di salute quali il diabete, l’alta pressione o l’ipertensione. Malaki Ogado, rifugiato dal Kenya, lavora al progetto di New Roots Aqua Farm e sottolinea che in una zona popolare come City Heights è più facile trovare un negozio di liquori, specializzato nella vendita di bevande alcoliche e pochi cibi confezionati, che un negozio di frutta e verdura. Sebbene siano presenti negli Stati Uniti molti ristoranti, negozi dove comprare alimenti, e fast-food, la scelta degli alimenti sani e freschi è molto limitata per la fascia di popolazione con un reddito basso. Spesso, per famiglie che vivono in zone come City Heights, è più facile ed economicamente accessibile comprare un pasto in un fast food che trovare tutti gli ingredienti necessari per cucinare un pasto fresco. I rifugiati non sono abituati a mangiare cibi industriali confezionati o nei fast-food, e spesso la loro salute è compromessa dai grassi e gli elementi chimici presenti in questi cibi. Tra gli argomenti principali che il gruppo bantu presentò ad IRC nel 2009 per far capire l’importanza di avere un orto urbano fu, oltre ad evidenziare l’aspetto culturale 7  Questa frase è presente nella copertina della nuova edizione del primo libro di C. Petrini, Buono Pulito e Giusto, Slow Food editore, Bra 2016. 211


legato al cibo, anche l’aspetto salutare. Per molti asiatici ed africani il cibo infatti costituisce soprattutto una medicina. Pryia Reddy, membro di IRC e organizzatrice amministrativa di New Roots, spiega in un’intervista che ogni cultura indigena ha una conoscenza innata di come cucinare un pasto che includa verdure, carne (o pesce), spezie ed erbe che, combinate nella giusta dose, offrono un pasto ricco di nutrimento e salutare. Poter usufruire di un orto urbano significa, per i membri delle 85 famiglie che hanno un appezzamento in gestione, avere l’opportunità di mantenere una sana alimentazione, essere collegati al loro paese e tradizione, poter alleviare l’incombenza economica di sfamare la propria famiglia e avere l’opportunità di vendere una parte delle loro coltivazioni nei mercati dei contadini dei quartieri di El Cajon e City Heights. Avere un appezzamento con IRC può anche permettere di vendere nei mercati dei contadini separatamente da IRC. È questo il caso del banco “African Sisters Produce” gestito da Idzai Mubaiwa, rifugiata per ragioni politiche dallo Zimbawe. Negli ultimi anni Idzai insieme ad altre 4 ragazze africane, ha adottato 3 lotti nell’orto della 54esima strada, un appezzamento nel Fresh Farm Garden della zona di El Cajon e un piccolo terreno nella zona di Ramona. Tra le verdure che Idzai coltiva ed è possibile trovare nel suo banco c’è la senape indiana, foglie di amaranto, cavolo nero e mais, che Idzai usa per cucinare sadza, un cotto a base di farina di mais, alimento base dello Zimbawe. Izda conferma che i prodotti coltivati sostengono l’alimentazione familiare e le permettono di vivere con gli introiti dei mercati contadini. Le verdure che non coltiva le baratta ai mercati con gli altri banchi. Wild Willow Farm e Chino Farm presentano due aspetti, differenti ma complementari,

Fig. 3 Idzai al mercato del giovedì di North Park, San Diego. 212


Fig. 4 Il banco di Wild Willow Farm al mercato dei contadini di North Park.

di nuovi contadini. Wild Willow Farm fa parte del progetto “San Diego Roots Sustainable Food Project”8 e svolge un’importante funzione educativa nel territorio e comunità della città9. I loro due ettari e mezzo di terreno si trovano a circa un km e mezzo dal confine con il Messico, vicino all’estuario del fiume Tijuana. Wild Willow Farm offre corsi di vario livello di agricoltura urbana sostenibile e corsi di orticoltura, entrambe divisi in una sezione teorica, insegnata all’Università di San Diego, e la parte pratica nei campi. La fattoria organizza anche visite scolastiche, tour e CSA (Community Supported Agriculture), un programma in cui il consumatore, o co-produttore, riceve a domicilio settimanalmente o ogni due settimane prodotti agricoli di stagione provenienti dalla fattoria. Ogni giovedì pomeriggio, Wild Willow Farm vende i propri prodotti al mercato dei contadini di North Park. La fattoria è un’organizzazione non-profit e impiega circa otto persone che coprono ruoli differenti: il responsabile alle vendite dei prodotti, l’educatore, il manager o responsabile dei campi, il direttore esecutivo, e il responsabile dei media. Infine, Chino Farm ha radici storiche più lontane, che risalgono a prima della Seconda Guerra Mondiale, ma la sua presenza contribuisce a offrire una nuova immagine e funzione 8  http://www.sandiegoroots.org/index.php 9  http://www.sandiegoroots.org/farm/index.php 213


del contadino contemporaneo. La fattoria, di gestione familiare, sorge oggi in un terreno di 22 ettari ed è gestita dai fratelli Tom, Frank (Koo), Fred (Fumio) e Kay (Kazumi) Chino. Il padre Chino Nojo si trasferì dal Giappone in California nel 1920. Stabilitosi inizialmente a Los Angeles lavorò nella comunità rurale della zona e riuscì, dopo vari anni, a prendere in affitto un appezzamento di terra nella valle di San Dieguito, nella zona di Rancho Santa Fe, a nord di San Diego. Durante la Seconda Guerra Mondiale la famiglia fu internata in Arizona, e nel dopo guerra tornò a San Dieguito dove riuscì a comprare, grazie anche ad un indennizzo dagli Stati Uniti, l’appezzamento di terreno in cui oggi la famiglia ancora vive e lavora. La fattoria Chino è famosa tra i maggiori chef dei ristoranti di San Diego per l’eccezionale qualità dei suoi prodotti e per la sua selezione internazionale. Nel suo banco, aperto al pubblico tutte le mattine e situato alle porte della fattoria, è possibile trovare frutta e verdura di stagione tra cui fragole dolci francesi, puntarelle romane, agretti, cavoletti di bruxelles viola e molte verdure giapponesi. Sebbene i suoi prodotti siano ricercati e possano essere considerati di nicchia, Tom Chino, responsabile dei campi, continua a vivere la semplice vita del contadino. Ogni giorno si sveglia alle 4 del mattino per svolgere i suoi doveri e mansioni quotidiane. Una persona di natura timida e riservata, con le giuste domande Tom s’illumina e apre il suo mondo all’interlocutore. Un mondo fatto di esperienza e saggezza in cui ogni elemento legato all’agricoltura e ai suoi prodotti è ricercato e curato nei minimi dettagli. Le storie sopra riportate sono solo tre delle diverse realtà presenti a San Diego legate a un approccio verso il cibo più ecosostenibile, salutare e che sostenga un’economia locale. Realtà che stanno fiorendo in ogni angolo del pianeta e di cui la città sopra indicata è solo un semplice esempio. La scelta delle storie descritte è stata dettata dal loro impatto non solo nel settore alimentare ed agricolo, che negli Stati Uniti è ancora controllato in

Fig. 5 Tom Chino che mostra uno dei suoi piccoli cavoletti di bruxelles. 214


maggioranza dalle grandi corporazioni e multinazionali, ma anche e soprattutto per il loro valore a livello sociale ed economico. Il mio augurio è che la storia di New Roots Community Garden, un’organizzazione non profit che lavora con le istituzioni locali, possa servire come spunto di riflessione e ispirazione su come gestire e trasformare, ad esempio, la condizione di sfruttamento degli immigrati in Italia nel settore agricolo, spesso arrivati anche loro come rifugiati. Non si tratta solo di impiegare mano d’opera, ma anche di rispettare e possibilmente integrare, in un mondo che vede il globale ogni giorno sempre più presente nel locale, culture e radici disparate e lontane anche nelle tradizioni legate al cibo. Infine, Wild Willow Farm e Chino Farm dimostrano che l’agricoltura biologica di piccola o media gestione è un settore in crescita ed apprezzato dai cittadini, come anche le recenti scelte professionali dei giovani italiani attestano. La sua rilevanza non si ferma solo sul piano lavorativo o professionale. I nuovi contadini dimostrano di avere una coscienza rinnovata che integra la sapienza e tradizione contadina locale con una consapevolezza, oggi indispensabile, dell’impatto ecologico e ambientale del proprio lavoro. In conclusione vorrei sottolineare il potere intellettuale, teorico e pratico, del condividere le storie e della letteratura in generale, citando la postfazione a Genuino Clandestino di Wu Ming 2: «la narrazione ci viene in soccorso quando non vogliamo ‘fare della teoria’. […] Raccontare, dunque, per conoscere e non solo per farsi conoscere. Per allargare una comunità che già esiste. […] Raccontare per contare, cioè per censire, ma anche per conquistare autorevolezza. Per capire quali pratiche contano e quali invece non sono importanti»10.

Bibliografia I. Calvino, Marcovaldo, Oscar Mondadori, Milano, 35 ristampa, 2012. S. Latouche, Come si esce dalla società dei consumi. Corsi e percorsi della decrescita, trad. It. F. Grillenzoni, Bollati Boringhieri, Torino 2011, C. Petrini, Buono, pulito e giusto. Slow Food editore, Bra, 2016 (ristampa). M. Potito, R. Borghesi, Genuino Clandestino. Viaggio tra le agri-culture resistenti ai tempi delle grandi opere, Sara Casna, Michele Lapini (fotografie), postfazione WU MING 2, Terra Nuova edizioni, Firenze, 2015.

Sitografia (ultime consultazioni maggio 2016) www.ediblesandiego.com www.rescue.org www.sandiegoroots.org 10  M. Potito, R. Borghesi, Genuino Clandestino. Viaggio tra le agri-culture resistenti ai tempi delle grandi opere, Sara Casna, Michele Lapini (fotografie), postfazione WU MING 2, Terra Nuova edizioni, Firenze 2015, p. 264. 215



PARTE IV EDUCARE AL PAESAGGIO



Educazione al Paesaggio e educazione alimentare

Mario Calidoni

In un piccolo paese del parmense, a Soragna, è stato creato il museo del formaggio Parmigiano/Reggiano - uno dei sei musei del cibo sinora sorti in provincia di Parma - É collocato in un caseificio storico, di forma tonda, parte di una “corte agricola” che sino agli anni ‘50 del secolo scorso lavorava a km. 0 Il latte prodotto nella stalla del podere e in piccole stalle di poderi confinanti. Al termine della visita un assaggio e la pubblicità del prodotto con paesaggi di pianura e delimitazione della zona di produzione; con il racconto, tra mito e realtà, della necessità di aggiungere caglio durante la lavorazione del latte per ottenere formaggio di pasta dura. Il monaco medievale che si recava all’eremo in solitudine portava latte nello stomaco di un vitello, usato come contenitore, per la sua alimentazione; stomaco che contiene il caglio che fa coagulare il latte. Si capì meglio come l’aggiunta di quell’ingrediente consentisse, con una attenta lavorazione, di avere un formaggio in grandi forme con il latte proveniente dalle vaccherie che sorgevano nei pressi dei monasteri della pianura bonificata grazie ai lavori compiuti dai monaci stessi. Dunque un grande racconto dal Medioevo ad oggi lungo la via del formaggio e delle sue virtù nutritive in un paesaggio di prati irrigui per la produzione del foraggio, alimento primario per le mucche. Un esempio notissimo che dimostra il legame tra paesaggio, paesaggio agrario e cibo termini che si intrecciano quando si “pensano” a scuola per la formazione e che inoltre connette il locale con il globale. Il Parmigiano, re dei formaggi, è noto in tutto il mondo ma la sua produzione è localizzata in modo preciso, nel territorio denominato “Isola del Tesoro”, tre province, Parma, Reggio e Modena e alcuni piccoli sforamenti a Mantova e Bologna. Un esempio scontato per dimostrare che quando si parla di cibo il riferimento al paesaggio che lo ha prodotto non solo qualifica il cibo stesso ma lo rende vero, “umano”. La pubblicità ha ben compreso questa dimensione antropologica e la sfrutta. Così i biscotti sono quelli del “Mulino Bianco”, per citare un caso notissimo, luogo e ambiente della tradizione. A scuola la necessità di approcciare il tema/i temi in modo integrato ha una legittimazione che può, a nostro parere, essere riassunta in tre grandi ambiti: • la ragione di carattere pedagogico, • la ragione di carattere culturale, • la ragione di carattere esperienziale, a scuola si mangia.

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La ragione di carattere pedagogico Educare alla vivibilità è un paradigma pedagogico che entra oggi di prepotenza nei compiti assegnati ad una società ed alla sua scuola. In un contesto complesso caratterizzato sempre più dalla globalità e dalla interdipendenza tra gli uomini e le risorse, vengono richiesti comportamenti individuali e collettivi che presuppongono una inedita cultura nella quale le componenti del paesaggio e dell’alimentazione sono elementi vitali. Ugo Morelli parlando della “vivibilitá” la definisce come quel paradigma che si situa al punto d’incontro tra memoria e futuro che non può esistere senza l’attenzione alla storia e neanche senza un’idea di progetto. Il paesaggio “appare essere un ambito di straordinario interesse che muovendo dal rapporto uomo - natura è capace di connettere temi per comprendere il passato, vivere il presente e progettare il futuro”. Analogamente può essere evocato il bisogno primario dell’uomo dell’alimentazione avendo come principale riferimento una vivibilità/benessere appropriato per le nuove generazioni appunto attraverso ciò che si mangia. La recente esperienza di Expo 2015 ci ha messo prepotentemente davanti questi scenari di paesaggi della conservazione, della perdita, della invivibilità ecc... come suggestione dei cibi del passato, insieme ai nuovi cibi, alle nuove forme di alimentazione con le responsabilità che ne conseguono rispetto a scelte individuali e collettive di comportamenti alimentari che cambiano il volto del nostro mondo. Il panorama oggi è quello di una pluralità di categorie di consumatori che si riconoscono in gruppi omogenei e si sta sviluppando anche la categoria di coloro che si propongono di scegliere il cibo in base all’impatto ambientale. Quanto costa in acqua, consumo del suolo etc… una bistecca? Ecco un criterio di scelta. Sempre Morelli parla del paesaggio come di una sorta di lingua madre che si apprende con la vita che nasce e contiene il codice originario della nostra appartenenza come il latte materno e la prima alimentazione che segna con la tradizione e le scelte nutrizionali parte delle abitudini alimentari. Non per nulla varie ricerche hanno dimostrato che la memoria più persistente in coloro che migrano è quella del cibo dei paesi che hanno lasciato con processi di ibridazione e di trasformazione continui.

La ragione di carattere culturale La cultura alimentare è divenuta una forma di conoscenza della realtà che ha ed ha avuto sempre le sue manifestazioni nella letteratura, nell’arte, nella vita quotidiana e per questo la sua conoscenza storica svela la trama di simboli e significati che stanno dietro alle scelte di ogni giorno, dei giorni di festa e delle occasioni particolari della nostra vita e della vita della società. La cultura alimentare è comunque legata indissolubilmente all’ambiente che l’ha prodotta perché storicamente legata alla terra vicina alle diverse popolazioni ed ai paesaggi agrari che producono i vari cibi, li hanno rielaborati nel tempo e hanno fatto degli stessi elemento di identità. Il pane azzimo, eucaristico, dell’angelo ecc. segna identità religiose. L’ulivo, il grano, il riso, il mais hanno segnato civiltà secolari. Distinguersi socialmente, segnare una identità sociale, ha significato nella storia non mangiare cibi vicini ma “avere cavalli e moneta” (come diceva un grande cuoco della Famiglia Gonzaga di Mantova) per acquistare cibi esotici e farne sfoggio tra i nobili. La grande svolta dell’industrializzazione agraria e della globalizzazione hanno messo in 220


crisi questi rapporti tra cibo, identità culturali e di paesaggio creando la sindrome della perdita che omologa e rende indifferente consumare lo stesso cibo in qualsiasi parte del mondo. Per reagire, sempre più frequentemente si parla di ritorno alla tradizione e di rinnovamento della stessa con le formule del Km. 0 e della territorialità. Contemporaneamente però i temi dell’innovazione dell’agricoltura e della domanda mondiale di cibo premono perché il cibo è anche questione di giustizia. L’educazione al paesaggio e l’educazione alimentare devono deve fare i conti sempre più con questa situazione apparentemente contraddittoria del cibo espressione di una cultura, del cibo elemento primo di giustizia sociale e del cibo di qualità per tutti. L’educazione alimentare esce così da riduzionismi scientifici o esclusivamente nutrizionali per misurarsi con i grandi problemi dell’umanità, e della identità planetaria. I valori della cultura del cibo, dalla convivialità, alla sacralità, all’equa distribuzione ed alle modalità della sua produzione, sono nuovi contenuti scolastici perché attraverso di essi passa la formazione del cittadino planetario. In questo compito le due educazioni di cui stiamo parlando hanno un valore aggiunto. Alcuni sostengono che solo nella storia del cibo nei vari ambienti non c’è stata quella rottura traumatica con il passato che ha caratterizzato altri ambiti di vita. Quindi il cibo del territorio è contenuto privilegiato per mantenere la continuità con il passato che la modernità ha brutalmente alterato con la perdita di memoria degli spazi, delle culture, delle intelligenze pratiche e teoriche che li hanno prodotti. Saperi e sapori, slogan che viene normalmente evocato per ricordare questi problemi, rende sinteticamente la problematica.

La ragione di carattere esperienziale, a scuola si mangia Il terzo paradigma che lega educazione al cibo ed educazione al paesaggio è di carattere istituzionale e fa riferimento al tempo scuola della mensa oltre che al significato che nella scuola democratica ha appunto il tempo mensa. La “refezione/mensa” oggi chiamata “ristorazione scolastica” ha attraversato i diversi tempi della scuola della società democratica dal dopoguerra ad oggi. Dapprima strumento di aiuto all’indigenza, poi elemento essenziale per la scuola esperienza di vita (si pensi al tempo pieno come modello scolastico), ancora come risposta all’ingresso della donna nel mondo del lavoro che ha comportato allungamento del tempo scuola; oggi è tutto questo ma pure strumento primario per educare alla “vivibilità”. Le “linee di indirizzo nazionali per la ristorazione scolastica” si basano infatti sui principi della sana alimentazione e della territorialità nella consapevolezza del rispetto delle diverse istanze religiose ed ideologiche. La mensa a scuola è sempre momento formativo e conoscitivo se vissuto consapevolmente. Può e deve essere considerato l’evoluzione e la trasformazione del pranzo in famiglia con i suoi valori, la sua convivialità nella grande famiglia scolastica consapevole delle diversità e dei mutamenti. D’altra parte una indagine recente sul cibo dei ragazzi delle scuole medie ha evidenziato che solo il 44% degli intervistati ha un’idea corretta di OGM e solo il 16% sa di che cose si tratta quando si parla di filiera corta. (Indagine Coop. Società Italiana medicina Adolescenza e laboratorio adolescenti).

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Lo storico dell’alimentazione Massimo Montanari, apre il suo libro “il pentolino magico “rivolto ai ragazzi e riedito nel 2015 a 20 anni dalla prima edizione, con la fiaba omonima dei fratelli Grimm. È la storia della ragazza povera che nel bosco incontra una vecchia che le regala un pentolino magico. Bastava dirglielo e il pentolino faceva la pappa; ma bisognava conoscere anche il modo di fermarlo. Così un giorno che l’ordine al pentolino venne dato dalla mamma della ragazza che non sapeva come fermarlo, il pentolino continuò a produrre pappa senza limite. Il bosco venne invaso e distrutto, l’abbondanza creò disagio e il “sapere pratico” per governare la produzione di cibo rischiò di essere dimenticato. Ci pare una bella metafora per sottolineare l’importanza di educare al cibo e all’uso delle risorse nel rispetto del bosco.

Nota Questo contributo riprende alcuni temi sviluppati nel corso della “Tavola Rotonda educazione alimentare e paesaggio” del 28 agosto 2015 nell’ambito della Summer School Paesaggi del cibo nel corso della quale sono state presentate le seguenti esperienze didattico/formative: 1. Children park, giro attorno al pianeta e al futuro. Otto installazioni interattive con le quali i bambini possono insieme riconoscere i profumi del cibo, apprendere il valore dell’acqua, viaggiare nel regno vegetale, entrare in relazione con gli alberi, sperimentare effetti dell’energia, scrivere e lanciare messaggi per il pianeta. (A cura di Reggio Children s.r.l.). 2. Il paesaggio agrario della bassa, la grande trasformazione, mostra documentaria sul paesaggio agrario della Bassa al Museo del Mondo Piccolo di Fontanelle di Roccabianca (PR) realizzata dagli alunni delle classi V del Liceo P. Toschi di Parma con i lavori e i documenti raccolti dagli alunni di scuole di prossimità e da collezionisti locali. (A cura di M. Calidoni, R. Cacciali, M. Ugolotti). 3. Esperienze di attività didattiche sulla relazione tra cibo e paesaggio realizzate dai docenti: F. Frignani IIS “Nelson Mandela” Castelnuovo Monti A. Di Nisco Liceo pedagogico “Canossa” Reggio Emilia L. Borghi Scuola Sec. di Primo grado Fermi Rubiera (RE)

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Bibliografia L. Bonesio, Paesaggio, identità e comunità tra locale e globale, Diabasis, Reggio E. 2015. G. Cepollaro, U. Morelli Paesaggio, lingua madre, Erickson, Trento, 2014. B. Castiglioni, Educare al paesaggio, Council of Europe e Museo di Storia naturale, Montebelluna (TV), 2010. B. Castiglioni, M. Celi, E. Gamberoni, Il paesaggio vicino a noi, Atti del convegno, Museo di Montebelluna (TV), 2007. La vita scolastica, rivista per la scuola primaria, articoli Educazione alimentare a.s. 2014/2015 e 2015/2016. Quaderni didattici, Musei del cibo della Provincia di Parma, scaricabili dal sito www. museidelcibo.it. Linee guida per l’educazione alimentare nella scuola italiana, MIUR, 2011.

