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stavo pensando: albo e filosofia
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Quanto dura per sempre? Riflessioni pedagogiche per “fare spazio” al pensiero dell’infanzia Silvia Demozzi 20 Filosofia con i bambini: cosa è e come si fa Sebastiano Moruzzi 42 L’ombra Piero Schiavo 58 72 96
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• • La libertà • Diego Donna Il tempo • Carlotta Capuccino Pensare “tra gli altri” per imparare a pensare criticamente. Hannah Arendt in classe • Marta Ilardo
113 david marchetti 132 Perché esisto? I bambini alle prese con La grande domanda
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Linda Altomonte, Valentina Sanna, Luca Zanetti •Stavo pensando che... L’albo illustrato nella pratica della filosofia con i bambini • Sara Gomel “Altro è vedere, altro è guardare”. Appunti sul rapporto tra immagini, infanzia e riflessione filosofica • Martino Negri
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editoriale
Festeggiamo il traguardo del numero 50 con un’uscita corale, nata dal dialogo con un gruppo di ricercatori e docenti di Filosofia e Scienze dell’Educazione dell’Università di Bologna che accompagnano la loro ricerca teorica con una pratica filosofica rivolta a bambine e bambini, ragazze e ragazzi. Questo scambio ha visto prima il coinvolgimento del progetto Farfilò e poi del gruppo interdisciplinare AIΩN/AIÓN - Filosofia e Didattica, del Gruppo sulle pratiche educative per l’esercizio del pensiero complesso del Centro di Ricerche Educative su Infanzie e Famiglie (CREIF) e della startup Filò. Con loro abbiamo iniziato un percorso tre anni fa, con una formazione sull’albo illustrato che è diventata un vero seminario e un fertile confronto su come il linguaggio dell’albo potesse offrire occasioni di riflessione filosofica. Non si tratta solo di scoprire titoli che trattano di temi filosofici, ma di considerare la dimensione formale dell’albo, semplice solo in apparenza, come particolarmente adatta alla pratica filosofica: la relazione tra immagine e parola, l’uso della metafora e della sospensione, i vuoti che portano a dover dedurre rendono gli albi potenti detonatori di domande, aprono prospettive divergenti, permettono di scavare senza cercare risposte definitive. Verrebbe da dire che gli albi sono filosofici, come mostrano anche le esperienze dirette con bambine e bambini. Questa duplice natura, di riflessione teorica e di pratica pedagogica, è rappresentata nella rivista stessa, in cui l’ottica di chi viene da altri mondi disciplinari ci ha fatto scoprire, una volta di più, l’inesauribilità di senso e di bellezza messa in atto in poche pagine, fra immagini e parole. Hamelin
PREMESSA
Silvia Demozzi
Quanto dura per sempre? Riflessioni pedagogiche per “fare spazio” al pensiero dell’infanzia
Sono una pedagogista e sono cresciuta, d’età e professionalmente, con la cognizione che i bambini e le bambine1, al di sotto di una certa soglia di età, non potessero avere certi pensieri, non sapessero raggiungere astrazioni raffinate né fossero in grado di compiere particolari ragionamenti logici. Ciò è certamente confermato da studi e teorie più che consolidati: gli stadi dello sviluppo di Jean Piaget rappresentano tutt’ora il punto di partenza per chiunque si approcci allo studio della mente infantile che, per definizione, non è “razionale” prima dei 6-7 anni. Ciò non significa, però, che i bambini non pensino e, soprattutto, che le loro idee non abbiano valore al pari di un pensiero più strutturato e razionale. Gli approfondimenti in materia si sono, difatti, evoluti, e su più fronti numerose ricerche (quelle di Alison Gopnik, per citarne una) sono in grado ora di arricchire le teorie più antiche, così da restituire un’immagine del pensiero infantile più complessa e coerente con ciò che accade nella quotidianità di un bambino in età prescolare. È stato così che, qualche tempo fa, ho iniziato a interessarmi di pratiche filosofiche con l’infanzia e, nello stesso periodo, nella mia vita ha fatto ingresso mia figlia Eva. Due eventi apparentemente poco correlati ma che, proprio nella loro combinazione, hanno avuto l’effetto di aggiornare e “ridisegnare” la mia conoscenza sul pensiero infantile e mi hanno richiesto di leggere alcuni fenomeni, relativi allo sviluppo, con lenti multifocali, che non chiudano prospettive ma che, piuttosto, aprano orizzonti. Lenti che, più nello spe-
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1 A volte si utilizzerà il sostantivo maschile (bambini) considerandolo comprensivo del suo corrispettivo femminile (bambine), altre volte si specificheranno i generi maschile e femminile nella doppia formulazione (bambini e bambine). La scelta è puramente stilistica, ma la sensibilità di chi scrive è per la contemplazione e la valorizzazione delle differenze e, quindi, di una riflessione che comprenda bambini e bambine insieme.
cifico, affinino la mia capacità di osservazione e di ascolto, nel rispetto dell’espressione di quell’essere bambini che, troppo spesso, la società dell’attuale – impegnata a rincorrere i suoi ideali di successo – si dimentica di tutelare.
“MAMMA, SECONDO TE QUANTO DURA PER SEMPRE?” La domanda che dà il titolo a questo paragrafo è “la grande domanda” (riprendendo il titolo dell’albo di Wolf Erlbruch) che, da un po’ di tempo a questa parte, mia figlia Eva, due anni e mezzo non ancora compiuti, mi rivolge almeno una volta al giorno. Una domanda che mi ha sorpresa e che, con la mente adulta, ho subito derubricato a un “non ha idea di quello che sta dicendo… questa, poi, chissà dove l’avrà sentita!”. Al che, nell’imbarazzo iniziale, ho cercato di abbozzare una qualche risposta, sperando che ne fosse soddisfatta, per lo meno lì per lì. È chiaro che la domanda, nella sua complessità, non mi ha lasciata indifferente: non solo come madre, ma soprattutto come studiosa. Dalla domanda di Eva – che, dicevo, mi viene ripetuta almeno una volta al giorno – è sorta una serie di interrogativi (o, meglio, si sono rafforzati, perché già mi abitavano, soprattutto per ragioni di lavoro). Perché mi sorprende che una bambina così piccola mi possa fare una domanda che non esiterei a definire filosofica? Perché mi imbarazza il mio goffo tentativo di non darle risposte a caso ma di cercare qualcosa che abbia un senso (ammesso che esista un senso universale per una questione così complessa)? E perché mi spaventa non avere una risposta, un “due più due fa quattro”, da poterle offrire
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con baldanzosa sapienza, dall’alto della mia età saggia e smaliziata? Ecco, credo che siano anche domande come queste a dover guidare la riflessione di una pedagogia e di una cultura che si occupano di infanzia e che hanno a cuore il diritto dei bambini e delle bambine ad esercitare pensiero (non dico ad “avere”, perché spero che sia riconosciuto che i bambini pensano). Non mi importa (o mi importa fino a un certo punto) se questo pensiero sia logico, sia astratto, sia razionale prima o dopo i 7 anni (né mi sognerei di addentrarmi in un campo che non mi compete)… Ciò di cui sono certa, però, è che dal punto di vista pedagogico (ma anche come madre di Eva), ho una grande responsabilità: non posso ignorarla, questa domanda.
NON IGNORARE LE DOMANDE Una piccola vicenda biografica, dunque, intrecciata con la mia professione, mi tiene ancorata al campo dell’educazione al pensiero. Mi sollecita, sulla scorta di autori che da tempo, in diversi campi del sapere, si prodigano con riflessioni in questa direzione (uno fra tutti, Egdar Morin, con la sua proposta di una “riforma del pensiero”, 2000), ad approfondire quelle pratiche che riconoscono ai bambini e alle bambine un tempo e uno spazio per pensare. Come il maestro Lorenzoni (ma, prima di lui, tanti altri) ci ha ricordato che “i bambini pensano grande” regalandoci narrazioni di scuola che fanno da eco al Paese sbagliato del grande Mario Lodi, si riconosce qui il fatto che un’educazione
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al pensiero rappresenta un diritto dell’infanzia da tutelare e da perseguire, non tanto (o non solo) come esperienza sporadica eccezionale, ma a pieno titolo accanto alle didattiche disciplinari e alla valorizzazione di competenze ormai più che riconosciute. Qui però non mi soffermo tanto sulle pratiche, ma cerco di mantenermi un passo indietro, a livello delle premesse. Ciò che, infatti, credo sia prioritario, prima di qualsiasi scelta legata a un metodo, un percorso, un progetto di pratica filosofica (o, più in generale, di educazione al pensiero), è il fatto che sia opportuno ritornare a quel senso di imbarazzo che spesso porta l’adulto a ignorare le domande di un bambino. Riconosciuto, infatti, che i bambini, anche molto piccoli, esercitano (ed esprimono) pensiero (in qualsiasi forma esso sia), c’è da chiedersi se esistano sempre uno spazio, un tempo, una disposizione che siano in grado di accoglierlo. Della nostra prima infanzia ricordiamo molto poco e questo ci rende “stranieri” (sebbene non del tutto estranei) ai bambini e alle bambine dell’oggi: i loro occhi interroganti, le loro domande “fuori da ogni logica” (logica di chi?), le loro soluzioni che eccedono i binarismi cui siamo abituati, anziché sorprenderci (nel senso pieno della meraviglia) e anziché bloccarci – in rispettoso silenzio – sulla soglia di un “altro” mondo, ci inquietano, ci fanno sentire “scomodi”, ci inducono alla fretta, alla risposta secca o alla non risposta affatto. “Avere care le domande”, quindi, è un primo passo nella direzione di un riconoscimento della (reale) partecipazione dei bambini alla loro infanzia e al mondo che condividiamo con loro;
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domande che, certamente, sono più libere da sovrastrutture e condizionamenti rispetto a quelle degli adulti e possono rappresentare un’occasione, per loro stessi, di riappropriarsi del piacere della scoperta e dell’impegno della ricerca. È molto difficile, infatti, per la società adulta, pur meritevole di aver riconosciuto ai soggetti minorenni delle differenze per cui sono sanciti dei diritti specifici (Convenzione ONU, 1989), passare dalla “carta” alla realtà e riconoscere loro anche una partecipazione attiva. Il soggetto-bambino, nell’immaginario e nel reale, rimane relegato a una condizione di “mancanza” e “minorità” (in-fans, senza parola), una incompletezza da colmare per divenire, il prima possibile, “l’adulto di domani”. Una cosa è garantire a un singolo bambino la propria soggettività all’interno della sua quotidianità familiare, scolastica, sociale in genere; altra cosa, invece, ben più complicata, è immaginare, prima, e realizzare, poi, un mondo, un paese, una città che siano effettivamente a “misura di partecipazione infantile”. Si tratta, per riprendere le parole di Montessori, di dare diritto di pensiero, parola e azione a quel “cittadino dimenticato” che vive, appunto, il tempo dell’infanzia.
