Brand Care magazine 005

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Brand Care magazine • ISSN: 2036-621 • Anno II numero 005 • giugno-agosto 2010 | Poste Italiane SpA - Spedizione in abb. post. 70% DCB Roma

PROGETTARE LA BELLEZZA

La trasmissione dei saperi attraverso il design

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Brand Care magazine

MARZO-MAGGIO 2010 - N°005 Editore Queimada di Bernabei & Colucci snc via V. Veneto, 169 - 00187 Roma P. IVA e CF 02249990595 [T] +39 06 4871504 [F] +39 06 62275519 [S] queimada_skype [W] www.brandcareonline.com [@] info@queimada-agency.com Direttore responsabile Sergio Brancato Contributors n° 005 Tonia Basco, Mario Bellina, Davide Bennato, Vincenzo Bernabei, Claudio Biondi, Sergio Brancato, Massimo Caiati, Alessandra Colucci, Alessia Cremonini, Niko Demasi, Patrizio Di Nicola, Luigi Granato, Emi Guarda, Marianna Marra, Pasquale Napolitano, Francesca Nicolais, Erica Speranza. Brand Care magazine addicts Alberto Abruzzese, Alfonso Amendola, Davide Bennato, Claudio Biondi, Sergio Brancato, Ciriaco Campus, Gabriele Caramellino, Giulio Como, Fabrizio Contardi, Vanni Codeluppi, Patrizio Di Nicola, Francesco Fogliani, Carlo Forcolini, Francesco Maria Gallo, Viviana Gravano, Paolo Iabichino, Ilaria Legato, Gabriele Moratti, Mario Morcellini, Vincenzo Moretti, Luca Peroni, Marco Pietrosante, Daniele Pittèri, Alberto Prase, Roberto Provenzano, Guelfo Tozzi, Davide Vasta.

Cover

“New York”, un omaggio a BCm da parte di Ciriaco Campus Art Direction e titoli Niko Demasi Grafica e impaginazione Martina Finelli Stampa Grafica Metelliana Via Gaudio Maiori - Zona industriale - 84013 Cava de’ Tirreni Pubblicità Queimada snc Policy I contenuti e le opinioni espresse dagli autori dei singoli contributi e dagli intervistati non coincidono necessariamente con quelle di Brand Care magazine. Tutti i marchi registrati citati sono di proprietà delle rispettive aziende. Nessuna parte del contenuto di questo magazine può essere pubblicata, fotocopiata, distribuita e diffusa attraverso qualsiasi mezzo - online e offline - senza il consenso scritto di Queimada snc, fatta eccezione per i contenuti in cui vi è espressamente indicato un regime di diritto d’autore diverso (es: Creative Commons). Registrazione presso il Tribunale di Roma n° 250/2009 del 21/07/09 Iscrizione presso il Registro degli Operatori di Comunicazione n° 18728 ISSN 2036-6213



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editoriale

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di Sergio Brancato

os’è il design? Una parola inflazionata, certo. Ma anche un orizzonte di ricerca e riflessione inevitabile per chiunque si occupi di comunicazione: “C’è in questo campo una intricata interazione fra design, arte, tecnica, economia, politica; fra designer, i loro committenti e i loro destinatari; tra forme di vita, abitudini di pensiero e culture degli oggetti. Gli oggetti disegnati sono inseriti in impalpabili sistemi di regole sociali, sicché ogni soluzione progettuale – che di per sé è risultato di preesistenze culturali – provoca mutamenti anche decisivi nel comportamento e nelle comunicazioni di interi strati sociali”. Per Maurizio Vitta, autore di questo brano, il concetto di design contiene un portato di mistero che coincide, forse, con l’enigma del gusto. Ovvero di un’altra parola inflazionata, eppure nevralgica. In definitiva, cosa si nasconde dietro le oscillazioni delle estetiche, oltre il nostro bisogno di ridefinire il nostro rapporto con le cose, con l’invadenza simbolica degli oggetti? Vengono alla mente alcune immagini carpite al cinema. Quella del nostro scimmiesco progenitore nell’apertura di 2001: Odissea nello Spazio, algido capolavoro di Kubrick, che traghetta la specie umana nella sfera della tecnica usando un osso come clava, una cosa preesistente e certo non disegnata dall’uomo che diviene la prima leva (con la quale, se non il mondo, almeno avremmo sollevato le nostre sorti nel processo crudele dell’evoluzione). Ma anche King Kong, altro “mostruoso” scimmione, icona del Mito dell’Origine, che crolla dall’alto dell’Empire State Building mentre un impresario teatrale sentenzia: “Non è stata l’aviazione (leggi: la Tecnica) a uccidere la Bestia, è stata la Bellezza”.


La bellezza, in ogni sua accezione, è l’intrusione più evidente dell’umano nel mondo, il modo in cui esso prende forma e si disegna ai nostri occhi. Come sosteneva Adolf Loos più o meno un secolo fa, l’intervento estetico sulle cose che usiamo è una misteriosa pulsione che incamera istanze tra loro assai diverse. In questo quinto numero di BCm tentiamo appunto di raccogliere istanze e idee tra loro diverse per continuare ad alimentare le connessioni sin qui attivate su queste pagine. Gli articoli e le interviste che mettiamo in circolo toccano temi importanti, in cui le questioni del design rimandano a oggetti come l’organizzazione della conoscenza, l’immaginario che dà forma al quotidiano, il desiderio che si ©Wikimedia.org

fa materia e cosa. Con essi scopriamo che il lavoro del designer non consiste tanto nel progettare tavoli e sedie, quanto nel testimoniare, grazie a una formazione trasversale rispetto alle professioni, che il sapere non ha più bisogno di verticismi e di dottrine rivelatrici. Si scopre che il vero motore dell’economia è l’estetica delle organizzazioni, la cui efficienza deriva in massima parte dall’armonia tra le loro sottoparti, oltre che dalla funzionalità dei luoghi produttivi. Si scopre, o si riafferma una volta di più, che le estetiche del linguaggio pubblicitario continuano a essere la rappresentazione più vivida del desiderio dei consumatori, e del loro “pensiero”, o che il nostro modo di mangiare e, più in generale, di concepire il cibo, testimonia una sorta di “pigrizia sensoriale” da contrastare attraverso il food design, disciplina che dà forma alle nostre esigenze alimentari. In BCm n° 005, infine, si parla di corpi, tecnologie e interfacce, di accessori elettronici da indossare che, oltre a diventare nostre protesi, ci trasformano in vere e proprie opere di “realtà aumentata”, capaci di trasmettere o condurre energia, luci e colori. Un po’ come accadeva nel 1955, nell’età d’oro dei consumi di massa, quando le pinne cromate della Cadillac Eldorado divennero la protesi simbolica più ardita verso le impensabili trasformazioni del mondo, del corpo e dell’identità moderna. Viaggiando sulle strade della comunicazione.

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profili

SERGIO BRANCATO

Insegna  Sociologia della Comunicazione (Università di Salerno) e Sociologia dell’Industria Culturale (Federico II di Napoli). Si occupa di media, società e cultura di massa. Ha pubblicato tra gli altri: Fumetti (Datanews); Sociologie dell’immaginario (Carocci); Introduzione alla Sociologia del cinema (Sossella); La città delle luci (Carocci); Senza fine (Liguori), Il secolo del fumetto (Tunué).

EMI GUARDA

Laureata in storia dell’arte contemporanea con tesi in semiologia culturale su Iconicità e Ferita; prima e Riviste Italiane d’Avanguardia degli anni ‘60 dopo, ha lavorato come assistente all’organizzazione eventi alla Fondazione Baruchello e fatto una breve tappa al Castello di Rivoli a Torino. Scrive di eventi/spettacoli e di arte su Teknemedia. com. Si sostenta lavorando con l’energia (elettrica).

ERICA SPERANZA

Laureanda  in  Scienze della  Comunicazione (La Sapienza Università di Roma) con una tesi sull’Organizzazione  e Gestione degli Eventi Sportivi, scelta motivata dalla partecipazione alla Finale di Champions League di Roma 2009. Forte interesse per le strategie di marketing e comunicazione che cooperano nella costruzione di brand forti, e nelle dinamiche organizzative interne all’impresa.

DAVIDE BENNATO

Insegna Sociologia dei processi culturali e comunicativi (Università di Catania). Studioso dei rapporti tra innovazione e tecnologia, è consulente aziendale di formazione, social media e strategie di ricerca sociale in ambiente web 2.0. Ricercatore per la Fondazione Einaudi (Roma), co-fondatore e vicepresidente di STS Italia. Scrive su: Internet Magazine, tecnoetica.it, processiculturali.it, puntobeta.net.

ALESSANDRA COLUCCI

Laureata  in  Scienze della  Comunicazione (La Sapienza Università di Roma) con una tesi sul Product Placement. Oltre a essere titolare di Queimada – Brand Care, insegna produzione audiovisiva, comunicazione e marketing in diversi master universitari. Adora cinema, design e pubblicità in qualsiasi forma. Viaggiare, connettere e organizzare le sue passioni. Ha un blog che porta il suo nome: www. alessandracolucci.com.

NIKO DEMASI

Lo sguardo schizzato di Jack che chiama Danny inseguendolo  nella neve è tra i suoi ricordi d’infanzia più limpidi. Laureato in Comunicazione (Sapienza, Roma), esperto di progettazione multimediale, la voglia di “cucinare” nella stessa pentola musica, grafica e video lo fa diventare un motiongrapher. Il mistero dei suoni e delle immagini è la sua passione. Da ottobre 2009 è l’art director di Queimada-Brand Care.

TONIA BASCO

Si laurea in Scienze della Comunicazione con una tesi in Sistemi  Organizzativi Complessi, che porta alla realizzazione di un sito dedicato al telelavoro. Mentre sogna di diventare “cittadina romana”, vive in un paese grazioso ma piccino piccino, consolandosi con tanti bei libri, buona musica e cari amici. Ha un figlio bellissimo che colora ogni giornata con un pastello diverso.

FRANCESCA NICOLAIS

Studiosa  di  comunicazione visiva, di interaction ed experience design,  sviluppa  un progetto di ricerca postdottorato  sulla  progettazione  sensoriale dei materiali avanzati. Collabora con la cattedra di Comunicazione Visiva (Univ. di Salerno) e con il Laboratorio Materiali Nanostrutturati, CNR. Ama il design, il kitch, i viaggi e la nanofiction. “Sperimenta” con Pej’s kitchen, società di comunicazione e produzione multimediale, e con Punto Quantico, società di Q-materials e design.

PATRIZIO DI NICOLA

Insegna  Sociologia dell’Organizzazione a  La  Sapienza  e  si diverte  a  coordinare progetti internazionali. Esperto di mercato del lavoro, nuove tecnologie e, tra i primi in Italia, di telelavoro e Internet, fonda Futuribile srl con l’obiettivo di produrre idee pazze e tentare di realizzarle. Ogni anno porta gruppi di studenti in America a frequentare corsi e summer school. Ha una moglie e tre figli.

VINCENZO BERNABEI

Laureato  in  Scienze della  Comunicazione (La Sapienza Università di Roma) pubblica la sua tesi dal titolo Cinema: Evasione, strategie di fuga nel più invasivo dei media con Tilapia. Titolare di Queimada – Brand Care, dal 2008 si divide tra l’ufficio e l’Università di Salerno, dove è dottorando di ricerca e studia i media e la sociologia dei processi culturali

MASSIMO CAIATI

Copywriter dal 2002, prima per DDB Milano e Saatchi & Saatchi Roma, ora in Saatchi & Saatchi Ginevra. Rappresentante italiano dei creativi under 28 a Cannes 2007, vincitore dell’Antenna d’Argento al Radiofestival nel 2008 e Bronzo all’Art Directors Club Italia nel 2008.

ALESSIA CREMONINI

Laureata  in  Scienze della  Comunicazione (La Sapienza Università di Roma), collabora a vari progetti del Dipartimento di Sociologia e Comunicazione. Amando web e formazione, si occupa di e-learning, progettazione, creazione di contenuti e open source. Strappata alla console, è un’appassionata di tecnologia, musica, cinema, organizzazioni e creazione di nuova conoscenza. Non è parente di nessun cantante.


MARIANNA MARRA

Ha  conseguito  il dottorato  in  Scienze della  Comunicazione presso l’Università di Salerno, è attualmente PhD student in Operation e Information Management presso la Aston Business School. Si occupa di knowledge and supply chain management.

CLAUDIO BIONDI

Entra nel mondo dello spettacolo come attore; aiuto regista in circa 30 tra film, inchieste e serie TV; per oltre 20 titoli é produttore esecutivo o produttore, uno su tutti I misteri della giungla nera. Autore di saggi, tra cui Come si produce un film (Dino Audino Editore), è ora docente di produzione audiovisiva in numerosi master universitari. www.hstrial-cbiondi.homestead.com.

LUIGI GRANATO

Laureato  in  Comunicazione  (Sapienza, Roma)  con  una  tesi sulla serialità televisiva americana,  collabora presso  l’Osservatorio sulla  Fiction  italiana.  Appassionato  di Cinema e Tv series, scrive soggetti e sceneggiature. In attesa di diventare il J.J. Abrams de noantri fa il custode di un oratorio: ragazzini-rincoglioniti, padri-bambini e madri-isteriche sono per lui preziosa fonte d’ispirazione.

PASQUALE NAPOLITANO

Cultore  in  Comunicazione  Visiva  e dottorando  in Scienze della  Comunicazione all’Università di Salerno, collabora con la cattedra di Disegno Industriale ed è curatore dei Laboratori Didattici di Comunicazione Visiva. Artista multimediale, performer ed esperto di design e comunicazione visiva, insegna in vari istituti ed è cultore in Analisi dell’Opera Multimediale (Università Orientale - Napoli).

MARIO BELLINA

È autore e conduttore televisivo  e  radiofonico. Tra i suoi programmi  L33t  (Rai2), VersioneBeta (Radio2), Identikids (DeaKids). Collabora come autore e sceneggiatore con varie società d’animazione, con il festival Cartoonsonthebay e coordina il master in CartoonAnimation dello Ied di Roma. Ha pubblicato vari libri e in uscita prossimamente un saggio sulla Flash Animation, edito da Tunuè, dal titolo Flash Revolution.

MARTINA FINELLI

Laureanda  in  Disegno  Industriale.  (La Sapienza  Università di Roma). Linguista a tempo perso e aspirante grafica, si interessa tanto al significato quanto al significante della parola scritta. Lettrice accanita e appassionata di arte e design.


indice

marketing 28

LA CULTURA DEL PROGETTO ARRIVA IN TAVOLA Zona7 e il Food Design - Intervista a Ilaria Legato

a cura di BCm 58

BRAND & DESIGN Un rapporto indissolubile per fare Business

di Erica Speranza 88

I MISTERI DELLA GIUNGLA NERA Design ed estetica dell’audiovisivo

di Claudio Biondi

comunicazione 14

VERSO IL SAPERE ORIZZONTALE I progettisti come testimoni delle nuove forme di conoscenza - Intervista a Carlo Forcolini

a cura di BCm 66

IL DESIGN DELL’IMMAGINARIO Come la pubblicità usa il futuro per progettare desideri

di Davide Bennato 78

MUTA IL DESIGN DEL PALINSESTO Offerta e consumo dei contenuti televisivi tra logica database e processi di personalizzazione

di Luigi Granato

creatività 44

62

CAMPUS (CONTRO)

di Niko Demasi LA PUBBLICITÀ È MORTA, VIVA LA PUBBLICITÀ!

di Massimo Caiati


tecnologie e web 50

LA NOSTALGIA DELL’INTERFACCIA Il passato e il futuro rappresentati dai codici di programmazione

di Vincenzo Bernabei 74

DESIGN DELLA CONOSCENZA IN RETE Motori di ricerca, web semantico e mappe concettuali

di Alessia Cremonini 82

L’ESTETICA DEL FLASH TOON

di Mario Bellina

business 34

60

ESTETICA DEI LUOGHI DI LAVORO

di Patrizio Di Nicola ORGANIZATIONAL DESIGN Il ruolo del design nella progettazione delle strutture organizzative

di Tonia Basco 76

DIRIGERE VUOL DIRE ANCHE CONOSCERE

di Marianna Marra

culture 40

ENZO MARI DESIGN L’utopia dell’oggetto di consumo

di Emi Guarda 70

HYPERMODA “Aumentare” il corpo tra nanofiction, nanofashion e soft computation

di Francesca Nicolais 94

SOUND DESIGN E SCHIZOFONIA Perché il suono può essere progettato come un oggetto

di Pasquale Napolitano

formazione 20

STRATEGIC PLANNING La metodologia progettuale come differenza tra professionalità e improvvisazione nel mercato della comunicazione FOCUS: Cos’è un brief?

di Alessandra Colucci


comunicazione

I progettisti come testimoni delle nuove forme di conoscenza intervista a carlo forcolini

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a cura di BCm

rand Care magazine: Carlo Forcolini, alcuni tuoi progetti sono esposti al Cooper Hewitt Museum di New York e presso il Museo delle Arti decorative di Parigi; hai disegnato mobili, lampade e oggetti per brand prestigiosi come Amar, Artemide, Alias, Cassina, De Padova, Gervasoni, Joint, Nemo e Pomellato. Quale, tra queste cose, ti rende professionalmente più orgoglioso? Carlo Forcolini: Ho sempre proposto progetti che avessero un senso per il mio lavoro, in piena coerenza con quella che in quel momento era la mia visione del mondo. Questo può sembrare banale ma non lo è affatto, poiché a volte si seguono delle direzioni piuttosto che altre perché si è mossi da esigenze pratiche, economiche. Mi rendo conto che posso apparire come un privilegiato, come una persona che nella sua carriera non abbia dovuto affrontare le normali questioni di sostentamento per chissà quale lascito familiare; in realtà tutto deriva dal mio approccio alle cose. Quando ho iniziato ho


CARLO FORCOLINI Classe 1947, è un designer e imprenditore che ha contribuito a fondare prestigiose aziende tra cui Alias (www.aliasdesign.it), Alias UK e Nemo (www.nemo.cassina.it). Ha partecipato a molte manifestazioni internazionali di settore in città come Madrid, Los Angeles, Londra, Amburgo, Colonia, Tokyo, Sidney, Santiago del Cile e Oslo, esponendo inoltre al Museo Pignatelli Cortes di Napoli, alla Fondazione Sovietica della Cultura; a Tokyo (Creativitalia), alla Permanente di Milano, a Innsbruck, Toronto e Bruxelles, tenendo seminari in diverse scuole e università, fra cui la Graham Foundation di Chicago. Dal 1999 coordina il Forcolini.Lab, laboratorio creativo che opera nei diversi ambiti della comunicazione visiva. Dal dicembre 2001 è Presidente dell’ADI (Associazione per il Disegno Industriale), e dal 2009 è amministratore delegato di IED - Istituto Europeo di Design.


comunicazione pensato quasi subito che le approssimazioni, i comportamenti dettati da casualità tipici di alcune realtà con cui lavoravo non facessero per me, e per questo ho direttamente creato una mia azienda. Il fatto è che il design è prima di tutto un modus vivendi, non un settore professionale completamente separato dalla sfera personale: io ho creato molti oggetti e varie aziende (una struttura aziendale è essa stessa un progetto di design) non perché desiderassi diventare ricco, ma perché i miei obiettivi professionali hanno sempre coinciso con le mie aspirazioni. Questo è quello che mi rende più orgoglioso. BCm: Cos’è un progetto di design? CF: Questa, specialmente nell’attuale contesto socioculturale, è una domanda cruciale. Il mio amico Morello sosteneva che il design è ciò che umanizza la tecnologia. Ma che vuol dire “umanizzare”? Perseguire la ricchezza? La poesia? La bellezza? Karl Marx, per esempio, essendo vissuto nell’epoca della formazione del modello industriale, diceva che per comprendere la realtà dobbiamo occuparci della struttura, di fenomeni materiali. Io però ritengo che mettendo in atto i suoi processi cognitivi e relazionali l’essere umano abbia continuamente bisogno di elaborare un piano simbolico. Quando Charles Eames, nel 1958, ha progettato questo oggetto (indica l’Aluminum Chair su cui siamo seduti, ndr) si è ispirato a delle forme naturali, a delle sottili membrane organiche tese, e ha traslato sul piano del sublime, della straordinarietà estetica, un complemento di arredo da ufficio che fino a quel momento storico era stato di infimo ordine, era servito solo per conferire uno status a chi vi era seduto sopra. Ecco, in questo senso Eames è stato un umanista. Lo stesso, a mio avviso, non si può dire a proposito di un altro grande personaggio come Starck, il quale probabilmente sa essere altrettanto in grado di interpretare le richieste del mercato, ma non ha le stesse qualità in termini, appunto, di “umanizzazione” degli oggetti.

BCm: Quando parli di “fase di transizione” cosa intendi esattamente? Se abbiamo appena delineato il “prima”, il modello da cui veniamo, qual è il “dopo” più plausibile se ci riferiamo ai percorsi della creatività? CF: La vera novità è che i modelli del passato, semplicemente, non ci servono più. Non è solo un meccanismo riconducibile al ricambio generazionale: quello c’è sempre stato, si è verificato anche ai miei tempi, e da questo punto di vista il nuovo ha sempre – più o meno conflittualmente – sostituito il vecchio. Io mi riferisco al fatto che le grandi scuole di pensiero e le dottrine di riferimento sono tramontate: non ci sono più utili né il marxismo, né il cristianesimo, né tanto meno Berlusconi. Sia chiaro, io non mi sento più rappresentato da un pezzo dal nostro ceto politico, ma non posso non notare che per esempio un fenomeno come quello inaugurato da Beppe Grillo, non esente dal pericolo della degenerazione populistica, ha bypassato completamente i mezzi di comunicazione generalisti. Grillo a parte, il futuro è qui, in questi fenomeni, e sotto questo aspetto vedo dei segni incoraggianti quando mi rapporto con le nuove generazioni. BCm: Da questo punto di vista non ti sembra che il carico di responsabilità che attribuisci ai designer e ai giovani sia eccessivo? Se di fronte alla crisi della rappresentanza la politica non può (non sa) fare molto, e lo stesso destino sembra spetti alle imprese di fronte a una crisi economica generalizzata, quanto possono incidere componenti del tessuto

BCm: La questione della trasmissione del sapere è per te un elemento fondamentale, inscindibilmente legato al processo di creatività. CF: Prima facevo riferimento a Marx e al modello industriale. Bene, la cosa veramente alienante di quel sistema, quella più disumanizzante, era che prevedeva una diffusione della conoscenza di tipo verticale. Parafrasando Marshall McLuhan, quindi, potremmo dire che il mezzo di comunicazione condiziona fortemente il messaggio che trasmette, e nell’era delle tecnologie di rete i processi di rappresentazione tendono, per forza di cose, a diventare fortemente orizzontali. Proprio per questo mi aspetto che i progettisti, a causa della loro formazione trasversale, derivante dal fatto che si interfacciano continuamente con le professionalità più disparate (architetti, ingegneri, imprenditori, pubblicitari...) giochino in questa fase di transizione un ruolo di rilievo contro questo verticismo. Creatività e conoscenza.

