Brand Care magazine • ISSN: 2036-6213 • Anno III numero 009 • giugno-agosto 2011 - N°009 | Poste Italiane SpA - Spedizione in abb. post. 70% DCB Roma
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Brand Care magazine
GIUGNO-AGOSTO 2011 - N°009 Editore Queimada di Bernabei & Colucci snc via V. Veneto, 169 - 00187 Roma P. IVA e CF 02249990595 [T] +39 06 4871504 [F] +39 06 62275519 [S] queimada_skype [W] www.brandcareonline.com [@] info@queimada-agency.com Direttore responsabile Sergio Brancato Contributors n° 009 Alfonso Amendola, Tonia Basco, Davide Bennato, Vincenzo Bernabei, Sergio Brancato, Claudio Biondi, Massimo Caiati, Alessandra Colucci, Patrizio Di Nicola, Emi Guarda, IED Factory, Veronica Mobilio, Pasquale Napolitano, Francesca Pellegrini, Giovanni Scrofani Brand Care magazine addicts Alberto Abruzzese, Alfonso Amendola, Davide Bennato, Claudio Biondi, Sergio Brancato, Ciriaco Campus, Gabriele Caramellino, Giulio Como, Fabrizio Contardi, Vanni Codeluppi, Patrizio Di Nicola, Francesco Fogliani, Carlo Forcolini, Francesco Maria Gallo, Viviana Gravano, Paolo Iabichino, Ilaria Legato, Zaira Maranelli, Gabriele Moratti, Mario Morcellini, Vincenzo Moretti, Gianfranco Pecchinenda, Luca Peroni, Marco Pietrosante, Daniele Pittèri, Alberto Prase, Roberto Provenzano, Guelfo Tozzi, Davide Vasta. Art Direction, grafica e impaginazione Niko Demasi Stampa Grafica Metelliana Via Gaudio Maiori - Zona industriale - 84013 Cava de’ Tirreni Pubblicità Queimada snc Policy I contenuti e le opinioni espresse dagli autori dei singoli contributi e dagli intervistati non coincidono necessariamente con quelle di Brand Care magazine. Tutti i marchi registrati citati sono di proprietà delle rispettive aziende. Nessuna parte del contenuto di questo magazine può essere pubblicata, fotocopiata, distribuita e diffusa attraverso qualsiasi mezzo - online e offline - senza il consenso scritto di Queimada snc, fatta eccezione per i contenuti in cui vi è espressamente indicato un regime di diritto d’autore diverso (es: Creative Commons). Registrazione presso il Tribunale di Roma n° 250/2009 del 21/07/09 Iscrizione presso il Registro degli Operatori di Comunicazione n° 18728 ISSN 2036-6213
editoriale
A
di Sergio Brancato
pocalypse Now è oggi universalmente considerato un capolavoro del Novecento, e ciò ha qualcosa di miracoloso. Eleonor Coppola realizzò un libro (Appunti - Dietro la cinepresa di Apocalypse Now) e uno straordinario documentario (Viaggio all’inferno) per raccontare le enormi avversità affrontate dal marito Francis Ford Coppola durante le riprese del film. Il progetto rischiò di naufragare in più di un’occasione. Attori come Steve McQueen, Al Pacino, Jack Nicholson e Robert Redford rifiutarono il ruolo di Willard, che andò così a Martin Sheen, il quale ebbe un infarto sul set. Dal canto suo, Marlon Brando dapprima faticò ad accettare, poi si presentò nei luoghi delle riprese in evidente stato di sovrappeso, e di fatto rifiutò di imparare a memoria il copione per interpretare il leggendario ruolo del Colonnello Kurtz. La lavorazione nelle Filippine durò molto più a lungo del previsto, le intemperie distrussero costosissime scenografie provocando grandi difficoltà di budget e, come se non bastasse, lo stesso Coppola si trovò a dover sbrogliare un’inestricabile matassa di senso in sede di montaggio. Dal punto di vista produttivo, insomma, parliamo di un film che a rigor di logica non avrebbe dovuto trovare cittadinanza nella storia del grande cinema. Eppure il monologo sull’orrore recitato da Brando (l’orrore… l’orrore…) e le musiche dei Doors che riecheggiano durante le azioni di battaglia vietnamite restano scolpiti nell’immaginario di un’intera generazione. Perché stiamo parlando di Apocalypse Now ? Il compito che Brand Care magazine si è dato per questo numero è senz’altro ostico: parlare di comunità creative, soprattutto in una fase culturale in cui tanto il concetto di comunità quanto quello di creatività si trovano nel bel mezzo di un processo
di ridefinizione e ri-mediazione, ha rappresentato una stimolante scommessa per tutti i contributors, compresi quegli studenti di IED Factory che, nell’ambito di un workshop tenutosi a marzo, hanno partecipato alla stesura di alcuni articoli e alla elaborazione grafica di alcune pagine.
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Più che un film capolavoro, Apocalypse Now è il “cuore di tenebra” del mondo contemporaneo: “L’idea di interazione [...] rappresenta il culmine di una riflessione di lungo periodo da parte
degli esseri umani nel loro sforzo incessante di sciogliere il paradosso dell’unità nella diversità, dell’uno e dei molti, di trovare la legge e l’ordine all’interno dell’evidente caos dei mutamenti fisici e dei fatti sociali”. Così nel 1921 Park e Burgess, due degli esponenti più importanti della sociologia urbana, definivano la questione dell’interazione all’interno delle organizzazioni. Ben prima dell’avvento dei social network, dell’open source e di tutte le inquietudini relazionali scaturite dall’affermazione delle tecnologie digitali era dunque viva l’idea che il processo collaborativo non può che scaturire da dinamiche complesse, caotiche, contraddittorie e talvolta paradossali. Governare l’ingovernabile. È questo l’obiettivo essenziale di una comunità, specie se raccolta intorno alla creazione di artefatti estetici: ordinare, controllare, mettere in forma la materia fluida dell’ispirazione attraverso pratiche negoziali talvolta sofisticate. O in altri casi, come in quello di Apocalypse Now, semplicemente (im)possibili.
profili SERGIO BRANCATO In s e g n a S o ciolo gia della Comunica zione (Università di Salerno) e Sociologia dell’Industria Culturale (“Federico II” di Napoli). Si occupa di media, società e cultura di massa. Ha pubblicato tra gli altri: Fumetti (Datanews); Sociologie dell’immaginario (Carocci); Introduzione alla Sociologia del cinema (Sossella); La città delle luci (Carocci); Senza fine (Liguori), Il secolo del fumetto (Tunué).
PATRIZIO DI NICOLA In s e g n a S o ciolo gia dell’Organizzazione a La Sapienza e si diverte a coordinare progetti internazionali. Esperto di mercato del lavoro, nuove tecnologie e, tra i primi in Italia, di telelavoro e Internet, fonda Futuribile srl con l’obiettivo di produrre idee pazze e tentare di realizzarle. Ogni anno porta gruppi di studenti in America a frequentare corsi e summer school. Ha una moglie e tre figli.
VERONICA MOBILIO Dottore di ricerca in Scienze della Comunic a zion e pre s so la S apienz a, Universit à di Roma, nel 2003 ha vinto il primo premio del bando ASFOR SMAU “e-talenti dell’elearning”. Si occupa di tecnologie digitali, di progettazione didattica e di comunicazione sui temi del lavoro e dell’organizzazione, partecipando a progetti di ricerca a livello nazionale e internazionale.
FRANCESCA PELLEGRINI 33 anni, laurea in Scienze della Comunicazione, è responsabile marketing e comunicazione della new media agency MEDITA. Si occupa, tra l’altro, di social media e web marketing, pr online, eventi. È web editor e blogger free lance. Ha partecipato alla stesura de “L’intensità e la distrazione” di Daniele Pittéri (2006). Ama la fotografia e, ovviamente, la scrittura.
ALESSANDRA COLUCCI Laureata in Scienze della Comunica zione (La Sapienza, Roma) con una te si sul Product Placement. Oltre a essere titolare di Queimada – Brand Care, insegna produzione audiovisiva, comunicazione e marketing in diversi master universitari. Adora cinema, design e pubblicità in qualsiasi forma. Viaggiare, connettere e organizzare le sue passioni. Ha un blog che porta il suo nome: www.alessandracolucci.com.
ALFONSO AMENDOLA Insegna presso l’Università di Salerno. Art Director della Mediateca “Marte”, collabora con il Centro Studi di “Etnografia Digitale”, scrive sul “Corriere del Mezzogiorno” ed è nel gruppo redazionale di “Mediascapes”. Specializzato in Sociologia della comunicazione, si occupa dei rapporti tra culture di massa e culture d’avanguardia. Tra i suoi libri: È tutto Sex & the City (2011); Videoterritori (2011).
DAVIDE BENNATO In s e g n a S o ciolo gia dei processi culturali e comunicativi (Università di Catania). Studioso dei rapporti tra innovazione e tecnologia, è consulente aziendale di formazione, social media e strategie di ricerca sociale in ambiente web 2.0. Ricercatore per la Fondazione Einaudi (Roma), co-fondatore e vicepresidente di STS Italia. Scrive su: “Internet Magazine”, tecnoetica.it, processiculturali.it, puntobeta.net.
VINCENZO BERNABEI Laureato in Scienze della Comunica zione (La Sapienza, Roma) pubblica la sua tesi dal titolo Cinema: Evasione, strategie di fuga nel più invasivo dei media con Tilapia. Titolare di Queimada – Brand Care, dal 2008 si divide tra l’ufficio e l’Università di Salerno, dove è dottorando di ricerca e studia i media e la sociologia dei processi culturali.
GIOVANNI SCROFANI Giurista d’impresa presso il Gruppo Ferrovie dello Stato, dove si occupa di aspetti normativo/contabili legati al mondo degli investimenti. Dedica il proprio tempo libero alla sua grande passione per le nuove tecnologie. Ha collaborato con pubblicazioni per il CAFI e master per Terotec. Fondatore del Progetto DaDaista Gilda35 ne cura il nonBLOG: http://gilda35.com/
TONIA BASCO Mi laureo in Scienze della Comunica zione con una tesi in Sistemi Organizzativi Complessi che porta alla realizzazione di un sito dedicato al telelavoro. Mentre sogno di diventare “cittadina romana”, vivo in un paese grazioso ma piccino piccino, consolandomi con tanti bei libri, buona musica e cari amici. Ho un figlio bellissimo che colora ogni giornata con un pastello diverso.
CLAUDIO BIONDI Entra nel mondo dello spettacolo come attore; aiuto regista in circa 30 tra film, inchieste e serie TV; per oltre 20 titoli ricopre il ruolo di produttore esecutivo o produttore, uno su tutti I misteri della giungla nera. Autore di diversi saggi, tra cui Come si produce un film (4 volumi, Dino Audino Editore), è ora docente di tematiche legate alla produzione audiovisiva in numerosi master universitari. http://hstrial-cbiondi.homestead.com/
MASSIMO CAIATI Copywriter dal 2002, prima per DDB Milano e Saatchi & Saatchi Roma, ora in Saatchi & Saatchi Ginevra. Rappresentante italiano dei creativi under 28 a Cannes 2007, vincitore dell’Antenna d’Argento al Radiofestival nel 2008 e Bronzo all’Art Directors Club Italia nel 2008.
PASQUALE NAPOLITANO Cultore in Comunicazione Visiva e dottorando in Scienze della Comunicazione all’Università di Salerno, collabora con la cattedra di Disegno Industriale ed è curatore dei Laboratori Didattici di Comunicazione Visiva. Artista multimediale, performer ed esperto di design e comunicazione visiva, insegna in vari istituti ed è cultore in Analisi dell’Opera Multimediale (Università Orientale - Napoli).
EMI GUARDA Laureata in storia dell’arte contemporanea con tesi in semiologia culturale su Iconicità e Ferita prima e Riviste Italiane d’Avanguardia degli anni ‘60 dopo, ha lavorato come assistente all’organizzazione eventi alla Fondazione Baruchello e fatto una breve tappa al Castello di Rivoli a Torino. Scrive di eventi/spettacoli e di arte su Teknemedia.com. Si sostenta lavorando con l’energia (elettrica…).
NIKO DEMASI Lo sguardo schizzato di Jack che chiama Danny inseguendolo nella neve è tra i suoi ricordi d’infanzia più limpidi. Laureato in Comunicazione (Sapienza, Roma), esperto di progettazione multimediale, la voglia di “cucinare” nella stessa pentola musica, grafica e video lo fa diventare un motiongrapher. Il mistero dei suoni e delle immagini è la sua passione. Da ottobre 2009 è l’art director di Queimada – Brand Care.
indice 42 60
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TRA IL DIRE E IL FARE C’È DI MEZZO IL MARE
di Claudio Biondi
UN BLOG DI (CO)AUTORE
di Francesca Pellegrini EVIDENCE BASED DEMOCRACY Gli Open Data come strumento di democrazia
di Davide Bennato 66
SATIRA CREATIVA Intervista a Paolo Mariconda, autore e capo progetto de Gli Sgommati [SkyUno]
IED FACTORY 80
SCRIVILO SUI MURI La creatività dei writers romani FOCUS ON: Stili e termini
IED FACTORY
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TWO IS BETTER THAN ONE Il coaching come strumento per stimolare il lateral thinking nelle organizzazioni FOCUS ON: Il kaizen come energia che viene dal basso
di Alessandra Colucci 56 76 44
36 50
CREATIVI ESPLOSIVI
di Tonia Basco CREATIVITÀ CONDIVISA
di Emi Guarda
CREATIVITÀ COLLETTIVE: ITALIANI 2.0
di Alfonso Amendola ER WEBBE SE FA! Viral, Meme e superamento della produzione seriale
di Giovanni Scrofani 88
CREATIVE FOOD BLOGGING Intervista a Daniela Delogu, Tania Valentini e Sigrid Verbert FOCUS ON: Quiche al salmone con brisée al burro salato FOCUS ON: Farfalle, fave e cavoletti di bruxelles FOCUS ON: Torta di mele in crosta di parmigiano
IED FACTORY
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L’OPEN SOURCE COME MODELLO ORGANIZZATIVO PER LE IMPRESE MODERNE
di Patrizio Di Nicola e Veronica Mobilio 48 68
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WWF, TATARUGHE MARINE
HIGHLIGHT COMUNITÀ DI RECUPERO CREATIVO
di Massimo Caiati
OLTRE IL SENSO DEL LUOGO (E DEL PRODOTTO) Pratiche di consumo creativo nel territorio digitale
di Vincenzo Bernabei 70
FORME COMPLEMENTARI DEL CREATIVE COMMONS: LIVE CINEMA E EPHEMERAL FILM
di Pasquale Napolitano 84
NON SOLO CUCINARE, MA PENSARE, INVENTARE Intervista ad Antonello Colonna FOCUS ON: Cacio e pepe
IED FACTORY
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LA GRANDE SCOMMESSA DI IED: VALORIZZARE LA CONFUSIONE TRA I SAPERI Intervista al Direttore Alberto Iacovoni
IED FACTORY 30
(WHEN) THE SCIENCE TEACHES Intervista a Francesco Barbaglio, Jacopo Parravicini e Francesco Lo Sterzo
IED FACTORY
formazione
Intervista aL DIRETTORE ALBERTO IACOVONI a cura di Barbara Alimenti, Fiorita Antinozzi, Barbara Bigi, Alessandro Chierchia, Daniele Degli Agli, Lucia Anna Di Maio, Clio Yiouvrise
B
rand Care magazine: Com’è cambiato l’Istituto Europeo di Design per rispondere ai mutamenti nel corso degli anni? Alberto Iacovoni: In effetti possiamo dire che la realtà IED tende a rispondere di continuo alle sollecitazioni esterne. Io inquadro i cambiamenti in due ordini principali: uno prettamente culturale, cioè legato al modo in cui le discipline della creatività si sono trasformate in questi ultimi anni. Il dato eclatante è lo sfocarsi dei confini delle discipline: per esempio un tempo chi faceva design o chi faceva moda aveva dei campi di riferimento e rimaneva legato ad ambiti ben precisi, mentre ora non è più così. L’altro ordine di cambiamenti è invece connesso proprio ai mezzi che utilizziamo. Lo sviluppo tecnologico e la forte “democratizzazione” degli strumenti della creatività hanno permesso di avere a disposizione tantissime possibilità espressive e progettuali. Lo IED ha cercato di essere sempre aggiornato sugli strumenti che la tecnologia offre e ha permesso più occasioni di confronto tra gli studenti. IED Factory ne è un esempio. BCm: In base a quali criteri vengono rinnovati i piani di studio di anno in anno? AI: Si cerca sempre di migliorare, di aggiornare il piano di studi alle nuove realtà, alle nuove opportunità che presenta il mondo del lavoro,
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Alberto Iacovoni (1966) architetto, è membro fondatore dello studio d’architettura ma0/emmeazero (www.ma0.it) e dal 1999 al 2004 parte di Stalker/Osservatorio Nomade (www. stalkerlab.it); libero docente in diverse università, da gennaio 2009 dirige l’Istituto Europeo di Design di Roma.
teoria e pratica stimolato dagli incarichi professionali, i concorsi, le conferenze, i laboratori, le pubblicazioni, ogni progetto è occasione di studio del rapporto tra forma e ruolo sociale dell’architettura che diviene per scelta opera aperta, interattiva e processuale.
La sua attività spazia dalla progettazione urbana fino alla realizzazione di installazioni interattive, spinta dalla convinzione che l’architettura sia un media tra diverse discipline e geografie del territorio. In un feedback continuo tra
È autore di Game Zone, playground tra scenari virtuali e realtà (Birkhauser 2003; Edilstampa 2005), Playscape, per un’ecologia dello spazio in uscita per i tipi di Libria, e curatore di una sezione Playgrounds per la webzine www.architettura.it
alle nuove tendenze culturali. Crediamo sia positivo anche che in questo istituto cambi ciclicamente il personale didattico, il che per gli studenti può essere un po’ destabilizzante, ma anche in questo caso il vantaggio risiede in un maggiore tasso di aggiornamento. Da quest’anno inoltre abbiamo un piano di studi che è inserito nel comparto delle Accademie delle Belle Arti, e per questo saremo più vincolati in quanto abbiamo una griglia più definita di riferimento. BCm: Quali sono i requisiti fondamentali che deve possedere un docente IED? AI: I docenti IED sono persone che hanno una loro attività professionale e portano all’interno della scuola il loro modus operandi, perché uno dei problemi della formazione è stare al passo con i tempi, laddove per esempio alcune università pubbliche non riescono. La nostra idea è che se c’è un bravo professionista cerchiamo di portarlo dentro la scuola. Ovviamente non tutti i bravi professionisti sono bravi docenti e viceversa, quindi bisogna anche saper valutare caso per caso. BCm: Qual è il valore aggiunto di IED rispetto ai suoi competitors? AI: Noi siamo, e lo dico con orgoglio, l’unica scuola che fa formazione in tutti i campi della creatività: dal design alla moda, dalla comunicazione alle arti visive. Questa è una grande potenzialità, anche se molto spesso non sfruttata al massimo per la necessità di garantire un percorso triennale attinente a ogni piano di studio; bisogna trovare l’occasione per un incontro interdisciplinare, perché solo così è possibile mettere insieme ingredienti che da soli
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possono risultare inerti ma che insieme creano un esplosivo. BCm: A proposito del vostro percorso di “parificazione” viene da chiedersi se il genio, l’estro, la creatività devono essere necessariamente certificati a livello istituzionale. AI: Siamo convinti ancora oggi che non serva nessun “pezzo di carta” per lavorare nell’ambito della creatività, ma bisogna dimostrare di avere talento. Nonostante il raggiungimento di grandi risultati e il fatto che ci riteniamo quelli con più esperienza nell’ambito della formazione sul design e sulla creatività in generale, proprio per ragioni di competitività con le altre realtà abbiamo deciso di intraprendere l’iter per un riconoscimento ufficiale. BCm: Come mai una “città aperta “come Roma non mostra la stessa generosità nei confronti del design, che invece si respira in città come Milano? AI: Roma è una città con delle grande potenzialità in campo creativo, potenzialità che vanno ulteriormente esplorate e valorizzate. Per certi versi può sembrare un luogo debole rispetto ad altri, ad esempio appunto Milano, capitale del design e della moda. Roma ha un grandissimo passato alle spalle e un grande futuro di fronte, ma nel mezzo c’è qualcosa che dobbiamo ancora costruire. A Roma abbiamo opportunità progettuali non ancora abbastanza sfruttate dalle distribuzioni, dalle imprese, dai mercati che si aprono, ma sono delle realtà che sicuramente cresceranno nei prossimi anni. La comunità creativa a Roma è fatta di grandi talenti che molto spesso continuano nell’eccellenza, magari anche sprecandola un po’. A partire dalla mia esperienza di
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architetto, posso affermare che i miei colleghi che lavorano a Milano sono persone che, anche nei casi in cui si trovano a seguire progetti di piccole dimensioni, lo fanno sempre attuando in parallelo un’idea di promozione, comunicazione, produzione. A Roma abbiamo persone che hanno idee straordinarie, che fanno cose eccezionali, magari le realizzano, ma che talvolta non riescono a tradurle in business o in veri prodotti di comunicazione. Ecco, io credo che a Roma vada fatto qualcosa per questo, per questa crescita. Roma è la città della politica, e questa purtroppo non sempre premia il merito, mentre in altri luoghi, dove ci sono mercati più dinamici è certo che se tu fai una cosa e la comunichi bene hai dei riscontri. Credo che il ruolo dello IED sia anche quello di costruire un quadro omogeneo che coniughi formazione, professione, istituzione e imprese. BCm: Perché quest’anno lo IED ha scelto di proporre un tema di ricerca comune a tutti i suoi studenti? AI: Questo è il secondo anno in cui abbiamo un tema di ricerca comune, perché crediamo sia utile confrontarsi per trovare una forma collettiva di discussione. La questione della collettività è una questione scottante della contemporaneità. Viviamo in una realtà in cui c’ è una frammentazione della comunità chiamata “classe sociale”. Prima ogni classe sociale aveva dei valori di riferimento molto chiari; oggi invece c’è una atomizzazione che prende nomi diversi. Ognuno si costruisce una propria nicchia in cui riconosce il suo “lifestyle”; siamo passati dall’idea di identità all’idea di stile di vita, vale a dire a un concetto molto più variegato, frantumato e disgregato. BCm: In questo contesto di “disgregazione”, lei crede sia ancora possibile parlare di “comunità” e “bene comune”? AI: Il tema del “bene comune” è ancora un tema di fondo importante. Da un lato abbiamo una questione vitale che è legata a dinamiche di rimescolamento delle culture, abbiamo la migrazione, e abbiamo la crisi della politica; dall’altro lato invece, parlando della creatività, in realtà il tema del collettivo è uno dei temi più fertili dal punto di vista delle idee e dei progetti di mercato. Un esempio di comunità moderna può essere quella di Facebook: tutte le nuove tecnologie lavorano sul collettivo e per il collettivo creando nuove forme di società, di socialità, ma anche business giganteschi. Di comunità si può parlare anche per un campo più ristretto, quale ad esempio quello di una nicchia di individui che si riconoscono perché scelgono determinati stili di vita, determinati oggetti, o un preciso look. Insomma, credo si possa ancora parlare di collettività in un mondo di prodotti e servizi in cui la creatività continua a dare un contributo e dove i confini dei saperi si confondono, identificando il tema della collettività anche come creazione comune, utilizzando discipline e approcci tra loro differenti.
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1.
di Patrizio Di Nicola e Veronica Mobilio Finlandia, primissimi anni Novanta. Linus Torvalds, uno studente dell’Università di Helsinki è alle prese con il suo nuovo computer. Insoddisfatto di come funziona si lancia un po’ per sfida, un po’ per gioco, un po’ per interesse (da li a poco dovrà infatti preparare la tesi in informatica) - nella creazione di un nuovo sistema operativo, il software senza il quale il computer è solo una inutile scatola di metallo e silicio.
Fu così che, nell’ottobre del 1991, rese disponibile su Internet le parti fondamentali del sistema operativo che aveva scritto. Lo chiamò Linux, un nome che scimmiottava il famoso software Unix che veniva allora usato nei grandi computer di aziende, banche e ovviamente Università. Ma Linux faceva funzionare i piccoli PC, non i grandi mainframe. Distribuendo gratuitamente il suo lavoro su Internet, prima ancora che le fasi di sviluppo e perfezionamento dell’applicativo fossero terminate, Torvalds incoraggiò altri programmatori a scaricare il software per usarlo, testarlo, modificarlo fino a ritenerlo adeguato per qualsiasi tipologia di ambiente e di utilizzo.