DI QUALE “INFANZIA” STIAMO PARLANDO? Che il bambino sia filosofo e/o che l’infanzia possa fare filosofia (o, meglio, “filosofare”) non è la domanda prioritaria per l’educazione. La pedagogia deve chiedersi (e, di fatto, alcuni illustri studiosi in Italia lo fanno da tempo nell’ambito della Philosophy for Children) se all’interno dei contesti
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educativi vi siano le premesse e le attitudini per: a) riconoscere diritto di cittadinanza al pensiero (e alle domande) dei bambini; b) riconoscere un valore educativo alla capacità di fare domande e di ricercare, insieme a una comunità di pari, delle risposte (il “filosofare”); c) riconoscere un “dono” e un potenziale di arricchimento che l’infanzia fa, portando alla luce i suoi inIl soggetto-bambino, terrogativi, a un mondo adulto ormai sordo a melodie divergenti e cieco a nell’immaginario e nel orizzonti non scontati. reale, rimane relegato Ma prima ancora di questi ina una condizione terrogativi, a parere di chi scrive, è di “mancanza” da opportuno riflettere su quale sia la colmare per divenire, nostra idea di infanzia: quale bamil prima possibile, bino e bambina abbiamo in mente quando pensiamo alla pratica filoso“l’adulto di domani” fica o, prima ancora, quale bambino e bambina abbiamo in mente quando progettiamo, ipotizziamo, disegniamo proposte educative? Muovendosi nell’alveo dei diritti, infatti, è necessario un passaggio di prospettiva da un’idea di educazione per l’infanzia a un’idea di educazione con l’infanzia. Bambini e bambine non più destinatari di riflessioni e pratiche adultocentriche, ma co-costruttori di esperienze di apprendimento e, certamente, di esercizio del pensiero. Un pensiero che, proprio a partire dalla definizione che ne danno gli autori della Philospophy for Children (un rimando tra tutti è a Lipman, il fondatore), non è valorizzato solo nella sua dimensione più
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“riconosciuta” – ovverosia logica, critica, argomentativa –, ma anche e al contempo, nelle sue dimensioni che rimandano alla creatività, al prendersi cura dell’altro e del mondo, all’esercizio di una cittadinanza globale e solidale. La pratica filosofica, così come immaginata e realizzata nell’ambito della Philosophy for/with Children, rimanda a un’idea di pensiero complesso, costituito da più livelli, assolutamente non gerarchici, ma in continua connessione tra loro. E così è complessa l’idea di infanzia che ne deriva: non appiattita su rigidi stadi di apprendimento e relative competenze, ma “fluida”, meritevole di attenta osservazione e di ascolto, in grado di “uscire dalle cornici” di cui facciamo parte e di mostrarci vie alternative ai tragitti cui siamo assuefatti e addomesticati. Ciò che può apparire come “illogico” e, per questo, minore rispetto a un pensiero rigoroso e sistematico, è in realtà un’altra faccia del pensiero, quello che più si avvicina, di primo acchito, a ciò che facilmente cataloghiamo come le contraddizioni e i nonsense dell’infanzia. Ma è questa la fantasia (che ci – a noi adulti – manca), un luogo in cui “ci piove dentro” direbbe Calvino, un luogo potente e generativo, in grado di prendere in considerazione qualsiasi ipotesi, un luogo di apertura, di salti controintuitivi e di illuminazioni importanti. Certo è un luogo per cui esistono meno risposte pronte, più faticoso da abitare, disorientante, spiazzante, con meno appigli a portata di mano o porti prossimi in cui attraccare. Ma non è forse questo il luogo dell’infanzia? O, meglio, non è così che lo percepiamo, noi adulti, del tutto di-
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sorientati di fronte a una bambina di due anni e mezzo che ci chiede quanto dura per sempre? L’infanzia ci insegna che non tutti i problemi possono essere affrontati con la logica: quando i fenomeni sono del tutto nuovi e inediti (e così è per un soggetto che è appena arrivato nel mondo: è nuovo camminare, è nuovo parlare, è nuovo un animale, è nuovo un paesaggio…), le variabili sono numerose È necessario un e, spesso, sfuggenti. È in questo inpassaggio di contro con la novità, la meraviglia, prospettiva da un’idea lo stupore che risiede il terreno per le domande, per tutte le domande di educazione per (è in ciò che risiede la “nascita” della l’infanzia a un’idea filosofia). È in questa fase che, direbdi educazione con bero i neuroscienziati (Oliverio, 2017), l’infanzia predomina l’emisfero destro del cervello: luogo dell’immaginazione e della creatività, luogo di un pensiero divergente e sede delle emozioni. Se guardiamo all’infanzia e al suo modo “non convenzionale” di osservare la realtà, alle sue domande “insolite” e ai suoi tentavi di rispondervi dando un senso al mondo, allora forse possiamo apprendere qualcosa del pensiero (e del pensare) che abbiamo dimenticato. Un pensiero non tanto “magico”, così come viene definito in letteratura (poiché avulso dalla logica razionale), ma una macchina complessa, in continua evoluzione, che macina domande su domande, ipotesi su ipotesi, mettendo alla prova, proprio come farebbe uno scienziato, gli adulti e la (loro?) realtà.
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PER CONCLUDERE Nonostante tutte le difficoltà di riconoscere, concretamente, un pensiero all’infanzia e, soprattutto, un suo diritto di cittadinanza, nonostante la fatica della mente “adulta” di dialogare con dimensioni del pensiero dimenticate, che spesso portano ad ignorarne la grande ricchezza e la portata, esistono dei luoghi (dei baluardi) in cui a parlare è la voce del “mondo bambino”. Un luogo a cui penso – ed è abbastanza intuitivo alla luce di quanto ho scritto e su cui non mi soffermo oltre – è quello legato alle pratiche filosofiche con l’infanzia. Ma un altro luogo prezioso e che potrebbe a certe condizioni (senza strumentalizzazioni) interagire con il primo, è rappresentato dalla letteratura per l’infanzia. Per dirla con Giorgia Grilli, quello della letteratura è il luogo in cui l’infanzia sembra trovare il suo spazio “per eccellenza”, in cui bambine e bambini sono mostrati nei loro tratti di diversità e divergenza, mai pienamente afferrabili dallo sguardo adulto. Nelle pagine dei grandi albi illustrati, l’infanzia vede cose “che gli adulti non vedono, entra in dimensioni che per gli adulti non esistono […]” (Grilli 2011, p. 28), divenendo racconto di un tempo che non ricordiamo, ma che abbiamo attraversato, fatto di domande, ipotesi, e giochi, ma anche di fatiche e di emozioni non sempre e non necessariamente felici. Come in Chiedimi cosa mi piace di Bernard Waber con le illustrazioni di Suzy Lee, in cui i pensieri di una bambina dialogano “ad armi pari” in una altalena di domande e risposte con il padre: un libro che parla i linguaggi plurali dell’in-
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fanzia e che, al contempo, non brama di riempire gli spazi, di colmare i vuoti ma, piuttosto, accompagna il lettore a indossare uno sguardo ospitale nei confronti dell’universobambino. O come in Aspetta di Antoinette Portis in cui è la perseveranza di un bambino a educarci lo sguardo, facendoci cogliere nell’ordinario di una quotidianità, fatta di corse, passaggi veloci e percorsi sempre uguali, lo stra-ordinario; ricordandoci, ancora una volta, che l’infanzia è un tempo della vita ma anche un tempo di vita, che necessita di rispetto, di cura e di una guida paziente. O come in Si può svuotare una pozzanghera? di Katrin Stangl in cui le domande dei bambini protagonisti si rincorrono in una girandola di colori, restituendo dell’infanzia, oltre ai pensieri, anche gli odori, le risa, le lacrime e i rumori. È tra queste pagine che mi immagino di poter inserire la domanda di Eva, quella domanda cui, se interpellata con un “Ma, secondo te Eva, quanto dura?”, lei oggi risponde “Per sempre per sempre”.
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Montessori M., La mente del bambino. Mente assorbente, Garzanti, 2017 Morin E., La testa ben fatta. Riforma dell’insegnamento e riforma del pensiero, Raffaello Cortina, 2000 Oliverio A., Il cervello che impara, Giunti, 2017 Piaget J., La rappresentazione del mondo nel fanciullo, Bollati Boringhieri, 2013 Portis A., Aspetta, Il Castoro, 2015 Stangl K., Si può svuotare una pozzanghera?, Topipittori, 2018 Weber B., Lee S., Chiedimi cosa mi piace, Terre di mezzo, 2016
Bibliografia
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Calvino I., Lezioni americane, Mondadori, 2016 Erlbruch W., La grande domanda, Edizioni e/o, 2004 Gopnik A., Il bambino filosofo, Bollati Boringhieri, 2014 Grilli G., Beseghi E., La letteratura invisibile, Carocci, 2011 Lipman M., Educare al pensiero, Vita e pensiero, 2004 Lodi M., Il paese sbagliato. Diario di un’esperienza didattica, Einaudi, 2014 Lorenzoni F., I bambini pensano grande. Cronaca di una avventura pedagogica, Sellerio, 2014
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COME MI SONO IMBATTUTO NELLA FILOSOFIA CON I BAMBINI
Sebastiano Moruzzi
Filosofia con i bambini: cosa è e come si fa
Ho iniziato a interessarmi della filosofia con i bambini1 per caso nel 2016. L’Università di Bologna da anni ospitava l’evento Unijunior, una serie di lezioni di docenti universitari pensate per un pubblico di bambini e ragazzi tra gli 8 e i 14 anni (il progetto è nato dal basso grazie alla passione di un gruppo di docenti universitari, ed è il più bell’esempio di terza missione di ateneo che io abbia mai visto). Cristiana Natali, una mia collega antropologa, mi parlò del progetto proponendomi di partecipare al suo posto (la regola prevedeva che ogni due anni i docenti dovessero essere sostituiti da altri). Non ricordo bene con quale spirito accettai, se con entusiasmo o piuttosto per fare un piacere a Cristiana. Ricordo però il primo problema che mi posi a riguardo: qual è il modo più efficace di parlare di filosofia a un pubblico che comprende bambini, bambine, ragazzi e ragazze (d’ora in poi userò “bambini” e “ragazzi” per riferirmi indistintamente a maschi e femmine)? Questa domanda, nella sua semplicità, ha significato l’inizio di un percorso di pratiche e di ricerca che mi ha portato a conoscere l’universo della filosofia con i bambini e che ha contribuito a un ripensamento della mia didattica universitaria. Praticare la filosofia insieme ad altri è un modo per sviluppare quelle abilità cognitive che sono centrali per il pensiero critico. Fra le abilità di pensiero critico particolarmente esercitate nelle pratiche filosofiche vi sono le abilità argomentative (usate per difendere le proprie idee e criticare quelle degli altri) e quelle di analisi e di risoluzione dei pro-
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1 Uso “con” in “filosofia con i bambini” invece di “per” per indicare che mi riferisco a una pratica fatta con i bambini e non solo a un prodotto o attività progettata per loro.
