Brand Care magazine 004

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Brand Care magazine • ISSN: 2036-621 • Anno I numero 004 • marzo-maggio 2010 | Poste Italiane SpA - Spedizione in abb. post. 70% DCB Roma




Brand Care magazine

MARZO-MAGGIO 2010 - N°004 Editore Queimada di Bernabei & Colucci snc via V. Veneto, 169 - 00187 Roma P. IVA e CF 02249990595 [T] +39 06 4871504 [F] +39 06 62275519 [S] queimada_skype [W] www.brandcareonline.com [@] info@queimada-agency.com Direttore responsabile Sergio Brancato Contributors n° 004 Vincenzo Aiello, Diego Altobelli, Alfonso Amendola,Tonia Basco, Davide Bennato, Vincenzo Bernabei, Claudio Biondi, Sergio Brancato, Massimo Caiati, Renée Capolupo, Alessandra Colucci, Francesca Comunello, Niko Demasi, Raffaella Di Lorenzo, Patrizio Di Nicola, Luigi Granato, Giulia Grechi, Emi Guarda,, Giulia Marinelli, Gabriele Moratti, Mario Morcellini, Simone Mulargia, Pasquale Napolitano, Pierpaolo Panìco, Nadia Riccio, Samad Zarmandili Brand Care magazine addicts Alberto Abruzzese, Alfonso Amendola, Davide Bennato, Claudio Biondi, Sergio Brancato, Gabriele Caramellino, Giulio Como, Fabrizio Contardi, Vanni Codeluppi, Patrizio Di Nicola, Francesco Fogliani, Francesco Maria Gallo, Viviana Gravano, Paolo Iabichino, Gabriele Moratti, Mario Morcellini, Vincenzo Moretti, Luca Peroni, Marco Pietrosante, Daniele Pittèri, Alberto Prase, Roberto Provenzano, Guelfo Tozzi, Davide Vasta. Art Direction, cover, titoli e illustrazioni Niko Demasi Progetto Grafico Elisa De Vito Stampa Grafica Metelliana Via Gaudio Maiori - Zona industriale-84013 Cava de’ Tirreni Pubblicità Queimada snc Policy I contenuti e le opinioni espresse dagli autori dei singoli contributi e dagli intervistati non coincidono necessariamente con quelle di Brand Care magazine. Tutti i marchi registrati citati sono di proprietà delle rispettive aziende. Nessuna parte del contenuto di questo magazine può essere pubblicata, fotocopiata, distribuita e diffusa attraverso qualsiasi mezzo - online e offline - senza il consenso scritto di Queimada snc, fatta eccezione per i contenuti in cui vi è espressamente indicato un regime di diritto d’autore diverso (es: Creative Commons). Registrazione presso il Tribunale di Roma n° 250/2009 del 21/07/09 Iscrizione presso il Registro degli Operatori di Comunicazione n° 18728 ISSN 2036-6213



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editoriale

di Sergio Brancato

… sembra che il momento in cui avremo una televisione messa a punto si avvicini. La sua realizzazione dipenderà dagli acquirenti e dalla capacità degli ingegneri. Ora noi possediamo queste due qualità di uomini. Ho la speranza, e non c’è alcuna ragione che non si realizzi, di potermi sedere in un cinema qualunque quando avverrà qualche grande avvenimento nazionale e di averne una chiara riproduzione sullo schermo, nel momento stesso in cui avrà luogo. È piuttosto noioso, in pieno secolo ventesimo, di dover attendere che i rulli della stampa funzionino. Più tardi spero di vedere a casa mia le inaugurazioni, gli incontri di pugilato, e le partite di calcio. Spero anche che la riproduzione sarà buona e poco costosa. Un apparecchio di televisione non entrerà in casa mia che a queste condizioni. Non so quando ciò avverrà, ma è una delle realizzazioni importanti del futuro”.


Questo brano sorprendente è ripreso da un libro pubblicato nel 1936 da Clifford C. Furnas, The Next Hundred Years, tradotto in Italia nel 1945 per i tipi di Gentile, editore in Milano, con il titolo di Prospettive del secolo futuro. In esso, Furnas – interessante figura di divulgatore scientifico e uomo politico, con un brillante passato di atleta olimpionico – illustra le linee di tendenza dello sviluppo scientifico e tecnologico, dedicando un pregnante paragrafo alla comunicazione. Il punto focale del futuro pre-visto da Furnas all’inizio del secolo XX è, in questa prospettiva, la televisione. La radiofonia era a quel tempo un dato acquisito dei consumi culturali, ma la possibilità di vedere le immagini in diretta era ancora di là da venire. Sarebbero state la guerra e le condizioni dell’economia postbellica a determinare lo scatto necessario per l’affermazione del nuovo medium. Quel destino che negli anni ‘30 appariva indistinto quanto seducente per le sue implicazioni sensoriali, è diventato il passato delle nostre generazioni. Oggi parliamo di televisione come dell’inevitabile correlato dell’esistenza: il nostro tempo non può essere compreso senza riferirsi all’incessante movimento di energie che ha luogo nello spazio simbolico tra il video e la società. Un movimento che ha ridefinito logiche e strategie della comunicazione, cambiando la forma stessa del mondo. Almeno in questo, Furnas ci aveva preso. Ma certo nemmeno lui poteva immaginare quale complessità si sarebbe dispiegata nella moltiplicazione delle immagini televisive e nella diversificazione tecnologica del loro agire. Dal suo punto di vista, la tv sarebbe stata un’incredibile sorpresa. Con il numero che avete tra le mani, Brand Care magazine chiude virtualmente la sua fase di sperimentazione. La rivista ha affrontato un restyling grafico, puntando a una maggiore efficacia visiva e conferendo ancor più risalto ai contenuti dei propri contributors. Proprio pensando in termini di futuro, abbiamo deciso di dedicare il numero 004 alla grande trasformazione in atto nel sistema dei media, innescata dall’imprevista diffusione di fenomeni culturali e tecnologici che mutano radicalmente la morfologia dei consumi: formati seriali concepiti per una fruizione completamente post-televisiva, piattaforme di gioco e contenuti di entertainment interamente generati dagli utenti.Tattiche di networking praticate da segmenti di pubblico sempre più competenti ci parlano di un contesto dominato dai concetti di convergenza tecnologica e consumo partecipativo, in linea con le suggestioni che, già qualche anno fa, l’avvento del digitale e del web avevano contribuito a delineare. Le abituali incursioni di BCm negli universi della creatività e della formazione, inoltre, in questo caso ci suggeriscono che tali fenomeni non riguardano esclusivamente tendenze sociali che si manifesteranno nel lungo periodo ma, al contrario, hanno già avuto un impatto dirompente sulle professioni, e segnatamente su un tessuto produttivo sostenuto da film-maker, creativi, pubblicitari, formatori e figure della comunicazione e del marketing pronti a tramutare il cambiamento in opportunità.

© sxc by Gerard79


profili

MARIO MORCELLINI

Sociologo e studioso dei media, è stato tra i maggiori promotori dell’area disciplinare delle Scienze della Comunicazione in Italia. Preside della facoltà di Scienze della Comunicazione presso La Sapienza di Roma e membro del Consiglio Universitario Nazionale. Tra le sue opere spiccano: Contro il declino dell’università, con Valentina Martino (Il Sole 24 ore, 2005) e La tv fa bene ai bambini (Meltemi, 1999).

ALESSANDRA COLUCCI

Laureata in Scienze della Comunicazione (La Sapienza Università di Roma) con una tesi sul Product Placement. Oltre a essere titolare di Queimada – Brand Care, insegna produzione audiovisiva, comunicazione e marketing in diversi master universitari. Adora cinema, design e pubblicità in qualsiasi forma. Viaggiare, connettere e organizzare le sue passioni. Ha un blog che porta il suo nome: www. alessandracolucci.com.

PATRIZIO DI NICOLA

Insegna  Sociologia dell’Organizzazione a La Sapienza e si diverte a coordinare progetti internazionali. Esperto di mercato del lavoro, nuove tecnologie e, tra i primi in Italia, di telelavoro e Internet, fonda Futuribile srl con l’obiettivo di produrre idee pazze e tentare di realizzarle. Ogni anno porta gruppi di studenti in America a frequentare corsi e summer school. Ha una moglie e tre figli.

RAFFAELLA DI LORENZO

Laurea in Lettere con una tesi sull’Arte da lontano  [noemalab. org], master Luiss in Economia dei turismi e dei beni culturali, ex impiegata marketing in un’azienda aeronautica, ora prova a fare l’insegnante di lingua e letteratura italiana a un eterogeneo numero di sfaticati. Autrice di articoli d’arte [www.scriptaweb. it], da sommelier Fisar si diletta a degustare ottimi vini della cantina di papà.

MASSIMO CAIATI

Copywriter dal 2002, prima per DDB Milano e Saatchi & Saatchi Roma, ora in Saatchi & Saatchi Ginevra. Rappresentante italiano dei creativi under 28 a Cannes 2007, vincitore dell’Antenna d’Argento al Radiofestival nel 2008 e Bronzo all’Art Directors Club Italia nel 2008.

SERGIO BRANCATO

Insegna  Sociologia della Comunicazione (Università di Salerno) e Sociologia dell’Industria Culturale (Federico II di Napoli). Si occupa di media, società e cultura di massa. Ha pubblicato tra gli altri: Fumetti (Datanews); Sociologie dell’immaginario (Carocci); Introduzione alla Sociologia del cinema (Sossella); La città delle luci (Carocci); Senza fine (Liguori), Il secolo del fumetto (Tunué).

NADIA RICCIO

Dottore di ricerca in Scienze della Comunicazione. Borsista post-doc all’Università di Salerno, si occupa dell’evoluzione dei sistemi televisivi nella convergenza digitale, di forme narrative televisive, di cultura e letteratura di massa.

TONIA BASCO

Si laurea in Scienze della Comunicazione con una tesi in Sistemi  Organizzativi Complessi, che porta alla realizzazione di un sito dedicato al telelavoro. Mentre sogna di diventare “cittadina romana”, vive in un paese grazioso ma piccino piccino, consolandosi con tanti bei libri, buona musica e cari amici. Ha un figlio bellissimo che colora ogni giornata con un pastello diverso.

EMI GUARDA

Laureata in storia dell’arte contemporanea con tesi in semiologia culturale su Iconicità e Ferita; prima e Riviste Italiane d’Avanguardia degli anni ‘60 dopo, ha lavorato come assistente all’organizzazione eventi alla Fondazione Baruchello e fatto una breve tappa al Castello di Rivoli a Torino. Scrive di eventi/spettacoli e di arte su Teknemedia.com. Si sostenta lavorando con l’energia (elettrica).

CLAUDIO BIONDI

Entra nel mondo dello spettacolo come attore; aiuto regista in circa 30 tra film, inchieste e serie TV; per oltre 20 titoli é produttore esecutivo o produttore, uno su tutti I misteri della giungla nera. Autore di saggi, tra cui Come si produce un film (Dino Audino Editore), è ora docente di produzione audiovisiva in numerosi master universitari. www.hstrial-cbiondi.homestead.com.

LUIGI GRANATO

Laureato in Comunicazione (Sapienza, Roma) con una tesi sulla serialità televisiva americana, collabora presso  l’Osservatorio sulla Fiction italiana. Appassionato di Cinema e Tv series, scrive soggetti e sceneggiature. In attesa di diventare il J.J. Abrams de noantri fa il custode di un oratorio: ragazzini-rincoglioniti, padri-bambini e madri-isteriche sono per lui preziosa fonte d’ispirazione.