©Flickr-by back_garage


©Flickr-by Starck Ting produttivo così “deboli”? CF: In quanto progettista io sono anche un manager: io “maneggio”, gestisco, alloco materie e risorse (non necessariamente economiche). Bisognerebbe smettere di rappresentare i creativi come delle figure estraniate, eccentriche, che non hanno nessuna idea di cosa significhi interagire con le altre componenti produttive. Questo stereotipo appartiene a un sistema di pensiero consumistico superato dagli eventi e dalla logica: io sono un designer e mi vesto come un distinto, dignitoso rappresentante della moderna borghesia; Paul Klee nel privato era una persona normalissima, per niente borderline, e disegnava sul tavolo da cucina; Magritte, un genio della pittura, aveva l’aspetto di un dirigente in pensione... BCm: Tra i mille progetti che segui c’è quello relativo all’Istituto Europeo di Design, specie da quando ne sei diventato amministratore delegato. Dato che anche nel campo della formazione sei un osservatore privilegiato ci piacerebbe conoscere il tuo parere rispetto alle qualità e ai difetti delle “nuove leve”. CF: Quando ho assunto questo ruolo in IED mi sono sentito subito tremendamente responsabile, proprio perché, in un’impresa che si occupa di formazione e conta circa diecimi-

la studenti, ho il dovere, oltre che lo stimolo, di rapportarmi con coloro che rappresentano il futuro di questa società. A tale responsabilità, però, si è contestualmente affiancata la consapevolezza di avere una visione fortemente suggestiva, che progressivamente ho declinato in un progetto molto ambizioso. Lo IED, data la sua importanza e le sue potenzialità, deve includere nella sua prassi didattica una questione fondamentale: noi siamo parte di una élite sociale ricca, che a sua volta rappresenta un terzo circa dell’umanità. Ma quand’è che ci rendiamo conto dell’esistenza degli altri due terzi della popolazione mondiale, quella che vive sotto la soglia economica di povertà, se non in uno stato di completa indigenza? Quando prendiamo l’aereo, evadiamo dalla nostra quotidianità e andiamo in vacanza. A San Paolo organizzano addirittura dei tour fotografici nelle favelas, proprio come se si trattasse di partecipare a un safari o di andare a uno zoo con i bambini al posto degli animali. Ecco, io mi auguro che finiremo presto di considerare queste realtà come la nostra cattiva coscienza, come un elemento pittoresco curiosamente diverso da noi. Auspico che presto l’élite di cui facciamo parte considererà quei famosi due terzi della popolazione mondiale per quello che effettivamente è: una parte integrante del mondo che abitiamo, una componente verso cui abbiamo delle responsabilità precise. Loro non sono altro da


©ied.it

comunicazione

dus operandi alternativi, portare a pensare che si può lavorare anche con il no-profit e le ONG ottenendo risultati esaltanti. C’è da considerare che nel nostro Paese abbiamo una tradizioBCm: Qual è il piano d’azione attraverso cui tenterai ne eccezionale fatta di designer bravissimi che spesso si sono di tradurre in pratica la forte esigenza di cui ci stai rivelati “insubordinati” alla pura logica d’impresa. parlando? Ecco, dobbiamo valorizzare questo spirito, e dato che anche CF: Attraverso lo IED abbiamo dato vita a un advisory boar- gli esponenti più brillanti di altri tessuti economici si stanno ding internazionale in cui opererà, tra glia altri, il premio No- dando questa caratteristica non possiamo essere proprio noi bel per l’economia Muhammad Yunus, il quale sostiene che quelli che fanno passi indietro in questo senso, non proprio l’economia debba essere considerata come uno strumento ora. E dico questo chiarendo che la via maestra per un buon al servizio dell’umanità (e non l’inverso). Il nostro design è per me sempre e comunque legata a un approccio obiettivo è quello di creare una strategia di condivisione produttivo di tipo industriale, perché con il solo approcdegli strumenti con i giovani appartenenti alle popolazioni cio artigianale, e soprattutto con l’improvvisazione e le autodisagiate, strumenti che li aiutino ad avere una visione com- produzioni non si genera innovazione. plessiva delle cose. E non si tratta di un una semplice suggestione, di un qualcosa di squisitamente ideale: in questo progetto c’è un rilevante spessore operativo, etico. D’altra parte stiamo vivendo una situazione storica eccezionale, paragonabile alla rivoluzione della Bauhaus. Quando, per esempio, Le Corbusier progetta un tavolo alto “solo” 70 centimetri inizia a pensare alle persone, non all’architettura degli spazi in sé. Oggi, anche se si guarda al design in modo diverso, “grazie” anche alla crisi economica che ci pervade stiamo tornando a quei valori di funzionalità che mettono al centro le esigenze di tutti. Abbiamo, insomma, una nuova occasione e dobbiamo approfittarne: è questo il senso ultimo delle cose di cui mi occupo, sia in quanto designer che come manager di IED. Una scuola, ripeto, deve pensare in termini di visione, e deve insegnare ai giovani che il primo obbiettivo del progettista non è quello di guadagnare soldi, quanto meno non necessariamente nei modi soliti. Dobbiamo trasmettere mo©Flickr-by Global X

noi, siamo noi, semmai, altro da loro, perché siamo in netta minoranza.



formazione

La metodologia progettuale come confine tra professionalità e improvvisazione nel mercato della comunicazione

A

di Alessandra Colucci

vete mai sentito parlare dello Strategic Planner? È una delle ultime nate tra le professioni operanti nel settore della comunicazione, un ruolo che viene a formarsi a Londra nelle agenzie J. Walter Thompson e Boase Massimi & Pollit verso la metà degli anni ’60. Più che un pianificatore, come la traduzione letterale suggerirebbe, lo strategic planner è una guida vivente all’ideazione e all’utilizzo di soluzioni creative: si occupa di predisporre percorsi logico/empatici per la veicolazione dell’identità di brand, i valori aggiunti e il vantaggio competitivo, il posizionamento e le atmosfere emozionali; il suo compito è analizzare il contesto della marca, i target, i competitor, la preesistenza, la sua immagine... per creare input e spunti che sostengano il lavoro dei “creativi” e lo rendano efficace, permettendo il raggiungimento degli obiettivi di comunicazione e marketing del brand. In sintesi lo strategic planner è un designer di strategie, una risorsa che diviene tanto più indispensabile per la gestione di un brand, quanto più si fa complesso il sistema mediatico e relazionale di riferimento.


che una serie di operazioni necessarie,

disposte in un ordine logico

dettato dall’esperienza.

individuate risultino complicate, difficili da realizzare, costose, poco pratiche o non esattamente in linea con gli obiettivi da raggiungere perché basate sulla casuale bontà delle sue intuizioni.

il metodo progettuale non È altro

Il fatto di dover osservare un metodo e dunque delle regole non deve apparire come un limite, al contrario. Applicare una metodologia è utile a non ricominciare sempre giungere al massimo risultato da zero, a utilizzare la propria e l’altrui esperienza per com. sforzo col minimo prendere quali fasi del progetto portare avanti prima e quali dopo, senza perdere tempo a correggere gli errori di work-flow [Bruno Munari - Da cosa nasce cosa] (flusso di lavoro) resi evitabili dall’utilizzo di un metodo speChi pianifica le azioni di comunicazione di una marca rimentato, con il risultato di avere più tempo per la cura della al fine di definirne le caratteristiche e accrescerne ricerca creativa di strategie. la visibilità deve necessariamente utilizzare un’ade- Come sottolinea Munari, “la serie di operazioni del metodo guata metodologia di progettazione delle strategie: progettuale è fatta di valori oggettivi che diventano strumenti non basta avere intuito e qualche buona idea per creare o au- operativi nelle mani dei progettisti creativi”, valori riconosciuti mentare la notorietà di un’azienda, un prodotto o un servizio: da tutti come tali, ma che non rendono la metodologia “assooccorrono competenze e conoscenze specifiche, nonché un luta e definitiva” in quanto possono in ogni momento essere metodo progettuale. sostituiti da altri valori oggettivi qualora si ritenga che possaOccorre sin da subito, quindi, fare la differenza tra un pro- no migliorare ulteriormente il processo di creazione. fessionista della pianificazione di strategie e un improvvisato strategic planner: il professionista dello strategy de- Il metodo progettuale spiegato da Bruno Munari nel sign segue un metodo progettuale che gli consente suo libro Da cosa nasce cosa, infatti, proprio perché si di svolgere il suo lavoro con precisione e sicurezza, basa su valori oggettivi, può non solo essere applicato al desisenza perdite di tempo e con la certezza che il piano gn di oggetti, ma facilmente essere adattato alla progettazione strategico sarà in linea con le esigenze del cliente; di qualsiasi cosa in qualsiasi settore, anche dunque al design il progettista strategico improvvisato cercherà di avere un’idea di strategie, al lavoro dello strategic planner (lo schema delgeniale e si affiderà a questa con il rischio che le strategie l’approccio Brand Care by Queimada ne è una sintesi).

il suo scopo È quello di

Analisi Azienda Valore Aggiunto Vantaggio Competitivo Brand Identity Visibilità Posizione di Mercato

Definizione e scelta di strategie in relazione a

target

e budget concordati


PROBLEMA 1. Definizione del problema 2. Componenti del problema 3. Raccolta dei dati 4. Analisi dei dati 5. Creatività (NON idea) 6. Materiali e tecnologie 7. Sperimentazione 8. Modelli 9. Verifica/Test 10. Disegni costruttivi

SOLUZIONE

Ricalcando le categorie e le fasi del processo di progettazione individuate da Bruno Munari si evidenzierà il modo in cui queste vengono utilizzate per la creazione di strategie per il posizionamento di un brand, in qualsiasi settore.

il problema di design nasce da un bisogno. [Archer]

formazione

IL PROBLEMA Innanzitutto occorre premettere che, individuato il bisogno strategico da soddisfare per la creazione o il rafforzamento del brand preso in esame, il problema che ne deriverà non si potrà certamente risolvere da solo, ma sicuramente conterrà sempre in sé stesso tutti gli elementi che ne rendono possibile la soluzione [Bruno Munari]. Uno dei compiti dello strategic planner sta nell’individuare, nel riconoscere questi elementi per poi poterli sfruttare nella messa a punto della soluzione.

1. DEFINIZIONE DEL PROBLEMA La prima cosa da fare sarà, dunque, occuparsi di definire il problema in modo da delineare i confini delle strategie e i loro obiettivi specifici. In questa fase è importantissimo non commettere l’errore di credere che il problema sia stato sufficientemente definito dal cliente [Archer]: le informazioni condivise dalla committenza devono essere considerate come degli spunti, vanno approfondite in ogni punto e utilizzate al fine di poter accuratamente ponderare le scelte tra soluzioni alternative considerando il maggior numero possibile di fattori. Lo strumento adatto a rendere la definizione del problema più fluida e, successivamente, di facile condivisione con il team di lavoro, è il Brief (cfr. FOCUS Cos’è un brief?). 2. COMPONENTI DEL PROBLEMA Dopo averlo definito, per conoscere nel dettaglio il problema e facilitare la creazione delle strategie (la soluzione) si provvederà a suddividerlo nei suoi elementi essenziali individuando i micro-problemi di cui si compone. Una volta risolti, uno dopo l’altro, tutti i sotto-problemi individuati, si provvederà a ricomporre la questione nel suo complesso in modo che le sue parti risultino tutte coerenti e funzionali, tanto tra loro quanto nei confronti del contesto generale di cui sono parte. Tale operazione di ri-composizione andrà portata a termine facendo attenzione a non sottostimare le caratteristiche peculiari di ogni singolo elemento: come ricorda lo stesso Munari nel suo libro, la parte più ardua sarà conciliare le micro-soluzioni con il progetto complessivo: “la soluzione del problema generale sta nel coordinamento creativo delle soluzioni dei sottoproblemi”.


Il brief è un documento che raccoglie le informazioni, gli obiettivi e le richieste del cliente finalizzati alla creazione del piano di comunicazione: un documento chiaro, comprensibile, sintetico e completo, scritto – in genere dall’account, dallo strategic planner o dal responsabile di progetto – affinché il gruppo dei creativi riceva tutte le informazioni e gli input necessari per occuparsi del progetto e orientarsi tra le richieste della committenza. Il primo obiettivo è, ovviamente, capire il cliente: tutto quello che succede durante l’incontro di presentazione del progetto è importante e può servire a sviluppare idee che possano corrispondere a richieste ed esigenze esplicite. È fondamentale che sia un incontro caratterizzato dallo scambio, in cui fare tutte le domande necessarie (sempre con moderazione) ed “esplodere” quello che non si riesce a capire. Lo stile di stesura del brief non dovrà essere troppo narrativo, ma dovrà usare frasi brevi, concentrare le informazioni principali in punti schematizzando il più possibile ed evidenziando le parole chiave. Quando si scrive un brief è necessario fornire soprattutto informazioni che possano stimolare la fantasia dei creativi, dando comunque agli argomenti una sequenza logica. Il brief non corrisponde al progetto, ma alla definizione del problema: deve dare spunti, non fornire già soluzioni creative o strategiche. Da alessandracolucci.com 3. RACCOLTA DEI DATI e 4. ANALISI DEI DATI Individuate le componenti del problema si passerà alla fase di “raccolta dei dati”: in questa fase si provvederà a mettere insieme tutti i dati utili ad analizzare ogni componente del problema. Nel caso del design di strategie i dati da raccogliere possono essere suddivisi in due macroaree: da una parte le informazioni sul mercato e sul settore di riferimento (stakeholder, competitors, posizionamento in termini quantitativi, composizione qualitativa e quantitativa del target...); dall’altra materiale e dati relativi alla preesistenza del brand. In un sistema economico altamente competitivo la sopravvivenza di un’azienda dipende dalla capacità dei responsabili di marketing di assumere delle valide decisioni per battere sul tempo i concorrenti, per prevedere i bisogni dei consumatori,

© Queimada Brand Care

COS’È UN BRIEF?

Ogni brief dovrebbe contenere: • Intestazione: titolo del progetto, nome dei presenti e loro cariche, data, luogo dell’incontro. • Background: chi è il cliente, cosa fa, che mercato ha, che tipo di comunicazione ha fatto finora. • Obiettivi: cosa vuole fare il cliente, come si intende raggiungere questi obiettivi in termini di comunicazione, quali si individuano come propri competitor e se tra questi si vuole “assomigliare a” o ci si vuole “differenziare da” qualcuno. • Target: a quale pubblico rivolgersi (informazione essenziale per chi deve sviluppare la creatività). • Sintesi del progetto: perché il cliente ha chiamato. • Tono di voce della comunicazione: approccio, stile, immagini, forme e colori. • Parole chiave: parole che possono fornire un indizio al team, legate all’attività dell’azienda. • Punti essenziali: cose che assolutamente devono (o non devono) essere comprese nel progetto o devono essere fatte in quel modo e in nessun altro. • Curiosità: tutte le informazioni acquisite sul cliente durante la riunione. per elaborare scenari sulle condizioni future e pianificare la crescita dell’azienda stessa nel medio e lungo termine. L’analisi di mercato può essere vista come un processo sistematico finalizzato a ottenere tutte le informazioni utili a facilitare il processo decisionale; inoltre, questa risulta fondamentale per l’attività di controllo manageriale, in quanto senza l’ausilio dei dati da essa derivanti sarebbe impossibile un’attendibile valutazione della performance di alcuni settori del marketing aziendale. Con preesistenza aziendale si intendono invece tutte le informazioni sulla storia, sul marchio e l’identità visiva, la mission e i servizi già propri dell’azienda e su cui questa ha basato le strategie di marketing, comunicazione e posizionamento fino al momento storico preso in esame (ad esempio l’inizio di un’analisi di mercato o del restyling della brand identity). Nell’analisi della preesistenza si includono an-


formazione

che interviste o questionari da sottoporre a soggetti in posizione privilegiata nell’osservazione delle dinamiche aziendali: si tratta di risorse che possono contribuire in maniera evidente alla definizione della brand perception presente e futura (es. titolari, alti manager, clienti e fornitori importanti...). Conoscere la percezione di tali tipologie di risorse interne ed esterne appositamente selezionate risulta essere importantissimo soprattutto nel caso in cui le strategie da delineare riguardino una start-up, in quanto essa non avrà a disposizione una vera e propria preesistenza comunicativa. Tutti i dati raccolti andranno successivamente analizzati, annotando come problematiche simili sono state risolte in altre situazioni e quanto da queste siano dissimili i micro-problemi che si pongono nel caso in esame.

non vuol dire

improvvisazione senza metodo.

[Bruno Munari - Da cosa nasce cosa]

In questa fase, dunque, supportati dagli output derivanti dall’analisi dei dati, mettendo in pratica le tecniche del pensiero laterale senza mai dimenticare gli obiettivi del progetto, si dovranno definire le strategie da mettere a punto e gli eventuali artwork da creare durante la loro implementazione. 6. MATERIALI e TECNOLOGIE Bruno Munari pone la fase di analisi di materiali e tecnologie successivamente a quella riguardante la creatività, ma nell’applicazione di questo metodo progettuale alle strategie di comunicazione può rivelarsi utile anticiparne quantomeno una parte. Lo studio dei media più appropriati a veicolare il progetto in esame e degli artwork più utili a rappresentarlo, se messi a punto prima della fase creativa, possono contribuire a semplificare il delinearsi del quadro emotivo, esperienziale e comunicativo di riferimento (“Il medium è il messaggio”, come afferma McLuhan). Necessariamente a posteriori rispetto alla fase creativa andranno invece analizzati i materiali degli artwork e le tecnologie a disposizione per realizzarli: se poniamo il caso della realizzazione di un coordinato per ufficio, sarà in questa fase che verranno scelte la carta e le tecniche di stampa più adatte all’ottenimento della resa migliore e in linea con l’immagine di brand.

creatività

rando “approcci diversi” per non rischiare di confondere “il pensare con l’essere logici” [Theodore Lewitt].

5. CREATIVITÀ (NON IDEA) Una volta individuato e definito il problema, scomposto nei suoi elementi primari, raccolti e analizzati i dati relativi a ognuno di essi, finalmente è il momento di “farsi venire delle buone idee”, sostenibili sia dal punto di vista strategico che da quello più prettamente creativo. In realtà è proprio la creatività che si deve sostituire all’idea intuitiva. La creatività (dal latino CRIBRUM: “setaccio”) non è altro che una paziente ricerca: non esistono persone predisposte in maniera “innata” a essere “creative”, qualsiasi “creazione geniale e originale” è in realtà frutto di subconsci incroci causali che il cervello intesse con l’ambiente esterno attraverso la “rielaborazione”, una sorta di “citazionismo riappropriativo”.

7. SPERIMENTAZIONE Prima di passare alla creazione dei vari mock-up e test realizzativi delle strategie di comunicazione, andrebbe sempre prevista una fase in cui sperimentare nuovi utilizzi possibili di materiale e tecnologie note: spesso l’originalità di una campagna o di un posizionamento di mercato sta proprio nell’utilizzo di un determinato materiale o strumento atto a perseguire scopi che tradizionalmente non vengono a esso associati (cfr. l’ottenimento del vantaggio competitivo attraverso il leaveraging – Brand Care magazine n° 003, pagg. da 14 a 17). Per fare un esempio banale questo avviene quando si usa una molletta da bucato Per creatività non è da intendersi, dunque, il mero risultato di per chiudere una confezioni di biscotti rimasta mezza vuota. un processo dalle caratteristiche artistiche strettamente legate al “talento innato”, bensì un processo di produzione delle idee 8. MODELLI, 9. VERIFICA/TEST, 10. DISEGNI COche, secondo le accezioni comuni di senso può sembrare illo- STRUTTIVI gico, ma in realtà nasce dall’esplorazione dei meccanismi del- Per giungere alla soluzione del problema che, lo ricordo, in la percezione e dà vita a idee la cui validità è supportabile dalla questo caso riguarda la creazione di strategie di marketing e logica: si tratta della creatività che scaturisce dall’utilizzo delle comunicazione al fine di raggiungere gli obiettivi fissati per il tecniche del “pensiero laterale” teorizzate da Edward De Bono nel suo Essere creativi e in altre numerose pubblicazioni. Il pensiero laterale è infatti “una forma strutturata di la vita È l’arte di creatività che può essere usata in modo sistematico trarre conclusioni sufficienti e deliberato” e che punta a utilizzare gli elementi da premesse insufficienti esperienziali noti e le informazioni in proprio possesso, interpretandoli in maniera originale, esplo[Samuel Butler]


©MACBA di Bacellona - John Baldessari “Brain/Cloud (two views)” 2009 - photo by Alessandra Colucci brand durante la fase di “definizione del problema”, occorrerà definire un certo numero di strategie per il posiziomettere a punto ancora tre step. namento del brand che, una volta riunite in modo che presentino tra loro un certo grado di coerenza e coordinamento Innanzitutto la creazione di sample per dimostrare la (anche rispetto al budget, naturalmente), daranno vita al covalidità delle sperimentazioni: ne faranno parte i vari siddetto Piano Integrato di Comunicazione (PIC). “razionali creativi” (documenti di presentazione delle proposte descritte più o meno minuziosamente) completi di rough di Il PIC è uno strumento di lavoro fondamentale perché: proposta (schizzi o esempi di funzionamento delle strategie e • riporta il MIX di comunicazione e marketing più delle creatività in questione). efficace e opportuno in relazione al progetto: brochure, depliant di prodotto, catalogo, volantino, newsletter, pubQuesti modelli dovranno essere sottoposti al cliente blicazioni aziendali; pagine pubblicitarie, articoli redazionali e e, nel caso, a un panel di soggetti selezionati (poten- inserti su riviste, quotidiani ecc.; spot, clip, filmati aziendali, ziali clienti in target, addetti alle vendite o comunque persone video di prodotto, presentazioni su CD; direct marketing, PR, che potrebbero in qualche modo essere implicate nell’utiliz- ufficio stampa; sito web, blog, social network; product placezo delle strategie o degli artwork) per essere validati – e ment e branded content; marketing non convenzionale; eventi, scelti – e passare dunque alla fase successiva di fiere, convegni… ; messa a punto esecutiva. • indica le azioni da compiere per raggiungere gli obiettivi individuati, i tempi di realizzazione, i reIn relazione al settore della comunicazione i disegni costrut- sponsabili di ogni singolo progetto, gli input sulle tivi non saranno altro che gli esecutivi grafici, ovvero creatività; i documenti di descrizione della strategia. In entrambi • rappresenta un importantissimo strumento di coori casi dovranno servire a comunicare il da farsi a chi si occu- dinamento, dato che ogni strategia riportata nel PIC richiede perà della fase operativa del progetto, dunque a persone che il lavoro e la competenza di professionisti differenti, in tempi non sono al corrente di tutte le informazioni messe insieme sin anche diversi. dalla definizione del problema: si dovrà usare particolare cura nel precisare tutte le informazioni utili alla realizzazione della Il Piano Integrato di Comunicazione è dunque l’output strategia o dell’artwork in questione. utilizzato dallo strategic planner per sintetizzare il processo di pianificazione (leggi design) che traduce in SOLUZIONE strategie e soluzioni creative gli obiettivi fissati dal brief. Utilizzando il modello progettuale di Munari nel modo descritto, lo strategic planner professionista arriverà a




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B

Zona7 e il Food Design Intervista a Ilaria Legato

a cura di BCm

rand Care magazine: Ilaria, cos’è Zona7? Ilaria Legato: Zona 7 è una società di consulenza formata da 7 professionisti complementari tra loro, che da anni (ciascuno con le proprie skills) si occupano di Food e di Design. Io curo naturalmente l’aspetto marketing e comunicazione; Paolo Barichella è un industrial designer e si occupa della progettazione del prodotto; chi è poi bravo nell’ingegnerizzazione del prodotto stesso e nello sviluppo dei punti vendita è Aurelio Latella, fondatore di Very Italian Food; poi abbiamo Marco Pietrosante e Francesco Subioli, designers in grado di dare forma ai nuovi oggetti ma anche di posizionarli nello spazio, ottenendo un coordinamento ottimale tra gli elementi; e infine c’è Franco Zeri, la nostra colonna portante nell’elaborazione culturale e nella comunicazione visiva: è un esperto di arte contemporanea e lavora per Rai International, spaziando dal digital a tutti i nuovi media. BCm: Su cosa si fonda con esattezza il vostro business? IL: Su tre pilastri. Il primo è rappresentato dalla ricerca e dallo sviluppo di nuovi concept e format legati al mondo del Food e del Design: dalla vera e propria


ILARIA LEGATO Ilaria Legato è un’esperta di marketing e comunicazione nel settore HoReCa. Laurea in scienze politiche all’università di Firenze, Master in Pubbliche Relazioni all’Istituto Europeo di Design di Milano, specializzazione in Food and Beverage Managment. Dal 1997 al 2001 si occupa di Pubbliche Relazioni per L’Istituto Europeo di Design e la “Biennale d’arte contemporanea” di Firenze, per poi passare nel 2002 al settore Food, attraverso la consulenza Marketing e Comunicazione per la Ristorazione. Docente in “Marketing nei luoghi consumo della ristorazione” nel Master di Food Design, presso l’Istituto Europeo di Design di Roma, attualmente si occupa di Food Event Management: analisi, pianificazione, implementazione e controllo di eventi legati al mondo del cibo in tutte le sue declinazioni; è consulente per la nota società di Banqueting Bachini & Bellini Srl di Firenze, l’Italian Food Academy e il Food Design Studio Milano. Dal 2009 è socio fondatore di Zona7 Communication Design and Food, società di servizi per il design ed il food e direttrice di IED Comunicazione a Roma.