blemi (utili per analizzare un problema filosofico ed elaborare strategie di risoluzione). Inoltre, dato che la pratica filosofica è un’attività fatta insieme ad altri, il suo esercizio non rafforza solo le capacità di pensiero che coinvolgono l’attività cognitiva esercitata individualmente, ma, in maniera cruciale, sostiene il pensiero dialogico. Sotto il termine “pensiero dialogico” vanno tutte quelle abilità preposte alla capacità di partecipare in maniera efficace e fruttuosa a un discorso costruito da un gruppo che ha come scopo la produzione di nuova conoscenza e comprensione. Infine, la pratica filosofica mette in gioco, per la natura stessa dei problemi filosofici, il pensiero meta-riflessivo, quella modalità di pensiero che permette di osservare e valutare i processi di pensiero (propri e altrui). Il pensiero meta-riflessivo comporta l’esercizio delle abilità meta-cognitive come l’abilità di pensare sul pensiero, sui processi e sulle strategie cognitive (memorizzazione, comprensione, ragionamento e problem-solving). La tradizione filosofica permette di attingere nella pratica filosofica a un insieme di argomenti capace di coprire tutti gli ambiti del sapere (si pensi all’ampiezza dello spettro del sapere coperto a partire dalla filosofia della matematica e la filosofia della scienza fino ad arrivare alla filosofia morale, estetica e politica). Partecipare a una sessione di pratica filosofica comporta quindi esercitare queste tre abilità di pensiero (pensiero critico, pensiero dialogico e meta-cognizione) su temi che abbracciano tutto l’arco del sapere umano. Per queste ragioni educare al pensiero, come usava dire Matthew Lipman, tramite la pratica filosofica è un’esperienza formati-
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va utile dalla scuola fino all’università (in alcuni momenti dei miei corsi universitari a volte trasformo parte della lezione in occasioni di pratiche filosofiche mutuando alcuni dei metodi esistenti). Naturalmente i criteri e le metodologie devono variare a seconda dell’età e il facilitatore che guida una sessione di pratica filosofica deve avere sia una solida formazione filosofica che una capacità di variare le tecniche di facilitazione e rimodulare il livello di complessità dei temi filosofici. Parlo qui in particolare di un tipo di pratiche filosofiche in cui il facilitatore introduce esplicitamente un problema filosofico ponendo e formulando una domanda (ovvero il cosiddetto metodo per problemi) perché è quello che mi è sempre stato più congeniale nella mia esperienza di facilitazione, ed è proprio lo stile in cui mi imbattei per primo quando iniziai a studiare il mondo delle pratiche filosofiche. Iniziai il mio percorso di studio su come praticare la filosofia con i bambini con una semplice ricerca su internet. Il primo risultato significativo che trovai fu il sito del Center for Philosophy for Children dell’Università di Washington (www. philosophyforchildren.org). Questa scoperta costituì un momento fondamentale per concettualizzare l’idea di pratica filosofica. Per “pratica filosofica”2 intendo qui una sessione di dialogo su un tema filosofico che è guidata dal facilitatore tramite particolari tecniche di conduzione. Il sito del Center for Philosophy for Children contiene infatti un vasta gamma di schede di “giochi filosofici” che illustrano molto bene come queste pratiche possono essere condotte (www.philosophyforchildren.org/resources/lesson-plans). Le schede del
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2 Si veda Worley 2021 per una utile ricostruzione storica del concetto di pratica filosofica in relazione a infanzia e adolescenza e una disamina delle tecniche di facilitazione.
centro sono volte a fornire indicazioni per facilitare sessioni di pratiche filosofiche pensate per diverse età e diverse aree disciplinari della filosofia (logica, etica, epistemologia, ecc…). Il centro di Washington è affiliato alla rete PLATO (www. plato-philosophy.org), che promuove la filosofia per bambini negli Stati Uniti, e il cui sito web contiene un ampio numero di lesson plans (schede per guidare delle sessioni di filosofia: www.plato-philosophy.org/teachertoolkit). Da allora uso spesso queste lesson plans per progettare i miei laboratori. Ho scoperto nel corso del tempo che esistono diversi metodi per fare filosofia con i bambini. I metodi che ho conosciuto e che stimo sono la P4C (www.montclair.edu/iapc/ what-is-philosophy-for-children e Lipman, 2003), il metodo per problemi di The Philosophy Foundation (www.philosophy-foundation.org e Worley, 2010) e il metodo storico-filosofico di Nicola Zippel (Zippel, 2017). Naturalmente ci sono molti altri metodi, alcuni che conosco e non raccomanderei a nessuno e probabilmente altri che non conosco e che sono altrettanto validi. In questo contributo vorrei far capire il modo in cui ho praticato la filosofia con i bambini portando due esempi di sessioni. Il primo esempio tratta di una sessione progettata per una fascia di età bassa (scuole materne e primi anni di elementari) incentrata sul metodo della narrazione e sullo strumento filosofico dell’esperimento mentale. Il secondo esempio riguarda una sessione per una fascia di età più alta (fine elementari–medie) che ruota intorno al tema del rapporto tra ragioni e verità e che usa il lavoro di gruppo e lo
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scambio dialogico come modalità principale. In questi anni ho sperimentato molte altre tipologie di sessione, ma credo che queste siano ben rappresentative di due modi diversi e per me molto congeniali di fare filosofia con i bambini (non parlo qui del setting della Philosophy for Children anche se lo considero un’ottima impalcatura per strutturare le sessioni e la fase due della sessione del secondo esempio si ispira a questo metodo). Spero che questi esempi servano a far capire al lettore in che senso questo approccio alla filosofia con i bambini sia una pratica informata dalla tradizione filosofica volta a stimolare il pensiero critico in un contesto collettivo.
NARRAZIONE ED ESPERIMENTI MENTALI Questo tipo di sessione usa una tecnica tipica della filosofia (ma usata anche in fisica), ovvero quella dell’esperimento mentale. In un esperimento mentale si costruisce uno scenario controfattuale (ovvero una situazione ipotetica che non ha avuto luogo ma che potrebbe aver avuto luogo) per mettere alla prova un certo nostro concetto. L’idea è che riflettendo su scenari inusuali si guadagna consapevolezza sui nostri concetti. Per capire cosa sia un esperimento mentale possiamo usare il concetto comune di gatto. I gatti sono quei mammiferi che ben conosciamo e che teniamo spesso in casa con noi, ma se ci imbattessimo in un felino dalle fattezze dei gatti ma alto cento metri lo chiameremmo ancora “gatto”? E se avesse cinque zampe invece di quattro? E se parlasse? E se potesse trasformarsi in un cane e in un’astronave sarebbe sempre un gatto? Esercitando l’immaginazione ci rendiamo
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meglio conto di connessioni concettuali utili a ragionare con più consapevolezza perché si comprendono con più perspicuità i concetti che usiamo comunemente. Questa tecnica ha una lunga storia filosofica se pensiamo alla caverna platonica, ma è nella filosofia contemporanea che è stata ampiamente usata. Si pensi ai giochi linguistici di Ludwig Wittgenstein nelle Ricerche filosofiche (Wittgenstein, 1953) e a Friedrich Waissmann con l’introduzione della nozione di tessitura aperta (Waissmann, 1945). In filosofia analitica sono molto celebri gli esperimenti mentali di etica come quello del trolley problem di Judith Thomson (Thomson, 1976, pp. 204217: se un treno in corsa sta per uccidere tre persone legate ai binari e io posso deviarlo in un binario su cui è legata una sola persona, cosa è giusto fare?) o di filosofia del linguaggio come quello di Terra Gemella di Hilary Putnam (Putnam, 1975: se mi trovassi su un pianeta con un liquido qualitativamente del tutto analogo all’acqua ma, senza che io lo sappia, con una composizione chimica diversa, mi riferirei a esso usando il termine “acqua”?). Gli esperimenti mentali continuano ad essere ampiamente usati nella letteratura filosofica specialistica per sostenere argomentazioni filosofiche e, recentemente, sono stati usati anche per effettuare test sperimentali su campioni di popolazione nell’ambito del programma della cosiddetta Experimental Philosophy (per un’eccellente introduzione al concetto filosofico di esperimento mentale si veda Brown & Yiftach, 2019). L’obiettivo di questo tipo di sessione è quello di stimolare l’immaginazione e la consapevolezza dei propri concetti
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(pensiero meta-cognitivo). La tecnica di conduzione è prevalentemente narrativa inframmezzata a momenti dialogici. Può sembrare banale come obiettivo, ma in realtà quasi sempre usiamo schemi concettuali in maniera inconsapevole, e tendiamo ad abituarci ad applicare un concetto a situazioni stereotipate. Tramite la narrazione di scenari inconsueti si allena il bambino ad ampliare la propria prospettiva esercitando l’immaginazione insieme al ragionamento. Ho adattato la tecnica dell’esperimento mentale per usarla in sessioni con bambini della scuola dell’infanzia e inizio elementari. Praticare filosofia con i bambini di questa età può sembrare impossibile: spesso si pensa che a quell’età non abbiano sviluppato le capacità cognitive sufficienti per comprendere e svolgere un ragionamento, ma in verità le ultime ricerche di psicologia cognitiva dicono che già da piccoli si è capaci di argomentare e che il contesto collettivo potenzia il pensiero critico in relazione alle capacità argomentative (Mercier & Sperber, 2017). Ho dunque provato a gestire una sessione di filosofia con bambini di una fascia di età che va dalla scuola dell’infanzia a inizio elementari e per fare questo ho scelto e adattato uno schema di lezione preso dall’eccellente libro The If Machine di Peter Worley (co-fondatore insieme a Emma Worley della Philosophy Foundation). La sessione che ho condotto è volta a fare ragionare i bambini su concetti funzionali (invece che rappresentazionali), concetti che denotano delle cose non per le proprietà intrinseche che queste hanno (come la forma o il colore) ma per la funzione che esse giocano all’interno di un contesto (come
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ad esempio l’essere utile per avvitare). Il concetto funzionale scelto è quello di sedia (diverse cose possono fungere da sedia, e alcune cose che hanno la tipica forma di una sedia possono non essere delle sedie in un certo contesto, si pensi a quando si riutilizza una sedia per farne un tavolino basso). La sessione si svolge tramite la narrazione di una storia bizzarra dove vengono raccontati scenari in cui si ribaltano le categorizzazioni di un oggetto che prima è rappreTramite la narrazione sentato come una sedia, poi come di scenari inconsueti un riparo per un gatto, in seguito si allena il bambino ad diventa un oggetto misterioso cuampliare la propria stodito sul pianeta Zargon dopo che prospettiva esercitando un extraterrestre lo trova sulla Terra, fino a diventare un cappello di l’immaginazione insieme moda per gli zargoniani. Il racconto al ragionamento si conclude con l’oggetto smarrito dagli zargoniani dopo una battaglia spaziale, un oggetto senza alcuna apparente funzione che fluttua nel vuoto cosmico. Lo scopo del racconto è quello di creare scenari utili a stimolare il giudizio e la riflessione su cosa sia l’oggetto, se questo cambi o meno di natura – abilità di analisi relative al pensiero critico. I bambini sono invitati a giudicare volta per volta che tipo di oggetto sia spiegando, se vogliono, il perché. Il facilitatore commenta le risposte dei bambini cercando di far emergere le novità e le eventuali contraddizioni. In questo tipo di esercizio è importante che il facilitatore non fornisca schemi per categorizzare l’og-
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getto, il termine “sedia” non è quindi mai usato nella narrazione, viene invece usata una lavagna a fogli per designare l’oggetto nei diversi scenari. Parola e immagini si integrano nella conduzione della sessione. Ho proposto questa sessione in due contesti diversi: in una materna e a margine di un evento educativo con un pubblico di bambini tra i 4 e gli 8 anni insieme ai genitori. Mentre nella materna ha prevalso l’aspetto narrativo, perché i bambini erano piccoli ed erano catturati dalla storia, nel secondo contesto ha prevalso l’aspetto dialogico per via sia dell’età media più alta sia della presenza dei genitori (che non mancavano di partecipare!). In queste sessioni i colpi di scena che avvenivano durante la narrazione sono stati efficaci nel causare stupore nei bambini, e, approfittando di questi momenti in cui i bambini facevano esperienza della meraviglia, ho cercato di porre loro domande per farli riflettere su questioni che normalmente danno per scontate ma che questo contesto permetteva invece di problematizzare in una maniera sensata per loro.