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Alcuni programmatori raccolsero l’offerta e la richiesta di collaborazione lanciata dallo studente finlandese. Essi ripararono gli errori (i cosidetti bug) agendo direttamente sul codice sorgente del software, aggiunsero nuove caratteristiche al programma e resero a loro volta disponibile su Internet le nuove versioni del sistema operativo. In questo modo Linux cominciò a svilupparsi, attirando l’attenzione di altri programmatori che cominciarono a contribuire al progetto, realizzando le loro idee e implementando nuove funzioni. Al lavoro degli esperti, presto si affiancò anche quello di una moltitudine di utenti che semplicemente, utilizzando il prodotto, ne facevano il testing, scrivevano la documentazione o traducevano i manuali in lingue straniere.
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Grazie alla collaborazione tra soggetti differenti per provenienza, estrazione e interessi professionali, la comunità di sviluppo di Linux, da rigida e omogenea casta di maghi del software, divenne eterogenea e distribuita in tutto il mondo. In questo modo ogni aspetto della programmazione divenne pubblico e trasversale abbassando le barriere d’accesso alla comunità: non occorreva più essere un «hacker» per contribuire allo sviluppo del progetto open source; bastava essere un utente esperto, che identificava i limiti del programma o scovava nuove funzioni da realizzare. La comunità nata attorno a Linux crebbe velocemente, raccogliendo migliaia di persone, le quali presero parte
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al movimento condividendo, sempre a distanza, il lavoro svolto. In soli tre anni, questo gruppo informale, lavorando in assenza di una leadership definita e formalizzata, senza regole precise di comportamento e con il solo ausilio di Internet, trasformò Linux in uno dei sistemi operativi migliori che siano mai stati creati, diffuso gratuitamente in milioni esemplari, ed usato da singoli utenti e grandi network, dalla NASA sino alle reti governative di decine di Nazioni. 2. La nascita e lo sviluppo della Linux community mette in evidenza l’esistenza di modalità di lavoro e di organizzazione peculiari e in antitesi rispetto a quelle tradizionalmente adottate dalle grandi aziende. Immaginiamo, ad esempio, come lo sviluppo di un progetto di questo tipo sarebbe organizzato in una grande impresa produttrice di software, come IBM o Microsoft. Le decisioni strategiche relative all’organizzazione del lavoro e ai fondi necessari per il suo sviluppo sarebbero state decise da un ristretto numero di manager. L’azienda avrebbe costruito dei team ufficiali di programmatori, tecnici e responsabili della qualità del software, che avrebbero operato seguendo una rigida divisone del lavoro, una pianificazione delle attività e una chiara attribuzione parcellizzata di compiti da portare a termine. Si sarebbero svolte ricerche di mercato e focus group sui consumatori con l’obiettivo di identificare e definire le caratteristiche del prodotto; i risultati di queste ricerche sarebbero state documentate in fitti rapporti di progettazione, poi semplificati in executive summary e quindi in slide. Infine, il team di sviluppo del progetto avrebbe dovuto preparare, concordare e condividere appositi budget, calendari, piani delle scadenze, svolgere riunioni per la verifica degli avanzamenti del lavoro e presentazioni ai top manager. La realizzazione del prodotto avrebbe facilmente subito ritardi a causa di divergenza di opinioni o ritardi nell’approvazione dei pani di lavoro. Il progetto, coinvolgendo un ampio numero di risorse umane, avrebbe avuto un costo molto elevato, richiesto un tempo di realizzazione lungo e soprattutto non sarebbe stato progettato dagli utilizzatori futuri, ma imposto dall’azienda stessa.
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Lo sviluppo di Linux costituisce, invece, il simbolo di un nuovo modo di lavorare e rappresenta, per dirla con le parole del magazine Wired, “una arcana storia di hacker e del cyberspazio”. Lo studente Linus Torvalds, è stato, forse senza nemmeno rendersene conto, il protagonista e l’artefice di una autentica rivoluzione: non solo per il successo che nel tempo ha avuto il suo sistema operativo Linux, ma soprattutto per il modo in cui tale risultato è stato realizzato. Linux è oggi un sistema operativo open source, gratuito e liberamente accessibile, affidabile e di elevata qualità. Questo perché è il frutto dei miglioramenti escogitati da migliaia di programmatori e di una inedita
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3. Il modello organizzativo sottostante al fenomeno dell’open source è di estremo interesse: grazie alle potenzialità offerte da Internet, esso si basa su una struttura di relazione tra i soggetti orizzontale dove prevale la collaborazione e l’informalità. In quest’ottica l’open source costituisce una nuova strategia, suggerisce – per dirla con Pekka Himanen - una differente “etica del lavoro” e stimola una nuova idea di organizzazione. Il lavoro nelle comunità open source appare dominato dai principi dei sistemi cooperativi scoperti nel 1938 da Chester Barnard. Secondo Barnard, l’uomo è un essere caratterizzato dall’ambizione di proporsi l’obiettivo di trasformare l’ambiente in cui vive ma che, per sua natura, sperimenta continuamente l’esistenza di limiti fisici, biologici, mentali, conoscitivi, sociali, economici. Il modo più efficace per superare tali limiti è quello di passare dallo sforzo
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modalità di lavoro basata sulla collaborazione volontaria a distanza tra più persone che si sentivano parte dello stesso progetto. In tal senso il movimento open source è il risultato di un lungo percorso evolutivo tecnologico, economico e soprattutto sociale - di cui l’invenzione di Linux rappresenta solo una prima fase che ha coinvolto intere generazioni di ricercatori, sviluppatori e utenti che lavoravano insieme per un interesse comune, per senso di appartenenza, ed anche per mostrare la propria abilità ad un gruppo di loro pari. Dal punto di vista organizzativo, l’elemento innovativo introdotto dal giovane finlandese, in termini di processo di produzione, è rappresentato dal principio “release early and often”, ovvero “rilascia presto e fallo spesso”, che permette di ridurre la duplicazione del lavoro, in quanto sono note in tempi brevissimi le soluzioni raggiunte dagli altri membri della comunità di sviluppo.
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individuale alla cooperazione tra più persone. Nel momento in cui si comincia a cooperare per conseguire fini comuni, però, gli uomini entrano in una realtà sociale, quella delle organizzazioni formali, che è qualitativamente diversa da quella definita dal loro agire isolato. Nell’organizzazione, non più vista come macchina ma come organismo, emergono come variabili fondamentali l’informalità e la cooperazione. Questi stessi elementi, nelle comunità open source, sono centrali e portano a una perfetta corrispondenza tra scopi individuali e fini organizzativi. Tali comunità sono organizzazioni che si costituiscono con l’obiettivo di portare a termine un progetto che sposa perfettamente le finalità dei singoli che ne fanno parte (i moventi individuali) e le motivazioni che spingono gli individui a cooperare (la necessità di superare ostacoli complessi). Allo stesso tempo uno degli elementi fondamentali che risalta all’interno delle comunità open source è la modalità di aggregazione, che avviene esclusivamente attorno alla sfera della pratica. I partecipanti, infatti, hanno un campo tematico di interesse ben definito, rappresentato dallo sviluppo del software. Ciò costituisce il terreno comune che stimola la partecipazione, la condivisione di valori e lo scambio di conoscenze. Questo fattore delinea l’identità del gruppo e il raggio di azione dei soggetti attraverso l’apprendimento continuo di
nuove competenze tecniche. La programmazione, quindi, si pone nelle comunità open source come attività centrale attorno alla quale si crea una fitta rete di interazioni. Un ruolo cruciale la gioca anche la comunità, che rappresenta la struttura sociale (ovvero la rete di relazioni e interazioni) che si forma a partire dal campo tematico condiviso. Il suo funzionamento dipende dalla fiducia, dal senso di appartenenza e, soprattutto, dalla condivisione delle idee e delle esperienze derivanti dall’attività collettiva di problem solving. Si tratta di un assetto organizzativo e relazionale che rinforza nell’individuo partecipante il senso di appartenenza nel momento in cui il grado di reputazione cresce attraverso la valorizzazione dei contributi offerti dai singoli. La pratica, quindi, è l’insieme degli approcci comuni e concreti che forniscono la base per l’azione, la comunicazione e la risoluzione dei problemi all’interno della struttura sociale. Essa si realizza attraverso due processi complementari e costitutivi: la collaborazione - senza la quale la comunità non esisterebbe - e la reificazione, ovvero quelle entità materiali derivanti dall’esperienza partecipativa che si pongono come veri e propri prodotti collettivi. Ma per comprendere davvero la valenza organizzativa delle comunità open source alle tre caratteristiche individuate
da Wenger (il dominio, la comunità e la pratica) bisogna aggiungere un quarto elemento fondamentale: la distribuzione nello spazio, un fattore che rende tali comunità sostanzialmente differenti rispetto a tutte le altre comunità di pratica, e che conferisce loro il carattere di un vero e proprio network relazionale e produttivo, basato sull’utilizzo e sulla produzione di nuove tecnologie. 4. Va detto, per concludere, che le comunità open source solo apparentemente si basano sul caos: la loro è una vera e propria “anarchia organizzata”. Esse nascono e si sviluppano in relazione a una struttura che, pur essendo “virtuale”, “temporanea” e “costruita sulla fiducia”, si basa su divisione del lavoro e precisi meccanismi di coordinamento. La novità è che l’organizzazione è costruita dal basso e modellata in funzione dei progetti e delle specifiche esigenze che emergono in maniera naturale nel processo di sviluppo. Mentre i modelli tradizionali di organizzazione sono centrati sulla struttura organizzativa (cioè sulla struttura interna dell’impresa), le seconde mettono al centro la comunità stessa. Le comunità open source si basano quindi su volontarietà, libertà e meritocrazia; lavorano e sono focalizzate sui progetti; al loro interno la selezione delle risorse non avviene in base a regole burocratiche, ma tramite meccanismi di auto-candidatura e/o auto-selezione; il decentramento è esteso (cosa che assicura velocità di sviluppo e qualità dei prodotti) e l’approccio di lavoro è bottom-up. Infine, la leadership è temporanea, instabile e mutevole nel tempo: essa viene definita attraverso principi di meritocrazia e si fonda sulla fiducia e sul consenso del gruppo. Al tempo stesso, il potere decisionale è distribuito all’interno di tutta la comunità che lavora attraverso l’ausilio delle tecnologie della comunicazione, realizzando un flusso di informazioni che non è strutturato, vincolato e controllato ma libero ed esteso. Quale azienda non verrebbe funzionare cosi?
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Per approfondire »» T. W. Malone, R. J. Laubacher, M. S. S. Morton, Inventing the organizations of the 21th century, The MIT press, Massachusetts, Cambridge 2003 »» M. Muffatto, M. Faldani, Open source: strategie, organizzazione, prospettive, Il Mulino, Bologna 2004 »» C. Barnard (1938), The Functions of the Executive, tr. it. La funzione del dirigente. Organizzazione e direzione, UTET, Torino 1970 »» E. Wenger, R. McDermott, W. M. Snyder (2002), Cultivating Communities of Practice, tr. it. Coltivare la comunità di pratica, Guerini e Associati, Casa Editrice, Milano 2007 »» M.D. Cohen, J.G. March, J.P. Olsen, A garbage can model of organizational choice, Administrative Science Quarterly, 1972
comunicazione
di Francesca Pellegrini Mi vengono in mente solo aspetti positivi del co-blogging. Prima di tutto l’attività di blogger non è professionale per definizione: c’è sempre dell’altro. Devi essere “qualcos’altro” per avere qualcosa da dire, se no di cosa parleresti nel blog? Per questo motivo il co-blogging è una risorsa di tempo: dove non arrivo io, arriva la mia “socia”. Poi c’è il confronto costante: libere di scrivere quello che vogliamo, sì, ma con una reciproca supervisione che, di solito, ti amplia le vedute, piuttosto che limitarle. Credo questo dipenda dal fatto che ci siamo davvero trovate: riusciamo a essere d’accordo con una facilità imprevista. E poi abbiamo stabilito una naturale divisione dei compiti fondata sulle nostre competenze." Queste parole sono di Silvia, co-blogger fondatrice di genitoricrescono.com insieme a Serena: due mamme di quelli che loro definiscono “figli altamente energetici”, che si sono incontrate, conosciute, hanno iniziato a condividere esperienze, dubbi, domande e incertezze e le hanno trasformate in un progetto web che si sta consolidando nel tempo. Le due “socie” abitano a Roma (Silvia) e a Stoccolma (Serena) e, nonostante il consistente numero di km che le separa, hanno rafforzato nel tempo la loro collaborazione per e sul blog, dando vita anche progetti molto ambiziosi che hanno destato l’attenzione dei media e del web. Uno tra tutti, Il cervello di mamma e papà, un’iniziativa nata nel 2010, con lo scopo di sensibilizzare aziende e lavoratrici/lavoratori alla considerazione dell’esperienza della maternità e della paternità come uno skill che arricchisce il curriculum di competenze ed esperienze di un lavoratore e non come un ostacolo alla sua crescita professionale. Il blog è il punto di partenza, nato da un obiettivo comune (nel caso di Silvia e Serena, il desiderio di rendere esperienza condivisa la loro vita quotidiana di genitori in divenire) e trasformato in un progetto co-partecipato, in cui il ruolo della rete è fondamentale. Dalle parole di Silvia, emerge un elemento imprescindibile per la buona riuscita di un progetto di co-blogging: bisogna trovarsi, essere d’accordo, non tanto e non solo sui contenuti, quanto piuttosto sulle competenze, sui compiti e sull’equilibrio che deve crearsi nel team di blogger. Nel caso di genitoricrescono.com, il team è composto da due blogger (più collaborazioni periodiche
Un piccolo passo indietro: esiste una definizione “scientifica” di blogging condiviso? Quando si parla di co-blogging si va ben oltre il semplice concetto di redazione web: non si tratta di tante voci che parlano e raccontano, ma di un blog a più voci. C’è differenza? Sì, e molta. Perché una redazione web prevede delle gerarchie, un progetto editoriale, un palinsesto, mentre un blog condiviso è, lo dice la parola stessa, un’idea in comune raccontata attraverso la rete, un diario giornaliero a più mani, un percorso in evoluzione di due o più strade che procedono parallele verso una destinazione armonicamente concordata. Sembra apparentemente più semplice creare le basi per un blog condiviso (o blog di gruppo? Ma mi piace un po’ meno…) rispetto all’avvio di una redazione online ben oliata. Eppure l’elemento di gerarchia orizzontale, tipica del cyberspazio, gioca un ruolo determinante: l’equilibrio che si crea può essere, allo stesso tempo, molto fragile o indissolubilmente solido, fondato su regole non scritte ma essenziali per lo sviluppo e la crescita del blog condiviso. Non si tratta solo di regole che comportano la crescita in termini di accessi e contenuti: un tema, un argomento va indubbiamente sviluppato, coltivato e fatto maturare per dar modo al blog di progredire e, per fare ciò, il gruppo deve necessariamente creare un codice di organizzazione (tempi di pubblicazione dei post, varietà degli argomenti trattati, fuga dal rischio di sovrapposizioni e ridondanze). Quando si parla di regole del buon co-blogging, ci si riferisce a un insieme di norme di comportamento - a metà tra il codice deontologico di un’azienda e la netiquette tipica del web – che consentono al gruppo di rafforzarsi, di integrarsi, di crescere e di adattarsi allo sviluppo del blog, tagliando eventuali rami secchi e accogliendo nuove risorse (blogger) incontrate sulla strada. Last, but not least, si tratta di regole di scrittura e di stile, dalla più banale scelta del font e del layout del blog alla definizione di una forma condivisa di comunicazione (il tone of voice con cui i blogger comunicano al mondo della cosiddetta blogosfera). Wikipedia (ovvero, la voce degli utenti della rete) fornisce questa definizione del collaborative
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con blogger “ospiti” che tengono rubriche temporanee sul sito), ma esistono progetti nati dalla collaborazione di un numero decisamente superiore di teste e dita digitanti. Prendiamo, ad esempio, un altro blog condiviso che dichiara, già nel nome, la sua natura: SetteSpose [http://www.7spose.it] è un progetto di web-wedding nato dall’incontro di sette donne, accomunate dalla passione per il mondo dei confetti, per la scrittura e per il web. Un mix di teste che, già dalla presentazione corale pubblicata sul blog (uno stralcio di una tipica “riunione di redazione” via Skype), confermano la manifesta volontà di proporre una visione di gruppo del matrimonio, con annessi e connessi. Da due a sette, il risultato non cambia.
comunicazione
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blogging: “A collaborative blog is a type of weblog in which posts are written and published by more than one author. The majority of high profile collaborative blogs are based around a single uniting theme, such as politics or technology.” Come sottolineato anche da Silvia, oltre alla condivisione è basilare l’individuazione di un tema unico, l’argomento portante del blog. Su quel tema i co-bloggers potranno creare contenuti, scambiarsi opinioni, interpellare il loro pubblico, coinvolgere e aggregarsi. Ça va sans dire, ci sono temi che meglio di altri facilitano questa aggregazione: la maternità (e la paternità), come nel caso sopra citato, è indubbiamente uno di questi. Un tema caldo, forte, emotivamente coinvolgente, capace di muovere masse di neo o futuri genitori e indurli a leggere e scrivere su qualunque argomento legato alla loro nuova condizione di individui. Se si tiene conto, poi, di un altro grande vantaggio della scrittura condivisa, ovvero, come chiaramente dichiarato da Silvia di Genitoricrescono, “il co-blogging è una risorsa di tempo: dove non arrivo io, arriva la mia “socia” (e nel loro caso, al tempo si somma anche il fattore spazio, la distanza fisica che la rete annulla, non importa che uno si trovi in Italia o in Svezia), si capisce ancora meglio perché tra le mamme e i papà il co-blogging stia prendendo sempre più piede. In famiglie in cui la risorsa tempo rischia di essere più preziosa del latte e del pane, è importantissimo avere la possibilità di coltivare la passione per la scrittura e di dare voce ai propri pensieri senza rischiare di creare uno dei tanti blog appesi nella rete, ovvero quei siti poco aggiornati, scarni, un po’ tristi in cui traspare chiaramente la voglia di fare e dire sopraffatta dall’impossibilità materiale di farlo. Anche per questo si creano blog in team: per condividere un progetto senza esserne cannibalizzato, per poter prendere un break senza sensi di colpa (come argutamente osservato da Dan Keller sul suo blog Tycoonblogger.com, in cui propone un’analisi dei vantaggi del co-blogging - http://bit.ly/5qigcS). Altri
temi caldi che si prestano ottimamente alla co-creazione di un blog sono la politica (per la sua intrinseca natura di amministrazione della cosa pubblica), la tecnologia (per il vantaggio competitivo dato dallo sharing delle informazioni e delle conoscenze), il cinema e la critica cinematografica in particolare, gli hobby e le passioni in genere (dai foodblog ai creative-blog dedicati al fai-da-te). Ovviamente, non importa che il tema trattato sia di successo, quello che conta è che sia profondamente condiviso tra i blogger che si uniscono nel progetto e che, per questo, rendono il blog molto interessante per un target ben definito e facilmente affiliabile. Una conferma della validità della teoria della Long Tail di Chris Anderson [http://bit.ly/1aEsfN], che assegna una forte importanza alle cosiddette nicchie di mercato (in questo caso, i blog), capaci di diventare assai appetibili per chi cerca nuovi mercati per i propri prodotti proprio grazie all’estrema specializzazione e coesione che si respira nel team di lavoro e nel pubblico coinvolto. Dopo questa panoramica, verrebbe da credere che “co-blogging è bello” [per approfondire http://bit.ly/avJ6ns], punto e basta. In effetti, dopo tanti pro, ci sono anche alcuni contro da tenere in considerazione. È la stessa Serena di Genitoricrescono.com a identificare uno dei rischi più comuni della scrittura condivisa: “è molto importante avere una linea comune. Il rischio è quello di creare tensione all’interno del blog alimentando flames tra lettori di opinioni diverse. Questo è proprio il tipo di accordo non detto tra me e Silvia: una continua mediazione tra le nostre posizioni pur rispettando e dando voce alle nostre opinioni differenti”. Ma non solo. È necessario evitare di utilizzare i propri co-bloggers come alibi: il supporto in caso di carenze di idee e di tempo può essere un paracadute in casi particolari, non un’ancora di salvezza continua, altrimenti il delicato equilibrio nel team rischia di spezzarsi senza ritorno. Infine, occhio alla scelta dei compagni di viaggio: come sempre, vale il detto “meglio soli che male accompagnati”.
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creatività
Il coaching come strumento per stimolare il lateral thinking nelle organizzazioni
N
di Alessandra Colucci
ella prefazione al libro Essere creativi di Edward De Bono leggo: “Per produrre dei vantaggi concreti le varie linee guida manageriali richiedono efficienza e competenza. Oggi però efficienza e competenza sono sì fattori indispensabili, ma non sufficienti. La realizzazione dei vari programmi aziendali richiede un ulteriore essenziale elemento: la creatività.” perché – aggiungo io – si tende sempre di più al kaizen [http://bit.ly/fxtc1v], al cambiamento continuo volto al miglioramento.
Il kaizen è una strategia di management basata sul miglioramento continuo (dalle parole giapponesi “kai” che significa “continuo” o “cambiamento” e “zen” che significa “miglioramento”, “meglio”). Nella cultura occidentale la nozione di “miglioramento” è stata sempre riferita all’eliminazione dei difetti, alla soluzione dei problemi, alla correzione degli errori, un modo di agire strettamente connaturato all’orientamento generalmente negativo del pensiero occidentale. Anche i giapponesi si preoccupano di eliminare gli errori, ma questo è solo uno degli elementi che va a comporre il loro concetto di miglioramento: a differenza degli occidentali, i giapponesi sono capaci di prendere in esame qualcosa apparentemente perfetto e lavorarci su comunque con lo scopo di migliorarlo, non si limitano a ”raddrizzare” le cose. [Edward De Bono - Essere Creativi] Il kaizen si basa sull’assunto che ogni cosa fa parte di un processo e qualunque processo può essere migliorato costantemente, anche quando non presenta errori. Il miglioramento dovrebbe dunque essere continuo e inesorabile, non in completa rottura con il passato, ma una sua “evoluzione creativa”. Ovviamente non si tratta della creatività intesa come “talento innato”, ma di quella tanto decantata, anche da Bruno Munari in Da Cosa Nasce Cosa, creatività del design, quella capace di trovare soluzioni originali partendo da elementi “dati”. D’altra parte il termine creatività deriva, appunto, dal latino cribrum, “setaccio”, dunque è direttamente collegato al concetto del “setacciare”, al senso della ricerca, una paziente ricerca.
A ben vedere ogni idea, anche quella che appare più geniale e originale, è frutto della rielaborazione di elementi consciamente o inconsciamente conosciuti, in ogni caso esistenti, che la nostra mente percepisce, seleziona, immagazzina e, al momento giusto, fa riemergere, esplora e connette in base alle necessità del momento. Le situazioni e gli stimoli a cui siamo quotidianamente – anche casualmente – esposti sono quindi in grado di influenzare più o meno consapevolmente le nostre “creazioni” innescando un processo apparentemente illogico che nasce dall’esplorazione dei meccanismi della percezione e dà vita a idee la cui validità viene poi supportata dalla logica: è la creatività che può essere migliorata dall’utilizzo delle tecniche del “pensiero laterale” teorizzate da Edward De Bono [http://bit.ly/eM7l90].
deliberato” che punta a utilizzare elementi esperienziali noti interpretandoli in maniera originale, esplorando “approcci diversi” per non rischiare di confondere “il pensare con l’essere logici” [Theodore Lewitt].
L’applicazione del pensiero laterale – o lateral thinking – prevede di giungere alla soluzione di problemi logici utilizzando un approccio indiretto: mentre il pensiero verticale porta a risoluzioni dirette ricorrendo alla logica sequenziale, ovvero risolvendo il problema partendo dalle considerazioni che sembrano più ovvie (alta probabilità, consequenzialità); il pensiero laterale si discosta dalle idee dominanti e dalle prospettive più immediate e va alla ricerca punti di vista alternativi PRIMA di elaborare una soluzione. Il lateral thinking è infatti “una forma strutturata di creatività che può essere usata in modo sistematico e
Il lavoro in team e il brainstorming, o meglio il brainsailing (trad. “veleggiare con il pensiero”, in modo da poter cambiar rotta quando si vuole piuttosto che rischiare di rimanere “vittime” della “tempesta” di idee) sicuramente stimolano la creatività e aiutano a “imparare” ad essere creativi, proprio perché il confronto con gli altri, di per sé, fornisce differenti punti di vista nell’interfacciarsi con i problemi da risolvere: più cervelli che pensano, più punti di vista, più idee.