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marketing

progettazione dei cibi a quella degli spazi di fruizione per il Food and Beverage, sempre in accordo con la filosofia del brand assistito, che secondo noi deve caratterizzare ogni concept store. Il mood del locale, insomma, non deve essere fine a se stesso: vi è una serie di passaggi che occorre considerare nella sua definizione (per esempio colori pantone, materiali, elementi di riconoscibilità, vetrine tipo, elementi grafici, iconografici e di arredo, strumentazione). Ultimato il nostro intervento i clienti arriveranno ad avere un vero e proprio catalogo di tutti gli elementi trattati, con l’obiettivo di ottenere una trasmissione chiara dei loro brand values. La seconda specializzazione di Zona7 è rappresentata dal marketing e dalla comunicazione per il settore ristorazione. Se fino a qualche tempo fa non c’era bisogno di particolari sforzi da parte degli esecrenti per “riempire” i locali, oggi con la crisi economica in atto è sempre più difficile catturare l’attenzione degli avventori o crearsi una clientela fidelizzata: in questo caso non sempre un mix di scenografia, suoni suggestivi, presentazioni impattanti, pubblicità martellante e soprattutto grossi investimenti portano automaticamente al successo di un locale. Il terzo ambito di specializzazione, infine, è la direzione creativa degli eventi legati al mondo del Food e del Design. Siamo in grado di creare contenuti di impatto che rendano memorabile l’evento stesso, anche collaborando con le agenzie di comunicazione. Tengo a sottolineare, a tal proposito, che il nostro lavoro non si esaurisce con il coinvolgimento una tantum degli invitati: “buttare gente dentro” per una sola serata, come succede attraverso il più comune lavoro dei PR, non è il nostro obiettivo. Noi dobbiamo far sì che il ristorante si posizioni su livelli economici e d’immagine soddisfacenti, raggiungendo una certa awareness e un consenso del target possibilmente costante. BCm: Quello di food design è un concetto tanto innovativo quanto, almeno in parte, abusato da parte di alcuni. Ci spieghi più in generale di cosa si tratta? IL: Il primo a teorizzare questo nuovo approccio in Italia è stato proprio uno dei soci fondatori di Zona7: Paolo Barichella, con il suo Food Design Studio. Se design significa “dare forma a un’esigenza”, food design vuol dire “dare forma a un’esigenza alimentare”, basando i processi sulla polisensorialità e sull’applicazione di norme derivate dalle arti visive. Tale applicazione, in definitiva, è finalizzata a dare risalto alll’“aura” espressiva dei piatti e degli ambienti in cui essi vengono consumati. Le direzioni di sviluppo del food design sono fondamentalmente tre: la progettazione per il cibo (pensiamo, ad esempio, a tutti quei nuovi accessori da cocktail e da banqueting realizzati per fornire soluzioni alle varie problematiche legate alla fruizione di cibo in contesti diversi); la progettazione con il cibo, nella quale collochiamo per esempio quegli chef che utilizzano un approccio progettuale nell’ideazione dei propri piatti; e la progettazione di portata.


BCm: Siamo curiosi di sapere qual è stato il percorso professionale che ti ha portato a compiere la scelta del marketing per il food, attività da un lato “di nicchia”, perché molto specialistica, dall’altro “di massa”, perché – come dire? – è ovvio che nessuno può fare a meno di mangiare. IL: Giusto! Dopo aver frequentato un Master in Relazioni Pubbliche ed Eventi presso lo IED di Milano, e dopo diverse esperienze lavorative, tra cui una presso la divisione Software gestionali di Zucchetti, sentivo il bisogno di intraprendere una sfida professionale stimolante. Durante i primi tre anni trascorsi a Milano avevo raccolto una serie di contatti, compreso quello di un imprenditore che operava nel campo della ristorazione. In una cena, tra una portata e l’altra, lui mi disse: «per te è facile fare marketing e comunicazione per aziende dal brand famoso, ma cosa combineresti se ti affidassi i miei quattro ristoranti?». Accettai la sfida, specificando il fatto che non ero una PR. L’obiettivo era congegnare un piano di comunicazione e marketing continuativo: il primo giorno fu devastante e non sapevo da dove iniziare, anche perché occuparmi di food non era mai stato il sogno della mia vita, almeno fino ad allora. Pian piano ho comunque capito che questo settore presenta un vantaggio in più rispetto agli altri: il prodotto lo vivi, riesci in contemporanea ad avere la visione dell’addetto ai lavori e quella del consumatore. BCm: In che differisce il marketing per il food rispetto a quello concepito per altri settori merceologici? IL: Direi che l’operatività del marketing per il food non è molto differente da quella concepita per gli altri settori merceologici, perché occorre anche qui lavorare sul valore del prodotto e sul suo posizionamento attraverso le leve della notorietà e del consenso presso il pubblico di riferimento. Il consulente, sulla base di un’accurata analisi del locale, del target e del territorio, deve capire quale può essere il giusto target da raggiungere e, attraverso una scelta di azioni e mezzi appropriati, deve raggiungerlo e fidelizzarlo, ottenendo il massimo risultato possibile con il minor dispendio economico… Bisogna capire di quante persone in più il locale ha bisogno per raggiungere il “break even point” (punto di pareggio, termine che indica il valore minimo che l’attività deve raggiungere

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BCm: Cosa intendi per progettazione di portata? IL: Per evitare di creare squilibri di comunicazione, il campo che contiene l’alimento deve mantenere basso il livello di contrasto formale con il contenuto. Per possedere un corretto impatto espressivo la portata deve creare armonia, mantenendo un’equilibrata interazione tra il piatto e l’alimento: occorre ricordare che in una portata è il piatto a essere messo al servizio dell’alimento, e non viceversa. Il rapporto tra il contenitore e il contenuto, insomma, è per il food designer il punto principale di sviluppo, e la progettazione di portata è una delle chiavi di tale sviluppo.


marketing

affinché non si subiscano perdite); da qui inizia lo studio di posizionamento del prodotto. L’attenzione in più che dobbiamo dimostrare, semmai, è di natura “etica” e culturale. Da un lato in gran parte del pianeta ancora oggi il cibo costituisce, per la sua distribuzione territoriale iniqua, una problematica rilevante; dall’altro esso porta con sé un carico di valori che non si fermano al nutrimento: è, ed è sempre stato, un contenitore culturale, un vero e proprio linguaggio, per dirla alla Barthes. BCm: Nelle tue strategie di marketing per la ristorazione ti è mai capitato di iniziare cambiando il nome del ristorante? IL: Una delle cose che facciamo spesso è proprio questa. La cosa difficile però è che a volte il proprietario è così affezionato al nome e sicuro del fatto che sia adeguato, che fa molta resistenza. In questi casi sottolineo al titolare che si tratta di un atteggiamento tipico di coloro che non arrivano dal mondo della ristorazione, e gli faccio notare che il loro caso è ben diverso da quello delle famiglie di ristoratori, imprenditori navigati che di generazione in generazione non hanno mai avuto problemi di gestione poiché nascono e muoiono nel ristorante, sanno come trasformare la location, e alle volte proprio il non trasformarlo costituisce il loro plus. Il problema più grande in questo settore, insomma, è quando si ha di fronte l’imprenditore improvvisato, che apre un ristorante e lo chiama “I Cinque Sensi”, trascurando che magari quando entri nel suo locale riesci ad attivare soltanto il senso dell’olfatto, magari attraverso un odore cattivo... Riuscire a renderli partecipi della strategia non è sempre semplice. Si tratta di un percorso che facciamo insieme, in cui cerchiamo di far capire che cambiando con oculatezza si può avere l’occasione di ri-comunicare che il posto è sempre dello stesso proprietario, seppure con un nuovo nome e una nuova curiosità da andare a scoprire.

BCm: A tal proposito, connettere principi organizzativi e comunicativi “freddi” a dinamiche esperienziali, che hanno direttamente a che fare, appunto, con i sensi, sembra essere la direzione più in voga nel marketing, a partire dall’approccio relazionale e da quello olistico. Per questo la scelta di lavorare sul “gusto” appare molto in sintonia con le tendenze attuali... IL: Assolutamente sì. Oggi il cibo ha esasperato più che mai la sua funzione comunicativa, complici i vari media che lo esaltano mettendo in luce questo aspetto. Così ad esempio i produttori di cibi industriali (ma non solo loro) si affidano, per l’identificazione del proprio prodotto, all’aspetto e al valore simbolico. In questo modo il cibo diventa in sé insignificante, ciò che acquista importanza è il modo nel quale si consuma, ma soprattutto i valori che veicola: gioventù , vigore, sensualità, opulenza, moda, stile. Oggi parlare di finger food, fast food, slow food, street food e soprattutto food design è diventato di gran moda, ma quello che realmente emerge è che i ritmi accelerati propri del processo industriale, pronto a dover rifornire costantemente un mercato globale, sembrano andare di pari passo con i ritmi sempre più frenetici del consumatore tipo, il quale trascorre gran parte della propria giornata fuori casa fra lavoro, spostamenti e attività varie, riducendo così al minimo il tempo dedicato ai bisogni primari, primo fra tutti quello del nutrimento. Ci si trova a mangiare pasti frugali in piedi mentre si cammina, si lavora o addirittura si guida, prendendo il cibo con le mani o servendosi di nuovi invisibili strumenti e utensili; “invisibili” in quanto non li riconosciamo come oggetti dotati di identità propria, ma li associamo unicamente a quel cibo a quel prodotto (basti pensare alle posate usa e getta, che “nascono e muoiono in un sol boccone”). Sempre per mancanza di tempo ci si ritrova ad acquistare pietanze surgelate, precotte, pronte da mettere a tavola, che riconosciamo

©Paolo Barichella


e scegliamo sugli scaffali non perché prodotte con cibi di stagione, maturi e freschi ma perché attirati dal packaging, dalla grafica e dai colori della confezione. Per nostra fortuna però esiste un’altra tendenza per cui l’atto del mangiare non si associa esclusivamente al frettoloso consumo di cui sopra ma ridiventa occasione edonistica di ricerca e condivisione del piacere attraverso i sapori, i profumi e le forme del cibo. Noi oggi ci inseriamo in questo spazio e ci confrontiamo continuamente con modi, tempi e strumenti nuovi per la fruizione del food e con altrettanto nuovi metodi per produrre, conservare, concepire e presentare il cibo. Ecco che la cultura del progetto, motore indispensabile all’ideazione e allo sviluppo di tutti gli strumenti necessari per soddisfare i bisogni contemporanei, arriva in tavola.

Davide Oldani, per esempio, chef milanese che ha fatto tantissima esperienza all’estero e che adesso è tornato in Italia, viene chiamato il “designer chef”, proprio perché, in modo olistico, crea un intero universo intorno al suo ristorante, a partire dagli accessori.

BCm: Tornando al discorso sulle forme di produzione e consumo sostenibili, quanto vanno d’accordo il food design e lo slow food, che prima hai nominato? IL: Slow food significa buono, giusto e pulito e uno dei principi del food design è che con il cibo non si gioca: il cibo è, come detto, una risorsa scarsa per la maggior parte delle popolazioni mondiali. Per questo motivo “dare forma ad un’esigenza alimentare” significa pensare a qualcosa che sia BCm: Gli chef guardano con sospetto le vostre pro- necessariamente in linea con la sostenibilità. poste, si sentono minacciati dalla vostra presenza, o In altre parole non bisogna assolutamente associare il food avete avuto modo di trovare dei punti di convergenza design al cibo veloce, tanto che ci sono molti designer iscritti a Slow Food. Per quanto riguarda noi stiamo sviluppando ananche con loro, oltre che con i gestori? IL: Quando sono davvero bravi gli chef sono i nostri miglio- che un progetto per alcuni parchi, nell’ambito dell’Expo 2015, ri alleati. L’esperienza del Food Design Studio, per esempio, che si chiama PicNic 2.0 e che prevede l’allestimento di isonasce dall’unione di uno chef e un industrial designer: gli chef le verdi, nei parchi ciascuna città, in cui ci si possa fermare più all’avanguardia vedono il nostro servizio come un’occa- e rigenerare delle piastre a pannelli solari tramite l’USB del sione poiché il progettista con il suo intervento può dare vita proprio telefonino. L’obiettivo è quello di potersi nutrire allo a un piatto in grado di esaltare il significato simbolico della stesso tempo sia di comunicazione che di “food to walk”. ricetta di cucina. ©Picnic 2.0


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1.

di Patrizio Di Nicola

C’ era un tempo in cui il luogo di lavoro veniva rappresentato nella forma di ciminiere, altiforni e linee di assemblaggio. Il mondo industriale, popolato di un proletariato in tute di lavoro blu, viveva 10 o 12 ore in moderne caverne, afose e senza luce, al servizio di macchine che non potevano fermarsi mai. William Blake, il visionario poeta e pittore inglese vissuto a cavallo tra ‘700 e ‘800, in alcuni versi famosi raffigura gli opifici dell’epoca come “oscure fabbriche di Satana”, caotici antri infernali, avvolti da fumo, nei quale personaggi senza anima trascorrono una grama esistenza seguendo una filosofia meccanicistica che nega il sacro e ogni forma di bellezza e di astrazione. La “rivoluzione manageriale”, guidata da Taylor e Ford agli inizi del ‘900, si incarica di razionalizzare il lavoro, facendo in modo che le macchine siano sempre in funzione alla massima velocità consentita. A tale scopo, bisogna trovare modi nuovi di lavorare, che costringano i lavoratori a uno sforzo continuo, uniforme e specializzato. Nasce così la catena di montaggio, e le fabbriche automobilistiche cambiano volto. Da una struttura “a isola”, ove ogni automobile stava ferma e veniva assemblata da una squadra di operai che svolgevano le lavorazioni più diverse sul suo simulacro, si passa a una struttura lineare, ove la scocca da assemblare si muove appesa a dei ganci che pendono da un binario sul soffitto e si ferma davanti agli operai, che distribuiti su un


2.

Il sistema della catena di montaggio, oltre a diffondersi molto rapidamente in tutte le fabbriche automobilistiche, colonizza ben presto gli uffici, ove serve un nuovo modo di lavoro per organizzare eserciti di impiegati esecutivi che gestiscono la produzione di massa, registrando su migliaia di schede vendite, guadagni, tasse da pagare, salari, e quant’altro. La struttura degli uffici è perlopiù duale: da una parte i pochi manager dispongono di uffici singoli, spaziosi e confortevoli. Al contrario, masse di impiegati vengono stipati in enormi stanzoni, dietro scrivanie rigidamente standardizzate e

impersonali, quasi completamente occupate da macchine da scrivere, calcolatrici e tabulatrici. Eppure qualcosa, nel processo di massificazione del lavoro, non sembra funzionare. Lo scoprono, quasi casualmente, un team di ricercatori guidati da Elton Mayo, che a cavallo tra gli anni Venti e Trenta svolgono una serie di esperimenti di illuminotecnica presso lo stabilimento della Western Electric ad Hawthorne, Chicago. Nel tentativo di

©Ford Company

All’operaio francese Luis Ferdinand Céline, capitato nelle sue peregrinazioni americane proprio alla Ford, quel sistema organizzativo sembrò subito folle, ma il lavoro era ben retribuito e forse per questo sopportabile, almeno per brevi periodi. Una vena di follia, neanche troppo velata, si introduce nel mondo del lavoro, e per sempre ci resterà, condizionandone la logica e naturalmente l’apparenza estetica.

©Bundesarchiv

percorso a zig-zag attendono di fare la singola operazione che viene loro assegnata da una divisione del lavoro tanto rigida quanto, almeno apparentemente, scientifica. A ognuno è concessa un’operazione che dura meno di un minuto, da ripetere migliaia di volte al giorno. Nel 1925 allo stabilimento Ford bastano 10 secondi per produrre un’intera automobile, e il prezzo di vendita si riduce da 850 a 295 dollari.


business

©Flickr-by Bah Humbug dimostrare che la produttività del lavoro dipendeva dalla buona illuminazione ambientale, i ricercatori isolarono un gruppo di operaie addette all’assemblaggio di relè elettrici, spostandole da un capannone comune a una stanza appositamente attrezzata. Iniziarono quindi per alcuni giorni ad aumentare l’intensità della luce, ottenendo, come previsto, un incremento della produzione. Poi invertirono un processo peggiorando l’illuminazione. Con stupore, i ricercatori si accorsero che la produttività, anziché ridursi, continuava ad aumentare. L’au©Flickr-by jepoirrier

mento della produttività dei lavoratori, quindi, non dipendeva dall’illuminazione, ma da un fenomeno sociale: le operaie ripagavano in questo modo l’essere state oggetto di particolari attenzioni da parte della direzione e dei ricercatori. Nasceva in questo modo quella che sarà poi conosciuta come “Scuola delle Relazioni Umane”: una teoria che affermava che la cura dei rapporti sociali in fabbrica poteva innalzare la produzione meglio di tante inno-


vazioni tecniche. D’altra parte, però, l’effetto Hawthorne dimostra anche quanto sia importante l’ambiente fisico di lavoro: passando da un contesto spersonalizzante (la stanza comune) a uno più racchiuso e intimo le operaie sperimentavano una gratificazione personale, e si comportavano di conseguenza, aumentando la produttività “per meritare” tali attenzioni.

3.

Tra le invenzioni più fortunate nella storia del layout interno delle organizzazioni vi è senza dubbio l’Open Space: una struttura fisica degli uffici che ha come elemento minimo il cosiddetto “cubicolo”: uno spazio personale estremamente limitato, circondato da bassi elementi modulari che separano i lavoratori l’uno dall’altro, senza pero’ arrivare a nascondere completamente l’impiegato che vi lavora all’interno. Il termine viene dal latino cubiculum, che indicava originariamente la camera da letto ed è stata adottata in inglese sin dal 15° secolo per indicare le stanze piccole di qualsiasi genere, nonché le aree di lettura nelle biblioteche. Il cubicolo rappresenta, nell’immaginario collettivo, l’idea stessa di ufficio spersonalizzante, ove molti impiegati – come in una catena di montaggio riservata al lavoro intellettuale – lavorano l’uno affianco all’altro, senza vedersi, ma sentendosi, in una pressoché completa mancanza di privacy e con enormi problemi di concentrazione. Il primo prototipo dell’open space viene proposto nel 1965 da Robert Propst, un designer della Herman Miller di Zeeland, nel Michigan, ed entra in produzione nel 1968,

conquistando premi un po’ in tutto il mondo, sino ad approdare al MOMA di New York. L’ideatore di questo sistema lo aveva battezzato Active Office, in quanto doveva aumentare la produttività, il comfort e, riducendo la sedentarietà tipica degli uffici chiusi, favorire la circolazione (del sangue) degli impiegati. Diventerà invece un meccanismo perverso, usato dalle imprese per ridurre al minimo lo spazio necessario per ciascun dipendente, ottimizzando all’estremo l’uso delle superfici aziendali. Raccontato mirabilmente dalle argute vignette di Dilbert, l’open space fu disconosciuto dal suo stesso inventore. Propst, nel 2000, poco prima di morire, disse chiaramente che la sua invenzione si era ormai evoluta in maniera perversa, aumentando la corsa delle imprese verso quella che egli definì una “monolithic insanity”. E peggiorando le condizioni di vita dei dipendenti, che ormai iniziavano a soffrire di stress “da cubicolo”.

4.

Con l’avvento delle ICT, i posti di lavoro sono investiti da una ulteriore tempesta di innovazioni. Le scrivanie si ingombrano di monitor, tastiere e stampanti, mentre il lavoro diventa sempre più virtualizzato. Il proprio collega di cubicolo e quello di lavoro si scindono, nel senso che si può lavorare per un capo essendo fisicamente in una sede diversa, o addirittura in un albergo durante uno spostamento di lavoro. I telefoni cellulari, che rendono gli individui sempre raggiungibili, li costringono anche a una disponibilità globale verso il lavoro (o almeno verso il capo).


business

Nasce, quasi contemporaneamente ai primi personal computer, l’idea di telelavorare, cioè di sfruttare le tecnologie che trattano e trasmettono informazione per delocalizzare i lavoratori, facendoli lavorare da casa. I vantaggi sono molti: i telelavoratori, sottratti agli uffici/catena di montaggio, recuperano una loro individualità e diventano più produttivi, in molti casi sino al 30%. Si riduce lo stress del pendolarismo, e di conseguenza anche l’inquinamento. Ma le aziende, nonostante tutto, sono restie a sposare in pieno il nuovo paradigma offerto dal telelavoro, in quanto esso richiede un ripensamento dei modelli organizzativi. Nel telelavoro, infatti, bisogna fidarsi del lavoratore più che controllarlo e contrattare il carico di lavoro più che imporlo. Ciò mette in discussione il tradizionale potere esercitato da molti manager: senza un ripensamento del ruolo dei capi, se ne mina lo status, ovvio che ci siano reazioni contro il telelavoro, tanto forti quanto sotterranee. Le aziende che invece sposano i nuovi metodi di lavoro sviluppano un’estetica nuova degli uffici, quella virtuale. Il paradigma emergente è quello dell’Hotelling: l’azienda ha un numero ridotto di scrivanie rispetto ai dipendenti, e chi ha bisogno di recarsi in ufficio deve prenotare online il posto di lavoro, la sala riunione, la segretaria. In tal modo si ha riduzione dell’occupazione degli spazi e ottimizzazione delle risorse, le aziende possono riutilizzare le aree dismesse per creare zone di condivisione delle conoscenze e di formazione, oppure fitness ©Flickr-by ME°°

center per il relax; alcune, semplicemente, tagliano le spese e chiudono sedi non più utilizzate. Ma il nuovo modo di lavorare permesso dalle tecnologie ha anche un rischio potenziale: le persone, se lasciate per troppo tempo a lavorare sole da casa, perdono il senso di appartenenza ad una comunità aziendale, e si riduce il processo di trasferimento delle conoscenze che sta alla base di molte aziende innovative. Le imprese più attente hanno quindi capito che il telelavoro non può decretare la fine dell’ufficio. I due contesti non possono che integrarsi, sia temporalmente (alcuni giorni si lavora a casa, altri in ufficio, e la distribuzione dipende dal lavoro che ciascuno svolge) sia funzionalmente (a casa si fanno lavori che richiedono maggiore concentrazione, in ufficio si partecipa a riunioni e a lavori di gruppo). Per approfondire Blake, W., I libri profetici, SE, Milano, 2007 Céline L.F., Viaggio al termine della notte, Corbaccio, Milano, 2005 Adams S., Another Day In Cubicle Paradise, A Dilbert Book, Andrews McMill Books, 2002



culture

l’utopia dell’oggetto di consumo

M

di Emi Guarda

i piace introdurre Enzo Mari, figura di assoluto pregio del panorama creativo italiano, attraverso queste semplici ma significative osservazioni: “Dovunque. E quante volte ci siamo seduti su una seggiola dal sedere industrialmente bucherellato Smontabile Box, o gettato un biglietto usurato dentro i suoi cendries a planetario, o evitato un portaombrello a colonna tubolare, o sfogliato un volume di Freud, edito dalla Boringhieri, con copertina optical-labirintica così ben rammemorabile, senza ricordarci che l’artefice era ed è Enzo Mari”(M. Vallora). Nato a Novara nel 1932, esponente di spicco dell’Arte Programmatica e Cinetica, affianco all’attività artistica inizia dagli anni ‘50 a dedicarsi anche alla grafica e al disegno industriale. Da vero esperto delle arti visive, Mari ha sentito la necessità di intervenire sulla cultura di massa verso un progetto globale di qualità nelle sue due accezioni: la qualità della forma (rintracciabile sulla scia dei grandi maestri della storia) e la qualità estetica del prodotto, come dice nel suo intervento introduttivo a Firenze durante l’incontro del 7 aprile 2001 presso l’aula Magna di Palazzo Vegni in occasione della presentazione del volume


...OGNI ARTISTA SA BEN

E CHE

LA SEMPLCITÀ. NULLA È PIÙ COMPLESSO DEL REALIZZARE LA SEMPLICITÀ PUÒ ESSERE RAGGIUNTA SOLO

SENTE

CHE INQUINA LA NOSTRA PERCEZIONE. [Enzo Mari, Progetto e passione, Bollati Boringhieri, Milano, 2001]

