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Permanenze e mutazioni urbane nella postcittà I volumi delle architetture di Hans Kollhoff si stagliano decisi e inconfondibili nei cieli di diverse città europee indicando una strada controcorrente nel frammentario ed eterogeneo dibattito architettonico.L’intensità delle sue opere, riconoscendo valore ai caratteri insediativi della città, continua a tracciare una scrittura urbana precisa, costruita attraverso semplici e tradizionali elementi fondativi. Il muro, l’arco, la colonna, il basamento, il coronamento e ancora il mattone, la pietra costruiscono sequenze attive, organiche e unitarie che reinterpretano la grande tradizione della città europea, andando a occupare una posizione originale nei Sette tipi di semplicità in Architettura indicati da Franco Purini: La conformità urbana. Le diverse esperienze rivelano un’idea di città, dominata dall’oggetto architettonico che disegna e costruisce la scena urbana, affermando con forza e inequivocabile vitalità i concetti di solidità e durata dell’architettura. In particolare il lavoro svolto dall’architetto tedesco con Helga Timmermann sperimenta una diversa prospettiva del rapporto tra città e abitazione, riesaminando il tema di Abitare la città, attraverso una personale idea di oggetto urbano che elegge con chiarezza alcuni principi come la densità, la mixitè tipologica e funzionale, il rapporto con lo spazio pubblico e la forte presenza dell’architettura.
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Hans Kollhoff (Lobestein – Turingia/Germania, 1946) si laurea in architettura nel 1975 persso l’Università di Karlsruhe. Durante gli studi collabora con alcuni studi di architettura tra cui quello di Hans Hollein. Nel 1975 stesso anno vince una borsa di studio DAAD che lo porta negli Stati Uniti a studiare presso la Cornell University di New York, dove sarà allievo di O.M. Ungers. Nel 1978, dopo gli anni di formazione alla Cornell decide di aprire il proprio studio a Berlino con Arthur Ovaska e nello stesso anno diventa assistente alla Facoltà di Architettura e Design presso il Politecnico di Berlino. Nel 1984 Ovaska torna negli U.S.A e Hans Kollhoff entra in società con Helga Timmermann. È stato professore di numerose università tra cui Università di Dortmund e l’ETH di Zurigo. La ricerca svolta e le opere realizzate hanno portato Kollhoff ad ottenere una riconoscibilità in ambito internazionale come uno degli architetti più rappresentativi della cultura architettonica europea. La ricerca sulla città e sulla costruzione caratterizzano la poetica dell’architetto berlinese, le cui opere testimoniano una straordinaria continuità con la tradizione ed una altrettanto energica propulsione innovativa.
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dal carattere collettivo, attraverso forme, misure condivise e riconoscibili. La ricorrente misura classica dei fabbricati è strutturata su una geometria solida, chiaramente debitrice dell’opera di Karl Friedrich Schinkel. Le diverse esperienze rivelano l’idea di città di Kollhoff, una città dominata dall’oggetto architettonico che disegna e costruisce la scena urbana, affermando con forza e inequivocabile vitalità i concetti di solidità e durata dell’architettura. Questa riflessione si propone come una risposta alla mancanza di una pianificazione urbana efficace e convincente che, seppur da contesti teorici diversi, sembra trovare punti di contatto con le teorizzazioni sulle grandi strutture di Rem Koolhaas. In particolare il lavoro svolto dall’architetto tedesco con Helga Timmermann sperimenta una diversa prospettiva del rapporto tra città e abitazione, rifiutando quelle politiche che, a partire dagli anni ’60, hanno costruito nelle periferie agglomerati privi di strutturazione urbana, basati su studi distributivi e tipologici. Riesaminando il tema di Abitare la città proposto già dall’IBA, i progetti raccontano una personale idea di oggetto urbano che elegge con chiarezza alcuni principi come la densità, la mixitè tipologica e funzionale, il rapporto con lo spazio pubblico e la forte presenza dell’architettura. Tale oggetto non è concepito solo per le metropoli o le aree densamente consolidate ma viene proposto nelle periferie, trattate come brani di città nei quali immettere regole e elementi di forte carattere architettonico al fine di costruire una dimensione città. Questo è quanto emerge nel progetto Tegel (1989), in cui alla frammentarietà del contesto viene contrapposto un pezzo di città, attento agli spazi aperti ripensati in un’idea di superamento dei termini della piazza storica delimitata dall’edificazione perimetrale. Anche l’edificio per appartamenti nel porto di Anversa (1999-2004), che s’inserisce nel programma di riconversione funzionale dell’area, propone un modello urbano a forte densità abitativa in contrapposizione alla città diffusa. Il progetto si articola come un grande muro abitato sul sedime di vecchi Magazzini Reali, caratterizzato da momenti di discontinuità che destrutturano l’isolato urbano chiuso tradizionale. La massa muraria scava i