“I cassetti della memoria” © Alessandra Colucci
Il kaizen e l’atmosfera di miglioramento continuo che ne discende, non derivando dalla ricerca di soluzioni a problemi o errori, non può non presupporre la pratica del lateral thinking, del pensiero laterale. Per mantenere alta la spinta al miglioramento, per creare i piccoli cambiamenti che lo rendono possibile, occorre ovviamente variare continuamente il proprio punto di vista, il proprio modo di pensare e di guardare al processo da perfezionare. In sintesi occorre abbandonare la logica ed utilizzare la creatività.
Ultimamente si parla anche molto di una “nuova” (relativamente nuova, in realtà) figura professionale di
creatività
IL KAIZEN COME ENERGIA CHE VIENE DAL BASSO Per quanto riguarda soprattutto le aziende, il miglioramento richiede il convolgimento di tutti gli stakeholder (cliente incluso, ovviamente). In sintesi si dovrebbe incoraggiare ogni soggetto coinvolto a proporre ed apportare ogni giorno dei piccoli cambiamenti nel proprio contesto di dialogo con la marca (es. per i dipendenti ciò equivale alla propria area di lavoro), impegnandosi in prima persona a perseguire il miglioramento continuo. Complesso quanto fondamentale soprattutto il compito dei responsabili di area e di progetto, dei manager ai vertici della gerarchia aziendale, fattori chiave per la creazione di un’atmosfera aperta a ogni analisi, alle critiche e ai suggerimenti, anche quando risultassero non del tutto in linea con gli obiettivi. Il Kaizen, visto come processo, può essere assimilato al ciclo di Deming (o ciclo PDCA): 1. PLAN – uno dei soggetti coinvolti, attraverso il lateral thinking, ha un’idea creativa di miglioramento di qualcosa 2. DO – si testa l’idea creativa attraverso simulazioni per verificarne la validità 3. CHECK – si valutano i risultati dei test e delle simulazioni per verificare se l’idea creativa ha raggiunto l’obiettivo prefisso 4. ACT – se l’obiettivo risulta raggiunto si cambiano gli standard e si adotta il nuovo metodo derivato dall’idea creativa Appare evidente quanto, sposando la filosofia del Kaizen, strumenti come i social media possano risultare importantissimi per ogni azienda, se adeguatamente utilizzati. Aprire finestre di dialogo con il consumatore, rendendolo prosumer [http://bit.ly/iR9Czc] a tutti gli effetti, per comunicare il proprio brand e ascoltare quel che effettivamente risulta essere percepito, per capire quale sia realmente la propria immagine e la propria reputazione, per arrivare a individuare fonti di miglioramento, sono alcune delle attività rese tecnicamente semplici da tali mezzi. La parte complessa relativa alla definizione di strategie di social networking aziendale riguarda, non l’impostazione tecnica degli account (in realtà alquanto intuitiva), ma la composizione di un quadro strategico che permetta, agevoli o definisca le dinamiche di ascolto, la creazione di interazione e dialogo, l’empatia. Per queste cose non bastano slogan, payoff, claim e promozioni: occorre sensibilità, motivazione e vero interesse verso l’interlocutore. Tratto da http://bit.ly/fxtc1v
“Idea in vitro” © Alessandra Colucci
supporto nella soluzione delle questioni e nella definizione degli obiettivi mirati al miglioramento: quella del coach [http://bit.ly/jflzid]. Il coach è un “facilitatore”, una persona che affianca i propri clienti ascoltandoli, creando empatia e ponendo le giuste domande al fine di guidarli nella costruzione di una visione sistemica della propria vita, della propria professione o di una situazione specifica, in modo che possano trarre la definizione “corretta” dei propri obiettivi e creare un piano d’azione da cui consegua un miglioramento. Il coach è un “motivatore”, aiuta il proprio cliente a focalizzarsi sulle soluzioni piuttosto che sui problemi attivando le risorse necessarie a produrre risultati riducendo le interferenze e traendone soddisfazione. Il coach, in poche parole, è uno “stimolatore di creatività e di kaizen”, un individuo atto a cercare e creare, ponendo domande, nuovi punti di vista che permettano al proprio interlocutore di analizzare al meglio una situazione, un progetto, una problematica, al fine di trovare la giusta prospettiva per produrre un cambiamenti o raggiungere soluzioni attraverso un coerente piano d’azione. In sintesi il coach, utilizzando alcuni modelli (come il GROW, l’EXACT, gli “obiettivi ben formati”, le “4 domande”, le “ruote della vita”...) e strumenti derivanti dalle teorie della pnl (programmazione neuro-linguistica), permette al proprio cliente di aumentare la velocità di creazione delle connessioni tra le sue esperienze e percezioni, facilitando l’individuazione e il raggiungimento degli obiettivi: guida il proprio cliente nell’abbandono della logica sequenziale
quando essa diviene rigida e rende incapaci di trovare soluzioni originali; lo aiuta nell’abituarsi a pensare per immagini, nel visualizzare processi e prospettive, nella ricerca sistematica di una pluralità di impostazioni alternative ai problemi, nel valutare gli eventi fortuiti. La più grande soddisfazione per un coach è quando il cliente dice “Sai, da solo non ci sarei mai arrivato!” : avere un coach apre la mente e fa in modo che l’individuo percepisca se stesso e le varie situazioni analizzate come se stesse guardando attraverso un prisma, da molteplici punti di vista contemporaneamente. Everybody needs a coach, parola di... Google! http://youtu.be/aVKPlS0ejtk Per approfondire »» Kaizen e aziende – ovvero – Creatività, miglioramento e… social media http://bit.ly/fxtc1v »» Essere creativi http://bit.ly/eM7l90 »» “Da dove vengono le buone idee?”, una RSA di Steven Johnson http://bit.ly/ggeXLz »» Connettere piuttosto che collezionare: riflessioni a partire da de Kerckhove http://bit.ly/kUPoiC »» Innovare e connettere per superare la crisi http://bit.ly/lbw0Bj »» Coach è bello http://bit.ly/jflzid »» La civiltà dell’empatia: dagli esperimenti sulle scimmie al branding http://bit.ly/lZLHVC
formazione
Intervista a Francesco Barbaglio, Jacopo Parravicini e Francesco Lo Sterzo
D
a cura di Michele Abis, Samantha Spagnoli, Glenda Galliano, Marta Del Rio, Alessandra Teutonio, Dario Di Lascio
i solito parlando di comunità creative ci si riferisce a team che privilegiano l’estro artistico, ma naturalmente non è sempre così. Per “comunità creative” si intendono, infatti, gruppi in cui l’incontro tra gli individui in cui la condivisione di conoscenze ed esperienze concorrono alla risoluzione di un problema per raggiungere un risultato concreto. È per questo che inseriamo a pieno titolo i gruppi di ricerca scientifica in questo ambito. In occasione del workshop IED tenuto in collaborazione con BCm, per entrare nel cuore della questione abbiamo intervistato tre ricercatori: Francesco Barbaglio, Jacopo Parravicini e Francesco Lo Sterzo, chiedendo loro le proprie impressioni sul lavoro che svolgono, sui team di cui fanno parte e sulle prospettive che la ricerca scientifica italiana ha di fronte. Francesco Barbaglio, nato a Roma il 20 Aprile 1985, dottorando in Ingegneria Aerospaziale presso l’Università “La Sapienza”.
Brand Care magazine: Qual è il tuo campo di ricerca? Francesco Barbaglio: Lavoro presso il laboratorio di Radioscienza del DIMA (Dipartimento Ingegneria Meccanica ed Aerospaziale) dell’università “La Sapienza”. Il nostro lavoro è basato sulla radioscienza e ci occupiamo dello studio, mediante i dati di tracking delle sonde spaziali, dei campi di gravità dei corpi celesti e di esperimenti di relatività.
Siamo parte attiva della ricerca scientifica portata avanti dalla missione spaziale NASA/ESA Cassini-Huygens, la cui sonda è stata lanciata nel 1997 ed è dal 2004 ad oggi nel sistema di Saturno. Facciamo parte dell’esperimento di Radioscienza MORE per la futura missione ESA BepiColombo, con lancio previsto nel 2014 e con destinazione Mercurio. Collaboriamo infine anche con la missione NASA JUNO (lancio previsto nell’estate 2011, obiettivo: lo studio di Giove). BCm: Descrivici il team o i team in cui lavori. FB: Siamo un team di nove ragazzi, laureati e/o dottorandi, oltre al professore. Nella ricerca scientifica il confronto e lo scambio di idee sono fondamentali. A tal fine viene incoraggiato all’interno del team il dialogo, anche con incontri settimanali di tutti i componenti, dove ognuno parla dei risultati raggiunti e dei problemi che si stanno riscontrando. BCm: A tuo avviso come si svilupperà il lavoro di ricerca in team in futuro? FB: La ricerca scientifica nel settore aerospaziale ha bisogno di essere salvaguardata e alimentata sia per le ricadute scientifiche e tecnologiche che porta, sia per il ritorno economico e la spinta industriale che ne segue. Spesso tale aspetto viene sottovalutato e si tende, erroneamente, a
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vedere la ricerca come un qualcosa di fine a se stesso: pura speculazione scientifica senza ricadute pratiche. Riguardo all’Italia presente e futura, non posso che esprimere perplessità sul sistema universitario, soprattutto se paragonato a quelli esteri. Strutture spesso fatiscenti, investimenti esigui e stipendi bassi sono lo specchio dello scarso interesse che è rivolto alla ricerca scientifica nel nostro Paese. Jacopo Parravicini, nato a Milano il 22 settembre 1981. Dottore di ricerca in Ingegneria Elettronica presso l’Università di Pavia. Ex ricercatore a contratto presso l’Università della Franca Contea (Besançon, Francia) e “Giovane Ricercatore” nel Dipartimento di Ingegneria Elettrica e dell’Informazione (DIEI) dell’Università de L’Aquila e nell’Istituto per i Processi Chimico-fisici (PCF) del CNR. BCm: Qual è il tuo campo di ricerca? Jacopo Parravicini: Il campo di ricerca del gruppo cui afferisco rientra nell’ambito della “fotonica”, ossia ottica, tecniche di manipolazione della luce, proprietà ottiche dei materiali, laser, fibre ottiche, ecc. In questo periodo, in particolare, siamo concentrati sullo studio di fenomeni ottici in cristalli in configurazioni termodinamicamente instabili. Tali ricerche risultano interessanti tanto dal punto di vista della fisica fondamentale,
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con lo studio di materiali in configurazioni precedentemente mai indagate, quanto da un punto di vista applicativo, con la futura applicazione di quanto sviluppato a tecniche di microscopia innovative. Tutto questo è finanziato attraverso differenti progetti di ricerca, di natura nazionale ed europea.
risultati migliori l’avere un team di persone di livello non eccelso, ma che sanno interagire strettamente tra loro, piuttosto che avere un team di persone molto formate.
BCm: Secondo la tua esperienza qual è lo stato della ricerca nel nostro Paese rispetto alle orgaBCm: Com’è generalmente composto un team di nizzazioni estere? ricerca nel tuo settore? JP: Ho lavorato per quasi un anno in Francia, e devo dire JP: Il lavoro di un’equipe di ricerca di questo genere può che sotto l’aspetto professionale è stata una buona espeessere suddiviso grosso modo in tre parti, tenendo conto rienza per la posizione che mi è stata offerta, la disponibilità, che tale suddivisione è tutt’altro che rigida. Si tratta di: il trattamento economico. Trovo che lì ci sia un atteggiauna prima parte teorica, in cui viene sviluppata la teoria in mento generale un po’ più formale: le strutture in cui sono grado di descrivere il sistema che si sta studiando e viene ospitati i gruppi (dipartimenti, università, centri di ricerca) espressa attraverso un appropriato formalismo matematico; sono molto più organizzate: con risorse poco maggiori una seconda parte computazionale, in cui vengono svolti di quelle italiane riescono a funzionare assai più facilmente tramite computer i calcoli suggeriti dalle formule matema- e speditamente. Ritengo peraltro che il ritmo di lavoro genetiche della teoria e si ottengono le previsioni numeriche di rale, contrariamente a quanto si pensa, sia decisamente ciò che si ritiene uscirà dagli esperimenti; una terza fase meno serrato che da noi. sperimentale, in cui vengono concepiti, costruiti e svolti gli esperimenti che permettono di valutare quanto previsto BCm: A tuo avviso come si svilupperà il lavoro di dalla teoria. ricerca in team in futuro? Questi tre passaggi il più delle volte non sono eseguiti JP: Una tendenza chiara è che il lavoro di ricerca andrà in quest’ordine. Un team di ricerca ha una struttura che sempre più verso una “americanizzazione”. In parole dipende fortemente dalla natura degli oggetti da studiare. povere avverrà (e sta già avvenendo da alcuni anni) che le La fisica delle particelle, per esempio (quella, per inten- risorse (finanziamenti, spazi, posizioni, ecc.) saranno assederci, che viene svolta al CERN di Ginevra), necessita di gnate sempre meno in maniera uniforme e sempre più attrastrumentazioni molto grandi e molto costose, per cui il team verso progetti di ricerca specifici da finanziare. Da un lato di ricerca è composto da centinaia o migliaia di persone. questo è positivo, perché premia le idee buone e proficue Nel campo della fisica di cui mi occupo io, invece, sono e permette di concentrare i finanziamenti là dove si ritiene presenti gruppi ristretti, solitamente composti da possano fornire i risultati migliori. Dall’altro in questo modo dieci-dodici di persone al massimo. All’incirca ci sono viene evidentemente compressa la libertà di ricerca e, uno o due persone a capo del team: queste hanno una posi- soprattutto, rischiano di essere penalizzati settori di ricerca zione fissa (per cui sono detti “strutturati”), in università o meno “à la page”, o senza risvolti applicativi, come anche in un ente di ricerca, e sono i responsabili dei finanziamenti. idee più ardite. Il fatto è che sono proprio queste le idee che, Poi ci sono due o tre post-dottorandi, ricercatori a contratto se hanno successo, permettono di produrre innovazione. o assegnisti o posizioni analoghe (io sono tra questi), con In definitiva trovo che il futuro della ricerca si giochi su un contratti della durata generalmente variabile tra 1 e 3 anni. bilanciamento nel fornire risorse in parte a progetti La fisica è una disciplina molto ampia e molto specializzata, che abbiano risultati “sicuri” e in parte a progetti che a sua volta si appoggia ad altre discipline. Per questo che implichino una forte dose di rischio (cioè una nessuno, neanche un genio, è in grado di lavorare total- buona possibilità che non riescano). Occorre comunque mente da solo (se non in particolarissimi casi). tenere presente che, in ogni caso, qualunque ricerca veraRisulta dunque fondamentale una stretta interazione tra i mente interessante può fallire. membri di un gruppo. Chi nel gruppo ha più esperienza, Il team sarà sempre più importante in quest’ottica, perché oltre a insegnare a chi ne ha meno, conosce la maggior un singolo, per quanto dotato, sarà sempre meno in parte degli errori che si possono commettere, errori che grado di ottenere da solo delle risorse per svilupsono quelli che fanno perdere più tempo inutilmente; chi pare la propria linea di ricerca. Su questi aspetti l’Italia ha esperienza è colui che ha istinto, ha metodo, dovrebbe “rischiare” molto di più. Le risorse date alla ricerca, ha chiaro, il più delle volte, qual è la strada più a ben guardare, sono e resteranno sempre una parte piccola proficua da percorrere. D’altra parte, chi nel gruppo del bilancio generale della nazione, sia per il pubblico che ha meno esperienza fornisce spesso le idee più per il privato. In Italia purtroppo le aziende non hanno (quasi) innovative, e nel “farsi le ossa” eseguendo compiti mai voluto rischiare e lo Stato non ha i mezzi per farlo, anche più semplici e ripetitivi, compie un lavoro prezioso. perché ciò apparentemente non paga a livello politico. Perciò è fondamentale che il team sia su questi aspetti ben Riguardo questo nel resto dell’Unione Europea la situabilanciato e coeso. In molte occasioni addirittura fornisce zione è certamente migliore, ma mi sembra di
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formazione
individuare i semi di questo atteggiamento un po’ dappertutto (tendenza al “non rischio”, burocratizzazione, ecc.). È per questo che far conoscere all’opinione pubblica il nostro lavoro, il lavoro di ricerca, è importante. Negli ultimi anni, in maniera assolutamente indipendente dal colore di chi è stato al governo, tutti hanno penalizzato la ricerca, per due ragioni. Da una parte perché oggettivamente sono stati commessi degli abusi (baronie, ecc.); dall’altra perché un sostegno alla ricerca produce risultati difficilmente quantificabili, sia da un punto di vista economico che da un punto di vista elettorale. Quello che bisognerebbe avere il coraggio di fare è innanzitutto distinguere il merito delle persone. A quelle che sono riconosciute in grado di ottenere buoni risultati lasciare campo libero, senza eccessivi burocratismi. Burocratismi che sono presenti in Italia e ancora di più nelle istituzioni europee. Riguardo i vantaggi che si otterrebbero, occorre tenere presente che gli Stati economicamente e politicamente più prosperi, da più di un secolo, sono quelli che producono di più sulla ricerca, anche e soprattutto sulla ricerca fondamentale. Un esempio tra tutti: gli Stati Uniti.
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Francesco Lo Sterzo, nato a Roma il 5 Novembre 1985, dottorando del Dipartimento di Fisica presso l’Università “La Sapienza” di Roma e laureato con una tesi sull’esperimento ATLAS del CERN di Ginevra, istituto con cui collabora tuttora. BCm: Qual è il tuo campo di ricerca? Francesco Lo Sterzo: Il mio campo di ricerca è la fisica sperimentale delle particelle elementari. Questo campo della fisica studia i costituenti fondamentali della materia, cioè quelle particelle (i quark - che formano i protoni e i neutroni che sono alla base di tutti i fenomeni che osserviamo in natura. I fisici delle particelle studiano le proprietà e il comportamento di questi costiuenti fondamentali con lo scopo di capirne la natura e il funzionamento. Recentemente il professor Peter Higgs ha proposto una teoria che prevede © Wikimedia.org
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l’esistenza di una nuova particella (il famoso “bosone di Higgs”) e la verifica di questa teoria è uno dei primi obiettivi di molti degli esperimenti di fisica delle particelle elementari che sono in corso. Ad oggi uno dei posti privilegiati su scala mondiale per fare queste ricerche è il CERN (Centro Europeo di Ricerca Nucleare) di Ginevra. Al CERN di Ginevra è stato messo in funzione il più grande e potente acceleratore di particelle mai costruito: un anello di 27 km di diametro in grado far scontrare protoni a un’energia, al momento, di 7 teraelettronvolt. Un acceleratore di particelle serve per riprodurre in maniera sistematica e controllata fenomeni che avvengono raramente in natura, e quanto più l’acceleratore è potente tanti più fenomeni esso sarà in grado di produrre (e quindi rendere osservabili per gli scienziati). L’acceleratore accelera gruppi di particelle in due sensi contrari e le fa scontrare in alcuni punti. Intorno a questi punti di impatto ci sono dei grandi rivelatori pronti a “fotografare” i prodotti delle collisioni. Il lavoro di un fisico sperimentale come me in questo momento consiste nell’analizzare i dati raccolti dal proprio rivelatore.
grandi è molto stimolante e molto bello. Da un lato si condividono l’entusiasmo, la curiosità e l’apprendimento di nuove cose, sia per quanto riguarda la fisica in sé che per quello che concerne le tecniche usate per studiare i fenomeni. Ma anche il confronto con le conoscenze e l’esperienza di persone più grandi che fanno questo mestiere da più tempo è fondamentale (ed è anche da questo che si impara tanto).
BCm: Secondo te che importanza assumerà il team nel futuro? FLS: Penso che un aspetto fondamentale per il futuro della ricerca in Italia sia quello dei finanziamenti: senza finanziamenti questo tipo di ricerca (come ogni altro tipo di ricerca di base) non ha futuro, e in Italia gli ultimi governi (di qualsiasi schieramento) hanno fatto poco da questo punto di vista. Legato a questo c’è il fatto che l’Università italiana risulta essere poco appetibile per gli studenti stranieri: io conosco molti italiani (da dottorandi in su) che hanno contratti con università o enti stranieri, mentre conosco pochissime persone straniere che hanno contratti con realtà italiane. Questo è dovuto sia al fatto che nel nostro campo gli stipendi italiani per tutte le posizioni sono circa BCm: Qual è stata ed è la tua esperienza nel lavoro 2 o 3 volte più bassi rispetto agli stipendi corrispondenti di ricerca in team? all’estero, sia alla gestione diversa dei fondi che c’è altrove: FLS: Il gruppo di ricerca nel quale sono inserito è il gruppo da noi i fondi sono gestiti centralmente dalle istituzioni, ATLAS dell’Università “La Sapienza”. In generale ogni per cui per assumere qualcuno c’è bisogno di un concorso singolo gruppo di ricerca è organizzato secondo una che ha inevitabilmente dei tempi lunghi, mentre all’estero struttura piramidale: c’è un professore che è il capo del spesso ogni gruppo di ricerca ha dei fondi a disposizione gruppo che si occupa sia del management del team che dello e può scegliere come utilizzarli. studio vero e proprio dei fenomeni fisici. Poi vengono altri Per quanto riguarda il lavoro di gruppo penso che è e resterà professori, ricercatori e i cosiddetti “post-doc” che sono dei fondamentale ,anche perché spesso i lavori e le rilevazioni ricercatori che hanno dei contratti di breve durata (in genere che si fanno sono molto complessi e vasti. uno o due anni). Dopo di questi ci sono i dottorandi e i laure- Infine credo che sia molto importante che gli italiani conoandi che normalmente sono in numero maggiore. scano il nostro lavoro e in generale tutta la ricerca che si fa Per quanto mi riguarda far parte di un team e lavorare in in Italia, e – parlo per esperienza personale – mi sembra che gruppo sia con persone della mia età che con persone più ci sia molta curiosità verso ciò che facciamo.