©Flickr-by smowblog

DI QUELLA RIDONDANZA ONNIPRE

CANTAZIONE

ATTRAVERSO UNA LUNGA DE


culture

Progetto e passione. Enzo Mari da allora continua a diffondere i suoi geniali oggetti d’utilità quotidiana, prestando il suo lavoro a marchi di grande prestigio tra i quali Zanotta, Alessi, Artemide, Olivetti, Ideal Standard, Gabanelli, trovando certamente nel design il compimento naturale della sua formazione e del suo ingegno, raggiungendo alti livelli e numerosi riconoscimenti, tra i quali va annoverato per ben quattro volte il premio “Compasso d’Oro” (nel 1967 per le “ricerche individuali e di design”; nel 1979 per la sedia “Delfina”, per 1987 per la sedia “Tonietta”, nel 2001 per il tavolo “Legato”). All’attività strettamente artistica e creativa, ha affiancato quella di teorico, fornendo importanti contributi di ampio   respiro   come Funzione della ricerca estetica (1970) e Progetto e Passione (2001, Bollati   Boringhieri); quella di insegnante  presso  importanti centri di studio italiani e recentemente anche in prestigiosi istituti di Berlino e Vienna; quella   di   p r e s i dente   dell’ADI, Associazione per il  Disegno  Industriale, dal 1976 al 1979. Considerato   dai colleghi   nei   più disparati   modi: “E. M. filologo del linguaggio   creativo” (P. Restany), “E. M. che pensa creativamente   e costruisce logicamente” (M. Bill), per  Alessandro Mendini rappresenta “la coscienza dei designer” essendo il suo lavoro da sempre contraddistinto dalla volontà di riportare i valori etici dell’oggetto di consumo alla base strutturale delle sue forme. Mari si è sempre posto come grande sostenitore della semplicità, quella semplicità che non significa assenza di complessità progettuale, ma pulizia d’uso, creatività che si rinnova ad ogni utilizzo, tale da rendere il fruitore parte attiva (feed-back) dello stesso processo/progetto di creazione. È fermamente convinto infatti, che ciò che determina la resistenza di un oggetto al trascorrere del tempo, alla logica delle mode e del

consumo è la capacità dell’oggetto stesso di indurre nel suo utilizzatore sempre nuove idee, nuove associazioni mentali concatenate che non ne determinano presto la fine dell’attrattiva e il bisogno di sostituzione. Navigando spesso controcorrente ha cercato e cerca di riportare il design all’uomo dichiarando manifestatamente la sua opposizione verso l’uso smodato, o ancor peggio esclusivo, del PC nella progettazione senza l’adeguato supporto offerto dalla manualità del disegno, verso l’introduzione massiva della lezione del marketing a discapito dell’approfondimento della progettazione industriale, verso la direzione intrapresa

©Enzo Mari

dal design divenuto styling design, ovvero interpretazione delle mode e dei gusti del momento piuttosto che progetto dell’uomo per l’uomo sull’uomo. Enzo Mari detesta gli effetti alienanti dell’industria, e soprattutto si accanisce contro la pessima abitudine delle presuntuose firme del design che distruggono tutto, “meticolosamente, dal disegno al prototipo agli esemplari stessi, che se non sono più in produzione scompaiono per sempre”. Altra sua priorità è riportare alla luce le origini e la matrice ideologica della nascita del design, ricostruendo il percorso che ha reso necessaria la rivoluzione industriale per diffondere i beni di consumo. L’idea


di poter disporre su vasta scala di oggetti utili, economici (per tutti) ed esteticamente gradevoli è la base della progettazione e dunque del design volto alla produzione seriale. La lotta di Enzo Mari contro le logiche del consumo, del potere, dell’obsolescenza precoce, della moda, del “design banale”, rappresenta più profondamente la lotta per il recupero del progetto per l’uomo, del valore economico, ideologico, simbolico e culturale che si cela dietro l’oggetto di uso quotidiano. Controcorrente, ha sempre sostenuto che i veri bisogni da soddisfare nella progettazione di oggetti non fossero quelli dei compratori (sempre alquanto osceni a suo dire), quanto piuttosto quelli dei venditori, ovvero gli unici che sono realmente interessati alla qualità del lavoro di produzione. Il vero design infatti, è quello determinato dall’incontro tra un progetto dell’artista e una volontà produttiva dell’imprenditore verso un percorso condiviso: “un progetto ha una madre e un padre: l’artista, il cantore dell’utopia e l’imprenditore,

UN PROGETTO HA UNA MADRE E UN PADRE:

L’ARTISTA, IL CANTORE DELL’UTOPIA E L’IMPRENDITORE,

LA TIGRE DEL MONDO REALE.

la tigre del mondo reale”. Il rigore della sua posizione ideologica si ritrova nella sua metodologia di progettazione. Il sapere disegnare a mano le forme, il saperlo fare velocemente a prescindere dall’ausilio delle tecnologie informatiche, sono la base del talento. Quel talento che sarà in grado di “progettare per cambiare il mondo”, ovvero lo scopo che Mari attribuisce al design stesso, quella speranza di “sovvertire politicamente il mondo per ricondurlo a destini di eguaglianza e felicità”.

Per approfondire E. Mari, Progetto e passione, Bollati Boringhieri, Milano, 2001 M. Vallora, Enzo Mari monaco del design. Attraverso gli oggetti una critica al consumismo, in La Stampa.it [rif. http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/design/200810articoli/37755girata. asp], redatto in occasione della mostra che la Gam di Torino ha dedicato all’artista (mostra antologica che ha visto riunite circa 250 opere, evento inglobato nella serie di manifestazioni organizzate in occasione di Torino 2008 Word Design Capital). G. Marcarino, Enzo Mari, in www.AntiTHEsi.info [rif. http://www.antithesi.info/testi/testo_2.asp?ID=190]] R. Pedio, Enzo Mari designer, Ed. Dedalo, 1980, seconda ristampa 2004, Bari. G. Castagnoli, E.Mari, E. Regazzoni, Enzo Mari. L’arte del design, Federico Motta, catalogo mostra Gam Torino dal 29 ottobre 2008 al 6 gennaio 2009.

©Enzo Mari


creatività

P

di Niko Demasi

rovocare. L’arte “deve” provocare. Dopo il cesso rovesciato di Duchamp, il luogo comune per antonomasia del discorso estetico “normalizzato”. Qualcosa non torna: irritare il comune senso del pudore non sembra poi una così grande impresa, troppo facile o troppo difficile, a seconda dei punti di vista (ammesso e non concesso che esista o sia mai esistito un comune senso del pudore…). Pensare di “scandalizzare” qualcuno oggi sembra più l’ingenua speranza di un pubblicitario sovraeccitato dalla scoperta del viral o del guerrilla che il progetto di qualcuno che ha ancora la forza di “sentirsi” artista in un mondo affollato di artisti. Qualcosa non torna. In certi casi rifugiarsi nell’etimo è come una boccata d’aria fresca: vediamo un po’, una veloce ricerca su etimo.it, bingo; dal latino provocare, composto di pro (avanti, fuori) e vocare (chiamare). Semplice e chiaro: “chiamare fuori”. Mi sa che il “compito” dell’artista non è far incazzare la vecchia zietta timorata di Dio: per quello basta e avanza un pubblicitario qualsiasi. Provocare, chiamare fuori, disvelare, scoprire, tracciare percorsi di senso: già mi sembra più accettabile, un “programma” credibile, un progetto cui dedicare tempo ed energie. Non chiamatela arte concettuale: intuizione sì, ma come punto di partenza di un lavoro che insistendo sul dettaglio, la differenza, la sostanza materiale del “significante” ha come oggetto la coscienza e la condizione umana. Nessuno scandalo, nessuna norma, nessun giudizio “divino”: forse un indizio per un percorso, di certo il dubbio.


Ciriaco Campus nasce a Bitti (Nu).

turale (il primo a Strasburgo, il secondo a Roma), Campus simula una specie di olimpiade europea alla quale ciascuna Si diploma in Scultura con una tesi sul “nulla” dal titolo Pre- nazione partecipa con il proprio cibo di nicchia migliore: i cibi senza nell’assenza all’Accademia di Brera nel 1976. A questo presentati sono inesistenti (frutto di una rielaborazione fatta in periodo milanese risalgono le prime personali e la partecipa- studio dall’artista su prodotti acquistati al mercato), così come zione a importanti collettive a Palazzo Reale e al Museo della i testi di accompagnamento che ne narrano la storia sono Scienza e della Tecnica. Il suo lavoro si caratterizza per completamente inventati. Nel 2007 presenta i cibi inesistenti una minimalità essenziale, quasi azzerata. in uno stand alla “Biofach” di Norimberga, la più grande fiera La ricerca degli anni ’80 focalizza invece sulla forte pre- al mondo di prodotti biologici. senzialità affermativa della materia, rappresentata 2006 - performance sul fiume Tevere con la partecipazione nella doppia veste del suo “esserci”, nella sua im- di oltre 400 comparse La nave dei folli su incarico del Master manenza e del suo rimando a “pensarsi” in chiave in Ideazione, Management e Marketing degli Eventi Culturali simbolica. Tra la fine degli anni Ottanta e per tutti gli anni (Università di Roma La Sapienza). Novanta il lavoro di Campus si definisce compiutamente in- 2007 - costruisce La Pressa, una macchina rumorosa che “piega torno ai temi della “convenzione” e della messa in e schiaccia” circa mille immagini della storia politica, sociale, scena, del vero e del falso, dell’identità. culturale, di costume degli ultimi 50 anni. La pressa viene preHa partecipato a numerose personali e collettive in Italia e sentata nelle due personali di Roma del 2007 e della Pinacoteall’estero. Vive e lavora a Roma ed è docente di Scultura al- ca Comunale di Volterra nel 2008. Nel 2009 realizza La Pressa l’Accademia di Belle Arti di Napoli. di Reggio, versione personalizzata dedicata alla città di Reggio Calabria in occasione del Centenario del terremoto del 1908. Alcuni dei suoi lavori: 2010 – video installazione 100 presse x 100 televisori e ru1993 - installazione Lab 107 agli Arsenali Medicei di Pisa: una more di pressa per 188 frigoriferi, 32 cucine, 155 lavatrici, 39 sorta di laboratorio scientifico immaginario, realizzato in colla- microonde, 58 ferri da stiro, 43 computer, 108 cellulari, 21 borazione con il Dipartimento di Fisica dell’Università di Pisa. asciugacapelli, 42 videocamere, e altro realizzata negli spazi 1995 - performance Messa in scena del lavoro di un artista della Di Salvo, in via della Lungara a Roma: l’artista mette in presso la Facoltà di Sociologia dell’Università La Sapienza di funzione 100 televisori di tutte le dimensioni contemporaneaRoma: coinvolge il pubblico presente in sala in un evento che mente, con un rumore assordante di fabbrica e presse. ripropone in modo sottile il tema dello straniamento nel continuo slittamento di vero/falso. La foto dell’artista è stata realizzata da Elisabetta Catalano 1996 - Artigiani ’96, 18 fotografie in cibachrome di 100x200X10 cm: si tratta di foto/sculture di artigiani della periferia romana nelle quali Campus utilizza strumenti linguistici vicini al mondo della pubblicità e della moda. Questo lavoro sarà esposto 10 anni più tardi nella mostra Il corpo del lavoro in cento anni di arte italiana. 1999 - installazione World Food Day all’Accademia Americana di Roma: lo spettatore è portato a credere che gli spazi interni dell’Accademia ospitino un ufficio di rappresentanza di un’organizzazione delle Nazioni Unite per la fame nel mondo. 2000 - By Life Camp, installazione di 400 mq all’interno del torrione San Matteo di Castel Sant’Angelo, nell’ambito della mostra L’assenza invadente del Divino organizzata in occasione del Giubileo: l’artista costruisce un vero campo umanitario ideale simulando una fiera campionaria con tanto di stand e hostess. Un’analoga installazione verrà riproposta nel 2001 nei giardini di Palazzo Zenobio a Venezia. 2001 - realizza e presenta una serie di vetrine illuminate in alluminio all’interno delle quali sono collocati i prodotti dell’azienda By Life di cui Campus è designer da oltre nove anni. 2003 - Il più bel sogno della mia vita, fotoromanzo realizzato per la mostra personale a Palazzo Venezia. 2004 - installazione Scuola di Equitazione per il Palazzo Reale di Napoli. 2004 e 2005 - per il 1° e 2° Concorso Europeo di Cibo Na-


creatività

By Life Camp

2000

Vista installazione

Castel Sant’Angelo, Roma

Installazione di 400 mq all’interno del torrione San Matteo di Castel Sant’Angelo, presentata nell’ambito della mostra L’assenza invadente del Divino organizzata in occasione del Giubileo. L’artista costruisce, simulando una fiera campionaria con tanto di stand e hostess, un vero campo umanitario ideale e completo di tutto, dalle tende, al prato, agli alberelli, alle margherite: tutto rigorosamente sintetico.


PUZZLE DI 17 PZ.

236x440x6 plotter su tamburato

IL PIÙ BEL SOGNO DELLA MIA VITA

2003

Palazzo Venezia, Roma

Presentato a Palazzo Venezia nel 2003, è una spy story che racconta con lo strumento del fotoromanzo le vicissitudini di un agente della Cia che si chiama John Barth.Il fotoromanzo è una produzione By Life (Azienda - falsa - di provocazione etica con finalità politiche). By Life è un’azienda molto particolare, inventata da Ciriaco Campus nel 1996. È un’azienda senza dipendenti a busta paga né capitale economico, non vende merci e non ha uno statuto giuridico. Non la troverete al registro delle imprese né tantomeno in borsa, ma forse vi imbatterete o vi siete già imbattuti in essa perché crea prodotti, identità, relazioni e comunicazione esattamente come le altre aziende.


creatività

de l’Alimentation Naturelle

Vista installazione( part.)

monitor, bandiere, 3 quadri

di 3 metri x 2

GNAM, Roma

Campus realizza il II° Concorso Europeo di Cibo Naturale ( il I° si era svolto a Strasburgo l’anno precedente) presentando alla Galleria Nazionale di Arte Moderna e Contemporanea di Roma, i tre finalisti: la Germania, con le Barbabietole nere del Mecklenburg; l’ Italia, con il Lardello di Toscana, proveniente dal territorio di Asciano, Siena; l’Inghilterra, con il Tubero di Norfolk. Il regolamento del Concorso prevede che ogni prodotto presentato debba possedere una Certificazione che ne attesta la storia e le peculiarità legate al territorio locale, la quantità limitata della produzione e la vendita attraverso i canali ecosolidali e punti vendita biologici. Nella realtà, il Concorso, i regolamenti, le nazioni partecipanti, i cibi presentati cosi come i video sulla loro storia ( presentati dal Presidente del Concorso Derrick de Kerckhove e realizzati in collaborazione con lo storico dell’alimentazione G. A. Dente ) sono completamente inventati dall’artista. Nel 2006 Campus presenta gli stessi cibi in uno stand, al Biofach di Norimberga, una importante fiera mondiale dell’alimentazione naturale.

IIème Concours Européen

2005


LAZION

VISTA GENERALE INSTAL

SENZA TITOLO

2007

“pressa”( cristallo, plasma 50 E, TELECAMERA, MONITOR, pollici, casse audio, lettore dvd)

Galleria Giacomo Guidi, Roma

Lo spettatore che entra nella galleria deve oltrepassare il varco sorvegliato. L’immagine, catturata dalla telecamera, viene rimandata sul monitor a fianco, in differita, con un ritardo di 20 secondi. Non è chiaro che fine fa l’immagine in questo spazio di tempo. Una volta entrato lo spettatore osserva l’opera esposta. Si tratta di un blocco di cristallo blu notte contenente, al suo interno, uno schermo da 50 pollici a cristalli liquidi. Un rumore assordante di fabbrica riempie lo spazio della galleria. Sullo schermo scorrono una dopo l’altra (salvo periodiche pause di pochi secondi) una serie infinita di immagini (circa mille), che vengono sistematicamente piegate e schiacciate, con l’animazione, da una pressa industriale anni ‘60. Le immagini sono state scelte sulla base non solo dell’interesse personale dell’artista (anche se attorno a questo fanno perno) o di quello specifico di una generazione, ma più in generale sulla base del vissuto collettivo e più precisamente del suo immaginario televisivo, essendo quasi tutte le immagini il frutto di quella memoria. Si tratta di immagini della storia sociale, politica e culturale del mondo dal 1960 ad oggi.


tecnologie e web

Il passato e il futuro rappresentati dai codici di programmazione

I

di Vincenzo Bernabei

L CODICE DISCRETO

Nell’utilizzo quotidiano dei digital media svolgiamo con naturalezza una serie consistente di operazioni che reputiamo ormai banali, senza pensare al livello sottostante di progettazione e programmazione che le rendono possibili. Chattare, regolare il volume del nostro laptop, o semplicemente resettare un normale orologio da polso dotato di display anziché di lancette: tutti gesti che, proprio grazie a quella progettazione, contribuiscono sensibilmente a migliorare la qualità del nostro vissuto senza richiederci particolari competenze.Del resto ciò è in parte vero anche per le apparecchiature elettromeccaniche a vocazione analogica e, perché no, per l’unico dispositivo “tecnologico” che non smettiamo mai di utilizzare, vale a dire il nostro corpo, dal momento che quasi mai reputiamo necessario studiare il nostro apparato digerente prima di consumare un panino, né abbiamo sempre voglia di aprire un libro di anatomia per capire quali muscoli attiviamo effettivamente durante l’ora di jogging.


©sxc Nel caso dei devices digitali, però, il fenomeno risulta più interessante perché con la loro affermazione è venuta a mancare la dimensione fisica e spaziale degli “ingranaggi” in grado di far funzionare l’”aggeggio”. In altri termini dietro, o dentro gli oggetti di cui ci serviamo esiste uno spazio di retroscena a metà tra il fisico e il virtuale che ospita, oltre a chip, circuiti e schede logiche, un codice più o meno complesso di segni che non abbiamo alcun bisogno (e, soprattutto, alcuna intenzione) di imparare. A volte, per esempio quando sul monitor della biglietteria elettronica appare un messaggio di errore, ci può capitare di avvertirne fastidiosamente la presenza. In altri casi, come quando copiamo/incolliamo stringhe di XML per installare un widget sul nostro blog personale, riusciamo persino a “parlare” questo stesso codice senza peraltro dominarlo. In quest’ultimo caso ci comportiamo come se consultassimo un frasario per esprimerci in una lingua sconosciuta, tanto per

compiere delle azioni essenziali, per esempio salutare o chiedere un indirizzo. O come uno scienziato davanti a un esperimento di clonazione: siamo in grado di trasporre i pacchetti di informazioni funzionali al nostro obiettivo, ma non sapremmo mai generare ex-novo i pacchetti stessi. Il codice, insomma, c’è ma nella maggior parte dei casi non è distinguibile: è una specie di alleato discreto senza il quale non solo torneremmo indietro nel tempo, praticando forme di comunicazione dimenticate (il che è evidentemente un paradosso), ma semplicemente non potremmo pensare noi stessi nei termini in cui lo facciamo oggi. In altre parole, esso rappresenta l’elemento che più incarna, per usare una fortunata espressione di Edgar Morin, lo spirito del tempo di questo momento storico, a simboleggiare, con il suo carico di immediatezza e di virtualizzazione, l’onnipresenza e al contempo la non-invasività delle tecnologie contemporanee.


tecnologie e web L’idea così formulata di levità del codice sembra tra l’altro aderire a quella di leggerezza descritta da Calvino nelle Lezioni americane (se vogliamo si tratta di una prova ulteriore dell’attualità della questione, visto che stiamo probabilmente parlando di uno dei testi più citati dei nostri tempi). Non a caso lo scrittore nato a Cuba associa il sentimento della leggerezza proprio al linguaggio, indicando le scelte stilistiche di alcuni suoi colleghi del passato e del suo presente come modalità espressive volte a un’ideale sottrazione di peso alla complessità dell’esistente. Del resto, sempre considerando l’aspetto linguistico, c’è da dire che non abbiamo mai effettivamente smesso di pensare ai linguaggi di programmazione come a un qualcosa di soft (-ware) contrapposto, o accostato, a qualcosa di hard (-ware).

©Flickr-by geishaboy500

Va da sé, ad ogni modo, che ciò che è leggero non è necessariamente invisibile, o trasparente, anzi. Lev Manovich nel suo libro-manifesto Il linguaggio dei nuovi media chiama questo fenomeno “non-trasparenza del codice”, e si riferisce a un principio tutto sommato semplice da intuire. Se il codice stesso viene elaborato per assolvere a un’esigenza di intermediazione funzionale tra noi e l’hardware, vuol dire che esso deve tradurre la misteriosa struttura della Macchina in un qualcosa di intuibile. Detto altrimenti deve creare delle metafore, il più delle volte visive, in grado di attivare nella nostra

©Flickr-by DeclanTM

IL CODICE NON TRASPARENTE

percezione una sensazione di familiarità. In questo senso la freddezza e l’estraneità del mezzo (e del codice medesimo) viene annientata tramite una vera e propria operazione di travestimento.

Gli esempi sarebbero pressoché infiniti, ma basti pensare ai monitor che, a partire dall’affermazione dell’interfaccia GUI, introdotta da Apple nei primi anni Ottanta, diventano una scrivania su cui possiamo spostare a nostro piacimento documenti, cartelle e fogli di calcolo. Allo stesso modo il residuo carico di energia di un pc tuttora viene simboleggiato il più delle volte da una batteria stilizzata, mentre l’orologio interno regolato dal BIOS può essere visualizzato come un quadrante dotato di lancette virtuali; quanto ai client di posta elettronica, essi raffigurano spesso delle buste da lettera aperte per indicare dei messaggi in arrivo, messaggi che se fossero stati veramente spediti in cartaceo tramite posta ordinaria avrebbero impiegato settimane, e non pochi istanti, per compiere il loro tragitto partendo dall’altra parte del globo e giungendo al nostro numero civico.