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Il pesaggio agrario. La grande trasformazione Museo Mondo piccolo, Fontanelle di Roccabianca (PR) Rosita Cacciali

Da alcuni anni il Museo Mondo piccolo analizza il paesaggio della bassa in collaborazione con le scuole di prossimità e realtà di collezionisti emerse nel corso degli anni nell’ottica di sensibilizzare la collettività alla logica partecipativa ed alla prospettiva di sviluppo sostenibile che vengono ritenute fondamentali anche nella Carta di Siena proposta da ICOM alla conferenza internazionale di Siena del 7 luglio 2014. Quest’anno, in coincidenza con EXPO, abbiamo posto la nostra attenzione anche al cibo, all’alimentazione: la riscoperta odierna dei cibi poveri, dei prodotti della nostra terra è un invito a non dimenticare una continuità sostenibile che riguarda soprattutto il paesaggio agrario. Siamo partiti dalla trasformazione parallela che hanno subito cibo e paesaggio: prima della grande trasformazione introdotta dalle macchine agricole nel paesaggio agrario era evidente uno stretto rapporto tra il campo e la tavola che mano a mano è stato allentato. Per creare una coscienza in questo senso, la nostra idea è stata quella di indagare la grande trasformazione, in particolare per l’anno scolastico 2014/15 abbiamo chiesto la collaborazione, oltre che delle scuole di prossimità che hanno lavorato su tematiche precise, anche dell’Istituto d’arte Paolo Toschi di Parma. Grazie alla collaborazione del Prof. Mario Ugolotti hanno lavorato all’allestimento di questa mostra due classi quinte del corso di architettura. Si è creato un modello per una mostra che cerca di interrogare con lo sguardo dei giovani la grande trasformazione del paesaggio avvenuta in maniera traumatica a partire dalla metà del secolo scorso. Il museo diventa un vero presidio culturale attivo nella tutela del patrimonio culturale non impegnandosi soltanto nella conservazione e nell’esposizione delle proprie collezioni, ma anche nella produzione, elaborazione e diffusione delle conoscenze a diversi livelli. Giovani diciottenni si concentrano su parole, immagini, ricostruzioni, su oggetti estrapolati dal loro contesto e dalla funzionalità che gli era propria per raccontare una sensibilità e impedire che le trasformazioni del paesaggio ne cancellino e ne degradino i tratti identitari. Per questo è stata fondamentale l’idea della mostra elaborata dai ragazzi dell’Istituto Paolo Toschi concepita come un percorso a scuola nel museo accompagnato però da altre realtà che si fanno componenti attive di questo impegno che si è preso il museo, che è la gestione e la cura del patrimonio e l’attenzione alle rappresentazioni che identificano e connotano il paesaggio stesso. 225


Fig. 1 Fotografie e strumenti del lavoropresenti esposti all’interno del percorso museale.

Queste realtà sono molto eterogenee, ma perfettamente amalgamate nell’esprimere il senso di questa trasformazione nel percorso della mostra: sono le scuole che hanno visitato il museo nel corso dell’anno e che hanno esaminato alcuni tratti della trasformazione, sono i collezionisti che hanno fornito oggetti e le macchine che hanno avviato le riflessioni, sono istituzioni come l’Archivio di Stato di Parma e la Biblioteca del Comune di San Secondo che hanno fornito materiali utili a comprendere la trasformazione, sono i fotografi che hanno rappresentato nella loro immagini il paesaggio. Il lavoro di allestimento è partito analizzando il museo stesso e rendendosi conto della necessità di non snaturare il normale percorso, per cui le riflessioni sul paesaggio e sulla sua trasformazione si sono andate ad inserire su un percorso già esistente arricchendole. È stato analizzato il paesaggio agrario come luogo del cambiamento prendendo in esame i luoghi che connotano il paesaggio della bassa (la terra, l’acqua e il “mondo di mezzo” cioè la golena) spiegando come su questi elementi siano andati ad incidere le prime grandi trasformazioni, ossia le bonifiche. In questo contesto si è poi analizzato come l’uomo e il suo lavoro siano andati ad operare sul paesaggio stesso. I ragazzi hanno selezionato oggetti non di proprietà del museo, ma di un collezionista privato per far emergere, oltre all’uso che degli oggetti veniva fatto una serie di gesti e di racconti di vita che da questi emergono. Da qui l’idea di una sorta di libreria con i fondali tratti da un manoscritto conservato all’Archivio di Stato di Parma. L’ulteriore analisi verte su come il paesaggio era vissuto dove la casa rurale diventa tutt’uno con il paesaggio agrario, ponendo particolare attenzione all’ambiente della cucina 226


come luogo in cui il cibo diventa parte integrante del paesaggio e da cui nasce anche il sapere del mondo contadino conservato nei testi delle biblioteche popolari circolanti, oltre che nei racconti orali che trovavano spazio nel mercato contadino luogo per eccellenza della comunitĂ , considerato vero e proprio bene culturale antropologico.

Figg. 2, 3 Allestimento e modellino realizzati dagli alunni dell’Istituto d’arte P. Toschi di Parma. 227



Il Children Park di Expo Milano 2015

A cura di Annamaria Mucchi

Dal 1° maggio al 31 ottobre 2015 Milano ha ospitato l’Esposizione Universale Nutrire il Pianeta, Energia per la Vita: non solo un’importante rassegna, ma anche un processo partecipativo finalizzato a stimolare il confronto e a proporre soluzioni alla sfida decisiva della sostenibilità alimentare e ambientale a livello mondiale. Nel sito di Expo 2015, l’Organizzazione ha sviluppato direttamente il tema dell’evento in quattro aree (un quinto padiglione tematico era presso la Triennale di Milano), una delle quali è stata pensata in particolare per coinvolgere bambini e famiglie in un percorso di conoscenza, di incontro e di esperienza: il Children Park. La scommessa di questa area – la cui ideazione e progettazione è stata affidata da Expo Milano 2015 all’Istituzione Scuole e Nidi d’infanzia del Comune di Reggio Emilia e a Reggio Children – è stata quella di riuscire a interessare e a divertire i bambini nell’esplorare il tema della vita e della sostenibilità del pianeta Terra con approcci e linguaggi diversi. Attraverso le otto grandi installazioni interattive collocate nel Parco, i bambini hanno potuto vivere un’esperienza coinvolgente, sensoriale ed educativa: collaborando insieme hanno riconosciuto i profumi del Cibo giocando con le erbe aromatiche, hanno appreso il valore e la preziosità dell’Acqua, hanno viaggiato nel regno vegetale e animale fra Micro e Macrocosmo cogliendone le connessioni, sono entrati in una relazione empatica con gli Alberi, hanno sperimentato gli effetti inaspettati dell’Energia che si sviluppa da una pedalata collettiva, hanno potuto lanciare e scambiare messaggi per il futuro del Pianeta. L’idea sottesa a queste attività è stata quella di sensibilizzare i bambini e le famiglie (oltre 260.000 ingressi nei sei mesi di apertura del sito espositivo) perché percepissero che la conoscenza, la consapevolezza dell’interdipendenza tra gli esseri viventi e la solidarietà con gli altri e con l’ambiente sono condizioni indispensabili per il futuro di tutti. Un percorso, quello del Children Park, progettato a partire dalla cinquantennale esperienza dei nidi e delle scuole dell’infanzia comunali di Reggio Emilia che da sempre valorizza le strategie di conoscenza, di relazione e sperimentazione proprie dei bambini e 229


che sostiene l’importanza di promuovere anche la bellezza e la cura del paesaggio e degli ambienti. L’approccio estetico è infatti per i bambini un approccio conoscitivo, una chiave per leggere la realtà e per interpretarla. Nella convinzione che l’estetica dei luoghi e la cultura dell’infanzia possano costruire una relazione efficace, il Parco è stato progettato – dal punto di vista architettonico e del paesaggio – come un frammento di “natura addomesticata”, dove si intrecciavano naturale e artificiale. Anche le installazioni per le attività dei bambini sono state poste sotto grandi “rocchetti” che si rifacevano a un linguaggio organico e vegetale, accompagnati e integrati da una comunicazione visiva e da immagini provenienti dal vitale e sorprendente universo espressivo infantile: un ulteriore elemento, questo, per dare visibilità ai valori della cultura dell’infanzia elaborata a Reggio Emilia.

Gruppo di progetto Children Park curatore: Sabina Cantarelli coordinamento: Reggio Children progetto pedagogico: Reggio Children grafica e comunicazione: Reggio Children design e architettura: ZPZ Partners design dei servizi: Stefano Maffei

Fig. 1 Le installazioni per le attività dei bambini nel Children Park di Expo Milano 2015. 230


Il pensiero ecologico nell’esperienza educativa del Comune di Reggio Emilia

Maddalena Tedeschi

«Siamo – e bisogna che ne siamo convinti – all’interno di un ecosistema: il nostro viaggio terreno è un viaggio che si fa insieme all’ambiente, alla natura, al cosmo; il nostro organismo, la nostra moralità, la nostra cultura, il nostro conoscere, i nostri sentimenti si connettono con l’ambiente, con l’universo, con il mondo. E qui sta la ragnatela della nostra vita». L. Malaguzzi1 L’approccio educativo dei nidi e delle scuole dell’infanzia del Comune di Reggio Emilia trova nel pensiero ecologico uno dei suoi fondamentali: il pensiero ecologico e/o sistemico si può intendere, infatti, come tratto che qualifica la dinamica dell’intero progetto culturale dell’esperienza del Reggio Emilia Approach. La genesi di questa elaborazione sta nella dichiarazione che ogni bambina e ogni bambino nascono predisposti alla costruzione di relazioni. Ogni persona è portatrice di differenze e di potenzialità: queste ultime diventano possibilità se si sviluppano non come segni del destino, ma come opportunità offerte a ogni bambina e bambino affinché si realizzino. Heinz von Foerster diceva che non dovremmo parlare di «essere umano», ma di «divenire umano»2. Dovremmo cioè comprendere le possibilità della generatività umana come condizione indispensabile per ogni persona: le diverse abilità di cui siamo dotati sono un potenziale “in trasformazione”. Siamo corpo/mente interdipendenti dall’ambiente naturale e culturale. La scuola ha la responsabilità di creare le migliori condizioni possibili affinché ogni persona possa modificarsi in relazione al contesto in cui vive: è necessario immaginare e realizzare uno “spazio” di possibilità affinché ogni soggetto possa esprimere al meglio le proprie potenzialità. Questo processo di relazione tra il soggetto e il contesto di vita e di apprendimento necessita di un pensiero sistemico capace di immaginare e organizzare un curriculum che comprenda diverse dimensioni, linguaggi, esperienze. 1  Dalla relazione di Loris Malaguzzi a un incontro sulla progettazione alla scuola dell’infanzia, 1988. 2  H. Von Foerster, Sistemi che osservano, Astrolabio, Roma, 1987. 231


Fondamentale è costruire un percorso di apprendimento individuale e di gruppo, dove le buone pratiche didattiche si strutturano su una “ecologia” di relazioni capaci di includere luoghi, tempi, condizioni opportune e valorizzanti per bambini e adulti, una ecologia intesa come struttura connettiva, che dà valore alla dinamica del dialogo tra i diversi protagonisti delle relazioni quotidiane che si sviluppano nei nidi e nelle scuole: bambini, adulti, spazi, materie, strumenti. Uno sviluppo comunicativo strutturato in un’idea di costruzione processuale e in divenire del proprio apprendimento e dell’apprendimento in gruppo. Sono questi tratti importanti per consentire a ogni essere umano di essere portatore di diritti, di libertà, di gioia, di apprendimento, nell’idea di una conoscenza come processo/ prodotto della persona in relazione con gli altri, come condizione per attivare e scoprire ricerca, curiosità, creatività. Questa condizione si alimenta all’interno di spazi e ambienti amabili, accoglienti, interessanti, capaci di proporre domande e desideri di conoscere. La molla di questa dinamica sta nel costruire contesti di apprendimento che sappiano sorprendere e stupire bambini e adulti, dove la creatività, la logica e l’argomentazione dominano il pensiero.

Figg. 1, 2 La piazza centrale della Scuola dell’infanzia comunale e Scuola primaria statale al Centro Internazionale Loris Malaguzzi, Reggio Emilia

Il progetto educativo del Comune di Reggio Emilia si connota come condizione evolutiva e trasformativa in divenire, dove la ricerca degli ascolti plurimi dei differenti punti di vista diventa pensiero ecologico, dove la didattica del quotidiano – basata sulla ricerca come ascolto empatico tra le cose, i punti di vista, le relazioni – è forma di pensiero e di dialogo attivo con il mondo. Le bambine e i bambini, nella loro sensibilità di ascolto e dialogo, colgono l’essenzialità delle “cose” nelle loro matrici: hanno infatti attitudine all’incontro con i soggetti del mondo, 232


creano fili di narrazioni che intrecciano natura e cultura, parlano dell’altro parlando di sé. Colori, forme, profumi, sapori sono i veicoli di questo dialogo tra le diverse identità, tra bambini e soggetti viventi, in una dimensione coevolutiva che aspira a un futuro ottimista. Come ci ricorda Daniele, 5 anni: «La natura è fatta per nascere. La natura è tutto che tiene su il mondo»3. Lasciamo ora la parola a Beatrice e Cecilia, due bambine di 5 anni della Scuola comunale dell’infanzia al Centro Internazionale Loris Malaguzzi, e alla loro ministoria Biografia di un sasso, costruzione e narrazione dell’identità e della storia di un sasso.

Figg. 3, 4, 5 Mi piace questo perché è ruvido e brilla. Questo è liscio e mi piace quando rotola. Se li fai girare, sembra che diventano tondi tondi, sempre più piccoli. Beatrice 3  I. Cavallini, M. Tedeschi (a cura di), I linguaggi del cibo. Ricette, esperienze, pensieri. Reggio Children, Reggio Emilia, 2007. 233


Figg. 6, 7 , 8, 9 Indagini nell’atelier della Scuola: Sono stati creati in modi diversi. Cecilia 234


Fig. 10 Questo [1] diventa sempre più piccolo quando rotola.

Fig. 11 Questo [2] è l’ultimo; è il più bello perché è rotolato tanto nell’erba e ha fatto queste decorazioni. Poi è caduto nel fiume e si è sciacquato e ha preso il colore dell’acqua. È diventato colore muschio perché c’era il muschio dentro all’acqua e poi ha preso delle alghe e ha fatto come l’erba, tipo delle spirali e delle ondine. È lo stesso sasso che ha fatto la sua trasformazione. Beatrice Testo e immagini © Scuole e Nidi d’infanzia - Istituzione del Comune di Reggio Emilia 235



Proposta di lavoro interdisciplinare a scuola La settimana del paesaggio: conoscere, interpretare e vivere il paesaggio che ci circonda. Luciana Borghi

Un orto nel nostro paesaggio: curare la terra per nutrire la vita Tempi: Una settimana da scegliere nel calendario, dopo il confronto con il C.d.C. Obiettivi: • conoscere il paesaggio come bene comune, frutto dell’interazione tra uomo e natura; • conoscere il paesaggio come parte del patrimonio culturale, tutelato in Italia dalla Costituzione (art. 9), dalla Convenzione Europea del paesaggio, dal Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio, menzionato dagli Orientamenti scolastici del 2012 come contenuto privilegiato scolastico; • conoscere il paesaggio come fattore relazionale e di identità territoriale per l‘individuo e la comunità locale; • capire la necessità di una visione unitaria, interdisciplinare del territorio agricolo e del paesaggio per meglio comprendere le connessioni reciproche tra i diversi aspetti che lo formano; • capire che l’agricoltura e l’urbanistica sono i settori più importanti per la salvaguardia del paesaggio e per la sua evoluzione; • capire come la pianificazione dell’agricoltura e dell‘urbanistica devono essere orientate da una conoscenza-tutela-valorizzazione del paesaggio che tuteli il sistema agricolo, gli ecosistemi e i beni culturali. Contenuti: • Arte: il paesaggio nell’arte, dai romani ai nostri giorni e/o paesaggio come fonte di ispirazione artistica. • Geografia: definizione attuale di territorio, i diversi tipi di agricoltura attuale. • Musica: paesaggio come fonte di ispirazione artistica, ma anche la musica come elemento che valorizza il paesaggio. • Tecnica: riciclo, energie pulite, sostenibilità nelle attività umane come rispetto dell‘ambiente e dell‘atmosfera o il diverso rapporto tra città e 237


campagna che c’è oggi rispetto al passato. • Italiano: il paesaggio che è intorno a noi ha una storia, ricerca e racconto a grandi linee, sui diversi aspetti del paesaggio di Rubiera dalla sua origine ad oggi. I paesaggi si spiegano con l’ascolto degli altri, intervista ad anziani su uno o più luoghi importanti di Rubiera. Elaborazione della o delle interviste e riflessione del rapporto tra individuo e paesaggio e comunità e paesaggio nel passato e oggi. • Storia: il paesaggio nel medioevo attraverso la lettura del ciclo dei mesi della torre del Castello del Buonconsiglio di Trento. • Scienze: paesaggio, uno spazio per la biodiversità e/o ipotesi sul cambiamento climatico attuale e sue possibili influenze sul nostro paesaggio attuale. • Motorie: diversità tra il movimento all‘interno di una palestra e all‘interno di un gradevole paesaggio attuale. • Cittadinanza: lettura e riflessioni sull’art. 9 della Costituzione, sulla Convenzione Europea del paesaggio e sul Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio. • Religione: S. Francesco e S. Benedetto, due visioni del paesaggio che hanno influenzato la costruzione del nostro paesaggio. • Matematica: il valore economico del paesaggio. • Inglese: le parole del paesaggio. • Francese: le parole del paesaggio, termini in lingua, che si usano per descrivere il nostro paesaggio.

Esito dell’attività svolta Parte del lavoro svolto è stato illustrato più nel dettaglio in sei articoli tratti da “Cronisti di classe”, attività proposta dal quotidiano “Il Resto del Carlino” a cui le due classi hanno partecipato durante l’anno scolastico. Segue uno degli articoli pubblicati: I nostri insegnanti hanno proposto alle nostre due classi di fare un orto a scuola per vedere più da vicino come, nel paesaggio che ci circonda, nasce ciò di cui ci cibiamo quotidianamente. Per rendere il mondo migliore e non inquinato, anche per le generazioni future, è necessario tener conto del cibo, come e dove vengono coltivati i prodotti da cui si ricava e che uso ne viene fatto. Per creare il futuro bisogna conoscere il passato, quindi anche per coltivare e produrre alimentazione insomma, per fare coltura , ci vuole cultura. Questo argomento lo abbiamo affrontato varie volte nel corso dell’anno scolastico che si è incentrato sull’ambiente e sull’orto, pur rispettando il programma scolastico. Da settembre a novembre sono stati invitati a scuola degli esperti in campo agricolo, tecnologico e alimentare che hanno eseguito delle lezioni formative per gli alunni. Dando consigli utili per la costruzione dell’orto. Dopo le lezioni teoriche, abbiamo cominciato a fertilizzare il nostro terreno con la cenere, il letame, e le foglie di caco decomposte: tutto ciò ha reso il terreno più fertile. Alla fine di novembre abbiamo piantato aglio e cipolla, a gennaio si iniziavano 238


Fig. 1 Lavoro di gruppo: togliamo le erbacce.

Fig. 2 Esperimenti: in quali terreni le piante vivono meglio? 239


a intravedere i risultati della semina e a maggio è avvenuta la raccolta. Le lezioni formative per l’orto sono continuate per tutto l’anno scolastico. Ad aprile, insieme ad un nonno di un nostro compagno, abbiamo vangato e zappato a mano il terreno non ancora coltivato. Successivamente siamo andati ad acquistare semi biologici perché il nostro obiettivo è di avere un orto privo di sostanze chimiche. Si è poi seminato rapanelli, lattuga, bietole, zucchine e diverse erbe aromatiche: alloro, basilico e salvia. Non ci chiuderemo nel nostro orticello e nei prossimi articoli vi parleremo di altri argomenti interessanti che ci hanno coinvolto in questa attività. Andrea Ferrari e Davide Toschi (II D)

Biografia delle due classi (II D e II E) Siamo ragazzi dai 10 ai 12 anni, siamo nati tutti in Italia, tranne due alunni, uno è nato in Malesia, ma è tornato in Italia dopo poche settimane e l’altro è nato in Albania ed è venuto qua dopo qualche anno. Ci sono inoltre cinque alunni che sono nati qui, ma i cui genitori provengono dal nord Africa. Alcuni di noi hanno frequentato l’asilo nido, altri hanno iniziato a frequentare le istituzioni educative dalla scuola dell’infanzia. Le elementari, tranne cinque alunni sono state frequentate a Rubiera, mentre tutti stanno frequentando le scuole medie. I nostri interessi fuori dalla scuola sono: calcio, musica, danza, nuoto, pallavolo, equitazione, tennis, karate, informatica, pallamano, ciclismo, atletica. Ciò che ci ha interessato di più dell’attività dell’orto è stato: bonificare l’area (togliere macchinine, evidenziatori, sassi, gomme, contenitori di pizze, pile...), perchè era interessante scoprire cosa poteva esserci in mezzo all’erba e sembrava un po’ una caccia al tesoro, poi l’attività di fertilizzazione del terreno: zappatura meccanica e manuale, concimazione perchè siamo riusciti a rendere fertile un pezzo di terreno che prima non lo era. Anche piantare, seminare, curare e infine raccogliere i prodotti è stato gratificante, perchè con il nostro lavoro abbiamo dato vita a dei prodotti di buona qualità. Quest’anno abbiamo ripetuto l’esperienza di cui parleremo prossimamente.

Esperti e insegnanti che hanno contribuito al lavoro INSEGNANTI: Vecchiè Federica: scienze Martellone Alberto: tecnica Marani Enrico: arte Siligardi Cristiana: motorie Lanzi Ombretta: inglese Gibertini Sabrina: francese Borghi Luciana: lettere Artioli Gabriella e don Stefano: religione Isoldi Maria: insegnante di sostegno 240


Fig. 3 Intervento esperta IREN sui diversi tipi di riciclaggio dei rifiuti.