tecnologie e web
L’
di Alfonso Amendola
articolarsi delle “comunità creative” da tempo ci indica “scoperte”, possibilità e prospettive di costruzione del “novum”, al di là di qualsiasi definizione teorica e di ogni giusta ricerca storica. Il fermo volere di questo concetto (che, come in tante altre sedi largamente sottolineato, racchiude in sé anche una voluta vocazione militante, didattica, storica e testimoniale) è quello non solo di voler recuperare una rinvigorita idea di sperimentazione audiovisiva, ma di indicare precise esigenze espressive, produttive e culturali. Un tempo si sarebbe detto “bisogni”, ma non oso tanto. Esigenze che devono avere la capacità di raccontare – attraverso uno sguardo obliquo e di vera creatività collettiva – almeno sette punti di base: 1. analisi degli attraversamenti complessi e pluricontaminati dell’intero sistema espressivo; 2. definizione delle neoprofessionalità degli esordienti e di quanti lavorano nell’ambito della frammentazione creativa; 3. scoperte continue dei temi dell’indipendenza e dell’autoproduzione; 4. confronto sempre più necessario tra linguaggi “tradizionali” e “novissimi”; 5. maturazione di una giovane critica; 6. rafforzamento di progettualità legate al marketing territoriale delle nuove creatività “tecnetroniche” e delle culture digitali; 7. identificazione e “formazione” di un nuovo potenziale di pubblico. Lungo gli assi di questa scia d’azione teorica sembra orbitare il docu-web del quale andiamo parlare. Italiani 2.0 non è soltanto un importante prodotto di docu-web ma è un sostanziale punto di partenza. È un momento di cominciamento per leggere,
da angolazioni differenti, storie d’Italia a partire dal web, dall’uso dinamico e socializzante delle neo-tecnologie e da tutta una miriade di processi d’innovazione che rispondono ad articolate esigenze: “culturali”, “economiche”, “politiche”, “imprenditoriali”, “espressive”. Costruito con un ritmo denso e cadenzato (con una dose di lieve ironia) Italiani 2.0 – ideato e realizzato dal Ninja LAB, scritto da Luca Leoni e diretto da Lino Palena – è un lavoro di matrice corale di grande magnetismo. Robin Good, Livia Iacolare, Salvatore Aranzulla, Gianfranco Marziano, Evy, Tony Ponticiello, The Dopes, Daniele Goli, Giulia Bassetta, Lucio Dione in © Lino Palena pieno di stile d’estetica “post-storica” si raccontano nel tempo del web 2.0. E le loro sono storie molteplici, storie di rabdomanti di internet, storie d’amori e blasfemia e militanza politica e bizzarria e mobilitazione sociale e invenzioni d’arte... In breve storie di chi ha radicalmente riscritto non solo la propria professione ma la propria vita, il proprio modo d’essere al mondo. Ulteriore punto di forza di Italiani 2.0 è sicuramente rappresentato dalla capacità d’aver saputo aggregare, avvicinare e far convivere in un unico flusso narrativo numerosi voci e stili, orizzonti e possibilità. Infatti, in piena linea con le logiche della rete in questo racconto web-audiovisivo “convivono” anche le presenze (complici più che testimoni) di Paola Maugeri, Linus, Oliviero Toscani, Mauro Coruzzi. Italiani 2.0 è un riuscito prodotto di pensieri, riflessioni, modalità dell’agire contemporaneo. È uno scandaglio profondo nella nostra attualità. Ma al contempo è “prospettiva di dialogo” e “sintesi storica”. Italiani 2.0 è “prospettiva di dialogo” in quanto l’eterogeneità di questo docu-web la rintracciamo nel dialogo diretto/indiretto verso il miglior procedere delle azioni che attualmente stanno incidendo nel nostro tempo che sa pensare in chiave 2.0 (necessario, a mio giudizio, il rimando a tutte le operazioni di Ninja Marketing oppure a un testo culto come Free di Chris Anderson). Italiani 2.0, inoltre, è “sintesi storica” in quanto ha anche valore di “documentazione sul campo” in un desiderio che fu caro a Pier Paolo Pasolini (“capire e raccontare fedelmente”) o al Cesare Zavattini del “pedinamento del reale”. O che sembra rimandare al miglior “Cinéma vérité” progettato da Edgar Morin e Jean Rouch, che ancora oggi sono un modello perfetto per avvicinare quadri e procedure analitiche tra sociologia ed etnografia e per costruire narrazioni audiovisive digitali e post-cinematografiche. Il tutto miscelato in un procedere teorico che guarda alle fondanti indicazioni di un Pierre Levy (che tra i primi ha cominciato a comprendere lo slancio tecnologico come
spazio di condivisione, innovazione culturale e di continue frontiere infrante).Oppure ritrovando segnali di Nicholas Mirzoeff e il suo invito a una continua osservazione della “cultura visuale”, delle “immagini complesse” e della miriade di “eventi visuali” che popolano la nostra quotidianità. Senza dimenticare altri costruttori-fondatori che hanno saputo indicarci per illuminazioni primigenie il nostro immaginario. Un nome su tutti: Gilles Deleuze. Ecco, solamente nei transiti di sfaldamenti epistemologici e nella pratica di un’osservazione diretta, partecipata e di metodo possiamo non solo dar forza alle pratiche artistiche, imprenditoriali, affettive, professionali della contemporaneità e del futuro, ma possiamo anche stabilire un rinnovato nutrimento dell’immaginario collettivo e dei profondi mutamenti dell’industria culturale. Perseverando e rafforzando una ricerca che acquista pregnanza teorica non solo nello studio, ma anche nell’organizzazione e nelle attivazioni di continue reti di conoscenza. È quindi basilare saper percorrere gli accadimenti, illustrarli, accompagnarli, se necessario determinarli. Non c’è ricerca, se non c’è azione operativa. Non c’è sapere se non si entra nel cuore (nel magma) delle cose. Italiani 2.0 è racconto corale, azione progettuale a partire dal web, percorso teorico, tracciato storico ma anche ritrovata “passione” e rinnovato sguardo “militante”. Insomma, Italiani 2.0 (oltre a stabilire con i suoi “780 giga di filmati raccolti” un originalissimo tassello dell’italica unità che proprio in questi mesi festeggia i suoi 150 anni di vita) è la costanza di un’intrapresa che diviene viatico e istigazione di ricomposizione del reale, spingendoci verso una strada non facile, certo… ma a nostro giudizio necessaria. Come è, sempre, necessario ritrovare respiri di vita, creare microrelazioni, indicare sguardi produttivi, fare rizoma, tessere dialoghi di conoscenza. Disegnare cartografie del mondo. E molto, molto altro ancora…
comunicazione
Gli Open Data come strumento di democrazia
L
di Davide Bennato
a democrazia può essere contenuta in una database? La cittadinanza può passare da statistiche e altri strumenti quantitativi? La partecipazione può essere una forma di analisi dei dati? La trasparenza può essere espressa in forma numerica? Per quanto possa sembrare strano, la risposta è si. Si chiama Open Data, ed è quel movimento che raccoglie attorno a sé esperti, cittadini, pubbliche amministrazioni e politici, accomunati dall’idea che l’enorme quantitativo delle informazioni prodotte dalle istituzioni – sociali, politiche, scientifiche – possano portare a un livello diverso la democrazia partecipativa.
La democrazia come la conosciamo si estrinseca nell’atto della partecipazione: partecipazione che – nella stragrande maggioranza dei casi – si esprime attraverso il voto. Ma il voto non è l’unica forma di partecipazione, ne esistono diverse, per esempio l’associazionismo. In questa diversificazione della partecipazione, nel periodo dei media sociali e del web partecipativo – appunto – anche l’uso dei dati può essere espressione di democrazia. Ma in che modo? Il movimento Open Data – così come altri movimenti Open (open source, open/free culture, creative commons) – parte dal presupposto che la conoscenza, il sapere e l’informazione devono essere liberi: libera deve essere la circolazione, libera deve essere la diffusione, libera deve essere l’utilizzazione. Nella fattispecie, i dati prodotti da particolari istituzioni e organizzazioni devono essere liberi e aperti, perché sono patrimonio della collettività e perché i dati grezzi altro non sono che conoscenza in attesa di essere raffinata. Dati prodotti da particolari istituzioni. La cosa, già interessante in sé, diventa ancora più interessante se applicata alla politica: si chiama Open Government (semplificato in Open Gov) ed è il concetto di Open Data applicati alla polis. Infatti pubbliche amministrazioni, municipalità, governi, producono una serie di dati che ci riguardano molto da vicino, perché hanno a che fare con la sfera pubblica. Il
Esistono diversi progetti che usando la logica dell’Open Data tentano di portare avanti l’idea dell’Open Gov. L’amministrazione Obama, per esempio, è molto attiva in questo settore. Un caso celebre è Data.gov [http://www. data.gov/], sito il cui scopo è aumentare l’accesso pubblico a dataset di alto valore, compatibili con strumenti informatici e prodotti dal governo federale degli Stati Uniti. Il sito non è solo un enorme database di dati liberamente utilizzabili, ma un vero e proprio think tank dell’Open Data, a cui vengono chiamati a collaborare sviluppatori chiedendo
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Fra coloro i quali si riconoscono nel movimento Open Data, un esempio molto citato è quello della Goldcorp [http:// www.goldcorp.com/]. Società canadese, specializzata nella estrazione dell’oro da miniere proprietarie, la Goldcorp alla fine degli anni ’90 fu colpita da un’importante crisi. La Red Lake, principale miniera della società, aveva enormemente ridotto il proprio bacino aurifero, diminuendo drasticamente la sua produttività. Rob McEwen [http://www.robmcewen. com/], fondatore ed ex amministratore delegato della società, non sapendo che pesci prendere, si ispirò a progetti collaborativi tipici del software come l’Open Source e decise di pubblicare sul sito della società il completo set di dati geologici di proprietà della stessa Goldcorp, facendo partire un contest, chiedendo – a chi fosse interessato – di trovare un modo per trovare nuovi filoni d’oro della miniera. I risultati furono incredibili: vennero suggeriti circa 110 obiettivi in cui probabilmente c’erano filoni d’oro, di questi l’80% produssero effettivamente una quantità significativa d’oro, con la conseguenza che la Goldcorp inaugurò una nuova strategia nel business delle miniere, e all’aumento della produttività aurifera corrispose un calo di circa un sesto dei costi minerari. La strategia adottata è quella che Jeff Howe con un celebre neologismo avrebbe chiamato qualche anno più tardi crowdsourcing : ma la sostanza non cambia. Facendo diventare i dati proprietari della Goldcorp dati aperti, liberi, Open data, McEwen aveva risolto il rischio di chiusura della miniera di Red Lake.
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numero di votanti, la struttura degli appalti, l’assenteismo dei parlamentari: sono tutti dati che nelle mani dei cittadini possono assumere un elevato valore politico di trasparenza. Esistono tutta una serie di dati, di libero accesso perché pubblici, ma sepolti in siti difficili da raggiungere o – peggio ancora – in faldoni difficilmente utilizzabili. L’uso di questi dati può essere importante, poiché possono essere utili per una politica non solo in grado di esprimere razionalmente una decisione, ma anche che sia più trasparente e in grado di dialogare diversamente dai cittadini. Perché gli Open Data potrebbero essere utili per i cittadini? Perché in questo modo i cittadini potrebbero trovare soluzioni alternative a problemi di governance: dalle strategie per l’abbattimento del traffico a metodi per migliorare il sistema della nettezza urbana.
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comunicazione
loro di mettere a punto applicazioni per iPad e iPhone, strumenti di data visualization, oppure semplicemente si chiede agli stessi cittadini di suggerire un set di dati prodotti dal Governo federale che potrebbero essere interessanti. Un progetto simile è Opening Up Government [http:// data.gov.uk/], che fa riferimento al Governo Inglese e che – secondo la stessa filosofia dell’omologo sito americano – non solo è un enorme motore di ricerca per dataset liberi a cui ogni cittadino può accedere, ma anche un sito dove trovare applicazioni web o mobile per la visualizzazione e l’esplorazione dei dati. È anche possibile proporsi come fornitori di dati Open, se si è un’associazione che possiede archivi digitali d’interesse pubblico. Gli inglesi sono piuttosto attivi su questi temi e spesso danno vita a progetti interessanti. Come il sito Where did my tax go? [Dove sono andate a finire le mie tasse? - http://www. wheredidmytaxgo.co.uk/], un’applicazione web interattiva in
cui inserendo il proprio reddito e il sesso, è possibile vedere come sono stati ripartite le tasse pagate negli ultimi anni. E in Italia? Seppur lentamente, c’è un interesse crescente verso queste tematiche, anche se non sempre da parte delle pubbliche amministrazioni. Un caso celeberrimo è Openpolis.it [http://openpolis.it/], associazione il cui scopo è usare i dati liberamente disponibili sui siti di Camera e Senato per fornire ai cittadini tutta una serie di informazioni sui propri parlamentari: da una raccolta delle dichiarazioni apparse sugli organi di stampa a statistiche su votazioni e astensioni durante i lavori parlamentari (col progetto Openparlamento: http://parlamento.openpolis.it/). Inoltre stanno crescendo sempre più associazioni il cui obiettivo è diffondere la cultura dell’Open Data fra i cittadini e nelle pubbliche amministrazioni. È il caso di Linked Open Data Italia [http://www.linkedopendata.it/] che segue la filosofia di altri progetti simili, sottolineando soprattutto
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la necessità di un accesso alle informazioni prodotte dalle pubbliche amministrazioni, così come Datagov.it [http:// www.datagov.it/] che raccoglie un gruppo di professionisti dell’università e della pubblica amministrazione, molto attivi sul versante web e social media, oppure Spaghettiopendata [http://www.spaghettiopendata.org/], che raggruppa prevalentemente cittadini e persone interessate all’argomento. Alcune pubbliche amministrazioni stanno cominciando a muoversi su questi territori. Dati.Piemonte.it [http://www. dati.piemonte.it/] è un enorme database di dati prodotti dalla Regione Piemonte. Le statistiche della Regione Emilia Romagna [http://www.regione.emilia-romagna.it/ wcm/statistica/], i dati geografici della Regione Puglia [ht tp://sit.puglia.it / por tal /sit _cit tadino / Download] oppure l’importante dataset sui terremoti dell’Istituto nazionale di Geofisica e Vulcanologia sono altri esempi [http://openmap.rm.ingv.it/gmaps/rec-big/Index.htm].
Nei primi anni 90 nacque il movimento culturale della Evidence Based Medicine, il cui scopo era quello di riportare la diagnosi clinica non sui territori dell’intuizione o dell’improvvisazione, ma su una analisi consapevole e scientificamente documentata dei casi clinici. Usare i dati clinici ed epidemiologici in maniera consapevole così da giungere ad una corretta diagnosi del paziente. Se guardiamo bene il movimento dell’Open Gov e l’importanza che in esso riveste l’uso degli Open Data notiamo che l’analisi dei dati e la visualizzazione delle informazioni, altro non sono che un modo per migliorare la trasparenza delle pubbliche amministrazioni e la consapevolezza del cittadino, magari promuovendo una politica in grado di prendere le decisioni attraverso i dati e non (o meglio: non solo) a partire da motivi ideologici. Una democrazia basata su scelte consapevoli, una evidence based democracy.
culture
Pratiche di consumo creativo nel territorio digitale
L
di Vincenzo Bernabei
e quattro ere antropologiche Secondo l’intellettuale francese Pierre Lévy l’esistenza dell’essere umano può essere suddivisa in quattro ere antropologiche: l’era della Terra, che dallo stato di natura ci introduce all’uso della tecnica e del linguaggio; quella del Territorio, connessa alla scrittura e all’agricoltura (è per mezzo di esse che iniziamo a tracciare delle linee di demarcazione, a “scrivere” confini sulla “pelle” della Terra); quella delle Merci, che parte con l’età Moderna e si distingue per una massiccia circolazione di manufatti tecnicamente riproducibili; e infine quella del Sapere, riconoscibile per il rinnovato ruolo che le forme di conoscenza giocano al suo interno, nonché per una diffusione repentina, continua, omogenea e partecipativa delle esperienze e delle competenze, che dà vita a una sorta di intelligenza collettiva. La caratteristica principale che accomuna le quattro epoche è la loro tendenza a sovrapporsi: l’avvento di un’era non cancella affatto lo stadio precedente ma, al contrario, tende a rivisitarlo, rielaborarlo e proporlo in maniera riqualificata. È evidente che l’epoca del Sapere, definitivamente affermatasi con
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l’ingresso delle tecnologie digitali tra le pratiche quotidiane di scambio e di rappresentazione, lascia trasparire tra le sue maglie forme di comunicazione, di cultura e di convivenza di tipo tradizionale, a volte persino ataviche, che nel corso della nostra linea evolutiva si sono sedimentate costituendo un background collettivo. Viviamo oggi in una sorta di territorio digitale in cui le tecnologie della rete, oltre a innovare, producendo elementi di discontinuità rispetto al passato, e a produrre nuove forme di condivisione, ci ricordano essenzialmente da dove veniamo riproponendo, attraverso flashback suggestivi e meccanismi di ripetizione spesso controversi, degli schemi riconoscibili di trasmissione di contenuti e di informazioni. Location based activities L’ormai folto gruppo di location based services da qualche tempo annovera tra le sue fila anche Facebook Places, che la società di Zuckerberg ha lanciato in risposta ai vari Foursquare e Loopt. Places serve a condividere, direttamente dallo smartphone, informazioni sulla propria posizione, sulle proprie attività e sulle persone con cui ci si trova in un dato momento. Per attivare questa nuova funzione Facebook aveva dapprima pensato di rilevare direttamente Foursquare, ma la mancanza di un accordo economico tra le parti ha spinto il famoso social network a “fare da sé” acquisendo il know-how, oltre © Flickr-by cpfl cultura
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culture
che la proprietà, della società Hot Potato, detentrice dei codici sorgente alla base dell’applicazione. Nello stesso periodo Google ha ripreso anche nel nostro Paese la mappatura del Territorio con Street View, il servizio presente in più di 20 paesi nel mondo che permette all’utente di esplorare virtualmente le città più importanti attraverso la visualizzazione di foto panoramiche scattate a livello stradale. Un servizio che a sua volta fa da traino a Maps, altra celebre applicazione di Big G che da qui a poco produrrà revenues considerevoli.
sono interessati a mappare i nostri spostamenti. Con grande divertimento per gli utenti, qualche incidente di privacy e sontuosi fatturati per i nuovi giganti della comunicazione.
Altro servizio di grande successo in questa fase è senza dubbio Instagram, un’app gratuita concepita per iPhone, ma che probabilmente nel prossimo periodo vivrà una stagione di grandi successi anche su altri devices e piattaforme operative, come Blackberry e Android. La sua funzione primaria è di scattare foto lungo i nostri percorsi quotidiani e di uploadarle su spazi Insomma, se in altre epoche, e fino alla nostra infanzia, social come Twitter, Facebook, Flickr o FourSquare eravamo abituati a immaginare il territorio attraverso la stesso, permettendoci di intrattenere relazioni “visuali” lettura delle carte geografiche, degli atlanti o dei mappa- con altri utenti tramite commenti e like. Uno dei motivi del mondi (basti pensare alla differenza tra carta “fisica” e “poli- successo di Instagram sta nella sua semplicità di utilizzo. tica” ), oggi lo visualizziamo come insieme di textures In pochi, facili passi infatti è possibile ottenere l’immapersonalizzabili e popolate da vari “segnaposto” gine, modificarla attraverso un bouquet di filtri che ci aiutano a localizzare i nostri amici, i locali che ci pre-impostati (effetto pellicola, vintage, Polaroid, bianco e nero, seppiato, ecc…) e metterla a disposizione dei piacciono, i luoghi di interesse. Nell’epoca dei geo social media oltre a digitalizzare il nostri follower sparsi per il mondo. nostro lavoro, i nostri hobby, il contatto con gli altri, digi- Le foto, processate istantaneamente attraverso qualche talizziamo l’ambiente stesso; e se fino a qualche tempo fa passaggio in touch screen, assumono spesso – in modo le applicazioni di geolocalizzazione erano concepite per più o meno voluto, talvolta a prescindere dalle comperispondere alla domanda: “dove mi trovo?” (si pensi ai navi- tenze tecniche dell’utente – un grado di suggestione gatori satellitari) ora servono anche a farsi localizzare dagli notevole, tramite effetti che fino a qualche tempo fa erano altri membri della propria community, che a loro volta impossibili da ottenere per un dilettante, se si pensa alla
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ginnastica. Uno spazio informativo concepito per milioni di appassionati, collezionisti e curiosi, ma soprattutto un interessante veicolo comunicativo per fare community. La Con Instagram può capitare così di sentirsi inseriti in main page di Sneakerpedia si presenta come uno schedario un inebriante meccanismo che ci rende “fotografi per virtuale: una serie di foto di scarpe che, al passaggio del un giorno”, così come “reporter per un giorno” deve puntatore, rivelano una descrizione essenziale del modello: essersi sentito l’ormai celebre ReallyVirtual (al secolo nome, azienda produttrice, anno di fabbricazione, materiale Sohaib Athar), il geek pakistano che attraverso Twitter ha utilizzato e quant’altro. Il campo più intrigante, però, appare coperto – inconsapevolmente primo al mondo – l’evento nel momento in cui si clicca sul singolo modello: si tratta dell’uccisione di Bin Laden nella città di Abbotabad. dello spazio Personal sneaker stories, in cui gli utenti possono raccontare un’esperienza legata all’uso di quella determinata scarpa. E così l’informazione lascia posto allo Un prodotto per amico Lo stretto legame tra customer (o user) engagement storytelling. strategies e logica wiki può ormai una vantare tradizione relativamente lunga. Dai tempi di Lostpedia, ma anche di Se fino a oggi erano stati lanciati molti portali in cui era Wookieepedia e Muppet Wiki l’idea di unire informazione possibile informarsi sui modelli di scarpe futuri, d’ora e intrattenimento per fare branding ha continuato a rapire gli in poi la ricchissima industria dell’abbigliamento sporstrateghi della comunicazione in vari settori merceologici. tivo potrà contare su una nuova risorsa: uno spazio in cui Questo tipo di politica è applicabile quando una marca può i propri clienti e fan entrano per indagare sul passato e far leva su prodotti (o personaggi, se si tratta di artefatti sul lifestyle di altri consumatori. culturali seriali) cult, articoli molto noti in grado di generare interesse in uno specifico target di consumer, fino a dare Altro esempio di creatività applicata a community di consumo è la novità da poco introdotta da Facebook. luogo a un cosiddetto fandom. In questo ambito rientra il progetto Sneakerpedia, un Da qualche tempo, infatti, nelle foto di Facebook è portale wiki entrato a regime pochi giorni fa e promosso possibile taggare, oltre alle persone titolari di un da Foot Locker, interamente dedicato alle scarpe da profilo, anche prodotti commerciali e marchi. fotografia analogica, ma anche alla bassa risoluzione delle cam installate sui dispositivi mobili di vecchia generazione.
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culture
Un’abile strategia di brand entertainment attraverso la quale le grandi marche contano di reclutare milioni di “creativi” non professionisti: gli utenti. Fare una foto di gruppo, postarla su Facebook e taggare le persone riconoscibili all’interno dell’immagine è ormai una delle pratiche più frequenti a cui possiamo pensare. Con una semplicissima operazione otteniamo tre risultati: informiamo i nostri amici (per esempio sul fatto che siamo stati a una festa, a un evento o comunque in un determinato luogo insieme a determinate persone), creiamo intrattenimento (non solo per le persone taggate, ma per tutti coloro che visualizzeranno la nostra bacheca) e – come per qualsiasi attività sui social – “facciamo rete”, vale a dire approfondiamo il rapporto con i “taggati” coinvolgendoli in un thread di discussione, per quanto rudimentale.
fotografare, i propri prodotti in giro per il mondo. La funzione che rende possibile taggare in uno status i detentori delle fan page è stata attivata da Facebook un paio di mesi fa (prima, appunto, era possibile farlo solo con i profili personali), e pare stia riscuotendo successo. In poche parole ora è possibile fotografarsi insieme a una lattina di Coke (ma anche a una tazza di caffè Starbucks, o indossando un capo d’abbigliamento Zappos) e citarla nella descrizione anteponendo il carattere “@” al nome del prodotto in oggetto. A ben pensarci non si tratta affatto di una trovata calata dall’alto. Da tempo, infatti, gli utenti di Facebook hanno iniziato a distorcere in maniera creativa il flusso comunicativo immaginato da Zuckerberg e soci. Siccome nulla ci ha mai vietato di aprire un profilo personale intestato all’orsacchiotto della nostra infanzia, al nostro cane, o alla nostra associazione culturale (anche se in quest’ultimo La novità è che alcuni i grandi brand, in primis Coca caso si tratta di una forzatura, poiché Facebook invita ad Cola, hanno iniziato a invogliare i fan a citare, oltre che a aprire profili personali solo per le persone fisiche), la rete
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si è presto riempita di didascalie del tipo “Marco, Giovanna e ‘Circoloditennislaracchettadoro’”, o “Marco, Giovanna e Fido”. Le aziende, dunque, non hanno fatto altro che promuovere un’abitudine già diffusa, fiutando l’affare e cercando di usufruire di una pratica di user generated content consolidata, trasformandolo in un veicolo di visibilità potenzialmente enorme e… gratuito (naturalmente non sono previste revenues per gli autori delle foto). L’affermazione di questa attività di “product placement nel quotidiano” non fa che riaffermare una tendenza già nota: quella dell’umanizzazione dei valori di marca (cfr. Brand Care magazine n° 007). Da un lato, attraverso i fenomeni di personal branding, le persone tendono ormai a promuoversi nella vetrina globale e a entrare nel mercato conversazionale come fossero dei brand; dall’altro le marche stesse assumono un volto familiare, confidenziale, e popolano le nostre vite di consumatori entrando dalla porta principale: quella dell’amicizia e della fiducia.
Le tecnologie digitali applicate alla comunicazione. Esse da un lato “proletarizzano” il lavoro dei professionisti, dato che a un occhio meno esperto uno scatto o un artwork di un comune utente può risultare paragonabile a un prodotto professionale; dall’altro, per lo stesso motivo, rendono senza dubbio più interessante l’opera di un autodidatta, il quale di fronte a risultati incoraggianti si sente più invogliato a comunicare utilizzando codici espressivi che aveva sempre considerato off-limits. L’incredibile esplosione e circolazione di immagini che si è registrata a partire dall’avvento della fotografia digitale ne è la dimostrazione. Forse Lévy non l’aveva preconizzata esattamente in questi termini, ma di certo l’era del Sapere, o dell’intelligenza collettiva, passa anche e soprattutto da tipologie di attività ludico-(ri)creative raccolte intorno a oggetti di largo consumo. Terra, Territorio, Merci e Sapere. Il cerchio si chiude in un click.