DAVIDE BENNATO

Insegna Sociologia dei processi culturali e comunicativi (Università di Catania). Studioso dei rapporti tra innovazione e tecnologia, è consulente aziendale di formazione, social media e strategie di ricerca sociale in ambiente web 2.0. Ricercatore per la Fondazione Einaudi (Roma), co-fondatore e vicepresidente di STS Italia. Scrive su: Internet Magazine, tecnoetica.it, processiculturali.it, puntobeta.net.

VINCENZO BERNABEI

Laureato in Scienze della Comunicazione (La Sapienza Università di Roma) pubblica la sua tesi dal titolo Cinema: Evasione, strategie di fuga nel più invasivo dei media con Tilapia. Titolare di Queimada – Brand Care, dal 2008 si divide tra l’ufficio e l’Università di Salerno, dove è dottorando di ricerca e studia i media e la sociologia dei processi culturali

RENÉE CAPOLUPO

Dottore  di  ricerca in Scienze della comunicazione  presso l’ateneo di Salerno. Si occupa di consumi mediali, culture pubblicitarie e televisive, teorie della comunicazione. Ha pubblicato saggi su culture e linguaggi della pubblicità e sugli audiovisivi tra serialità e web.

GIULIA GRECHI

Laureata  in  Scienze della Comunicazione (La Sapienza, Roma), collabora con la cattedra di Antropologia Culturale  del  Prof. Canevacci. Dottore di Ricerca in Teoria e Ricerca Sociale, si occupa di studi culturali, visuali e postcoloniali, con focus sulla relazione tra antropologia e arte contemporanea. È assistente al coordinamento e docente del Master per Curatore Museale e di Eventi (IED, Roma).


GIULIA MARINELLI

Laureanda in Scienze della  Comunicazione (Sapienza  Università di Roma), collabora a vari progetti del Dipartimento di Sociologia e Comunicazione e della cattedra di Teoria e Analisi delle Audience, con cui sta scrivendo una tesi sui processi di normalizzazione del fandom. Nasce fan e, crescendo, le viene naturale farsi affascinare dallo studio dei pubblici. Adora le serie televisive di ogni tipo.

PASQUALE NAPOLITANO

Cultore  in  Comunicazione  Visiva  e dottorando  in Scienze della Comunicazione all’Università di Salerno, collabora con la cattedra di Disegno Industriale ed è curatore dei Laboratori Didattici di Comunicazione Visiva. Artista multimediale, performer ed esperto di design e comunicazione visiva, insegna in vari istituti ed è cultore in Analisi dell’Opera Multimediale (Università Orientale - Napoli).

ALFONSO AMENDOLA

Insegna all’Università di Salerno dove è Vicepresidente del Centro Studi sulle Rappresentazioni Linguistiche. Si occupa dei rapporti tra culture d’avanguardia e culture di massa. Tra i suoi libri: Frammenti d’immagine (2006); Per una poetica del molteplice (2007); L’immaginazione audiovisiva (in corso di edizione); ha curato, con Emilio D’Agostino Il desiderio preso per la coda (2008) e L’altra lezione (2009).

FRANCESCA COMUNELLO

Ricercatrice presso la Facoltà di Scienze della Comunicazione della Sapienza Università di Roma, dove insegna Internet Studies e Teoria e tecniche dei nuovi media. Ha pubblicato, tra gli altri, Reti nella rete (Guerini), Mondi digitali, curato con Giuseppe Anzera (Guerini) e il saggio From the digital divide to multiple divides. Technology, society and new media skills (IGI Global).

GABRIELE MORATTI

Nasce a Roma nel 1971. Laureato in economia e commercio, e con un master in comunicazione d’impresa, inizia a lavorare in pubblicità, dove resta per circa 10 anni prima in Publicis, e successivamente in McCann-Erickson. Dal 2006 è in Fox International Channels con il ruolo di brand marketing manager. Tra le altre cose ha seguito il lancio dei canali FX e FoxRetro in Italia.

NIKO DEMASI

Lo sguardo schizzato di Jack che chiama Danny inseguendolo  nella neve è tra i suoi ricordi d’infanzia più limpidi. Laureato in Comunicazione (Sapienza, Roma), esperto di progettazione multimediale, la voglia di “cucinare” nella stessa pentola musica, grafica e video lo fa diventare un motiongrapher. Il mistero dei suoni e delle immagini è la sua passione. Da ottobre 2009 è l’art director di Queimada-Brand Care.

SAMAD ZARMANDILI

Regista e giornalista pubblicista. Laureato in Storia e Critica del Cinema  (Sapienza, Roma), entra nel mondo del cinema come aiuto regista e collabora alla realizzazione di programmi TV. Scrive e dirige diversi corti, video, documentari e backstage, partecipa a molti festival. Nel 2009 Sole Rosso, il suo primo lungometraggio, è selezionato per la Fabbrica dei Progetti al Festival Internazionale del film di Roma.

SIMONE MULARGIA

Dottore di ricerca in Scienze della Comunicazione presso la Facoltà di Scienze della Comunicazione  della Sapienza Università di Roma. Svolge attività di ricerca nel settore della comunicazione e dei nuovi media.

PIERPAOLO PANICO

Laureato in Scienze della Comunicazione all’Università di Salerno, ha qui conseguito il titolo di dottore di ricerca con una tesi dal titolo info-remediation incentrata sulla serialità mediatica. Attualmente collabora con la cattedra di Sociologia dei Processi Culturali e Comunicativi del Prof. Sergio Brancato occupandosi di consumo dei media e serialità audiovisiva.

VINCENZO AIELLO

Nato tra i monti del Pollino, laureato in Scienze della Comunicazione  (Sapienza, Roma) e diplomato in Tecnica del Suono al Centro Sperimentale di Cinematografia. Regista radiofonico per Radio2Rai, fonico di presa diretta e montatore del suono in ambito cinematografico, lavora come Sound Editor presso la Technicolor Sound Services (Gruppo Thomson). Ama i Mac, gli orsi grizzly, le biciclette e ogni tipo di legume in scatola.

DIEGO ALTOBELLI

Nel 1999 scopre che non sarebbe mai diventato un pianista jazz, che nessun meteorite avrebbe  distrutto  la Terra e che i Beatles non si sarebbero mai più riuniti. Non parla con chi non pensa che Ritorno al futuro sia il miglior film della storia del cinema. Laureato in Scienze della Comunicazione, scrive racconti e sceneggiature e, dal 2005, è il copywriter di Queimada – Brand Care. Ha un blog: www. revolutionine.com.

ELISA DE VITO

Laureata in Grafica e Progettazione Multimediale  (La Sapienza , Roma) con un’innovativa tesi sulla realizzazione di t-shirt, “Indossa la tua idea”. Lavora come Graphic Design e da settembre 2009 fa parte del team Queimada – Brand Care. Se non è davanti a un file di Adobe Indesign ama riprendere con la sua videocamera.


indice

marketing 50

56

LA SERIALITÀ DELL’ EMOZIONE

di Renée Capolupo PRODUCT RECALL Una provocazione strategica (1° puntata)

di Claudio Biondi 66

BRAND DI SERIE E BRAND DI CANALE Una strategia comune

di Gabriele Moratti

comunicazione 14

COME SAREMO DOMANI La cosmologia della TV e l’assedio del digitale

di Sergio Brancato e Mario Morcellini 30

40

DA YOU TUBE A CURRENT - L’AFFERMAZIONE DEGLI UGC

di Nadia Riccio LEGALITÀ E GIUSTIZIA, SESSO E SHOPPING Le strategie di produzione seriale tra tv e social networking

di Vincenzo Bernabei 72

FLOPTV & SHORTCUT Delirio seriale in forma breve

di Pasquale Napolitano 88

INFINITE WALLACE Piccole riflessioni su un libro che non diventerà mai un film

di Diego Altobelli

creatività 20

LA SOSPENSIONE DEL TEMPO Per un’estetica delle narrative seriali FOCUS: Breve storia della serialità televisiva americana

di Luigi Granato 52

74

LA DURA VITA DI UN’IDEA

di Massimo Caiati DIGITALE & ARTIGIANALE Le vie inconsuete della produzione e della post-produzione FOCUS: Dall’anaglifo ad Avatar: breve storia dell’illusione tridimensionale

di Niko Demasi


tecnologia e web 32

UGI User generated imagination - Il caso dei fan movie

di Davide Bennato 64

GLEE Come i Social Network cambiano il rapporto tra i fan e produttori

di Giulia Marinelli 70

94

LO STRANO CASO DEL DR FLOPTV E MR. YOU TUBE

di Pierpaolo Panìco LITTLE BIG PLANET Il videogioco creato dagli utenti

di Francesca Comunello e Simone Mulargia

business 24

BUSINESS FICTION Ogni azienda ha la sua storia da raccontare FOCUS:Queimada 1st season (12 episodies

di Alessandra Colucci 36

VIDEO E TV NELL’ USO AZIENDALE Colloquio con Francesco Maria Gallo di Manpower

di Patrizio Di Nicola e Tonia Basco

culture 44

REPLICARTE Alle radici della serialità creativa tra cartoline e fotocopie

di Raffaella Di Lorenzo ed Emi Guarda 60

84

LIE TO ME - LO SGUARDO INCORPORATO

di Giulia Grechi ANTONELLO NOVELLINO - UN FILMAKER VERSO L’ARTE MEDIALE

di Alfonso Amendola

formazione 80

NOCI DI COCCO, CARTA VELINA E SURROUND La postproduzione audio, tra tecniche artigianali e sensorialità tattile del digitale

di Vincenzo Aiello 86

PRIMO: PORTARE CAFFÈ Il lungo percorso a ostacoli per diventare registi di un prodotto audiovisivo

di Samad Zarmandili


comunicazione

LA COSMOLOGIA DELLA TV E L’ASSEDIO DEL DIGITALE

S

ergio Brancato: Proporrei di cominciare da una questione un po’ provocatoria su cui tu sei stato, anni fa, tra i primi studiosi a intervenire: di cosa parliamo, davvero, quando ci riferiamo alla televisione? In più occasioni i tuoi lavori sono risultati alquanto dissonanti rispetto al contesto e alla tradizione degli studi sul mezzo televisivo. I tuoi libri lanciavano messaggi forti, uno su tutti La Tv fa bene ai bambini...