nodi angolari, si piega come una linea aperta configurando una sequenza di spazi pubblici verso il molo, un viale alberato, una corte in corrispondenza degli ingressi. La compresenza di più funzioni è esplicitata attraverso la classica tripartizione –basamento, elevazione, trabeazione - rafforzata dall’articolazione della tessitura muraria di chiaro riferimento alla Scuola di Chicago. L’esclusiva capacità di assecondare l’isolato, sperimentando inedite possibilità figurative è presente nel progetto sulla Diagonale a Barcellona (1989) che enfatizza il punto di conflitto tra la regolarità della griglia urbana del Piano Cerdà e l’asse diagonale, materializzato da corpi di fabbrica profondi ventiquattro metri, nei cui angoli si eleva un sistema di torri concepite come segnali urbani. L’effrazione alla griglia regolare è tradotta come un racconto di volumi, frammenti dell’originaria unità dell’isolato. La necessità di configurare architetture con decisi principi insediativi è evidente anche negli interventi nella città diffusa contemporanea come appare evidente nel parco residenziale in Malchower Weg , a Berlino (1992-94). Nell’indefinito tessuto di case unifamiliari a bassa densità del quartiere periferico viene inserito di un sistema di isolati di ville urbane, ricorrenti nella cultura tradizionale berlinese. La scelta di reiterare un unico tipo edilizio rafforza la strategia di costruire uno spazio urbano denso e riconoscibile, impostato su due assi ortogonali e simmetrici, lungo i quali si dispiega la cortina edilizia delle ville rafforzata dall’orizzontalità della copertura a padiglione aggettante, accentuata dallo svuotamento degli angoli dei corpi di fabbrica. L’idea urbana di Kollhoff non ricerca una contestualizzazione con lo spazio fisico adiacente piuttosto rivela un dialogo continuo con la storia dell’architettura, assunta come contesto ideale di riferimento. Il legame con il classicismo è particolarmente evidente in due progetti che propongono una qualità urbana senza tempo, attraverso una grammatica elementare che non rinuncia a conferire all’isolato una forte riconoscibilità architettonica: il nuovo isolato urbano a Maastricht (2004) e l’intervento sulla Walter Benjamin Plaz a Berlino (1997-99). Nel primo caso Kollhoff e T. riprogettano un isolato di forma allungata che si pone in continuità con la stazione esistente, concludendosi in una torre di quindici piani, elemento urbano di cerniera tra la città storica e la nuova espansione. L’isolato costruisce una corposa cortina edilizia che chiude la vista sui binari e disegna una nuova piazza occupata da una fontana lineare. L’invaso del nuovo spazio urbano è amplificato dalla presenza di un doppio ordine di porticato/colonnato che definisce il ritmo della partitura della facciata rigorosamente segnata da lesene e marcapiani. Il secondo lavoro risolve un vuoto urbano con la semplicità classica di due fabbricati lineari simmetrici di otto piani che si pongono in continuità con gli isolati esistenti e che, anche in questo caso, si condensano nello spazio del portico a due livelli, concepito come sistema di misura e ritmo della rigorosa partitura della cortina edilizia e ancor di più come luogo pubblico. L’edificio per abitazione realizzato nel porto di Amsterdam sull’isola di KNSM rivela un diverso riferimento figurativo. La manipolazione della forma rettangolare del lotto costruisce una linea spezzata con diverse pieghe e contaminazioni con i vincoli del contesto, proponendo un isolato urbano dal forte carattere plastico e scultoreo. La sequenza dei segmenti configura differenti spazi urbani e apre la corte privata verso il parco. Sicuramente il tema della torre, che più esplicitamente traduce l’idea urbana di Kollhoff e Timmermann, è anche quello più ricorrente nei progetti in una propensione a contrastare scontate soluzioni ipertecnologiche. La forte verticalità permette di esprimere la natura ideogrammatica, resa ancora più evidente dall’uniformità materica, dal rigore formale e dalla chiarezza tipologica. Molti sono i riferimenti alle tettoniche nervature gotiche, alla scuola di Chicago di Sullivan sino all’architettura industriale tedesca, come quella della città di Amburgo o delle fabbriche Siemens a Berlino. L’edificio a torre Mainplaz, a Francoforte (2000-2002), quello per Potsdamer Platz, a Berlino (19932000), e i più recenti Ministeri olandesi a L’Aia (2012) rivelano una ricerca tipologica continua che sperimenta intersezioni tra l’isolato urbano a corte chiusa e l’edificio a torre. I grattacieli di pietra e mattoni di Kollhoff non ostentano audacia strutturale o tecnologica ma diventano il luogo della memoria, emergenze architettoniche costruite sui valori essenziali e solidi della tradizione urbana europea ancora vivi. Le architetture di Kollhoff con pochi segni tratteggiano un nuovo skyline dell’Europa, dimostrando quella capacità propria della tradizione tedesca di coniugare modernità e classicismo e di continuare a pensare che progettare oggi, seguendo le aspirazioni alla conformità urbana, non è solo una modalità del fare ma una scelta etica.