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agli anni ‘80 il WWF Italia è impegnato nella salvaguardia delle tartarughe marine, attraverso lo studio, la cura nei Centri di recupero e la difesa dei nidi. Il WWF Italia è impegnato nella salvaguardia e nella ricerca applicata alla conservazione delle Tartarughe marine dagli anni ottanta, quando fu avviato, in collaborazione con l’Università ‘La Sapienza’ di Roma, il primo programma nazionale su queste specie. Questa prima attività ha consentito lo sviluppo di molteplici attività a livello locale, con la promozione da semplici azioni di monitoraggio a complessi interventi e progetti di assistenza diretta su esemplari in difficoltà o recuperati dai pescatori.
TARTARUGHE MARINE NELL’ADRIATICO: DA OGGI PIU’ FACILE LA SALVAGUARDIA A Venezia il 18 aprile 2011 si è firmato il protocollo di intesa tra WWF, enti locali, museo e Università per la tutela delle tartarughe marine. Un primo passo importante per la tutela di un animale simbolo della biodiversità del Mediterraneo e presente con grande frequenza durante i mesi estivi anche nell’Alto Adriatico è stato siglato a Venezia. WWF Italia, Museo di Storia Naturale di Venezia, Comune di Jesolo, Azienda Regionale Veneto Agricoltura e Dipartimento di Scienze Cliniche Veterinarie dell’Università di Padova hanno firmato un importante Protocollo d’Intesa per il coordinamento del monitoraggio scientifico, il salvataggio e la salvaguardia delle popolazioni di tartarughe marine nel mare Adriatico antistante il litorale del Veneto alla sede veneziana dell’UNESCO.
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In primavera sono ripartiti i campi di volontariato WWF dedicati alle tartarughe marine in Sicilia, Calabria, Basilicata. Tra i paesi del Mediterraneo l’Italia è uno dei più importanti per la conservazione delle tartarughe marine, che prediligono mari come l’Adriatico, lo Ionio e il Canale di Sicilia, dove però sono purtroppo vittime della cattura accidentale negli attrezzi da pesca. Tutto ciò è possibile grazie all’aiuto di molti volontari che ogni anno con passione e dedizione contribuiscono al lavoro svolto lungo le coste italiane. In alcuni punti, dove le attività sono particolarmente impegnative, vengono organizzati degli specifici campi di volontariato. Due sono in Sicilia: il Centro Tartarughe di Lampedusa collabora con i pescatori professionisti e cura gli esemplari feriti, svolgendo anche interessanti progetti di ricerca sulla biologia ed ecologia di questi animali. A Siculiana, nell’Oasi WWF di Torre Salsa, vengono monitorate le spiagge per individuare eventuali nidi e vengono svolte attività di informazione, specialmente nei confronti dei pescatori. A Palizzi (Calabria) il WWF svolge attività di informazione dei pescatori e collabora con l’università della Calabria che svolge studi sulla nidificazione di tartarughe marine in quella che è l’area più importante d’Italia sotto questo aspetto. Il Centro Recupero di Policoro (Basilicata) cura gli esemplari feriti rinvenuti negli attrezzi da pesca o spiaggiati sulle coste, controlla tratti di costa per individuare eventuali nidi di tartaruga e svolge attività di informazione dei pescatori. A Lampedusa il Progetto è attivo tutto l’anno, mentre nelle altre aree da maggio a settembre. Per informazioni scrivere a: tartarughe@wwf.it
UNA SETTIMANA PER LE TARTARUGHE Dal 14 al 19 giugno eventi ed iniziative per la salvaguardia di queste specie. Nei mari di tutto il pianeta vivono 7 specie di tartarughe marine, di cui 3 nel Mediterraneo (tra cui la famosissima Caretta Caretta), ma tutte sono a rischio estinzione. Pesca illegale. Cementificazione e degrado delle coste. Le tartarughe marine sono in grave pericolo: ogni anno solo nel Mediterraneo sono decine di migliaia le tartarughe catturate per sbaglio. Il WWF, da più di 40 anni, è impegnato per la salvaguardia di queste specie in 44 Paesi del mondo con progetti per difendere i siti di riproduzione, controllare le specie, creare attività di educazione ambientale e turismo sostenibile. Il WWF se ne prende cura attraverso migliaia di progetti in tutto il mondo e nei Centri di Recupero presenti in Italia,dove le tartarughe in difficoltà vengono accolte, curate e rimesse in libertà. Aiutaci a garantire un futuro a tante di queste specie a rischio di estinzione: adotta una specie ora. Non è mai troppo tardi per salvarle, potrai scegliere di adottare una tartaruga marina. adozioni@wwf.it L’Associazione, dal 14 al 19 giugno in Italia promuove il Turtle Week: iniziative ed eventi per la tutela delle tartarughe marine. Per saperne di più consultaci sul sito wwf.it
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Viral, Meme e superamento della produzione seriale
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di Giovanni Scrofani
os’è virale nel web 2.0? Quante volte avrete letto la frase: “questo video è virale”, per trovarvi a guardare una banale pubblicità che avevate visto migliaia di volte in televisione? Quante volte il guru 2.0 di turno ha iniziato un post infilando a sproposito la frase: “è un fenomeno virale”, per descrivere un’emerita corbelleria? Quante volte vi siete imbattuti in agenzie di “Viral Marketing”, corsi in “Viral Marketing”, manuali di “Viral Marketing”, esperti in “Viral Marketing”, guru di “Viral Marketing”, ma che dico... santoni di “Viral Marketing”? Ebbene il web 2.0 è endemicamente flagellato da questa manzoniana epidemia del “virale” che oltre ad avere i suoi untori e i suoi monatti 2.0, ha anche i suoi poveri appestati che veicolano più o meno consapevoli il contagio...
Come magnificamente espresso dal nome, è “virale” un contenuto digitale in grado di propagarsi venendo a contatto con gli utenti/ consumatori. Il contenuto virale nel momento stesso in cui soddisfa i bisogni culturali del proprio consumatore, lo trasforma magicamente in veicolo della propria propagazione attraverso il web.
Però al di là di tutte le dotte teorie sul virale, è abbastanza sfuggente il perché un contenuto si propaghi a macchia d’olio per la Rete: nonostante tanti sforzi, anche economici e organizzativi, alcuni contenuti non riescono a spiccare il grande salto della viralità, mentre misteriosamente altri contenuti nati dal basso (es. Gilda35) diventano “di botto” un evento virale. Poiché il web 2.0 è ogni giorno più simile a un fenomeno naturale insuscettibile di catalogazione razionale, tipo la materia oscura - ci stiamo, infatti, spostando ogni giorno di più da un web kantiano, con categorie nette definite e significanti, ad un web nietzschiano, in cui ogni punto di riferimento si diluisce - non posso che provare a fornirvi qualche soggettiva risposta nata, come al solito da alcuni esperimenti fatti sul campo con la Comunità Creativa di Gilda35. Brand e Comunità Creative Innanzitutto mi sembra opportuno inquadrare i due poli su cui si innestano le dinamiche virali: serialità e improvvisazione. Il 14 aprile scorso ho partecipato all’inaugurazione del Master in Brand Management presso l’Istituto Europeo di Design di Roma. L’evento inaugurale, Brand e comunità creative – Creare e comunicare valori di marca. In Team. vedeva la partecipazione tra gli altri del sociologo Sergio Brancato, che ha illustrato il concetto di serialità nella produzione dei contenuti intellettuali e del produttore Claudio Biondi, che ci ha deliziato con alcuni aneddoti legati alle comunità creative. Nel presentare il suo libro Post Serialità Sergio Brancato si è interrogato su come superare il “sistema fabbrica” nella produzione di contenuti intellettuali. Com’è noto l’autore “solitario” è morto e sepolto da tempo immemore e la quasi totalità della produzione culturale contemporanea è frutto di comunità creative organizzate secondo un processo produttivo di stampo fordista. Brancato ha posto una quantità di domande interessanti su come superare questo modello produttivo, cui ha fatto da contraltare Claudio Biondi, che invece con uno splendido storytelling ha raccontato dell’importanza dell’improvvisazione nei processi creativi. In particolare mi ha molto colpito un aneddoto su come è stato introdotto nel mondo del cinema quando era ancora un ragazzo. Faceva il bagnino, quando incontrò un mestierante di Cinecittà, che lo invitò a fare cinema. Di fronte alla naturale ritrosia di Biondi, che di cinema non sapeva ancora nulla, il mestierante rispose: “Non ti preoccupare: er cinema se fa!” Questa frase mi ha profondamente impressionato, perché a mio avviso è assolutamente calzante rispetto al mondo del web 2.0 perché anche “er Webbe 2.0 se fa!”. Per quanto nella produzione di contenuti intellettuali si possano seguire manuali, regole, codicilli, meccanismi fordisti, specie su internet il
GILDA35 Progetto collettivo sviluppato su Twitter che promuove una riflessione critica sull’antropologia post-umana introdotta dalle nuove tecnologie. Come ho dichiarato a suo tempo in una mia intervista per Estrogeni [http://bit.ly/lp93ue] “La totalità di quello che scrivo su Gilda35 è frutto delle mie interazioni con buffoni, hacker, scrittori, casalinghe disperate, linguisti computazionali, lanciatori di coriandoli, antropologi, eretici, sociologi, pagliacci, funamboli,giornalisti ecc…” I c.d. Ricercatori e Sabotatori di Gilda35 sono a tutti gli effetti una Comunità Creativa, il cui prodotto è il nonBLOG www.gilda35.com, di cui in ultima analisi io sono l’umile scribacchino.
successo o il fallimento di un’iniziativa è dettato da dinamiche che sfuggono ad ogni possibile inquadramento. Spesso nei siti del Maoismo Digitale duro e puro leggo ridicoli articoli “How to”, che spiegano come pompare il proprio account di Twitter, come rendere virale un video su Youtube, come rianimare un blog agonizzante... Nella totalità dei casi seguire questi consigli porterà al fallimento di qualunque iniziativa, per una semplice ragione: “er Webbe 2.0 se fa’!” Come ho potuto verificare coi miei piccoli esperimenti richiede flessibilità, creatività e tempismo. Nonché una sana dose di cialtroneria. Esperimento n. 1: “I Sabotaggi Coccolosi”, ovvero uso e abuso della condivisione. In Brand Care magazine n° 007 ho illustrato i coccolosi sabotaggi dadaisti che sferrammo all’Algoritmo dei Toptweets di Twitter. Con cadenza settimanale per alcuni mesi organizzavamo degli assalti all’arma bianca alla home page di Twitter attraverso lo strumento del retweet. Nei giorni precedenti il sabotaggio preparavo il campo diffondendo in rete una sorta di buffonesca chiamata alle armi contro le Macchine Ribelli, poi nel giorno e nell’orario stabilito si procedeva a retwittare nel più breve tempo possibile un messaggio senza senso, che in tal modo veniva postato in homepage dall’Algoritmo dei Toptweet (ho diffusamente descritto questa esperienza nelle pagine http://gilda35.com/ project/ del nonBLOG). Tirando le somme questa esperienza mi ha fatto comprendere alcune dinamiche abbastanza particolari: Istinto gregario: si manifesta sotto un doppio profilo, da un lato come bisogno di appartenenza a una online
Š geekandpoke
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community chiaramente identificata, dall’altro con il riconoscimento del rapporto Leader/Massa (ogni mattina facevo il pieno di centinaia di “buongiorno Capo” che considerato il mio carattere schivo trovavo alquanto inquietanti). Temporaneità: una iniziativa virale deve avere un inizio e una sua fine, raggiunto l’obiettivo della campagna (nel nostro caso sabotare l’utilizzo scorretto dei Toptweets da parte delle agenzie di viral marketing) è necessario chiudere. Non c’è cosa più esteticamente brutta di un contenuto virale che si trascina trito, quando ormai è fuori tempo. Desiderio di Visibilità: poiché i messaggi selezionati dall’Algoritmo come toptweet finivano sulla homepage di Twitter e poiché con l’instant blog http://jovanz74.splinder. com/ facevo la radiocronaca dei nostri sabotaggi, le persone erano molto stimolate a partecipare. Fondamentalmente il desiderio di visibilità è una pulsione molto forte nei fenomeni virali, ciò spiega anche perché le agenzie di Marketing Virale tendono a produrre post in cui danno visibilità ai migliori “untori” dei loro contenuti. Creati per diffondere l’epidemia: i Social Network con le loro funzionalità di condivisione (like, retweet, post di link, suggerimenti, ecc...) sono intrinsecamente strutturati per rendere virali i prodotti culturali. Sono simpatiche macchine di marketing, pertanto bisogna tenere ben presente le particolartità di ogni Social Network (se qualcosa “funziona” su Twitter, assai probabilmente sarà un flop su Facebook e viceversa). Mai chiudersi al virale genuino: la successiva scelta di Twitter di calibrare l’Algoritmo dei Toptweet in modo da dissuadere fenomeni organizzati come Gilda35, ha comportato che sostanzialmente sono saliti in home page solo i messaggi delle Celebrità e dei Topblogger. La più triste implicazione di questa scelta scellerata è che è stato rimosso dal meccanismo dei toptweet quell’elemento di ludica imprevedibilità che ne garantiva il successo. Hanno negato agli utenti l’emozione di emettere un messaggio e chiedersi: “metti che finisco in homepage? ”. Questa negazione ha reso col tempo il meccanismo dei Toptweet irrilevante, tant’é che alla fine Twitter li ha rimossi dalla propria homepage. Esperimento n. 2: “Io non sono Paola”, ovvero il meme e la creatività ordinata. Il mese di novembre 2010 sarà ricordato per l’abnorme diffusione di meme di contenuto politico, ai quali ho partecipato come osservatore. Tutto è partito con l’hastag di Twitter #IamSpartacus, che venne usato in modo massivo dagli utenti inglesi in difesa di un certo Paul Chambers, reo di procurato allarme a causa di un messaggio del tipo: “Se non aprite l’aeroporto ci piazzo una bomba” [http://bit.ly/aO44sL]. Come nel film di Kubrick gli utenti inglesi di Twitter crearono un grandioso meme in cui tutti personalizzarono il messaggio “Se crocifiggete lui, crocifiggeteci tutti”. Osservai poi il caso dello sciopero della fame della giornalista Paola Caruso, per alcune divergenze
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in merito al proprio rinnovo contrattuale col Corriere della Sera [http://bit.ly/e2aobH] e il celebre caso Wikileaks [http://bit.ly/hwcMbS]. Da questi tirai nuove dadaistiche conclusioni: Potenza meme: il meme è una particolare tipologia di contenuto virale in cui l’utente arricchisce il contenuto originario facendolo proprio. Ad esempio all’etichetta #IoSonoPaola, che si diffuse a sostegno dello sciopero della fame di Paola Caruso gli utenti aggiungevano le proprie considerazioni “#IoSonoPaola perché sono precario e oppresso”, “#IoSonoPaola perché le sono vicino” e ogni altra declinazione possibile... Altro esempio i c.d. “Meme della Caduta” ossia i sottotitoli aggiunti a uno spezzone del film “La Caduta”, grazie ai quali l’Hitler interpretato da Bruno Ganz da in escandescenze ora per la pessima versione PC di Grand Theft Auto, ora per la nuova pagina di Facebook, ora per i fail whale di Twitter... In ogni caso il meme è uno strumento che ha dimostrato grandi potenzialità, che hanno enormemente arricchito il contenuto originario. La cosa che mi turbò durante le mie ricerche fu scoprire che la pratica serissima dello sciopero della fame, su Youtube era diventata un meme per rinegoziare contratti di lavoro [http://bit.ly/dvkJ6n].
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Esperimento n. 3: “I tormentoni televisivi”, ovvero il web come cassa di risonanza televisiva. Seguirono poi il fenomeno delle “Facce da Cartoon” quando milioni di utenti di Facebook “a sostegno dei diritti dell’infanzia” cambiarono l’immagine del proprio profilo con quella di un personaggio dei cartoon anni ‘80 [http://bit.ly/fKgK7H], i miei studi sull’origine di #sapevatelo, l’etichetta regina di Twitter [http://bit.ly/i9GVEY] e sugli hashtag dei programmi televisivi, su tutti il mitico Voyager di Giacobbo [http://bit.ly/muM6BV]. Le somme che tirai in questo caso sono presto dette: buona parte dei fenomeni virali che circolano nel web 2.0 sono originati da programmi televisivi. Sembrano la conferma di un certo computazionalismo spinto che vede la mente umana come un processore in cui i pensieri si articolano come una tag cloud: la televisione è l’input, quello che viene fatto nei Social Network l’output. Ancorare un contenuto virale a un programma televisivo è garanzia di una immediata propagazione dell’epidemia. Esperimento n. 4: “Autoproduzione del meme” Essendo nel frattempo diventato io stesso un influencer di Twitter in ossequio al nietzschiano proverbio secondo cui “chi lotta contro i mostri deve fare attenzione a non diventare lui stesso un mostro”, decisi di divertirmi con altri influencers a giocare con meme e viral: creammo un vero e proprio culto sull’ormai celebre spot di Manuela Arcuri sul libro “Il Labirinto Femminile” [http://bit.ly/hsLl53], che generò una quantità di meme meravigliosi; mi dedicai alla pratica del 241543903,
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I Missionari della Verità: ho poi fatto la conoscenza di queste ieratiche figure di monaci guerrieri [http:// bit.ly/hHNCH6]. In pratica una vasta parte di persone che operano nei social network sostengono in modo ossessivo un causa (per lo più di carattere politico) e si comportano come dei socialBOT (dei software che si fingono utenti umani per potenziare la campagne di marketing virale) condividendo in modo compulsivo qualsiasi contenuto a favore della propria causa. I Missionari 2.0 sono molto utilizzati dalle Agenzie di Marketing Politico alle quali forniscono un supporto essenziale. Ma esistono anche Missionari di cantanti, telefilm, videogame... non sono semplici fan ma veri e propri propagatori del Verbo. Infuencers, Topblogger e Twitstar: gli influencers (gli utenti più seguiti di un Social Network) hanno un ruolo fondamentale nei fenomeni virali. Non si limitano a partecipare alle iniziative: le organizzano, le conducono, le coordinano... Ad un occhio attento anche il fenomeno virale più bizzarro e caotico ha la regia di un Influencer, di un Topblogger o di una Twitstar... Creatività si, ma creatività ordinata.
ossia del riprendersi con la testa nel freezer [http://bit. ly/kduH3M]; mi dilettai nello stucchevole mondo dell’empatia 2.0 a diffondere un po’ di analogico odio [http://bit. ly/f27tp2]; per puro gioco insieme ad altri untori digitali creai temi di tendenza [http://bit.ly/jm8zEY]... Le conclusioni, oltre a riconfermare i risultati degli esperimenti precedenti, aggiunsero qualcosina: Estetica del brutto: non è detto che qualcosa divenga virale perché è bello o intelligente. Spesso nella grande platea dei Social Network ha più presa qualcosa di osceno, brutto, idiota... forse per l’innato bisogno delle persone di sentirsi più intelligenti del proprio prossimo. Conclusioni Concludendo questa carrellata di dadaistici esperimenti mi sono fatto l’idea che il fenomeno della produzione di contenuti virali nel web 2.0 rappresenta un nuovo tipo di produzione seriale, svincolata dal modello della “Fabbrica Fordista”. Grazie a quel potente
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strumento che sono i Social Network emerge un nuovo modello di Comunità Creativa: la Comunità Online. Un vasto soggetto produttore e consumatore di contenuti digitali, in cui i ruoli dei vari contributori sono fluidi, intercambiabili, ma determinanti. Senza produttori di contenuti, influencers che coordinano l’azione, missionari/untori che veicolano il messaggio, non esiste fenomeno virale. Il web 2.0 è un caos molto ordinato. A mio avviso un campo poco esplorato di superamento della produzione seriale è proprio quello del meme. Nell’approccio virale duro e puro il consumatore del contenuto si limita a ridondarlo meccanicamente tramite i like, retweet, la condivisione, il repost, ecc. La maggior parte del web 2.0 è organizzato proprio per incentivare queste dinamiche, che secondo me sono l’equivalente digitale dell’Auditel. Nel ridondare un contenuto il consumatore/propagatore ha un livello di partecipazione minima, si
limita meccanicamente a diffondere il messaggio con un aggiornamento e un potenziamento in chiave digitale del caro vecchio “passaparola”. Il meme è invece tutta un’altra cosa. Nel meme è il consumatore che si appropria del contenuto e lo rielabora, lo ibrida, lo adultera con la propria creatività. Il meme rappresenta il vero potenziamento del concetto di Comunità Creativa, non più legata ad un rigido ciclo produttivo, ma distribuita tra i vari utenti. La vera sfida della produzione di contenuti creativi nell’era del web 2.0 sta proprio nell’incentivare la produzione di meme da parte dei consumatori, includendoli nel processo creativo. Ho assistito a ovvie forme di “resistenza” da parte dei produttori di contenuti culturali rispetto al meme (penso alle rimozioni dei meme del film “La Caduta”), ma aprirsi alla creatività distribuita è il futuro, pena continuare a muoversi su un binario precostituito che mostra sempre più segni di affaticamento.
creatività
E
di Tonia Basco
rano gli anni Ottanta quando il giovane Vasco Rossi cantava con ironia “io la coca...cola me la porto a scuola”. Sulle note della famosa Bollicine, il cantante di Zocca si metteva a giocare con un doppio senso che non è passato di certo inosservato: la presunta associazione tra la bevanda e la cocaina fece tremare la multinazionale americana, che minacciò di reagire per vie legali. Un’associazione scomoda, che non coincideva con l’immagine che la Coca Cola voleva dare di sé in quegli anni: le campagne pubblicitarie puntavano tutto sui buoni sentimenti legati all’amore e alla famiglia per rendere la bevanda dalle mille bollicine adatta a tutti i paesi e ai diversi stili di vita. Vasco si difese: con quella piccola pausa tra “coca” e “cola” voleva spaventare i benpensanti, prendersi gioco di quell’immagine così pulita e perfetta creata con maestria della pubblicità. La storia ha un “lieto fine”: la canzone fa pubblicità indiretta alla bevanda e il colosso americano non solo non denuncia il cantante, ma gli propone addirittura un contratto milionario per usare il pezzo in una campagna pubblicitaria.