Anche in ambito professionale, del resto, in presenza di target “business” considerati mediamente più alfabetizzati ai linguaggi digitali rispetto ai client generici, continuano a impazzare i riferimenti – a tratti persino banalizzanti rispetto alle reali potenzialità dei processori – a un’oggettistica artigianale. Così un graphic designer aprendo la propria CS5 Adobe si troverà di fronte una palette di strumenti che prevede pennelli, matite e righelli; mentre un montatore avrà a che fare con le forbici e le lenti di ingrandimento di Avid, un sound designer con centinaia di strumenti non sempre distinguibili tra loro (come rappresentare una marimba in un pugno di pixel, differenziandola adeguatamente rispetto a uno xilofono o a un vibrafono?). IL CODICE AVVOLGENTE Certo, le interfacce stanno cambiando, soprattutto perché un fenomeno (non nuovissimo peraltro, se consideriamo i trascorsi di old media come cinema e tv) pare aver preso piede negli ultimissimi anni. Si tratta della “rottura della cornice”, vale a dire del superamento della visualizzazione dei dati tramite lo schermo. In questo senso, lo stesso miglioramento progressivo della definizione d’immagine avvenuto negli ultimi tempi, che ci ha portati repentinamente dalla visualizzazione analogica CRT (gli orrendi e ingombranti monitor dei vecchi pc) ai supporti piatti a matrici di pixel e a LED, è da interpretare come un tentativo di dissoluzione dei confini della visione, un po’ come se l’aumento della luminosità, la precisione di contrasto e la maggiore vividezza dei colori aiutassero in qualche modo l’immagine ad abbandonare la sua sede convenzionale. Lo stesso si può dire a proposito delle tecniche di videoproiezione, tanto che la continua miniaturizzazione dei devices, soprattutto dei supporti portatili, non ha scalfito affatto – contrariamente a quanto indicato da alcune previsioni – le prestazioni dei player di questo segmento, che fino a poco tempo fa sembrava volersi definitivamente posizionare all’interno della nicchia specialistica rappresentata dalle sale cinematografiche. Pico proiettori, stereoscopia, LED, laser, ottiche a tiro corto e supporti di presentazione PC-free sembra possano garantire addirittura un rilancio del comparto, a testimoniare che sempre più i consumer si abituano all’idea di veder raffigurato il proprio film, il proprio evento sportivo o la propria presentazione aziendale su una parete piuttosto che sul proprio laptop personale. La vera svolta in questo versante, però, è stata probabilmente rappresentata dalla diffusione sempre più capillare della tecnologia touch-screen. Sia i servizi di pubblica utilità, su tutti gli sportelli bancomat e i totem informativi, sia i personal devices, come i telefonini e i riproduttori multimediali, hanno dato corpo a quello che per le generazioni precedenti di utenti era un desiderio apparentemente irrealizzabile, cioè l’interazione diretta con i contenuti visualizzati. Anche in questo caso Apple ha impresso un’accelera©Flickr-by theopie


tecnologie e web

©Minority Report zione tecnologica importante, almeno nel settore retail, con il lancio dell’I-Pod Touch prima e dell’I-Phone / I-Pad dopo, esaltando la sensazione di partecipazione provata dall’utente con l’inserimento del giroscopio NEMS, lo stesso sensore di movimento installato sulla console Nintendo Wii. Inutile dire che la stupefacente proliferazione delle apps concepite per essere utilizzate sui dispositivi prodotti dall’azienda di Cupertino è figlia anche di questa felice intuizione. Tornando al tema della nostalgia, è curioso notare tra l’altro come per imbastire interazioni di tipo testuale con gli smartphone dotati di tecnologia touch si sia scelta ancora una volta la strada della continuità con il passato, raffigurando delle tastiere QWERTY virtuali (le stesse che connettiamo via usb al nostro computer, e le stesse che i più grandi di noi ricordano montate sulle macchine da scrivere meccaniche e, succes-

sivamente, elettriche) attivabili naturalmente via software. Da segnalare, infine, i tentativi di conferire una vera e propria profondità alle interfacce. Qualche anno fa tutti rimanemmo affascinati dall’idea, lanciata dal delizioso Minority Report di Spielberg e più recentemente rilanciata dallo spot di una nota marca automobilistica, di poter interagire con una serie di superfici a opacità ridotta su cui venivano proiettati oggetti e strumenti per l’organizzazione dinamica dei files. Da un lato quell’ipotesi di design sta diventando realtà grazie alle aziende Samsung e D’strict, che hanno presentato qualche tempo fa un dispositivo, nominato JET, in grado di coinvolgere l’utente chiamandolo a una gestualità simile. Dall’altro, essa appare ormai superata, se non sotto l’aspetto tecnico almeno sotto quello dell’immaginario collettivo, dall’ultimo Iron Man


interpretato da Robert Downey Junior, in cui si vedono item visuali proiettati in forma ologrammatica nella stanza dello scienziato protagonista, che li visualizza e interagisce con essi senza l’aiuto di nessuno schermo di proiezione. In entrambi i casi siamo quindi in presenza di oggetti che ci sono e, al contempo, non ci sono, strumenti da cui si viene avvolti e che possono essere richiamati all’occorrenza attraverso un gesto, o bypassati quando con il gesto si vuole andare oltre la loro flebile presenza. Sarà questa la strada che conduce verso l’allontanamento, anche intellettuale, dalle tecnologie analogiche? AVANZAMENTO E ARRETRAMENTO In conclusione, come si fa a ri-tradurre in oggetto un qualcosa che ha perso la sua referenza fisica? Quali metafore, quali rappresentazioni scegliere per trascinare nel visibile ciò che è fisicamente inconsistente? Le strade sarebbero teoricamente infinite, proprio perché la non-spazialità dei codici di programmazione permetterebbe di dar vita a infinite combinazioni di immagini e di segni in grado di agevolare l’interazione tra noi, i nostri sensi, e le macchine. Eppure finora abbiamo fatto delle scelte precise: abbiamo optato per la reiterazione (simulata) di una gestualità desueta. La scrivania, le cartelle, lo chassi delle vecchie radio con tanto di manopole per la modulazione del volume, i pennelli, i righelli, le tastiere e le lancette. Oggetti che – considerata la perdita delle loro funzionalità, ormai dissolte con la dirompenza del digitale – non servono più, ma continuano a significare, a testimoniare che non ci siamo dimenticati dell’analogico. La tendenza è chiara: una delle marche più riconoscibili della cultura digitale è, per qualcuno inopinatamente, la malinconia: ci troviamo costantemente di fronte a delle interfacce nostalgiche, a dei piani di rappresentazione che in altri ambiti dell’esistenza giudicheremmo irritanti (o rassicuranti?), con la loro

©Flickr-by nDevilTV tendenza ostentatamente citazionista, che ci rimanda a un universo simbolico morto e mai sepolto. Nella continua drammatizzazione culturale che l’innovazione tecnologica porta con sé, anche e soprattutto nell’epoca digitale, prosegue lo scontro tra il vettore distruttivo, oscuro e regressivo incarnato da alcune caratteristiche dei media e quello collaborativo, progressivo e meravigliosamente utopico delle invenzioni che colonizzano il nostro vissuto (cfr. BCm numero 003, pag 60). Come se a fronte di ogni avanzamento dovessimo scontare una piccola condanna: quella dell’arretramento, almeno parziale, almeno simbolico.

©Flickr-by eelke dekker

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marketing

un rapporto indissolubile per fare Business

C

di Erica Speranza

ostruire un brand di successo diventa sempre di più uno degli elementi più importanti affinché un’azienda, grande o piccola che sia, possa fare business. L’attività di branding corrisponde all’elaborazione di una strategia efficace di valorizzazione, posizionamento e comunicazione della marca, con l’obiettivo di collocare l’azienda stessa o il prodotto/servizio su un piano superiore e competitivo. Il brand parla alla mente e al cuore del consumatore e la sua identità diviene sempre più un elemento tangibile, supportando, esprimendo e sintetizzando, attraverso esperienze percepibili tramite i 5 sensi, i valori della marca. Brand quindi come garanzia per la costruzione di un rapporto di fiducia, come promessa verso il consumatore, che oggi è sempre più esigente. La scelta d’acquisto si basa sempre più su motivazioni legate alle emozioni, al senso di appartenenza a una comunità e... al design. Spesso, erroneamente, si associa il design a prodotti di qualità e di ricercata personalità estetica, ovvero a prodotti firmati appartenenti a una fascia di prezzo elevata, rischiando di confondere il concetto di design con quello di “lusso”. Design è progettare per rispondere a un bisogno, e quando si parla di design non ci si dovrebbe riferire solo a prodotti/servizi pensati per chi ha una elevata possibilità di spendere.


Ikea, la grande industria del mobile fai da te, ha fatto del design uno dei punti cardine della propria politica commerciale, facendosi strada anche nel mercato italiano, quello più esigente nel campo dell’estetica e dell’arredamento. Mobili e accessori firmati Ikea hanno avuto, e continuano ad avere, un successo grandioso nonostante la minore qualità rispetto alle grandi case italiane di arredo. Una delle chiavi del suo successo sta sicuramente nell’economicità dei suoi prodotti, raggiunta anche grazie al fatto che questi vengono montati direttamente dal cliente. Il must della strategia di Ikea è proprio il rendere semplici le attività difficili: dalla fase di concepimento dell’imballaggio un interaction designer studia l’interazione prodotto-utente in modo tale che sia difficile commettere errori anche per gli acquirenti meno esperti, soprattutto durante il montaggio; il libretto di istruzioni diventa un alleato durante questa fase, un vademecum composto solo ed esclusivamente di illustrazioni, grazie all’approccio instructional design sostenuto da Ikea e basato sull’intuizione e la riduzione dei costi (tale approccio, per esempio, non prevede traduzioni). Ogni aspetto del prodotto Ikea viene studiato e pensato nei minimi dettagli focalizzando sull’usabilità del design e facendo divenire questa un vantaggio competitivo del brand. Una strategia quindi a tutto campo

che ha permesso al brand Ikea di divenire uno dei leader del mercato dell’arredamento. La casa americana Apple, produttrice di veri e propri gioielli della tecnologia, è artefice di una rivoluzione nel mondo dell’informatica, avendo incentrato il suo business sull’estetica e sull’estrema usabilità piuttosto che esclusivamente sulle componenti hardware. Il merito è di un team di designers capeggiato da Steve Jobs e da Jonathan Ive, motivati dalla passione e l’amore per gli oggetti tecnologici belli e seducenti: Apple è stata in grado di creare un mix perfetto tra design e ottime prestazioni, dando la possibilità al designer di esprimere al massimo la sua creatività e ribaltando l’assunto per cui l’estetica del prodotto debba adattarsi ai dispositivi hardware. Nonostante i prezzi siano più elevati rispetto a quelli applicati dai competitor, Jobs è riuscito a costruire un vero e proprio colosso tra i brand informatici. Il MacBook, ad esempio, esteticamente accattivante, presenta delle specifiche tecniche che nella quotidianità risultano essere più che utili: dal cavo dell’alimentazione collegato con un magnete in modo che sia più difficile far cadere incidentalmente la macchina , ai programmi creativi come PhotoBook e I-movie, alla telecamera integrata, per non parlare della perfezione rasentata a livello software. Insomma un vero e proprio connubio tra estetica e usabilità, che rispecchia il concetto di design e rafforza la brand identity di Apple: quando davanti ai nostri occhi compare la “mela” non possiamo che associarla al brand, al suo essere cool, al passo con i tempi, continuamente aggiornato, giovane e divertente. Siamo di fronte a due casi aziendali che sfruttano il design non solo per raggiungere l’appeal estetico, ma associano la piacevolezza delle forme alla funzionalità e alla praticità dei loro prodotti, ottenendo in entrambi i casi un brand carismatico e di successo. Il giusto modo di fare business. Non trovate?

©Alessandra Colucci

Oggi il design si fonde con il brand al fine di comunicare valori, identità e strategie di comunicazione, differenziando un’azienda, un prodotto o un servizio dai competitor agli occhi del consumatore. Due casi di eccellenza a questo riguardo sono sicuramente Ikea e Apple, per i quali il design contribuisce a creare brand awareness. Entrambi i brand, conosciuti a livello mondiale, puntano molto sull’estetica degli “oggetti” che producono, ma sempre associandola all’usabilità. In tali casi il design sposta il suo “dover essere” verso quella che Taylor definiva la “one best way”.


business

Il ruolo del design nella progettazione delle strutture organizzative

C

di Tonia Basco

he le organizzazioni mettano in atto processi di cambiamento per adeguarsi a mutevoli contesti economici e culturali non è certo una novità. Tuttavia, il panorama contemporaneo le pone di fronte ad uno stato di incertezza e di discontinuità senza precedenti e tale da richiedere l’adozione di un approccio innovativo e flessibile, che permetta loro di rompere gli schemi e di rimodellarsi per restare sulla cresta dell’onda. La peculiarità della società postmoderna, infatti, è racchiusa in due dimensioni fondamentali: la “turbolenza” e la “complessità”. Da un lato, come afferma Tonietti, “il mutamento non solo si è accentuato, ma è divenuto sempre meno prevedibile nei suoi percorsi evolutivi”; la scansione del divenire storico non avviene più né per secoli né per decenni e, di fronte ad alcuni fenomeni, anche l’anno diventa una prospettiva di lettura troppo ampia. Dall’altro, la complessità trae origine dalla crescente interconnessione e interdipendenza dei fenomeni della società Terziarizzazione dell’economia, repentino mutamento tecnologico, globalizzazione dei mercati, continua interazione tra i sistemi sono alcune delle condizioni che, sancendo il passaggio dall’economia della stabilità a quella della flessibilità, rendono inadeguate le tradizionali strutture organizzative e costringono le imprese a ripensarsi. L’organizzazione “macchina” di stampo taylor-fordista – accuratamente definita e messa a punto per funzionare come una macchina


Il processo di reingegnerizzazione, che porta a sfoltire le gerarchie e a disegnare strutture per progetto, mette in risalto la vera leva strategica di ogni organizzazione: la risorsa umana. Ogni processo di cambiamento, infatti, va valutato sotto una duplice prospettiva: quella strutturale, che porta a riflettere sulla coerenza tra la “forma” dell’organizzazione da un lato e gli obiettivi che si pone, e le relazioni tra le parti che la compongono dall’altro; quella gestionale, che fa emergere il ruolo dei soggetti coinvolti. Qualsiasi organizzazione è fatta di persone il cui contributo viene finalmente riconosciuto e valorizzato: dal “capitalismo delle macchine” si è passati, cioè, al “capitalismo personale”. Parafrasando Barassi, la vera “sostanza” dell’azienda è il “valore della socialità”, inteso come l’insieme dei processi che generano ed esplicitano la conoscenza, quale frutto del contributo degli individui. La convinzione, propria dell’epoca industriale, che il lavoratore sia semplicemente la “ruota dell’ingranaggio” e un fattore produttivo da sfruttare al meglio, viene superata dalla consapevolezza della centralità della risorsa umana, valutata in quanto “persona” e quindi soggetto capace di assumere responsabilità e iniziative, sviluppare progetti e relazioni dentro e fuori l’azienda. Contestualmente il lavoro, un tempo parcellizzato e standardizzato, si ricompone, si arricchisce di contenuti e richiede un intervento diverso a chi lo esegue: non più una mera esecuzione rigida e rispettosa delle regole imposte dalla direzione, ma una “cooperazione intelligente”, che fonde autonomia e responsabilità. È in questa direzione che viene chiamato in causa il contributo del design, cui si chiede di partecipare alla riprogettazione degli assetti organizzativi partendo da una prospettiva umanistica, ossia dai rapporti tra i lavoratori. Si fa strada il concetto di “organizational design” (www.organizationaldesign. it, a cura di M. Paglia), il campo progettuale dedicato allo sviluppo delle organizzazioni che propone il design come disciplina al servizio delle aziende al fine di stimolare un approccio creativo nelle discipline manageriali. L’idea, ben espressa nelle parole di Bucci, è che sia necessario “avvicinarsi alla realtà  aziendale con una nuova cultura manageriale, più vicina a quella dell’antropologo”. La rivalutazione della risorsa umana richiede, infatti, un approccio gestionale

innovativo: se le organizzazioni si avviano a diventare piatte e le responsabilità si distribuiscono in maniera centrifuga, si crea una orizzontalità dei rapporti che non può essere gestita esclusivamente affidandosi ai classici sistemi di monitoraggio. Riprogettare le strutture organizzative significa anche ripensare ai meccanismi di coordinamento: autorità, controllo e comunicazione superano i livelli gerarchici, vengono ridefiniti e adattati alle contingenze e comprendono, oltre alle tradizionali prescrizioni, anche informazioni e conoscenza. L’esigenza di affrontare la riprogettazione delle strutture organizzative intrecciando il contributo dell’ingegneria gestionale con il design deriva anche dalla difficoltà di fronteggiare numerose variabili: l’organizzazione moderna, infatti, ha una fisionomia ben più articolata delle fabbriche fordiste e, accanto agli asset tangibili, consta di una determinante componente immateriale. Inoltre, in un mercato saturo di beni e in cui a fare la differenza sono i servizi e i significati intangibili associati ai prodotti, nonché l’immagine aziendale e le sue capacità comunicative, l’agire organizzativo ha bisogno di trarre spunto anche dalle culture “artistiche”: solo così potrà analizzare e fronteggiare il valore estetico, culturale e relazionale di quelle che in passato erano viste come mere transazioni economiche. Lo sviluppo di una pratica progettuale nella definizione delle strutture organizzative consente di considerare tutti questi aspetti e di ottenere un risultato coerente. “Come un prodotto, pertanto, l’azienda viene studiata e creata”: “La sfida progettuale – come afferma M. Paglia – è quella di riuscire a disegnare strutture organizzative in grado di evolversi, che garantiscano un buon grado di autonomia ai progettisti pur mantenendo un monitoraggio dei processi e dei costi”. L’auspicata sinergia tra discipline apparentemente così distanti punta pertanto alla progettazione di strutture moderne e innovative, in cui ogni componente sia messo in condizione di apportare il proprio prezioso contributo e il cui agire sia conforme all’attuale “spirito del tempo”.

© Organizationaldesign.it

integrata e regolata – non è più in grado di garantire crescita economica e competitività e lascia spazio all’organizzazione “organismo” – una struttura paragonabile a un essere vivente, collocato in un più vasto ambiente dal quale è condizionato. Una nuova metafora che simboleggia l’abbandono progressivo della standardizzazione e dell’indiscussa centralità della gerarchia a favore di nuovi imperativi, quali la flessibilità e il decentramento, che si traducono nella progettazione di strutture più snelle e piatte, di ambienti aperti, basati sulla continua interazione interna ed esterna, sull’autonomia dei soggetti e sul coinvolgimento responsabile dal basso.


creatività

C

di Massimo Caiati

ome molti sapranno, quando un Re moriva, l’araldo celebrava la sua morte e soprattutto l’incoronazione del suo successore con la celeberrima frase citata nel titolo. Beh, ben lungi dal paragonare la seppur nobile arte della pubblicità alle ben più lustri case reali francesi, questa frase può perfettamente descrivere quello che sta accadendo, o che accadrà a breve, nelle alte sfere della creatività internazionale. La pubblicità come l’abbiamo sempre vista sta morendo. Non per via della crisi, né per colpa del marketing più ottuso, ma semplicemente perché i creativi più innovativi stanno dando vita ad una nuova forma, molto più interessante, di comunicare al pubblico i valori di una marca. Fino a poco tempo fa le categorie pubblicitarie erano abbastanza schematiche e semplici, o almeno così le facevano studiare alcuni professori nelle aule universitarie: una campagna si poteva sviluppare su diversi mezzi quali Tv, Stampa, Affissione, Radio e più recentemente Ambient (la pubblicità fatta “per strada”) e Internet.


Ognuno di questi mezzi veniva usato per veicolare un messaggio, attraverso la “messa in onda” (o in stampa, o online…) di una campagna preconfezionata in cui tutto era già deciso. La campagna era un processo chiaramente artificiale, in cui l’idea veniva girata o “scattata” e sottoposta al pubblico in maniera diretta. Sia ben chiaro, ancora oggi la stragrande maggioranza delle campagne segue questa logica, ma oggi una nuova forma di fare pubblicità sta prendendo piede.

Non so quanti di voi abbiano avuto modo di imbattersi l’anno scorso, attraverso telegiornali o magazine, nella campagna The best job in the world. Di fatto, era stato indetto un concorso in cui il premio in palio era un lavoro. Sì, il vincitore si sarebbe assicurato 6 mesi di lavoro assolutamente ben retribuito come “guardiano” di una fantastica isola australiana. Il lavoro consisteva nel curare le spiagge, osservare le tartarughe, ammirare i fondali marini e scrivere su un blog, il tutto in uno dei più bei paradisi terrestri. Naturalmente subito migliaia di persone sono state attirate dall’occasione e l’iniziativa è presto diventata una notizia che ha fatto il giro del mondo nei telegiornali di tutto il pianeta. Tutto era iniziato con dei piccoli annunci stampa, nei quali il concorso veniva promosso all’interno della sezione lavoro. I partecipanti venivano invitati a iscriversi sul sito, dove potevano avere maggiori dettagli e inviare la loro video-application. Quindi, se facciamo due rapidissimi conti, la campagna ha avuto un piano mezzi del tutto irrisorio (stiamo parlando di un sito internet e qualche annuncio stampa di piccolissimi formati), ma è stata diffusa gratuitamente in maniera globale. Anche i costi di produzione sono stati estremamente limitati, in quanto non è stato necessario nessuno “scatto”, il sito si avvaleva di immagini esclusivamente di repertorio e lo stipendio offerto al vincitore era comunque imparagonabile ai costi di una campagna tv di successo. Alla fine si è scoperto che il tutto era stato in realtà organizzato dall’Ufficio del Turismo Australiano, che voleva richiamare l’attenzione mondiale sulle bellezze naturalistiche del suo territorio. In

©Queensland Holidays

Nel corso degli anni e soprattutto con lo sviluppo di internet, sono nati altri due tipi di campagne: il primo è stato il “viral”, nel quale una campagna era così divertente dall’essere divulgata gratuitamente in rete senza alcun costo di pianificazione mezzi; il secondo è stato il concorso interattivo, in cui il pubblico veniva chiamato a partecipare attivamente e a dire la sua (i vari concorsi online del tipo “mandaci il tuo filmato divertente e fallo votare dai tuoi amici…”). Queste campagne avevano ognuna una caratteristica innovativa, la prima permetteva di risparmiare soldi, grazie a una creatività molto interessante (il pubblico si scambiava il filmato, facendolo girare gratuitamente), la seconda aveva un grado maggiore di coinvolgimento del target, e quindi creava una maggior affezione alla campagna e più in generale al prodotto. Nel giro di qualche anno, anche questo tipo di campagne sta evolvendo, dando vita a nuove tipologie di creatività.


creatività

questo caso l’insight era semplice: l’Australia è un posto talmente bello che chiunque vorrebbe lavorarci. Alla fine del concorso, che è durato comunque un anno, la campagna è stata spiegata attraverso un filmato, diventando un viral che migliaia di persone hanno già visto su YouTube. Non credo che ci sia bisogno di ulteriori spiegazioni per capire quanto questa campagna abbia inevitabilmente segnato il limite tra il vecchio e il nuovo in pubblicità, mostrando a chiunque quale sia l’immenso potenziale (economico e creativo) delle grandi idee.

©Heineken

E in Italia? Di solito quando arrivo a parlare del nostro Paese arrivano le brutte notizie, invece stavolta arriva una graditissima sorpresa. Qualche mese fa, in occasione della partita di Champions League Milan - Real Madrid, alcuni pazzi stipendiati dall’agenzia JWT di Milano hanno dato vita a quella che sarà sicuramente, a mio modo di vedere le cose, una delle campagne vincitrici del prossimo Festival della Pubblicità di Cannes. L’idea era semplice: dare vita a un finto concerto di musica classica in contemporanea con la partita, trovando vari modi di “incastrare” alcuni tifosi e obbligarli a rinunciare al match per il concerto. Come? Fidanzate, professori universitari e caporedattori hanno contribuito in vari modi trovando un finto pretesto per costringere più di 1.000 persone a recarsi a teatro per assistere al concerto, perdendo la cronaca della partita. Una specie di corazzata Potëmkin, in cui i nostri Fantozzi hanno avuto però un’immensa sorpresa: dopo circa 15 minuti di concerto, il quartetto d’archi ha intonato le note della sigla della Champions League, mentre sullo schermo sono apparse, in diretta, le immagini della partita. La noia e la delusione si sono trasformate immediatamente in tripudio, mentre tutti, vittime e carnefici, fidanzati e fidanzate, sono diventati parte di una divertentissima esperienza. La campagna è stata firmata da Heineken, che ha anche filmato la campagna e l’idea pubblicitaria e soprattutto la reazione del pubblico, che è presto diventata un video che sta già facendo il giro del mondo su YouTube. Di fatto, in questo caso, il vero target della campagna non sono i 1.000 fortunati che sono caduti nello scherzo, ma le migliaia di utenti che oggi si stanno scambiando il filmato senza alcun costo per l’azienda su YouTube. Pubblico e creativi sono stati entrambi ideatori della campagna. Il tutto al servizio di Heineken, che sta promuovendo in tutto il mondo la sua immagine di birra fatta per un pubblico giovane e a cui piace godersi la vita con gli amici e con il sorriso. Per una volta è il caso di brindare, persino in Italia.



comunicazione

L

Come la pubblicità usa il futuro per progettare desideri

di Davide Bennato

’immaginario è un luogo della nostra cultura a cui noi attingiamo per comprendere noi stessi e le nostre speranze. C’è chi dice che sia una fuga dalla realtà, chi un luogo fittizio, chi un rifugio nella fantasia. Ma non è vero. Come ci ricorda Maurice Merlau-Ponty “Immaginare è pensare di vedere” e non si può immaginare di vedere qualcosa che non si conosce. In questo senso l’immaginario è l’attività simbolica a cui noi facciamo riferimento per proiettarci al di là delle categorie kantiane di tempo e spazio. Solo con l’immaginazione possiamo andare al di là dello spazio – le distopie – o al di là del tempo – le ucronie. Il grande antropologo Claude Levi-Strauss ci ha aiutato a comprendere che le culture delle società non industrializzate non è vero che non siano razionali, bensì hanno una logica diversa da quella che usiamo noi. Allo stesso modo Jean Piaget – ricordato dai libri di filosofia e pedagogia come padre della epistemologia genetica – ci ha aiutato a comprendere che i bambini non sono privi di logica, ma stanno semplicemente imparando il processo di


astrazione a partire dalla loro esperienza empirica. Stanno semplicemente imparando a usare l’immaginazione. In questo senso l’immaginario è una porta per altri mondi, si nutre di stereotipi per produrre archetipi. Ma l’immaginario è anche desiderio. Sigmund Freud diceva che dove c’è un tabù c’è un desiderio. Aveva ragione. Il tabù è una proibizione, è uno strumento che le società usano per controllare i desideri, perché il desiderio è parte integrante dell’immaginazione. Non si dà immaginazione senza desiderio, non c’è desiderio senza immaginazione. Hannibal Lecter lo ricordava a Clarice Sterling: “Cosa fa una persona quando guarda? Desidera”. Perché? Perché l’immaginazione quanto proietta se stessa in forma creativa al di là dei limiti imposti dal tempo, dallo spazio, dalle regole sociali, dà vita al desiderio. Il desiderio è il motore che dà la spinta all’immaginazione, creando inevitabilmente immaginari.