IL GIOCO DELLE RAGIONI Un secondo tipo di sessione che ho praticato ha come obiettivo la relazione tra ragioni e verità. Un aspetto centrale di quella che in filosofia viene chiamata razionalità epistemica consiste nelle norme che regolano la formazione e la revisione delle credenze. La razionalità epistemica ha infatti a che fare con quegli elementi probatori (o più semplicemente prove) che forniscono o ragioni per la verità di una credenza (e dunque le prove che permettono di formarsi una credenza)
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oppure ragioni per la sua falsità (e quindi prove che richiedono che la credenza venga rivista). Non ogni cosa può fungere da ragione. Se inizio a credere che la Terra orbiti intorno al Sole perché ho preso un farmaco allucinogeno, il farmaco costituisce una causa di questa mia credenza ma non una ragione per credere che l’eliocentrismo sia vero. Se inizio a credere nell’eliocentrismo per poter passare meglio un esame di geografia (posto che sia possibile credere per interesse), ho una ragione pratica (volta a ricavare un vantaggio pratico) per questa mia credenza. Una raPer “pratica filosofica” gione pratica però non aumenta intendo qui una sessione la probabilità che la mia credendi dialogo su un tema za sia vera. A differenza delle rafilosofico che è guidata gioni pratiche, le ragioni che sono dal facilitatore tramite connesse alla verità (o alla falsità) delle credenze sono chiamate raparticolari tecniche di gioni epistemiche (d’ora in poi le conduzione chiamerò semplicemente ragioni). Il successo predittivo del modello matematico di Keplero ha notoriamente fornito nella storia della scienza una forte ragione per abbandonare il geocentrismo a favore dell’eliocentrismo. Anche se centrale per gestire razionalmente le nostre credenze, non ogni ragione (e forse nessuna) offre certezza della verità (o falsità) di una credenza. Si pensi alle prove portate a favore dell’eliocentrismo: nonostante siano per noi ora solidissime, rimane sempre una (remota) possibilità che la teoria sia sbagliata (per
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quanto possa sembrare implausibile, le osservazioni astronomiche sono compatibili con modelli non-eliocentrici, le immagini satellitari potrebbero essere frutto di un errore, la fisica che spiega la rotazione della Terra potrebbe essere errata…). Le ragioni sono state al centro della storia della filosofia perché sono strettamente connesse ai concetti di verità e conoscenza. Cartesio, nel suo ambizioso progetto di fondazione della conoscenza umana, ambiva a trovare ragioni certe (cioè razionalmente indubitabili) per una serie di credenze di base, che dovevano appunto fornire la fondazione solida di tutto l’impianto conoscitivo umano. Forse la più celebre di queste ragioni cartesiane è il cogito, che serviva ad avere certezza della propria esistenza. Il progetto cartesiano fallì, ma il rapporto tra ragioni e verità continua a essere al centro dell’indagine filosofica (in particolare dell’epistemologia, si veda Steup, Neta, 2020). Per comprendere come sia complesso il rapporto di sostegno che vige tra una ragione e la verità (falsità) di una nostra credenza ho adattato una sessione del Center for Philosophy for Children (www.philosophyforchildren.org/lessonplans/ whats-your-reason-game). La sessione si configura come un gioco a squadre per bambini dagli 8 anni in su. Il facilitatore divide i bambini in squadre e affida a ogni squadra il compito di scegliere una credenza che ritiene vera, una che ritiene falsa e una che sia una norma etica (cosa è giusto fare o cosa è sbagliato fare). Dopo aver scritto ognuna delle tre credenze su tre diversi biglietti, viene chiesto ai bambini di scrivere nell’altra faccia del biglietto tre ragioni per credere la verità
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della credenza scritta nella faccia opposta (ragioni per credere anche nel caso della credenza falsa!). Una volta completata questa fase, ogni squadra legge una delle ragioni di un biglietto e invita le altre squadre a indovinare quale sia la credenza sostenuta da questa ragione. Se nessuna squadra indovina, viene letta la seconda ragione, fino alla terza e ultima se nessuna indovina ancora. Indovinare una credenza in base alla ragione fornita fa guadagnare un punto. Vince la squadra che fa più punti. Ho voluto aggiungere a questa prima parte una seconda parte in cui si ritorna in “plenaria” senza squadre (meglio se ci si dispone a cerchio per far circolare meglio la parola e fare in modo che tutti si vedano). In questa seconda parte chiedo di fornire degli esempi di certezze e poi chiedo se gli esempi forniti siano davvero certezze. Ad esempio, se si dice di sapere con certezza quale sia il proprio nome (un esempio emerso da una sessione, lo stesso esempio che scelse Wittgenstein in Della certezza, 1969), si potrebbe replicare chiedendo: ma come fai a sapere che non ti abbiano ingannato finora chiamandoti in modo diverso, magari per giocarti uno scherzo diabolico? Il lavoro del facilitatore qui è molto delicato perché si deve da un lato giocare il ruolo socratico mettendo in dubbio tutte le certezze proposte, ma contemporaneamente si devono aiutare i bambini a chiarire i loro interventi (pensiero critico) e infine, cosa più importante di tutte, mettere in “circolo la parola” facendo in modo che nasca un vero e proprio percorso dialogico che coinvolga tutti (esercizio del pensiero dialogico, esercizio particolarmente curato nelle sessioni della Philoso-
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phy for Children). Ho ulteriormente modificato la struttura di questa sessione perché non mi piaceva la competizione tra squadre. Invece di far giocare ogni squadra contro le altre, le ho fatte giocare insieme per un fine comune: accumulare abbastanza punti per ricostruire un tempio greco dedicato alla dea del sapere Atena (iniziai con il Partenone, per passare gli anni successivi al tempio di Atena di Metaponto). Ogni punto guadagnato è un pezzo restaurato, È molto importante si vince se alla fine della sessione il capire che possono tempio è restaurato. Come si può esserci ragioni per forse evincere dalla descrizione, credenze false o per questa sessione è piuttosto complessa, e per condurla efficacenorme etiche sbagliate mente bisogna prestare attenzione da seguire. Questo punto a diverse cose. In primo luogo, all’iè di capitale importanza: nizio del gioco è importante fornire fa emergere la questione ai bambini esempi di frasi vere (ad del fallibilismo in esempio “La neve è bianca”), false epistemologia (“Il Sole ruota intorno alla Terra”) e di frasi su cosa è giusto fare (“È giusto fare i compiti che vengono dati a scuola”) e su ciò che è sbagliato fare (“È sbagliato mangiare i bambini a merenda”). In secondo luogo, si noti che le frasi etiche comportano potenzialmente una complicazione perché potrebbe venire fuori nella discussione la tesi (nota come non-cognitivismo in etica) secondo cui le norme etiche non sono oggetto di conoscenza e non sono né vere
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3 La metaetica è quella disciplina che si occupa della natura del discorso e pensiero etico.
né false (ma sono più simili ai comandi). Ho appositamente aggiunto l’etica perché questa è un’ottima occasione per discutere il rapporto tra ragioni, verità e valori – naturalmente ciò comporta che il facilitatore debba essere preparato a gestire una discussione di meta-etica3. In terzo luogo, è molto importante anche far capire che possono esserci ragioni per credenze false o per norme etiche sbagliate da seguire. Questo punto è di capitale importanza perché fa emergere la questione del fallibilismo in epistemologia (le nostre credenze e teorie sul mondo sono sempre soggette a revisione e quindi potenzialmente fallibili?) e la questione se possa esserci una forma di oggettività in etica (le ragioni per un’azione sbagliata sono erronee perché c’è un dato di fatto su cosa sia giusto o sbagliato?). Infine la seconda parte sulla certezza serve ad apprezzare come sia davvero difficile trovare certezze. In questa fase può essere utile arrivare a provocare i bambini esponendoli all’argomento scettico cartesiano (se il sogno è indistinguibile dalla veglia, come posso credere di sapere qualcosa, dato che potrei in questo stesso momento essere in un sogno?). Ricordo che in una sessione l’argomento di Cartesio è emerso spontaneamente dai bambini! È molto interessante notare che gli argomenti classici di epistemologia emergono quasi naturalmente nei bambini senza che essi ne fossero a conoscenza: il problema dello scetticismo e le rispettive mosse compiute nella storia della filosofia per trovare una soluzione sono compresi molto velocemente dai bambini in un contesto come questo. A mio avviso ciò significa che se una sessione viene proget-
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tata con il giusto “setting”, le classiche domande filosofiche fanno subito presa sui bambini, i quali si sentono sfidati da un problema filosofico che tentano di risolvere costruendo strategie di risposta che impiegano pensiero critico, dialogico e meta-cognitivo (se ci pensate, il problema scettico non è altro che un potentissimo esperimento mentale per esercitare il pensiero meta-cognitivo riflettendo sui limiti della nostra conoscenza).