Mario Morcellini: Forse è ancora più interessante la domanda “a che cosa pensiamo quando parliamo di televisione?”. In effetti non è detto che gli intellettuali e la società italiana parlino davvero, ed esclusivamente, di televisione quando “credono” di parlare di televisione. Di fatto, gli intellettuali in questi casi parlano anzi tutto di se stessi, impiegando le proprie


energie per differenziarsi in sottogruppi specifici: apocalittici, integrati, impegnati ecc. Certo, ormai si tratta di una questione per molti versi risolta, perché oggi queste categorie risultano obsolete in rapporto alla TV, e tornano casomai d’attualità a proposito di ambienti e tecnologie più recenti, come la rete. Il secondo elemento che chiamiamo in causa è la società stessa. Parliamo di televisione quando per noi essa riassume la cosmologia dell’intera società che cambia, e da questo punto di vista il mezzo televisivo è sconvolgente per come riesce a raccontare nitidamente - se studiato non solo attraverso i testi ma anche sotto l’aspetto dei consumi - i processi di trasformazione, le ansie di cambiamento e anche le perdite culturali che tali processi comportano. Per molti versi, insomma, la televisione è previsione sociale. Previsione nei sensi più astuti, pre-visione, cioè visione cognitivamente anticipata del futuro. SB: Quindi a tuo modo di vedere i sociologi hanno, o hanno avuto, un problema profondo nel rapportarsi con questo oggetto. MM: Diciamo che probabilmente hanno un problema con la società italiana in sé: sono nati per leggere il mutamento, ma dal mutamento si fanno incupire e stressare. È come dire che uno studioso di forme tumorali si spaventi del cancro. Si chiama sociologia proprio la “dottrina del mutamento sociale”, e invece nei fatti essa riusciva a funzionare bene solo quando il cambiamento sociale era lento, e cioè quando era dominabile da una struttura cognitiva lenta come quella dei sociologi. Il drop out per questi ultimi è arrivato proprio quando la tra© Queimada Brand Care

sformazione della società ha cominciato ad assumere ritmi più alti, mentre di ciò hanno risentito meno gli studiosi di comunicazione: storicamente più allenati a presidiare i confini del cambiamento sociale. SB: Concordo con te su quest’ultima considerazione, e ancora di più sul fatto che il mutamento della società e quello della televisione sono meglio interpretabili se si usano strumenti atti a indagare le trasformazioni di sistema, più che i singoli contenuti testuali. Quest’ultimo approccio, in particolare, mi pare del tutto obsoleto. MM: A mio giudizio i contenuti contano poco in televisione. So che questa frase mi attirerà un po’ di antipatie (e va bene perché nella vita bisogna anche lasciare delle tracce), ma è innegabile che l’analisi del contenuto si è rivelata uno strumento inadeguato. Qualcuno ha speso anni a inventare e perfezionare questa metodologia, che di fatto si è trasformata in una tautologia sconvolgente, poiché in pratica ci consente di affermare con sicurezza solo quello che già pensavamo della televisione. A quel punto, diciamolo provocatoriamente, è meglio il salotto! SB: Affermerei quindi che la televisione va osservata e considerata non tanto, appunto, per ciò che appare nello schermo, bensì nella sua completezza, nella sua etimologica “magnificenza” (in senso estetico e filosofico), perché è un dispositivo in grado di trasmettere, oltre che contenuti, un’aura particolare che rimanda a un sistema di vita.


comunicazione MM: La parola “aura” è illuminante in questo frangente, perché stiamo parlando di un oggetto che si caratterizza proprio per una tattilità distintiva: se ti avvicini allo schermo esso sembra attirarti. SB: Cerco di arrivare a un punto che considero fondamentale, e in parte implicito in una serie di affermazioni che hai fatto finora, e cioè alla correlazione che individuiamo fra “trasformazione della società” e “trasformazione del modello televisivo”. Quest’ultima costituisce un processo in atto da sempre, e sta vivendo in questa fase una forte accelerazione, rendendo ancora più problematica e difficile l’individuazione dell’oggetto da analizzare. Si potrebbe annoverare, insomma, tra i fattori che attualmente rendono ardua l’impresa del sociologo. MM: In primo luogo vorrei soffermarmi criticamente sul concetto di “modello”, perché mi sembra che tanto i produttori di televisione quanto la politica vivano in una situazione di arretratezza analitica e strumentale rispetto alla transizione che la TV sta vivendo. Il cambiamento della televisione è in realtà molto singolare: solitamente siamo portati a credere che esso sia connesso all’affermarsi delle nuove tecnologie. Per questo, al pari di istituzioni come l’Istat o il Censis, noi operiamo tramite una distinzione teorica tra televisione tradizionale e, appunto, altre piattaforme tecnologiche. Il fatto è che a mio avviso il cambiamento della TV è già insito nella televisione generalista. Ciò è dimostrato dal fatto che il pubblico televisivo ha radicalmente cambiato la propria

fisionomia anagrafica: nessuno lo dice con nettezza, ma davanti alla televisione non ci sono più i giovani. Ora, domandiamoci se si può ancora chiamare “televisione”, nel modo in cui noi lo intendevamo in passato, un mezzo che non ha più di fronte a sé una delle fasce d’età da sempre costitutive del proprio pubblico, quella che lo rendeva un dispositivo d’avanguardia sociale. D’altro canto, in modo complementare, dobbiamo rilevare che anche l’invecchiamento della popolazione contribuisce a ridelineare il carisma della TV, confinandolo all’interno del gradimento dimostrato da adulti e anziani. SB: Quale scenario prospettano questi elementi per il futuro della televisione? Da un lato è chiaro che la crisi, e dunque la mutazione, iniziano all’interno del panorama generalista. Dall’altro, c’è ovviamente da considerare che esse non si compiranno all’interno del generalismo stesso, date le coordinate sociali fluide in cui ci troviamo e il contestuale, incessante sviluppo delle tecnologie digitali. MM: Credo che presto ci si porrà davanti un’alternativa chiara: o la televisione dimostrerà, attraverso un sussulto di orgoglio, di poter rinegoziare un patto con le giovani generazioni (possibilità che ora come ora mi sembra di là da venire), oppure dovrà semplicemente e malinconicamente accontentarsi di gestire la sua decadenza. Nel primo caso essa dovrà porsi il problema di cambiare i suoi protagonisti e i suoi linguaggi, ma in merito a ciò non sono molto ottimista, perché neanche la televisione commerciale, che pure dovrebbe risultare per definizione più incalzata e pronta quando si parla di consumi e costumi innovativi, ci sta riuscendo; figuriamoci poi se questo tipo di iniziativa possiamo aspettarcela dal nostro servizio pubblico, che è storicamente più lento a progredire e ad inseguire soggetti sociali nuovi. Eppure sarebbe importantissimo riuscire a ri-stilare questo patto, perché così facendo si produrrebbe un avanzamento culturale epocale, cioè si tornerebbe ad abbattere il drammatico fenomeno dell’incomunicabilità intergenerazionale. Il cinema è tendenzialmente giovanilistico; il giornalismo è adulto-centrico; la radio in Italia, inspiegabilmente, a differenza che in altri paesi europei, ha come target primario quello dei giovani-adulti. L’unico dispositivo che ha nelle sue corde questa opzione è ©Flickr-by Kengz


© sxc by Zchizzerz proprio la televisione, che è un flusso continuo portato a non focalizzarsi su contenuti o destinatari specifici. SB: E se la tua intuizione su un rinnovato patto sociale non trovasse un seguito operativo? Se, come dici, a quel punto ci si trovasse di fronte a una irrevocabile decadenza del mezzo, cosa ci aspetterebbe? Quale sarebbe il nuovo regime della comunicazione? MM: Se bruceremo questa chance si aprirà, appunto, soltanto un onesto e lentissimo declino. Lentissimo, certo, perché la disinfiammazione della televisione non significherebbe una sua crisi immediata e irrevocabile – a volte è sufficiente un aumento dell’ansia collettiva a ripopolare l’audience televisiva, basta un evento come quello delle Torri Gemelle e la televisione recupera la crisi di pubblico iniziata otto anni prima – ma certo una fase gravemente recessiva. E attenzione: aggiungo anche che in tal caso la recessione risulterebbe del tutto autoindotta, e non sarebbe in alcun modo imputabile all’affermazione dei nuovi media, come ogni tanto i sociologi più pavidi tendono ad affermare. Non è vero che il vecchio dia automaticamente luogo al nuovo, come non è vero che il nuovo conservi le funzioni di soddisfazione delle domande proprie del vecchio. SB: Concordo sul fatto che una chiave di lettura di questo tipo sia senz’altro troppo semplicistica. La tua battuta sul vecchio

e sul nuovo, d’altra parte, mi aiuta a introdurre una questione ineludibile: quella del sistema digitale terrestre. Interrogandoci sull’esperienza condotta negli ultimi mesi attraverso tale tecnologia, a tuo avviso dobbiamo o no considerarla come un rilevante cambiamento di sistema? MM: La questione del digitale televisivo italiano ha degli aspetti paradossali. Per prima cosa è intrisa di retorica: avrebbe dovuto provocare un grande cambiamento, nuovi produttori, nuovi consumatori. Ora, dimmi tu se noti l’esistenza di un solo, pallido simulacro di tutto questo. Il fatto è che il digitale terrestre da noi non c’è stato, non c’è stato il cambiamento, poiché la televisione digitale è del tutto simile a quella analogica. Ecco quindi la mia risposta: almeno per ora il digitale italiano è analogico. SB: Sempre alla ricerca di elementi di innovazione, recuperiamo allora un vecchio termine, oserei dire – in maniera paradossale – un vecchio neologismo, che è quello di post-televisione. E ripartiamo parafrasando la domanda che ha aperto questo colloquio: di cosa parliamo quando parliamo di post-TV? Mi spiego: è chiaro a tutti che da sempre siamo abituati a un modello televisivo composto di programmi massimamente eterogenei, che recuperano e moltiplicano suggestioni precedenti di spettacolo, di informazione, di intrattenimento. E tuttavia questo recupero, questa riproposizione fluida dell’entertainment e della cultura in generale, oggi richie-


comunicazione derebbero un ammodernamento, un assestamento, su cui il sistema televisivo italiano sembra peraltro piuttosto indeciso. Dall’America, al contrario, ci giungono dei prodotti di fiction seriale straordinariamente innovativi, e il sistema televisivo statunitense individua proprio nelle tv-series uno dei luoghi in cui rifondare il rapporto col pubblico, il proprio patto, per usare una tua espressione. Tutto questo, invece, in Italia non avviene, e quando si tenta una forzatura in tal senso – come quella di Romanzo criminale l’anno scorso – ciò suscita scandalo. MM: Alcuni studiosi sostengono che la fiction stia andando addirittura meglio che in passato, per le sue ambientazioni e la sue peculiarità linguistiche. Questo deriva soprattutto dalla sua natura eminentemente industriale: siamo di fronte a opere d’arte altamente riproducibili, laddove il cinema produce formati tendenzialmente prototipali e auto-conclusi. Rispetto alla fiction tutti gli altri macrogeneri, tranne il calcio, sono messi in discussione: il telegiornale, il settimanale televisivo, in generale l’informazione (che pure secondo alcuni di noi avrebbe dovuto rappresentare la forza delle televisioni moderne). In altri © Queimada Brand Care

termini, è come se una parte del pubblico televisivo non ne potesse più di alcuni stilemi, di quello che una volta veniva chiamato “spettacolo televisivo”, e si rifugiasse in questo ambito. La consunzione di generi come quello del varietà, d’altro canto, è sconvolgente. Faccio un’eccezione appunto per il calcio e per la comicità, solo perché quest’ultima è favorita dalla domanda di trasgressione che c’è tra i moderni: la comicità è il primo modo con cui in televisione si possono denunciare politici, adulti, istituzioni, parole, luoghi comuni, che per poter essere assunti a livello di massa hanno bisogno di una coraggiosa anticipazione cognitiva, in genere regalata solo dalla comicità stessa. Infine, percepisco il fortissimo valore di appuntamento e di memoria incarnato dalla serialità, così come la sua capacità di costituirsi come codice profondo di riconoscimento per i target. Però il modo in cui è stata sinora affrontata dagli studiosi mi crea qualche elemento di perplessità, perché in molti la considerano incorporata nei testi, e invece non deve sfuggire che si tratta di un meccanismo prodotto dal pubblico stesso attraverso le proprie tattiche di consumo. Se non partiamo da


questo assunto, la serialità rischia di rimanere un fenomeno incapace di restituirci un’apprezzabile profondità di sguardo rispetto al mezzo televisivo in sé: non è detto, ad esempio, che il godimento della serialità che scatta negli adulti sia un valore percepito dai giovani. Su questo invito a rileggere un libro di molti anni fa di Bettetini e Bellotto: Questioni di storia, di radio e televisione. SB: Chiuderei con una domanda che potresti inquadrare anche come un’ulteriore provocazione. Quali sono oggi i reali margini di intervento sul sistema televisivo? Mettiamola così: se tu avessi un alto ruolo di responsabilità, se fossi ad esempio Presidente della Rai, in quale direzione ti muoveresti per riformare il portato produttivo dell’azienda? MM: Con ogni probabilità indirei immediatamente un concorso di idee per programmi nuovi. SB: Come Filiberto Guala, storico direttore generale della Rai, quando coinvolse quell’importante manipolo di giovani intellettuali che vennero definiti i Corsari. MM: Esatto. L’esigenza è senz’altro quella di aprire le finestre sulla produzione culturale giovanile. In questi giorni mi è capitato di presiedere la giuria di un festival di cortometraggi, ed è stato straordinario perché, a differenza che in passato, non c’erano praticamente prodotti sotto il livello standard. Quindi ho colto l’occasione per sensibilizzare nuovamente le istituzioni presenti facendogli notare che la stanchezza della televisione deriva anche dal mancato coinvolgimento dei nuovi venuti. Li chiamano nativi digitali, ma io li definirei, più propriamente, nativi televisivi, proprio perché detengono tutta l’esperienza della televisione del passato. Per concludere, o la televisione apre alle scritture giovanili, alla loro idea di testualità, oppure decide di ristagnare intorno a un’illusione, quella di fortificarsi sul consenso di adulti e anziani e, così facendo, di contare sulla conservazione del loro buono stato di salute. Ma su questo credo valga la frase di Ceronetti: “la salute è uno stato di cose precario, che non promette nulla di buono”.