Fig. 4 Fertilizzazione del terreno: letame, compost, foglie di caco. 241


Melli Ilenia: insegnante ed esperta infornatica ESPERTI: Borghi Giogio: agronomo Montorsi Maddalena: tecnologa alimentare Esperti dell’Iren per il riciclaggio dei rifiuti Montorsi Pietro: volontario di “Giovani di Reggio contro le mafie” Nonno di Bonacini Alex: esperto nella vangatura e zappatura a mano. Samuele Carretti: educatore e appassionato “ortolano” COLLABORATRICE: Paterlini Concetta

Fig. 5 Incontro con l’educatore appassionato di orto e vita delle piante Samuele Carretti. 242


PaesaggiopiattO LAAI/Summer School 2015 Antonella De Nisco

“PaesaggiopiattO”, intreccio con materiali naturali, uno dei tanti che Antonella modula sulla percezione di un ’esigenza di quelle più sottili, sfuggenti e spirituali, tanto autentiche quanto ignorate, tra selle e riposatoi, tane e fionde... soccorre chi chiede riparo, chi manca d’orizzonte, chi ha perduto il gioco. Artista tanto provvidenziale, quanto inattuale: provvede a quelle esperienze semplici e fondamentali che approfondiscono in qualità vite sempre più quantitative; nelle sue installazioni restituisce scambio, materia e socialità con questa sua vocazione alla dimensione artigianale-progettuale, che è con-lavorare e co-esperire. Si colloca in puro essere, meglio: puro esserci, in quanto la sua arte effimera e molteplice vive di fruizioni emotive e poi si disperde, rifuggendo ogni avere. Arte irrevocabile e irriproducibile, sempre diversa nei luoghi dove intesse e colloca spiatoi veri per un territorio che ci invita ad amare e salva-guardare”. J. Rasmi

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Fig. 1 PaesaggiopiattO/LAAI di Antonella De Nisco, installazione ambientale (particolare), midollino e sisal (cm. 300x400), Summer School 2015.

TAVOLA di legni LAAI/Summer School 2015 Scarti di legno formano un piccolo bosco ridisegnato in fitte reti di abbracci-trame per riparare, proteggere; comprendere che il paesaggio ha bisogno di cooperazione perchÊ non è di fronte ma intorno a noi.

Fig. 2 TAVOLA di legni/LAAI di Antonella De Nisco, installazione ambientale di Legni dipinti di varie misure/essenze (cm. 200x150x100), Summer School 2015. 244


SETTErami LAAI/Summer School 2015 SETTErami-dipinti a comporre, ri-comporre repertori disponibili, fuori dallo spazio della cornice, in cerca di una relazione con madre-natura. SETTErami spaccati e uniti dalla memoria.

Fig. 3 SETTErami/LAAI di Antonella De Nisco, installazione ambientale di Legni dipinti (cm. 250x150), Summer School 2015.

Elaborati/ricerca scritto-grafica sulla Giornata Mondiale dell’Alimentazione (16 ottobre 2015) Anno scolastico 2015/16 – Liceo Matilde di Canossa RE – classe 2K Partecipazione al concorso: Protezione Sociale e agricoltura per spezzare il ciclo della povertà rurale.(1) Con la finalità di indagare le tematiche relative a tale argomento e realizzare un poster. Il concorso diventa l’occasione per approfondire tematiche relative al paesaggio, esaminare documenti del sito con la visione dei video proposti ma anche fare altre ricerche sui concetti-chiave relativi alla protezione sociale. Di seguito alcuni esempi di esercizi scrittografici realizzati dalla classe a piccoli gruppi per la produzione di un Poster1. 1 http://www.un-expo.org/it/giornate-onu/giornata-mondiale-dell-alimentazione 245


Fig. 4 Esempi di elaborati della classe 2K.

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Fig. 5 Esempio di uno dei manifesti realizzati dai gruppi della classe 2K

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Arts & Foods progetto: le parole del cibo Anno scolastico 2015/16 – Liceo Matilde di Canossa RE – classi 4 A/B e 3 K Punto di partenza per l’indagine scritto-grafica è il tema del cibo con l’esposizione EXPO 2015 e la mostra Arts&Foods” (Triennale di Milano/Padiglione EXPO ITALIA) che mette a fuoco una pluralità di linguaggi visuali e plastici, oggettuali e ambientali che dal 1851, anno della prima EXPO a Londra, fino a oggi hanno ruotato attorno al cibo, alla nutrizione e al convivio. Una panoramica mondiale sugli intrecci estetici e progettuali che hanno riguardato i riti del nutrirsi e una mostra internazionale che fa ricorso a differenti media così da offrire un attraversamento temporale, dallo storico al contemporaneo, di tutti i livelli di espressività, creatività e comunicazione espressi in tutte le aree culturali.

Fig. 6 Immagini relative alla lezione sul tema Arts & Foods progetto: le parole del cibo.

L’esercizio di didattica dell’arte proposto alle classi fa inevitabilmente riferimento al paesaggio: tema che da sempre affronto come artista e docente per indagare e riflettere sulla forma e lo spazio usando materiali di riciclo e tecniche semplici di assemblaggio. Le classi che hanno partecipato all’esercizio sono state preparate con una lezione per immagini e testi e hanno visitato l’EXPO di Milano. Alle/gli allieve/i sono state consegnate cinque strisce di carta, riciclata da scatole di biscotti con il compito di cercare cinque parole del cibo capaci di intrecciare aspetti grafici (disegno) e di senso (simbolo/funzione) tra loro producendo una breve riflessione scritto-grafica. Una indagine quella delle parole legate al cibo che ci accompagna in modo a volte seducente, ogni giorno, nel nostro vissuto, nei luoghi dove abitiamo o nei posti dove 248


transitiamo anche temporaneamente per un periodo di vacanza o di studio. Anche attraverso un semplice disegno possiamo indagare e conoscere il tempo in cui viviamo, i luoghi in cui stiamo in una inevitabile relazione tra immagini e linguaggi della pubblicità che alludono o creano narrazioni. L’esercizio si lega inevitabilmente alla società dei consumi ma è anche capace di mescolare memorie e quotidianità in un meraviglioso, a tratti complesso, caleidoscopio. Inevitabile in un progetto che si lega al cibo, nelle forma e nella tradizione, non fare riferimenti a fonti iconografiche della pittura o a libri raffinati come Good Design di Bruno Munari.

Fig 7. Installazione degli elaborati del progetto Arts & Foods progetto: le parole del cibo – locali del Liceo Canossa RE, particolare. 249


Fig 8. Installazione degli elaborati del progetto Arts & Foods progetto: le parole del cibo – locali del Liceo Canossa RE.

Per lavorare sulle parole del cibo abbiamo pensato alla forma del gusto, abbiamo guardato gli abecedari, le parolibere futuriste e la poesia visiva surrealista giungendo a parole che prendono forma e alludono al significato, al sapore, ai luoghi, alla pubblicità ed altro ancora. Le parole del cibo sono divenute una produzione estetica che include l’esercizio di pensare al cibo in una restituzione scritto-grafica capace di tratteggiare, inconsapevoli, aspetti antropologico-culturali1. Le parole prendono la forma del cibo, il colore, l’odore e alle volte sono fatte dello stesso cibo. La forma e la funzione (alimentare) si uniscono nella comunicazione che tentano una riflessione sui temi che legati alla sostenibilità (ecologia/inquinamento ambientale). Le parole disegnate sono libere decorazioni, ovvie o personalizzate ma senza timori e con tante varianti decorative. L’insieme ci appare ricco di humor, un apporto energetico di segni-impronte, che suggeriscono pensieri e dichiarano potenzialità d’ ispirazione paesaggistica. Le “parole del cibo” (sul cibo) come un fantasioso alfabeto sono capaci di raccontare micro storie con ironiche intuizioni e una positiva visionarietà. In qualche caso possiamo 1 A. De Nisco, I conviviali, in Esercizi di Laboratorio. Esperienze 2004-2009, Collana di arte e Multimedialità, Quaderni del Canossa, Stampatre, Reggio Emilia, 2010 pp. 62-140; B. Finessi, MART - Progetto cibo la forma del gusto, Mondadori Electa, Verona, 2013. 250


riconoscere una cristallina intelligenza che va oltre il semplice esercizio e si fa modalità di comportamento, una riflessione sul cibo che riesce a divenire anche etica. Le parole acquistano nuove funzioni, fatte di pane, zucchero, farina, altro… diventano oggetti di design. Possiamo confermare che queste parole, intrecciate insieme a formare una parete, sono ragionamenti estetico-formali che cercano, teneramente, una dimensione etica e di sostenibilità contro lo spreco, dalla quale emerge la consapevolezza di progettare il futuro del cibo. Tutte queste parole intrecciate insieme ci fanno pensare alla convivialità, allo sforzo che ogni ragazza/o ha fatto per ragionare sulle possibilità di curare la terra, senza sprechi e, quasi inconsapevolmente, per una “economia del dono”?2

2  Marcel Mauss che ha elaborato, negli anni 1920, una teoria del dono dal punto di vista delle Scienze demo-etno-antropologiche, basandosi sui risultati di famose ricerche etnografiche: L’Année sociologique, in M. Mauss, Saggio sul dono, piccola Biblioteca Einaudi, Torino, 2002. La sua indagine indaga la necessità di rafforzare la fiducia dei popoli attraverso il dono: per quanto spontaneo non è libero perché costituisce un’aspettativa della sua restituzione, perché fa parte di un sistema di obblighi e diritti proprio della società a cui si appartiene. Gli oggetti donati si legano come un’anima al loro donatore, ciò li rende quasi un prolungamento degli individui, tessendo una rete di rapporti interpersonali. 251



PARTE V L’Atlante Nazionale del territorio rurale



L’Atlante Nazionale del territorio rurale I caratteri, il percorso e gli approdi di una ricerca ventennale sullo spazio rurale e i suoi valori Ugo Baldini, Giampiero Lupatelli

L’articolo propone i contenuti della presentazione della ricerca sull’Atlante Nazionale del Territorio Rurale organizzata dalla Accademia Nazionale di Agricoltura e tenutasi a Bologna presso la sede dell’Accademia all’Archiginnasio il 29 gennaio 2015. L’Atlante Nazionale del Territorio Rurale, esito di una attività di ricerca pluriennale curata da CAIRE Urbanistica con il sostegno del Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali propone un articolato panorama di rappresentazioni, interpretazioni e valutazioni delle caratteristiche, delle dinamiche e dello stato di salute del territorio nazionale italiano, combinando l’applicazione di indicatori di diversa fonte e natura che coprono un ampio spettro tematico, dalle condizioni fisico ambientali a quelle economiche e sociali a quelle insediative che contraddistinguono l’ampia articolazione dello spazio rurale del Paese e la sua evoluzione nella seconda metà del secolo scorso e nel primo decennio dell’attuale. L’articolo ripercorre le fasi dello sviluppo della ricerca, da una sua iniziale focalizzazione sui temi dello svantaggio territoriale, ad una progressiva dislocazione sui temi dello sviluppo rurale e dello sviluppo locale, passando da una lettura “in negativo” delle penalizzazioni dei territori posti ai margini dello sviluppo urbano e industriale conosciuto dal Paese nel secondo dopoguerra ad una visione “in positivo” delle risorse e delle opportunità presenti i questi stessi territori e capaci, se opportunamente sostenute da politiche appropriate, di innescare processi di sviluppo endogeno e di valorizzazione territoriale. Specifiche considerazioni sono rivolte ad illustrare profili tematici cui l’Atlante ha dedicato particolare attenzione nel suo sviluppo, dal tema del Consumo di Suolo a quello della Manutenzione Territoriale, dalle Food Strategy urbane alla identificazione di vere proprie filiere del gusto, sino alla recente applicazione sul tema delle Aree Interne e della loro Strategia Nazionale. La presentazione propone un essenziale ricognizione dei riferimenti storici da cui l’Atlante ha tratto alimento, dalla analisi zonale dell’agricoltura italiana, di Manlio Rossi Doria, alle proiezioni territoriali del Progetto ’80 del Ministero del Bilancio e della Programmazione Economica, sul finire degli anni ’60 al più recente (1980) Progetto Appennino della Regione Emilia Romagna. La rassegna dei più significativi prodotti di ricerca elaborati nell’ambito del Progetto e della disseminazione/contaminazione dei suoi contenuti in altri strumenti di programmazione territoriale, di livello nazionale o invece di carattere prettamente locale, si conclude con un abbozzo di riflessione sul possibile percorso futuro dello sforzo messo in 255


campo per la piena valorizzazione del suo ampio patrimonio di conoscenze e competenze, interrogandosi, in particolare, sulla possibile riproposizione – entro un nuovo e più vasto contesto territoriale, esteso all’intero quadro nazionale che lo ospita – dell’esperienza di programmazione del Progetto Appennino.

Presentazione La Cooperativa Architetti e Ingegneri (CAIRE) ha dato vita, a partire dagli anni ’90, ad una articolato ed esteso progetto di ricerca interdisciplinare per la costruzione dell’Atlante Nazionale del Territorio Rurale, potendo contare in questo lungo percorso sul generoso supporto del Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali, al servizio delle cui finalità istituzionali il progetto è stato concepito e sviluppato. Nel tempo l’Atlante Rurale è diventato un riferimento importante nel panorama delle politiche pubbliche, della rappresentazione degli interessi del mondo rurale, della attenzione degli ambienti scientifici. Sul fronte dei riconoscimenti accademici la presentazione della ricerca per l’Atlante Rurale al Politecnico di Torino, con Giuseppe De Matteis, e all’Università Politecnica delle Marche, con Franco Sotte, trova il compimento più onorevole con l’odierna presentazione all’Accademia Nazionale di Agricoltura, fortemente voluta da Roberto Fanfani e sostenuta dalla presentazione di Giuliano Cannata, che aveva già incontrato l’Atlante Rurale all’avvio del suo cammino nella sperimentazione che aveva come test pilota la regione Molise. Sul fronte delle politiche pubbliche e della programmazione, che resta il suo terreno principe, l’Atlante Rurale si è proposto come uno strumento specificamente orientato ad indagare e interpretare le diverse geografie dello sviluppo rurale, proponendo l’impiego di agevoli strumenti di simulazione e valutazione per costruire indicatori significativi dell’impatto sul territorio di decisioni e provvedimenti delle politiche agricole, anticipando così le direttive europee emanate nel 2001 sulla esigenza/necessità di operare la valutazione di sostenibilità delle politiche e delle strategie. Gli obiettivi assunti sin dall’avvio, per caratterizzare lo specifico apporto dell’Atlante Rurale nel vasto panorama delle ricerche sono stati quelli di: • rappresentare i fenomeni analizzati in modo diffuso, omogeneo e sintetico su tutto il territorio nazionale; • perlustrare lo stato delle conoscenze del territorio rurale prodotte da altri Enti o dal Ministero stesso, fornendo ad esse una utile maglia di riferimento e confronto; • interloquire positivamente con le Regioni su programmi ed aree di intervento comuni; • operare con informazioni di base volte all’arricchimento dello spettro informativo, alla sua flessibilità, integrabilità ed estendibilità; • costruire un sistema di indicatori e renderlo espressivo a partire dal tema dello svantaggio anche per un più vasto campo di politiche agricole e territoriali. Da subito L’Atlante Rurale ha finalizzato la produzione e l’impiego di indicatori all’esigenza di costruire geografie significative per il miglioramento dell’efficacia delle politiche pubbliche. Costruire “geografie per le politiche” è stato il motto dell’Atlante Rurale e la sua cifra distintiva nella interlocuzione con un contesto politico e culturale 256


scarsamente avvezzo, come è quello italiano, a considerare (e a misurare) la dimensione spaziale dei fenomeni sociali. Nelle Monografie Regionali l’Atlante Rurale ha così potuto operare un test di significatività degli indicatori rappresentativi delle diverse modalità e ragioni dello svantaggio nello spazio rurale, proponendo una classificazione articolata, capace di andare oltre la tradizionale classificazione dicotomica tra aree svantaggiate e non. Tutte le Monografie Regionali, aggiornate sono oggi pubblicate nel sito di Rete Rurale. Applicazioni specifiche hanno poi riguardato, nel corso stesso della ricerca, la simulazione di indicatori e geografie significative per l’implementazione di politiche specifiche come nel caso – voluto come test operativo del Progetto da Giuseppe Serino – che ha riguardato la classificazione delle aree svantaggiate per l’applicazione del decreto legislativo 146/97 (contributi agricoli).

TAV. 1: la aree svantaggiate della Direttiva CE 268/75. 257


Gli antenati dell’atlante Nella propria indiscussa originalità l’Atlante Rurale ha comunque potuto contare sull’esperienza pioniera di alcuni momenti di elaborazione scientifica e politica di alto lignaggio; analisi e valutazioni che ne hanno precorso le attenzioni progettuali e che hanno concretamente tracciato la rotta del suo cammino. Alcuni di questi precursori sono riconoscibili nella migliore tradizione della riflessione scientifica sulle politiche agricole che, nelle sue anime più sensibili non poteva certo ignorare l’ineludibile rapporto delle politiche con la straordinaria diversità dei caratteri territoriali del nostro Paese destinati ad accoglierle: e qui il riferimento principe non può che essere a quella “Analisi zonale dell’Agricoltura Italiana” che Manlio Rossi Doria ha dato alle stampe ancora nel lontano 1969; una ricerca fondativa nella cui elaborazione si è formata una intera generazione di economisti agrari. Altri antenati illustri l’Atlante Rurale li ha trovati in un campo di esperienze e di culture più immediatamente vicino alle discipline territoriali, esperienze, per di più direttamente riconducibili alla biografia stessa di Osvaldo Piacentini che dell’Atlante Rurale è stato l’ispiratore principale e il padre naturale. Tra queste, innanzitutto il Progetto ’80, sforzo di elaborazione di una nuova generazione di politiche per lo sviluppo che, nella seconda metà degli anni ’60, ha rappresentato l’approdo più maturo delle istanze di programmazione espresse dal primo centro‐sinistra; istanze che hanno cercato di accompagnare la trasformazione epocale del miracolo economico riuscendoci con esiti assai insoddisfacenti. Le Proiezioni territoriali del Progetto ’80 sono rimaste l’unico tentativo di costruire una organica politica nazionale del territorio che ancora adesso è carica di suggestioni per la attualità delle trasformazioni territoriali incompiute e per la capacità di anticipazione di temi, come quelli ambientali, che assai più tardi avrebbero trovato concreto riconoscimento tra gli attori politici e nella stessa attenzione della opinione pubblica. In questa attenzione nuova il territorio rurale era ben presente, valutato e rappresentato nelle sue componenti agricole e naturali. Un secondo riferimento “biografico” essenziale per l’Atlante Rurale è quello rappresentato dal Progetto Appennino della Regione Emilia Romagna, elaborato sul finire degli anni ’70. Il Progetto Appennino del 1980 ha rappresentato un episodio quanto mai singolare nell’esperienza della pianificazione territoriale del nostro Paese. Anticipando un approccio ai temi dello sviluppo sostenibile, quando il termine stesso era ancora sconosciuto al dibattito disciplinare, il Progetto si era preoccupato di fare i conti con l’esigenza di misurare e mettere in relazione i fenomeni ambientali, economici e sociali che contraddistinguono l’ambiente rurale della montagna emiliano‐romagnola. Un progetto fortemente anticipatore e visionario, dunque che al tempo della sua ripubblicazione, nell’occasione dell’anno internazionale della Montagna nel 2002 arricchita dalla interpretazione e dal riesame di Roberto Fanfani e Giovanni Galizzi, portava a commentare: “…Chi legge il Progetto Appennino di Osvaldo Piacentini e dei suoi collaboratori fatica a credere che si tratti di un’idea, che è allo stesso tempo un piano di lavoro, sviluppata circa vent’anni fa. La metodologia che ne è alla base, la sua costante preoccupazione di interpretare i problemi del territorio e del settore di attività economica che lo caratterizza, l’agricoltura, dalla specifica angolazione delle esigenze dell’uomo e dell’ambiente, le grandi 258


direttrici d’azione che esso propone sono tutte di particolare attualità… Le indicazioni contenute nel Progetto Appennino per la formulazione di specifici programmi integrati per area, ma anche la scelta degli stessi piani di sviluppo aziendale e interaziendale, costituiscono un importante passo avanti non solo per gli interventi in campo agricolo, prefigurando le tipologie più moderne di intervento di sviluppo rurale formulate recentemente dalla politica strutturale dell’Unione Europea.”

TAV. 2: a) Ministero del Bilancio e della Programmazione Economica: Proiezioni territoriali del Progetto ’80 – assetto strategico.

TAV. 2: b) Regione Emilia Romagna: Progetto Appennino ‐ riassetto idrogeologico e agro‐ silvo‐pastorale. 259


I temi dello svantaggio Anticipando una attenzione ancora poco radicata nella società italiana, nel passaggio tra gli anni ’80 e gli anni ’90 il progetto per un Atlante Nazionale del Territorio Rurale si è proposto di riprendere il tema delle aree svantaggiate per verificarlo e ridiscuterlo all’interno di una lettura del territorio più profonda ed integrata che indagasse con ampio spettro tematico i molteplici legami tra produzione agricola, mondo rurale e territorio. Al centro dell’attenzione dell’Atlante Rurale sono stati quindi innanzitutto i temi dello svantaggio territoriale e della sua compensazione; delle disuguaglianze socio‐spaziali da riconoscere e caratterizzare nelle loro diverse componenti, di natura fisico‐ambientale, socio‐economica o più squisitamente insediativa‐territoriale. L’istanza da cui la ricerca ha preso avvio, avvalendosi della collaborazione del Centro Ricerche Produzioni Animali, sotto la direzione di Angelo Barilli, è stata quella di costruire una geografia più affidabile ed attendibile delle penalizzazioni territoriali presenti sul fronte delle economie agricole e da affrontare con politiche efficaci rivolte al contesto rurale. Più affidabile di quella, assai estesa, fornita dalla identificazione per l’attuazione della Direttiva CE 268/75; una identificazione operata nel tempo, attraverso il sovrapporsi e lo stratificarsi di decisioni successive, talvolta del tutto contingenti, e sottoposta a critiche e istanze di revisione sia sul fronte “ufficiale” delle istituzioni comunitarie (a partire dai reiterati interventi della Corte dei Conti dell’Unione) sia sul versante “interno” del senso comune: “... ma come faccio a dire che Cortina è un’area svantaggiata…” frase ricorrente nelle parole dell’allora direttore generale Camillo De Fabritiis nell’esplicitare la committenza iniziale della ricerca. La ricerca si è mossa allora innanzitutto nella direzione di intendere la natura multi‐dimensionale dello svantaggio, anticipando forse in questo – pur senza averne la consapevolezza – quella corrente, oggi divenuta maggioritaria nel pensiero economico, che a partire dalle considerazioni di Amartya Sen ha proposto una lettura multi‐dimensionale del Benessere, partendo da una critica sofisticata ai fondamenti utilitaristici della economia del benessere, per approdare comunque al tema di indicatori quantitativi applicabili anche alla scala delle valutazioni regionali capaci di “andare oltre il PIL”, prima con gli indicatori di sviluppo umano dell’UNDP poi con il più articolato ed esplicito panel di indicatori del BES, benessere equo e sostenibile, trattato oggi dall’OCSE. Per l’Atlante Rurale affrontare la multidimensionalità dello svantaggio ha voluto dire innanzitutto trattare in modo distinto ma integrabile tre dimensioni tematiche: quella legata ai fattori di natura fisico ambientale (clima, morfologia, pedologia); quella legata alla performances delle economie agricole ed ai caratteri strutturali delle imprese; quella, infine, legata al potenziale e alla vitalità del contesto insediativo entro cui l’attività agricola si esercita. Tre dimensioni distinte – per quanto tra loro non del tutto indipendenti – trattate ordinariamente anche con strumenti di analisi e di comunicazione differenziati ed eterogenei, dalla rappresentazione cartografica per le variabili fisico ambientali, all’indicatore statistico per le variabili socio‐economiche, alla modellistica più o meno sofisticata per il trattamento delle variabili posizionali e relazionali che descrivono il funzionamento dei sistemi urbani e regionali. L’esito colto è stato quello di proporre una visione dello svantaggio articolata tipologicamente, sufficientemente elementare nel suo percorso formativo e capace però di 260


suggerire l’esigenza di soluzioni differenziate per realtà diverse piuttosto che il ricorso ad una unica ricetta per colmare il divario di sviluppo letto nella prospettiva di una unica dimensione (che poi era sostanzialmente sempre quella del PIL). Attenzione allo svantaggio e alle politiche per contrastarlo e compensarlo, sono stati dunque, in origine, i motori dello sviluppo della ricerca che, proprio su questi temi, ha potuto sperimentare la sua efficacia e la sua utilità nelle diverse applicazioni condotte nel tempo a supporto del negoziato comunitario o nell’occasione di provvedimenti nazionali di natura fiscale o contributiva condotte in stretto rapporto con figure apicali nella direzione tecnica del Ministero da Vincenzo Pilo a Giuseppe Serino, potendo contare, sempre sul fronte delle politiche, sull’autorevole ed amichevole confronto con l’esperienza e la visione di Antonio Picchi.