CONCLUSIONI Questi due esempi di sessione sono intesi a mostrare tre cose: 1) i contenuti di una sessione filosofica sono profondamente radicati nella tradizione filosofica e nella ricerca contemporanea che viene fatta in filosofia; 2) la filosofia con i bambini è una forma di pratica: ogni sessione è strutturata in modo da creare un contesto in cui i bambini e i ragazzi partecipano a una discussione filosofica (invece di ascoltare una lezione di filosofia); 3) vi è una pluralità di modi per costruire buone sessioni filosofiche, ogni tipologia di sessione ha i propri obiettivi e metodi e può essere più adatta di altre per certi contesti. Da questi tre punti seguono dei principi guida che uso per fare filosofia con i bambini. Principio guida 1: per scegliere i contenuti di una sessione di filosofia è molto fruttuoso attingere dal vastissimo patrimonio culturale della tradizione filosofica, inoltre è molto utile impiegare gli strumenti forniti dalla ricerca in filosofia contemporanea per gestire con più efficacia i contenuti della sessione.
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Principio guida 2: per progettare una sessione è utile rappresentarla come una pratica di discussione e confronto strutturata che ha uno stimolo (ad esempio una storia o un gioco), una propria dinamica di svolgimento (ad esempio discussione in cerchio o lavoro in gruppi), delle tappe (divisioni in fasi), e in cui si definisce chiaramente il ruolo del conduttore (ad esempio facilitatore, attore o narratore). Principio guida 3: il metodo e i contenuti sono scelti in base agli obiettivi formativi e al contesto in cui si svolgerà la sessione. Da quando scoprii la filosofia con i bambini sono passati diversi anni e si sono avvicendati diversi progetti. Prima nacque Farfilò (www.site.unibo.it/far-filo/it), un progetto interdisciplinare portato avanti da filosofi e pedagogisti che ha avuto una fase molto creativa e attiva dando luogo anche a un’innovativa startup che si occupa di filosofia con i bambini (www.filoedu.com/). Il progetto Farfilò è poi gemmato in due progetti: AIΩN/AIÓN – Filosofia e Didattica, un gruppo di ricerca sulla didattica della filosofia e le pratiche filosofiche, afferente al Dipartimento di Filosofia e Comunicazione dell’Università di Bologna (www.site.unibo.it/aion/ it); il Gruppo sulle pratiche educative per l’esercizio del pensiero complesso, all’interno del Centro di Ricerche Educative su Infanzie e Famiglie (CREIF) del Dipartimento di Scienze dell’Educazione dell’Università di Bologna, che si propone di riflettere sulle esperienze educative che – attraverso il dialogo filosofico – offrono un’occasione di pensiero critico e riflessivo (www.centri.unibo.it/creif/it).
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Dopo la diaspora di Farfilò mi trovo quindi ora in AIÓN, dove stanno nascendo nuove idee e progetti. Insieme a Carlotta Capuccino (ricercatrice in Storia della filosofia antica) e Diego Donna (ricercatore in Storia della filosofia moderna), e in collaborazione con la startup Filò stiamo creando una sinergia fra tre ambiti disciplinari (filosofia analitica, Storia della filosofia e Didattica della filosofia) con l’obiettivo comune di approfondire il tema dell’innovazione didattica per l’insegnamento della filosofia e di indagare le modalità e i contenuti utili a sviluppare nuove pratiche filosofiche per le diverse età per creare sessioni da sperimentare a scuola e nell’extra-scuola.
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Vorrei vederla sciogliersi, dissolversi questa sagoma nera, emblema del mio peso. So di essere altro, un puro spirito. Attenta ad inciampare. – M.L. Spaziani
Piero Schiavo
L’ombra
A qualcuno potrebbe sembrare strano trovare un articolo sulle ombre accanto ad altri dedicati a questioni, come la libertà o il tempo, che più abitualmente vengono ricondotte all’interno di una trattazione filosofica. Ma a ben guardare si scopre che le ombre sono anch’esse un tema squisitamente filosofico, tanto perché battezzate in tal senso da Platone nel celebre mito della caverna, quanto perché danno avvio a tutta una serie di domande metafisiche e gnoseologiche – si definiscono come essere o come assenza? Qual è lo statuto d’essere di qualcosa che non è? In quale modo possiamo intenderle esistenti, se le consideriamo come privazione? – arrivando persino a innescare, come vedremo, il domandare medesimo. Rimandando in bibliografia a testi molto più approfonditi ed esaustivi per un’analisi delle innumerevoli implicazioni con cui si presenta la questione dell’ombra, ciò che qui si propone sono soltanto alcune considerazioni che possono scaturire da un tema così ricco e così variegato, talora persino contraddittorio, in relazione ad alcuni albi per l’infanzia. Che sia contraddittorio lo dimostrano i racconti di due autori antichi: l’uno, già citato, è il mito della caverna contenu-
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to nel libro VII de La Repubblica di Platone; l’altro, forse meno conosciuto, è invece narrato nel Naturalis historia (XXXV, 15 e 43) di Plinio il Vecchio. Nel primo caso, come è noto, le ombre risultano un’immagine imperfetta della realtà: non soltanto una copia di essa, ma addirittura la proiezione di una sua copia, l’immagine di un’immagine, qualcosa perciò di ancor più lontano dal vero. Esse sono infatti prodotte da “oggetti d’ogni genere e statuette di uomini e di altri animali di pietra, di legno, foggiate nei modi più vari”, fatte scorrere davanti a una fiamma da alcune persone nascoste da un muretto, così da rendere l’inganno ancor più credibile per gli uomini dentro la caverna, incatenati in maniera tale da non poter girare indietro il capo e quindi da non poter svelare il perverso meccanismo illusorio. Le ombre, insomma, allontanano dalla conoscenza vera, offrono anzi una conoscenza ingannevole che per di più asservisce l’uomo. Plinio, invece, racconta di una giovane corinzia, Butade, che, per conservare l’immagine del suo amante che doveva partire per un’altra città, ne fissa su un muro il profilo dell’ombra del viso. Sarebbe stato poi il padre di Butade, partendo dalle linee di tale contorno, a imprimere sull’argilla un modello che riproducesse un ritratto capace di consolare la figlia dell’assenza dell’amato. In questo caso l’ombra, pur restando una copia, diviene tuttavia l’immagine più fedele al modello originale, ancor più fedele di qualsiasi artefatto creato dalla mano dell’artista, il quale non a caso parte proprio dall’ombra del giovane per realizzarne il ritratto. Plinio, dunque, esalta l’ombra come
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origine dell’arte e le riconosce uno statuto di mimesis tutt’altro che ingannevole.
OMBRA, IDENTITÀ, ALTERITÀ L’ombra di Giulia, un’ombra da bambino, come ci avverte il titolo dell’albo Storia di Giulia che aveva un’ombra da bambino, presenta in sé la medesima duplicità. L’ombra spaventa, sembra ingannare mostrando un’immagine totalmente falsata del modello – un’ombra maschile per un soggetto femminile – tale che o non la si può vedere (la madre di Giulia), o non la si vuole vedere (Giulia stessa). Lo straniamento e la paura della bambina crescono pagina dopo pagina (“le ombre mangiano la luce?” chiede a un certo punto Giulia alla mamma), fino a generare il desiderio di annientamento della propria ombra attraverso espedienti fantasiosi e ovviamente fallimentari, perché l’ombra “è sempre lì”, a ricordare a Giulia chi è. “E se avesse ragione l’ombra?”, si domanda quasi rassegnata la bambina, arrivando così persino a rovesciare il rapporto modello/ immagine e a credere alla verità unica e univoca della seconda, come gli uomini nella caverna di Platone. L’ombra, in effetti, ha ragione; ma non come inganno o trasfigurazione della verità. Semmai, come suo completamento. Essa mostra, non nasconde; paradossalmente, essa rivela ciò che non si vede (ciò che è, appunto, nell’ombra, o relegato in essa) e restituisce a Giulia l’immagine più fedele di se stessa, sebbene la bambina fatichi a riconoscerlo. La bambina e l’ombra sono quasi la stessa cosa: la seconda non è altro
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Giulia non aveva sognato: ha davvero un’ombra da maschio! Ma nessuno vuole crederle.
Quando un’ombra un po’ troppo scura, vi segue come un’ombra, nome di paura essa vi ingombra.
Giulia ne ha abbastanza. Questa strana ombra che disturbi o che confonda che il diavolo la morda!
Nelle pagine precedenti: Christian Bruel, Anne Bozellec, Storia di Giulia che aveva un’ombra da bambino, Settenove, 2015
rispetto alla prima, ma parte della stessa identità di essa. Viene perciò meno lo sdoppiamento differenziante tra modello e immagine, come suggerisce l’illustrazione di chiusura della storia, un’illustrazione in cui si vede Giulia camminare senza la sua ombra, come se questa fosse stata in qualche modo assimilata. L’ombra, dunque, nasconde e rivela. Essa insinua in Giulia un’identità ancora indefinita e tutta da scoprire, dando così avvio al questionarsi della bambina su se stessa. La domanda di chi ricerca (un senso, o un’identità) nasce da un sospetto, da un dubbio che innesca la curiosità. Occorre presumere un inganno, poca chiarezza, una zona oscura (torna il lessico della luce e delle ombre), per attivarsi nell’indagine sulla verità. È proprio il margine di indefinitezza o di deformazione dell’ombra a innescare la domanda da cui prende avvio la ricerca, in questo caso del sé. La luce, l’Essere, direi anche il riflesso, non sono interrogativi, ma assertivi. Lo specchio non lascia margini all’indefinito e quindi alla scoperta: mostra ogni cosa per com’è, non allude; dichiara e attesta, non interroga; risponde perlopiù a una ricerca, non la apre. Lo specchio è luce piena, che appiattisce in un certo senso l’immagine perché ne riduce il potenziale euristico. L’ombra, al contrario, dà spessore e profondità alle cose, allo stesso modo in cui nelle arti figurative essa viene utilizzata per dare l’illusione di un rilievo, ossia della terza dimensione, consentendo in tale maniera una mimesis più efficace rispetto alla sola operazione “riflettente”.