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creatività

PER UN’ESTETICA DELLE NARRATIVE SERIALI

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di Luigi Granato

l tempo è sicuramente la categoria analitica che più di ogni altra riesce a dar conto delle numerose implicazioni intrinseche al concetto di serialità riferito alle forme narrative. Lo è innanzitutto per la definizione stessa di narrativa seriale, intesa come un racconto di lunga durata (resistenza nel tempo) formato di più segmenti narrativi simili che si susseguono (successione nel tempo) con una certa frequenza (regolarità nel tempo). La lunga durata è una proprietà costitutiva della serialità; essa si manifesta nell’estensione del racconto nel tempo e di conseguenza nella numerosità dei segmenti narrativi. Proprio il numero dei segmenti narrativi è uno dei criteri per la distinzione in formati dei vari racconti veicolati dalla Tv: disposti su un ipotetico asse della serialità si possono infatti distinguere Film-Tv (assenza di serialità), Miniserie (debole serialità), Serie (media serialità) e Serial (forte serialità); si passa così dal singolo e compiuto racconto del film per la televisione all’infinita epopea del serial che si traduce, nella sua forma più estrema, nelle migliaia di puntate della soap opera di durata pluridecennale. Quando si parla di serialità televisiva in senso stretto, ci si riferisce ai formati di serie e serial, differenti dagli altri due non solo per lunghezza e struttura del racconto, ma anche per strategie produttive e organizzazione del lavoro, essendo Film-Tv e Miniserie due prodotti prettamente para-cinematografici. Serie e Serial possono essere definite quindi le strutture elementari della serialità televisiva.


In realtà, i meccanismi che sottendono a queste due formule del racconto seriale sono gli stessi che erano già all’opera agli albori della società di massa nei romanzi a eroe ricorrente (per la serie) e nei feuilleton (per il serial). Esempio classico del primo tipo sono le avventure di Sherlock Holmes, riportato recentemente in auge dal cinema per cui si prevede già un ritorno, in linea con la natura seriale che gli diede Conan Doyle. Ma già mezzo secolo prima un certo Edgar Allan Poe dava vita sulle pagine del Graham’s Magazine di Philadelphia al primo eroe seriale che la storia ricordi: Auguste Dupin. Apparso per la prima volta nel 1841 nel racconto I delitti della Rue Morgue, Dupin sarà protagonista di diverse altre storie e viene oggi riconosciuto capostipite della fitta schiera di commissari e ispettori che popolano il genere delle detective stories. Non di soli detective vivono i romanzi ad eroe ricorrente; ascrivibile alla formula della serie anche la figura del ladro gentiluomo che a partire dagli inizi del Novecento riscuote successo in Francia con le avventure di eroi come Fantomas, Rocambole e Lupin. Rimanendo sempre in Francia, è qui che nasce l’altra struttura elementare della serialità: I misteri di Parigi è il titolo di uno dei primi feuilleton di successo, precursore della formula del serial, che teneva in apprensione i parigini di metà Ottocento, mostrando le enormi potenzialità del racconto seriale. La dimensione di massa, alla quale pure ambivano i romanzi a dispense di Dickens, cominciò a palesarsi pienamente solo con la diffusione delle storie per mezzo di giornali accessibili a tutti. La vera novità del feuilleton consisteva per l’appunto nell’inedito accostamento tra narrativa romanzesca e pubblicazione regolare sulle pagine di un quotidiano, dal quale scaturiva il puntuale processo di serializzazione sia sul versante della produzione nel processo di scrittura sia su quello del consumo da parte del pubblico. Entambe le strutture elementari della serialità sfruttano la sospensione del tempo come principio estetico fondante. Ma per capire cosa differenzia la formula del serial da quella della serie bisogna andare un passo oltre e considerare la morfologia del racconto e le pratiche di fruizione.Nel serial la sospensione del tempo si esplica nella segmentazione del racconto, che prevede per l’appunto la sospensione del flusso narrativo, spesso nel momento di massima tensione drammatica (cliffhanger), e la successiva ripresa del racconto dal punto in cui si era interrotto. Ciascun segmento (puntata) non è autosufficiente essendo concatenato al precedente e al successivo secondo una struttura lineare ed evolutiva del tempo. Nel serial viene messa in atto in definitiva una dilazione del racconto nel tempo ben esemplificata dal to be continued apposto alla fine di ciascuna puntata. È proprio questa continua sospensione della storia che sta alla base del piacere della fruizione da parte di un pubblico combattuto fra l’ambivalente desiderio di voler sapere come va a finire il racconto e non volerne mai vedere la fine (i fans di Lost, serie culto del nostro tempo che manda in onda proprio in questi giorni le puntate dell’ultima stagione,

sanno bene cosa intendo).Alla base della serie vi è invece una concezione ciclica del tempo, che si esprime nella continua iterazione di schemi, personaggi e luoghi del racconto. In questo caso la sospensione temporale funziona da congelamento del mondo della serie, che ritorna in ogni unità narrativa (episodio) senza aver subito i segni del tempo: i personaggi vivono in un eterno presente e non hanno memoria delle vicende narrate negli episodi precedenti. L’episodio è autonomo e strutturato sul ricominciamento daccapo del racconto. La gratificazione del pubblico scaturisce dunque dalla reiterata risoluzione del conflitto a fine episodio e dalla rassicurante possibilità di ritrovare l’eroe in un’altra entusiasmante avventura. Meccanismo sfruttato efficacemente dai fumetti di super-eroi che a partire dagli anni Trenta dello scorso secolo hanno mandato in visibilio generazioni di ragazzini. Va precisato che, in quanto strutture prototipali della serialità, serie e serial sono cate-

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gorie estreme e polarizzate, difficilmente riscontrabili nelle loro forme pure. Funzionano come schemi di riferimento entro cui si muovono le concrete narrative seriali, aperte a potenziali ibridazioni. Come dimostrano le recenti serie serializzate televisive.Lo specifico delle narrative seriali sta dunque proprio nell’azione che il tempo produce sulla forma attraverso la regolarità, creando spazi liminali tra una puntata e l’altra entro i quali gli spettatori attivano complesse pratiche interpretative, operano speculazioni immaginifiche e si caricano d’attesa. Non è un caso che molte delle recenti Tv series americane giochino con il tempo inserendolo all’interno del racconto.Si pensi a Lost, in cui flashback e flashforward servono ad esplorare i caratteri dei personaggi, vera forza della serie, e a dare un surplus di senso ai loro comportamenti sull’isola. O al più recente Flashforward, dove la letterale sospensione del tempo e la proiezione collettiva dei personaggi nel futuro per un minuto funzionano da evento dinamico del racconto; in questa serie il tempo è un elemento narrativo a tutti gli effetti. Ma il caso più emblematico è senza dubbio 24, che presenta l’apice del sincretismo nel rapporto fra tempi del racconto e tempi della formula: ogni puntata mostra un’ora di vissuto del protagonista, le cui gesta sono scandite da un orologio digitale che segna l’inesorabile procedere del tempo persino durante gli stacchi pubblicitari, a sottolineare il tempo reale del racconto; le ventiquattro puntate di cui è composta ogni stagione narrano dunque una sola giornata dell’eroe. Oltre ad alimentare la suspense, qui la sospensione del tempo fa in modo che tempo del racconto e tempo della fruizione coincidano del tutto, eleggendo la serie a manifesto della serialità. 1_ wikipedia.org 2_The Murders in the Rue Morgue, 1894-1895, Author: Aubrey Beardsley Series: Illustrations of short stories by Edgar Allan Poe 3_ wikimedia.org 4_ flickr. by Scriptingnews 5_ flickr. by Aturkus Per approfondire (1984) A. Abruzzese, Ai confini della serialità, Società editrice napoletana, Napoli. (1992) A. Abruzzese, Forme estetiche e società di massa, Marsilio Venezia. (2002) M. Buonanno, Le formule del racconto televisivo. La sovversione del tempo nelle narrative seriali, Sansoni, Milano. (2007) M. Buonanno, L’età della televisione. Esperienze e teorie, Laterza, Roma-Bari. (2007) S. Brancato, Senza fine, Liguori, Napoli. (2004) F. Lucherini, La lunga serialità in Italia: una breve storia, in Script N° 34, Dino Audino editore, Roma. (2004 ) H. Newcomb (a cura di), Encyclopedia of television, Fitzroy dearborn publishers, Chicago.