si sono riunite a Città del Messico per battere il record mondiale di Coca-Mentos geyser detenuto dalla Cina, facendo esplodere contemporaneamente 2.433 bottiglie! Una bizzarra mania che nasce in un cortile, dall’idea di un amico dei due pseudoscienziati che suggerisce di provare lo spumeggiante miscuglio: senza pensarci due volte, Fritz a Stephen si lanciano nel primo esperimento e quel geyser alto quasi 3 metri fa scattale la molla della loro immensa fantasia. Nei mesi successivi sperimentano diversi effetti geyser forando le bottiglie, facendole rotolare lungo le rampe o dondolare sulle corde, fino ad arrivare ad una spettacolare imitazione di una fontana in perfetto stile Las Vegas: con 101 bottiglie di Diet Coke e oltre 500 Mentos hanno ricreato una sorprendente coreografia ispirata alla Bellagio Fountains. Il video dell’esperimento viene inizialmente pubblicato sul loro sito, Eepybird.com, e mostrato a pochi amici; ma, trascorsa una settimana, migliaia di persone, con il solo potere del passarapola, ne diventano spettatori divertiti. La meraviglia dei ragazzi di Eepybird supera la © eepybird.com
Passano vent’anni e la multinazionale americana si ritrova a gestire un evento per certi versi analogo, sebbene di gran lunga amplificato: un’inaspettata intromissione nella gestione dell’immagine e della reputazione del brand, anche questa volta a lieto fine. Nel 2006 Fritz Grobe, giocoliere professionista, e Stephen Voltz, avvocato, postano su Youtube un video a dir poco singolare: vestiti da improbabili scienziati, mischiano Mentos e Diet Coke producendo un vistoso e coreografico effetto geyser. Nel filmato i “ragazzi di Eepybird” ripropongono un esperimento noto nei college americani come attrazione nelle feste tra amici e lo trasformano, a loro insaputa, in una mania a livello mondiale. La condivisione del video sul più famoso canale di videosharing, infatti, stimola la curiosità di tutti gli “scienziati pazzi” del pianeta e nel giro di pochi mesi si moltiplicano i filmati degli esperimenti. Milioni di ragazzi si divertono a seguire le pazzie dei due americani e a provare in prima persona il brivido del geyser fai-da-te, a battere nuovi record, a inventare nuove bizzarre coreografie. L’estate scorsa, ad esempio, 2.500 persone
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loro stessa fantasia quando iniziano a ricevere l’attenzione dei media: vengono contattati da talk show come il The Late Show di David Letterman e il Late Night di Conan O’Brien; il New York Times, il Rolling Stone, il Wall Strett Journal e altre testate iniziano a parlare di loro; persino il WET Design, il gruppo che ha disegnato e realizzato la Bellagio Fountains di Las Vegas, li invita a visitare i loro laboratori. Nel giro di un anno, mentre il video continua il suo tour virtuale, Fritz a Stephen cominciano a viaggiare nel mondo reale: New York, Parigi, Istanbul, Olanda, Belgio sono alcune delle mete che li hanno ospitati alle prese con ogni sorta di geyser. I due americani cavalcano l’onda del successo e sorprendono i loro fan con una nuova serie di follie: The Mentos Experiment II. L’esperimento numero 137, battezzato The Domino Effect, mette in scena l’effetto domino usando 251 Diet Coke e oltre 1500 Mentos: la sfida è quella di sfruttare l’esplosione della prima bottiglia per provocare una spettacolare reazione a catena. Gli inarrestabili Eepybird si lanciano nell’ “ingegneria meccanica” creando il primo veicolo a geyser. Il Mentos & CokePowered Rocket Car, infatti, è la follia messa a punto per Devid Letterman, che veste i panni del ciclista sfrecciando per le strade di New York a bordo di una bici-razzo alimentata da 108 bottiglie di Coke e 648 caramelle. Gli esperimenti riscuotono enorme successo e portano alla conquista di vari premi e riconoscimenti, come le due nomination agli Emmy Award e i 4 Webby Award, e l’assegnazione di tre record mondiali di Coke-Mentos geyser. Ma c’è di più: GoViral, l’agenzia europea che si occupa di contenuti di marketing sul web, ha definito i video di Eepybird la campagna virale più riuscita del decennio. Un risultato non da poco se si considera che a vincere la medaglia d’oro non è stata una pubblicità messa a punto da esperti di marketing, bensì un video user-genereted che ha coinvolto due marchi senza nessun accordo con le rispettive società: basti pensare che i primi filmati degli esperimenti circolavano in rete all’insaputa sia della Mentos, sia della Coca-Cola Company. E così la Coca Cola, meglio se in versione “Diet Coke”, esce dai banchi di scuola dove l’aveva messa Vasco e dalle tavole imbandite delle allegre famiglie che si vedono in tv e diventa la “prima donna” degli spazi aperti; smette di essere solo la bevanda che disseta, che fa digerire e diventa quella che fa anche divertire, che fa spettacolo. E la Mentos, “fresh maker” dai mille gusti, finisce per diventare “explosion-maker”! Gli esperimenti di Eepybird hanno colto di sorpresa i due brand, coinvolgendoli loro malgrado e costringendoli a fare una scelta: unirsi alle danze o restare a guardare. Il rischio di perdere il controllo dell’immagine del brand sul web ha fatto tremare non poco la Coca Cola Company, intimorita e stupita nello scoprire che milioni di
Oggi le due aziende collaborano con i ragazzi di Eepybird, sfruttando a loro vantaggio il rilancio creativo e alternativo dei loro brand, trasformando in risorsa il nuovo potere che i consumatori hanno dimostrato di avere. Sfruttare le idee amatoriali positive è un’idea vincente: di fronte a soggetti attivi e creativi, in grado di riscrivere le sorti di un brand, è necessario saper reagire, cogliere la sfida e implementare una strategia di co-creazione di valore. Condividendo esperienze e entusiasmi, i consumatori sono in grado di creare contenuti online che rafforzano o contraddicono le informazioni diffuse dalle aziende, sanno usare il mercato per aumentare il proprio potere e la propria autostima. Gestire questo “consumer empowerment” significa abbandonare un approccio fondamentalista e incorporare un pizzico di “consumer made”, lasciando che i consumatori prendano il controllo di alcune variabili di marketing tradizionalmente predefinite. I ragazzi di Eepybird, dunque, sono riusciti a imporre il loro potere vincendo la resistenza iniziale della Coca Cola. I mesi spesi a studiare nuovi effetti geyser e i dollari investiti in Coca Cola e Mentos hanno dato ben presto i loro frutti: le vendite delle caramelle sono aumentate dal 15 al 20%, il traffico sul sito delle bibita simbolo dell’americanità è raddoppiato e i ragazzi di Eepybird hanno guadagnato migliaia di dollari. Non male per un’idea nata in un cortile!
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persone preferivano sprecare il geyser la sua bibita piuttosto che berla. Mentre il colosso americano ha inizialmente cercato di bloccare il passaparola dissociando l’immagine del brand dagli esperimenti, la Perfetti Van Melle, casa produttrice della Mentos, ha fiutato da subito l’affare: il video virale, senza alcun costo per la società, le stava portando un vantaggio in termini di esposizione pubblicitaria dal valore di dieci milioni di dollari. La forza promozionale del geyser le è apparsa da subito un’onda da cavalcare e l’azienda delle caramelle decide di collaborare con i ragazzi di Eepybird fornendo loro tutto il supporto necessario, caramelle incluse, per nuovi esperimenti e indicendo un video contest ufficiale per scegliere il miglior geyser (Metos Geyser Video Contest). Il continuo successo del video e l’enorme pubblicità gratuita della Mentos convincono ben presto la Coca Cola ad abbandonare i propri canoni prestabiliti di marketing e a cambiare strategia, sposando il progetto. Una denuncia poteva fermare Vasco, ma non contrastare una miriade di voci sparse nelle rete; d’altra parte, anche questa volta, indirettamente la musica metteva nelle bocche di tutti la parola “Coca Cola”. La multinazionale decide allora di invitare i due americani a diventare suoi testimonial e a esibirsi nelle loro performance di “ingegneria idraulica” durante eventi firmati dal brand. Per coinvolgere l’enorme schiera di scienziati amatoriali, la società si spinge oltre e, come la Mentos, indice il “Poetry in Motion Challenge”, un contest dedicato ai video dei consumatori.
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di Claudio Biondi
utti sanno che tra progetto e mezzi è sempre presente uno scarto, un divario, come una sorta di “mare” che si frappone tra un “dire” e il “fare”. Non c’è preside di facoltà o primario d’ospedale, imprenditore, direttore di giornale o ministro che non si lamenti della scarsità dei mezzi economici messi a sua disposizione. Tutti rilevano quanto siano in contrasto le leggi economiche con gli obbiettivi che ogni attività si propone. Quando una produzione ha un alto contenuto comunicativo ed è affidata a una comunità creativa, alla conflittualità tra progetto e mezzi che potremmo definire “esterna” se ne aggiunge un’altra definibile come “interna” all’attività stessa. I due tipi di conflitto differiscono tra loro perché quello esterno nasce da una valutazione puramente quantitativa (rapporto tra progetto e mezzi, tra costi e ricavi) mentre quello interno dipende soltanto da una libera e cosciente valutazione qualitativa (rapporto tra progetto e procedure, tra intenzione ed espressione). Ciò che ci preme rilevare è come e perché in un’attività produttiva tale conflittualità interna tenda ad aumentare a mano a mano che aumentano il suo valore comunicativo, il suo tasso di creatività e il numero dei componenti della comunità di lavoro che si forma per la realizzazione del progetto. Se, ad esempio, osserviamo alcune attività come, l’estrazione di materie prime, la costruzione di un palazzo, la lavorazione di un vino, la preparazione di un cibo, la scrittura di un libro, o la produzione di un film dobbiamo ammettere che tali attività sono contraddistinte non solo da un diverso tasso di creatività e dalla diversa complessità che ne caratterizza l’azione produttiva, ma anche - in qualche modo - dal grado di espressione comunicativa (o grado di comunicatività, o valore comunicativo se più piace) che ognuna di esse presenta. A noi, però, arriva di rado la notizia di uno scontro tra un ingegnere minerario e la squadra che esegue l’attività estrattiva. Qualche volta abbiamo saputo di un conflitto tra architetto e costruttore e, più spesso, ci è giunto all’orecchio
il grido di uno scrittore sacrificato dal suo editore o di un pittore in contrasto con il suo committente. Quasi sempre, invece, ci giunge notizia di scontri titanici tra attori e registi, tra sceneggiatori e produttori, tra direttori d’orchestra e cantanti o solisti, tra esperti pubblicitari e direttori artistici. Perché, allora, la conflittualità interna procura, nel campo delle attività creative e comunicative una tensione più forte che arriva addirittura, in certi casi, alla rottura della solidarietà operativa? Perché in altri campi della produzione economica, tale conflitto si avverte in misura minore e meno drammatica?
pubblico e per partecipazione, tutta l’attività acquisitiva che consente a un pubblico di vedere il film. Così come potremo intendere con trasmissione, il processo creativo che rende possibile l’esistenza e l’essenza estetica di un film e con interazione, il processo percettivo che consente di trarre dal contenuto del film un significato compiuto per lo spettatore. Poco importa se si sceglierà di applicare un significato diverso ai quattro termini utilizzati; due di essi rimarranno sempre quantitativi e due qualitativi formando due apparati: uno economico e l’altro espressivo che intersecano le loro competenze ed incrociano i propri condizionamenti.
La risposta a questa domanda è, in fondo, semplice anche se dà vita a fenomeni molto complessi e può essere così formulata: nelle attività comunicative, ad alto contenuto creativo, conflittualità esterna ed interna tendono a intersecarsi e a incrociarsi tra loro. Una volta rilevato che nel fenomeno comunicativo sono riscontrabili quattro fattori fondamentali (trasferimento e partecipazione, per un verso e trasmissione e interazione, per l’altro) possiamo assumere che due di essi rivestono valenza quantitativa prettamente economica, cioè quantità di trasferimento e di quantità di partecipazione e due rivestono valenza espressiva, cioè qualità di trasmissione e qualità di interazione. In altre parole, per trasferimento si può intendere, ad esempio, tutta l’attività produttiva che rende un film disponibile al
Questi due apparati devono trovare un loro equilibrio. Da una parte, quello economico costituito dalla previsione dell’equilibrio tra quantità di costi e ricavi che si occupa delle modalità di trasferimento e di partecipazione e dall’altra, quello espressivo costituito dal rapporto tra intenzione e risultato che si occupa delle sue modalità di trasmissione e d’interazione. Appare chiaro un incrocio di competenze tra questi due apparati dal momento che quello economico non può disinteressarsi della qualità dell’interazione (attraverso una previsione dell’accoglienza che il pubblico riserverà al film) così come quello espressivo non può disinteressarsi della quantità di partecipazione (attraverso una previsione del numero di spettatori che acquisteranno il biglietto).
APPARATO ECONOMICO
APPARATO ESPRESSIVO
quantità di trasferimento
qualità di trasmissione
qualità di interazione
quantità di partecipazione
marketing
È evidente, dunque, che i due apparati, tendendo ad interagire, finiscano per condizionare, ognuno con le proprie ragioni e logiche, il funzionamento dell’altro ed è giocoforza che le rispettive autonomie che i due tipi di previsioni devono avere possono rivelarsi in conflitto. Ecco che l’imprevedibilità dei risultati (economico ed estetico) raggiunge livelli non riscontrabili in altri settori e permea di sé tutto il processo creativo. Se è possibile che un palazzo sia costruito coerentemente al suo progetto mediante la previsione dell’utilizzazione di una certa quantità di mattoni, malta, infissi, tubature, ore lavoro, e così via, in relazione a quelli che saranno i ricavi delle vendite, non è altrettanto possibile prevedere quante parole,
pagine, inchiostro dovranno essere impiegati affinché un libro risulti coerente con l’intenzione dell’autore. Tanto meno è possibile prevedere se la qualità desiderata sarà effettivamente raggiunta e nemmeno se tale qualità sarà — e in che misura — riconosciuta da chi leggerà. E quel che più conta, non è nemmeno possibile prevedere se il numero di copie acquistato sarà in grado di coprire le spese di pubblicazione. Un libro, un giornale, un film non possono essere previsti nella loro veste finale se non in maniera molto parziale e per successivi gradi di realizzazione. Lo stesso libro, lo stesso giornale e lo stesso film si acquistano, dunque, a scatola
chiusa potendo prevedere solo marginalmente la soddisfazione del bisogno che spinge all’acquisto. L’imprevedibilità comunicativa, presente sia nella fase di realizzazione che in quella dell’utilizzazione, si trasforma quindi in un’incertezza anche economica, che riguardando la domanda condiziona anche l’offerta. Nessuno è in grado di prevedere quante persone si recheranno a vedere quel film o compreranno quel libro o se una certa mostra di pittura avrà quel certo numero di visitatori. Dunque, risulta estremamente difficile decidere quale film o libro o mostra produrre o allestire e quali risorse finanziarie investire. I pochi autori che hanno tentato di analizzare il settore creativo sono pienamente d’accordo
nell’enunciare una legge che appare costante e caratterizzante: Nobody knows, nessuno sa. Se l’imprevedibilità può dirsi presente anche in altri settori produttivi a carattere creativo e ad alto contenuto comunicativo (editoria, discografia, pittura, ecc.) è solo in presenza di una rilevante complessità creativa che la conflittualità interna assume fisionomia tanto preoccupante. Ciò dipende dall’utilizzo di più strumenti creativi. Mentre per un libro si utilizza il solo strumento creativo della scrittura, in un fumetto si aggiunge quello del disegno e in uno spettacolo teatrale se ne aggiunge un terzo con l’interpretazione dell’attore e non di rado un quarto come commento
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marketing
musicale e un quinto se si tratta di un’opera con apporto coreografico. Con l’aumento dell’uso di strumenti creativi diversi tende naturalmente ad aumentare non solo il numero di specializzazioni, ma anche le diverse sensibilità e le diverse capacità che ognuno dei componenti della comunità creativa che si viene a creare presenta e fa incidere sul risultato espressivo finale. Non a caso, infatti, la maggior conflittualità interna è rilevabile proprio nella produzione audiovisiva che, quanto a utilizzo di strumenti creativi, risulta la più ricca e varia dal momento che in essa sono presenti tutti gli strumenti creativi e i linguaggi messi a punto dall’essere umano durante la sua evoluzione culturale e tecnologica.
dunque, quanto mai labile. Un capo-macchinista di cinema che esegua un carrello non può non tener conto che il proprio gesto tecnico sia parte costitutiva della qualità dell’immagine che risulterà sullo schermo. Così come il supervisore di una sceneggiatura non può non tener conto dei limiti finanziari di cui dispone il progetto.
A tutto ciò si aggiunga l’effetto che ha la temporalità dei vari interventi creativi. Se si tiene conto delle fasi del ciclo produttivo di un’opera audiovisiva diventa chiaro come i vari strumenti creativi utilizzati siano chiamati in causa in tempi diversi e tra loro susseguenti. Il che obbliga l’attività che segue a svolgersi secondo il tracciato già segnato da quella che la precede. Poiché ciascun apporto creativo è dato a partire da una Specialmente in coloro che si assumono la massima respon- sensibilità e da un’interpretazione personale, si può ben sabilità del risultato, l’incrocio delle dinamiche dei due appa- immaginare come ognuno degli apporti che segue tenda rati (economico ed espressivo) e del loro peso è costante. anche ad “interpretare” il lavoro già fatto alla luce di un Un regista può in alcuni casi doversi far carico di problemi e suo personale punto di vista che tende, quasi sempre, a tematiche squisitamente economiche; così come un produt- privilegiare la propria logica creativa rispetto alle altre. tore può doversi far carico di tematiche prettamente estetiche. Gli sbalzi d’umore, le ripicche, i “capricci” di questo Il confine tra lavoro creativo ed operativo risulta, o quell’autore o interprete, i litigi con il produttore o
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l’impresario, i grandi fatti clamorosi di cui qualche volta si riempiono le cronache nazionali e internazionali che rimandano di generazione in generazione un aneddoto, un “mito” che contraddistingue il grande cantante o la grande diva non sono da attribuire ad una patologia che andrebbe curata ed in qualche modo risolta, ad una malattia di cui prima o poi si guarirà. Tutto quello che fa sorgere, intorno al teatro e al cinema, intorno alla lirica come al circo equestre quell’alone di straordinaria ammirazione ma anche - va ricordato - di profonda inaffidabilità è, insomma, pertinente soltanto alla fisiologia di quel particolare tipo di produzione che si occupa di progettare e realizzare le opere creative che hanno carattere composito e complesso.
Pur riconoscendo, infatti, che l’economia e l’estetica hanno statuti completamente autonomi, dobbiamo riconoscere che nella produzione di un qualsiasi artefatto comunicativo/espressivo – dalla creazione di un logo per un brand a quella di una campagna pubblicitaria, dall’edizione di un libro alla produzione di un film - risultano influenzarsi reciprocamente. Ciò impone una riflessione più approfondita, meno settoriale e soprattutto più completa di quel fenomeno che l’economista americano Richard Caves ha brillantemente definito come industria della creatività. Se è vero, dunque, che tra il dire e il fare ci sia di mezzo il mare diventa molto importante capire di quale mare si tratti e di come sia possibile navigarvi senza pericoli di naufragio.
Tutto ciò riguarda la produzione di quei particolari artefatti comunicativo-espressivi in cui si trovano indissolubilmente legati, coesi, interagenti ed intersecanti gli stimoli della creatività, le ragioni della comunicazione e le esigenze dell’economia ed è fondato sul particolare legame che sorge tra estetica ed economia quando la prima non può esistere senza la seconda e quando la seconda acquista una sua particolare autonomia solo in quanto pertinente alla prima.
«Comunicare in fondo è scambiare, e cioè compiere un gesto in cui si realizzano sia un trasferimento che una partecipazione, sia una trasmissione che un’interazione». (F. Casetti – F. di Chio, Analisi del film, Bompiani,1994, p.214. Il grassetto è mio).
comunicazione
Intervista a Paolo Mariconda, autore e capo progetto de “Gli Sgommati” [SkyUno] a cura di Luca Albino, Carola Blondelli, Silvia Ciurluini, Ines Del Maro, Gianmarco Iannilli
N
ello scenario della satira televisiva con pupazzi, mancava all’appello soltanto l’Italia: dal 24 Gennaio 2011 è arrivato in prima serata su SkyUno Gli Sgommati. Otto minuti di intrattenimento, attualità e graffiante satira politica dove personaggi pubblici come Umberto Bossi, Gianfranco Fini, Aldo Biscardi e Silvio Berlusconi vengono riproposti in chiave umoristica con una nuova veste. Brand Care magazine: Gli Sgommati: di cosa si tratta? Paolo Mariconda: È un programma di satira politica, una vera e propria striscia, in quanto il formato di palinsesto è di otto minuti; la grande novità rispetto a qualsiasi altro programma di satira quotidiana di questo tipo è l’uso di pupazzi di gomma. BCm: Quale scopo si prefigge il programma? PM: Lo scopo è duplice: da una parte ha finalità artistico-creative, mentre dall’altra è una vera e propria operazione di marketing. La mediazione tra questi elementi costituisce il prodotto così come lo conosciamo.
BCm: Qual è il processo creativo che seguite per realizzare il programma? PM: La mattina alle nove inizia la riunione con tutto lo staff e per circa mezz’ora si discute del copione: analizziamo i punti salienti e facciamo ipotesi su come interpretare i vari passaggi e realizzare le singole scene. Dopodiché uno degli autori inizia a occuparsi della parte audio, cioè di registrare il copione con i doppiatori. Una volta ottenuta la traccia sonora della prima clip si va in sala video, dove la troupe e il regista lavorano sulla messa in scena della parte incisa. Al contempo il resto dell’audio continua a essere registrato: quando la scena relativa alla seconda traccia viene girata e il tutto passa alla fase di montaggio, e così via. Naturalmente, mentre tutto ciò avviene un altro gruppo di autori lavora sulla puntata del giorno successivo. Si analizzano cos’ le notizie più fresche e si decide il copione per l’indomani. Alle 16 e trenta la puntata è pressoché pronta, e quindi si provvede in tempo utile al fabbisogno di scena (essenzialmente scenografia e oggettistica). BCm: Aldo Grasso (critico televisivo del Corriere della Sera) ha affermato che “la forza del pupazzo sta nella sua cattiveria, nel dire cose che gli uomini non possono dire” cosa può osare un pupazzo che un attore in carne ed ossa non può? PM: il pupazzo può tutto, può fare qualsiasi cosa, anche andare sulla luna… ma per quanto riguarda iI contenuto occorre comunque darsi dei limiti, un’etica. Il linguaggio del pupazzo, comunque è filtrato poiché non ha delle vere espressioni, non fa “le facce” come gli attori. L’animazione dell pupazzo è come un alfabeto che si acquisisce giorno dopo giorno: in Francia e in Inghilterra si fanno programmi in cui sembrano persone vere, fanno delle cose oggi per noi impossibili ed è questione di alfabetizzazione. Anche il doppiaggio è molto importante, aiuta molto, infatti noi stiamo usando dei comici cabarettisti poiché la scrittura dei dialoghi per i pupazzi è molto sintetica, alla seconda riga e mezzo te ne devi andare, come nel classico copione da cabaret.
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Lo scopo artistico consiste nel farsi beffa del potere facendo dire ai politici, o meglio ai loro pupazzi, cose che non sentireste dire in nessun altro contesto. L’obiettivo è dunque quello di innescare la risata: che sia sberleffo, denuncia, critica graffiante o semplice presa in giro la “striscia”deve comunque far scattare il meccanismo della comicità. Allo stesso tempo (e qui sta il “marketing”) dobbiamo fare in modo che il messaggio raggiunga più persone possibile. Non vogliamo fare un “comizio di parte”, né prendere di mira soltanto singole figure politiche, come spesso accade nella satira italiana.
business
L’
di Massimo Caiati
argomento di questo numero invoglia a parlare di quelle che in pubblicità rappresentano la massima espressione di comunità creativa: le agenzie. Di fatto è proprio in questi strani luoghi, bizzarramente popolati da post-adolescenti trasandati e da pseudo yuppie impomatati abbronzati, che le idee vengono generate, vendute e realizzate. Come in ogni cosa — e in pubblicità questa regola vale ancora di più — è sempre bene scindere fra sogno, incubo e realtà. Sfatiamo un po’ di miti.
Sogno Le agenzie pubblicitarie sono quei luoghi in cui appassionati di creatività lavorano insieme, ognuno col proprio ruolo, per fare in modo che il pubblico si innamori delle marche da loro promosse. Gli account prendono per mano il cliente, capiscono le sue esigenze e gli mostrano la via dell’illuminazione. Gli strategic planner, fini conoscitori dell’animo umano, redigono una strategia impeccabile. I creativi danno forma a idee sempre nuove e brillanti, che talvolta fanno ridere, altre volte fanno piangere, ma che comunque non lasciano mai impassibili. Infine, i reparti produzione “mettono le ali alle idee, che si trasformano in veri angeli”. Incubo Le agenzie pubblicitarie sono quei luoghi in cui moltissimi tipi di persone, assolutamente incompatibili tra loro, lottano tirando dalla propria parte una coperta
Realtà Le agenzie pubblicitarie sono posti in cui sogno e incubo si mischiano e si confondono, in un mondo in cui Peter Pan si ubriaca insieme a Dylan Dog. …Ora cha anche il mio ego è abbastanza soddisfatto da questa descrizione pittoresca (oltre che inutile e incomprensibile per chi non ha già esperienza d’agenzia), posso passare a un discorso che meglio descriva alcuni esempi interessanti di quelle comunità creative che sono le agenzie di pubblicità. come gli account o i planner. In queste agenzie sono spesso i creativi ad occuparsi anche dei contatti con i clienti, Tralasciando il tema delle professionalità che ruotano intorno di prendere i brief e vendere loro le idee. alle agenzie (ne abbiamo già parlato ampiamente in numeri Un’agenzia molto famosa che ha intrapreso qualche anno precedenti di Brand Care magazine), vorrei concentrarmi fa questa strada è Mother, fondata a Londra nel 1996, soprattutto su due tipi di agenzie pubblicitarie. Come proprio con questo spirito. Oggi Mother ha altre due sedi, è facile immaginare, infatti, esistono moltissime agenzie che una a New York e una a Buenos Aires, perdendo in parte la molto poco hanno in comune tra di loro, eppure le più impor- sua caratteristica di “piccola boutique creativa”, ma mantetanti possono essere divise in sole due categorie. nendo la sua impronta principale, quella di essere una delle pochissime agenzie senza account. Prima di tutto, ci sono i grandi network, con nomi famosi e sedi sparse in tutto il mondo. All’interno I motivi che hanno spinto Mother e altre agenzie a modidi questi network ci sono grandi differenze in termini ficare in maniera così radicale la struttura classica sono di tipologia di clienti, spirito d’agenzia e qualità crea- semplicemente due: tiva, eppure tutti più o meno hanno la stessa strut- • non ha senso avere degli intermediari tra chi ha ture (account, creativi, planner e producer) e, più di commissionato un’idea e chi la deve creare; recente, anche gli stessi problemi. • nessuno più vendere meglio un’idea di chi, Spesso infatti queste agenzie sono schiacciate da dimenquest’idea, l’ha avuta. sioni numericamente pesanti e poco flessibili, che male si Il discorso, fatto così sembra assolutamente vincente, adattano alle esigenze di un mercato che solo negli ulti- eppure, bisogna anche considerare che se è già difficile missimi mesi (e solo in determinate nazioni) sta iniziando trovare buoni account e buoni creativi, diventa a risollevarsi dalla crisi. esponenzialmente più difficile trovare qualcuno in A queste difficoltà strutturali si somma anche il grado di ricoprire entrambi i ruoli. problema solo apparentemente banale secondo il quale In più, un’agenzia di questo tipo si rivolge prevalentemente “maggiore è il numero dei dipendenti in un’agenzia, a un target fatto di clienti anch’essi molto flessibile e aperto maggiore è la possibilità che al loro interno ci siano alle novità (come ad esempio Coca Cola, uno dei clienti persone incompetenti o inutili”. storici di Mother), mentre sarà più difficile che un’agenzia del genere sia mai in grado di vincere budget per clienti E veniamo alla seconda tipologia di agenzia. Per rispondere a come Procter & Gamble. questo tipo di problemi, negli ultimi anni sono nate agenzie D’altro canto, è anche vero che questo è un posizionamento più molto più piccole, con non più di 30-40 dipendenti che interessante: so di non poter piacere a tutti, tanto e nelle quali mancano, in parte o del tutto, figure vale piacere solo a coloro che piacciono a me.