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Non solo. Proprio in quel suo margine di indefinitezza, di deformazione e di differenza si inserisce la possibilità della scoperta di ciò che è diverso da me, e quindi Altro-da-me. Già Lacan parlava di uno stadio dello specchio (Lacan, 1966, pp. 89-97), che riguarda l’identificazione dell’io, e di uno stadio dell’ombra, che riguarda l’identificazione dell’Altro. L’ombra non mi restituisce la perfetta immagine Le ombre sono un tema di me, già soltanto perché non mi squisitamente filosofico. rende i miei colori e perché è facilSi definiscono come mente deformabile; essa mostra essere o come assenza? perciò un me vagamente diverso, un Altro-da-me, che può essere Qual è lo statuto d’essere anche un Altro-in-me, come nel di qualcosa che non è? caso di Giulia. In quale modo possiamo La dicotomia ombra/riflesso e intenderle esistenti, se alterità/identità, con tutti i corolle consideriamo come lari appena accennati, trova una privazione? geniale espressione in due albi di Suzy Lee divenuti ormai classici: Mirror e Ombra, per l’appunto. Nel primo albo le iniziali e del tutto normali reazioni della bambina dinanzi alla sua immagine riflessa (Melchior-Bonnel, 2002) non sono che l’espressione del processo di riconoscimento di sé, di un’oggettivazione dell’Io nell’immagine sullo specchio che è vista sì come doppio, ma un doppio identico e perfettamente mimetico. Il conflitto tra le due bambine scoppia quando lo specchio smette di essere spec-
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Suzy lee, Ombra, Corraini, 2010
chio riflettente e diviene specchio deformante, acquistando un’autonomia quasi provocatoria. Il suo cessare di riprodurre fedelmente il modello – come dovrebbe invece fare in quanto specchio – genera dispetto nella bambina proprio perché è violazione di un Io che, in quanto ben consapevole di sé fino a un attimo prima in virtù dell’evidenza del suo riflesso, non accetta storpiature dall’identico. In Ombra, invece, la deformazione è gioco: è perciò arricchimento, non tradimento. Il concetto di ombra come Altro si connota anche qui di uno dei caratteri spesso associati alle ombre e al mondo dell’oscurità, così come al nostro rapporto con il diverso: la paura. Il lupo-ombra, l’Altro, spaventa la bambina e la costringe a rifugiarsi tra le ombre. Ma lo stesso lupo, a sua volta, verrà spaventato da un “mostro di ombre” a cui danno vita tutte le altre ombre, tra cui quella della bambina, unendosi l’una all’altra. L’Ombra, così come l’Altro – o proprio in quanto Altro – fa paura. Tuttavia, suggerisce la stessa Suzy Lee, con l’ombra la riconciliazione è più facile che non con il riflesso, proprio perché non si ha a che fare con un’identità tradita, ma con un’alterità che in parte ci forma: la bambina e/è l’ombra (Lee, 2018, p. 68). L’ombra del resto, a differenza del riflesso, resta ineludibilmente attaccata al suo soggetto-fonte: su qualsiasi superficie si proietti, la mia ombra mantiene sempre un punto di contatto con me. E, sempre a differenza del riflesso, l’ombra può subire modifiche, intermittenze e deformazioni indipendentemente dalla volontà del soggetto al quale appartiene,
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a dimostrazione che il nostro legame con essa trascende l’intenzionalità, ed è perciò un legame profondo, quasi essenziale, tale che in molte culture, come già ci insegnava Frazer, essa è considerata una sorta di omologo dell’anima. Non è possibile, insomma, separarsi dalla propria ombra, pena la perdita della propria identità, il divenire nessuno. Lo impara a sue spese Peter Schlemihl, il personaggio del celebre racconto di Chamisso: dopo aver venduto al diavolo la sua ombra in cambio di ricchezza, Peter viene rifiutato e temuto dalla società e non riuscirà più a essere se stesso. Mentre Paul Tichlorne, uno dei protagonisti de L’ombra e il bagliore di Jack London, egregiamente illustrato da Fabian Negrin, ricorda al suo avversario che per quanti sforzi faccia per conquistare l’invisibilità attraverso pigmenti speciali, la sua ombra lo tradirà sempre e lui si troverà comunque “a fare i conti con l’ombra”.
OMBRA E LUCE Ancor più forte è il legame tra l’ombra e la luce, l’indissolubilità del quale è dovuta all’interdipendenza e alla reciprocità essenziale dei contrari, per i quali – insegna Eraclito – “la vita dei primi è la morte dei secondi, la vita dei secondi è la morte dei primi”. Siamo soliti pensare che senza la luce non si possa vedere nulla: in una stanza totalmente buia, in effetti, non vediamo nessun oggetto, non vediamo nemmeno noi stessi. Tuttavia, sebbene non appaia così immediato, anche senza le ombre non riusciamo a vedere: in una realtà di sola
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luce, infatti, gli oggetti sembrerebbero fluttuare nell’aria e perderebbero ogni consistenza e spessore. Per poter vedere sono dunque necessarie entrambe, perché la visione è possibile soltanto in virtù del loro legame dialettico, come suggerisce Hegel in un passo della Scienza della logica: “quando ci si rappresenta in una maniera più precisa questo stesso vedere, è facile accorgersi che nell’assoluta chiarezza non si vede né più né meno che Con l’ombra la nell’assoluta oscurità, e che così riconciliazione è più l’uno come l’altro vedere sono un facile che non con il puro vedere, un vedere nulla. La riflesso perché non si ha pura luce e la pura oscurità sono a che fare con un’identità due vuoti, che sono lo stesso. Solo tradita, ma con nella luce determinata – e la luce è determinata dall’oscurità, quindi un’alterità che ci forma solo nella luce intorbidata – si può distinguere qualcosa. Parimenti qualcosa si distingue solo nell’oscurità determinata – e l’oscurità è determinata dalla luce – quindi solo nell’oscurità rischiarata” (Hegel, 1981, parte I, cap. I, nota 2). Grazie alle ombre le cose acquistano dunque (piena) visibilità, così come sempre in virtù delle ombre – e del buio più in generale – riusciamo a vedere cose che la sola luce non è in grado di mostrare, o a vederle in modo diverso. È questo forse l’insegnamento più importante che offre l’ombra alla sua Wanda nell’albo di Paul Chan The Shadow and Her Wanda, di cui non credo esista alcuna traduzione
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in italiano. Un albo corredato da alcune note a fondo testo, redatte dallo stesso Chan per commentare in modo ironico e tutt’altro che pedante delle citazioni o dei passaggi della storia, chiamando tuttavia spesso in causa anche autori di gran spessore come Goethe, Nietzsche, Adorno… e lo stesso Hegel. Wanda è una bambina che, come molte altre bambine e molti altri bambini della sua età, ha paura della notte, della sua oscurità e dei suoi rumori, per cui, quando arriva il primo buio, corre a infilarsi a letto, non senza però canzonare, una volta al sicuro sotto le coperte, le tenebre che avanzano (“provo pena per voi, stelle infelici”, dice Wanda citando a sua insaputa Goethe, “voi piangete in un buio senza lacrime”; la traduzione è mia). Non avendo più nulla da temere, Wanda si abbandona ai suoi sogni, dove tutto è luminoso e familiare (“everything was bright and familiar”). È nella calda e accogliente luce del risveglio che fa la sua apparizione l’ombra, spaventando la bambina. Quello che segue è un semplice e altrettanto denso confronto tra l’ombra e la sua Wanda su diverse questioni concernenti le ombre. Innanzitutto sul loro legame con la fonte e la loro somiglianza con essa, una somiglianza non soltanto esteriore ma assai più intima, in cui ritroviamo perciò il concetto di ombra-anima: “sono insieme a te ogni giorno […] sono praticamente come te”, dice l’ombra alla sua Wanda per rassicurarla, per poi assumere la forma delle cose che la bambina ama di più, così da dimostrarle la profondità del loro legame. Nel corso di tutta la storia, poi, troviamo conti-
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Suzy lee, Ombra, Corraini, 2010
nue allusioni o accenni al rapporto tra l’ombra, il tempo e la morte, con un’ombra che ora si trova sotto Wanda perché “è mezzogiorno”, ora invece si congeda dalla bambina sussurrando, perché “quando il sole tramonta, le ombre diventano molto deboli”. L’ombra prodotta per proiezione è qualcosa di legato alla vita e al suo scorrere, come spiega Dante stesso nel Purgatorio (III, 16-30): le anime dei morti non hanno un’ombra che ne scandisca il divenire, sono esse stesse fatte di ombra, un’ombra ormai fissa e immutabile in un istante eterno. Sono come le ombre nella notte. E infine, facendosi forza dinanzi a un’ombra con la quale nel frattempo ha familiarizzato e che ha perciò smesso di terrorizzarla al punto da indurla alla fuga (una fuga inutile, ovviamente, perché l’ombra resta sempre attaccata alla bambina e la segue ovunque: non esiste una “direzione opposta” verso cui scappare da un’ombra), Wanda trasforma lo spavento in accusa e risponde all’ombra sul motivo della sua paura: “tu lasci una traccia, lasci una ferita […] tu sei la notte nel mio mondo”. Da qui prende avvio il cambio di prospettiva suggerito dall’ombra, in virtù del quale viene messa in discussione la corrispondenza tra luce-bello-verità, e la ripugnanza per ciò che è oscuro, che caratterizzano soprattutto il pensiero occidentale; perché, osserva l’ombra un po’ risentita e pronta al riscatto, “il mondo brilla in modo diverso nel buio”.