BREVE STORIA DELLA SERIALITÀ TELEVISIVA AMERICANA Una storia della serialità televisiva non può prescindere dal contesto entro cui il nuovo medium si sviluppò per primo. Gli Stati Uniti d’America, combinando il know how del cinema hollywoodiano con l’enorme immaginario narrativo proveniente da pulp magazines e comics e forti dell’esperienza della radio, fecero da locomotiva allo sviluppo della serialità televisiva nel resto del mondo. Agli inizi degli anni Cinquanta, la formula della serie viene incarnata da uno dei generi più marcatamente americani: la sit-com. Il caso più celebre è I love Lucy (’51-’57). Anche se conserva ancora aspetti teatrali come la presenza del pubblico di fronte la scena (di cui si sentono le risate) e la messa in onda in diretta, I Love Lucy riesce a dar conto di quel ritorno del mondo della serie, caratteristica principe della formula della serie a episodi. Tale aspetto viene valorizzato da serie successive, a partire da Adventures of Superman (’52-’58) in cui le avventure del più famoso supereroe a fumetti entrano nel palinsesto televisivo creando una prima forma di riunione collettiva dei ragazzi americani data dalla simultaneità della visione. Gli anni Cinquanta 3 sono  fondamentali anche per la strutturazione dei generi del racconto nella  serialità televisiva. È in questo periodo che nascono serie episodiche  come Dragnet  (’52-’59), Gunsmoke  (’55-

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’75), Perry Mason (’57-’66) e Dr. Kildare (’61-’66), capostipiti rispettivamente delle serie poliziesche, western, giudiziarie e mediche che affollano oggi il panorama televisivo. Proprio la comunanza di genere sta alla base della serie antologica, formato particolare la cui natura seriale viene garantita anche da elementi extra-diegetici come la presenza di un anfitrione che introduce il racconto. L’esempio più famoso è Alfred Hitchcock presents, raccolta di racconti gialli, in cui il maestro della suspense dopo aver salutato i telespettatori, presenta il tema della storia con un breve prologo. Alla serie antologica appartiene anche The Twilight Zone (’59-’64) conosciuta in Italia con il titolo Ai confini della realtà, collection di film fantasy della durata di un’ora circa, capace di esorcizzare le paure e le ansie della società americana del tempo. Altra serie degna di nota è Il tenente Colombo (’71-’78), a cui ha prestato il volto per anni Peter Falk. Quest’ultima è un esempio paradigmatico di serie pura, con riferimento all’autonomia degli episodi, i quali possono essere visti in ordine sparso senza per questo pregiudicare la comprensione del racconto, diversamente della serie serializzata, che di lì a poco diventerà lo standard delle narrative seriali della Tv. Hill street blues (’81-’87) è la serie che rivoluziona linguaggi, strutture e formati della serialità televisiva, operando ibridazioni a vari livelli. Diverse le peculiarità che fanno di Hill Street Blues la serie spartiacque tra la first e la second golden age della Tv americana. Innanzitutto la struttura del racconto che ibrida la formula della serie con quella del serial dando luogo alla serie serializzata. Alle storie risolte nell’arco dell’episodio (anthology plot) si affiancano così linee narrative che si estendono per un’intera stagione o che attraversano tutti gli episodi (running plot). Tale caratteristica, in gradi differenti, connota oggi tutte le moderne serie televisive. Altro elemento innovativo è l’ampliamento

del cast, con la conseguente simultaneità di più storie che si intrecciano all’interno di un episodio, diversamente da quanto avveniva nelle serie a personaggio fisso. La pluralità dei personaggi significa eterogeneità dei caratteri e dei temi del racconto, con la possibilità di comprendere all’interno di un’unica serie più generi, in maniera tale da accontentare un pubblico differenziato in quanto a gusti e preferenze. Tutto questo fu reso possibile grazie alla casa di produzione MTM, vero e proprio cantiere creativo, fucina dei più brillanti scrittori seriali di oggi. Ma gli anni Ottanta sono anche gli anni in cui viene definitivamente infranto un tabù: la soap opera, relegata fino ad allora nel daytime, conquista la fascia di maggior ascolto andando in onda in prime time. L’onore tocca a Dallas (’78’91), epica saga familiare che arriva dopo qualche anno anche in Italia. Alle novità nel campo delle narrative seriali si affianca la rivoluzione del sistema televisivo, che vede l’emergere di un numero di canali sempre maggiori, anche a pagamento, con la progressiva affermazione di un ambiente multicanale. È in questo contesto che negli States nascono network via cavo come HBO che, a metà degli anni Novanta, amplia la propria offerta di contenuti con la produzione di serie sempre più raffinate: Sex and the City (’98-’04), I Soprano (’99-’07), Six feet under (’01-’05). Si innesca così un circuito virtuoso che spinge i tradizionali broadcast network a produrre serie dalla qualità sempre più elevata per rincorrere le Tv via cavo: ER (’94-’09) per la NBC, CSI (’00- in produzione) per la CBS, 24 (’01- in produzione) per Fox, Lost (’04-’10) per la ABC. A beneficiare della competizione è il pubblico, sempre più affamato e soddisfatto dal bisogno di serialità narrativa. Il resto è storia dei nostri giorni.


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OGNI AZIENDA HA UNA STORIA DA RACCONTARE

S

di Alessandra Colucci

cegliere un approccio olistico al marketing e al branding vuol dire comprendere che tutto ciò con cui entra in contatto la propria organizzazione finisce per raccontarne qualcosa. La reputazione di ogni azienda, il suo brand, la sua anima, sono composte da tutte le sue azioni e le sue scelte, non solo dai prodotti e/o dai servizi che offre. È l’insieme complessivo di questi fattori che riempie di significato le “merci” e le rende percepibili. Produrre “merci” è come raccontare una storia e i target che un’azienda si propone di raggiungere corrispondono alle audience che fruiranno il suo racconto. Per coinvolgere tali audience occorre dunque rendere interessante la narrazione in tutti i modi possibili, innovandola e rinnovandola ogni volta che la si racconta (come nei remake), in modo da non annoiare pur rimanendo riconoscibili. Importantissimo, poi, è evitare di creare aspettative che potrebbero venir disattese perché sarebbe come preparare un thrilling trailer per una commedia romantica: porterebbe disappunto e malumore nel pubblico.


L’INCIPIT DEL RACCONTO

NARRAZIONE CONTINUA Il blog, ad esempio, espressione pragmatica di continua evoluzione, strumento emblematico del web 2.0, più dell’ormai obsoleto sito vetrina, consente di raccontare continuamente di sé al proprio target di riferimento dando risalto a tutte le iniziative promosse dall’organizzazione e dal proprio settore. Il blog, e il corporate blog nello specifico, è uno strumento che rende estremamente sem-

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La narrazione della storia di ogni organizzazione, sia questa operante nei mercati rivolti ai consumatori finali, sia questa inserita in un contesto di relazioni con altre imprese, inizia dal marchio e dall’identità coordinata che lo contiene. Il marchio è l’elemento che sintetizza più di tutti, utilizzando una sorta di metafora visiva, la multidimensionalità del brand, il mood empatico che l’azienda è in grado di creare con il proprio mercato di riferimento, il suo “racconto”. Ogni marchio deve dunque esprimere tutte le sfaccettature della marca che rappresenta e l’identità coordinata che lo contiene deve esserne coerente ed organica espressione. Marchio e identità coordinata sono quindi le basi della narrazione continua che l’azienda fa di sé stessa, oltre naturalmente ai prodotti e servizi che immette nel mercato, ma tale racconto deve essere approfondito e serializzato, attraverso i diversi mezzi di comunicazione di cui l’organizzazione decide di dotarsi, costruendo un proprio sistema narrativo.

plice gestire i contenuti di cui si vuol dare notizia o sui quali si vuole aprire una riflessione comune: permette di trasmettere velocemente le informazioni e dunque di avere uno spazio web aziendale continuamente aggiornato, in un gergo semplice e informale, privo di inutili tecnicismi. Il blog diviene contenitore del proprio racconto e moltiplicatore di visibilità da cui raggiungere altri “luoghi” (es. i propri spazi sui social network e, attraverso il blogroll, i siti “amici” con i quali si intessono relazioni e che sono specchio dei legami dell’organizzazione). Creare un corporate blog e utilizzare i social network renderà più trasparente il proprio racconto poiché, grazie all’interazione legata alla possibilità per gli utenti di inserire commenti e opinioni, garantirà la possibilità di avere un feedback, di trasformare un monologo in un dialogo. Altro esempio da considerare per approfondire e rendere continuativa la narrazione di sé è quello dell’house organ, una pubblicaione che tratti della vita dell’organizzazione e di tematiche a questa vicine (anche visto come spin-off del il corporate blog), uno strumento che rende possibile avvicinare e informare anche chi non utilizza spesso internet. L’ideazione e la distribuzione di un magazine strettamente legato al brand dell’organizzazione rende possibile un ulteriore ampliamento dell’audience per i contenuti ritenuti di particolare rilievo e dei quali si vuol mettere al corrente il maggior numero di persone possibile, ovvero un buon veicolo istituzionale per far arrivare il proprio “racconto” ai fruitori più illustri o ai vertici di altre organizzazioni.


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DEL NOME E DELLA PROMESSA FATTA AI PROPRI CLIENTI. È IL VIAGGIO VERSO L’EDIFICAZIONE DI UN NUCLEO E DI UN’ANIMA DELL’AZIENDA, IL CUI MESSAG GIO SI TRASMETTE

PER CONTAGIO

I DI ESSA QUASI DENTRO E FUOR PER FAR SÌ CHE I CLIENTI OTTENGANO DAVVER

O

CIÒ CHE LA MARCA PROMETTE

[P. Kotler e W. Pfoertsch in La gestione del brand nel B2B] QUEIMADA 1st SEASON (12 episodes) Questa potrebbe essere una serie trasmessa da non so bene quale canale satellitare, una sit-com in stile friends sulle vicissitudini di una piccola società romana impegnata in strategie di marketing e comunicazione integrata. Di seguito il plot per una immaginaria prima stagione. 1° episodio – Gin Tonic Autunno 2004. Ale e Vinz (i protagonisti della serie) sono in piena crisi “post laurea”. Hanno 25 anni, mezzo secolo in due in un Paese, l’Italia, in cui a 50 anni si è ancora considerati “ragazzi”. Lei torna da 5 mesi di soggiorno-studio a Oxford, lui ha appena discusso la tesi. Il mercato del lavoro offre solo stage nulla-pagati per fotocopiatori. Una sera si incontrano per un aperitivo “strong” e per cercare di farsi venire qualche idea per mettere a frutto le proprie competenze. Dopo 2 Gin Tonic i due si trovano a fantasticare su come sarebbe esaltante lavorare “per conto proprio” immaginando ogni più piccolo dettaglio della loro ipotetica “impresa”. 2° episodio – Excel Il primo incontro “operativo” tra i monti della Ciociaria per continuare a fantasticare sul proprio progetto di business. Ale scende dall’auto al centro del paesino. Nessuno le ha voluto dare indicazioni sulla

USA

E LA DIFF R T L O ” N CA E AR B M A A UN V E COSTRUIR CONSAPEVOLEZZA

via che sta cercando, qualcuno le ha detto addirittura che non esiste. Non resta che telefonare. “Vinz, ma dov’è casa tua? Sono quasi 3 ore che guido!” “Torna un po’ indietro seguendo la strada e ci sei, ti aspetto in balcone”. Ale non avrebbe mai potuto prevedere una risposta più assurda, ma decide di non fare domande e seguire le istruzioni. Per mesi continuano a riempire fogli Excel di conti e pagine di parole che servano a descrivere quel che pensano di fare. 3° episodio – La spirale Nella terza puntata, con un gruppo di amici professionisti affermati di grafica e 3D, Ale e Vinz cercano di dare un nome e un marchio al proprio progetto. Molti auto-questionari, brainstorming, elenchi di ipotesi, scarabocchi, fogli accartocciati, immagini di piante e di fuoco dopo, si arriva a Queimada (isola delle Antille, film di Pontecorvo, nonché bevanda alcolica dal significato “focoso” – e questo ricordava la nascita dell’idea) e alla sua spirale di cerchi con triangolo (continuità & cambiamento). La scelta dei colori e del font richiederebbe una puntata a parte, ma direi di tagliar corto e mostrare il marchio finito.E direttamente in questo episodio. 4° episodio – 9 Febbraio 2005 Felicissimi, Ale e Vinz, nonostante mille incognite, prendono appuntamento dal notaio e il 9 febbraio del 2005 danno finalmente vita a Queimada snc con 7.000 euro (3.500 a testa) di investimento iniziale: ora sono soci al 50% di quella che sembra una follia. Dopo i primi tempi passati a lavorare a casa, nelle


NARRAZIONE PER IMMAGINI

Esistono molti modi per concepire una pubblicazione di questo tipo a seconda dei target che questa si propone di raggiungere, dei contenuti che vuole veicolare, della modalità e della periodicità con la quale si vuole distribuire. In sintesi, a seconda della storia che si vuole raccontare.