AdueARCHITETTURA
Periodico del LId’A_Laboratorio Internazionale d’Architettura RC
09 Hans Kollhoff
AdueArchitettura Periodico trimestrale del LID’A Laboratorio Internazionale d’Architettura Dottorato di Ricerca in Progettazione Architettonica e Urbana Facoltà di Architettura, Reggio Calabria n.09 / 2013 anno V / aprile 2013 Direttore scientifico Direttore Responsabile Laura Thermes Comitato scientifico Ottavio Amaro Gianfranco Neri Ettore Rocca Laura Thermes Redazione Marina Tornatora Antonello Russo Segreteria di redazione lida@unirc.it www.lida.unirc.it Progetto grafico Francesco Messina Francesca Mazzone Editore Centro Stampa, Ateneo – Reggio Calabria
La riscoperta della durata_Hans Kollhoff è una delle più importanti figure tra quelle che hanno dato all’architettura
tedesca degli ultimi trenta anni un volto nuovo. Nelle sue opere un forte richiamo a quella tradizione nello stesso tempo concreta e idealizzata del costruire, alla quale il mondo germanico ha dato vita - da Karl Friedrich Schinkel a Peter Behrens, da Egon Eiermann a Oswald Mathias Ungers - si unisce a un’espressione piena e motivata dei valori innovativi che le città tedesche stanno ora esprimendo. Valori legati a una dimensione metropolitana che ha raggiunto ormai, per la densità e la Editoriale quantità dei flussi che in essa si dispiegano, quella delle maggiori e più articolate concentrazioni urbane del mondo. Nella produzione di Hans Kollhoff, ispirata a tre interessi fondamentali, ovvero la rappresentazione dell’essenza dell’architettura, Laura Thermes la ricerca di una interrelazione teorica e operativa tra l’architettura e la città, una precisione esecutiva nella quale il rapporto tra i materiali e il loro ruolo nella definizione dell’edificio raggiunge tonalità metafisiche, è possibile individuare tre periodi. Il primo, testimoniato esemplarmente dall’edificio residenziale nella Luisenplatz a Berlino-Charlottemburg, vede l’architetto, formatosi alla Technische Universitat di Karlsruhe e alla Cornell University, dove ha anche insegnato, Daimler Chrysler Highrise Building, operare una felice sintesi di quanto l’architettura moderna aveva proposto sul problema di uno stile che voleva essere Potsdamer Platz, Berlin universale. Uno stile che doveva rinviare al contesto per trovare una sua specificazione, dal momento che nasceva Fabrizia Berlingieri da una pregiudiziale tabula rasa per raggiungere il limite della pura astrazione A questa prima stagione, nel quale egli raggiunge una originale riconoscibilità stilistica, fa seguito una fase neosperimentale nella quale Hans Kollhoff si dedica all’indagine su configurazioni formali dal carattere neoavanguardistico. Testimonia questo periodo l’edificio da lui costruito sull’Isola KNSM nel porto di Amsterdam. Si tratta di un manufatto di notevole grandezza che gioca Il valore poetico della costruzione sulla dialettica figurativa tra una pronunciata articolazione plastica del volume, che si avvolge quasi su se stesso, Francesco Messina e un trattamento delle superfici in cui una sensibilità pittorica scandisce i piani con una particolare attenzione alle questioni proporzionali. Il risultato è un consistente frammento urbano che per la sua stessa natura tende a Mutazione dell’oggetto urbano nella postcittà identificarsi con la totalità della città mettendo in scena una coinvolgente ambiguità. La terza fase dell’itinerario creativo di Hans Kollhoff ha inizio con le Ville Urbane nel Malchower Weg a Berlino-Hohenschonhausen e, sempre Marina Tornatora nella capitale, con l’intervento nella Potsdamer