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Credo che l’arte sia una forma di meditazione per creatore e testimone e, come la meditazione, l’arte ci renda attenti. – Milton Glaser
Martino Negri
“Altro è vedere, altro è guardare” Appunti sul rapporto tra immagini, infanzia e riflessione filosofica
Il fulcro del rapporto tra immagini, infanzia e riflessione filosofica risiede – io credo – nella forza interrogativa che le figure possono e sanno mostrare nell’incontro con lo sguardo infantile, sollecitando al contempo la dimensione del piacere della visione e la riflessione ermeneutica sull’oggetto sensorialmente esperibile che sta all’origine di tale piacere. Lo sguardo infantile, infatti, non è affatto ingenuo nel senso deteriore che il termine spesso assume, rimandando implicitamente a una mancanza di esperienza (del mondo, del linguaggio) o di abilità interpretativa, né in quello altrettanto riduttivo dell’incanto acritico per l’universo del visibile o l’esistenza tutta che nel senso comune accompagna l’idea dell’infanzia: è al contrario uno sguardo capace di attenzione minuziosa ai segni del visibile e l’ingenuità di cui è effettivamente portatore è da leggersi come apertura alle possibilità nella ricerca del significato, rappresentando un movimento dell’attenzione di segno opposto rispetto a quella chiusura pregiudiziale governata dalle esperienze di visione pregresse che troppo spesso negli adulti si cristallizza in filtro interpretativo obbligato.
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La storia delle culture e, più recentemente, i visual studies ci insegnano quanto grande sia stato il contributo delle immagini nell’evoluzione del pensiero umano, non solo nei termini della possibilità di fermare attraverso dei segni e rendere così comunicabile l’esperienza vissuta, ma anche e proprio nell’aprire nuove piste della riflessione: si pensi a come l’invenzione della carta geografica abbia trasformato il modo di pensare lo spazio o a come la figura dell’albero della vita abbia consentito a Darwin di mettere a fuoco la sua idea rivoluzionaria sulla relazione genealogica tra tutti gli esseri viventi. Tuttavia, nonostante i passi compiuti, in questo senso, nell’ambito della riflessione filosofica e gli sforzi fatti nella direzione di un riconoscimento della centralità che un’educazione dello sguardo dovrebbe assumere nel curricolo formativo di ogni bambino e bambina, ancora si sottovaluta il potere che le immagini hanno come trampolino di lancio per il pensiero e innesco dell’intelligenza, punto d’avvio per una pratica di riflessione filosofica che nasca dalla meraviglia – una meraviglia interrogante – e si sviluppi attraverso la formulazione di ipotesi interpretative che possono riguardare sia il singolo oggetto visivo su cui l’attenzione si è concentrata, e i suoi possibili significati (non solo in relazione alle eventuali intenzioni del loro artefice), sia una dimensione più intimamente esistenziale dischiusa dall’incontro tra l’immagine in questione e la visione che il soggetto ha del mondo, e della vita stessa. Molte delle grandi storie che hanno spinto gli esseri umani, attraverso le provocazioni dell’immaginazione a ragiona-
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re su temi intimamente filosofici relativi a tratti e limiti della natura umana, sono state suggerite ai loro autori da immagini che si sono imposte nella fantasia facendosi germe del racconto. È stato così per Mary Wollstonecraft Shelley, nella famosa notte della sfida letteraria lanciata per gioco da Lord Byron, da cui sarebbe nato Frankenstein, come la scrittrice racconta nella lettera di presentazione dell’opera scritta una quindicina d’anni più tardi, nel 1831 (Wollstonecraft Shelley, 2007, pp. 7-8): Scese la notte su questi discorsi ed era già trascorsa l’ora delle streghe allorché ci ritirammo per dormire. Ma quando poggiai la testa sul guanciale non potei prendere sonno e neppure potrei dire che stessi pensando. L’immaginazione, senza che lo volessi, si impadronì di me guidandomi: le immagini si susseguivano nella mia mente vivide come non mi era mai accaduto prima, travalicando i confini consueti della fantasticheria. Vedevo – a occhi chiusi ma con la mente ben desta – lo studioso di una scienza sacrilega, pallido, inginocchiato accanto alla cosa che aveva messo insieme. Vedevo l’orrida forma di un uomo disteso, poi una macchina potente entrava in azione, il cadavere mostrava segni di vita e si sollevava con movimento difficoltoso, solo parzialmente vitale. Doveva essere terrificante: come terrificante sarebbe l’effetto di qualsiasi opera umana che riproducesse lo stupendo meccanismo del Creatore del mondo. L’artefice è
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atterrito dal proprio successo. Pieno d’orrore fugge da quella sua spaventosa creatura. Forse spera che, abbandonata a se stessa, la debole scintilla di vita che vi ha acceso si spegnerà; che quella cosa cui ha dato un’animazione così imperfetta sarà risucchiata nella morte. Potrebbe addormentarsi, certo che il silenzio eterno della tomba calerà sull’attimo di vita di quell’essere orrendo al quale egli aveva guardato come alla cuna della vita. Scivola nel sonno, poi si scuote, riapre gli occhi: la cosa è lì, in piedi, accanto al suo letto, ne sta aprendo le cortine e lo fissa con occhi giallastri e acquosi, ma penetranti. Io aprii i miei per il terrore. La visione mi possedeva a tal punto da darmi brividi di paura; volevo sostituire quelle fantasie orripilanti con la rassicurante realtà che mi circondava. La rivedo ancora adesso nei particolari: la stanza, il parquet scuro, la luna che tentava di penetrare attraverso le persiane chiuse, e la consapevolezza del lago ghiacciato e delle alte cime innevate delle Alpi al di fuori. Non riuscivo a scacciare quel fantasma pauroso, mi perseguitava. Si tratta di un passaggio molto noto della lettera, che mi è parso tuttavia opportuno riportare con una certa generosità perché efficacemente rivelatore rispetto al potere che certe immagini hanno, nel presentarsi all’immaginazione, di assumere il ruolo di oggetti interroganti, testi visivi enigmatici capaci non solo di imporsi al pensiero, ma di attivarlo. “L’im-
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S. Tan, L’albero rosso, 2001 © S. Tan, Lothian (© ed. it. Tunué, Latina 2020)
maginazione, senza che lo volessi, si impadronì di me guidandomi” – scrive Mary – “le immagini si susseguivano nella mia mente”, “vedevo”, “vedevo”, “la visione mi possedeva”, “la rivedo ancora adesso nei particolari”, “non riuscivo a scacciare quel fantasma pauroso, mi perseguitava”: la forza con cui l’immagine del mostro da cui sarebbe nata una delle icone della modernità, nel suo porre domande sui limiti e la natura dell’umano, si impone nell’immaginazione della scrittrice è di un’intensità sconvolgente, come dimostrano gli indizi verbali qui evidenziati, ed è esemplare rispetto alla capacità che certe immagini hanno di rappresentare, con le domande che suscitano, il punto di scaturigine della riflessione e del racconto. Gli esempi, in questo senso, potrebbero moltiplicarsi all’infinito. Per l’impasto mirabile di leggerezza e profondità, serietà e umorismo che contraddistingue le sue invenzioni visive e narrative, credo sia Shaun Tan, attualmente, nell’ambito della letteratura verbo-visuale, l’autore che sa esplorare in maniera più consapevole, coerente e brillante la forza interrogativa che le immagini possono avere, singolarmente o in successione, sole o accompagnate da parole. E lo dimostrano non soltanto alcune sue dichiarazioni in merito, sulle quali ora avremo modo di soffermarci, ma anche la messa alla prova delle sue figure nell’incontro con lo sguardo e l’intelligenza interpretativa di bambini e bambine di diverse età e contesti culturali. Anche Tan – come Mary Wollstonecraft Shelley – dichiara a più riprese come tante delle storie che ha scritto siano nate nei territori periferici della sua immaginazione, deposi-
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tandosi in schizzi appena abbozzati o in figure più complesse rimaste a giacere silenziose per anni in taccuini abbandonati in un cassetto, prima di essere oggetto di un’attenzione specifica capace di coglierne e svilupparne il potenziale narrativo. Immagini “accidentalmente poetiche”, come avrebbe avuto modo di dire a proposito degli appunti visivi da cui sarebbero nate le narrazioni di Piccole storie di periferia; immagini impossibili da spiegare pienamente e pure capaci di agganciare l’attenzione e di sollecitare il pensare. Parlando in termini generali, tendo a iniziare con una o due immagini che possono essere schizzi o vaghe immagini mentali, senza un’idea precisa di che cosa possano significare – un pesce fluttuante in una strada, un bambino che nutre un mostro in un capannone, un bufalo indiano che indica qualcosa. Poi inizio a giocare con le parole, provando a dire qualcosa intorno a ciò che sta succedendo, cercando al tempo stesso di renderlo ancora più misterioso1. Immagini come quelle che costituiscono la potente ossatura metaforica del suo capolavoro, L’approdo, romanzo senza parole chiaramente inteso a non chiudersi nella dimensione dell’allegoria – che presuppone una corrispondenza codificata tra figure e significati – aprendosi invece a possibilità molteplici di significato, che ogni lettore è chiamato a scoprire per conto suo attivando memoria e immaginazione, sensibilità e intelligenza, capacità di decentramento cogni-
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1 https://www. shauntan.net/ notes-faq
tivo ed empatia. Senza avere alcuna certezza di un approdo risolutivo, come testimoniano esemplarmente le parole di Martino, alunno di una quarta elementare dove ormai più di dieci anni fa ebbi l’occasione di condurre un progetto di lettura e di scrittura a partire proprio dal capolavoro di Tan (Negri, 2012, p. 26): Posso dire una cosa sui libri di sole figure? Che però anche quando è finito il libro ti viene l’ansia perché non sai davvero cosa voleva dire l’immagine…
Text and illustrations copyright @ Shaun Tan 2013 Per l’edizione italiana: @ 2015 RCS Libri S.p.A., Milano
In questa incertezza, che è resistenza a un atto interpretativo capace di sciogliere ogni figura in un significato univoco – il “suo” significato – sta la dimensione pienamente letteraria del racconto per immagini di Tan, perché il potere della letteratura “non è di rappresentare, ma di rendere presente con la forza dell’assenza creatrice”, come scriveva Maurice Blanchot (Blanchot, 1969, pp. 55-56). Rendere presente, ma che cosa? Figure capaci di catturare l’attenzione e invitare alla sosta: una sosta che nasce dallo stupore della visione ed è alimentata dalla particolare sensibilità di ciascuno e dalla naturale propensione alla ricerca del significato che ci spinge a ipotizzare associazioni e collegamenti di varia natura tra i segni del visibile (gli elementi di cui la figura è composta), le nostre conoscenze e la nostra esperienza e visione del mondo. E in effetti, l’affermazione di quel ragazzino ci aiuta a cogliere la natura del dispositivo narrativo allestito da Tan, ideale per sollecitare la riflessione inquieta del lettore,