Il video riesce a colpire lo spettatore da più punti di vista: rende più immediata la comprensione del messaggio poiché a supporto di testi e discorsi ci sono le immagini; accompagna il consumatore nella fruizione con un audio che spesso comprende anche una colonna sonora; garantisce il ritmo della visione in linea con le caratteristiche dell’argomento... Per le organizzazioni veicolare il proprio “racconto” in formato audiovisivo sarebbe dunque molto importante e utile: importante per il fatto che i contenuti audiovisivi possono contribuire al costituirsi di un archivio di materiale e documenti da poter sfruttare, anche economicamente, in vario modo; utile nel momento in cui tali contenuti vengono utilizzati a supporto del materiale informativo su eventi o iniziative. Sicuramente ci sono casi in cui il racconto per immagini ha molto più appeal rispetto ad altre tipologie di narrazione, soprattutto in occasione di fiere di settore, durante la presentazione di progetti (specie se

biblioteche e in vari bar sparsi per Roma, finalmente trovano una stanza 3x3 (giuro che è la metratura esatta) in subaffitto in uno studio di avvocati, facendone il loro primo ufficio.

Creata per essere mostrata in stazione a tutti i viaggiatori, è diventata una presentazione per il top management mandata un paio di volte al TG3 Piemonte.

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7° episodio – Via Veneto 169 5° episodio – First Date Dopo il lavoro per Ferrovie Ale e Vinz si possono permettere Seguiamo Ale e Vinz durante il loro primo appuntamento di lavoro con il gestore di un hotel che vuol rilanciare la sua un ufficio più grande con mobili e computer nuovi. In questo struttura: budget zero, un flop. Gli individui assurdi nei quali episodio la ricerca su portaportese.it, l’occasionissima di Via i nostri due protagonisti incappano all’inizio sono molti: il se- Veneto 169, il passaggio all’hardware Apple e l’inaugurazione guace di Mussolini che si presenta facendo il saluto romano, il dell’ufficio con amici e clienti. pianista spiantato innamorato di una cantante lirica giappone- L’ufficio, luogo delizioso, arredato con cura che, in una società se di cui non fa che mostrare la foto, il gestore di una tv locale in cui i simboli hanno parecchia importanza, contribuisce al che li accoglie in un capanno in campagna con tanto di canotta della salute... e così via. È dura! © Queimada Brand Care 6° episodio – Pacman e treni Il primo, vero, importante lavoro di Ale e Vinz. Una clip live con inserti 3D di 5 minuti in subfornitura per Ferrovie dello Stato. L’occasione sono le Olimpiadi invernali di Torino 2006. Nella puntata il lavoro sulla sceneggiatura, lo studio del personaggio 3D (una specie di pacman), sopralluoghi in stazione, casting con attrici improbabili e non, storyboard. Poi il giorno delle riprese: il freddo polare di Torino Porta Nuova, i cestini del pranzo, comparse, attrice e 15 persone di troupe da coordinare. Bellissimo, divertente, assurdo, perfetto, anche senza la visibilità che avrebbe dovuto avere.


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importanti o complessi), per popolare il proprio sito o blog corporate, per veicolare istruzioni (anche tecniche) nel caso dei video-tutorial, … e in migliaia di altre situazioni. Uploadare delle “pillole”, dei brevi filmati, per esempio su Youtube o su altri social networtk, rende la diffusione di questo materiale molto semplice.

NARRAZIONE ESPERIENZIALE

© Queimada Brand Care decollo del sogno facendo cambiare atteggiamento verso i due “quasi-bimbi” imprenditori da parte di molte persone, direttore di banca incluso... 8° episodio – Brand Care e 2.0 Nell’ottavo episodio della serie Diego, collaboratore di Queimada, propone di creare un corporate blog dove presentare lavori e ricerche, commentare le novità e i cambiamenti di settore, confrontarsi con i competitors. Cercando quello per il blog, Ale e Vinz riescono anche a dare il nome all’approccio che perseguono da sempre: Brand Care, la cura della marca, per descrivere il loro metodo che prevede l’ analisi della preesistenza comunicativa delle aziende clienti prima di creare per loro strategie da trasformare in visibilità. I due decidono dunque di fondere lo statico sito vetrina al blog, creando un piccolo portale in perfetto stile 2.0. Oggi Brand Care online conta oltre 1.000 visite al giorno, non troppo per uno spazio generalista, ma abbastanza per conferire molta più visibilità a una realtà aziendale B2B in espansione. 9° episodio – Workflow Il lavoro di agenzia per i settori più disparati è il fulcro di questa puntata. Il lancio di una palestra romana monodisciplina che passa da 32 a 125 iscritti in 6 mesi.

Ogni azienda è fatta di emozioni ed esperienze che dovrebbe cercare di condividere con i propri target (le proprie audience) quanto più possibile. L’ufficio (per chi si occupa di B2B), come il punto vendita (per chi invece è parte del mercato Consumer), costituisce una delle più importanti vetrine per i clienti e, più in generale, per chiunque vi entri. Quando si conosce una persona, la prima cosa che colpisce sul serio è il suo

Il restyling di un portale per un’azienda del Gruppo Finmeccanica che non verrà mai messo online. I molti video in subfornitura per FS presentando i miglioramenti apportati nelle stazioni. Oppure il cerimonale per il concerto di Natale dell’Accademia di Santa Cecilia, piccoli eventi per un consorzio ottico, decine di identità coordinate. Insomma, non so su quali dei progetti seguiti sarebbe meglio focalizzare, ma se ne occuperà lo sceneggiatore o il regista, no? 10° episodio – La Carta C’è la crisi cosmica. L’economia mondiale pare in ginocchio. Ale e Vinz hanno già visto la domanda crollare e sanno che l’unica cosa da non fare è “fermarsi ad aspettare”. Così, nonostante le difficoltà, rilanciano. Queimada diventa editrice del trimestrale Brand Care magazine, che si propone di connettere il mondo della ricerca accademica con quello del business, favorendo letture aperte e originali di ogni materia. La stampa cartacea è in calo, sembra un azzardo una rivista, ma le pubblicazioni specialistiche e di nicchia sono ancora apprezzate da un management che non riesce a procurarsi una connessione wi-fi in ogni luogo. Funziona. 11° episodio – So di non sapere La rivista piace e fa colpo su IED – Istituto Europeo di Design a cui Ale e Vinz propongono un master in Gestione Strategica del Brand. Ale da quando si è laureata tiene lezioni di marketing, comunicazione o produzione audiovisiva per vari master. Vinz sta completando il dottorato in Scienze della Comunicazione.


l’aspetto fisico e successivamente altre caratteristiche meno superficiali: entrare per la prima volta nell’ufficio di qualcuno produce esattamente lo stesso effetto. La narrazione esperienziale che può derivare dalle percezioni legate alle sedi d’incontro diretto tra domanda e offerta è fondamentale nell’economia della costruzione del “racconto” relativo all’organizzazione. La stessa dinamica si verifica in occasione degli eventi, altra forma di esposizione della storia aziendale attraverso l’esperienza diretta, la creazione di community in presenza. Alcuni considerano gli eventi solo come puro strumento di branding, in particolare nel segmento consumer; altri ricercano nell’evento la possibilità di sviluppare nuovi affari: dalla semplice presenza del marchio sui materiali istituzionali, dall’assegnazione di stand e speech sessions, dal co-branding nelle iniziative di direct mailing, organizzare un evento diviene strumento narrativo oltre che di business.

CREARE E CONDIVIDERE LA PROPRIA STORIA Ogni organizzazione, ogni brand, consiste in un sistema valoriale, come un racconto. Ogni azione di un’impresa racconta qualcosa di più sul pro-

2005

prio modo di essere e di produrre. È per questo che diviene importante il passato di un’azienda, sempre più centrale nella definizione delle sue strategie future di approccio al mercato attraverso l’analisi della preesistenza comunicativa, l’heritage marketing, il ricorso al restyling, l’associazione continua tra il proprio universo valoriale e quello di elementi positivi quali altri brand, il mondo accademico, le opere di beneficenza. Esistono moltissimi modi di raccontarsi, occorre solo sceglere quello più appropriato in ogni situazione. Per approfondire 2007, M. Montemaggi e F.Severino, Heritage marketing, Franco Angeli 2008, P. Kotler e W. Pfoertsch, La gestione del brand nel B2B, Tecniche Nuove www. alessandracolucci.com Il marchio e le sue caratteristiche Il coordinato aziendale: biglietti da visita e carta intestata Perché creare un “corporate blog” Aziende e Social network: l’esempio IKEA L’ “house organ” ovvero perché creare una rivista aziendale Video aziendali e Youtube Comunicare il brand: l’ufficio e il suo arredo

2008

2010

© Queimada Brand Care Soft Strategy e Anteprima2 si dicono da subito interessati al progetto, Apogeo si aggiunge subito dopo e Peroni sembra quasi convinta. Ale e Vinz hanno entrambi insegnato per IED, la scuola è incline a dar fiducia ai giovani e accoglie il loro progetto. Parte il lancio con iedmastergsb.com 12° episodio – Il 5° Compleanno Siamo arrivati alla fine: l’ultima puntata ha un finale aperto. È il quinto compleanno di Queimada, in ufficio si brinda come ogni 9 Febbraio. È un momento felice pur se di complessa rioganizzazione, di cambiamento: sul marchio “storico” è stato apportato un restyling teso a visualizzare i cambiamenti avvenuti in 5 anni. Si sta provvedendo a cambiare il sito/corporate blog, si è intervenuti stilisticamente anche sulla rivista. La crisi

che blocca gli investimenti di tutti i mercati persevera, ma sembra inizi a perdere di intensità e si brinda ai tanti progetti nati e quelli da far nascere. Le puntate in verità potrebbero essere tante di più e intrecciare la storia aziendale con quella personale dei protagonisti (una gran bella storia d’amore), si potrebbe fare una puntata su ogni progetto seguito, sulla partecipazione al MILIA di Cannes con progetti audiovisivi per mobile quando ancora quasi non se ne parlava, del tentativo di fare product placement cinematografico “all’americana”... e tanti altri aneddoti. Naturalmente se qualcuno fosse realmente interessato ad acquisire soggetto e diritti della serie Queimada si faccia avanti!