Platz. In queste opere egli riscopre, come si è detto all’inizio di questa nota, il problema del fondamento, definendo attraverso i suoi edifici una teoria costruita nella quale la tettonica acquista un rilievo primario. Le opere che Hans Kollhoff realizza da allora in poi riformulano nel contesto disciplinare attuale i principi semperiani riproponendo al contempo, in tutta la sua ampiezza, il senso di una classicità intesa come capacità di coniugare le regole con l’eccezione, la chiarezza con l’oscurità, la parte con l’insieme, il luogo con l’atopia, il tipo con il modello, il finito con l’infinito, il continuo con il discontinuo. In queste architetture i temi della durata, dell’oggettività del costruire, della sua necessaria razionalità e della riconoscibilità collettiva dell’architettura diventano preminenti, assieme a quello della riaffermazione dei rapporti tra spazio e struttura, tra struttura e tessitura dei rivestimenti, della decorazione come esito della scrittura tettonica. Una complessità come quella descritta non sarebbe però in grado, da sola, di garantire un risultato se non fosse animata dal suo interno da una vocazione poetica che guarda all’assoluto, una attitudine selettiva severa fino all’esclusività più intransigente che fa della stratificata varietà dei temi un campo espressivo unitario attraverso il quale individuare una forma che si avvicina alla perfezione. a cura di Francesco Messina con la collaborazione di Francesca Mazzone
ISBN 978-88-6494-118-9 Iriti Editore
Fabrizia Berlingeri
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In copertina: Torri ministeriali, L’Aia, Olanda, 2013 1. Progetto di concorso per la ricostruzione di Postdamer Platz/Leipziger Platz Berlin Tiergarten 1991 – primo grado 2. - 5. “Leibniz-Kolonnaden”, edifici per abitazioni, negozi e uffici. Walter Benjamin Platz, Wielandstraße, Berlin Charlottenburg 1995-2001 3. Edificio a Torre Delbrück Haus. Postdamer Platz, Lennè-Dreieck, Berlino, 2000-2003 4. Edificio a torre Daimler Chrysler. Postdamer Platz, Berlino, 1997-2000 6. - 9. Edificio per abitazioni nel quartiere residenziale KNSM-Eiland. Amsterdam, Olanda 1991-94 7. Edificio per uffici Dominium Köln, Colonia 8. Edificio per abitazioni, Luisenplatz, Berlin Chalonttenburg 1983-87
1. Daimler Chrysler Highrise Building, Potsdamer Platz, Berlin Twenty years after the construction starting, Potsdamer Platz enters in the history of the old continent as one of the most controversial urban renewal projects at the end of the XXth century. It represents at once a symbol for the renewed geographical unity between East and West Europe and a mark of an emerging economical and political asset, still looking for its own figure. In the contrast between two opposite ideas of city, the pre-modern one and that of a new economic centrality, stands principles and limitations of this operation. The underlined theme of the project’s research is exposed, in fact, in the precise volunty to represent a collision between the idea of architecture as urban construction and the recognition of its individual presence. In recording the simultaneity of different parts that compose the artifact, Kollhoff shows its meaning as instrumental to the urban dimension, through the seemingly simple adaptation to the context’s morphological conditions and the homogeneity of the materic treatment, devoid of languistic exacerbations. This uncanny presence stands with a graveness tectonics of more distant origins, and echoes of an urban thickness that now seems belonging to an irrecoverable past.