TAV. 3: Atlante Nazionale del Territorio Rurale: tipologie di svantaggio. 261


Il consumo di suolo Agli inizi del XXI secolo, il consumo di suolo è emerso come tema centrale nella sensibilità della società europea proponendosi come indicatore della salute urbanistica dei territori e della efficacia delle politiche di governo del territorio. Una sensibilità nuova ma già largamente presente nel DNA dell’Atlante Rurale, espressione di una cultura urbanistica che, sin dal finire degli anni ’70 del secolo scorso, con la ricerca sulla “erosione antropica” in regione Emilia Romagna si era cimentata con l’impegno di misurare il consumo di suolo, nella lunga durata dell’intero XX secolo. Gli strumenti di analisi e valutazione dell’Atlante Rurale, i suoi indicatori territoriali hanno consentito così di operare bilanci e valutazioni sui processi di antropizzazione più recenti per i diversi territori del Paese, in particolare per quelli “più sensibili” come l’area della pianura padano‐veneta dove, in termini di acqua e di suolo, si concentra gran parte della risorsa strategica del Paese e dove è presente un apparato economico‐produttivo e una struttura insediativa tanto estesi e consolidati da qualificare quest’area come uno degli aggregati “megalopolitani” di maggior rilievo nel panorama continentale e globale. Nel decennio trascorso tra i censimenti agricoli (1990‐2000) nelle sette regioni dell’area padano‐ veneta la Superficie Agricola Utilizzata (SAU) si è ridotta di quasi 363mila ettari (il 7,4% del totale), cosa che possiamo supporre abbia comportato una perdita rilevante in termini di biodiversità, di paesaggio rurale, di base alimentare, di cultura imprenditoriale, di tradizione manutentiva. Questa variazione assume due distinti significati: da una parte il consumo irreversibile da parte delle urbanizzazioni di aree agricole, particolarmente connotate dalla presenza di suoli fertili, dall’altra l’abbandono, da parte delle aziende agricole, di aree marginali, sospinte verso dinamiche di naturalizzazione il più delle volte incontrollate. Una immagine interessante di questa duplice dimensione del consumo di suolo è quella che emerge con tutta evidenza da un bilancio delle variazioni della SAU che si sono registrate rispettivamente nelle aree di maggiore concentrazione e in quelle di più marcata rarefazione insediativa. Nell’arco della seconda metà del ventesimo secolo si è realizzata una significativa redistribuzione della popolazione tra le diverse parti del Paese ed anche all’interno dei diversi territori regionali, redistribuzione che è resa ancora più evidente da una lettura dinamica dei fenomeni, operata valutando le diverse condizioni di accessibilità determinate ai due estremi del periodo dalla configurazione della rete infrastrutturale e dalla distribuzione della popolazione nei comuni. Dei 4.160 comuni presenti nelle sette regioni dell’area padano‐veneta, 2.392 sono caratterizzati da fenomeni di concentrazione avendo conosciuto nel cinquantennio un incremento della popolazione accessibile nel breve raggio superiore al 10%. In essi risiede il 76,1% della popolazione e si produce il 79,6% del PIL. In questi stessi comuni la perdita di SAU (che nel contesto delle aree di concentrazione è in larga misura da intendersi come consumo di suolo vero e proprio) ha assunto in dieci anni le dimensioni di 160mila ettari che rappresentano il 6.1% della SAU relativa e il 3,5% dell’intera SAU “del Nord”. Nello stesso arco temporale intercorso tra i due ultimi censimenti dell’agricoltura ‐ e sempre nelle sette regioni del Nord ‐ 862 comuni si sono invece caratterizzati per i processi di rarefazione insediativa (misurata da una diminuzione della popolazione accessibile entro 262


30’ superiore al 10%) che li hanno investiti. In questi comuni, dislocati prevalentemente lungo l’arco alpino e appenninico (quest’ultimo in modo più massiccio) oltre che nella bassa pianura del Po, risiede ora l’8,7% della popolazione e si produce il 6,8% del PIL. Anche in questi comuni si è registrato un arretramento della SAU, riconducibile però prevalentemente ai fenomeni dell’abbandono (da leggere tanto correlato alla diminuzione del numero di aziende che come effetto della riduzione del presidio umano sul territorio); questo arretramento è quantificabile nella misura di 107mila ettari, pari al 8,36% della SAU relativa. Considerazioni non dissimili possono essere sviluppate a partire da un bilancio delle utilizzazioni agricole del territorio padano operato a partire dalla foto‐interpretazione degli usi del suolo. Le coperture “Corine ‐ land cover” del 1994 e del 2004 consentono di costruire, se pure con qualche approssimazione, un indice di consumo del suolo la cui variazione, letta con riferimento alle stesse geografie della concentrazione e della rarefazione insediativa di lungo periodo, porta a conclusioni analoghe a quelle sviluppate per la variazione della SAU. Infatti l’indice di consumo di suolo (superficie urbanizzata su totale comunale) segnala una evoluzione delle superfici insediate di dimensione apprezzabile all’interno delle aree di concentrazione che è pari all’ 11,7%, passando dal 7,7% del totale della superficie territoriale (1994) all’ 8,6 % (2004). Si registra così un incremento delle superfici insediate di oltre 51mila ettari che interessa quindi lo 0.9% della superficie territoriale dei 4.160 comuni. L’evoluzione dei tessuti insediativi “compatti” rilevati dalla fotointerpretazione alla scala 1:100.000, coprirebbe quindi appena 1/3 della SAU “rilasciata” dalle aziende agricole verso altre destinazioni in un arco temporale leggermente slittato ma comunque commisurabile per durata a quello registrato da Corine. Per i due terzi restanti, oltre a processi di abbandono e rinaturalizzazione di aree marginali presenti anche all’interno di questo campo di aree di più forte antropizzazione, una componente rilevante, sia in termini quantitativi che per la natura dei processi in corso, è quella che può essere attribuita ai fenomeni di disseminazione insediativa (sprawl) particolarmente intensi in tutta l’area padana nel corso degli anni più recenti. Fenomeni, questi, che hanno prodotto esiti significativi (ma di norma meno percepibili di quelli prodotti dalla estensione delle aree urbane) che si sono manifestati sia in termini di materiale sottrazione di suolo investito da nuovi processi di urbanizzazione, dispersa e a bassa densità, che in termini di ingresso di funzioni extragricole nei manufatti rurali e nei loro spazi pertinenziali, sottraendo comunque aree alla utilizzazione agricola, per quanto la si voglia intendere con larghezza interpretativa. L’applicazione diacronica operata puntualmente a scale più circoscritte e operative, come quella della Città di Bologna e della sua cintura metropolitana dà sempre risultati sorprendenti sui quali meditare. A Bologna tra il 1951 e il 2001 la popolazione è cresciuta, nel comune capoluogo del 9,0% nell’area estesa ai comuni della cintura del 30,7%, mentre la superficie urbanizzata è cresciuta del 115,7 e del 152,9%, rispettivamente. Sono cresciute le abitazioni del comune del 119,0% e le aree industriali della “Città estesa” del 554,1% (il 34,7% le unità locali e il 33% gli addetti). Ciò ha comportato complessivamente un bilancio che, se non confortato da opportune politiche organizzative, fiscali, di assetto, e da un approccio valutativo strategico che misuri lo stato dell’ambiente e i suoi fabbisogni, non può preoccupare meno delle situazioni registrate in Germania o in Inghilterra. 263


Per utile confronto, “tra il 1970 e il 2000 nella zona di Stoccarda la popolazione è cresciuta dell’11% e la superficie urbanizzata è cresciuta del 45%. Ogni secondo in Germania vengono costruiti (urbanizzati) 15 mq. di suolo. Ogni giorno quasi 1,3 milioni di mq. (corrispondenti a 160 campi da calcio), 470 milioni di mq. quasi la superficie del lago di Costanza, viene a far parte del territorio urbanizzato; metà di questa superficie viene resa impermeabile (il resto comprende anche parchi e giardini). L’obiettivo del governo di Berlino è quello della riduzione graduale della crescita delle zone urbanizzate dagli attuali 129 ettari al giorno a 30 ettari, valore che è già raggiunto in Gran Bretagna con politiche fiscali mirate e scelte di pianificazione accorte ...”1. È lecito attendersi anche in Italia politiche di conservazione (di mitigazione del consumo) dei suoli agro‐naturali? Per farlo con efficacia non retorica, è necessario mettere al centro dell’azione di governo una maggiore capacità di gestire la complessità delle relazioni sociali e ambientali degli organismi urbani: lo sprawl è spesso la manifestazione della loro scarsa efficienza. Ed è necessario che questo racconto sia centrale nel progetto di futuro sostenibile, la necessaria premessa ad ogni proposito di trasformazione anche il più legittimo e condiviso.

1  F. Varholz, Ein Land aus Beton, Die Zeit 7/Marzo 2002. 264


TAV. 4: a) Regione Emilia Romagna: erosione antropica.

TAV. 4: b) Comune di Bologna evoluzione diacronica dell’uso del suolo. 265


TAV. 5: Atlante Nazionale del Territorio Rurale: patrimonio culturale e paesaggistico.

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Lo sviluppo rurale Le regioni italiane hanno conosciuto nella seconda metà del XX secolo significativi processi di redistribuzione della popolazione che hanno determinato rilevanti fenomeni sia di concentrazione che di rarefazione. Una carta che misuri le differenze di accessibilità della popolazione al territorio consente di evidenziare le aree che hanno visto declinare drasticamente il loro potenziale demografico; tra queste, quelle per le quali il declino è in corso ancora in questo scorcio del nuovo secolo in cui movimenti migratori a lungo raggio hanno conosciuto una nuova e imprevista intensità. A fronte di questi processi di depauperamento demografico ed economico è in particolare evidenza il valore del patrimonio paesistico ed urbanistico che è presente in queste aree e viene minacciato dall’abbandono. Un patrimonio territoriale di valori storico culturali presenti nei tessuti urbani e nei paesaggi rurali che può essere rimesso in valore con interventi che agiscano sulle condizioni di infrastrutturazione, soprattutto in quelle tra queste aree che ospitano vere e proprie forme urbane. In uno scenario economico e territoriale che si è così profondamente venuto a modificare nel corso degli ultimi vent’anni, una nuova proposizione dei temi dell’Atlante Rurale e delle sue originali modalità espressive si è spinta ad assumere, nel primo decennio del nuovo secolo, nuove ottiche e nuovi punti di vista che hanno portato innanzitutto la sua attenzione sul tema emergente dei nuovi servizi che il territorio rurale è in grado di offrire alla società contemporanea e dei nuovi e peculiari ruoli che in questa prospettiva lo spazio rurale viene ad assumere entro un territorio sempre più integrato ed interconnesso. Un nuovo ruolo espressione di processi di sviluppo rurale che rappresentano percorsi originali, talvolta alternativi e comunque non subordinati ai processi dominanti di crescita industriale. L’offerta di servizi che si viene realizzando nello spazio rurale è largamente innovativa e ha un grande potenziale di crescita, in grado di bilanciare e contrastare quelle disuguaglianze territoriali in termini di infrastrutturazione sociale e di dotazioni di servizi che rischiano di essere ancora più penalizzanti degli stessi divari misurabili nelle condizioni economiche o nel potenziale demografico dei territori rurali. Una offerta di servizi in grado di interpretare positivamente la nuova frontiera della green economy e di valorizzarne le opportunità anche per territori posti ai margini del modello di sviluppo conosciuto dal paese nella lunga stagione della crescita urbana e industriale. Una occasione in più, quindi, per rivisitare con le visioni e gli strumenti originali messi in campo dall’Atlante Rurale, a partire da quelli sulla originale e preziosa ricostruzione di una visione nazionale unitaria della matrice fisico ambientale del territorio, costruita dalla tenacia appassionata di Gianni Viel e Contardo Crotti, i temi dello svantaggio affrontandoli questa volta in una chiave più positiva e integrata. Una rivisitazione che prende le mosse dal capitale fisso sociale –paesaggi agrari e risorse urbane– ancora presente nelle aree dell’abbandono, portando in valore i servizi che questo patrimonio è in grado di offrire ad una domanda metropolitana (e mondiale) più sensibile, agendo su nuove ragioni di scambio e di cooperazione tra la dimensione rurale e quella urbana. Là dove il rurale è non solo il deposito di valori identitari e la garanzia di azione efficace sulla qualità dell’ambiente (biodiversità, sicurezza), ma anche, con le sue comunità e le sue aziende agricole, il veicolo più forte per offrire l’Italia ad una domanda turistica e fruitiva che cerca nei luoghi, tanto il paesaggio colturale che culturale, e nelle differenze locali, orienta la propria preferenza e acquista servizi. 267


TAV. 6: FONDAZIONE CON IL SUD – I sistemi locali tra centralità territoriale e dinamica economica.

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Lo sviluppo locale Nel riconoscere e valorizzare la distinzione che in ogni regione del Paese si è venuta caratterizzando agglomerazioni urbane e territori rurali, lo sguardo dell’Atlante Rurale ha dovuto fare i conti con il recente riemergere, nella geografia economica e sociale, di quella essenziale dicotomia tra Nord e Sud che aveva caratterizzato con tanta evidenza gli anni del decollo economico del Paese. Le dinamiche recenti, demografiche, sociali ed economiche, hanno approfondito il divario tra nord e sud; negli ultimi dieci anni meno del 60% dei comuni del sud (pesati per la popolazione) è stata interessata da quei processi di crescita demografica che hanno invece segnato senza soluzione di continuità il resto del Paese. Le ragioni della difficoltà delle regioni meridionali a partecipare alle nuove dinamiche insediative stanno sicuramente nella fragilità della loro infrastrutturazione economica che ha ridotto l’attrattività per l’immigrazione straniera e ha sospinto nuovi flussi interregionali verso il nord. Ma sta anche nell’affacciarsi nella società meridionale di processi di denatalità che hanno invertito il segno del movimento naturale. Le differenze locali sono riconoscibili in termini strutturali e disegnano un sud della marginalità o del declino, assai vasto. Un Sud che ha comunque forti livelli di antropizzazione storica. Questo dato strutturale che ripropone la antica distinzione tra “la polpa e l’osso” del territorio meridionale è stato scalfito solo marginalmente dalle dinamiche economiche recenti. La nuova stagione di programmazione comunitaria 2014‐2020 si viene aprendo ‐ non senza incertezze e difficoltà ‐ nel cuore della più profonda crisi economica e finanziaria che investe l’economia globale e che esprime serie minacce alla stessa stabilità istituzionale della costruzione europea. Per di più quello che il nostro paese si accinge a trarre, in termini finali e non più rimediabili, dalla precedente stagione di programmazione 2007‐2013, ormai giunta al suo esito, è un bilancio tutt’altro che brillante, per le difficoltà e i ritardi accumulati nel rendere effettivo il vasto campo di potenzialità di investimento che i Fondi Strutturali europei avrebbero consentito di mettere in campo. Con il rischio di accentuare ancora di più il divario strutturale tra l’ingente contributo finanziario che il nostro paese reca alle politiche comuni europee (anche nella attuale condizione di crisi e anzi tanto più in essa, visto il contributo aggiuntivo richiesto dalle misure di stabilizzazione finanziaria) e la capacità di trarre da queste politiche risorse efficaci per riaccendere i motori dello sviluppo, per invertire ‐ come è necessario e urgente ‐ una lunga fase di ristagno e declino dell’economia nazionale e di perdita di competitività (e attrattività) del nostro Paese. Per fare fronte ad un quadro operativo decisamente più difficile del passato (e più severo nelle regole di spesa) e per compensare una disponibilità di risorse forse minore del passato e sicuramente più esigua rispetto al ritardo delle politiche di modernizzazione e innovazione dello stock di capitale fisico ed umano del Paese, è necessaria una innovazione radicale che può venire solo da una ritrovata fiducia delle e nelle risorse di intrapresa, diffusamente distribuite nel corpo della Nazione. In questa mobilitazione che deve far leva sugli entusiasmi come sugli intelletti presenti nella società, la cooperazione sociale non può che avere un ruolo cruciale: la sua crescita e diffusione è forse il più esteso e rilevante processo di innovazione del panorama 269


imprenditoriale conosciuto dal nostro paese nel corso dell’ultimo ventennio e – nella stessa misura ‐ rappresenta il più originale contributo che il nostro paese può proporre ai partner europei per una strategia di crescita sostenibile fortemente radicata nei suoi riferimenti sociali ma anche largamente sperimentata nelle sue performances economiche. Una cooperazione sociale che può oggi proporsi legittimamente come interprete essenziale di quella riserva di animal spirits che in precedenti stagioni – quella dei distretti industriali non meno che in quella precedente del miracolo economico – hanno saputo elaborare risposte originali ai vincoli strutturali e al deficit di modernità del Paese, risposte che oggi sembrano tardare, schiacciate dal venire al pettine dei nodi di una organizzazione amministrativa arcaica e inefficiente la cui riforma non pare più procrastinabile né aggirabile con qualche espediente del genio italico. Nel chiamare all’appello le risorse morali più profondamente radicate nel costume della Nazione e presenti nel suo corpo sociale, così radicalmente mutato nel breve volgere di pochi lustri da una transizione demografica che, per linee interne ma soprattutto nello scambio globale con il resto del mondo, ne ha modificato come non mai la fisionomia, il riferimento alla dimensione locale e allo spirito comunitario che la attraversa e la anima sembra essere la risposta più appropriata. Dovrebbe soccorrere questo sforzo la progressiva (per quanto non completa) affermazione di una nuova attenzione alla specificità dei luoghi che ha preso piede nel corpo delle politiche di sviluppo regionale a livello comunitario come pure nel consenso delle grandi istituzioni internazionali; una attenzione che ha consolidato la propria diffusione ed autorevolezza negli anni più recenti. La teoria di uno sviluppo regionale place‐based (di cui la cultura italiana di programmazione è stata, con Fabrizio Barca, appassionata animatrice e protagonista nel corso dell’ultimo decennio in sede europea) ha trovato riscontro pur parziale nella nuova formulazione dei regolamenti comunitari per la operatività dei Fondi Strutturali Europei nella nuova stagione di programmazione 2014‐2020. Questa nuova consapevolezza delle politiche di sviluppo regionale dovrebbe interpretare - con una decisione ed una verve del tutto particolare, viste le provenienze - la cultura nazionale (e quelle regionali) della programmazione italiana, potendo finalmente saldare in modo virtuoso una sensibilità ed una capacità di interpretazione delle particolarità del locale che viene dal basso, con una nuova attenzione delle istituzioni europee. L’idea di agende strategiche che usino il sistema locale come territorio di progetto, di indagine e di animazione sociale, per ritrovare nuovi ruoli ed equilibri nuovi, dopo quelli perduti, o per riproporre con maggiore forza le proprie positive caratteristiche, può essere un dato preferenziale per valutare la fattibilità delle proposte di intervento.