comunicazione

N

di Nadia Riccio

ell’ultimo decennio il perfezionamento tecnico e l’abbattimento dei prezzi delle apparecchiature di videoregistrazione digitale hanno favorito il diffondersi capillare di pratiche di autoproduzione audiovisiva, per uso sia privato che pubblico, di proporzioni inimmaginabili negli anni degli apparecchi analogici. Simultaneamente la duttilità del segnale numerico si è posta alla base dell’intensificazione esponenziale degli scambi di contenuti, sfruttando la rete come ambiente naturale per la trasmissione e la condivisione. È proprio a partire dalla rete, con le piattaforme di condivisione di contenuti come Flickr, MySpace, YouTube, che all’interno del panorama audiovisivo hanno


acquisito centralità i cosiddetti UGC, ovvero User Generated Content (contenuti prodotti dagli utenti). Così come accaduto per l’informazione attraverso le pratiche del blogging e del citizen journalism, anche per la produzione, la circolazione e il consumo di audiovisivi si è progressivamente affermato un modello “dal basso”. In un secondo momento, quando la comunicazione in rete è stata praticamente colonizzata dall’autoproduzione (considerando ad esempio come già quattro anni fa YouTube fosse tra i primi dieci siti al mondo per numero di contatti), la nuova generazione di contenuti audiovisivi ha investito gli scenari televisivi. Una ribalta delle produzioni amatoriali sugli schermi analogici si era già avuta in prima istanza con i programmi di real tv, ovvero quei programmi in cui venivano presentati filmati prodotti da non professionisti, occasionali testimoni di avvenimenti particolari. Tutta la narrazione mediatica dell’11 settembre 2001 si era sostanziata di questo tipo di materiali, rimontati e ossessivamente ritrasmessi sul piccolo schermo. L’ulteriore evoluzione di tale processo è stata la nascita di palinsesti che si costruissero integralmente con contenuti prodotti e resi disponibili dagli utenti (UGC, per l’appunto). In Italia la prima esperienza in tal senso è stata il progetto FLUX del gruppo Mtv. Flux nasceva come canale televisivo alimentato dalla piattaforma internet: tramite il sito era possibile registrarsi, rendere disponibili i propri contributi audio e video, visionare gli archivi, scaricare sul proprio pc o su cellulare i contributi più apprezzati e, soprattutto, esprimendo le proprie preferenze, contribuire direttamente alla costruzione del palinsesto. Il canale Flux che ne risultava era di fatto un canale tematico, trasmesso in analogico (destinato alla conversione DTT), ma che rispondeva alle logiche di una web tv. Inoltre, il rinvio alla rete era continuo, poiché solo dal sito era possibile ricavare informazioni comple© current.com te sui contributi trasmessi. Flux era stata proposta come “open source” televisiva. Il canale Flux ha avuto vita breve (aprile – novembre 2006) ed è stato sostituito da QOOB, trasmesso in digitale terrestre sul Multiplex del gruppo Telecom. Una piccola rivoluzione è rappresentata nel maggio 2008 dall’inaugurazione di Current Tv Italia, terzo step di un più ampio progetto, promosso dall’americano Al Gore, di canale integralmente costituito di contenuti user generated. La piattaforma integrata rete-tv di Current si rivolge in particolare a una fascia di pubblico tra i 18 e i 35 anni e si dichiara orientata da principi di democrazia e indipendenza. Dal sito è possibile visionare i filmati dei VC2

(viewer created content), interagire con la community, proporre i propri materiali, partecipare a discussioni, votare i contenuti. I progetti come Current mettono in discussione i tradizionali parametri di qualità televisiva, relegando in secondo piano gli aspetti tecnico-produttivi ed esaltando il valore di democratizzazione dell’accesso ai canali informativi. L’autoproduzione dell’informazione, l’assenza di un filtro dei contenuti politicamente o commercialmente orientato, l’organizzazione degli stessi a partire dal gradimento del pubblico che si fa entità accentuatamente attiva, costituiscono il valore aggiunto del progetto. La matrice ideologica alla base del progetto è esplicita: i media mainstream attualmente si configurano come agenti a basso tasso di democrazia, a discapito della libera circolazione delle informazioni e delle opinioni, è quindi necessario agire nella costruzione di canali più liberi. Tuttavia, anche all’interno di realtà televisive più tradizionali, di impianto mainstream, troviamo il riverbero delle logiche e delle estetiche legate all’universo degli UGC. Il ricorso all’immagine “sporca”, alla bassa definizione, è sempre più frequente, per rispondere ai gusti di pubblici – quelli più giovani – che affidano alla rete la soddisfazione della maggior parte dei propri bisogni audiovisivi. In quest’ottica allora possono essere interpretatati tanto gli inserti a lungo impiegati prima delle interruzioni pubblicitarie da Italia 1 (la rete del gruppo Mediaset maggiormente declinata per i target giovanili), ma anche esperimenti produttivi come la Black box di Mtv, in cui le telecamere venivano affidate ai protagonisti delle storie narrate perché autoproducessero i loro racconti. Se volessimo evidenziare i canoni fondativi di questa estetica dovremmo riconoscere in primo luogo l’effetto di immediatezza (reale o costruito che sia), lo scavalcamento della costruzione formale dell’immagine e un ricorso frequente allo sguardo in soggettiva, dove l’occhio del produttore è al contempo quello del fruitore.


tecnologie e web

USER GENERATED IMAGINATION IL CASO DEI FAN MOVIE

C

di Davide Bennato

ollaborazione, partecipazione e condivisione sono termini che ormai siamo abituati ad associare alle relazioni sociali instaurate nei social network e ai progetti basati su social media e servizi web 2.0. In realtà queste caratteristiche sono tipiche delle comunità, che possiamo intendere – nonostante la controversia sociologica sul termine – come associazione di persone che condividono un interesse, uno scopo o un progetto collettivo (più o meno ideologico). Basti pensare alla comunità dei radioamatori, o a quella dei collezionisti (dai classici come i filatelici a quelli figli del modernariato come gli appassionati delle sorprese degli ovetti Kinder), oppure alla comunità hacker. In realtà il rapporto fra tecnologie web e comunità è un rapporto circostanziale: ovvero essere una comunità e usare tecnologie digitali è condizione né necessaria né sufficiente. Anche se è vero che le tecnologie basate sul web – specialmente il web 2.0 – hanno accelerato la costruzione di comunità di interessi e facilitato la loro nascita e la diffusione. Un conto è condividere la propria passione con un insieme di persone con cui si mantengono contatti sporadici e ci si incontra solo in determinate occasioni collettive (feste, fiere, manifestazioni) un conto invece è sfruttare le opportunità dei social media per mantenere costantemente i contatti con il proprio gruppo sociale di riferimento.


Fra tutte quelle che si possono elencare, esiste una comunità molto interessante che ha saputo cogliere in maniera eccezionale le possibilità offerte dalle tecnologie digitali: è il fandom. Il termine, usato dalle scienze sociali che si occupano di studi culturali, nasce dalla crasi di fanatic e kindom, ovvero il fandom è il regno degli appassionati (i fan) di qualcosa, spesso dei prodotti della cultura mediale che ci circonda. Diversi e tutti interessanti sono i fandom: dagli appassionati di musica (i Beatles, Michael Jackson, i Kiss, tanto per citarne alcuni) fino agli appassionati di fumetti (molto diffusi i fan dei manga o dei comics americani) o di serie televisive (fra tutti, celeberrimo è il fandom legato a Star Trek). Ma perché questo interesse nei confronti del fandom? Perché è produttore di cultura. Infatti la struttura sociale tipica di un fandom è imperniata sulla possibilità di celebrare il proprio immaginario di riferimento, attraverso l’interpretazione degli elementi simbolici che fanno da contesto. Se il fandom è relativo ai fumetti, si possono celebrare i propri beniamini attraverso la compravendita degli album oppure vestendosi come il proprio eroe (pratica tipica del fandom manga con i cosplayer, ovvero gli indossatori – player – di costumi – cos[tume]). La cultura tipica del fandom è un remix dell’immaginario di cui si è fan, associato a una serie di pratiche e rituali per celebrare la propria passione. Manifestazioni, incontri, gare: nel fandom esistono tutte le forme (e anche di più) attraverso cui l’industria culturale dà vita alle proprie creazioni. Se volessimo usare uno slogan, potremmo dire che il fandom è una forma di user generated imagination: immaginazione generata dagli utenti. Questo lo ha ben capito il marketing con lo sviluppo del merchandising allo scopo di soddisfare la voglia di consumo di immaginario dei fan, questo lo ha anche capito la ricerca sociale più aggiornata, quando parla di cultura convergente (convergence culture) e del fatto che rappresenta una risorsa per tutta una serie di nuovi prodotti mediali (Lost, Harry Potter, la trilogia di Matrix, per esempio).

Il caso più famoso in questo senso è Dark Resurrection [www.darkresurrection.com] se i fan movie solo la celebrazione di un immaginario, Dark Resurrection è la celebrazione di Star Wars. Infatti il progetto, il cui regista e animatore è Angelo Licata, si ispira liberamente – come si dice in questi casi – alla saga di Guerre Stellari – con tutta la sua panoplia di Jedi, Sith, spade laser, razze aliene e così via dicendo. Il progetto, durato diversi anni, si è avvalso di un gran numero di appassionati che hanno contribuito a diverso titolo, dalla sceneggiatura, alla creazione dei costumi, alla raccolta di fondi, dando vita ad un film molto curato nei particolari (e negli effetti speciali) che si è avvalso anche della collaborazione gratuita di attori e volti dello spettacolo: basti pensare che la voce narrante è quella di Claudio Sorrentino, il celebre doppiatore italiano di Mel Gibson.

©wikimedia.org

Una delle forme tipiche con cui si esprime la fan culture è senza dubbio la fan fiction, ovvero la produzione di racconti – letterari il più delle volte – che si rifanno all’universo finzionale intorno al quale si organizza il fandom. Molto attivo in questo sono i trekkers (appassionati di Star Trek) con le loro saghe liberamente ispirate alle vicende della Enterprise, oppure il fenomeno giapponese dei dojinshi, ovvero fumetti ispirati a famosi personaggi dei manga ma che vengono sceneggiati e disegnati da appassionati, in barba alle leggi giapponesi sul copyright.

Esiste una forma un po’ più complessa della fan fiction e sono i fan movie, ovvero i film liberamente ispirati a celebri saghe siano esse letterarie, cinematografiche, videogiochi, role playing game e cosi via. Il caso dei fan movie è un caso interessante: in primo luogo perché solleva problemi tutt’altro che trascurabili dal punto di vista del copyright (e spesso infatti sono osteggiati dalle case che detengono i diritti sui personaggi), secondo poi perché fare un film è molto più complesso che scrivere un romanzo, se non altro perché il film è un lavoro collettivo che impiega molte persone per tantissimo tempo. E qui entrano in gioco le tecnologie del web sociale. Infatti per far lavorare insieme regista, sceneggiatore, produttore, costumisti, comparse, attori, responsabili effetti speciali e operatori di macchina si usano tutti gli strumenti che la tecnologia a basso costo mette a disposizione: blog, forum, social network, camere digitali, software per l’editing e così via dicendo. Si potrebbe pensare che il fandom internazionale sia all’avanguardia su questi temi diversamente per il fandom nostrano, e invece gli italiani non sono da meno, anzi spesso sono autori di prodotti indistinguibili da colossal hollywoodiani.


tecnologie e web Per saggiarne le raffinatezze visive basta guardare le clip presenti su Youtube (tra gli altri consiglio: [www.youtube.com/ watch?v=0KO6ZuC2HDY]).

Altro immaginario, altro gruppo ma stessa passione: è Metal Gear Solid, Philantropy [www.mgs-philanthropy.net], opera prima di Giacomo Talamini. In questo caso l’immaginario di riferimento è il famoso videogioco Metal Gear Solid, famoso perché nel suo scenario di guerra si muovono soldati, cyborg e sofisticatissimi mecha (i robot giganti da guerra con forme umanoidi) che vengono accuratamente riprodotti nel film di Talamini e soci (più correttamente sarebbero da definire amici), facendo dimenticare che si tratta di una produzione amatoriale. Dopo diverse vicissitudini, a partire dallo scorso 29 settembre è possibile scaricare il film completo. Sul sito di videosharing Vimeo è possibile trovare un canale dedicato dove si possono vedere trailer e altre clip prese dal film [www. vimeo.com/hivedivisionchannel]. Un progetto più recente e in corso di realizzazione è Berserk: the Black Swordsman [www.vimeo.com/ledproduction], tratto dal manga ad ambientazione fantasy Berserk di Kentaro Miura il cui regista è Francesco Sanseverino, un appassionato del fumetto in questione che con un gruppo di amici ha messo in

piedi l’operazione. Attualmente il progetto ha dato vita ad un cortometraggio, ma il risultato è assolutamente spettacolare, soprattutto se si sbirciano le clip che raccontano il making off degli effetti speciali e che nulla hanno da invidiare ai progetti cinematografici più professionali. I fan movie sono dei veri e propri oggetti culturali molto sofisticati perché non solo si appropriano – valorizzandolo – dell’immaginario collettivo prodotto dalla più recente industria culturale, ma si appropriano anche di forme della produzione tipiche dell’industria culturale che l’avanzata delle tecnologie digitali ha reso più “leggere” e per questo riproducibili e rielaborabili secondo dinamiche e strategie assolutamente innovative. Negli ultimi tempi un soggetto sociale tipico delle analisi futurologiche degli anni ‘80 sta tornando molto di moda: è il prosumer, ovvero il produttore-consumatore di contenuti, spesso digitali. Ma per intravedere il futuro di queste pratiche di produzione culturale a metà tra l’amatoriale e il professionale bisogna scomodare una figura completamente diversa, che per assonanza potremmo chiamare il fansumer, ovvero l’appassionato che è anche produttore di contenuti sofisticati, frutto della user generated imagination...