©Lacoste Di contro l’immaginario – quando prende forma in maniera compiuta – è frutto di desideri e fonte di desiderio. Un esempio banale: la mitologia dei supereroi. Chi non vorrebbe i superpoteri di Superman? Chi la capacità di volteggiare dell’Uomo Ragno? Chi il potere derivato dalla tecnologia di Batman? Si potrebbe obiettare che questi personaggi sono schiavi delle loro capacità. Altrimenti come spiegare la presenza dei super-nemici, la necessità della doppia identità, il costante rischio di crollo emotivo? È vero, ma è un costo che devono pagare per aver osato rompere le regole sociali con l’immaginazione. Novelli Prometei di un mondo disilluso. Esiste però un’istituzione sociale che usa l’immaginario per progettare desideri in cambio di denaro, mercimonio del desiderio in quanto unico banco legittimo di sperimentazione di immaginari: è la pubblicità. La pubblicità nel marketing ha un ruolo preciso: costruire la superficie di significazione intorno a prodotti altrimenti grigi e banali. Cosa rende una scarpa oggetto degli sguardi di una serial shopper? Cos’è che rende una borsa obiettivo inconfessabile delle fashion victim? È un mix di design, desiderio e


comunicazione

rinforzo pavloviano fatto attraverso la pubblicità. La pubblicità usa tutte le tecniche dell’immaginazione per dare vita ai prodotti attraverso il desiderio, un po’ come fece Pigmalione con Galatea attraverso la forza dell’amore, quest’ultima variante legittimata del desiderio. Insistendo con filosofia e mitologia potremmo dire che l’amore è la versione apollinea di desiderio, che invece è dionisiaco. Un modo classico usato dalla pubblicità per costruire desideri è la progettazione dell’immaginario, spesso orientato alla costruzione di mondi. Nel nostro caso prendiamo in considerazione l’uso del futuro, un ottimo escamotage che serve per declinare immaginazione e desiderio, spesso nella costruzione dell’identità di prodotti tecnologici. Moltissime sono le campagne che hanno usato questa tecnica, dando vita a comunicazioni molto affascinanti.

©Heineken

Come nel caso della campagna Lacoste Future “Let’s Reinvent the Game” del 2008, prodotta per celebrare il 75° anniversario del brand, in cui si provava a immaginare come sarebbe stato il tennis del futuro, nel 2083. Interessante il concept in cui un tennista futuribile, senza dimenticare lo sforzo dei corpi coinvolti nell’atto ginnico, si presenta bardato come un soldato con tanto di visiera il cui spazio di azione è un luogo a metà tra il fisico e il virtuale dove prendono forma le linee di demarcazione del campo da tennis. In questa specie di dimensione a metà tra Tron e Matrix, la racchetta – vera protagonista del commercial – è intessuta di onde di energia e non di fili di nailon. In questo ambiente il tennis diventa uno sport estremo, un po’ come ci ha abituato la cinematografia fantascientifica. In un altro soggetto – più recente (2009) – della campagna si vede una golfista che riesce a materializzare dal nulla un ferro con cui colpire una pallina. Tutto giocato – nel doppio senso del termine – in una dimensione a metà tra il reale e il virtuale, conciliazione fra fisicità dei corpi e potenzialità dell’artefatto tecnico. Un modo molto più ironico – ma non per questo meno legato alle corde del desiderio – è la campagna della Heineken del 2008 diretta da Carl Erik Rinsch. Qui invece il protagonista è una robot che a tempo di musica elettronica comincia non solo a spillare birra da un barilotto di alluminio celato nel suo corpo, ma riesce anche a triplicarsi in un tripudio partenogenetico passando così dalla semplice danza alla coreografia. In questo caso il riferimento alla procreazione e anche al sesso – nel gioco con le tre robot – è esplicito e celato nello stesso tempo. Esplicito per le modalità con cui il barilotto viene alla luce, celato perché i riferimenti sono messi in secondo piano dal gioco da matrioska messo in scena dall’automa. Meno versato sui territori dell’immaginazione, ma sempre in grado di toccare corde legate al desiderio la campagna (del 2006) dell’IBM “The Future Market”. In questo caso


©IBM Ma un modo molto affascinante in grado di riportare su territori quasi onirici il rapporto immaginazione/desiderio è nella campagna della Saturn – la catena di negozi specializzati in elettronica – e della sua interpretazione dell’evoluzione (“The

Evolution of Technology”, 2008). Qui seguiamo affascinati il rapido succedersi delle tappe dell’evoluzione: dai robosauri mossi dall’energia del carbone che soccombono all’attacco di robot somiglianti a tigri dai denti a sciabola, che lasceranno il posto a primati tecnologici da cui scaturiranno androidi dalle sembianze femminili, quasi a ricordare i sexy robot di Hajime Sorayama. Il messaggio è: dalla brutalità rozza delle prime tecnologie, alla raffinata bellezza del design delle nuove tecnologie digitali. Alla fine di questa rapida rassegna di campagne pubblicitarie basate sull’immaginazione del futuro tecnologico, che riflessioni possiamo trarre? Sicuramente apprezziamo la bellezza dei concept alla base dello sviluppo creativo delle idee delle pubblicità stesse, più che dei prodotti. Infatti i prodotti non sono altro che fantasmi evocati dall’immaginazione legata al brand. È l’immaginario che viene messo in scena ad attivare il processo desiderio della merce. Perché sicuramente dove c’è un tabù c’è un desiderio, ma dove c’è un desiderio spesso c’è un prodotto.

©ISaturn

l’obiettivo è sicuramente didascalico: quello di far comprendere ai clienti del settore logistica l’utilità delle RFID o smart tag, le etichette intelligenti che ormai stanno progressivamente sostituendo i codici a barre per la gestione delle merci. In questo soggetto non a caso si vede un supermercato e si seguono i passi di quello che sembra essere un taccheggiatore che, incurante degli sguardi di agenti della sicurezza e altri clienti, mette nelle tasche quella che dovrebbe essere la sua spesa. La situazione si risolve quando uscendo dal supermercato, uno scanner sofisticato consente al presunto ladro di pagare, senza neanche togliere la roba dalle tasche, grazie alla presenza di sensori intelligenti nel packaging dei prodotti e nella sua carta di credito. In questo caso l’immaginazione è legata alla più classiche delle situazioni della vita quotidiana, ma si trasforma in un desiderio: quello di non perdere tempo prezioso della vita nel fare file di qualunque tipo.


culture

“Aumentare” il corpo tra nanofiction, nanofashion e soft computation

S

di Francesca Nicolais

ensori, led, nanotecnologia, tessuti intelligenti e reattivi, la tecnologia invade la moda con vestiti cinetici e sensibili ai cambi di umore, gonne che si illuminano quando si cammina, trench che proteggono dalle influenze stagionali e tatuaggi che appaiono quando si “scalda “ la temperatura. La moda invade il corpo “aumentandolo” fino a superarne l’interfaccia con il mondo, la pelle, addentrandosi, fondendosi a esso, liberandolo dalle sensazioni, ampliandolo, spogliandolo, dissolvendolo, rendendolo trasparente,“bare”. Bare (nudo , spogliato) è proprio il nome del progetto di un giovane gruppo di studio (Becky Pilditch, Matt Johnson, Isabel Lizardi e Bibi Nelson) del Royal College of Arts di Londra in cui il corpo si spoglia, nudo, e si riveste solo di una vernice nera, nanostrutturata, conduttiva, temporanea e non tossica, che lo trasforma in un circuito elettronico in grado di generare una performance sonora o di illuminare una lampadina solo attraverso il tocco, elettrificando la pelle e convertendola in mezzo di trasmissione dati permettendo di superare, disintegrandola, la distanza corpo-elettronica. Una pelle “funzionalizzata” che, nel progetto con Sony Music UK e Calvin Harris, The Humanthesizer, trasforma il corpo di 15 modelle in bikini in un gigante sintetizzatore e Calvin Harris in un musicista di futura o meglio futuristica generazione.


E se la “prima pelle” si invade e si performa per catturare le emozioni da dentro, nanotecnologia, wearable computer, soft computation offrono nuovi modi di ingegnerizzare e di processare i materiali e i tessuti che la ricoprono rivoluzionando la moda ed il settore tessile in genere, mostrando la forza dirompente della tecnologia sensoristica applicata al corpo umano, emozionando quella che viene definita la seconda pelle. Non più dunque un semplice abbraccio a trasferire l’intensità delle emozioni ma accessori bluetooth che permettono di trasmettere via sms il calore o la dinamica del contatto, come la hug shirt o come il Super Cilia Skin (SCS - di Hayes Raffle, James Tichenor, and Mitchell Joachim), una membrana interattiva pensata per stimolare la comunicazione interpersonale a distanza che reagisce ad input tattili cinestetici muovendo in risposta la sua superficie. Una totale ibridazione tra ricerca, tecnologia e corpo in cui sia gli electronic textiles riferiti a quelle superfici che incor©XS Labs 2005 by Joanna Berzowska Marcelo Coelho Hanna Søder

©Bare Conductive

Così, il nuovo corpo-immagine (come definito da Emanuela Ciuffoli), “oggetto/soggetto di tecno-trasformazioni” subisce un meta-morphing digitalizzato e nanostrutturato, in cui atomi e bit si incontrano e si complementano alla scala del miliardesimo di metro, superando il confine tra dentro e fuori, generando un primo vero, visibile, interscambio tra corpo ed emozione, scompaginando la materialità della carne, invadendola: come nel progetto Skin Tattoo (nell’ambito del filone di ricerca sul “far future”‘ Philips Design Probes), che con una tecnologia sperimentale di rivestimento attivata dalla risposta emotiva all’interazione e al tocco di un altro corpo da parte di colui che ne è rivestito, restituisce una “visualizzazione dell’emozione” attraverso la pelle, un tatuaggio amoroso, non più solo espressione di identità ma testimonianza di passione e coinvolgimento.

porano in se la capacità di comunicare , “sentire” e interconnettersi a sensori e dispositivi elettronici in genere, che gli smart textiles intesi come quelli derivanti dallo sviluppo della ricerca nell’ambito della scienza dei materiali (generalmente riuniti sotto la dicitura di reactive fashion), possono porsi come mezzo di sperimentazione e di espressività vista l’intimità e la prossimità al corpo e all’ambiente circostante. Interessante a tal proposito il lavoro di Joanna Berzowska, Assistant Professor di Computation Arts alla Concordia University e fondatrice di Extra Soft, studio di ricerca a Montreal, che coniuga nei suoi studi e sperimentazioni, definiti di “soft computation”, tecniche tessili tradizionali come cu-


culture

citura, lavoro a maglia e ricamo con fibre conduttive, inchiostri elettronici, pigmenti termocromici ,componenti illuminanti e materiali a memoria di forma per creare dei circuiti soffici, che sentano il corpo, trasmettendone dati ed emozioni. In particolare il lavoro della Berzowska si differenzia dagli altri per il fatto di dare particolare rilievo all’aspetto emotivo oltre a quello legato all’efficienza, lavorando su progetti che stimolano il gioco, l’espressione personale e le relazioni, come abiti che si illuminano con un abbraccio o cambiano forma quando sale la temperatura, rispondono a degli input con suoni o animazioni o, ancora, di tanto in tanto si arricchiscono di immagini andando a personalizzare l’abbigliamento del loro utilizzatore su cui sbocciano fiori, come nel progetto Kukkia. Vestiti e accessori, che diventano una estensione del corpo, misura della costruzione di relazioni significative con il mondo e con gli altri e straordinario mezzo di camaleontica mutazione di identità e scenario in un tempo in cui la nanotecnologia è attualità e scienza e science fiction si ibridano nella simulazione dell’iperrealtà descritta da Baudrillard in “Simulacra and Science Fiction” dove non è più possibile fabbricare l’irreale dal reale perché bisogna dare parvenza di realtà, di vita vissuta, reinventando il reale come fiction perché è scomparso dalle nostre vite.

Innestandosi nell’uomo, ogni nuovo strumento

dà luogo a una creatura di nuovo tipo,

che attua potenzialità INEDITE E A VOLTE

(…)

del tutto impreviste, e di questa coevoluzione ibridativa

INDICARE I LIMITI. [Giuseppe O. Longo, 2003]

©Philips

non è possibilE


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tecnologie e web

l

motori di ricerca, web semantico e mappe concettuali

di Alessia Cremonini

l Web può essere considerato uno dei maggiori contenitori di conoscenza, o quello utilizzato più frequentemente da una grande varietà di persone. Le informazioni nella maggior parte dei casi sono disperse all’interno della rete e i motori di ricerca assolvono alla funzione di organizzare, indicizzare automaticamente informazioni e rendere possibili ricerche da parte degli utenti. Il Search Engine, nel corso degli ultimi quindici anni, ha subito una moltitudine di migliorie e declinazioni differenti dalla semplice ricerca di documenti. “Lo cerco sul Web” è un’ espressione comunemente utilizzata dagli utenti, che testimonia come la rete sia percepita come un serbatoio di conoscenza: “sarebbe desiderabile che le macchine potessero automaticamente combinare la conoscenza proveniente dalle diverse fonti e, ancor meglio, derivarne di nuova”. [O. Signore, Introduzione al Web semantico, 2008]. Si è discusso molto sulle possibili evoluzioni delle tecnologie del Search Engine e di come esse possano essere implementate e impiegate, ma ancora oggi non esistono dei prodotti completamente funzionanti e funzionali alla pari dei maggiori motori di ricerca (Google, Yahoo, etc.). Da qualche anno ricercatori e sviluppatori stanno lavorando intensamente per la realizzazione di quello che Tim Berners-Lee ha definito come Semantic Web”: un’ infrastruttura basata su metadati per svolgere ragionamenti sul Web. In particolare, si intende la trasformazione del World Wide Web in un ambiente dove i do-


cumenti pubblicati (pagine HTML, file, immagini, etc.) siano associati a informazioni e dati (metadati) che ne specifichino il contesto semantico in un formato adatto all’interrogazione, all’interpretazione e, più in generale, all’elaborazione automatica. L’elemento innovativo risiede nella possibilità di effettuare ricerche molto più evolute di quelle attuali, basate su parole chiave e sulla costruzione di reti di relazioni e connessioni tra documenti secondo logiche più complesse del link ipertestuale. Gli elementi principali all’interno della logica del web semantico sono essenzialmente tre:

1. Metadati e Resource Description Framework (RDF); 2. XML; 3. OWL. I metadati sono informazioni, elaborabili in modo automatico, relative alle “risorse” presenti nella rete, identificate univocamente da un URI (Uniform Resource Identifier). La codifica di tali informaziona avviene attraverso la RDF, tecnologia basata su un modello molto semplice di “statement”, rappresentabili come triple (in termini più formali, una tripla forma un “grafo orientato etichettato”). Un ruolo di base è giocato da eXtensible Markup Language (XML), che consente di fornire ai documenti una struttura arbitraria, mentre RDF può essere usato per esprimere il significato, asserendo che alcuni particolari elementi hanno delle proprietà. Il livello ontologico è il contenitore che definisce in modo formale le relazioni fra i termini. Un’ ontologia permette di descrivere le relazioni tra i tipi di elementi senza però fornire informazioni su come utilizzare queste relazioni dal punto di vista computazionale. Il linguaggio individuato dal W3C per definire ontologie strutturate, in architettura Web, per consentire una migliore integrazione dei dati tra applicazioni in settori diversi è OWL (Ontology Web Language). Come sostiene Tim Berners-Lee, il Semantic Web potrà funzionare solo se le macchine potranno accedere a un insieme strutturato di informazioni e di regole di inferenza da utilizzare per il ragionamento automatico. La sfida del Semantic Web, quindi, è fornire un linguaggio che consenta l’esportazione sul Web delle regole da qualunque sistema di rappresentazione della conoscenza. Nel corso degli anni, oltre alle evoluzioni inerenti il web semantico, si sono sviluppate altre modalità per “cercare” e “rappresentare” la conoscenza disponibile in rete. Un esempio calzante sono alcuni motori di ricerca e applicazioni che rendono possibile una rappresentazione della ricerca in base alle mappe concettuali, termine coniato da Novak e Gowin della Cornell University. I due studiosi, partendo dalla

teoria cognitivista dell’apprendimento significativo, sostennero, sin dagli anni ‘60, che la rappresentazione grafica delle conoscenze “è un metodo per far emergere i significati insiti nei materiali da apprendere” in quanto invita a riflettere sulla tipologia delle conoscenze e sulle relazioni che vi intercorrono. La rappresentazione grafica spesso seguita da tali motori di ricerca richiama il processo di mappa concettuale, che prevede tre fasi principali:

1. Individuazione dell’inventario delle conoscenze; 2. Sistematizzazione delle conoscenze; 3. Rappresentazione delle conoscenze. La prima fase ha l’obiettivo di sintetizzare le conoscenze che si desidera mappare. La sistematizzazione prevede una vera e propria organizzazione delle informazioni in più livelli. Il passaggio, quindi, da un inventario a una categorizzazione non conclude il processo di mappatura delle conoscenze poiché non fa emergere i collegamenti e le relazioni tra le informazioni. Una volta organizzate le conoscenze e strutturate in differenti livelli si procederà quindi alla fase di costruzione grafica della mappa, quindi alla sua rappresentazione. Tale processo, all’interno dei motori di ricerca visuali, avviene in base alla area tematica e, in particolare, alla relazione tra key words. Un esempio di applicazione è Grokker (software creato dalla Groxis Inc.), motore di ricerca (apparso in versione demo nel 2003) che rappresenta i risultati sotto forma di mappa concettuale circolare. Tale applicazione non ha avuto grande riscontro in termini di pubblico e ha subito nel corso degli anni numerose evoluzioni, divenendo prevalentemente una applicazione desktop a pagamento. Nonostante ciò, alcune università si sono avvicinate a questo prodotto e hanno dato vita a nuovi software. Il caso più eclatante è quello della Stanford University che ha fondato il progetto “Stanford Grokker”: una partnership tra la Stanford University Libraries and Academic Information Resources (SULAIR) e Grokker. Per approfondire O.Signore, Introduzione al Web semantico, 2008 [rif. http://www.weblab.isti.cnr.it/research/] [http://www.w3.org/standards/semanticweb/] Tim Berners-Lee, L’architettura del nuovo Web, Feltrinelli, Milano, 2002 Davies, John, Towards the semantic web, J. Wiley, Chichester-Hoboken, 2003 http://library.stanford.edu/ Novak J. D., Gowin D. G., Imparando ad Imparare, SEI, Torino, 1989


business

Q

di Marianna Marra

uesto piccolo contributo è nato dalla volontà di partecipare al dibattitto avviato dalla rivista sui temi della gestione aziendale. In particolare nasce in seguito alla lettura del brano pubblicato su Brand Care magazine n° 002 (p. 78) da Marta Trotta e intitolato L’impresa ha un lato umano?.

Quando poco tempo fa la FIAT di Pomigliano d’Arco riapriva dopo tanti anni le porte dello stabilimento ai nuovi lavoratori, con la promessa di una nuova crescita per l’azienda e per il territorio, i giornali locali e i sindacati parlavano della volontà dell’azienda di rubare “l’anima dei lavoratori”. I lavoratori, secondo i commentatori, sarebbero stati privati dell’anima a causa della forte spinta all’automazione che caratterizzava il nuovo stabilimento. Paradossalmente, negli stessi anni, sulle riviste internazionali che si occupano di management ed economia sono cresciute le ricerche che mirano a studiare, e misurare, il ruolo che fattori intangibili come la creatività e la motivazione personale hanno sulla performance aziendale. Dico paradossalmente perché, in realtà, tanto la Fiat di Pomigliano, quanto le principali organizzazioni economiche che operano nel settore manifatturiero e dei servizi, svolgono oggi attività cosiddette knowledge-intensive. A seguito della forte introduzione di nuove e sofisticate tecnologie anche la forza lavoro operaia è chiamata ad acquisire nuove competenze per il funzionamento delle macchine.


Non so se ha senso parlare di etica nella gestione aziendale, ma sicuramente si può parlare e si può studiare già da tempo un nuovo modo di dirigere. Dirigere non vuol dire più, o non solo, prevedere e controllare, ma conoscere. Esiste un modo di dirigere che non è solo accentratore e verticistico, ma che adotta modalità di governance che partono dal basso per conoscere le reali istanze che caratterizzano i contesti sociali e territoriali delle aziende. Già il modo orientale e i modelli di lavoro e gestione giapponesi hanno dimostrato la validità di metodologie alternative a quelle fordiste, basate sul forte coinvolgimento, sulla responsabilizzazione del singolo fino a delegargli il potere di modificare sostanzialmente il corso del processo produttivo.