Il valore poetico della costruzione
Francesco Messina
A vent’anni di distanza dall’avvio del cantiere, Potsdamer Platz si inscrive nella storia del vecchio continente come uno dei più importanti e controversi interventi di riqualificazione urbana a cavallo tra XX e XXI secolo. Simbolo non solo di una ritrovata unità geografica tra Est e Ovest dell’Europa con il crollo del Muro nel 1989 e la fine della Guerra Fredda, ma anche contrassegno di un emergente assetto economico e politico in cerca di una propria figura, che arriva a scontrarsi con un luogo fisico, all’opposto, già denso di memorie e tracce. Potsdamer Platz, infatti, prende il nome da un asse di collegamento extra moenia tra l’antico centro di Berlino e la vicina cittadina di Potsdam, divenendo fulcro nevralgico di scambi nella prima espansione settecentesca della città, testimoniato anche in un progetto di Karl Friedrich Schinkel del 1824. La vocazione di nodo urbano ne caratterizza l’identità sino alla fine della seconda guerra mondiale quando, pesantemente colpita dai bombardamenti, diviene limite e vuoto residuale con la costruzione del Muro nel 1961. La divisione fisica dell’area detta, infatti, una profonda mutazione della conformazione urbana nella iniziale fase di ricostruzione: ad est distinta da blocchi residenziali ad altezza omogenea, ad ovest da un’edificazione sparsa, immersa nel Tiergarten e segnata dalle emergenze del Kulturforum, in costruzione tra gli anni sessanta e settanta, con le ultime testimonianze di importanti Maestri del Movimento Moderno come Mies Van de Rohe (Neue Nationalgalerie, 1968) ed Hans Sharoun (Philharmonie, 1963 e Neue Staatsbibliothek, 1972). Il progetto di riconversione urbana, con la messa a punto nel 1991 di un nuovo piano regolatore dell’area, tracciato dagli architetti Heinz Hilmer e Christoph Sattler e, nell’anno successivo, con il concorso internazionale indetto dalla Daimler-Benz per il progetto del masterplan generale vinto da Renzo Piano e Christoph Kohlbecker, si prefiggeva l’ambizioso risultato di ricostruire una centralità urbana per l’antica porta daziale, con la presenza, quali committenti principali, delle maggiori multinazionali presenti sul mercato: Daimler Benz, Sony, A+T e Hertie. Proprio nello scontro tra due opposte idee di città, quella di collettiva memoria premoderna definitivamente cancellata dagli eventi bellici e quella di centralità economica foriera di rinnovamento e futuro, risiedono princìpi e limiti di questo imponente intervento, in una contrapposizione tra continuum urbano e singolarità architettonica manifesta nella perturbante presenza dell’opera di Hans Kollhoff e Helda Timmermann. Il progetto, commissionato nel 1992 per la sede degli Uffici della Daimler Chrysler Immobilien, costituisce l’esito di un ragionamento sulla città di Berlino che gli architetti avevano già intrapreso nelle precedenti esperienze di concorso sull’area e in occasione della mostra Berlin Morgen: Ideen für das Herz einer Groβstadt (Berlino domani: idee per il cuore di una grande città), organizzata da Vittorio Magnago Lampugnani e Michael Monninger presso il Deutsche Architektur Museum di Francoforte. Tra gli architetti invitati, Kollhoff reinterpreta l’area di Potsdamer Platz secondo un nuovo profilo urbano composto da sei edifici alti che, come una corona attorno allo spazio ottogonale della Leipziger Platz, affondavano in un basamento fatto da veri e propri isolati di altezza pari alla linea di gronda della città consolidata. La ricerca di un equilibrio tra componente morfologica urbana e tipo architettonico edilizio è alla base della sperimentazione attuata dall’architetto tedesco nel progetto per la nuova torre. L’edificio occupa un lotto di forma triangolare che segna, assieme alla Banh Tower di Helmut Jahn e alla Daimler-Benz Tower di Renzo Piano, il limite settentrionale dell’area come vera e propria porta d’accesso al nuovo distretto. L’ambivalenza tipologica del manufatto1 è data dalla compresenza di due distinte matrici - quella dell’isolato compatto e quella della torre - che si precisa in una graduale trasformazione tanto nella lettura dell’impianto planimetrico quanto nell’articolazione dei volumi in alzato. L’attacco a terra dell’edificio, infatti, ricalca con la cortina perimetrale del fabbricato tutta l’area del lotto come un grande recinto, punteggiato da sette corpi scala che servono le distinte aree funzionali – uffici, ristorante, terrazze. Nei livelli superiori il perimetro si perde e si sfrangia nell’articolazione a gradoni dei blocchi che progressivamente rastremano in altezza il corpo di fabbrica. Seguendo una lettura dell’edificio dal basso verso l’alto, il primo blocco perimetrale di sette piani si erge sul basamento a doppio ordine che ospita ristoranti e caffè attestandosi in continuità con gli edifici più bassi presenti lungo la Alte Potsdamer Strasse; il secondo blocco di tredici piani stabilisce uno scarto volumetrico significativo rispetto al primo, distinguendo