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promuovendo un atteggiamento di natura pienamente filosofica, fondato com’è sul senso della meraviglia e la ricerca del significato: un significato che può anche travalicare l’intenzione comunicativa, o la posizione filosofica dell’autore, avendo a che fare piuttosto con qualcosa che accade nel lettore durante l’esperienza della lettura, quando si esercita un cerPosso dire una cosa sui to tipo di attenzione su quanto si sta guardando, l’immagine che si libri di sole figure? Che sta leggendo. però anche quando è A testimoniarlo ulteriormente, finito il libro ti viene un altro episodio scolastico, lel’ansia perché non sai gato alla lettura effettuata in una davvero cosa voleva dire seconda media di un altro piccolo l’immagine… capolavoro di Tan, Regole dell’estate, nel contesto di un progetto di formazione da me ideato con Franco Passalacqua e Ilaria Tontardini per l’associazione Periplo nell’autunno del 2020, con la collaborazione di insegnanti della scuola dell’infanzia e primaria, medie e superiori, “Di-segni di lettura. L’albo illustrato contemporaneo: forme, temi, autori e itinerari didattici”. Regole dell’estate è un albo di grande formato dove ogni apertura è caratterizzata da una pagina, a sinistra, contenente gli elementi verbali – una singola frase – e da una pagina, a destra, interamente occupata da una vivida scena dipinta a olio su tela dall’autore. Tan allestisce una sorta di diario delle avventure di due ragazzini – amici, fratelli? –
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condensato in una successione di piccole prese di coscienza, epifanie del pensiero, divertenti o inquietanti, comiche o drammatiche a seconda dei casi, sui diversi aspetti della vita di cui i due hanno fatto esperienza nel tempo incantato, per quanto non privo di rischi, dell’estate. Grazie all’incipit anaforico che le caratterizza – con l’esclusione della prima pagina e delle ultime, sorta di coda in cui si mostra più esplicitamente la dimensione anche diegetica del racconto, fino a quel momento nascosta dalle illuminazioni rapsodiche della memoria – ogni apertura rappresenta un’unità iconotestuale autonoma che dà forma a una specifica “regola”, il cui senso nasce dall’incontro/scontro tra il verbale e l’iconico che, presi in considerazione singolarmente, direbbero qualcosa di molto diverso, di incomprensibile o di assai più banale. Nell’albo di Tan ogni apertura propone dunque una scena apparentemente enigmatica dove il significato – il significato possibile dell’insieme, intendo – pare indicato proprio dall’interazione tra la figura e il breve testo verbale che la accompagna enunciando la “regola” cui questa si riferisce. Ma ogni scena, in realtà, si apre a possibilità interpretative plurime, se la si intende come una sfida ermeneutica, e l’ingenuità dello sguardo infantile ha offerto alle insegnanti che hanno proposto il volume2 delle vere e proprie perle, rivelando la potenzialità che le figure (certe figure!) hanno nel sollecitare la riflessione dei bambini. Commentando un’immagine accompagnata dalla regola “Mai calpestare una lumaca”, dove si vede uno dei due bambini guardare la suola della propria scarpa e l’altro mettersi
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2 Flavia Fornili per le medie inferiori (I.C. “Riccardo Massa”, Milano) e Federica Gardella per la scuola dell’infanzia (Scuola dell’Infanzia Bambini Bicocca, spin off dell’Università degli studi di Milano-Bicocca, Milano).
le mani nei capelli terrorizzato dalla vista di un tornado che avanza verso di loro sconvolgendo il paesaggio, Alice, una ragazzina di seconda media, ha fatto un’osservazione sorprendente: Secondo me il tornado è il punto di vista della lumaca: per noi schiacciare una lumaca non significa nulla, ma per lei è una catastrofe. La forza e l’originalità di questa interpretazione, che coglie un duplice punto di vista nell’incontro tra l’immagine e la sua chiave di lettura verbale – la prospettiva di un osservatore a pochi passi dal bimbo che schiaccia la lumaca e quella della lumaca schiacciata – sono notevoli, indicando un’interessante forma di decentramento cognitivo, e mostrano come certi testi visuali, o verbo-visuali se si considera l’importanza giocata dall’elemento verbale, per quanto esiguo, nell’indicazione di una via nel lavoro di lettura e interpretazione dell’immagine, possano sollecitare una riflessione che dalla figura oggetto dell’attenzione diventi riflessione sulle prospettive possibili dalle quali è possibile leggere il mondo, e viverlo, farne esperienza. Una riflessione sull’esistenza, nella semplicità del suo nocciolo essenziale. Come dimostra lo sviluppo della discussione innescata dall’osservazione di Alice: Bea: Io do un’interpretazione diversa: piccole azioni possono avere grandi conseguenze. Diego: Come buttare una bottiglietta di plastica in giro.
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Io non ci penso e poi, però, ci sono le isole di plastica… Riccardo: Per me il tornado è la colpa. Leo: Prof., io ho una domanda che non c’entra… Perché se si uccide un uomo ci sono delle conseguenze, ma se si uccidono migliaia di formiche non succede niente? Alice: Io sono vegetariana per questo. Anche i miei genitori non mangiano la carne, ma pesci e molluschi sì. Ho chiesto loro perché mangiano alcuni esseri viventi e altri no. Loro dicono che decidono in base al grado di intelligenza… Ma allora se uno non è intelligente, lo possiamo uccidere? “Ma allora se uno non è intelligente, lo possiamo uccidere?”. Una domanda meravigliosa e potente che ci mette di fronte a una delle tante forme di ipocrisia con le quali, da adulti, si finisce col convivere senza troppa difficoltà. Commentando l’immagine, Tan osserva peraltro come la scena, nata originariamente con l’obiettivo di risultare semplicemente “divertente”, si presti molto bene a rappresentare l’idea di un mondo “governato da leggi arbitrarie” – qualcosa che i bambini possono apprezzare, corrispondendo almeno in parte alla loro stessa esperienza di “stranieri” in un mondo governato dagli adulti – che potrebbe spiegare una certa vulnerabilità a pensieri superstiziosi, che spingono a mettere in relazione cose che non hanno alcuna relazione alimentando illogici sensi di colpa rispetto alle proprie azioni. Tan, d’altra parte, è maestro nel lanciare domande sull’incontro dell’individuo col mondo, sul senso dell’iden-
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tità e dell’appartenenza, nonché sul rapporto tra gli esseri viventi, attraverso visioni narrative attraversate da un sottile umorismo che non teme l’ombra e l’inquietudine, né lo spiazzante e il magico. Basti pensare – pescando tra le pagine di Piccole storie di periferia – alla silenziosa, delicata eloquenza del saluto di Eric a chiusura del suo viaggio d’istruzione sul pianeta Terra, o allo spietato destino degli stecchi nell’omonimo racconto, che costringono i loro persecutori a porsi domande inattese e scomode, ma vivificanti; alla protagonista di L’albero rosso, nell’alternarsi di considerazioni esistenziali che compaiono di pagina in pagina, in forma di scene e frasi secche come aforismi; o, ancora, alle grandi lumache alle prese con una notturna e luminosa danza d’amore in Piccole storie dal centro. E si tratta di domande che anche i bambini più piccoli sanno cogliere, se si offre loro la possibilità di farlo e se si ha il coraggio di “perdere tempo” ad ascoltarli con paziente e curiosa disponibilità, come ha fatto Federica Gardella, proponendo Regole dell’estate nel contesto di una classe eterogena di scuola dell’infanzia, dove l’attenzione dei bambini si è concentrata sulla figura del corvo presente in ogni tavola dell’albo, fino a diventare stormo nelle pagine drammatiche che precedono la fine della storia: Questo corvo [racconta Federica riportando l’accavallarsi e lo svilupparsi delle considerazioni dei bambini che si alimentano reciprocamente] li guarda dritti negli occhi, li guarda sempre, li sta spiando, è un corvo
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Text and illustrations copyright @ Shaun Tan 2013 Per l’edizione italiana: @ 2015 RCS Libri S.p.A., Milano
con una telecamera, il re dei corvi seguito da un esercito di corvi […], è un corpo creato in un laboratorio da uno scienziato pazzo nella fabbrica dei corvi […], la fabbrica dove vengono creati i corvi per spiare i bambini […], sì, perché sono i genitori… lo scienziato pazzo è il genitore che li vuole guardare… Un passaggio che ci consente di chiudere circolarmente il discorso, rievocando la figura dello “scienziato pazzo” dalla quale siamo partiti – il dottor Frankenstein – che diventa qui figura dell’adulto, colto nello squilibrio del suo rapporto con l’infanzia, nel segno del potere e del desiderio di controllo. Intuizioni di estremo interesse. Intuizioni inquietanti, anche. Intuizioni che ci dicono quanto le immagini, attivate dalle parole che le accompagnano, possano spingere il lettore a guardare e non, semplicemente, a vedere, e quindi invitare a pensare, come auspicava Antonio Rubino, vero e proprio cultore dello sguardo, inteso come strumento di lettura e comprensione del mondo, al principio degli anni Trenta (Rubino, 1933, p. 4): Chi guarda vede, ma intensamente, nella maniera la più intelligente! Chi guarda vede, ma fa di più: fissa le cose, pensandoci su!
di figure, e a goderne, in primo luogo, offrendo in aggiunta la possibilità, bandita ogni fretta, di cimentarsi nell’esercizio del pensiero riflessivo e nel gioco dell’interpretazione. E ci aiutano a non dimenticare che nell’opera letteraria, come scrive Maria Teresa Andruetto riflettendo sul proprio lavoro di scrittura (ma credo che quanto scrive valga anche per gli autori di opere visive o verbo-visuali), la relazione tra dimensione estetica ed etica è ciò che consente, nell’arte, di esprimere una “verità senza dogmi”, la verità della metafora, del racconto, della messa in scena (Andruetto, 2014, pp. 68-69): Per questo la letteratura non è il luogo della certezza, ma il territorio del dubbio. Niente è più liberatorio e rivoluzionario della possibilità che ha l’uomo di dubitare, di mettersi in discussione. Di percorrere le vie della filosofia fin dall’infanzia, potremmo dire, a partire dall’incontro con le figure, assumendo uno sguardo curioso e interrogante, attento ai segni del visibile: uno sguardo che non si lasci appagare e addormentare dalle prime e più semplici impressioni della visione, trovando nell’immagine e nel lavoro di ricerca del significato che questa può dischiudere un’occasione di riflessione anche sul proprio sentire, così come sul proprio porsi in relazione col mondo e col modo in cui ciascuno se lo racconta.
Quelle proposte da Tan sono immagini che invitano a entrare nello spazio letterario, dove il pensiero prende la forma
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Bibliografia
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Proposte di lettura