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troppo corta, che comunque appartiene a qualcun altro. Gli account hanno sempre paura di perdere il cliente e sono disposti a tutto pur di renderlo felice. Gli strategic planner viaggiano in tutto il mondo per inutili exploring, per poi tornare in agenzia con una strategia trita e ritrita, frutto soprattutto di cliché banali. I creativi sono troppo pieni di sé stessi per capire che sarebbe bene mettersi davvero in duscussione per tirare fuori una buona idea. Infine, i reparti produzione fanno di tutto per stare nel budget e assicurare a sé stessi e al cliente delle belle vacanze in posti esotici con la scusa dello shooting, anche a costo di compromettere la qualità del prodotto finale.
culture
di Pasquale Napolitano
A
«Salve! Sono Troy McClure! Forse vi ricorderete di me per...» (Troy McClure)
ttraverso la computerizzazione dei media e le innovazioni dell’interfaccia dei software, il concetto stesso di creatività subisce uno sconvolgimento e una rielaborazione sostanziale. Il processo di creazione artistica sostenuto dall’ideale romantico che vede l’artista come figura peculiare in grado di generare dal nulla un universo di senso è inequivocabilmente superato. Tra gli interventi in questo ambito tematico risalta quello di Roland Barthes, che critica radicalmente l’idea dell’autore come inventore solitario ed unico responsabile del contenuto dell’opera: “Il testo è un insieme di citazioni tratte da innumerevoli centri di cultura”. L’artista può e deve affidarsi necessariamente a modelli di rappresentazione prestabiliti. Quando questo modo di pensare incontra il computer, i software e l’arte digitalizzata, raggiunge nuovi livelli di senso e contesti imprevedibili. L’idea di creazione ex novo simboleggiata idealmente dal dipinto che si forma dal bianco della tela, con l’elettronica non trova più possibilità, in quanto in quest’ambito di rappresentazione vige il principio secondo il quale tutte le creazioni sono modifiche di un segnale pre-esitente.
Questa nuova condizione del lavoro creativo è dovuta ad una caratteristica fondante, comune a tutti i nuovi media che Lev Manovich definisce automazione: la codifica numerica dei media e la loro struttura modulare consentono l’automazione di molte operazioni necessarie per la creazione, la manipolazione e l’accesso ai media. Quindi l’intenzionalità può essere rimossa, almeno in parte, dal processo. In un lavoro di produzione artistica con programmi come Adobe Photoshop, Adobe After Effects o ancora Resolume e Modul8 l’utente ha la possibilità di creare e modificare
Un’area in cui andare ad osservare il funzionamento concreto di questi meccanismi, il particolare intreccio di principi progettuali e strategie estetiche è rappresentata dal ricco universo di interazione Audio/Video/Spazio che per comodità e convenzione viene definito V-Jing o Live-Media. Possiamo definire il Vj – che modula video in tempo reale, li modifica e li altera con software specifici – come un mediatore dell’immagine in tempo reale, una sorta di animatore visuale contemporaneo. Prima dell’atto performativo in sé, ci sono varie fasi precedenti: la prima è senza dubbio legata al luogo, l’attenzione al site-specific che è una delle caratteristiche della disciplina. Un’altra fase cruciale è la selezione del materiale. Il Vee-Jing trova le sue fonti di ispirazione nei video clip non narrativi, di breve durata, nei cortometraggi sperimentali e in generale in tutte quelle fonti video prodotte con finalità non necessariamente auto-poietica o autoriale. È questa selezione che dà significato e caratterizza lo stile di una sessione. I database del Vj contengono tutti i materiali che gli permettono di realizzare il suo mix. Nel tempo, questo archivio può essere modificato, trasformato, per questo la conservazione delle immagini necessita di una classificazione su criteri differenti come il tema, il soggetto, la natura o la durata. Il rapporto con le fonti da cui si compone l’archivio del Live Media Performer è comprensibilmente dialettico, dato che i materiali di partenza vengono processati, sotto l’aspetto semantico questi potranno funzionare come evocatori di mondi e suggestioni, piuttosto che essere contestualizzati, de-semantizzati, de-tournati, essere parte di una macchina cinetica: le immagini sovrapposte, accelerate, ripetute, processate, sincronizzate alla musica, acquistano un nuovo valore, risultano essere rapsodiche, mutevoli, virtuali in quanto sono proiettate, frammentate perché distribuite su diverse fonti di proiezione. Queste produzioni attingono direttamente da correnti come il video-attivismo, l’hacking o il net attivismo della fine degli anni novanta, per non scomodare Debord e il situazionismo, la poesia elettronica di Gianni Toti, l’expanded cinema e chissà quanto altro ancora. È il caso paradigmatico degli straordinari Archivi Prelinger, una miniera composta inizialmente da oltre 2.000 bobine, fondata nel 1983 da Rick
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elementi visivi utilizzando modelli preesistenti o algoritmi, tutti gestiti in operazioni eseguite tramite l’interfaccia del software. Il creativo si trova nella condizione di visualizzare in tempo reale il proprio lavoro e ha la possibilità di prevedere ogni potenziale passo successivo nella costruzione della sua opera. Con questa formula si indicherà allora una disposizione alla progettazione audio-visiva che fa leva sulla peculiare conformazione digitale e sulle potenzialità attivate dal codice nel dare consistenza percettiva estetica, sensibile, a forze, flussi, vibrazioni, processi.
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culture
Prelinger a New York City. Nel corso degli anni successivi, è cresciuto in una collezione di oltre 60.000 “Ephemeral Film” (pubblicità, educational, video aziendali e amatoriale) – quel genere di prodotti la cui dicitura in italiano verrebbe suggestivamente tradotta con “video effimeri”, e proprio perciò significativi come prodotto non mediato da logiche autoriali, piuttosto schiettamente industriali, il cui emblema immaginifico è stato sintetizzato dalla visionarietà simpsoniana nella figura di Troy McLure, attore di B movies riciclatosi Cicerone effimero, voce e corpo narrante di centinaia di prodotti (e sotto-prodotti) audiovisivi: dalla propaganda pro-consumo di carne alla riparazione delle fondamenta domestiche, dalla preparazione alla menopausa al documentario sulla lucertola del centroamerica. L’obiettivo dell’Archivio Prelinger è quello di raccogliere, conservare e facilitare l’accesso ai filmati di importanza storica che non sono stati raccolti altrove. Sono compresi i
film prodotti da e per molte centinaia di importanti imprese statunitensi, le organizzazioni no-profit, associazioni di categoria, gruppi di comunità e di interesse, e le istituzioni educative. Nel complesso, la collezione contiene attualmente oltre il 10% del totale della produzione di pellicole effimere tra il 1927 e il 1987, e può essere la raccolta più completa e variegata di prodotti culturali di questo genere. Il fatto che questo archivio sia stato completamente digitalizzato e reso reperibile on line (all’url: www.archive.org/details/prelinger) non è di poco conto, a maggior ragione se si aggiunge che sono tutti scaricabili e utilizzabili con licenza “Creative Commns”, anzi questa coincidenza di fattori attiva proprio quel circuito di feed-back sul piano semantico che tentavo di descrivere poco più su: da un lato questa enorme massa di video ci fornisce un affresco di impressionante vividezza dell’immaginario proprio del sistema culturale americano e, per estensione del
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modifica e progetta un immaginario collettivo attraverso l’istituto della selezione. Articola nuove narrative emergenti e dinamiche dove coinvolge il pubblico in modo interattivo e partecipativo. Nelle Vj session, si possono apprezzare piccoli estratti di quotidianità, causalità frenetiche, astrazioni geometriche, composizioni generate attraverso illustrazioni e animazioni, flash, effetti di espansione, ripetizione, accelerazione, rallentamento, fotografia, ritocco digitale, glitch ecc. Più che l’archivista, più che lo storico, sembra proprio Le performance di un Vj infatti hanno un carattere il visual artist contemporaneo, - che sempre secondo plastico totalmente live, per cui il montaggio e la trasforManovich, si approccia a ogni prodotto culturale leggen- mazione dell’immagine avviene in tempo reale. Fino dolo nell’ottica del database - a poter far funzionare tali a potersi fare performance, fino a potersi rifare cinema matrici culturali, estrapolandone il potenziale: andando a a volte, vere e proprie forme di evoluzione della ricostruire i tessuti narrativi e connettivi che all’interno forma cinematografica, in cui la forma narrativa viene frammentata, moltiplicata, aumentata, dell’archivio sono presenti solo come potenziale. Il Vj di fronte a queste fonti culturali si presenta contaminata dagli universi performativi: è il come un ricercatore estetico che rimuove, cerca, fenomeno del “Live Cinema”. sistema capitalista tutto, molto più di quanto abbiano fatto prodotti dichiaratamente autoriali come alcuni filoni cinematografici e di fiction, proprio perché consentono di studiare i meccanismi di propaganda e di produzione di valore dall’interno del meccanismo culturale, dall’altro si pongono come voci di un archivio, lemmi di un enorme database, prodotti semi-lavorati da poter far funzionare per fusione, scontro sovrapposizione.
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creatività
D
di Emi Guarda
i fronte alla ricerca spasmodica dell’affermazione dell’artista, spesso “star”, e dell’arte asservita alle regole e alle tendenze del mercato, negli ultimi dieci anni l’arte si è posta nuove sfide. Per lungo tempo si è ritenuto che la creatività, gestazione, progettazione e produzione di un’opera d’arte, fosse il frutto unicamente di una sola geniale testa pensante e di un’insostituibile mano operatrice. “L’opera è l’oggetto che traduce il talento di una individualità creativa”. Dopo aver sperimentato tut to e anche qualcosa di più, una nuova frontiera è stata oltrepassata. Il mondo dell’arte e tutti i suoi componenti hanno cominciato ad interrogarsi sulla possibile esistenza di una creatività comune. Intendendo per creatività comune non quello che avevamo visto e definito quale “partecipazione attiva” dello spettatore, ovvero il coinvolgimento di osservatori dentro performance in corso (lo spettatore non è parte attiva della creazione ma una semplice parte strumentale), quanto piuttosto lo sdoganare
l’idea del creare insieme. Progettare e realizzare insieme. Si potrebbe azzardare una risposta in tutto e per tutto positiva dato anche il proliferare di workshop che mirano alla creazione di un’opera che preveda l’intervento e il contributo di ogni partecipante, artista o meno. La pratica della creatività in comune può trovare diverse applicazioni a seconda dello scopo che vi è a monte. Entrando più nel vivo porterò qualche esempio. Stalker/ Osservatorio Nomade – università nomade Il Collettivo Osservatorio Nomade/Stalker ha elaborato una modalità operativa aperta e dinamica, basata sull’esplorazione del territorio, sul rapporto con gli abitanti, sull’approccio operativo alle problematiche vive, con l’obiettivo di attivare e catalizzare attraverso l’ascolto, il gioco, la convivialità e lo scambio, la creatività delle comunità. Un progetto che ha avuto discreti risultati e anche un buon seguito negli anni successivi al suo avvio nel 2004, è quello sviluppatosi al Corviale, un enorme edificio situato lungo la via Portuense, esteso sul suburbio S.VIII Gianicolense della capitale, meglio conosciuto dai romani come il “serpentone”. Il Corviale rappresenta storicamente il primo intervento volto alla costruzione di una città satellite capace di fornire ai suoi
creatività
abitanti tutti i servizi. Contenente ben 1.200 appartamenti, l’edificio è da considerarsi uno dei più lampanti fallimenti dell’urbanistica italiana a causa del mancato compimento dei lavori e del venir meno da subito della manutenzione necessaria ad un impianto edilizio con tali velleità.
© wurmkos
Con il passare degli anni il degrado e le enormi falle del progetto iniziale hanno compromesso le vite dei cittadini rendendole a tratti drammatiche. Su questo tessuto urbano si inserisce il lavoro del gruppo O.N./Stalker. Attraverso le molteplici attività dell’Università Nomade, ovvero un’intelligenza collettiva, un gruppo dinamico e aperto, direttamente operativo sul campo e partecipe delle realtà umane che lo vivono, l’università lavora su progetti di ricerca, sperimentazione e formazione. Una rete di workshop incrociati indaga gli spazi comuni, i luoghi indefiniti, le relazioni umane difficili, le zone d’ombra catalizza energie e pensieri verso una soluzione creativa condivisa. Il lascito sostanziale si compone di una serie di iniziative quali: un laboratorio sonoro per bambini, un laboratorio condominiale di ascolto, un settimanale del quartiere, l’avvio di un canale televisivo locale e una mappatura “sensibile” del luogo (punti nevralgici intorno ai quali concentrare il lavoro per il futuro). Wurmkos – laboratorio creativo Altro possibile caso di creatività condivisa è rappresentata dal laboratorio di arti visive Wurmkos, fondato dall’artista Pasquale Campanella con gli utenti della Cooperativa Lotta contro l’Emarginazione di Sesto San Giovanni. Proprio le piccole case, i palazzi anni ’60, le strade modeste e gli edifici indefiniti di questo spaccato dell’hinterland milanese, costituiscono la fucina del laboratorio. Si tratta di uno spazio creativo che vuole fare del legame tra l’arte e il disagio psichico, una base di lavoro per facilitare l’emergere di potenzialità creative che troppo spesso rimangono inespresse ed emarginate, siano esse di persone con disagi o di gente comune. È proprio l’assenza di definizione che caratterizza il collettivo, ne fanno parte infatti, artisti e non, disagiati e non, critici, sociologi, casalinghe, passanti, partecipanti occasionali. Anche l’indeterminatezza è alla base dei progetti che nascono e vivono come opere aperte. Lo scopo non è salvifico né si pone velleità terapeutiche, ma prevalentemente mira a favorire la relazione, lo scambio, sfruttando il contributo che ogni singolo può dare ad un lavoro comune. Coglie dalla creatività condivisa quello che è l’apporto multidisciplinare generato da un approccio come quello delineato. L’intervento di ogni partecipante, l’accumulo dei diversi contributi e la loro storica stratificazione, costituiscono la base e l’humus fertile dalle quali nascono le creazioni che portano la firma collettiva Wurmkos. Mi limiterò a portare come esempio il lavoro (inserito in una più vasta riflessione sul tema dell’abitare, particolarmente caro al gruppo)
Gruppo A12 – associazione professionale Come ultima declinazione possibile di collettività creativa, porterò l’esempio del Gruppo A12. Parliamo di un insieme di architetti riunitisi in un’associazione professionale che da circa venti anni lavora sui temi legati all’arte e all’architettura contemporanee. Il contesto è internazionale, la scala di diversi livelli: dalla grafica e il design, passando per l’urbanistica e l’allestimento fino ad arrivare alla massima sfida rappresentata dall’architettura. Il Gruppo A12 vanta nella propria storia professionale moltissime partecipazioni, spesso di alto livello. La ricca e affascinante collezione dei loro lavori che è possibile apprezzare visitando il sito loro sito internet - peraltro particolarmente ben fatto - rivela quanto un insieme coordinato di teste pensanti sia naturalmente più fruttuoso e geniale di singole unicità progettuali. Le opere e gli interventi si interrogano su svariati temi con occhio critico e lungimirante. Le loro forme architettoniche nascono sempre dalle esigenze dello spazio che le accoglie e vivono in continuo dialogo con esso. Allo stesso modo gli allestimenti e gli spazi espositivi difficilmente sono dei meri contenitori, dei semplici supporti “per” , ma al contrario risultano degli autentici spazi dialoganti e di vissuto esperienziale per lo spettatore. Uno degli esempi che porterò - ed è difficile scegliere - è un progetto per una mostra del 2007, tenutasi in occasione dell’esposizione fotografica firmata da Gianni Berengo Gardin sul tema della cooperazione sociale in Liguria. La mostra si è svolta nell’atrio porticato del Palazzo Doria Spinola di Genova nell’ambito del progetto “I mille volti dell’utile.Dalla realtà dell’impresa sociale, la tua realtà”. Nell’allestimento le foto pendono dall’alto occupando la campata centrale del corridoio porticato, in alternanza ad esse, con le stesse forma, dimensioni e posizione specchi riflettono e le foto stesse e i volti dell’osservatore. Una rappresentazione concreta della riflessione estetica sul concetto di cooperazione. L’originalità, la semanticità della scelta in relazione al tema espositivo, la partecipazione ricercata dello spettatore dentro e fuori la mostra, fanno di questo allestimento un esempio, seppur piccolo, della marca stilistica e sostanziale di questo gruppo di lavoro.
© Gruppo A12
Wurmkammer, con il quale il collettivo ha partecipato nel 2007 ad “Incontemporanea. La rete dell’Arte” alla Triennale di Milano. Parafrasando l’antica wunderkammer (camera delle meraviglie), l’installazione si costituisce come un assembramento di camerette, nicchie, anfratti e piccoli spazi ricavati da vecchi armadi, porte, finestre, cartoni, oggetti domestici di ogni tipo. Gli spazi creati dall’accostamento dei materiali sono luoghi da vivere, dove si può passare, fermarsi ad osservare curiosi oggetti e sculture, parlare, interagire, leggere testi e frasi appuntate attraverso un percorso interno costituito dai vissuti individuali di ogni partecipante.
comunicazione
La creatività dei writers romani a cura di Carola Blondelli, Lea Buonfiglio, Ines Del Maro, Alessia Di Castro, Alessandro Fattorini, Elisabetta Fino, Francesca Gasperini, Silvia Giurluini, Valerio Innamorati
P
roprio come nel film di Giancarlo Scarchilli, così a Roma gruppi di giovani ridisegnano il tessuto urbano attraverso le proprie opere. Una forma d’arte borderline accostata a volte alla creatività, e quindi capace di comunicare emozioni e sentimenti, altre volte al vandalismo e a tutto quello che ne deriva. Il “vero” writing trova le sue origini nelle periferie di Philadelphia negli anni Sessanta e si diffonde nel Bronx newyorchese nel decennio successivo. Quello che spinse gruppi di ragazzi a dipingere i muri non era il desiderio di imbrattare o danneggiare le proprie case, bensì la voglia di riappropriarsi delle città, di rendere espressivo il degrado attraverso opere d’arte immediatamente fruibili per tutti. Il fenomeno si diffonde presto anche in Europa raggiungendo Roma alla fine degli anni Ottanta; da allora la pratica è maturata sempre più dando il via anche a competizioni avallate dalle istituzioni come l’Urban Contest svoltasi nella capitale dal 22 al 24 ottobre 2010 con lo scopo di sensibilizzare i writers alla legalità. L’evento, tenutosi al Circo Massimo, ha avuto lo scopo di ufficializzare il patto sancito tra il Comune e l’associazione “Walls” per il rispetto del decoro urbano e la tutela della stessa “Urban Street Art”. L’accordo consentirà agli artisti romani di esprimere la loro creatività su “muri legali” e all’Amministrazione di arginare l’impatto delle scritte e dei disegni che “tappezzano” la città.
© IED
Š IED
comunicazione
TERMINI Baffato: pezzo cancellato da imbiancatura. Bittare: copiare il pezzo di un altro. Bruciare: superare un altro writer in bravura. Caps: i tappi delle bombolette. Contest: gara legale tra Writer. Crew: è un gruppo, spesso composto da amici, legati dal writing, ma non solo ed esclusivamente da questo. Crossare: coprire il pezzo di un writer con la propria tag. Freestyile: graffito creato sul posto senza bozza. Homeboy: il palo, quello che copre le spalle. Homiez: coloro che fanno parte di un gruppo. King: onorificenza guadagnata sul campo. Outline: contorno delle lettere. Pezzo: ciò che viene definito erroneamente graffito. Puppets: sono i pezzi che rappresentano pupazzi. Sucker o Toy: perdente, persona indegna di rispetto. Tag: nome in codice che i writers usano per distinguersi. La tag è essenziale per un writer, ne identifica le opere e lo distingue dagli altri. Yard: parcheggio o deposito treni
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STILI Bombing Style: è la realizzazione di uno o più pezzi in posizioni difficoltose e impensate, e comprende anche il bubble style. Bubble style: è la realizzazione di uno o più pezzi con forme prevalentemente arrotondate. Throw-up: sono quei pezzi eseguiti molto velocemente. Il tratto è tondeggiante, colorato in modo veloce generalmente con bianco o argento. In genere se ne fanno molti in posti difficili da raggiungere e in bella vista. Blocco: sono enormi pezzi fatti con lettere cubitali solitamente enormi, generalmente riempiti con un solo colore(solitamente è usato il bianco). Wildstyle: è uno stile selvaggio composto da lettering molto elaborato e 3D. Le lettere si incastrano tra loro in un continuo rincorrersi. 3D style: riuscire con un gioco di sfumature a far quasi credere che il pezzo esca dal muro. Old school: è lo stile della vecchia scuola writing, molto complesso e con tantissime colorazioni. New school: nata dopo l’old school, è uno stile molto semplice ma ad effetto, gli out line sono spessi e le colorazioni vivaci.
culture
INTERVISTA ANTONELLO COLONNA
I
a cura di: Daniele Degli Agli, Luca Albino, Jacopo Lancioni, Gianmarco Iannilli, Federica Scalona, Marta Sugamele, Silvia Villacorta
l food è ormai quotidianamente esaltato nei programmi televisivi, nelle riviste, nei giornali e anche sul web e abbiamo cominciato a riconoscere l’innovazione e l’estro creativo che l’arte culinaria merita. Alcuni chef sono considerati grandi star e come tali hanno bisogno di un équipe alla loro altezza con cui confrontarsi ogni giorno. La creatività è frutto di un continuo scambio di idee che portano alla realizzazione finale di un piatto, proprio come succede per le grandi opere. In questa intervista, la creatività culinaria incontra la tradizione nella cucina di uno degli chef più importanti d’Italia. Antonello Colonna ci presenta la sua professione e ci spiega come il suo team creativo riesca a essere tra i più innovativi della scena romana. La sua straordinaria passione per questa arte ci contagia e ci porta ad “ascoltare” il gusto dei suoi piatti prelibati. La sua squadra (o meglio la sua orchestra, come lui la definisce per spiegarci come sia importante l’armonia in un team) è un ottimo esempio di “Comunità Creativa”. Uno staff affiatato guidato dallo stesso Colonna che attraverso la sua supervisione ne riconosce e ne valorizza lo spirito collaborativo.