due corpi che seguono l’andamento delle strade laterali; il terzo blocco, infine, definisce il volume della torre e si erge compatto sino a raggiungere l’altezza complessiva di novanta metri, evidente nella sua interezza solo per il fronte antistante la piazza, concavo e asimmetrico. Il tema di ricerca sotteso si esplica, quindi, nella precisa volontà del progetto di rappresentare la collisione tra un’idea di architettura come costruzione di un pezzo di città e, al tempo stesso, riconoscimento di una presenza individuale2. Registrando la simultaneità di parti che compongono l’oggetto architettonico, Kollhoff ne dispiega un utilizzo strumentale alla dimensione urbana, attraverso l’apparentemente semplice adattamento alle condizioni morfologiche del contesto e l’omogeneità del trattamento materico che, privo di esasperazioni linguistiche, rimandano a un immaginario architettonico legato alla tradizione costruttiva industriale tedesca di inizio novecento. L’edificio, rispetto agli altri giganti che gli si affiancano, appare silenzioso, racchiuso in una monotonia lapidea che stride con la trasparenza e il bagliore del vetro, rinunciando o, forse, accostandosi criticamente alle ambizioni capitalistiche di un rinato Occidente Europeo. Questa perturbante presenza si erge tra due specchi e, con una gravità tettonica di più lontane origini, echeggia di uno spessore urbano che sembra ormai irrecuperabile. L’idea di città europea di cui questo manufatto sembra essere un’anacronistica trascrizione, considera la scena urbana non come insieme di singoli oggetti ma come costruzione condivisa, attraverso gesti “normali”, attraverso le regole e l’anonimato del tessuto3. Un’unica parete di klinker rosso scuro avvolge la scansione delle bucature per tutti i lati dell’edificio, con la sola eccezione del basamento rivestito, differentemente dal resto, in granito grigio-verde. L’omogeneità del materiale, tuttavia, risulta essere contrastata dall’articolazione in rilievo delle facciate, configurando un complesso ordito di natura tessile. Il disegno modulare delle bucature è scandito secondo la sequenza ritmica data dalla struttura dei portici basamentali, interrotto dai ricorsi orizzontali che segnano le diverse altezze dei blocchi. I ricorsi orizzontali sono, infatti, continui nella parte immediatamente superiore al basamento e segnano la prima imposta “urbana” del manufatto. Nella parte centrale, invece, essi intessono con i ricorsi verticali, ora in leggero rilievo, una trama bidirezionale. Nella parte conclusiva, infine, si ha una netta prevalenza della linea verticale per la disposizione di lesene principali più larghe che inquadrano le bucature binate e di lesene più sottili che ne suddividono ulteriormente la sequenza. Il paramento murario, partendo anche in questo caso da una lettura dal basso, presenta una forte orizzontalità che progressivamente è sostituita dai rilievi verticali che smaterializzano la compattezza del volume per gli ultimi piani con le terrazze coperte, fino a diventare struttura libera tridimensionale nell’attacco al cielo. La stratificazione della superficie muraria costituisce un importante tema che Kollhoff dispone puntualmente nella composizione, come espressione di una ricerca tettonica che si ispira al principio semperiano della legatura, nel rendere evidenti il nodo e l’intreccio4, gli elementi singoli attraverso la trama, in cui l’omogeneità materica è rivisitata nella continua articolazione chiaroscurale, coniugando durezza lapidea e leggerezza tessile. 1. Thermes, L. “Lo spazio abitativo come entità metamorfica: il terziario come modello della residenza”, in Thermes, L. (2000). Tempi e Spazi. Scritti teorici. Roma: Diagonale Editrice. 2. Castex, J,; Panerai, P. (1982). “Prospettive della tipomorfologia”, in Lotus, 36. Milano: Electa. 3. De Solà Morales, I. (2001). Territori, in Lotus, 110. Milano: Electa 4. Frampton, K. (1999). Tettonica e architettura. poetica della forma architettonica nel XIX e XX secolo. Milano: Skira editore.
5. In un momento in cui nella città contemporanea sembra crescente l’esigenza di adattabilità, flessibilità, temporaneità come estrema conseguenza di alcuni assunti sulla transitorietà del Movimento Moderno e sulla scia propagandistica di una parte della critica architettonica contemporanea, l’opera di Hans Kollhoff si colloca in una posizione diametralmente opposta. Il punto di vista dell’architetto berlinese è, infatti, la testimonianza della necessità di ritrovare, nella modificazione della città, i temi della permanenza e della durata, costituenti il fondamento etico della disciplina architettonica. Il pensiero che, partendo da questi argomenti, attraversa il lavoro di Kollhoff e trova esplicazione nella sua militanza progettuale, inevitabilmente si basa sul dialettico rapporto tra tradizione ed innovazione che investe il processo evolutivo dell’architettura e in generale delle trasformazioni urbane. In continuità con le teorie di Adolf Loos, è 2.