I dossier per sistemi locali Ampia è oggi la consapevolezza che la strategia dello sviluppo rurale vada declinata nella prospettiva dello sviluppo locale e nella singolarità dei diversi sistemi locali. Rilevante per questo il contributo che l’Atlante Rurale può fornire nella nuova stagione di programmazione comunitaria. L’Atlante Rurale ben si presta, con il suo approccio geografico, a proporre visioni dello sviluppo locale che sanno trarre alimento dalla considerazione del capitale fisso sociale 270


presente nello spazio rurale – paesaggi agrari e risorse urbane – ma anche delle condizioni di accessibilità con cui questo patrimonio si offre alla fruizione e della consistenza e qualità delle risorse umane e imprenditoriali che questa offerta possono organizzare. La strategia che si focalizza dunque sulla dimensione locale per portare in valore i servizi che il patrimonio è in grado di offrire ad una domanda globale, metropolitana e internazionale, divenuta più sensibile ed accorta, deve agire agendo con politiche appropriate ai diversi contesti e fondarsi su ragioni di scambio rinnovate tra le economie urbane e quelle proprie dello spazio rurale. Da queste considerazioni prende avvio l’iniziativa di focalizzare l’attenzione dell’Atlante Rurale sulla dimensione dei Sistemi Locali, riprogettando in questa chiave il vasto patrimonio di indicatori territoriali e di rappresentazioni che è venuto formando nel tempo, presentandone i dati e le immagini più significative per ciascuno degli oltre 600 sistemi locali in cui l’ISTAT suddivide il territorio nazionale. La scelta dei Sistemi Locali consolida un orientamento largamente diffuso nella ricerca sociale che intende questi aggregati come una rappresentazione efficace della dimensione locale. Una scelta sicuramente fondata, posto che il territorio comunale appare ormai evidentemente inadeguato a rappresentare lo spazio di relazione della vita quotidiana della popolazione e che viceversa gli ambiti provinciali proiettano sul territorio un ritaglio amministrativo assai poco caratterizzato sotto il profilo geografico. La sfida è dunque quella di proporre per ciascun sistema locale letto nel proprio contesto regionale ‐ in una dimensione che è geografica ancor prima che istituzionale – i tratti caratterizzanti della propria fisionomia e del proprio potenziale. Il percorso di ricerca dell’Atlante Rurale che ha sviluppato un progetto focalizzato sulle caratteristiche e le condizioni dei Sistemi Locali è orientato a mettere in rilievo e in valore le molteplici peculiarità del territorio rurale del Paese con la finalità di promuovere, proprio a partire da queste peculiarità, il riconoscimento e la valorizzazione di una articolata “filiera del gusto” che collega le produzioni agricole alle qualità alimentari, ai valori paesaggistici e alle opportunità di fruizione dei diversi territori rurali. Un primo step del progetto concluso nel 2012, voluto e sostenuto dalla attenzione di Giuseppe Blasi alla Direzione delle politiche di sviluppo rurale, ha prodotto una sistematica ricognizione delle caratteristiche socio‐economiche e territoriali dello spazio rurale nei 686 Sistemi Locali italiani, producendo altrettanti Dossier che sono oggi pubblicati con ampia evidenza sul sito web di Rete Rurale Nazionale che, nella sua sezione relativa ai servizi della rete, dedica un apposito spazio all’Atlante Rurale (http://www.reterurale.it/ downloads/atlante/). Il completamento del progetto ha come finalità quello di evidenziare, per ciascuno dei 686 sistemi locali, le peculiari “filiere del gusto” che li attraversano e li caratterizzano. La prospettiva dell’Expo 2015 di Milano per “Nutrire il Pianeta” e la straordinaria vetrina che essa offrirà alle produzioni agro‐alimentari del nostro Paese rappresenta una opportunità evidente per completare tempestivamente il Progetto e valorizzare così uno sforzo importante che il Ministero delle Politiche Agricole ha realizzato nel tempo producendo occasioni importanti di considerazione e approfondimento delle tematiche territoriali dell’agricoltura, in un mondo che a questa dimensione territoriale ora è sempre più attento.

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TAV. 7: Atlante Nazionale del Territorio Rurale: Dossier � Evoluzione dei sistemi locali in Emilia Romagna e in Campania.

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La filera del gusto Agricoltura, alimentazione, paesaggio, ospitalità e fruizione possono rappresentare gli anelli di una sofisticata “filiera del gusto”, una opportunità inedita di valorizzare le risorse ambientali costruendo attorno ad esse nuove occasioni di sviluppo locale. In tempi di crisi come quelli che l’intero sistema globalizzato dell’economia mondiale sta vivendo nella attuale difficile congiuntura, l’agricoltura italiana si è rivelata una risorsa di straordinaria portata e di straordinaria tenuta. Forte è stata la sua capacità di trarre dai caratteri durevoli e resistenti impressi alla fisionomia ed alla organizzazione di territori estesi (e prevalenti anche nella moderna configurazione spaziale del Paese) l’occasione per farsi riconoscere come matrice di un paesaggio apprezzabile e desiderabile; ancora più marcata quella di proporre la lunga durata e la permanenza della sua storia come deposito e riferimento di valori per le relazioni sociali e i valori culturali che in questi territori si esprimono. Una agricoltura e una ruralità che rappresentano un riferimento solido per una nuova stagione di progetti di territorio, elaborati da comunità che per guardare al futuro hanno più che mai bisogno di mantenere un forte radicamento alle ragioni prime e originarie del loro stare sul territorio e condividerlo con la presenza e la frequentazione di altri. Per offrire questo territorio e il suo progetto ad una domanda potenziale che – in modo sempre meno virtuale – ha oggi le dimensioni del mondo intero. La nuova agricoltura ha bisogno del proprio territorio per essere valorizzata, perché il “prodotto locale” garantito e tracciato è il prodotto che si associa al patrimonio culturale di cui questo Paese è ricco come nessun altro al mondo. Ricco e diverso, ricco perché diverso. Economia agricola e cultura del cibo, ospitalità nuova e antica tradizione, patrimonio civile e innovazione di un territorio che può offrirsi a nuovi modelli insediativi e a nuovi turismi. Un territorio rurale che produce opportunità, sicurezza ambientale e identità. Da queste considerazioni ha preso avvio l’iniziativa, ancora inedita se non nelle sue iniziali sperimentazioni, di proporre attraverso i Dossier che vengono qui presentati una immagine originale dei caratteri e delle condizioni del territorio rurale focalizzando l’attenzione dell’Atlante Rurale per un verso sulla organizzazione di filiera della agricoltura italiana e per altro verso sulla dimensione locale dei processi di sviluppo. Una organizzazione di filiera che porta l’attività agricola a diventare offerta alimentare e cultura del cibo e al tempo stesso a generare paesaggi capaci di attrarre e ospitare nuovi modelli di frequentazione. Dimensione locale che ricerca gli specifici tratti caratterizzanti della fisionomia e del potenziale di ciascun sistema locale e si propone così di sollecitare e sostenere specifici ed originali sentieri di sviluppo. La filiera della valorizzazione agro‐ambientale del territorio rurale deve essere in grado di descrivere e valutare gli esiti e le potenzialità in termini di generazione di valore che l’evoluzione dell’impresa agricola multifunzionale produce attraverso la diversificazione e sofisticazione dei servizi offerti in ambiente rurale: passando dalla produzione di derrate agricole alla offerta di una vera e propria cultura della alimentazione, dall’esercizio delle pratiche colturali all’offerta di paesaggio e di opportunità di fruizione ma anche alla garanzia di manutenzione ambientale, dal patrimonio di residenze rurali ad una ospitalità carica di valori salutistici, formativi, ricreativi. La piramide che i Dossier propongono misurando gli specifici tratti che la filiera presenta 273


in ciascun sistema locale, propone una misura di questo equilibrio nella specifica realtà di ciascun sistema locale misurando lo scostamento rispetto alla media regionale del rapporto che misura gli indicatori di performance con cui proviamo a misurare la qualità della cultura alimentare, dei valori paesaggistici, delle opportunità di fruizione, della ospitalità in ambiente rurale rispetto alla base espressa dalla produzione agricola, misurata in termini di risorse umane impiegate e di valore prodotto.

TAV. 8: FAI – I Luoghi del Cuore ‐ La fruizione ambientale. 274


Agricoltura periurbana e food strategy urbane La questione della sostenibilità, centrale per la società contemporanea, impone di riconsiderare i temi del rapporto città campagna re‐interpretando la natura della loro relazione funzionale e simbolica. Questa direzione è stata affrontata negli anni più recenti dagli strumenti di pianificazione urbanistica mettendo in campo politiche per il contenimento della espansione urbana e la riduzione del consumo di suolo e per la promozione di una nuova rete di infrastrutture leggere (greenways) per la fruizione dello spazio rurale. Tuttavia, in presenza di questa maggiore sensibilità, le politiche territoriali devono affrontare con ancor maggiore decisione e profondità il tema del ruolo dell’agricoltura periurbana nelle attuali condizioni del Paese (e del Pianeta). È infatti necessario considerare la relazione città campagna in termini più articolati di quanto non sia stato fatto sin qui osservando quella “domanda di qualità ambientale”, che si è manifestata nella domanda residenziale nei due decenni a cavallo del secolo traducendosi in insediamento sub‐urbano a bassa densità (e ad alto consumo di suolo). Una domanda affluente, certamente motivata dalla richiesta di migliori condizioni ambientali dell’abitare ma non di meno alimentata anche dalla ricerca di valori fondiari più contenuti e in questo senso determinata anche dalla bassa efficienza dei processi di trasformazione/riqualificazione urbana conosciuti dalle nostre città, il cui sviluppo ha invece favorito modelli di crescita periferica, ai margini della città costruita, nelle frazioni rurali e nei comuni delle cinture urbane. Riconsiderare il rapporto città campagna e costruirne una visione condivisa tra gli attori locali, espressione tanto delle culture urbane che di quelle rurali, rappresenta una opportunità per spingersi oltre i tentativi ‐ meritori ‐ di contrastare le tendenze alla crescita periferica e allo sprawl, con l’obiettivo di azzerare il consumo di suolo agricolo. Ciò è possibile se si saprà proporre istanze disciplinari ormai sempre più esplicitamente accolte dalle politiche che si impegnano a “costruire sul costruito” per realizzare il progetto di una “città senza periferie”. Un cambio di paradigma della disciplina che ha trovato più facile riscontro negli anni recenti di prolungata crisi economico‐finanziaria e nel blocco delle dinamiche del mercato immobiliare ma deve affidare le sue prospettive di medio lungo termine a più solide fondamenta. Un nuovo rapporto tra città e campagna non può per questo che passare attraverso il riconoscimento di un nuovo ruolo economico delle campagne (ed in particolare delle campagne periurbane), un ruolo che le veda maggiormente integrate nella organizzazione e nel funzionamento delle economie urbane. Considerando le campagne e le aziende agricole che ancora le popolano e ne rappresentano la forma organizzativa fondamentale, come produttori di fondamentali servizi eco‐sistemici (dal paesaggio alla sicurezza) sempre più avvertiti come critici dalla consapevolezza contemporanea, ma soprattutto come produttori di derrate alimentari che, di fronte ai processi di globalizzazione incalzanti e contraddittori, rispondano efficacemente alla domanda di sicurezza alimentare e alla ricerca di nuovi stili di consumo e di comportamento di una popolazione urbana più attenta alla tutela attiva della salute. Dunque, un ruolo delle campagne periurbane da intendere come componente fondamentale di una strategia alimentare (food strategy) della città, strategia di cui si comincia sempre più diffusamente ad avvertire l’esigenza nella esperienza internazionale e 275


che la prospettiva dell’Expò milanese del 2015 porterà a consolidare più stabilmente nella agenda delle politiche urbane. La città contemporanea si preoccupa sempre più seriamente di qualità e sicurezza alimentare e lo fa ricercandole non solo attraverso una sempre più estesa tracciabilità documentale delle filiere di produzione agro‐alimentari e confidando per questo sulla efficacia dei controlli esercitati dalle burocrazie sanitarie dell’Unione Europea e delle sue Agenzie, ma si propone di raggiungerla anche attraverso il maggiore controllo sociale che si può esercitare con l’accorciamento delle filiere, ri‐avvcinando produzione agricola e consumi alimentari in una opzione che è di sostenibilità, oltre che di salubrità e sicurezza. La strategia alimentare ha i suoi primi riferimenti operativi nelle politiche degli acquisti alimentari per le collettività istituzionalizzate (dalle mense scolastiche ai consumi ospedalieri e delle altre istituzioni di educazione e di cura) così rilevanti nella vita delle città e così significative per costruire e diffondere una nuova cultura alimentare (e nuovi stili di vita) che orienti un più esteso potenziale di domanda per una “agricoltura a km0”. Una strategia alimentare della città che riconosca il ruolo della campagna più vicina nella produzione di alimenti deve naturalmente considerare anche il più ampio bacino dei consumi alimentari delle famiglie, già portati in relazione diretta con la produzione agricola attraverso le numerose iniziative, dai “mercati del contadino”, alla vendita diretta in azienda, dai ristoranti a Km0 ai gruppi di acquisto solidale, che hanno cominciato a diffondersi nella nostra realtà, frutto di una maggiore consapevolezza culturale ma anche di una ricerca di economicità dei consumi sollecitata dalla prolungata stagione di crisi. I consumi alimentari delle famiglie delle grandi città rappresentano grandezze di un ordine superiore a quello del valore della produzione agricola realizzato nell’intero Sistema Locale di queste stesse città. È quindi evidente che la ri‐dislocazione di una frazione ‐ per quanto minoritaria ‐ dei consumi alimentari della città verso provenienze locali avrà un impatto straordinario sulle economia agricole periurbane.

TAV. 9: Atlante Nazionale del Territorio Rurale: rapporto tra consumi alimentari e produzione standard. 276


La manutenzione territoriale La manutenzione del territorio è una condizione necessaria della sicurezza e della qualità ambientale. Il ciclo delle acque, dalle precipitazioni atmosferiche alla circolazione superficiale e sotterranea sino alla confluenza in mare è al tempo stesso il principale fattore ecologico che determina le condizioni di vita degli ecosistemi e delle comunità umane e, con le sue dinamiche, tra i principali fattori di pericolosità per gli insediamenti e le attività, bersaglio di possibili eventi alluvionali e franosi, con i loro effetti di erosione, sommersione, distruzione. La ricerca di condizioni adeguate di sicurezza è da sempre all’ordine del giorno delle società umane che misurano il proprio grado di civiltà anche nella capacità di proporre soluzioni efficaci e durevoli che riducano l’esposizione al rischio ambientale e producano equilibri permanenti nel rapporto tra le dinamiche degli agenti naturali e i modi di uso antropico del territorio. Per lungo tempo ‐ in economie e società nelle quali la produzione primaria assolveva un ruolo centrale e che stavano sperimentando un costante progresso delle tecniche (agronomiche ed ingegneristiche) che consentiva crescenti possibilità di operare trasformazioni profonde del territorio ‐ questo equilibrio è stato ricercato e assicurato attraverso una progressiva artificializzazione del territorio. Una artificializzazione che per un verso ha esteso l’area soggetta a pratiche e cure agrarie che assicuravano capillarmente il deflusso e la regimazione delle acque (sistemazioni idraulico‐agrarie dei versanti – terrazzamenti, ciglionamenti) su porzioni sempre più estese del territorio, mentre per altro verso ha sottratto spazi alla “naturale” divagazione dei corsi d’acqua innalzando argini e difese spondali sempre più imponenti (e costose) per difendere campi, villaggi e città dalle esondazioni dei fiumi. A partire dagli inizi del XX secolo la consapevolezza di una diversa esigenza di regolazione si manifesta con il R.D.L. 3267/1923 che “sottopone a vincolo per scopi idrogeologici terreni di qualsiasi natura e destinazione” che a seguito del disboscamento, dell’eccessivo pascolamento e della messa a coltura di suoli saldi “possono con danno pubblico subire denudazioni, perdere la stabilità o turbare il regime delle acque”. Nell’arco della seconda metà del XX secolo si è poi compiuto nel nostro paese un processo di radicale trasformazione delle economie e dell’insediamento che ha ridotto la popolazione agricola di un ordine di grandezza dagli 8,2 milioni di attivi agricoli del censimento del 1951 agli 851 mila occupati in agricoltura della rilevazione delle forze di lavoro del 2011. Questa flessione nell’impiego di lavoro si accompagnata alla meccanizzazione ma anche ad una significativa restrizione delle aree coltivate, dai 20,6 milioni di ettari di SAU del 1961 agli attuali 12,7 milioni. Ciò è avvenuto soprattutto nelle aree collinari e montane dove le praterie e i seminativi hanno lasciato il campo al diffondersi di terreni incolti e cespugliati o sono stati occupati dalla vegetazione pioniera del bosco, mentre in pianura si è assistito all’abbandono di sistemazioni agrarie tradizionali – onerose per il grande impiego di lavoro – a favore di più spinti livelli di meccanizzazione che hanno ridotto la capacità di invaso (oltre che la riserva di biodiversità e l’articolazione paesaggistica) dei campi coltivati e aumentato l’afflusso alla rete idraulica principale (ridotto i tempi di corrivazione); un processo sostenuto anche dalla straordinaria estensione delle superfici impermeabili determinata dalla crescita urbana. Più in generale il territorio agrario e forestale “governato” dalle aziende agricole si è 277


ridotto in maniera estremamente accentuata, non solo con l’abbandono delle coltivazioni nei terreni marginali e con il loro inselvatichimento ma con la ancora più estesa scomparsa di un presidio manutentivo che le aziende agricole tradizionali e le loro economie esercitavano sul territorio: nel passaggio dal primo censimento agricolo del Paese, nel 1961 secondo il quale le aziende agricole “governavano” una superficie totale di 26,5 milioni di ettari, al più recente censimento del 2010 nel quale la stessa superficie aziendale totale (SAT) si è ridotta a 17 milioni di ettari1, si è registrata una variazione che sfiora i 100 mila kmq (un terzo della estensione totale del Paese!). Naturalmente con accentuazioni regionali (la Liguria, il Friuli, la Calabria) e locali assai più marcate e massime nelle aree montane e collinari (l’Appennino nord occidentale, la fascia pedemontana lombarda e veneta) oltre che nelle concentrazioni metropolitane (Roma e Napoli, innanzitutto, per effetto in questi casi del consumo di suolo da parte dell’urbano. Si è quindi profondamente modificato l’equilibrio tra dinamiche ambientali, attenzioni diffuse e sicurezza degli insediamenti con esiti vistosi in termini di fragilità del sistema suolo‐soprassuolo e di pericolosità ambientale. A questa riduzione impressionante delle aree gestite dalle aziende agricole (urbanizzazione, abbandono) non poteva soccorrere da sola l’azione delle Aree Protette che hanno di recente sperimentato peraltro una preoccupante sottrazione di competenze (e di ruolo). Al tempo stesso, la consapevolezza ambientale crescente ha spostato progressivamente l’attenzione degli esperti (tecnici ‐ operatori) – ma ormai anche quella delle popolazioni – dalla scelta a favore di una artificializzazione sempre più spinta della rete idraulica alla ricerca di nuovi equilibri che incorporino un maggiore livello di naturalità della rete e degli ambienti fluviali. Trovano così sempre meno consenso soluzioni ingegneristiche per la modifica della rete drenante, che rischiano di venire costantemente spiazzate o superate dagli effetti sistemici di altri processi e di altri interventi, mentre si afferma l’esigenza di restituire spazio e funzionalità ai fiumi e alle loro dinamiche, ripristinando adeguati livelli di manutenzione del territorio, compensando e risarcendo gli effetti delle artificializzazione. La naturalizzazione del reticolo idraulico e delle sue pertinenze non può prescindere dalla manutenzione del territorio sotteso, sia quando esso è interessato da usi ‐ compatibili o da rendere tali – sia quando è abbandonato o dismesso. Se intendiamo la manutenzione come attività continuativa e diffusa per ripristinare, migliorare e garantire la piena funzionalità del territorio dobbiamo in primo luogo identificare i sistemi territoriali e chiederci in quale stato essi si trovano in relazione alle funzioni che desideriamo essi assolvano e agli obiettivi condivisi ad essi assegnati. L’attività di manutenzione, così intesa, diviene strumento fondamentale dell’equilibrio tra l’evoluzione dei fenomeni naturali e le attività antropiche, che risente degli effetti globali del cambiamento climatico non meno che degli effetti locali della urbanizzazione e dell’abbandono. Una attività di manutenzione che agisca coniugando obiettivi di sicurezza, qualità ambientale e del paesaggio, come requisiti imprescindibili e autentica misura delle effettive condizioni di benessere e di qualità della vita e della sostenibilità efficiente nella gestione delle risorse e del suolo. La manutenzione non può essere confinata ad un insieme di interventi puntuali per la riparazione locale di situazioni compromesse, richiede invece un approccio unitario e una visione integrata e multi‐disciplinare dei fenomeni naturali e antropici nel bacino, inteso come ecosistema unitario. 278


Un approccio per una manutenzione che sviluppi una attività sistematica di cura dell’ambiente (che ragioni su indicatori di risultato) da parte degli attori sociali della tradizione e della innovazione rurale: le aziende agricole vecchie e nuove, le agenzie rurali, i parchi naturali, le cooperative sociali e di comunità, le forme consortili, le filiere dei prodotti agricoli, le filiere del benessere, le filiere della sicurezza, della manutenzione, della biodiversità.

TAV. 10: Atlante Nazionale del Territorio Rurale – Sistemi locali e risorse per la manutenzione.