ANTONELLO COLONNA “Un anarchico ai fornelli”, “L’Ottavo Re di Roma”, sono solo alcune delle definizioni usate da giornalisti, critici gastronomici, amici o semplici appassionati della cucina dello Chef. Ma chi si nasconde dietro la Porta Rossa? Chi è Antonello Colonna? Lo Chef, il ristoratore, l’imprenditore, il padrone di casa che ti accoglie con lo sguardo schietto e diretto. Come ha scritto Beatrice Cardillo “Dietro la Porta rossa c’è tutta la storia e il sacrifico di un’antica famiglia”, ma soprattutto l’intelligenza e la passione di chi, avendo vissuto da sempre nel mondo della ristorazione, ha deciso di scardinare le regole e travalicare i confini che separano cucina e sala. Solo chi conosce molto bene un mondo, può decidere di raderlo al suolo e di ricostruirlo. Le scelte di Antonello Colonna sono apparentemente guidate da una volontà anarchica, una forza entropica in grado di spazzare via quello che prima esisteva e sembrava già perfetto. Ma ciò che per gli altri è perfetto per Antonello Colonna è perfettibile. La trattoria dei genitori prima e il ristorante a Labico poi. Senza sosta, proprio lui che ha fatto dell’accoglienza e dell’ospitalità i cardini portanti del rapporto con il cliente. Che non è mai fino in fondo tale, ma è sempre molto di più.
culture
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Brand Care magazine: Come e quando ha deciso di intraprendere la sua carriera di Chef? Antonello Colonna: Dai racconti che mi fanno i miei sembra che io sia nato e cresciuto su un sacco di farina. Non ho deciso di diventare chef, ma semplicemente è successo perché non poteva non succedere.
alla cucina laziale e ai suoi prodotti. Si ispira alla tradizione e al suo tradimento. Questo infatti è il mio motto, il mio personale stile di vita. La tradizione è la storia, la memoria, i ricordi; il tradimento è il cambiamento, il miglioramento, mai rinnegamento. Io non re-interpreto la cucina tradizionale, io la interpreto.
BCm: Come si lavora nel suo team? E quanto è BCm: Quanto conta per lei il rapporto estetica-gusto? importante il feeling tra i suoi componenti? AC: È fondamentale che l’estetica rappresenti per un AC: La cucina è come una squadra di uno sport agoni- piatto un valore aggiunto, ma senza esagerare, perché stico. È affiatamento, allenamento e rispetto delle gerar- la vera memoria è nel sentire i profumi. chie. Personalmente però mi piace più paragonare la mia squadra ad una orchestra in quanto BCm: Quanto il suo locale rispecchia la creatività dei suoi piatti? l’armonia è l’anima delle cose. AC: Credo (spero) di aver creato quella alchimia tra ambiente BCm: Come avviene in lei e nel suo team l’ideazione e sapori, che io, da uomo curioso, ricerco costantemente. Mi piace pensare che i miei ospiti siano accompagnati di un nuovo piatto? AC: Nella mia testa c’è un diario dei cibi e dei ad “ascoltare” ad occhi chiusi i sapori. profumi: all’improvviso leggo una particolare combinazione. Curiosamente, quando accade, non mi trovo mai in cucina… BCm: Che idea ha riguardo della scena gourmet romana di oggi e dei suoi giovani chef emergenti? BCm: Quanto il team contribuisce alla creatività AC: Roma è una grande città, dove primeggia soprattutto l’interesse del turismo per il patrimonio artistico, togliendo dei suoi piatti? AC: Molto. I miei ragazzi non devono solo cuci- spazio all’interesse per la scena gourmet e nonostante ci nare, ma pensare, inventare. Tutti i giorni, alle 19.00 sia una grossa presenza di allievi che frequentano istituti ho appuntamento con il mio executive, Marco Martini, per alberghieri non possiamo definire la nostra città una quello che noi definiamo “one shot”. Se la prova viene supe- fucina di giovani chef emergenti. rata, allora andiamo avanti nella realizzazione del piatto. BCm: Può dedicare una ricetta ai nostri lettori? BCm: La sua cucina è frutto di ispirazioni particolari? AC: Siete giovani e per questo mi siete simpatici, quindi vi AC: La mia cucina si ispira alla cucina di mia madre, a regalo una leggenda: cacio e pepe. quella di mia nonna e alla madre di mia nonna. Si ispira
Ingredienti per 4 persone • 500 gr di bucatini • 300 gr di pecorino romano grattugiato • Pepe in grani (verde, nero, bianco e rosso) da macinare al momento
PROCEDIMENTO Far bollire l’acqua non salata (il pecorino sarà sufficiente a insaporire la pasta). Spezzare i bucatini in tre parti e versarli nell’acqua bollente. Dopo pochi secondi si noterà già nell’acqua l’amido rilasciato dalla pasta. A quel punto con un mestolo togliere quasi tutta l’acqua dalla pentola dove stanno cuocendo i bucatini e metterla in un secondo pentolino, che va tenuto su un fornello acceso vicino alla prima pentola. Tutta la cottura sarà una prova di abilità per mantecare i bucatini come se si trattasse di un risotto. Girare in continuazione la pasta, unendo via via l’acqua necessaria, prendendola dal secondo pentolino. A cottura quasi ultimata (preferibilmente ben al dente) iniziare ad aggiungere, sempre girando per amalgamare, il pecorino grattugiato e una prima generosa dose di pepe di mulinello. Una volta amalgamato tutto il pecorino, servire e completare ogni piatto con altro pepe.
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tecnologie e web
Intervista a Daniela Delogu, Tania Valentini e Sigrid Verbert a cura di Luca Albino, Daniele Degli Agli, Jacopo Lancioni, Gianmarco Iannilli, Federica Scalona, Marta Sugamele, Silvia Villacorta
N
on si possono definire semplici blogger. Sono tante, tantissime, hanno invaso il web con innumerevoli ricette, piatti prelibati e combinazioni inaspettate che solleticano i palati dei buongustai: sono le foodblogger che, grazie a un amore spassionato per la buona tavola, si sono “inventate” una professione. Inizialmente nate come una stretta cerchia di persone che, ispirate da viaggi, riviste, studi e cultura personale, attraverso i loro blog esprimevano pareri sulle loro esperienze culinarie, le foodblogger sono diventate oggi delle apprezzate opinion leader del settore. Daniela Delogu, Sigrid Verbert, Tania Valentini: sono solo tre dei nomi delle foodblogger più importanti che, grazie alla loro creatività, si sono costruite uno spazio personale online che tuttora riscuote ampio successo. Cucina e mental coaching con “Senza panna”, cucina e fotografia con “Cavoletto di Bruxelles” e cucina e società con “A bagnomaria” sono i binomi che quotidianamente queste tre foodblogger portano avanti nei loro spazi con post, articoli, e immagini. Grazie ai numerosi fan che le seguono e interagiscono con il loro blog hanno dato vita a vere e proprie “Comunità Creative” che con il web si sono spinte oltre i confini della Capitale.
Daniela Delogu, “Senza Panna”. Di padre sardo e madre torinese, deve alla nonna paterna la passione per la cucina. Impara da lei i segreti per fare pane, formaggio, pasta fresca, salumi e dolci. Ha seguito tutti i corsi amatoriali del Cordon Bleu di Roma, dalla cucina base, all’alta cucina e alla pasticceria, e i due livelli di pasticceria professionale con Maurizio Santin presso il Gambero Rosso. Nel 2005 apre uno dei primi blog enogastronomici italiani, Senza Panna [http://senzapanna.blogspot.com/], con l’obiettivo di salvare ricette tradizionali meno conosciute, soprattutto sarde, trasformato poi in un luogo dove trovare piatti genuini e facili da realizzare in casa, ma anche racconti di esperienze gastronomiche in giro nei ristoranti d’Italia. Licensed NLP Master Practitioner, certificata dalla Society of NLP di R. Bandler, trasferisce la sua esperienza di coaching soprattutto in cucina aiutando chi vuole trasformare una passione in un’attività. Tania Valentini, “A Bagnomaria”. Tania Valentini, laureata in Sociologia, ha lavorato nel marketing e nell’organizzazione eventi; attualmente è analista free-lance di social media monitoring. Blo g g e r p e r il n a n o p u b lis h e r Blo g o sf e re [http://blogosfere.it/], cura per loro A Bagnomaria [http://abagnomaria.blogosfere.it/], spazio in cui trovare tante informazioni su cibo, mercato, tradizioni e cultura gastronomica, e Kidzone [http://kidzone.blogosfere.it/] dedicato al mondo della donna e dei bambini. Fin da piccola, tra pentole e fornelli, ha avuto un suo modo creativo di concepire la cucina grazie all’originale mix di origini familiari romagnole e romane e grande dedizione. Diventata mamma nel mese di gennaio come molte donne si trova a dover coniugare vita privata e professionale. Il blog “Kidzone” è per lei anche l’occasione per condividere e riflettere sul suo nuovo ruolo di madre. Sigrid Verbert, “Il cavoletto di Bruxelles”. Sigrid Verbert ha 33 anni, è belga e vive a Roma dal 2003. Laureata in lettere e successivamente in giornalismo a Le Soir di Bruxelles, si avvicina in un primo tempo all’enogastronomia poi alla fotografia: passioni divenute lavoro, che coniuga al quotidiano. Da qualche anno vive da freelance curando i suoi libri di cucina (l’ultimo uscito intitolato “Regali Golosi” è stato pubblicato da Giunti nell’ottobre 2010). Inoltre fotografa cibo per libri di altri autori e per le aziende legate all’alimentare. Realizza reportages a tema gastronomico per la stampa e nel tempo libero scrive sul suo “Il Cavoletto di Bruxelles” [http:// www.cavolettodibruxelles.it / ] (blog di cucina che è anche il più visitato in Italia).
tecnologie e web
© senzapanna.blogspot.com
Brand Care magazine: Ci racconti come nasce il tuo organizzare le ricette che fino a quel momento conservavo blog e come sviluppi quotidianamente il progetto? come ritagli e appunti sparsi. Il blog mi sembrava un buon modo per creare un po’ di ordine e eventualmente per mettere Daniela Delogu: Senza Panna è nato nel 2005 dalla mia quelle ricette a disposizione di altri… voglia di condivisione, raccogliendo e dando ordine alle tante Lo sviluppo del blog non è sottoposto a una linea editoriale: ricette che avevo testato nel tempo. in sostanza l’unica grande regola che c’è dall’inizio è che Pubblicarle su un blog mi ha dato lo stimolo a tenere un ciò che faccio deve piacere a me, quindi ci troverete le cose archivio ordinato. Lavoro al blog tutti i giorni, quando sono che avevo voglia di cucinare/mangiare, quelle che risponin vena preparo in anticipo i post che metto in pubbli- dono ai miei desideri, ai miei umori e alle mie curiosità cazione, leggo tutti i commenti e la posta collegata a del momento, semplicemente. cui rispondo personalmente. BCm: Considerando che il tuo blog ha un gran numero Tania Valentini: A Bagnomaria esiste da prima che di lettori, lo definiresti una “Comunità Creativa” ? io cominciassi a scrivere per Blogosfere, in quanto Se sì, in che modo credi che possa contribuire parte di nanopublisher. alla creatività sul territorio romano? Quando sono arrivata a alla guida del blog, la mia idea è stata quella di parlare non solo di ricette, ma di cultura alimentare Daniela Delogu: I miei lettori spesso sono persone che a 360°, perché se mangiare è uno dei piaceri della vita, il cucinano in casa e molti hanno anche un loro blog, quindi cibo fa parte della cultura e della migliore tradizione italiana. si può parlare di una comunità creativa. Il contributo alla creatività credo che lo diano in molti modi: per esempio Sigrid Verbert: Il cavoletto di Bruxelles è nato 6 anni fa, stimolando ristoratori o altri addetti del settore a rinnovarsi come una specie di mio diario di ricette, un luogo in cui e a proporre nuove idee.
di Daniela Delogu, Senza Panna per la pasta brisée • 200 g farina o di grano tenero • 100 g burro salato • 1 cucchiaio zucchero • acqua qb per la farcitura • 300 g ricotta di pecora • 200 g bietole pesate cotte • 300 g salmone fresco • 100 g provola affumicata • 80/100 g parmigiano • 4 uova 125 g yogurt denso (in mancanza latte 100 g) • sale, pepe, noce moscata, scorza di arancia non trattata Preparare la pasta brisée: lavorare con le dita il burro morbido in una ciotola insieme alla farina , zucchero e al sale fino a quando esso sarà stato completamente incorporato dalla farina. Unire l’uovo (e se necessario poca acqua freddissima) e continuare ad impastare, ma senza lavorare troppo la pasta, fino a quando si ottiene un impasto omogeneo, fare una palla, avvolgere con pellicola e mettere a riposare in frigo almeno mezzora. Stendere la pasta da quiche con il mattarello su un foglio di carta da forno fino ad uno spessore di circa 3 mm e rivestire uno stampo rotondo da 24 cm di diametro leggermente imburrato (formando sia la base che i bordi) tagliando con un coltello a lama liscia, molto affilato, le eccedenze di pasta.
© Daniela Delogu
Con la pasta avanzata si possono fare roselline, foglie o qualunque altra decorazione. Mettere le decorazioni in frigo. Preparare la farcitura: in una ciotola capiente lavorare, con una spatola o un cucchiaio di legno, la ricotta insieme a 3 uova, il parmigiano grattugiato e lo yogurt fino ad avere una consistenza cremosa. Mescolare bene per ottenere un composto omogeneo e ben amalgamato. Aggiungere la provola tagliata a cubetti piccoli e aggiustare di sale e pepe tenendo conto che la provola affumicata è già salata di suo. Dividere in tre parti uguali il composto di ricotta e in uno aggiungere le bietole lessate , ripassate in padella con olio, poco sale (e se piace aglio e peperoncino, io non li ho messi). Sul fondo della teglia fare un primo strato sottile. Fare un secondo strato con il secondo terzo di crema a cui avrete aggiunto la provola tagliata a cubetti piccoli, non salare il formaggio è già salato. Livellare sempre bene gli starti. Nella crema di ricotta rimasta aggiungere un uovo, mettere un po’ di noce moscata, amalgamare bene e aggiungere il salmone cotto al vapore (io l’ho cotto con un vapore affumicato al Lapsang Souchong) e aggiungere questo ultimo strato nella teglia come strato finale. La farcitura deve essere salata poco perchè la quiche verrà decorata alla fine con poco sale in grani. Decorare a piacere. Prima di infornare distribuire sulla superficie un po’ di formaggio grattugiato, pochi grani di sale nero delle Hawaii, pochissima scorza di arancia e qualche fiocco di burro salato. Cuocere in forno caldo per 50 minuti. Servire tiepida.
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La diffusione di notizie attraverso i blog aiuta soprattutto la portato a confronti e condivisioni di esperienze mentre si è crescita della qualità che – a mio parere - non può essere alle prese con l’esecuzione di una ricetta. disgiunta dalla creatività. BCm: Come riesci a conciliare la cucina e la sua Tania Valentini: Se la creatività è fatta anche da commenti lunga tradizione con la tecnologia web? e osservazioni da parte di chi ti legge, senza dubbio il mio blog è una comunità creativa, in quanto molti dei suggeri- Daniela Delogu: La tecnologia web è un grandissimo aiuto menti e segnalazioni che ricevo dai miei lettori diventano in cucina, più che conciliarle diciamo che la tecnologia mi serve e mi dà una grossa mano. spunti per i miei post. Tania Valentini: Il web è uno spazio per la condivisione anche delle proprie esperienze: non è casuale che lo strumento principe dell’uso della rete sia proprio la parola scritta, veicolo di pensieri e opinioni personali. Se consideriamo che la cucina e tutte le sue forme sono espressione di un momento di convivialità, allora la commistione web e cucina è molto più evidente di quanto non sembri a prima vista. Sigrid Verbert: In realtà la contraddizione tradizione/ tecnologia è solo apparente: ciò che amo e cerco nella cucina è spesso e volentieri il suo aspetto tradizionale, come gli stufati lenti che profumano tutta la casa, i gesti delle © abagnomaria.blogosfere.it
Sigrid Verbert: Non lo definirei esattamente una comunità creativa. Non in senso stretto, almeno. A mio avviso il blog è piuttosto una specie di “one man show”: il blog è in qualche modo lo specchio dei miei personalissimi desideri e interessi, e tutti i contenuti li realizzo esclusivamente io, non faccio praticamente mai ricorso a collaboratori esterni. Dopodiché, è chiaro che intorno al blog si è sviluppata una vera e propria comunità di lettori con i quali interagisco e che interagiscono fra di loro, scambiandosi idee, consigli, dritte e via dicendo. Questi input qui non costituiscono solitamente materia “per il blog”, però mi hanno spinto a organizzare piccoli “eventi in cucina” per i miei lettori, eventi che hanno
di Tania Valentini, A Bagnomaria
• 350 grammi di farfalle • 700 grammi di fave • 1 cestino di cavoletti • odori • 1 limone non trattato • 1 cucchiaio di panna fresca • olio extravergine di oliva • 1 noce di burro • sale e pepe q.b.
Sgranare le fave e sbollentarle, una volta tiepide eliminare la pellicina. Pulire e sbollentare i cavoletti di bruxelles. Tagliare a pezzettini. Lavare il limone, grattare la scorza e spremere il succo. Mettere a bollire l’acqua, e cuocervi la pasta un minuto in meno rispetto al tempo di cottura desiderato. In una padella dorare gli odori con l’olio e una noce di burro. Aggiungere i cavoletti e le fave e soffriggere qualche minuto a fuoco vivace. Aggiungere la scorza di limone e il succo. Regolare di sale e pepe. Quando la pasta è pronta versarla nel condimento e saltarla per il tempo di cottura rimasto, aggiungendo abbondante parmigiano.
© Tania Valentini
Ingredienti per 4 persone
tecnologie e web nonne che stendono la sfoglia, una certa idea della lentezza che a mio avviso dà gusto, valore e salute. Le tecnologie arrivano solo in un secondo momento, quando si tratta di raccontare e comunicare quel che avviene in cucina. Per questo Internet si rivela uno strumento stupendo: è veloce, posso pubblicare domattina le ricette della mia cena di oggi e discuterne subito con tante persone (cosa che con un libro non si potrebbe affatto fare); è interattivo, e se qualcuno ha un dubbio circa una ricetta può fare la domanda e ricevere una risposta al volo. Quindi, in qualche modo, la tecnologia - o per lo meno la rete - riesce a rendere più fruibili le ricette.
Tania Valentini: A Bagnomaria non è stata una mia scelta, ma era già parte del progetto. Sta di fatto che è stato comunque una fonte di ispirazione, poiché mi ha dato la possibilità di declinare il concetto di cultura del cibo e della buona tavola a partire da una semplice tecnica di cottura come – appunto – la cucina a bagnomaria.
© cavolettodibruxelles.it
Sigrid Verbert: Beh, intanto, il cavoletto è l’ortaggio e il prodotto alimentare, per suo nome e sua origine geografica, più legato alla città di Bruxelles, e anch’io vengo da lì. Poi mi piaceva molto quella doppia valenza del cavoletto di bruxelles, nel senso che è una di quelle verdure che non lascia indiffeBCm: La scelta del nome del tuo blog è legata a qual- rente, suscita invece, quasi sempre, sentimenti forti: solitamente o lo si ama o lo si odia, e siccome penso di essere un cosa in particolare? pochino così anch’io, mi è sembrato un’ottima insegna per il Daniela Delogu: SenzaPanna è il titolo che avrei dato a un mio “spazietto” in rete. libro di ricette se l’avessi scritto negli anni 80/90. Ho iniziato a cucinare molti anni fa e ho vissuto in pieno nel boom della BCm: Da cosa o da chi trai informazioni e ispirazioni panna in cucina, spesso usata a sproposito e quasi ovunque per i tuoi post? con l’effetto secondario di rendere tutti i sapori uniformi. Quando in un ristorante mi hanno servito una pasta con polpo, Daniela Delogu: La scelta di un piatto nasce dalle mie emozioni. Generalmente prediligo ricette che derivano dalla bottarga e panna ho capito che era il nome giusto per me.
Sigrid Verbert: Dalla vita reale, direi… Come dicevo prima, il metro sul quale viene ordinato il blog sono io, e in tal senso è uno spazio davvero molto privato, insomma, mi capita spesso di accennare a stati d’animo del momento, o a fatti che con la cucina non c’entrano molto. La mia cucina è emozionale (detto così sembra astruso, ma pensateci: ci sono i piatti della domenica, quelli lenti e coccolosi, quelli del venerdì sera fra amici che magari saranno più brillanti e estroversi, o quelli per la colazione in due...) i miei piatti quindi evolvono insieme a me, ai miei umori, e l’ispirazione è quotidiana e varia moltissimo: può venire da un particolare momento, da un ingrediente curioso trovato per caso al mercato, può essere il ricordo di un viaggio, di una persona, un ricordo d’infanzia, un’associazione spontanea fra sapori catalogati nella memoria, il suggerimento di qualche amico, un ricordo di un qualcosa letto o intravisto da qualche parte, nei libri, in rete, a tavola da amici... o qualsiasi combinazione di questi elementi. E questo vale anche per le fotografie del mio blog: ho imparato a dare ai cibi una forma e un aspetto che poi mi sarebbe piaciuto fotografare; ho imparato a riconoscere le situazioni, le inquadrature, i colori e gli aspetti o le ‘’pose’’ del cibo che più mi piace vedere nella foto finita. Sicuramente ho ancora molto da imparare su entrambi gli argomenti ma ho imparato a delineare un “mio” (che poi 100% personale non è mai, siamo tutti nani sulle spalle di giganti) linguaggio fotograficocibesco, quello che corrisponde ai miei gusti e desideri… La fotografia parla con la luce, con i gesti fissati nell’attimo, gli sguardi, i colori, stimola, esattamente come il testo, i sentimenti, i ricordi, le sensazioni. Insomma, per me la fotografia è semplicemente un altro linguaggio, diverso e non per forza meno ricco di quello linguistico.
© Tania Valentini © Daniela Delogu
Tania Valentini: L’ideazione di un post è un lavoro che non nasce nel momento in cui devo scrivere, ma prende forma progressivamente quando navigo in rete alla ricerca di un’idea o leggendo le diverse fonti che uso, non solo sul tema del cibo ma anche sul design. Il post è come una buona ricetta: tanti piccoli temi e spunti diventano testo solo grazie alla magia della scrittura. La scrittura mi sembra un buono strumento per mostrare come dai più piccoli particolari – un ingrediente, un piatto, una ricettta – è possibile rendere conto della complessità di un territorio e della sua storia.
© Tania Valentini
tradizione, a volte le modifico o le adatto ai nostri tempi cambiando qualche ingrediente o tecnica di preparazione. Credo che le emozioni che mi danno le ricette che scelgo siano la sicurezza e il calore che mi trasmette il pensare alle mie radici, da una parte e la condivisione dall’altra. Quando leggo una frase motivante, poi, mi piace comunicarla ad altri affinché possano trarne lo stesso beneficio che ne ho ricavato io: una delle ultime che ho letto, forse la più bella, sono i versi finali di una poesia di William Ernest Henley che Nelson Mandela legge durante i 28 anni di prigionia “sono il padrone del mio destino, il capitano della mia anima”.
Š sigrid verbert
di Sigrid Verbert, Il Cavoletto di Bruxelles per una teglia di 23cm per la crosta • farina 300g • burro 150g • caciocavallo o provola non stagionata 100g • parmigiano 100g • acqua fredda 6/7 cucchiai • sale mezzo cucchiaino • latte 2 cucchiai per il ripieno • mele renetta 5/6 • zucchero di canna 100g • zucchero semolato 40g • farina 3 cucchiai • succo di limone 1 cucchiaio • sale una presa Preparare l’impasto: per impasti di questo tipo ormai sono irrimediabilmente pigra e uso il foodprocessor (almeno vi evitate di imbrattare voi stessi e il banco di lavoro con briciole e tracce unte…). Quindi, versare la farina, il sale e i formaggi grossolanamente grattugiati nel foodprocessor e frullare per 30 secondi / 1 minuto fino a ottenere un insieme omogeneo. Aggiungere poi il burro freddo a pezzettini, frullando ancora (la funzione ‘pulse’ qui è utilissima) e aggiungere infine l’acqua, un cucchiaio per volta, sempre frullando fra un’aggiunta e l’altra, finché l’impasto non formerà una palla. A quel punto, dividerla in due, appiattire ogni porzione in un disco di 15 cm di diametro, avvolgere con della pellicola e tenere al fresco per almeno 30 minuti. Preparare il ripieno: sbucciare le mele, tagliarle a quarti, eliminare il torsolo e tagliare a fettine di 1 cm di spessore. Aggiungere poi lo zucchero, il succo di limone, il sale e la farina, e dare una buona mescolata in modo che tutti gli spicchi siano conditi. Riprendere l’impasto, stendere il primo disco al mattarello (a uno spessore di 2-3mm), sistemarlo nella teglia imburrata e lasciar fuoriuscire i bordi. Riempire con le mele, poi stendere il secondo disco, e sistemarlo sopra le mele. Premere i bordi e ritagliare la pasta in eccesso. Incidere 3 tagli al centro della torta, poi stendere l’avanzo di pasta, volendo, e ritagliarci delle foglioline per decorare la superficie della torta. Spenellare con il latte e infornare a 220° per 20 minuti, poi abassare a 180° e lasciar cuocere per altri 40 minuti (se la torta si dovesse dorare troppo in fretta, coprirla con un foglio di carta da forno). Lasciar intiepidire a temperatura ambiente prima di servire.
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