possibile rileggere un approccio metodologico evidentemente volto al recupero dei valori propri della cultura europea del fare architettura e in generale del costruire, a partire dalla relazione ciclica che investe le potenzialità della tecnica e le forme tramandate dalla storia. Il senso di questo rapporto può essere rintracciato dalla scala urbana fino al disegno del particolare, nella costante e perseverante ricerca sul carattere tettonico dell’edificio. Un aspetto, questo, che lascia intravedere un concetto della storia come un tempo che si ripiega su se stesso, al fine di consentire, per via di un processo di epurazione semantica, la sopravvivenza e la tutela dei princìpi più autentici della disciplina. Questo consegna alle architetture una sorta di atemporalità, propria esclusivamente delle opere capaci di esprimere il significato più profondo e universale della costruzione e dello spazio. Sulla base dei concetti di Karl Botticher 3. di kernform e kunstform, nei progetti di Kollhoff l’architettura si manifesta sia come espressione sintetica del rapporto tra forma e struttura, sia come indagine sulla tessitura materica che racconta la profondità della massa costruita. Nel primo caso le architetture del maestro tedesco riflettono, come nell’opera di Auguste Perret, un modo di pensare al progetto in relazione alla logica strutturale, nella quale si individua il luogo della sperimentazione formale e della definizione del codice genetico dell’edificio. La traduzione di questo concetto avviene sempre attraverso la configurazione dell’involucro spaziale, in cui la risoluzione dell’ancoraggio al suolo e della spinta ascendente della massa muraria caratterizzano il contenuto espressivo e la natura strutturale dell’invaso architettonico. Nel secondo caso, invece, la concezione plastico-muraria dell’involucro e l’articolazione della sua sezione planimetrica descrivono una membrana nella quale può inverarsi il significato artistico del progetto. L’esaltazione di questo tema può essere riletto in alcuni edifici, prevalentemente a torre, in cui avviene un cambio di profondità della facciata verso l’alto che, mascherandone il valore portante, ne evidenzia la natura decorativa già inscritta nella materia e nella tecnica costruttiva. Il disvelamento della tettonica dell’edificio, nelle accezioni di forma artistica e di nucleo strutturale dell’involucro, restituisce quindi un’immagine sempre integra della scatola muraria, anche quando le istanze urbane ne comportano delle deformazioni planimetriche che assegnano maggiore plasticità al corpo architettonico. Questa scelta formale consente una maggiore mediazione tra spazio privato e spazio pubblico, allontanando l’opera di Hans Kollhoff dalle interpretazioni della tettonica modernista, tendenti, come per Mies, alla smaterializzazione muraria, alla scomposizione della scatola prospettica ed alla totale compenetrazione tra interno ed esterno. L’edificio viene invece utilizzato come uno strumento di definizione dei vari gradi di urbanità, in cui la soglia di passaggio tra esterno ed interno è declinata secondo i codici convenzionali dell’architettura della città lapidea, fatta di eventi monolitici ed assertivi. Ciò avviene sempre a vantaggio dei luoghi della collettività rispetto ai quali l’edificio deve cedere il passo, annullando la brama di affermazione della propria individualità e concorrendo al dispiegamento di un’intensità urbana diffusa. In questi termini, la sintassi che governa l’apparato linguistico delle opere di Kollhoff è riconducibile ad una modalità classica della composizione, rivisitata secondo le contingenze estetiche e culturali, ma a distanza di qualsivoglia avanguardia stilistica, risolvendosi in una semplicità espressiva uniformante e sobria, necessaria alla descrizione qualitativa dello spazio pubblico. In realtà nelle opere di Kollhoff il valore della costruzione, contenendo in sé un elevato potenziale espressivo, prevale e fagocita l’intenzione linguistica. I progetti si sviluppano con una concezione tradizionale che contempla il riconoscimento delle parti dell’edificio quali il basamento, la facciata e il 4. coronamento e che pertanto ambiscono a risposte generalizzabili per la determinazione delle facciate. In tal senso, l’orditura che le tratteggia racconta il tentativo di rileggere la stratificazione della scena urbana nel gioco di allineamenti e disassamenti tra finestre, marcapiani, modanature e che rappresenta una sorta di compromesso figurativo della società. In questo discorso può essere inquadrata anche l’attitudine alla ricerca sul tipo urbano, che si manifesta come il momento di massima eloquenza architettonica. Tanto nei progetti per le torri, quanto nei progetti per gli isolati, Kollhoff tende a dimostrare la poetica del modello, traducendo le convezioni tipologiche in eventi architettonici dalla inequivocabile esemplarità primordiale che, originandosi dai codici ereditati dalla storia, assumono un senso quasi archetipico. La preoccupazione e l’atteggiamento apparentemente rinunciatario in favore della città producono così un tono