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TAV. 11: a) Ministero dell’Ambiente Progetto APE Appennino Parco d’Europa: i sistemi territoriali della marginalità

TAV. 11: b) Fondazione con il Sud: Ordinamento dei Sistemi Locali per ricorrenza dei fattori di selezione 280


I progetti locali L’Atlante Rurale è divenuto nel tempo il supporto operativo e la matrice culturale di una ampia gamma di progetti di valorizzazione territoriale e di sviluppo locale che hanno coinvolto, nei quasi tre decenni nei quali il percorso dell’Atlante Rurale è stato operativo, molteplici territori nell’intero Paese. Esperienze anche molto diverse tra di loro che hanno spaziato dalla dimensione nazionale a quella di piccoli aggregati di comuni in contesti fortemente caratterizzati dalle problematiche della ruralità e dello sviluppo locale. Nella prima dimensione, quella nazionale hanno trovato vita progetti strategici come “APE – Appennino Parco d’Europa” o, più recentemente, il progetto “Green Communities” entrambi nati dall’iniziativa del Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare e sviluppati con il sostegno istituzionale dell’UNCEM e azioni di supporto e di assistenza tecnica come quella legata alla iniziativa della Fondazione con il Sud che sta operando azioni di sostegno su sistemi locali individuati proprio con gli strumenti analitici forniti dall’Atlante Rurale. Tra le prime occasioni ed opportunità che si sono presentate all’Atlante Rurale per realizzare concretamente l’ambizione del progetto a servire le reti locali merita di essere citato il Progetto APE Appennino Parco d’Europa che, sotto l’egida del Ministero dell’Ambiente ha visto una forte iniziativa delle associazioni di Enti Locali (UPI, UNCEM, Federparchi) rivolta a sollecitare la formazione di reti locali tra Comunità e Parchi. I Sistemi locali della Marginalità, individuati dall’Atlante Nazionale del Territorio Rurale sono stati un riferimento importante per la selezione delle aree campione di APE. Anche nel sud del Paese, dove la tradizione autonomistica del locale è meno radicata nelle istituzioni dello spazio rurale, il progetto APE ha saputo suscitare iniziative rilevanti e percorsi di cooperazione innovativi, come nel caso del Progetto Antica Lucania che ha coinvolto 12 Comunità Montane ed i Parchi Regionali della Basilicata. Un approccio integrato tra Comunità e Parchi che ha avuto occasione di generare effetti fecondi e processi innovativi delle politiche territoriali per le aree montane, di cui merita di essere ricordata l’applicazione pilota sul sistema di borghi del Parco Nazionale dei Monti Sibillini, per il recupero degli spazi pubblici come strumento di rivitalizzazione rilancio della loro fruibilità e vivibilità. Dieci anni dopo il progetto “Green Communities” ha focalizzato la sua attenzione sui temi, divenuti centrali, della valorizzazione delle risorse (biomasse vegetali, solare, eolico, idroelettrico) energetiche nei territori periferici e marginali e, contestualmente, della messa in efficienza (e della rivalorizzazione) del patrimonio insediativo presente in queste aree. Una applicazione, questa, che ha potuto “appoggiarsi” al quadro conoscitivo e interpretativo fornito dall’Atlante Rurale per delineare con efficacia ed espressività un primo bilancio energetico dei sistemi territoriali individuati nelle regioni del Sud come aree pilota del progetto, proponendosi, sulla scorta di un quadro tecnologico al passo con l’innovazione, come vero e proprio “Geoportale” del progetto. Alla scala più squisitamente locale diverse sono le applicazione che meritano di essere richiamate e ricordate, in una prospettiva ormai “storica”: quella per la valorizzazione della Valle Pennavaire, capace di racchiudere nel breve tratto dei pochi chilometri del suo sviluppo, tra Piemonte e Liguria, una variabilità estrema di paesaggi e di orizzonti fitoclimatici; qui l’approccio attento al locale ma per sua natura interregionale dell’Atlante Rurale ha messo 281


in campo un apparato conoscitivo e un approccio valutativo che ha portato all’attenzione delle due Regioni una realtà altrimenti marginale, separata dai confini regionali che la attraversano e dalla discontinuità dei rispettivi sistemi informativi. Ancora, merita di essere ricordata l’esperienza della Valle del Ceno, nell’Appennino parmense, richiamata da un autorevole cultore dello sviluppo territoriale come Gilberto Serravalli come progetto eponimo di uno sguardo maturo e consapevole alle aree interne nell’occasione dell’avvio appunto della Strategia Nazionale delle Aree Interne. Più recentemente, nel Mezzogiorno del Paese, l’incontro della cultura dell’Atlante Rurale con la sensibilità di attori locali fortemente radicati nel territorio e sensibili alle istanze di responsabilità sociale dei progetti di sviluppo espresse da Federsolidarietà, ha consentito di “prototipare” e testare operativamente la proiezione dell’Atlante Rurale sul fronte delle filiere del gusto, trovando nell’area di operatività del GAL “Bradanica” in Basilicata occasione per mettere in campo il “sapere esperto” dei suoi indicatori e dei suoi modelli interpretativi con la consapevolezza sociale e il progetto di sviluppo degli attori locali. Da ultimo una citazione interessante è quella che riguarda la sensibilità dell’Atlante Rurale nei confronti di contesti territoriali e di problematiche che si collocano, per così dire, all’estremo opposto dell’arco tematico rispetto a quelle dello svantaggio e della marginalità da cui l’Atlante Rurale ha preso le mosse. Quello delle agricolture periurbane e del rapporto di queste con nuove (e ancora largamente inesplorate) food strategy urbane che l’appicazione attorno al nuovo strumento urbanistico di una città assolutamente emblematica su questo fronte, come è Parma, consente proprio in questi giorni di operare.

Le Aree Interne L’Atlante Rurale si è di recente misurato con una delle più affascinanti sfide che la politica nazionale ha saputo cogliere e rilanciare proponendo le “aree interne” assieme alle Città e al Mezzogiorno come oggetto di vere e proprie strategie nazionali, con le quali interpretare – con efficacia e creatività – l’opportunità offerta dalla programmazione comunitaria. La lunga tradizione di applicazione professionale nel territorio rurale e montano e la antica frequentazione dell’UNCEM con le costanti sollecitazioni di Enrico Borghi, hanno suggerito di sviluppare e proporre alcune considerazioni che, accompagnate dalle geografie disegnate dall’Atlante Rurale sono state proposte all’attenzione della Camera dei Deputati e possono trasformarsi in immagini condivise.

Considerazioni richiamate da alcune parole La prima parola è governance. Una strategia di sviluppo locale deve contribuire a superare le condizioni di frammentazione del tessuto amministrativo. I comuni minimi (per ragioni demografiche, economiche ed insediative: comuni minimi, poveri e radi) sono 4.835 (59,7%) e coprono 144.109 Kmq (il 47,8% della superficie del Paese) con una popolazione di 7,2 milioni di abitanti (il 12,2% del totale); di questi comuni i due terzi sono comuni montani. Un processo di cooperazione è necessario e deve partire dal sistema di relazioni funzionali presenti che definisce la dimensione – ormai sempre più che comunale ‐ dello spazio di vita quotidiana della popolazione: l’esercizio compiuto di recente dalla Società 282


Geografica Italiana, sviluppando il contributo UNCEM sulla frammentazione, riconosce 260/300 comunità territoriali, aggregazioni di comuni e dei loro sistemi locali che hanno una estensione anche interprovinciale e talvolta interregionale. La cooperazione tra i comuni, sempre più necessaria, oggi si esercita su un campo ancora limitato di casi e di competenze. La seconda parola è accessibilità. Il tema delle aree interne è quello di territori che per ragioni geografiche ed infrastrutturali misurano la propria distanza dalla rete urbana, da una rete che funziona sempre più come sistema integrato e interconnesso di cui deve essere colta la componente dinamica. Nelle aree che non raggiungono, in mezza ora, una soglia di popolazione accessibile di 50.000 abitanti (e le economie urbane che questi producono), in 2.648 comuni ci sono 5,2 milioni di abitanti che governano 128.115 Kmq (il 42,6% della superficie del Paese); l’88% di questi comuni è in territorio montano. I Comuni ultra periferici, che non raggiungono i 10.000 abitanti accessibili in mezzora, sono 545, tutti montani naturalmente. Tanto più in questi luoghi, la parte di politiche ordinarie dei servizi alla persona deve accompagnare la parte di politiche di intervento straordinario (che devono comprendere anche “la banda larga”). La terza parola è disuguaglianza. La disuguaglianza tra territori, se la misuriamo in termini di servizi, è ancora più marcata di quella, pur rilevante, che si presenta in termini di reddito (oggi il rapporto tra il 10% più ricco delle famiglie e il 10% più povero è di 11 volte). Tra le aree urbane (e le aree intermedie) sono “sotto soglia” (soglia intesa come un mix di servizi sanitari, scolastici, culturali e finanziari che corrisponde alla dotazione di una città media, capoluogo di un sistema locale) appena il 2,4 per cento dei comuni; nella stessa condizione è invece l’83,6 per cento dei comuni delle aree interne, l’86,5 % nelle aree montane. Superare questa disuguaglianza richiede approcci non solo redistributivi e ‐ tanto meno – può essere assistita da una standardizzazione dei servizi; richiede risposte originali e creative che “si adattano ai luoghi” e che dai luoghi traggono soluzioni, dalle culture sedimentate come dalle interpretazioni “visionarie”. La quarta parola è locale. Il progetto locale delle aree interne deve riconoscere e valorizzare in forma diffusa ‐ ma differenziata per ogni territorio ‐ il suo sistema locale, i suoi protagonisti, le loro relazioni, le loro performances. La presenza di aree interne segna quasi 2/3 dei sistemi locali del Paese, se si escludono comunque quei pochi nei quali le stesse aree interne rappresentano solo la periferia estrema di sistemi urbani più strutturati che ne governano le relazioni territoriali. 400 sistemi locali ed altrettante economie, dunque, di marcata impronta rurale, dove è presente meno del 10% della popolazione nazionale ma nei quali viene prodotto quasi un quarto del valore aggiunto agricolo della nazione, con una incidenza due o tre volte superiore a quella del Paese. E il peso dell’economia agricola nelle aree interne (e la permanenza della sua tradizione) va letto oramai come il contributo necessario ad una strategia alimentare globale piuttosto che come un ritardo di sviluppo. Il differenziale di potenziale economico di questi sistemi locali, tra nord e sud è di tutta evidenza, mentre è più uniformemente distribuito il deficit di manutenzione, misurato rapportando il valore aggiunto totale e quello agricolo all’estensione del territorio (da manutenere). 283


La quinta parola è manutenzione. Ogni calamità naturale che si manifesta drammaticamente nel Paese richiama l’attenzione, troppo spesso distratta nella quotidianità, alle dimensioni impressionanti del deficit di manutenzione che il nostro territorio ha dovuto registrare nella parte coltiva e boschiva. Al primo censimento moderno dell’agricoltura, nel 1961, la superficie governata dalle aziende agricole rappresentava quasi il 90% della superficie totale (già diminuita dal 1912 al 1961 di 900 mila ettari), segnalando per l’Italia un livello di antropizzazione e artificializzazione del territorio tra i più elevati in Europa. Dal 1961 al 2010 le aziende agricole hanno ridotto la propria presenza (e cura) ad appena il 54% della superficie nazionale, abbandonando al loro destino quasi 100mila kmq di territorio, 1/3 della superficie totale del Paese, solo in parte minore per effetto dell’urbanizzazione. Nelle aree montane (dove la manutenzione…) si è concentrato il 74% di questa riduzione. Il ripristino di una azione sistematica di manutenzione è la condizione necessaria di una politica nazionale di prevenzione e sicurezza territoriale ormai ineludibile e diventa anche l’occasione per rendere evidente il contributo delle politiche ambientali alla costruzione di progetti di sviluppo locale ad alto rendimento come già il tema della energia ha consentito di far apprezzare alle istituzioni e alle comunità locali. Manutenzione che ha come campo straordinario di applicazione anche la riduzione del rischio sismico oltre che idrogeologico. Le risorse ambientali sono infatti la principale riserva di valore delle aree interne, un valore che si fonda sulla diversità. Biodiversità che è matrice di una vasta gamma di servizi eco‐sistemici (quelli di fornitura, di regolazione, di supporto e culturali) che nelle aree interne possano diventare economie importanti. La sesta parola è impresa. Le risorse imprenditoriali sono al centro delle prospettive di rilancio delle aree interne e vanno mobilitate in tutte le forme; le comunità locali possono ricercare il proprio sentiero di sviluppo e scoprire le proprie vocazioni imprenditoriali facendo leva sull’economia sociale, piuttosto che sull’impresa etnica; sulle azioni della green economy, piuttosto che della food economy; nelle forniture della economia dei servizi come nelle economie turistiche della natura e della cultura, nella offerta di ospitalità diffuse (90 posti letto per 100 kmq al centro‐nord, +102%, 33 posti letto al sud, +229%) o nell’opera di manutenzione del territorio. I prodotti tipici ci mostrano la riserva di valore che c’è nella tradizione agricola, con un potenziale inespresso ancora molto rilevante nelle regioni meridionali. La diffusione dei servizi culturali (intanto quelli più tradizionali, rappresentati dai musei) mette in evidenza lo spazio che si apre a nuove imprese che vogliono rinnovare l’offerta culturale (che nei musei, ha nonostante tutto, un riferimento organizzativo cruciale, da ripensare e rigenerare) e trasformarla in economia, a partire dalla ospitalità nei borghi per inoltrarsi nello spazio virtuale della comunicazione globale. La cooperazione sociale cresce in questa congiuntura difficile, con una densità di 8 imprese per mille abitanti nel centro‐nord e nel sud del 7.5 per mille. L’ultima parola è futuro. Il futuro delle aree interne e montane è legato alla loro capacità di conquistare nuovi abitanti, aumentando l’accessibilità, migliorando l’equipaggiamento, diventando più attrattive, negoziando per i propri servizi, le risorse compensative. Trattenendo e richiamando giovani imprenditori e giovani lavoratori che sono la risorsa 284


da tutelare, risorsa che di recente ‐ per la prima volta ‐ sembra essere in crisi nel sud. Nelle regioni meridionali tra gli ultimi due censimenti la popolazione da 0 a 24 anni è diminuita di oltre 460 mila unita (‐ 10,1%) mentre nel centro nord torna ad aumentare per più di 540 mila unità (+ 7,9%). Nei dieci anni trascorsi tra i due ultimi censimenti l’occupazione femminile italiana sarebbe cresciuta di quasi un milione e mezzo di unità (+ 18,0%), crescita che non è pero stata sufficiente a portare il basso tasso di attività della popolazione femminile italiana che non solo è rimasto largamente al di sotto della soglia del 40%. Una più ampia partecipazione femminile alle forze di lavoro rimane una delle sfide cruciali, non solo per lo sviluppo dell’economia, ma per il futuro stesso del Paese. Le migrazioni stanno offrendo risorse in modo asimmetrico ma di grande evidenza (+ 2,7 milioni a livello nazionale) da gestire come vincolo/opportunità: nelle aree montane del centro nord, nel decennio intercensuario, le popolazioni straniere sono aumentate di 400 mila unità, in quelle del sud e delle isole di centomila. Fortemente asimmetrico anche l’apporto del volontariato che nelle sue diverse espressioni coinvolge quasi il 10% della popolazione italiana, ma registra livelli di partecipazione più ridotti nelle aree meridionali. Nuovi abitanti, nuove opportunità di genere dunque, e nuove imprese devono ripopolare il territorio montano e le aree interne: dalla impresa che cura l’ospitalità diffusa degli agriturismi, sino alle imprese che, come la cooperazione sociale, hanno maggiore capacità adattativa nei confronti delle nuove economie e maggiore attitudine a promuovere il lavoro, come la produzione artigiana, agendo sulla cultura e sulle abilità sedimentate, non rinunciando alle possibilità di innovazione, coltivandole, realizzandole.

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TAV. 12 UNCEM�CAIRE: Armatura Urbana e aree periferiche

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Conclusioni: verso un nuovo progetto appennino? Quale è ora il profilo di sviluppo di un progetto così longevo e, per molti versi, così fecondo di implicazioni e di applicazioni? Congiunture economiche e burocratiche non hanno consentito sin qui di praticare il più naturale approdo del progetto, che lo avrebbe dovuto vedere presente all’EXPO presentando la rassegna delle filiere del gusto che caratterizzano gli oltre 600 Sistemi Locali italiani. Dei Dossier per Sistemi Locali dell’Atlante Rurale era infatti in programma una nuova edizione che, a valle dei caratteri agricoli e rurali già esplorati, ne ripercorresse i segmenti più “immateriali” delle filiere del gusto, fatte di paesaggi, gastronomie, ospitalità. Ma questo percorso non ha trovato ad oggi la via del suo finanziamento. Una sfida oggi aperta e da praticare con decisione è quella che riguarda le Aree Interne e la loro Strategia Nazionale, una strada che l’Atlante Rurale ha già iniziato a percorrere accompagnando l’UNCEM, rappresentanza delle comunità locali della montagna italiana, nel confronto con il DPS per costruire le geografie (e i contenuti) delle politiche per lo sviluppo locale di quella vasta porzione del territorio nazionale rimasta sin qui in ombra nei processi di sviluppo. Entro questa prospettiva una ambizione specifica che l’Atlante Rurale ha maturato e vuole condividere con gli attori istituzionali, le rappresentanze sociali e le sedi della ricerca è quello di riprendere le fila e rilanciare un nuovo “Progetto Appennino”, non più confinato entro i limiti di una regione “di punta” come l’Emilia Romagna, autorevolmente presente oggi con Simona Caselli a discutere il significato e il rilevo dell’Atlante Rurale, ma dispiegato invece sull’intero sistema geografico e territoriale che all’Appennino fa riferimento per dare fondamento scientifico, rilievo programmatico e visibilità ad una azione nazionale che torni a focalizzare la propria attenzione sull’uso del suolo. Una azione che si preoccupi di recuperare dall’abbandono territori inselvatichiti per riproporne ruoli produttivi e per assicurare livelli di manutenzione adeguati a garantire la sicurezza dei territori e degli insediamenti umani, non solo in montagna, dispiegando una azione preventiva e lungimirante che riconosce e premia il valore dei beni comuni e dei servizi eco‐sistemici che da questi si possono (e debbono) ritrarre.

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PARTE VI APPENDICE



Il valore civile del paesaggio Il contributo dell’Istituto Cervi alla Carta di Milano

Introduzione al Documento conclusivo della VII Edizione della Summer School I risultati della VII Edizione della Summer School Emilio Sereni sono stati consegnanti come contributo alla Carta di Milano al Ministro delle Politiche Agricole Maurizio Martina e contestualmente alla Vicepresidente della IX Commissione Agricoltura e Produzione Agroalimentare del Senato, sen. Leana Pignedoli. Successivamente il documento è stato consegnato in un’iniziativa pubblica il 28 settembre 2015 in Sala Giunta della Provincia di Reggio Emilia alle autorità reggiane: Presidente della Provincia Giammaria Manghi, Assessore alla Rigenerazione urbana e del territorio del Comune Alex Pratissoli, Associazioni di categoria, Confederazione Italiana Agricoltori, Coldiretti e Confagricoltura. Presenti Albertina Soliani presidente Istituto Cervi, Gabriella Bonini referente scientifico Biblioteca Archivio Emilio Sereni e Rossano Pazzagli direttore della Summer School Emilio Sereni. Il documento afferma il legame tra qualità della produzione alimentare e qualità del paesaggio e la necessità di sviluppare forme di democrazia alimentare con l’obiettivo di mangiare bene e mangiare tutti, ridando valore al territorio e all’attività degli agricoltori che storicamente hanno in larga parte contribuito alla produzione alimentare e alla costruzione della democrazia.

Documento conclusivo La VII edizione della Summer School “Emilio Sereni”, dedicata ai “Paesaggi del cibo”, inaugurata a Expo-Milano nel padiglione Biodiversity Park il 25 agosto 2015 e svoltasi all’Istituto Cervi dal 26 al 29 agosto 2015, ha elaborato, a conclusione dei suoi lavori, il seguente documento, da far circolare tra tutti i partecipanti e da proporre alle istituzioni nazionali e locali, al mondo della ricerca e alle scuole come base per orientare le rispettive scelte e attività verso il paesaggio e il cibo. Una sintesi di tale documento verrà inoltrata quale contributo dell’Istituto Alcide Cervi alla Carta di Milano, della quale intende essere anche sottoscrittore. 291


Considerato che La produzione e il consumo di cibo sono strettamente legati al paesaggio e alle sue trasformazioni, e che questo rappresenta lo specchio dei regimi alimentari e delle scelte produttive. Il paesaggio agrario è un bene comune frutto della interazione tra uomo e natura, la forma che l’uomo imprime al territorio con la produzione di prodotti alimentari tramite l’agricoltura e l’allevamento. Il paesaggio, parte del patrimonio culturale, tutelato in Italia dalla Costituzione (art. 9), dalla Convenzione europea sul paesaggio e dal Codice dei beni culturali e del paesaggio, rappresenta un importante fattore relazionale, di civiltà e di identità territoriale. L’attuale fase di crisi economica e occupazionale richiede una maggiore attenzione al territorio rurale e al paesaggio agrario come aspetti essenziali di causa ed effetto nella produzione di cibo, per nuove forme di economia e di lavoro per le future generazioni. Le ferite al paesaggio, sempre più profonde negli ultimi decenni e connesse anche al consumo di suolo agricolo così come ai fenomeni di abbandono e di urbanizzazione, riflettono anche la crisi della politica e dei metodi democratici di assunzione delle scelte; quindi richiedono strategie e azioni immediate per la tutela e la valorizzazione del paesaggio agrario connesso alla produzione di cibo L’agricoltura è il settore produttivo più importante per la produzione di cibo, la produzione e la trasformazione del paesaggio, nonché elemento essenziale per la sua riproduzione. Ne consegue che le politiche alimentari, agricole e urbanistiche rappresentano lo strumento principale per il governo delle trasformazioni. Il superamento dell’agricoltura contadina, causato dall’abbandono, dalla specializzazione colturale, da un consumo alimentare spesso sbagliato e dalla standardizzazione dei mercati e degli stili di vita, ha determinato la crisi della cura del territorio, aprendo molteplici problemi ambientali e indebolendo le strategie alimentare locali di molte parti del mondo. I processi di pianificazione richiedono di essere accompagnati da adeguati processi di ordine culturale, che privilegino la formazione e l’educazione al paesaggio connessa all’educazione e alla coscienza alimentare. Il paesaggio è una questione di tutti, e la filiera agricoltura-cibo-paesaggio contribuisce anche sul piano culturale a dare concretezza all’obiettivo di diffondere una coscienza alimentare e paesaggistica.