©Flickr-by Geek&Poke

Nella contemporanea economia della conoscenza ha ancora senso ragionare adottando un paradigma fordista? Credo di no, giacché il nuovo paradigma viene anche definito post-fordista o postsmithiano. L’estrema parcellizzazione delle mansioni ha lasciato il posto a interventi di allargamento delle stesse allo scopo di realizzare quel processo di delega che tende a far sentire ognuno di noi maggiormente coinvolto e pertanto responsabile di ciò che fa. Gli individui non sono più semplicemente ascrivibili alla categoria della “classe operaia”, e coloro che rivestono il ruolo di operai sono sempre più spesso lavoratori altamente specializzati che hanno fatto ricorso a forme di apprendimento, learning by doing etc. in cui hanno messo in gioco profondamente le loro competenze acquisendone di nuove: con buona pace di Henry Ford, sono continuamente disposti ad apprendere e migliorare.

si dei suoi lavoratori, che, pur se altamente specializzati, si rivelano pronti a intraprendere nuove strade conoscitive, ad apprendere nuove competenze. La stessa capacità è richiesta al management: essere in grado di reinventare il proprio business, di guardare altrove, di compiere valutazioni del potenziale sociale e territoriale, per rilanciare le attività economiche in tempi di crisi. Numerose realtà della manifatturiera e meccanica in Italia sono state in grado di farlo. Una gestione aziendale Sono convinta che non è unicamente alla soggettività o all’ani- adeguata dovrebbe essere in grado di assicurare l’efficienza ma dell’azienda che si debba guardare. L’azienda, in quanto or- e l’efficacia dell’organizzazione anche affrontando le necessità ganizzazione economica, mira al profitto e persegue quest’ul- dei lavoratori, ma non in termini assistenziali. Politiche ecotimo come obiettivo principale. Lo Stato dovrebbe intervenire nomiche adeguate a sostenere il mercato del lavoro con politiche più adeguate e non assistenzialiste come spesso in tempo di crisi dovrebbero essere complementari abbiamo avuto modo di osservare nel nostro Paese. A volte alle attività manageriali per sostenere il vantaggio sembra essere lo Stato ad assecondare l’inerzia dell’animo competitivo delle aziende. umano, mentre l’azienda è in grado di risvegliare gli interes-


comunicazione

Offerta e consumo dei contenuti televisivi tra logica database e processi di personalizzazione

C

di Luigi Granato

ol termine Palinsesto si definisce la disposizione in successione di un insieme di programmi (Contenuto) all’interno di una griglia temporale (Forma) secondo uno schema determinato (Logica). È buona norma partire sempre dalla definizione dell’oggetto esaminato al fine di fornire un buon “gancio” a cui appendere le argomentazioni che seguiranno. Non che il termine in questione sia così oscuro da meritare di essere definito. Ciascuno di noi, come telespettatore, sa cosa sia il palinsesto di un canale televisivo: la nostra mente visualizza subito una griglia con degli orari ai cui corrispondono determinati programmi. Quello che non ci è immediatamente chiaro (e che francamente ci interessa meno da telespettatori) è la logica con la quale i programmi sono distribuiti in tale griglia. La definizione iniziale ci è utile quindi nel delineare una questione preliminare che riguarda i differenti saperi che il concetto di palinsesto implica: uno più generico, legato a conoscenze sociali condivise, che attiene alla fruizione dei programmi; l’altro più specialistico, connesso a competenze professionali, riguardante l’offerta di contenuti. Queste due dimensioni si intrecciano e si


influenzano reciprocamente, come vedremo, in maniera endemica: non si può parlare di fruizione di contenuti televisivi a prescindere dalle forme entro cui, e dalle logiche con le quali, sono offerti al pubblico; così come non si può ragionare delle questioni riguardanti l’offerta senza tener conto dei soggetti e delle modalità della fruizione. Il tradizionale concetto di palinsesto, così come definito sopra, sta subendo a detta di molti una profonda crisi scandita principalmente da due ordini di fattori. Da una parte il graduale processo di convergenza offerto dai media digitali ha minato alla forma stessa del palinsesto, con i contenuti televisivi che “evadono” dalla griglia temporale; dall’altra la creazione di un ambiente televisivo multicanale, con la coesistenza di canali gratuiti del broadcasting e canali a pagamento del narrowcasting, ha mutato le logiche della programmazione televisiva. Entrambi i fattori hanno avuto delle ripercussioni irreversibili sia sul versante della fruizione, sia sul versante dell’offerta di contenuti televisivi. Molto si è detto a proposito delle nuove modalità di consumo dei prodotti televisivi offerte dalle tecnologie digitali, spesso con riflessioni eccessivamente entusiastiche. Riassumendo, si tratta in pratica della possibilità di evadere dalla “tirannia del palinsesto” consentendo una fruizione dei contenuti svincolata dalla rigida scansione oraria della programmazione televisiva. DVD, PVR (Personal Video Recorder), VOD (Video On Demand) e file sharing costituiscono strumenti e tecniche di disancoramento dal flusso televisivo e di conseguenza dalla rigida organizzazione del palinsesto. Il “quando” della visione, prima di esclusivo appannaggio dei network, può essere oggi facilmente bypassato dal pubblico. Ciò comporta un progressivo assottigliamento delle platee televisive. Alla simultaneità despazializzata si affianca (senza tuttavia sostituirla) una asincronia despazializzata che introduce nuovi modi di concepire la Tv. La riflessione sul tempo della visione chiama in causa anche il discorso relativo alla piattaforma attraverso cui i contenuti televisivi vengono consumati, con una pluralità di schermi che si aggiungono al classico schermo televisivo. Oltre a un’evasione dal flusso si ha dunque anche la possibilità di evadere paradossalmente dal mezzo televisivo. Dopo una prima fase di resistenza, anche i broadcaster si sono arresi ai nuovi scenari resi possibili dalla convergenza mediale, comprendendo che la visione dei programmi al di fuori del classico palinsesto televisivo, non può che essere una risorsa se considerata secondo un approccio congiuntivo piuttosto che sostitutivo. Ecco quindi sorgere una pluralità di modi di fruire la televisione: Rai, Mediaset e La7, hanno consentito di recente, complice l’estensione della banda larga, l’accesso gratuito ai propri contenuti televisivi direttamente attraverso i propri portali in streaming, la cosiddetta “Tv del giorno dopo”; Sky mette a dispo-

sizione dei propri abbonati la visione “in differita” attraverso il sistema di personal video recording (MySky) che consente, oltre a registrare i propri programmi preferiti su un hard disk interno e guardarli in un secondo momento, di fermare il flusso televisivo e di “riavvolgere il nastro”; Premium on demand di Mediaset permette infine di scegliere i contenuti da vedere direttamente da un archivio. Ad una logica del flusso tipicamente televisiva si affianca dunque progressivamente una logica del database, con la quale abbiamo familiarizzato in questi anni mediante l’uso delle tecnologie informatiche. Si parla dunque sempre più di diete mediali su misura e di palinsesti personalizzati che il singolo individuo costruisce secondo le proprie esigenze. Se tutto ciò è vero, è altrettanto vero che le differenti possibilità di fruizione elencate non si traducono in immediate pratiche di consumo socialmente consolidate. Una concreta fruizione dei contenuti televisivi disancorata dal palinsesto o su piattaforme differenti, coinvolge ancora fasce ristrette della popolazione. La stragrande maggioranza è ancora legata ad un uso tradizionale della televisione, con il suo schermo, i suoi appuntamenti, la sua visione rilassata da push media, che spinge cioè i suoi contenuti verso l’utente con un grado di interattività limitato. La seconda questione problematica in riferimento al palinsesto, quella legata alla creazione di un ambiente multicanale, è più vicina a tale uso socialmente condiviso del vedere la televisione. La proliferazione dei canali televisivi resa possibile dalla tecnologia satellitare prima e dal digitale terrestre poi è ormai un dato di fatto. Alle tradizionali reti del broadcasting si affiancano una miriade di altri canali che operano secondo la forma del narrowcasting. Nella cultura anglosassone il termine broadcasting (letteralmente “semina larga”) sta ad indicare il metodo di semina “a spaglio” con cui i contadini gettano i semi sul terreno, al quale viene opposto il termine narrowcasting (“semina stretta”). Fuor di metafora, i due termini si riferiscono ad una differente modalità di distribuzione dei contenuti televisivi: il primo in maniera indifferenziata verso un pubblico vasto ed eterogeneo; il secondo in modo preciso, rivolgendosi ad un pubblico più ristretto. Laddove il broadcasting è spinto da una logica di aggregazione di un pubblico disomogeneo al proprio interno, il narrowcasting opera in funzione di una scomposizione dell’eterogeneo in differenti nicchie omogenee di telespettatori. Le ripercussioni sul palinsesto sono evidenti e si manifestano su tutte e tre le componenti che concorrono alla sua definizione: contenuto, forma e logica. Conviene partire proprio dalla logica, dato che questa incide direttamente sui contenuti e sulla forma che assumono i palinsesti dei diversi canali. La logica del broadcasting si fonda sulla massimizzazione dell’ascolto: bisogna raggiungere una determinata quota di audience, variabile a seconda della fascia


comunicazione

oraria considerata. Le scelte di programmazione di una rete del broadcasting saranno quindi orientate a massimizzare il rapporto tra potenzialità di ascolto di un dato programma e fascia oraria, cercando di intercettare la domanda del pubblico nei vari momenti della giornata. La vocazione alla quale sono chiamati invece i network del narrowcasting è data dall’ottimizzazione della fruibilità. Il palinsesto in questo caso deve rispondere ad una logica differente: consentire agli abbonati di fruire dei contenuti per i quali hanno pagato un abbonamento tenendo conto delle esigenze di ciascuno e dei differenti ritmi di vita. La programmazione si fonda dunque sulla rotazione ravvicinata dei programmi nel palinsesto, ovvero sulla ritrasmissione dei programmi di maggior richiamo in differenti giorni e orari.

©Flickr-by kevindooley

Per quel che riguarda la natura di tali programmi, nella scelta dei contenuti da inserire in un palinsesto ciascun network deve tener conto del rapporto inversamente proporzionale tra l’ampiezza dell’offerta, ovvero i diversi generi di programmi, e la profondità, intesa come il numero di titoli per ogni genere. In questo senso il broadcasting privilegia l’ampiezza, dovendo soddisfare la domanda di un pubblico composito. È quella comunemente definita come Tv generalista (Rai Uno, Canale5) caratterizzata da una pluralità di generi ed un numero ridotto di titoli per ogni genere. A questa si contrappone la Tv tematica del narrowcasting che ribalta il rapporto tra ampiezza e profondità selezionando molti titoli di un solo genere. I canali vengono in questo caso raggruppati in categorie in base alla loro specializzazione declinata in base a contenuto e pubblico di riferimento: Cinema (Sky Cinema), Cultura (National Geographic, History Channel), Bambini (Cartoon Network, Playhouse Disney) ecc. Una terza via è data da un’offerta segmentata, che prende in considerazione pochi generi e un numero limitato di titoli per genere. Sono i canali più interessanti dal punto di vista dell’offerta dei contenuti, poiché si pongono a metà strada tra i canali generalisti e i canali tematici esaltando i pregi di ciascuno mediante un’offerta più variegata rivolta ad un target ben identificato. Ciò porta a una forte identità di rete e ad una maggiore fidelizzazione del pubblico. Esempi di questo tipo di offerta sono, in gradi differenti, Italia1 con un’audience modulata prevalentemente su un criterio anagrafico, i canali del gruppo Fox (Fox Crime, Fox Life ed FX) con un’audience suddivisa in base a sesso, preferenza di generi e stile di vita, e similmente i canali di Premium Gallery di Mediaset (Mya, Joy e Steel). Non è un caso che nei palinsesti dei canali segmentati il genere prevalente sia costituito dalle serie tv che, come si è visto (cfr. BCm 004), è un contenuto altamente fidelizzante. Per quel che riguarda la forma, ovvero la griglia temporale entro cui sono inseriti i contenuti televisivi, il palinsesto


varia a seconda dell’unità di tempo considerata. Il palinsesto annuale e quello stagionale delineano in maniera generale la linea editoriale del canale; al palinsesto mensile, settimanale e giornaliero sono collegate invece le scelte di programmazione vera e propria. I network generalisti del broadcasting curano particolarmente il palinsesto giornaliero e quello settimanale. Il palinsesto giornaliero viene suddiviso in diverse fasce orarie, tre in particolare: daytime, primetime e nighttime. Lo scopo è quello di offrire alle persone che si trovano davanti al televisore in una data fascia oraria dei programmi che possano in-trattenerli il più possibile. Il palinsesto settimanale viene utilizzato, in primo luogo per diversificare l’offerta nella fascia di maggior ascolto (prime time) con generi di programmi a cadenza settimanale, e secondariamente per distinguere la programmazione feriale da quella festiva mediante una programmazione a striscia nel daytime con programmi quotidiani. Le reti del narrowcasting avvertono invece come prioritario il palinsesto mensile, dato che è il mese il periodo minimo di abbonamento in base al quale è calcolato il prezzo. In questo caso la programmazione non considera tanto l’ascolto nei singoli segmenti orari, quanto il tasso di abbonamento e di rinnovo che è legato direttamente al grado di soddisfazione degli abbonati. Inserire nel palinsesto mensile contenuti appetibili, attraverso un’offerta esclusiva (calcio e cinema in prima visione) o semplicemente mediante la valorizzazione di contenuti “maltrattati” dalla Tv generalista (documentari, serie tv straniere, informazione obiettiva, ecc.) diventa l’obiettivo primario delle reti del narrowcasting. In questo senso il palinsesto, da semplice griglia oraria, diventa uno strumento di rafforzamento dell’immagine del network e dalla forte valenza strategica per un posizionamento efficace in un ambiente sempre più affollato. Come appare evidente quindi, il palinsesto più che una crisi sta affrontando un processo di cambiamento in linea con i tempi dettato in parte dall’integrazione con la forma database, e in parte dai processi di personalizzazione. Per approfondire M. Buonanno, L’età della televisione. Esperienze e teorie, Laterza, Roma-Bari, 2007 C. Dematté, F. Perretti, Economia e management della televisione, Etas, Milano, 2009 E. Menduni, I linguaggi della radio e della televisione. Teorie, tecniche, formati, Laterza, Bari, 2008 A. Marinelli, Connessioni. Nuovi media, nuove relazioni sociali, Guerini e associati, Milano, 2004 N. Rizza, Costruire palinsesti. Modalità logiche e stili della programmazione televisiva tra pubblico e privato, Rai-Eri, Roma, 1989 J.B. Thompson, Mezzi di comunicazione e modernità. Una teoria sociale dei media, Il Mulino, Bologna, 1998

©Flickr-by kevindooley


tecnologie e web

A

di Mario Bellina

dobe Flash è un software di grafica vettoriale, pensato per il web. È arrivato come un lampo nel 1996 ad abbagliare il mondo dei cartoon e grazie alle sue peculiarità si è imposto come agente di una rivoluzione produttiva e “culturale” dando vita alla “Flash Animation”: una nuova tecnica capace di rinnovare il mondo dell’animazione a tal punto da definire se non un nuovo genere, sicuramente una nuova estetica, quella che ai fini della nostra analisi

definiremo del Flash Toon. Con questo termine non ci si riferisce a qualunque produzione realizzata in Flash, poiché esso come programma di animazione vettoriale (paperless) permette di realizzare filmati non riconducibili a un unico marchio stilistico. Riferendoci al Flash Toon ci si limita a prendere in esame un tipo di animazione con delle caratteristiche peculiari, figlie delle specificità del software e del contesto creativo in cui si sono sviluppate. Flash ha imposto infatti ai suoi primi sperimentatori uno stile a partire dai suoi limiti, basato su linee semplici e


nette e colori piatti. Ha riportato l’animazione alla semplicità delle sue origini e proposto un diverso modello di interpretazione del disegno animato, recuperando l’immaginario dei fumetti, ormai accreditati come forma d’arte amata anche dagli adulti. E appunto i primi sperimentatori hanno deciso di utilizzarlo per realizzare cartoon per un target maturo, legando temi adulti a uno stile grafico e d’animazione che sembrava fatto per essi, che esplicitava attraverso la sintesi del tratto e la limitatezza dell’animazione l’ironia e la crudezza delle storie raccontate. Nasce così il Flash Toon, un prodotto animato dall’estetica definita, capace di trascendere il software da cui prende il nome ed essere adottato da tecniche più “nobili”. La genesi A fine millennio si è avuto il boom di serie animate per adulti come I Simpson o South Park, (non a caso proprio gli autori di quest’ultimo saranno tra i primi ad adottare Flash) e della rete. Autori classici come Bruno Bozzetto sperimentano con successo il binomio Flash e web, mentre nuovi portali come Shockwave e Atomfilms vengono lanciati come aggregatori di animazioni homemade, realizzate da autori spesso esordienti. È in questo contesto che si definisce l’estetica del Flash Toon, con caratteristiche originarie ben sintetizzate dalla prima serie Flash della storia: The Goddamn George

Liquor Program di Kricfalusi, già autore del celebre Ren & Stimpy per Nickelodeon. Un primo esempio della relazione forte tra forma e contenuto del Flash Toon che conferma quanto affermato dal cartoonist Scott McCloud, ovvero che lo stile grafico dei cartoni animati ne indica il contenuto. A colori piatti e animazione scarna fanno da contrappunto scene poco elaborate, crude e grottesche. Un binomio forma-contenuto che al suo arrivo nei computer casalinghi spiazza l’utente che non ne comprende da subito l’ironia. A partire dalle prime sperimentazioni il FlashToon sembra però prendere piede e scavarsi una nicchia ben definita di pubblico con una collocazione online. Nel rapporto formacontenuto si definisce un’estetica che al pari di un “codice”, riconoscibile grazie alle sue peculiarità, lo porterà nella sua migrazione mediatica in TV a ridefinire i canoni del cartoon per adulti. © Matt Groening


tecnologie e web © Kenn Navarro e Rhode Montijo

Gli elementi distintivi dell’estetica del Flash Toon delle origini

l’animazione, alle prime forme di sperimentazione.

Brevità. Il Flash Toon nasce per la rete, di conseguenza la brevità ne è un carattere fondante. Una necessità per uploadare il video sul web, che si sposa con le modalità di fruizione del canale (dai tempi di caricamento alla scarsa soglia d’attenzione dell’utente medio). Essa si è dimostrata funzionale agli argomenti trattati nella ricerca d’essenzialità oltre che fondamentale per tener bassi costi e tempi di produzione. La brevità ha imposto alcune delle caratteristiche drammaturgiche del Flash Toon spingendo gli animatori a puntare sull’esasperazione caAnimazione. La modalità operativa che maggiormente ricaturale, trasformando in forza la necessità di frazionamento rappresenta il Flash Toon è l’animazione limitata che aveva temporale del narrato, dettata da una fruizione inevitabilmente spopolato tra gli anni ‘60 e gli ‘80, utilizzata da studi quali frammentata e ipervelocizzata, tipica del web. Proprio queste Hanna&Barbera. La scelta degli animatori in Flash di riappli- peculiarità detteranno alle animazioni una delle necessità carla alla nuova tecnica è scontata, dettata dagli stessi motivi drammaturgiche che le caratterizzeranno maggiormente, quelper cui era stata ideata in origine: la riduzione di costi e tempi la di vivere e costituirsi tramite gag che, oltre a divertire, stupidi lavoro. Ritroviamo nei Flash Toon l’uso di disegni sempli- scano il pubblico proiettandosi fuori dagli schemi. ci e stilizzati, i movimenti limitati, l’utilizzo all’eccesso dello stesso disegno e la diminuzione del numero dei disegni per Tematiche. Riprendendo quanto detto da McCloud sul secondo. rapporto forma contenuto nei cartoni animati se, come detto, la forma del Flash Toon può essere definita da crudezza Essenzialità. Altra caratteristica è la semplicità grafica e ed esasperazione grafica, limitatezza dell’animazione e scarnarrativa. Nasce anch’essa dal bisogno di ridurre al minimo sa fluidità del movimento, il contenuto non dovrebbe essere tempi e costi ma ne diventa un valore espressivo quando si troppo rassicurante. Il già citato The Goddamn George Liquor lega a un’altra peculiarità: la brevità. Ambedue asservite allo Program, ha non a caso per protagonista il prototipo dell’amesviluppo tematico della storia narrata. Non a caso, una delle ricano violento, stupido e alcolizzato, e man mano che il Flash maggiori serie di successo, Xiao Xiao, racconta le avventure si diffonde proliferano gli antieroi. Contenuti irriverenti, ironici di uno stick-man combattente, un uomo ridotto all’essenziale, e graffianti saranno i primi figli di Flash. Argomenti scandalosi animato in maniera essenziale. Un ritorno al grado zero del- e “diseducativi” si diffondono online e prosperano attraverso Resa grafica. Pur se Flash ha dimostrato di saper superare brillantemente i suoi limiti tecnici, il Flash Toon per eccellenza gioca proprio su di essi. Contenuti crudi devono essere resi con un disegno crudo. Grafica essenziale, colori piatti, linee nette, il tutto accompagnato da un movimento poco fluido e a scatti, giocato su movimenti basici di inquadratura, lo caratterizzano.


il passaparola degli utenti. Solo dopo una loro demonizzazione iniziale da parte del pubblico dei“non iniziati” si passa a una lettura più ironica, si comprende che l’esasperazione della crudeltà immotivata o l’iperviolenza, non vanno intese come un tentativo di esaltazione ma come denuncia dell’assurdità del reale, trasposte in una sfera surreale. Il Flash Toon costruisce così la sua identità puntando sulle proprie caratteristiche tecniche e su quelle del web, unico mezzo di comunicazione a disposizione dell’utente che può esprimere la sua opinione su ciò che lo circonda in modo creativo. Al pari dei primi Flash Toon, un gran numero dei più recenti sono caratterizzati da una forte carica dissacratoria, parodistica e ironica. Essi si fondano sull’esasperazione dei contenuti, legata alla costruzione umoristica e ai suoi eccessi, facilitata dalle peculiarità dell’animazione che più di ogni altra arte filmica permette di creare e inventare, favorendo l’estremizzazione grafica e caratteriale di personaggi e situazioni. Ecco quindi l’affermarsi di sottogeneri come lo splatter, il macchiettistico o il kawaii, spesso legati tra di loro per meglio rendere l’effetto umoristico. Dalle avventure amorose di Pucca alla violenza casuale e immotivata degli Happy Tree Friends, dalle parodie politiche di Jib Jab alle perversioni surreali di Salad Fingers. Target. Il Flash Toon nasce con un target di riferimento ben preciso: gli studenti dei college americani. Nell’ultima decade, esso si è ampliato e diversificato grazie alla diffusione capillare del web, ma non è variato molto. È un target giovanile composto da adolescenti e “giovani adulti”, studenti liceali e

universitari che a volte si trasformano anche in autori. È ovvio come tale tipologia di fruitori definisca la varietà di argomenti trattati e le modalità enunciative. Interattività. L’interattività è la capacità di costruire animazioni che si modifichino in base al feedback diretto del fruitore. Spesso gli autori di Flash Toon la utilizzano al fine di instaurare un rapporto diretto con il pubblico. Kricfalusi ad esempio nella sua serie Weekend Pussy Hunt aveva reso alcuni elementi dell’animazione interattivi: nel primo episodio se lo spettatore in un determinato momento avesse cliccato con il cursore sul cane protagonista, esso avrebbe vomitato, a un secondo click avrebbe rimangiato quanto rimesso. Applicazioni. Un’altra osservazione riguarda le piattaforme attraverso cui si è costruita l’estetica del Flash Toon. Attraverso il web, vero e proprio luogo dedicato alla sperimentazione, spazio aperto in cui poter uploadare i propri lavori e ricevere feedback. Web che ne ha favorito la proliferazione e dove il Flash Toon ha saputo inserirsi, anche nella forma di istant game, sfruttandone i metodi virali di diffusione. E dal web spesso i Flash Toon, si sono spostati su altri canali, primi tra tutti i cellulari. Riadattati registicamente, con inquadrature più strette e l’eliminazione di campi lunghi, ma con la stessa carica umoristica che li contraddistingue. Fino a qualche tempo fa l’animazione Flash era connotata da quella che era definita un’estetica del “brutto” sia per tecnica che per qualità dei contenuti, motivando tali caratteri, tutti negativi, con i limiti fisici di Flash o la scarsa professionalità degli autori. Eppure la varietà di opere prodotte e la loro © David Firth


tecnologie e web © Vooz

che prima tra tutti ne ha ospitato i prodotti, definendone gli standard e il formato, ovvero il web. Eppure tutti questi limiti, superati man mano che il software veniva implementato, che accanto a esso se ne aggiungevano altri di grafica o di postproduzione, e grazie alla moltiplicazione delle piattaforme per cui veniva utilizzato (persino il cinema), erano destinati a fissare uno standard, uno stile ancora in evoluzione con un suo codice al quale, e non deve sembrare incredibile, si rifanno oggi anche autori che non animano in Flash. Il Flash Toon, insomma, è un codice connotato da un linguaggio originale,   a   volte violento e viscerale, capace forse più degli altri di coinvolgere un pubblico vasto senza farsi classificare come infantile, né rischiare di apparire vuoto per l’eccessiva magnificenza grafica.

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diversità dovrebbe essere un indizio del fatto che questo tipo di definizione parta da un’analisi sbagliata. E ancora il sempre maggior utilizzo di Flash nell’animazione televisiva e per bambini, e la commistione sempre più diffusa tra Flash Animation, animazione tradizionale e computer grafica, mostrano come esso possa essere utilizzato per realizzare opere che non siano né scarne né piatte e dai contenuti rassicuranti e addirittura educativi. Se si aggiunge che alcune serie televisive, sempre più spesso non si distingue se siano realizzate in Flash o   in   tradizionale,   viene spontaneo   interrogarsi sull’esistenza o meno di un’estetica di Flash, limitata, grottesca e politicamente scorretta, così come comunemente  intesa. L’estetica di quello che abbiamo definito Flash Toon e che abbiamo esaminato, a dispetto della pessima reputazione, cercando di evidenziarne in positivo gli elementi costitutivi. Elementi che trovano origine in alcuni dei limiti originari del software come la rigidità o la piattezza dei colori o nei limiti tecnici della piattaforma



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I

Design ed estetica dell’audiovisivo

di Claudio Biondi

l termine originale inglese design ha soprattutto la connotazione che in italiano usiamo tradurre con industrial design, indicando l’attività necessaria a risolvere i complessi problemi di produzione legati al tentativo di migliorare l’ergonomia e il valore d’uso da parte degli utenti di un determinato prodotto.