sobrio e sommesso delle architetture, che tuttavia non preclude al maestro berlinese l’opportunità di opporre, all’austerità esteriore, una rilevante ricchezza espressiva all’interno dell’edificio. Questa dualità dei progetti di Kollhoff, come per Loos, riferisce di una particolare attenzione anche alla definizione della sfera privata, nella quale la committenza possa riconoscere la propria dimensione più intima e trovare risposta a un individuale modo di abitare. All’interno di una visione borghese, contraria all’algida omologazione della modernità e delle sue derivate minimaliste, Kollhoff compone la spazialità interna con grande opulenza e con forte impulso decorativo, portando i dettagli alla massima esaltazione descrittiva e costruendo una fenomenologia tessile ancora più evidente e precisa di quella dell’involucro. La monomatericità e la ricerca di tonalità urbane ricorrenti nelle facciate vengono ancora contraddette all’interno, tramite l’uso di materiali che ostentano preziosità e gamme cromatiche decise, contribuendo all’alternanza di luce ed ombra. L’utilizzo dei materiali ed il meticoloso disegno del dettaglio non scadono mai nell’ornamento delittuoso, ma si limitano a farsi rivestimento prezioso degli elementi primari della forma e dello spazio architettonico, dichiarando la connessione veritiera tra le parti ed il tutto ed enfatizzando i rapporti gerarchici tra gli ambienti. La trama che caratterizza la cavità istituisce una successione di reticoli che ri-proporziona gli spazi in funzione del loro uso e dei rapporti di connessione tra essi. Per cui, se la facciata dell’edificio acquista una connotazione scalare legata alla dimensione umana, grazie all’utilizzo della finestra, all’interno la compagine dei materiali si dispone secondo configurazioni atte a definire un’euritmia, che pare fondata sulla scansione minuziosa delle proporzioni umane, come a voler stabilire una sorta di empatia metrica tra lo spazio e la corporeità dell’uomo che lo percorre. Questa, non più diffusa, pratica del progetto, capace ancora di mediare la cultura industriale (e cibernetica) con quella materiale, ha orientato il lavoro di Hans Kollhoff, intriso di sapienza tecnica, verso una prospettiva umanistica in cui l’architettura è uno strumento a servizio dell’uomo e della città finalizzato ad rifondare il valore poetico dell’abitare. I volumi delle architetture di Hans Kollhoff si stagliano decisi e inconfondibili nei cieli di diverse città europee indicando una strada controcorrente nel frammentario ed eterogeneo dibattito architettonico. L’intensità delle sue opere, riconoscendo valore ai caratteri insediativi della città, continua a tracciare una scrittura urbana precisa, costruita attraverso semplici e tradizionali elementi fondativi. Il muro, l’arco, la colonna, il basamento, il coronamento e ancora il mattone, la pietra costruiscono sequenze attive, organiche e unitarie che reinterpretano la grande tradizione della città europea, andando a occupare una posizione originale in uno dei Sette tipi di semplicità in Architettura indicati da Franco Purini, in un recente scritto, come conformità urbana1.Contraddistinta da un’omogeneità strutturale, ambientale e formale tale ricerca non concepisce l’opera architettonica come una creazione, ma come la continuazione di un racconto 1. Marina Tornatora, La conformità urbana, in Franco Purini, Sette tipi di semplicità in Architettura, (a cura di Ottavio Amaro), Libria, Melfi 2012.
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Il valore poetico della costruzione I volumi delle architetture di Hans Kollhoff si stagliano decisi e inconfondibili nei cieli di diverse città europee indicando una strada controcorrente nel frammentario ed eterogeneo dibattito architettonico. L’intensità delle sue opere, riconoscendo valore ai caratteri insediativi della città, continua a tracciare una scrittura urbana precisa, costruita attraverso semplici e tradizionali elementi fondativi. Il muro, l’arco, la colonna, il basamento, il coronamento e ancora il mattone, la pietra costruiscono sequenze attive, organiche e unitarie che reinterpretano la grande tradizione della città europea, andando a occupare una posizione originale nei Sette tipi di semplicità in Architettura indicati da Franco Purini: La conformità urbana. Le diverse esperienze rivelano un’idea di città, dominata dall’oggetto architettonico che disegna e costruisce la scena urbana, affermando con forza e inequivocabile vitalità i concetti di solidità e durata dell’architettura. In particolare il lavoro svolto dall’architetto tedesco con Helga Timmermann sperimenta una diversa prospettiva del rapporto tra città e abitazione, riesaminando il tema di Abitare la città, attraverso una personale idea di oggetto urbano che elegge con chiarezza alcuni principi come la densità, la mixitè tipologica e funzionale, il rapporto con lo spazio pubblico e la forte presenza dell’architettura.
Permanenze e mutazioni urbane nella postcittà Marina Tornatora
09.AdueA/HANS KOLLHOFF_03
A
Daimler Chrysler Highrise Building, Potsdamer Platz, Berlin