Riteniamo che Sia necessario riconoscere l’agricoltura come produttore di cibo e di paesaggio, ma anche come fattore di giustizia globale e di promozione dei diritti dei produttori e dei consumatori, affinché il cibo sia effettivo indicatore del processo di uguaglianza e di giustizia. Le scelte mondiali, nazionali e locali relative al cibo e al paesaggio debbano essere assunte in forma democratica, rispettando il diritto alla partecipazione, individuando nella dimensione regionale e locale il terreno privilegiato per l’elaborazione e la pratica di buone politiche di paesaggio. La dimensione locale, la partecipazione, il legame con la pianificazione territoriale e, infine, il rapporto tra paesaggio e democrazia sono tutti aspetti fondamentali per uscire dalla crisi e favorire il diritto al cibo di qualità per tutti. Sia necessario favorire la formazione di una coscienza di luogo o di territorio, rivalutando 292


anche il ruolo dell’agricoltura contadina. L’agricoltura deve quindi tornare ad essere un aspetto importante non solo del dibattito scientifico e culturale, ma anche della pianificazione territoriale, la base delle politiche e degli strumenti locali di governo del territorio – da quelli urbanistici a quelli ambientali, da quelli economici a quelli sociali - coniugando la sostenibilità economica delle aziende agricole con la conservazione della trama storica dei paesaggi, limitando la specializzazione estrema e la separazione degli spazi rurali, riconnettendo agricoltura e comunità, città e campagna, consumo locale e mercato globale. Le strategie alimentari e la pianificazione territoriale devono tenere conto in via prioritaria del paesaggio agrario, delle sue diversità e delle relazioni esistenti tra questo e il cibo nell’ambito delle comunità locali, sia in termini di percezione sociale che di equilibrio tra popolazione e risorse e tra componenti territoriali, a partire dal cruciale rapporto tra città e campagna. Le politiche economiche, ambientali e alimentari ai vari livelli devono essere orientate alla difesa della superficie agricola e alla salvaguardia del paesaggio agrario, tramite la conservazione delle trame storiche e il governo ragionato delle trasformazioni, per limitare il consumo di suolo fertile, che costituisce una risorsa limitata ed essenziale per la produzione di beni alimentari e per la salvaguardia dei caratteri delle identità locali. Le politiche culturali e della formazione tengano conto dei rapporti tra paesaggio e società, promuovendo la conoscenza della filiera agricoltura-cibo-paesaggio, individuando i piani-progetti di paesaggio anche come strumenti di democrazia tendenti a favorire il benessere individuale e il benessere sociale delle persone. Sia indispensabile sviluppare forme di democrazia alimentare con l’obiettivo di mangiare bene e mangiare tutti, specialmente per l’infanzia in tutti i Paesi, e ridare valore al territorio e all’attività degli agricoltori (contadini), che storicamente hanno in larga parte contribuito alle produzioni alimentari a alla costruzione della democrazia in tanti singoli Paesi. L’attenzione al paesaggio, alla biodiversità e alla qualità del cibo sono elementi importanti di un modello di sviluppo volto a rafforzare il pilastro dello sviluppo rurale e a favorire l’emergere un’agricoltura sostenibile, costruita attraverso un processo diffuso in grado di coniugare popolazione e risorse naturali, produzione e ambiente, locale e globale, impresa e lavoro, mercato e democrazia alimentare. Sul piano politico e culturale sia necessario ragionare attorno al cibo e alle filiere energetiche per recuperare la complessità dei sistemi agricoli territoriali, dotandoli della capacità di essere attori protagonisti del mercato globale, dei circuiti locali di approvvigionamento alimentare e della riconnessione tra città e campagna in direzione di un nuovo patto sociale tra popolazione urbana e produzione agricola, che significa prima di tutto produzione di cibo. Istituto A. Cervi, Gattatico (Reggo Emilia), 29 agosto 2015

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Insegnare Il Paesaggio! La formazione e l’educazione per una cultura del paesaggio nell’eredità di Emilio Sereni e nell’esperienza della Regione Emilia-Romagna

Introduzione Nell’ambito di Milano Expo 2015, il 20 settembre 2015, durante la Settimana del protagonismo dell’Emilia Romagna, l’Istituto Alcide Cervi - Biblioteca Emilio Sereni (avvalendosi della sua esperienza pluriennale di formazione sui temi interdisciplinari che afferiscono al paesaggio agrario in particolare, Summer School Emilio Sereni, Scuola di Governo del Territorio SdGT Emilio Sereni, per professionisti e per studenti -edizioni Young-, Corsi di formazione per docenti di ogni ordine scolastico) e il Servizio regionale Pianificazione urbanistica, paesaggio e uso sostenibile del territorio della Regione Emilia Romagna (che svolge dal 2006 corsi di formazione per operatori del Paesaggio di concerto con le Amministrazioni locali e il MiBACT) hanno organizzato un FORUM dal titolo INSEGNARE IL PAESAGGIO! L’incontro, avvenuto tra gli Amministratori pubblici e i rappresentanti della cultura universitaria, ha posto l’attenzione sul ruolo della formazione, a ogni livello e grado, per aumentare la sensibilizzazione e la conoscenza del paesaggio, così da contrastare i fenomeni di progressivo abbandono, di smisurata industrializzazione, di intensa urbanizzazione e di consumo di suolo che ne compromettono l’integrità e le possibilità di sviluppo. L’esito è diventato il Contributo n. 115 alla Carta di Milano (riportato integralmente nelle pagine a seguire) che segnala la fondamentale importanza della formazione e della divulgazione per lo sviluppo di una cultura del paesaggio, al fine di indirizzare azioni e politiche dirette al miglioramento della qualità dei nostri territori.

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Contributo n. 115 alla Carta di Milano EXPO Milano – FORUM 20 settembre 2015 Num. Reg. Proposta: GPG/2015/1860 LA GIUNTA DELLA REGIONE EMILIA-ROMAGNA

Dato atto che: Dal 1 maggio al 31 ottobre 2015 è stata realizzata l’Esposizione Universale di Milano, EXPO 2015, avente come tema “Nutrire il Pianeta, Energia per la Vita”; i temi proposti dall’Expo Milano 2015 e la visibilità di cui l’evento nel suo insieme gode, hanno consentito alla Regione Emilia-Romagna la promozione di molteplici aspetti dell’economia emiliano-romagnola nella settimana del protagonismo che si è svolta dal 19 settembre al 26 settembre 2015;

Premesso che: La Regione, attraverso il Servizio regionale Pianificazione urbanistica, paesaggio e uso sostenibile del territorio, svolge dal 2006 percorsi formativi e laboratoriali, denominati Materia Paesaggio, di concerto con le Amministrazioni locali e il MiBACT, e nelle ultime due edizioni anche con il Servizio Territorio rurale ed attività faunistico-venatorie, con il duplice intento di creare un linguaggio comune fra gli attori territoriali e offrire strumenti tecnici e amministrativi utili al miglioramento della gestione del territorio; L’Istituto Alcide Cervi-Biblioteca Emilio Sereni, da qui in avanti Istituto, svolge attività di divulgazione del tema del paesaggio in collaborazione con le maggiori Università italiane;

Considerato che: La Regione e l’Istituto constatano che il nostro Paese offre un patrimonio enorme di paesaggi costruiti dall’uomo nel corso dei secoli, rappresentativi di chi li ha calpestati e vissuti lasciandovi l’impronta; essi costituiscono la nostra ricchezza, l’espressione della nostra identità culturale e l’immagine del Paese nel mondo. Ancora attuale è il pensiero di Emilio Sereni per il quale il paesaggio è “quella forma che l’uomo, nel corso ed ai fini delle sue attività produttive agricole, coscientemente e sistematicamente imprime al paesaggio naturale” (E. Sereni, Storia del paesaggio agrario italiano, 1961); La Regione e l’Istituto condividono che l’impegno alla conoscenza, a ogni livello e grado, per contrastare i fenomeni di progressivo abbandono, di smisurata industrializzazione, di intensa urbanizzazione e di spreco che ne compromettono l’integrità e le possibilità di sviluppo, sono un impegno che dovrebbe accomunare chi fa formazione sul paesaggio e chi lo governa; La condivisione di questi principi ha convinto la Regione e l’Istituto a promuovere all’interno della settimana del protagonismo della Regione Emilia-Romagna a EXPO 2015 un Forum per riflettere sul ruolo della formazione per aumentare la sensibilizzazione sul 296


paesaggio e per migliorare gli strumenti dei quali ci dotiamo al fine di gestirne la qualità e di proporre economie virtuose; Al fine di preparare questa giornata, è stato svolto un incontro il 19 giugno a Gattatico, nella sede dell’Istituto, tra i rappresentanti della Regione e i docenti universitari che collaborano ordinariamente con l’Istituto stesso;

Dato atto che: Il Forum “INSEGNARE IL PAESAGGIO! La formazione e l’educazione per una cultura del paesaggio nell’eredità di Emilio Sereni e nell’esperienza della Regione Emilia-Romagna” si è svolto il 20 settembre presso la Sala Meeting di Palazzo Italia, dalle ore 15 alle ore 18, durante la settimana del protagonismo della Regione Emilia Romagna a EXPO 2015; Al Forum sono stati invitati rappresentanti delle istituzioni pubbliche (funzionari e amministratori) e delle università italiane (docenti appartenenti ad ambiti disciplinari diversi ma comunque legati allo studio del paesaggio); Ai relatori è stato chiesto di riflettere sul ruolo della formazione, a ogni livello e grado, come strumento per accrescere la sensibilizzazione e la conoscenza del paesaggio, e di raggiungere l’obiettivo di contrastare i fenomeni di progressivo abbandono, smisurata industrializzazione, intensa urbanizzazione e consumo di suolo che ne compromettono l’integrità e le possibilità di sviluppo; Il confronto, promosso tra gli Amministratori pubblici e i rappresentanti della cultura universitaria, ha deciso di lasciare un contributo alla Carta di Milano, che rappresenta l’eredità culturale di Expo Milano 2015, in merito alla fondamentale importanza della formazione per lo sviluppo di una cultura del paesaggio in Italia; Pertanto, i lavori si sono concentrati sulla discussione di un documento, redatto dal gruppo di lavoro regionale che ha organizzato l’evento, in collaborazione con l’Istituto Cervi, che muovendo dall’enunciazione di principi comuni che testimoniano della fondamentale importanza della formazione paesaggistica sia nella gestione della tutela sia nell’insegnamento universitario, si propone di inserire tali principi alla Carta di Milano, che tratta il tema soltanto marginalmente; I relatori hanno in quella sede segnalato integrazioni e modifiche del documento, e dalla discussione che si è svolta sono state individuate e condivise le proposte per giungere quindi alla predisposizione del documento finale, Allegato parte integrante e sostanziale della presente deliberazione, che sottolinea il ruolo della sensibilizzazione e formazione paesaggistica a tutti i livelli per garantire forme di produzione e gestione del territorio rurale più eque e sostenibili; Tale Documento finale costituisce il contributo che il Forum intende dare alla Carta di Milano; Vista la condivisione da parte dell’istituto sia sul testo del Documento finale sia sulla necessità che lo stesso venga inviato alla Carta di Milano quale contributo della Regione e dell’Istituto stesso;

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Ritenuto, quindi: Di prendere atto del Documento finale del Forum “INSEGNARE IL PAESAGGIO! La formazione e l’educazione per una cultura del paesaggio nell’eredità di Emilio Sereni e nell’esperienza della Regione Emilia-Romagna” svolto il 20 settembre presso la Sala Meeting di Palazzo Italia, nella settimana del protagonismo della Regione Emilia-Romagna a EXPO 2015; Di considerare tale Documento finale il contributo che la Regione Emilia-Romagna insieme all’Istituto Alcide Cervi intendono consegnare alla Carta di Milano; Di inviare, pertanto, a EXPO 2015 il Documento finale al fine di costituire un contributo per la Carta di Milano dell’EXPO 2015; Dato atto del parere allegato; Su proposta dell’Assessore ai Trasporti, Reti infrastrutture Materiali e immateriali, Programmazione territoriale e Agenda Digitale e dell’Assessore all’agricoltura, caccia e pesca A voti unanimi e palesi Delibera Di prendere atto del Documento finale del Forum “INSEGNARE IL PAESAGGIO! La formazione e l’educazione per una cultura del paesaggio nell’eredità di Emilio Sereni e nell’esperienza della Regione Emilia-Romagna” svolto il 20 settembre presso la Sala Meeting di Palazzo Italia, EXPO 2015, organizzato dalla Regione Emilia-Romagna di concerto con l’Istituto Alcide Cervi-Biblioteca Emilio Sereni; Di considerare tale Documento finale il contributo che la Regione Emilia-Romagna insieme all’Istituto Alcide Cervi intendono consegnare alla Carta di Milano; di inviare, pertanto, a EXPO 2015 tale Documento finale del Forum, quale contributo della Regione Emilia-Romagna, di concerto con l’Istituto Alcide Cervi-Biblioteca Emilio Sereni, alla Carta di Milano; Di dare opportuna diffusione, informazione e conoscenza in tutte le sedi del Documento finale del Forum “INSEGNARE IL PAESAGGIO! La formazione e l’educazione per una cultura del paesaggio nell’eredità di Emilio Sereni e nell’esperienza della Regione Emilia-Romagna”.

INSEGNARE IL PAESAGGIO! La formazione e l’educazione per una cultura del paesaggio nell’eredità di Emilio Sereni e nell’esperienza della Regione Emilia-Romagna Il nostro Paese ci offre un patrimonio enorme di paesaggi costruiti dall’uomo nel corso dei secoli, rappresentativi di chi li ha calpestati e vissuti lasciandovi l’impronta; essi costituiscono la nostra ricchezza, l’espressione della nostra identità culturale e l’immagine del Paese nel mondo. Ancora attuale è il pensiero di Emilio Sereni per il quale il paesaggio è “quella forma che l’uomo, nel corso ed ai fini delle sue attività produttive agricole, coscientemente e sistematicamente imprime al paesaggio naturale” (E. Sereni, Storia del paesaggio agrario italiano, 1961). L’impegno alla conoscenza, a ogni livello e grado, per contrastare i fenomeni di progressivo abbandono, di smisurata industrializzazione, di intensa urbanizzazione e di 298


spreco che ne compromettono l’integrità e le possibilità di sviluppo, sono un impegno che dovrebbe accomunare chi fa formazione sul paesaggio e chi lo governa. Il FORUM si propone di riflettere sul ruolo della formazione per aumentare la sensibilizzazione sul paesaggio e per migliorare gli strumenti dei quali ci dotiamo al fine di gestirne la qualità e di proporre economie virtuose. Il testo di seguito riportato è articolato in input e output. Gli input sono costituiti da una sintesi delle riflessioni condotte dall’Istituto Alcide Cervi, riportate nel Memorandum della Summer School Emilio Sereni 2014, e dalla Regione Emilia-Romagna quale risultato delle esperienze condotte ad oggi e discusse nell’incontro svolto nella sede dell’Istituto a Gattatico, Reggio Emilia, il 19 giugno scorso insieme ai propri partner. Gli output sono costituiti da una possibile integrazione alla Carta di Milano.

INPUT: riflessioni di partenza Principi generali • Il paesaggio agrario è un bene comune frutto della interazione tra uomo e natura, la forma che l’uomo imprime al territorio con la produzione di prodotti alimentari e di altri beni di consumo tramite l’agricoltura e l’allevamento. Esso è pertanto l’espressione stratificata dell’attività agricola e dell’organizzazione del territorio tramite i diversi sistemi agrari, le forme dell’insediamento e le scelte produttive, ed è il frutto di un processo ininterrotto di trasformazioni storiche.

Il paesaggio agrario è un bene comune

• Il paesaggio, parte del patrimonio culturale, tutelato in Italia dalla Costituzione (art. 9), dalla Convenzione europea sul paesaggio e dal Codice dei beni culturali e del paesaggio, rappresenta un fattore relazionale e di identità territoriale e una risorsa di primaria importanza per il Paese e per le comunità locali.

Il paesaggio è una risorsa primaria chiave per l’ identità territoriale

• L’attuale fase di crisi economica e occupazionale richiede una maggiore attenzione al territorio rurale e al paesaggio agrario come aspetti essenziali per nuove forme di economia e di lavoro per le future generazioni.

Il paesaggio agrario come leva di sviluppo per le generazioni future

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• L’agricoltura è il settore produttivo che maggiormente influenza la salvaguardia del paesaggio. Ne consegue che le politiche agricole e quelle di governo del territorio rappresentano lo strumento principale per la gestione delle trasformazioni.

Centralità delle politiche agricole e politiche per il governo del territorio

• L’omologazione delle produzioni agricole ha prodotto effetti negativi sul paesaggio e ha mostrato la fragilità dei sistemi di produzione fondati sulla quantità piuttosto che sulla qualità e sul contesto. La biodiversità deve diventare, al contrario, la strategia da perseguire sia nelle coltivazioni sia negli allevamenti, favorendo nel contempo lo sviluppo di processi produttivi integrati dove il sottoprodotto di un processo può diventare la materia prima per un altro.

Qualità delle produzioni agricole e biodiversità

• Le ferite al paesaggio, sempre più profonde negli ultimi decenni e connesse anche al consumo di suolo agricolo così come ai fenomeni di abbandono e di urbanizzazione, richiedono strategie e azioni immediate per la tutela e la valorizzazione, dai piani paesaggistici regionali fino agli strumenti urbanistici comunali orientati alla valorizzazione del paesaggio.

Ruolo strategico degli strumenti di governo delle trasformazioni orientati al paesaggio

• La pianificazione territoriale deve tenere conto in via prioritaria del paesaggio agrario, delle sue diversità e delle relazioni esistenti tra questo e le comunità locali, sia in termini di percezione sociale che di equilibrio tra popolazione e risorse e tra componenti territoriali, a partire dal cruciale rapporto tra città e campagna.

Relazioni tra paesaggio e comunità locali

• Le scelte sul paesaggio agrario devono coinvolgere, oltre agli esperti e alle istituzioni, anche altri attori che devono partecipare ai processi decisionali: dalle imprese agricole coinvolte direttamente nella costruzione del paesaggio agrario alla popolazione che vi abita e lo fruisce.

Paesaggio e partecipazione

• I processi di pianificazione richiedono di essere accompagnati da adeguati processi culturali, che privilegino la formazione e l’educazione al paesaggio, orientate sulla filiera conoscenza-tutelavalorizzazione e legate al sistema agricolo, agli ecosistemi e al sistema complessivo dei beni culturali.

Formazione ed educazione

• È necessario che la sensibilizzazione, formazione ed educazione al paesaggio, siano indirizzate a svariati interlocutori, per superare un profondo gap che riguarda la consapevolezza dei valori (storici, culturali, identitari, sociali, ecologici ed economici) legati al concetto di paesaggio.

Paesaggio e riconoscimento dei valori

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Destinatari della sensibilizzazione/educazione/formazione • Le comunità locali devono essere destinatarie di processi di sensibilizzazione e presa di coscienza del loro paesaggio quotidiano e del valore intrinseco di tale bene comune. Il paesaggio è senso di appartenenza, identità, memoria intorno al quale vecchi e nuovi cittadini possono raccogliersi e riconoscersi all’interno di una comunità. Una volta compreso questo la comunità saprà presidiare i valori paesaggistici in cui si identifica e proporre il cambiamento per ciò che percepisce come avulso. • I primi destinatari della formazione sono gli studenti delle scuole di diverso grado affinché progressivamente le nuove generazioni introiettino il valore del paesaggio e il suo significato sia nella loro vita quotidiana sia all’interno della comunità, e assumano spontaneamente un punto di vista sensibile al tema. Nel momento in cui il paesaggio entra a scuola rivela la sua carica formativa perché mobilita le aree della cittadinanza attiva. È necessario elaborare e portare nelle scuole percorsi educativi ad hoc indirizzati agli istituti primari, secondari e alla formazione universitaria oltre a sostenere e consolidare le esperienze già esistenti che possono costituire buone pratiche di insegnamento sulla materia.

La sensibilizzazione delle comunità locali

L’educazione nelle scuole: gli studenti

• È fondamentale trasmettere agli operatori del settore agricolo la consapevolezza del loro ruolo nella conservazione, modificazione e creazione di nuovi paesaggi e di quanto il paesaggio agrario di qualità possa veicolare una produzione di qualità, in cui il contesto paesaggistico contribuisce al valore stesso del prodotto sul mercato. Possono coadiuvare gli imprenditori agricoli diversi operatori che è opportuno lavorino in sinergia e con la consapevolezza dei valori paesaggistici che i loro progetti intercettano.

La formazione degli operatori: gli imprenditori agricoli

• È indispensabile che le diverse figure di liberi professionisti che operano sul territorio, modificandolo, accolgano la complessità della “materia paesaggio”. La formazione deve indirizzarsi a sviluppare capacità di lettura e di analisi dei diversi tipi di paesaggio e ad affrontare la sfida della trasformazione del territorio, unendo i diversi saperi e allargando lo sguardo al contesto nel quale l’intervento stesso riverbera i suoi effetti. Lo stesso approccio deve essere adottato anche dai tecnici delle Pubbliche Amministrazioni, che hanno il compito del controllo delle trasformazioni sul territorio accompagnando, con la valutazione degli interventi proposti, l’azione progettuale nel suo svolgersi.

La formazione degli operatori: i tecnici

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• Un’attenzione particolare va diretta alla formazione degli Amministratori Pubblici che, quali rappresentanti di comunità locali più consapevoli e sensibili, devono comprendere le potenzialità che le politiche dirette alla tutela e valorizzazione del paesaggio offrono in termini di sviluppo locale, salvaguardia dell’ambiente, salute pubblica, benessere per i cittadini.

La formazione degli operatori: gli Amministratori Pubblici

Obiettivi delle esperienze educative/formative • La formazione sul paesaggio deve essere concepita come un processo continuo e deve comprendere attività diversificate riuscendo ad intercettare i destinatari più volte con obiettivi e tempi diversificati. Fondamentale è l’educazione nelle scuole ma è un obiettivo che può essere raggiunto solo nel lungo periodo. Nel medio-periodo, in particolare per il paesaggio agrario, è centrale la formazione dei giovani imprenditori agricoli per i quali la qualità del paesaggio deve essere vista non come limitazione ma come chance per migliorare la competitività delle aziende.

Creare una formazione/ educazione continua sul paesaggio

• Nello studio del paesaggio agrario le esperienze di ricerca e di formazione devono sperimentare approcci multidisciplinari, elaborando un linguaggio comune, superando i confini dei singoli ambiti scientifici e della specializzazione disciplinare per recuperare una visione unitaria del territorio e dell’agricoltura come attività decisiva non solo del passato ma anche del futuro.

Sperimentare approcci interdisciplinari

• Si auspica un collegamento più organico tra i progetti e le attività del MIPAAF riguardanti gli aspetti culturali del territorio rurale, finalizzati alla conoscenza, tutela, valorizzazione del paesaggio agrario italiano.

Favorire un raccordo tra esperienze di ricerca

• I processi di sensibilizzazione delle comunità locali devono essere finalizzate alla diffusione della conoscenza dei paesaggi locali attraverso l’avvio di processi di avvicinamento ai contesti, di riconoscimento del patrimonio presente, di comprensione delle relazioni tra gli elementi costitutivi. I processi di valorizzazione possono attivare percorsi di progressivo svelamento dei paesaggi contribuendo alla scoperta di aspetti generalmente non noti o non riconosciuti.

Diffondere la conoscenza e svelare i paesaggi

• La formazione deve diventare il motore per diffondere una cultura della trasformazione sostenibile che possa coniugare la filiera della conoscenza tecnica e culturale con quella del “saper fare” degli imprenditori agricoli e della popolazione locale e che integra tra loro soggetti diversi, da un lato, le amministrazioni pubbliche di ogni livello e grado e, dall’altro, la cittadinanza.

Promuovere trasformazioni sostenibili frutto di diversi saperi e poteri

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• La formazione deve diventare un punto di riferimento per le amministrazioni locali al fine di predisporre strumenti di pianificazione orientati alla tutela attiva del paesaggio agrario, alla conservazione delle trame storiche, alla valorizzazione delle specificità così come alla gestione delle trasformazioni, al contenimento di ogni ulteriore riduzione del suolo fertile, risorsa limitata ed essenziale per la produzione di beni alimentari e per la salvaguardia dei caratteri e delle identità locali.