L’industrial design, infatti, si occupa della forma dell’oggetto in relazione non soltanto alla sua funzione ma anche a tutti i problemi legati alla sua promozione (indagini di marketing, pubblicità, ecc.) e distribuzione ( imballaggio e trasporto, sostenibilità ambientale e così via). Il lavoro di un designer (che è quasi sempre eseguito da una equipe di specialisti dei vari settori che interagiscono tra loro) consiste nell’occuparsi di tutto il processo produttivo di un determinato bene materiale, dalla fase di ideazione (concept) a quella finale distributiva passando attraverso tutte quelle intermedie di progettazione, pianificazione, sviluppo e ingegnerizzazione mediante le quali, e per stadi successivi, attraverso piccole modifiche e aggiustamenti, si tende a raggiungere il maggior risultato economico possibile impiegando il minimo di risorse necessarie. Si finisce, in tal modo, per dover tener presenti tutti i problemi connessi alla produzione, anche se non immediatamente riconducibili alla fattispecie di oggetto


che si sta producendo, analizzando i problemi di comunicazione visiva, di multimedialità e interattività, sviluppando le competenze necessarie per progettare le interfacce afferenti al prodotto o ai servizi a esso connessi. Se, dunque, per design può intendersi qualsiasi attività di progettazione, si può affermare che l’industrial design ne costituisca la forma più estesa e minuziosa dal momento che, mentre il progetto può limitarsi a un modello mediante il quale le caratteristiche dell’oggetto siano abbastanza facilmente riconoscibili, l’industrial design comprende l’analisi di tutti i fattori che insistono sulla produzione e commercializzazione di un bene. In altre parole, è lecito riferirsi a un’attività di design ogni qual volta si progetta qualcosa, ossia si compie un’attività in grado di delineare un modello – attraverso l’applicazione appropriata di norme tecniche, calcoli e specifiche – rigorosamente corrispondente a tutti i processi necessari affinché una qualsiasi cosa venga ad esistere. Ma in che modo il design (anche nella sua accezione di industrial design) può applicarsi a quel particolare tipo di produzione che si occupa di audiovisivo (film, tv, gioco interattivo e quant’altro) e che sembra sottrarsi a ogni regola economica e a ogni impaccio progettuale? E, prima di tutto, è lecito applicare tale concetto ad un tipo di produzione in cui le necessità estetiche e comunicative si ritengono (non sempre a ragione) predominanti? La risposta non può che esser positiva per ambedue le questioni e va ricercata proprio nel carattere specifico che connota tale tipo di produzione, cioè la trasformazione di dati qualitativi in dati quantitativi. Si potrebbe obiettare che tale trasformazione riguarda tutti i processi produttivi, nel senso che una progettazione è protesa a indicare un certo numero di quantità mediante le quali il bene potrà essere prodotto con una certa qualità. Un edificio, una strada o un pasto corrispondono a una determinata quantità di materiali, di ore di lavoro, di materie prime, ecc. e la loro qualità è – in massima parte – affidata a quelle quantità, oltre che naturalmente alla giusta esecuzione dei processi produttivi descritti e descrivibili. Il che è certamente vero se non si tiene conto del processo alchemico che regola l’economia della creatività consistente nella trasformazione di quantità materiali in qualità immateriali. Nella produzione di artefatti espressivi, quali un libro, un disco, un film o una performance teatrale, le quantità impiegate non bastano, da sole, a raggiungere la qualità progettata. Ciò dipende dal fatto che la qualità (allargandone il significato al valore d’uso) di un artefatto espressivo è in massima parte soggettiva mentre quella di un bene materiale o di un servizio possono ragionevolmente assumersi come oggettive: l’uso di un’auto o di una stanza è abbastanza comune a chiunque utilizzi il mezzo o abiti il locale; l’’emozione derivante dal vedere un film o dal

leggere un libro, invece, è diversa per quanti e per ciascuno veda il film o legga il libro. Per tale motivo (ma anche per l’endemica mancanza di cultura produttiva che affligge il nostro Paese) in molti credono che la progettazione (il design) di un artefatto espressivo abbia poca o nulla importanza in quanto la sua qualità resterebbe affidata al “genio” dell’autore molto più che a qualsiasi sforzo progettuale. Ovviamente sbagliano: è proprio la natura immateriale del prodotto audiovisivo e l’alto grado d’imprevedibilità del risultato (estetico ed economico) a rendere necessaria una minuziosa attività di design. Con l’aumentare del grado di imprevedibilità del processo produttivo, l’attività di progettazione – che comprende quella di pianificazione – è sempre più destinata ad assumere anche un valore specifico di controllo inteso a ridurre l’alea del rischio produttivo. A differenza degli altri tipi di produzione, quella audiovisiva risulta infatti caratterizzata da un andamento del flusso di cassa (Cash Flow) del tutto anomalo in quanto concentra, in una fase di produzione relativamente breve (le riprese), la maggior parte del fabbisogno di cassa (circa il 65%). La conseguenza di tale andamento – peraltro legato all’altra sua caratteristica, costituita dal prevalere del costo del lavoro su tutti gli altri tipi di costo – è data da un’obiettiva difficoltà di controllo che può essere ridotta notevolmente solo mediante un modello d’andamento che risulti elaborato a partire da una rigorosa analisi di tutte le componenti progettuali. D’altra parte, il sorgere in parecchie università italiane di corsi di laurea specifici dedicati al design della comunicazione, indica chiaramente quanto sia erronea la convinzione che gli artefatti comunicativo-espressivi si facciano da soli. Eppure, per quel che riguarda la produzione cine-audiovisiva (film o serie tv), poco o nulla si è ancora mosso.

Il design della comunicazione si occupa di prodotti editoriali, segnaletica stradale, eventi museali, di sistemi di identità visiva per aziende ed enti culturali, di comunicazione sociale, di interfacce comunicative, ecc., mentre la produzione audiovisiva resta affidata, in genere, a singole professionalità formate in scuole specifiche (ad es.: il Centro Sperimentale di Cinema, a Roma).


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© Claudio Biondi

“scoperto” (almeno nell’area europea non anglo-culturale) il ruolo di designer. È impossibile dunque indicare un designer di un film e descriverne il ruolo e le funzioni? Non è del tutto esatto e basta guardare alle modalità di produzione dell’industria cinetelevisiva americana per rendersene conto. La diversa impostazione che in questa cultura è data all’origine del diritto d’autore consente infatti al produttore del film di esercitare un vasto controllo, non solo sulle componenti economiche della produzione, ma anche se non soprattutto (basti pensare alla facoltà del final cut – montaggio finale - detenuta e fortemente protetta dai produttori americani) sui contenuti espressivo-comunicativi dell’opera. Il che comporta, da parte del produttore, una responsabilità a trecentosessanta gradi su tutto il processo produttivo: dalla scelta del soggetto all’impostazione del cast, dalla scelta del regista e degli altri autori alla determinazione dei mezzi finanziari necessari, dall’organizzazione dei tempi e delle modalità di lavorazione alla campagna di promozione e di distribuzione del film. Il che, nel particolare campo produttivo di cui ci stiamo occupando, corrisponde pienamente alla complessità e alla varietà di temi che risultano presenti in ogni attività di industrial design.

Nell’industria cinetelevisiva il termine “production design” è riferito e circoscritto all’attività che riguarda esclusivamente gli elementi scenografici, i costumi e il trucco degli attori. Il coordinamento tra questi elementi visivi, il clima fotografico e tutti gli altri elementi che ne compongono forma e sostanza (storia, interpretazione, suono, musica, ecc.) viene fatto dal regista, che potrebbe esser considerato il vero designer dell’artefatto che si sta producendo se non si limitasse ai soli aspetti estetici. Questo fa sì che il regista sia soprattutto un direttore delle attività artistiche che Personalmente ho avuto modo di fare questa esperienza una sono impiegate in una produzione audiovisiva (e quindi, a sola volta nella mia vita professionale, quando mi fu affidata la mio personale parere, l’unico autore dell’opera) mentre resta produzione esecutiva de I Misteri della Giungla Nera, © Claudio Biondi


© Claudio Biondi tratto dall’omonimo romanzo di Salgari, la cui lavorazione si svolse in India dal maggio del 1989 al febbraio del 1990. Durante i sopralluoghi effettuati nel maggio del 1988 dovetti ben presto accorgermi che la visione dell’India data da Salgari era molto fantasiosa, a partire dall’inesistenza di una vera foresta che potesse denominarsi giungla (che infatti si dovette “ricostruire” mediante accorgimenti scenografici). Inoltre la descrizione dei Thug, non corrispondeva né ai dati storici, né al modo di operare di questa setta dedicata al culto della dea Kali, il che comportò un accurato lavoro di revisione della sceneggiatura a partire da una vasta opera di ricerca storica e iconografica eseguita dal più qualificato esperto italiano di cultura indiana, Antonio Monroy. Il progetto era partito per avere uno sfruttamento commerciale internazionale comprendente anche il mercato anglofono e ciò bastò per far decidere ai produttori (Rai e Rcs-Italia, ZDF-Germania, TF1-Francia e TVE-Spagna) di

affidare la regia a Kevin Connor, che poteva assicurare la collaborazione di alcuni attori e tecnici creativi inglesi e americani. Si trattava di una produzione haute de gamme, in costume e interamente ambientata nell’India di fine ‘800, con una varietà notevole di ambienti che andavano dal cantonnement (sede amministrativo-militare della Compagnia delle Indie) ai templi indiani, dai palazzi reali alle prigioni, dagli esterni di fiumi, laghi e cascate a quelli delle residenze civili inglesi, dalle spiagge al deserto. Ambientazioni che, in vario modo, esistevano nell’intero paese, tra Calcutta e Bombay (ora Mumbay), tra Goa e Varanasi, tra Jabalpur e Hyderabad. Questo, però, non aiutava affatto. Anzi, il solo pensare di dover dividere la lavorazione in location che distavano tra loro dai 600 ai 1500 chilometri era una idea pazzesca e completamente irrealizzabile. Alla fine di tre mesi di sopralluoghi effettuati assieme al regista e al production designer, finalmente riuscimmo a scovare nella città di Mysore e nei suoi immediati dintorni almeno l’ottanta percento delle location e una sorta di teatro di


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posa dove si potevano ricostruire quegli ambienti assolutamente non più reperibili nell’India attuale. Inoltre, la sceneggiatura prevedeva – oltre a scene di massa e di azione abbastanza complesse – alcune situazioni in cui due tigri avrebbero dovuto “recitare” live assieme ad alcuni attori e controfigure e per questo fu necessario acquistare due cuccioli un anno prima delle riprese in modo da poterli adeguatamente addestrare. Infine, si aggiunga: la diversa concezione culturale, amministrativa e burocratica indiana, il cibo diverso, i periodi monsonici che dovevano essere evitati, la composizione del tutto eterogenea della troupe (formata da 140 membri di cui solo 12 italiani tra cui il direttore della fotografia, Beppe Maccari e il line-producer, Paolo Fabbri) e ci si potrà fare solo una vaga idea delle difficoltà e dei problemi produttivi che è stato necessario affrontare e risolvere. Ovviamente il superamento di tali questioni sarebbe stato impossibile senza l’elaborazione di un accurato studio di fattibilità che tenesse conto di tutte le componenti economiche, organizzative, logistiche, amministrative, legali e finanziarie, temporali e artistiche che discendevano dal progetto e, a ben guardare, tutto questo somiglia tantissimo ad un’azione di industrial design. Poiché le maggiori responsabilità creative, a parte la sceneggiatura e la fotografia, furono affidate a personale anglo-americano e indiano, ben presto si creò, a mia iniziale insaputa, © Claudio Biondi


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un’atmosfera creativo-operativa del tutto simile a quella che caratterizza le produzioni americane e di cui mi accorsi soltanto quando (con stupore) si cominciò a sottopormi decisioni di squisito contenuto estetico quali revisioni di scene, scelte di location, disegni di costruzioni da realizzare, fino alla richiesta di recarmi a Londra dove si stavano confezionando i costumi su cui avrei dovuto dare un mio parere in particolare su quelli destinati a Virna Lisi. Qualche anno dopo, incontrai in Tunisia il regista, con il quale nel frattempo si era costruito un rapporto amicale, e gli chiesi come mai tante volte fossi stato chiamato perfino sul set a dare un mio parere su scelte che, abituato alla produzione italiana, avevo sempre pensato fossero di esclusiva pertinenza del regista. Kevin, a sua volta stupito della mia domanda, mi rispose che sarebbe stato impossibile realizzare una produzione di tale complessità (interamente girata in India, ispirata ad un romanzo italiano, con una troupe composta da americani, inglesi, italiani, tedeschi, francesi e indiani, prodotta per il mercato europeo, ma con uno sguardo a quello americano, con notevoli difficoltà di realizzazione e con un’amministrazione che doveva tener conto di ben cinque diverse monete) senza quello studio di fattibilità che era stato preparato a partire dalla ricerca storico-iconografica, dai sopralluoghi fatti, dalle informazioni tecniche e burocratiche ricercate e ricevute in loco, dal coordinamento dei set nella location che poteva contenerle quasi tutte e dalla previsione di tutti gli aspetti economico-finanziari presenti. Era stato quello studio di fattibilità che aveva costituito il modello di base su cui tutte le operazioni di approvvigionamento delle risorse, di preparazione e di riprese erano state effettuate e dunque – aggiunse – era perfettamente normale che ci si rivolgesse a colui che era, in fin dei conti, il responsabile globale della produzione, avendone seguito e determinato fin dall’inizio tutte le fasi di realizzazione. Resta il fatto, però, che tale esperienza fu del tutto casuale e legata alle particolari condizioni in cui quella produzione ebbe luogo. E resta il fatto che ancora in nessuna università o centro didattico sia sia affrontata con i dovuti mezzi la possibilità di estendere alla produzione audiovisiva i metodi e le competenze dall’industrial design. Almeno per quel che mi consta. Per approfondire AA.VV., Managing in the Media, (a cura di Peter Block), Focal Press, 2001 Richard E. Caves, L’industria della creatività, economia delle attività artistiche e culturali, Etas, 2001 Mario Morcellini, Industria culturale, TV e tecnologie tra XX e XXI secolo , Carocci, 2005.

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perchÉ il suono può essere progettato come un oggetto

di Pasquale Napolitano

ermini come progettazione sonora, paesaggio sonoro, o ancora meglio sound-design, rischiano di essere sinonimi di mode culturali più o meno effimere se non adeguatamente contestualizzate e calate all’interno delle categorie che stanno a cavallo tra suono, musica e spazio.

Lo studioso e compositore Raymond Murray Schafer, attraverso i suoi studi di ecologia acustica, ha analizzato il paesaggio sonoro che ci avvolge, ha provato a dare forma a tutta quella temperie di suoni, rumori, segnali di matrice acustica che sono presenti in una situazione o in un luogo, di fatto connotandoli. In particolare, egli individua lo sfasamento della realtà acustica nel concetto di schizofonia. Con questo termine il musicologo canadese intendeva: “la frattura esistente tra un suono originale e la sua trasmissione o riproduzione elettroacustica”. Secondo Schafer, inizialmente “I suoni erano indissolubilmente legati al meccanismo che li aveva prodotti […] Dopo l’invenzione delle appa-


La conseguenza diretta della schizofonia è la nozione di acusma, elaborata da Pierre Schaeffer nel Traité des Objets Musicaux (1967). Il termine deriva da acusmatica, cioè il nome che i discepoli di Pitagora avevano dato alle sue lezioni, che venivano ascoltate mentre il maestro era celato dietro a un velo. Senza vederlo, come ricorda Schaeffer, veniva restituito all’udito la totale responsabilità di una percezione che normalmente si appoggia ad altre testimonianze sensibili. L’acusma, quindi, è una presenza sonora in assenza della sua sorgente e che, in quanto tale, può intrattenere rapporti “innaturali” con altri corpi, con altri contesti, con altre sonorità. L’innaturalità dell’acusma risiede nel fatto che un suono, attraverso attrezzature e procedimenti tecnici, può essere separato dal suo corpo-sorgente, dalla cui vibrazione era stato prodotto, e che può successivamente venir

riprodotto da un corpo-macchina. Questo non ha col suono alcun legame naturale ed esclusivo, poiché può riprodurre indifferentemente qualsiasi suono, rumore o voce. Oggi, noi continuamente presentifichiamo l’esperienza degli allievi di Pitagora ogni giorno attraverso media come Tv, Radio, Internet e, non da meno, le tecnologie di registrazione. Ora, quali sono le conseguenze di una situazione acusmatica? La pure écoute, innanzitutto (l’ascolto puro): spesso, per riconoscere un suono, un aspetto importante consiste nell’identificazione attraverso la vista della sorgente sonora. Nel momento in cui non è possibile vedere ciò che “suona”, ci si accorge che ciò che era “ascoltato” in realtà era “visto” e inserito in un contesto. L’ascolto puro sopprime i supporti dati dalla vista per identificare le fonti sonore. Un’altra conseguenza dell’esperienza acusmatica è l’écoute des effets (l’ascolto degli effetti), cioè la dissociazione della vista e dell’udito, favorendo l’ascolto delle forme sonore per loro stesse (quindi dell’oggetto sonoro). Pierre Schaeffer aveva intuito l’esistenza di questo fenomeno quando ha descritto le variations de l’écoute. Infatti, attraverso l’ascolto ripetuto di uno stesso frammento registrato, si verificano delle variazioni dell’ascolto, dovute a direzioni ogni volta diverse, “rivelanti ogni volta un nuovo aspetto dell’oggetto, verso cui la nostra attenzione è deliberatamente o incoscientemente impegnata”. Un’ultima conseguenza dell’acusmatica sono les varia-

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recchiature elettroacustiche per trasmetterli e conservarli, tutti i suoni, per quanto labili, possono venir amplificati e diffusi ovunque o essere immagazzinati su nastro o su disco per le generazioni future”. Con malcelata nostalgia, egli conclude: “abbiamo disgiunto il suono dalla sua dimora abituale e gli abbiamo conferito un’esistenza amplificata e indipendente” (R. M. Schafer, 1985, Il paesaggio sonoro, Milano, Ricordi, p. 131). Si verifica, così, proprio quello che Heidegger riteneva improbabile, i suoni si staccano dal loro corpo-origine e, perdendo il loro legame con il corpo e con il luogo, diventano “suoni puri”.


culture

tions du signal. Questa interessa, più che l’ascoltatore, il produttore del suono, riguarda, infatti, la possibilità di intervenire su di esso e manipolarlo: possiamo fare diverse registrazione dello stesso evento sonoro, possiamo aumentarne o diminuirne la tonalità, possiamo tagliarlo, possiamo presentare al pubblico diverse versioni dello stesso fatto acustico (P. Schaeffer, 1967, Traité des objets musicaux). Alla luce di queste ultime considerazioni, è lecito chiedersi se è giusto parlare dello stesso “oggetto sonoro”, quando l’esperienza acusmatica può restituirci dello stesso suono differenti versioni. La chiave interpretativa di questo problema va cercata attraverso un cambiamento cognitivo, che si consoliderà nelle seconda metà del Novecento come anche un cambiamento progettuale, quello che porterà al consolidamento della disciplina del sound-design. L’ “oggetto sonoro” va pensato e progettato, rispetto alla partitura musicale (si pensi tal proposito alle istallazioni sonore o alle sound-sculptures), a partire da una diversa disposizione all’ascolto: percepiamo infatti un “oggetto sonoro” tramite un particolare approccio, definito “ascolto ridotto”. Schaeffer distingue quattro principali modalità di ascolto, risultanti dall’incrocio di due dualismi che si incontrano universalmente in ogni attività percettiva: il dualismo Astratto/Concreto e il dualismo Oggettivo/Soggettivo (che consiste nel confrontare l’oggetto della percezione e l’attività della coscienza che percepisce). I quattro ascolti sono così suddivisi: Ascoltare (Concreto/Oggettivo); Udire (Concreto/Soggettivo);

Sentire (Astratto/Soggettivo); Capire (Astratto/Oggettivo). All’interno di questi quattro settori, Schaeffer individua due coppie di ascolti opposti: naturale e culturale, banale e pratico. Queste due coppie di ascolti funzionano insieme, in concorrenza o in associazione: queste nozioni servono a delucidare il funzionamento dell’ascolto, per arrivare a cogliere l’originalità dell’ascolto ridotto rispetto ad esse. È solo attraverso l’ascolto ridotto, infatti, che è possibile percepire gli “oggetti sonori”, ascoltare il suono per sé stesso, facendo astrazione della sua provenienza, e dal senso di cui può essere portatore. È l’avvenimento che l’oggetto sonoro è per se stesso (e non a cui rinvia), sono i valori che porta in se stesso (e non di cui è il supporto) a cui punta, nell’ascolto ridotto, la nostra intenzione d’ascolto. Altrimenti il suono è sempre trattato come veicolo. L’ascolto ridotto si pone quindi contro tutti i condizionamenti: come dice lo tesso Schaeffer, “serve uno sforzo anti-naturale per accorgersi di ciò che, precedentemente, determinava la coscienza alla sua insaputa”. L’ascolto ridotto è così chiamato in riferimento alla nozione di epoché, termine fenomenologico (preso in prestito da Husserl) che designa un’attitudine di “sospensione” e di “messa tra parentesi” del problema dell’esistenza del mondo esteriore e dei suoi oggetti, attraverso la quale la coscienza fa ritorno su se stessa e prende atto della sua attività percettiva, intanto che questa forma i suoi “oggetti intenzionali”. L’ascolto ridotto, infatti, consiste nello spogliare la percezione del suono di tutto ciò che non è propriamente ©Flickr-by uair01


©Flickr-by Ian Andrew Schneider suono, prestando attenzione solamente a quest’ultimo nella sua materialità, nella sua sostanza, nelle sue dimensioni sensibili. L’epoché, rappresenta un decondizionamento delle abitudini d’ascolto, un ritorno all’esperienza originaria della percezione, per cogliere l’oggetto sonoro in quanto substrato delle percezioni che lo prendono come veicolo di un senso da capire o di una causa da identificare. La messa tra parentesi, in cui consiste l’”ascolto ridotto”, porta quindi, primo, a mettere fuori circuito la considerazione di ciò a cui il suono rimanda, secondo, a distinguere questo avvenimento sonoro percepito dal segnale fisico a cui lo studioso di acustica lo rapporta e che, in sé, non è affatto sonoro. L’attitudine di Pierre Schaeffer è sempre stata fenomenologica, essendo la fenomenologia una “filosofia che mette in sospeso, per comprenderle, le affermazioni dell’attitudine naturale, ma […] anche una filosofia per la quale il mondo è sempre ‘già là’, prima della riflessione, come una presenza inalienabile, e in cui tutto lo sforzo sta nel ritrovare questo contatto naïf, ingenuo con il mondo per donargli infine uno statuto filosofico” (M. Merlau-Ponty, 2003, Fenomenologia della percezione, Milano, Feltrinelli). Potremmo dire che, ciò che Schaeffer in fondo pratica e predica ai ricercatori, è la capacità di stupirsi di fronte al mondo. In questo modo l’ascolto ridotto e l’oggetto sonoro divengono correlati: si definiscono rispettivamente come attività percettiva ed oggetto della percezione.

classiche forbici, puntatori, zoom, comuni alla maggioranza dei software, fino a misuratori, grafici, tabelle, forme d’onda e così via) e che permettono di modificare i fondamentali aspetti e parametri del suono. Tra questi strumenti, uno dei più importanti è sicuramente lo Spectrum Analyzer:“uno strumento […] che fornisce informazioni riguardanti il livello di ampiezza medio di un evento audio, in un dato intervallo di frequenze. Ciò può essere utile, per esempio, per localizzare le frequenze che necessitano di equalizzazione. Lo Spectrum Analyzer visualizza le informazioni in un sistema cartesiano bidimensionale XY, in cui l’asse X rappresenta le frequenze e l’asse Y i valori di ampiezza”. (R. Guerin, 2001, Cubase SX. La composizione musicale professionale col PC, Milano, Apogeo, p. 66). In questo modo, quando ascoltando una musica sorge l’esigenza di correggere il sound, l’analisi spettrale consente di “vedere” dove intervenire. Non di rado, musicisti produttori e tecnici del suono, utilizzano questo strumento per comparare il proprio lavoro a quello al quale vogliono ispirarsi. Oggi i musicisti che entrano in studio, messi di fronte alle comparazioni tra sonorità fatte con lo Spectrum Analyzer, sono abituati a comporre e ragionare il suono in termini spaziali. D’altra parte, l’orecchio umano può avere diverse percezioni dello stesso suono in diversi momenti, mentre con l’analisi spettrale il grafico dello spettro delle frequenze non cambia. Un software per la gestione dei suoni e la manipolazione sonora con tutte le caratteristiche appena citate (e anche di enorme diffusione) è Cubase. Grazie a questo programma è possibile Per concludere e attualizzare, si comprenderà l’importanza, registrare, modificare, spostare eventi, attraverso l’utilizzo di se non la preponderanza, della vista nelle pratiche di un’interfaccia grafica, negli anni sempre più intuitiva. L’utente editing digitale alla base di tutti i tipi di produzione visualizza le tracce registrate, e al loro interno la forma d’onda sonora. Attraverso lo schermo infatti, la manipolazione del dei suono: è semplicemente un grafico, con il tempo sull’asse suono è resa possibile dall’utilizzo di strumenti visivi (dalle delle ascisse, e la dinamica su quella delle ordinate.




EMERGENCY ringrazia l’editore per lo spazio concesso gratuitamente - Illustrazione di Guido Pigni

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