Adeguare gli strumenti di governo delle trasformazioni

• La necessità di far convergere interessi, obiettivi e risorse economiche richiede la creazione di nuovi strumenti di cooperazione per definire gli impegni reciproci delle parti nel perseguire un progetto con strategie chiare e condivise. Occorre arricchire la cassetta degli attrezzi tradizionali con nuovi dispositivi. La conoscenza di “forme pattizie” innovative potrà stimolare nuove esperienze di cittadinanza attiva e accordi con le Amministrazioni locali finalizzati alla gestione del paesaggio. Nei contesti marginali o in quelli ad elevata conflittualità tali strumenti devono essere l’obiettivo dei processi di concertazione.

Creare nuovi strumenti per la cooperazione

• La formazione degli operatori agricoli deve aumentare la consapevolezza degli effetti positivi e negativi che la loro attività esercita sul contesto paesaggistico e nel contempo sviluppare la capacità di cogliere dal contesto le opportunità offerte fornendo un supporto operativo alla definizione del progetto aziendale in una prospettiva più ampia.

Sviluppare una visione imprenditoriale negli agricoltori

output: proposta di contributo per “LA CARTA DI MILANO” Noi crediamo che • Paesaggio e democrazia siano elementi fondamentali per uscire dalla crisi e favorire il diritto al cibo per tutti. • L’attività agricola sia fondamentale non solo per la produzione di beni alimentari e primari, ma anche in quanto contribuisce a disegnare il paesaggio, a proteggere l’ambiente e il territorio e a conservare la biodiversità. • Il paesaggio agrario sia un bene comune e una “risorsa pubblica”, e come tale vada salvaguardato e valorizzato, contrastando il consumo di suolo, l’abbandono e il degrado e imparando a leggerne anche la dimensione culturale e simbolica. • La salvaguardia del paesaggio comporti la difesa dei suoli, delle acque e degli equilibri ecologici, il rispetto dei valori estetici, panoramici e culturali, il supporto alle popolazioni impegnate nella conservazione dei caratteri locali, e, infine, che possa anche diventare una leva di sviluppo economico e sociale per le popolazioni. • Il processo di trasformazioni storiche che ha originato diversi sistemi agrari, le forme dell’insediamento e le scelte produttive, così come il cibo frutto di questi paesaggi, siano 303


parte integrante di una cultura di un determinato territorio, e ne costituiscano l’identità relazionale e la memoria. • La conoscenza sia una precondizione per lo sviluppo di una cultura del paesaggio e per aumentare il senso di responsabilità degli attori coinvolti nella conservazione/ valorizzazione della specificità dei contesti e dei loro prodotti alimentari. Il territorio e la sua dimensione paesaggistica determinano le condizioni di vita e di riproduzione della vita, riguardano quindi direttamente questioni di equità e giustizia. • La valorizzazione del paesaggio agrario e dei suoi prodotti non possa prescindere dall’adozione di approcci multidisciplinari finalizzati a recuperare una visione unitaria del territorio e dell’agricoltura, evitando la mercificazione dei valori. • Sia indispensabile restituire centralità al territorio locale - combinata alla responsabilizzazione sulle questioni di scala globale - riconnettendo gli individui alle comunità, favorendo le relazioni tra le diverse componenti territoriali e integrando i saperi esperti a quelli contestuali.

Siamo consapevoli che • Gli agricoltori, gli allevatori e i pescatori operano in una posizione fondamentale per la nostra nutrizione; essi hanno uguali diritti e doveri in relazione al loro lavoro, sia singoli imprenditori che come settore produttivo. • L’agricoltura è il settore produttivo più importante per la salvaguardia del paesaggio e per la sua riproduzione. Le attività dell’agricoltura e dell’allevamento hanno effetti diretti sul paesaggio e, se da un lato possono garantire la sua resilienza attraverso una costante manutenzione, dall’altro, senza una gestione consapevole, possono alterarne in modo irreversibile le caratteristiche, mettendo a rischio le diversità e le qualità connotanti. • Le politiche agricole, quelle territoriali e urbanistiche rappresentano lo strumento principale per la gestione delle trasformazioni. • Il paesaggio agrario rappresenta una risorsa primaria per le generazioni future al fine di perseguire uno sviluppo economico sostenibile dei loro ambienti di vita.

Poiché sappiamo di essere responsabili di lasciare un mondo più sano, equo e sostenibile alle generazioni future in quanto cittadine e cittadini, noi ci impegniamo a • Promuovere l’educazione alimentare e ambientale e la conoscenza dei paesaggi locali in ambito familiare e scolastico per una crescita consapevole delle nuove generazioni. • Scegliere consapevolmente gli alimenti, considerando l’impatto della loro produzione sull’ambiente e sul paesaggio.

In quanto membri della società civile, noi ci impegniamo a • Far sentire la nostra voce a tutti i livelli decisionali, tramite gli strumenti della comunicazione e della partecipazione al fine di determinare piani e progetti per un futuro più equo e sostenibile. 304


• Promuovere strumenti che difendano e sostengano il reddito di agricoltori, allevatori e pescatori e il loro ruolo di fornitori di servizi (ecologici, ambientali, di sicurezza), potenziando gli strumenti di organizzazione e cooperazione, anche fra piccoli produttori. • Partecipare alle iniziative delle comunità locali finalizzate alla conoscenza dei paesaggi locali: dai paesaggi agrari storici, alle risorse e ai valori presenti, ai loro prodotti tipici e tradizionali.

In quanto imprese, noi ci impegniamo a • Mantenere e promuovere la diversificazione delle forme di coltivazione e di allevamento al fine di preservare la biodiversità e il benessere degli animali e di migliorare le relazioni tra i prodotti e paesaggi di produzione. • Sviluppare processi produttivi integrati che riducano gli sprechi e trattino i sottoprodotti di un ciclo come risorse primarie di altri cicli produttivi. • Concepire l’agricoltura multifunzionale in una logica “multideale”, cioè che possa accompagnare la costruzione di valori per un nuovo modello di sviluppo di società e di relazione tra i cittadini volto a riorganizzare la capacità di produrre in modo sostenibile.

Quindi noi, donne e uomini, cittadini ‘di questo pianeta, sottoscrivendo questa Carta di Milano, chiediamo con forza a governi, istituzioni e organizzazioni internazionali di impegnarsi a • Rafforzare le leggi per contrastare la riduzione della superficie agricola e per regolamentare gli investimenti sulle risorse naturali, favorendo la partecipazione delle popolazioni locali. • Promuovere patti globali riguardo le strategie alimentari urbane e rurali in relazione alla sostenibilità e all’accesso al cibo sano e nutriente, che coinvolgano sia le aree metropolitane del pianeta sia le campagne. È necessario attuare un nuovo patto cittàcampagna coinvolgendo gli attori territoriali. • Avviare processi di ordine culturale orientati alla filiera conoscenza-tutelavalorizzazione e legati al sistema agricolo, agli ecosistemi e al sistema complessivo dei beni culturali mettendo in evidenza la stretta relazione tra patrimonio e paesaggio. • Introdurre o rafforzare nelle scuole e nelle mense scolastiche i programmi di educazione alimentare, fisica e ambientale come strumenti di salute e pre­venzione, valorizzando in particolare la conoscenza e lo scambio di culture alimentari diverse, a partire dai prodotti locali, tipici e biologici e dalla conoscenza dei paesaggi d’origine con le implicazioni culturali che questi esprimono. • Definire un progetto formativo continuo sul paesaggio agrario, articolato in relazione ai destinatari e agli obiettivi che si intendono raggiungere nel quale la scuola del territorio abbia un ruolo da protagonista a partire anche dalle piccole realtà scolastiche. • Ideare percorsi formativi rivolti a tutti i soggetti che generano un impatto sul paesaggio, compresi i decisori politici, in forma multidisciplinare e con un approccio etico costruendo comportamenti responsabili. • Valorizzare e incrementare la biodiversità a livello sia locale sia globale, grazie anche a indicatori che ne definiscano non solo il valore biologico ma anche il valore economico, 305


per rafforzare le identità delle comunità, promuovere l’educazione ambientale, il benessere dei cittadini e il turismo eco-sostenibile. • Definire, ai diversi livelli, strumenti di pianificazione che fissino strategie e azioni mirate alla tutela attiva e alla valorizzazione dei paesaggi agrari, della loro diversità e delle relazioni esistenti tra questi e le comunità locali in trasformazione, in termini sia di percezione sociale sia di equilibrio tra popolazione e risorse. • Sensibilizzare le popolazioni locali, gli studenti, gli imprenditori agricoli, i tecnici e gli Amministratori locali sui valori intrinseci dei paesaggi agrari e sugli effetti, positivi e negativi, che il loro operare e le loro attività possono esercitare sugli stessi. • Sperimentare nuovi strumenti di cooperazione tra attori con i quali fissare gli impegni reciproci assunti dalle parti per il raggiungimento di progetti strategici condivisi orientati al miglioramento della qualità degli ambienti di vita. • Costruire e incentivare reti territoriali che mettano a confronto attori diversi sul tema del paesaggio, dai musei universitari - come presidi della diffusione della cultura scientifica - a quelli locali, ai centri di ricerca, alle associazioni di ambito ambientale, culturale, storico, ai gruppi informali di interesse, al fine di rafforzare le pratiche di cittadinanza attiva con elementi di conoscenza e consapevolezza.

Il documento è stato elaborato in collaborazione con: Michele

Alinovi

Gabriella

Bonini

Mario

Calidoni

Paola

Capriotti

Daniela

Cardinali

Elena

Corradini

Carla

Danani

Emiro

Endrighi

Mauro

Fini

Carlo Antonio Alberto Marco Marcella Sandra Barbara

Gemignani Gioiellieri Giombetti Giubilini Isola Manara Marangoni

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Assessore del Comune di Parma [Urbanistica, Lavori Pubblici, Energia, Edilizia Privata,T.S.O.] Responsabile scientifico Biblioteca Archivio Emilio Sereni Comitato scientifico Istituto Cervi, MIUR esperto di educazione al patrimonio Consulente Formez PA RER, Servizio Pianificazione urbanistica, Paesaggio e Uso sostenibile del territorio Comitato scientifico Istituto Cervi, Università di Modena e Reggio Università di Macerata Comitato scientifico Istituto Cervi, Università di Modena e Reggio Emilia RER, Servizio Territorio Rurale e Attività FaunisticoVenatorie Università di Parma ANCI ER CIA – ufficio del Presidente Roma ANCI ER RER, Servizio Qualità Urbana e Politiche Abitative Segretariato Regionale del MiBACT Consulente Formez PA


Anna

Mele

Rossano

Pazzagli

RER, Servizio Pianificazione urbanistica, Paesaggio e Uso sostenibile del territorio Comitato scientifico Istituto Cervi, Direttore Summer School Emilio Sereni, Università del Molise

Alex

Pratissoli

Assessore del Comune di Reggio Emilia [Rigenerazione urbana e del territorio, Pianificazione urbanistica del paesaggio]

Laura

Punzo

RER, Servizio Pianificazione urbanistica, Paesaggio e Uso sostenibile del territorio

Alessandra Rossi

EDISU, Torino, Ente per il diritto allo studio universitario

Laura

Schiff

RER, Servizio Commercio, Turismo e Qualità Aree Turistiche

Albertina

Soliani

Carlo

Tosco

Presidente Istituto Alcide Cervi Comitato scientifico Istituto Cervi e Summer School Emilio Sereni, Politecnico Torino

Organizzazione a cura di: Paola

Capriotti

Daniela

Cardinali

Lorella

Dalmonte

Marcella Maria

Isola Papadia

Laura

Punzo

Emiliana

Zigatti

Consulente Formez PA RER, Servizio Pianificazione urbanistica, Paesaggio e Uso sostenibile del territorio RER, Servizio Pianificazione urbanistica, Paesaggio e Uso sostenibile del territorio RER, Servizio Qualità Urbana e Politiche Abitative Segreteria organizzativa Istituto Cervi RER, Servizio Pianificazione urbanistica, Paesaggio e Uso sostenibile del territorio Segreteria organizzativa Istituto Cervi

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I VOLTI DELLA SCUOLA



Inaugurazione della VII edizione della Summe School nel Biodiversity Park di Expo Milano 2015

Albertina Soliani e Massimo Montanari

Rossano Pazzagli

Gabriella Bonini e Dino Scanavino

Leana Pignedoli 311


Davide Marino

Momenti di premiazione

Giuseppe Barbera 312

La plenaria

Daniela Perco

In viaggio verso EXPO


Aperi-libro: presentazioni dei libri “Po, lungo il fiume. Paesaggio di sapori” di Gigi Montali, “Patrimoni Italiani, Paesaggi, sapori e colori” a cura di Marco De Vecchi e Carlo Tosco, “I racconti della tavola” di Massimo Montanari e “Ritratti di donna e di terra” di AnnA Kauber

Partecipanti al Laboratorio “La distribuzione. I luoghi del Mercato”

Partecipanti al Laboratorio “La produzione. La via lattea padana”

Massimo Montanari e Gabriella Bonini 313


Momenti di convivialitĂ tra i partecipanti durante la cena

Anna Maria Pellegrino

Preparazione dell’attività di laboratorio sensoriale

Lo staff della cucina 314


Autori

Agnoletti Mauro Professore Associato presso l’Università di Firenze, dove insegna pianificazione del territorio rurale e storia ambientale. Il Prof. Agnoletti ha dato un contributo importante agli studi sul paesaggio agrario e rurale e al trasferimento dei risultati scientifici nelle politiche di settore. È coordinatore del gruppo di lavoro sul paesaggio del Ministero delle Politiche Agricole e Forestali e vice presidente del programma mondiale della FAO sui paesaggi agrari (GIAHS). Baldini Ugo Già Presidente CAIRE, esperto di Pianificazione Territoriale e Strategica, fondatore dell’Archivio “Osvaldo Piacentini”. Recentemente scomparso, alla sua memoria è dedicato il presente volume. Bonini Gabriella Responsabile scientifico della Biblioteca Archivio Emilio Sereni dell’Istituto Alcide Cervi, convegnistica, pubblicazioni, Summer School Emilio Sereni Storia del Paesaggio agrario italiano, Scuola di governo del territorio SdGT E. Sereni. Docente di Italiano e Storia nella Scuola superiore, Dottore di Ricerca in Scienze Tecnologiche e Biotecnologiche Agroalimentari, Università di Modena e Reggio Emilia. Bondi Giuliana Dottore veterinario dell’USL 7 di Siena, specializzazione in Sanità animale, allevamento e produzioni zootecniche; ha conseguito il Master di Secondo Livello in Patologia apistica e Apidologia generale ed è assaggiatrice di miele iscritta all’Albo Nazionale degli assaggiatori di Miele. Borghi Luciana Laureata all’Università di Bologna in Pedagogia con abilitazione all’insegnamento in Lettere. Ha insegnato presso asili nido del comune di Reggio Emilia e nella scuola primaria fino al 2001. Attualmente è docente presso nella scuola secondaria di primo grado all’interno dell’Istituto Comprensivo di Rubiera. 315


Cacciali Rosita Collabora dal 2003 con l’Associazione Culturale Everelina nella gestione di spazi museali e nella realizzazione di progetti didattici dedicati a scuole e musei. Dal 2009 è coordinatore del Museo Mondo piccolo e porta avanti il progetto “Museo e Scuole in dialogo” nell’ottica di rendere il Museo un luogo in grado di studiare e progettare insieme ai giovani il paesaggio. Calidoni Mario Già insegnante, dirigente e ispettore del MiUR per la scuola secondaria di I grado, è membro esperto della Commissione Educazione e mediazione di ICOM Italia. Coordina progetti per l’educazione al patrimonio e cura pubblicazioni didattiche e divulgative sul patrimonio del territorio. Camiz Alessandro Architetto, Dottore di ricerca in Storia della Città, Direttore dell’International Centre for Heritage Studies, Kyrenia, Cyprus; Ass. Prof. Dr. Girne American University, Faculty of Architecture, Design & Fine Arts, Kyrenia, Cyprus; Adjunct Professor, University of Miami, School of Architectur; Post-dottorato alla “Sapienza”, Università di Roma. De Nisco Antonella Artista e docente di Disegno e Storia dell’Arte nella Scuola Superiore, affianca alle attività espositive collaborazioni in progetti, installazioni, eventi, lezioni e pubblicazioni. Ha ideato LAAI, Laboratorio di Arte Ambientale Itinerante, con il quale realizza installazioni territoriali intrecciate, tessute, assemblate. Raccoglie le esperienze artistiche nella serie tascabile Collane di Plastica. È l’artista che ha interpretato artisticamente il tema di tutte le edizioni della Summer School Emilio Sereni. Fanfani David Professore Associato in Tecnica e Pianificazione Urbanistica del Dipartimento di Architettura dell’Università di Firenze. Gasparini Danilo Insegna Storia dell’Agricoltura e Storia dell’alimentazione all’Università di Padova. è docente presso il Master di Ca’ Foscari in Cultura del cibo e del vino ed autore di diversi saggi di storia economica e sociale delle campagne venete, dedicati al mondo contadino, artigianale e protoindustriale e di storia dell’alimentazione e della cucina veneta. Lupatelli Giampiero Vice-Presidente CAIRE, esperto di Pianificazione Territoriale e Strategica e in Valutazione Economica, membro effettivo INU, socio fondatore dell’Archivio “Osvaldo Piacentini”. Marigliano Marco Dottorando presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore (sede di Piacenza) in “Agrofood System” (Scuola di dottorato per il Sistema Agroalimentare), ha precedentemente conseguito la Laurea Magistrale in Storia d’Europa presso l’Università degli Studi di Pavia.

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Marino Davide Docente presso la Facoltà di Scienze Matematiche, Fisiche e Naturali dell’Università del Molise (insegnamenti di Economia ed Estimo Ambientale, Principi di Economia, economia Aziendale) e presso la Facoltà di Scienze Agrarie, dell’Università del Molise (insegnamenti di Marketing dei Prodotti Agroalimentari, di Economia e Gestione dell’Azienda Agraria e Zootecnica, Estimo Forestale e Ambientale). Montanari Massimo Ordinario di Storia Medievale all’Università di Bologna, dove insegna anche Storia dell’alimentazione e dirige il Master europeo di Storia e Cultura dell’alimentazione. Dedica in particolare l’attenzione alla storia agraria e alla storia dell’alimentazione, considerate come vie d’accesso preferenziali per una ricostruzione della società medievale nel suo insieme. Innumerevoli sono i suoi contributi e i testi in questi ambiti. Monticelli Gaia Specializzanda presso la Scuola di Specializzazione in Beni Architettonici e del Paesaggio del Politecnico di Torino; è laureata in Architettura (Restauro e Valorizzazione) con la tesi La torre: da castello a colombaia. Evoluzione tra X e XVIII sec. in provincia di Reggio Emilia. Mucchi Annamaria Coordinatrice del Gruppo di Progetto Children Park - Expo Milano 2015. Pazzagli Rossano Professore associato di Storia moderna e presidente del Corso di Laurea in Scienze turistiche all’Università degli Studi del Molise. Direttore della Summer School Emilio Sereni e membro del Comitato Scientifico dell’Istituto Cervi. Autore di numerose pubblicazioni sulla realtà economica e sociale dell’Italia, fa parte della Società dei Territorialisti e della redazione delle riviste “Ricerche storiche” e “Glocale”. Porcelli Oscar Laureato in Storia presso Ca’ Foscari, Venezia, con una tesi sulla diffusione del mutualismo bracciantile nell’Oltrepo mantovano. Attualmente è scritto alla laurea magistrale in Geografia e Scienze Territoriali presso l’Interateneo di Scienze, Progetti e Politiche del Territorio dell’Università degli Studi e del Politecnico di Torino. Pozzati Alice Ha conseguito il titolo di Architetto junior presso l’Università degli Studi di Parma e di laurea magistrale in “Architettura per il restauro e la valorizzazione del patrimonio” presso il Politecnico di Torino con la tesi Progettare San Salvario. Ipotesi, dibattiti e trasformazioni tra Ottocento e Novecento. Ha lavorato presso l’Archivio Storico della Città e frequentato la scuola di Archivistica, Paleografia e Diplomatica dell’Archivio di Stato. Attualmente svolge la sua ricerca nell’ambito della storia dell’architettura, della città e del paesaggio in età contemporanea. Ranieri Alessandro Laureato in Scienze Turistiche all’Università del Molise; ha conseguito un Master in 317


Europrogettazione 2014-2020, organizzato da Europa Cube Innovation Business School ed è laureando magistrale in Pianificazione Territoriale Urbanistica e Paesaggistico-Ambientale all’università di Napoli “Federico II”.

Rizzati Massimo Agrotecnico, Provincia di Ferrara. è iscritto al Master europeo in Storia e Cultura dell’Alimentazione, presso l’Università di Bologna. Rusinà Denise Specializzanda presso la Scuola di Specializzazione in Beni Architettonici e del Paesaggio del Politecnico di Torino; è laureata in Architettura (Restauro e Valorizzazione) con la tesi Un progetto urbanistico medievale. Il caso del burg di Montjovet: una villanova preordinata. Sassi Luciano Presidente dell’Ecomuseo Isola; studioso di alimentazione e tradizioni locali e massimo esperto in conservazione del patrimonio librario e archivistico. Sotte Franco Docente di European Agricultural Policy e di Economia del Territorio e dell’Ambiente presso la Facoltà di Economia “G. Fuà” dell’Università Politecnica delle Marche ad Ancona, Presidente dell’Associazione Alessandro Bartola, Direttore di Agriregionieuropa. Tabusso Marcyan Ilaria Ha conseguito un PhD in Letteratura Comparata dall’ Universita’ della California, San Diego. Si interessa di ecocritica letteraria: il suo saggio The Cervi Family, a Peasant Story è stato pubblicato in Ecocritical Approaches to Italian Culture and Literature. The Denatured Wild nel 2016. Attualmente insegna lingua e letteratura italiana all’Università di San Diego. Tedeschi Maddalena Pedagogista, responsabile di Coordinamento Pedagogico Scuole e Nidi d’infanzia Istituzione del Comune di Reggio Emilia.

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ISBN 978 - 88 - 941999 - 0 - 1

ISTITUTO ALCIDE CERVI Via F.lli Cervi n.9 Gattatico (RE) Emilia Romagna - Italy www.istitutocervi.it biblioteca-archivio@emiliosereni.it euro 20,00


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