©darkresurrection.com


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COLLOQUIO CON FRANCESCO MARIA GALLO DI MANPOWER

L

di Patrizio di Nicola e Tonia Basco

a comunicazione, ormai ne sono coscienti anche le pietre, rappresenta per l’impresa un anello fondamentale della catena del valore, un asset determinante per ottenere un reale vantaggio competitivo. Tra le leve che le aziende usano per coinvolgere i loro pubblici interni ed esterni, i video stanno assumendo un ruolo centrale: già forti di una straordinaria potenza comunicativa, si trasformano oggi grazie alle tecnologie digitali e si aprono verso nuove contaminazioni e potenzialità. Di questo, e di altro, abbiamo parlato con Francesco Maria Gallo, External & Internal Relations Manager di Manpower, persona che gode di una solida fama di esperto di comunicazione a tutto tondo. Per Gallo il reale valore aggiunto dei video rispetto alla comunicazione con altri mezzi, sta nella capacità di “entrare immediatamente nell’empatia del target, del soggetto al quale si riferiscono, in quanto stimolano il sensore importantissimo, dell’emozionalità, attraverso la musica, le immagini, le storie che si mettono in scena.” Per di più, con le nuove tecnologie, “i video da veicolo di comunicazione passiva diventano interattivi, e ciò determina un ruolo fondamentale nel far sentire il soggetto partecipativo. Certo, il video come strumento di comunicazione esiste da molto tempo, ma oggi è determinante non tanto per la sola funzione che assolve, ma per il suo essere diventato innovativo attraverso strumenti quali la rete internet e intranet, nonché il digitale terrestre e satellitare”.


© Francesco

Maria Gallo

FRANCESCO MARIA GALLO

Dirigo l’area External & Internal Relation di Manpower dal febbraio 2008: Progetto e coordino piani strategici di public, media e marketing relation: • eventi mediatici, fra gli altri: Premio per il lavoro (evento trasmesso in versione integrale su RAIUNO); Pit Stop Lavoro, format televisivo che affronta le tematiche del lavoro partendo dall’inchiesta televisiva con ospiti e pubblico in studio (trasmesso su Sky CNBC can. 505) [www.pitstoplavoro.it]; • relazioni industriali e istituzionali , nonché progetti che coinvolgono Manpower come partner strategico e di valore; • Lavori in corso, bimestrale di Manpower di economia e politica del lavoro distribuito in edicola 70.000 copie e su abbonamento a 10.000 stakeholder italiani del mondo dell’economia, della politica, del lavoro e del giornalismo; • Gestisco, comunicazione interna intesa come relazione strategica con l’obiettivo di coinvolgere, motivare, emozionare e rendere partecipe 2.000 cittadini del villaggio globale Manpower Italia. In sintesi, “lavoro di relazioni e strategie” in una società che “lavora per il lavoro” con le risorse umane per le risorse umane, è per questo che ho deciso di adottare una comunicazione assolutamente emozionale ed esperienziale. Oltre a ciò, mi occupo della Ceo Reputation, curo e gestisco l’immagine pubblica di Stefano Scabbio affiancandolo nelle relazioni con giornalisti, stakeholder, personalità del mondo dell’impresa, della politica e della cultura. In passato ho svolto l’attività di direttore comunicazione e marketing e sviluppato progetti strategici per diverse aziende e istituzioni. Ho seguito l’immagine pubblica di vari personaggi del mondo della politica, dell’economia e della cultura italiana. Ma la mia grande passione è la narrativa e la poesia, sono stato un piccolo editore con la Gallo&Calzati editori sperperando i miei risparmi, e lo rifarei! La donna che amo e mette ordine al mio quotidiano caotico si chiama Barbara.


business

Dell’importanza strategica dello strumento video nelle strategie di brand sono consapevoli molte grandi aziende italiane: dai risultati di una ricerca condotta dall’Osservatorio Bocconi sulla Business Tv nel 2008 emerge che il 30% delle più importanti realtà italiane per fatturato e numero di dipendenti utilizza i video per comunicare con pubblici diversi. I settori maggiormente coinvolti sono quelli delle Assicurazioni, delle Telecomunicazioni, dell’editoria, dei media e dell’ICT. Le piccole e medie imprese, invece, appaiono più lente nell’utilizzo dei video. A tale proposito Gallo è convinto che la situazione cambierà, semplicemente perché “è cambiato il sistema di comunicazione” e anche le PMI devono “adeguarsi a ciò che richiede oggi una società che non è non più della comunicazione ma della relazione”. Insomma, quello che abbiamo vissuto con il fax o con Internet, e quindi il passaggio da mezzo tecnico d’avanguardia a disposizione di pochi a fenomeno di massa, accadrà anche con i video e con il mezzo televisivo tout court. Sarà comunque necessario un percorso di maturazione, che porti le imprese verso una maggiore consapevolezza delle potenzialità della “business tv”. Ma già oggi si osserva un passaggio importante, che ha portato molte imprese dal semplice utilizzo della tv a scopo promozionale a una “consapevolezza editoriale”. Come sottolinea Gallo, “un mezzo è solo un mezzo, di per sé stupido. Il mezzo assume un valore nel momento in cui questo viene riempito di contenuti. Questi contenuti sono il plus, il valore aggiunto che dà una coerenza, che svela la potenzialità

straordinaria – nel senso di fuori dall’ordinario – del medium, che riesce a raggiungere, a veicolare con un solo click i propri contenuti a tutti gli interlocutori”. Quindi, dopo una prima fase caratterizzata dalla semplice declinazione del modello televisivo tradizionale in un contesto in cui il protagonista è l’azienda, le imprese si avviano a diventare protagoniste attive di proposte originali, iniziando a vestire i panni dell’editore per creare contenuti audiovisivi innovativi e coerenti con la propria identità. Un valore, quello editoriale, da trattenere al proprio interno, perché, secondo Gallo, “dare in outsourcing funzioni così delicate, in particolare quella dell’editoria e quindi dei contenuti, è molto rischioso, perché ognuno è consapevole e conosce a fondo i propri valori e nel trasferirli a un terzo, un professionista che magari deve gestire 10.000 contenuti diversi, si perde quell’elemento fondamentale della comunicazione che è la passionalità del racconto. Soltanto chi ogni giorno vive all’interno dell’azienda è in grado di raccontarla utilizzando il giusto tono della comunicazione”. Ovviamente gli esperti esterni sono indispensabili per la verifica dei toni di comunicazione utilizzati, ma “il valore editoriale deve essere mantenuto all’interno dell’impresa, con una struttura adeguata nell’ambito dei dipartimenti di pubbliche relazioni, di comunicazione e di marketing dell’azienda”. La business TV è quindi un fenomeno importantissimo, e all’Enterprise Generated Contents, si affiancano gli User Generated Content: notizie, approfondimenti, comunicazioni istituzionali si meticciano ai contenuti prodotti dagli interlocutori, rendendo questi ultimi partecipi di una nuova realtà comunicativa non più solo top-down, ma fondata sul ©Flickr-by Maxymedia


coinvolgimento e l’interattività. La “dimensione partecipativa” costituisce il vero valore aggiunto della business TV, che abbandona i canoni della TV tradizionale (autoritarismo, unidirezionalità, contenuti generalisti e commerciali, prevedibilità) per assumere una nuova identità, basata sulla personalizzazione, su nuovi contenuti e su una fortissima interazione con l’utente. Questa evoluzione è resa possibile dallo sviluppo del Web e delle tecnologie digitali, che, da un lato, hanno reso la tv accessibile anche sul versante business (riducendo i costi di produzione, distribuzione e fruizione dei contenuti); dall’altro hanno ribaltato il tradizionale rapporto passivo tra produttore di informazioni e ricevente a favore di quest’ultimo. A riguardo Gallo, utilizzando una metafora cara a Roland Barthes, sottolinea che “la business TV è un oggetto storico che bisogna riempire di contenuti che vanno poi trasferiti all’esterno, verso gli oggetti materiali che si interfacciano con l’oggetto storico”. La business TV ha sicuramente un potenziale straordinario, “il punto è come questo potenziale viene sfruttato dal punto di vista della tonalità della comunicazione della qualità editoriale, della potenzialità dell’interattività. La comunicazione non può più essere una comunicazione passiva ma neanche soltanto attiva, deve essere partecipativa, e l’interlocutore deve avere la possibilità di fare esperienza e di sentirsi protagonista, deve essere coinvolto nel gioco comunicativo. Oggi la business TV è matura e può fare entrare in un processo ludico il proprio interlocutore facendolo sentire partecipe, ed emozionandolo”. Quando la business tv fa il suo ingresso in azienda, essa porta una ventata di innovazione a tutto campo nella comunicazione interna e esterna. Le imprese possono sfruttare strategicamente la TV per dare un volto sia ai messaggi - e accrescerne così la forza comunicativa - sia alle funzioni aziendali, facilitando in tal modo le relazioni. Le aziende, generando contenuti video sulla Intranet, possono valorizzare gli aspetti che hanno maggiore impatto sul rapporto di fiducia con i dipendenti, come la cultura aziendale, i casi di successo o la capacità innovativa. E anche la formazione diventa più tempestiva e meno onerosa. In termini di comunicazione esterna, l’era digitale ha ribaltato le regole del gioco e ha reso possibili modelli pubblicitari e di marketing un tempo impensabili. Per comunicare con i clienti finali attraverso la TV le imprese possono avvalersi di due tipologie di programmi: quelli orientati al lungo periodo (caso in cui le aziende sfruttano le potenzialità della TV digitale quale business strumentale rispetto al proprio, come fanno Mediolanum ed Epson, che, pur non avendo come core business la realizzazione di servizi televisivi, garantiscono una programmazione di 24 ore) e quelli centrati sull’immediatezza (che fanno leva soprattutto su occasioni innovative di fruizione e su messaggi coinvolgenti, contestuali e multidimensionali). In ogni caso secondo Gallo “il punto sta nella capacità dell’azienda che eroga questo tipo di servizio di

© presskit.it

comunicazione di saperlo aggiornare costantemente, di renderlo diverso”. La TV interattiva offre la possibilità agli addetti ai lavori di essere sempre in grado, in qualsiasi momento, di ripensare l’offerta di comunicazione, per cui alla base dell’uso della TV in azienda “ci deve essere la capacità di diversificazione dei contenuti, di non essere obsoleto e ripetitivo. Serve un’attenzione straordinaria nel rinnovare i contenuti e trovare forme di comunicazione e di divulgazione interattiva e partecipativa che creino l’effetto continuo di stupore da parte dell’ospite, del protagonista, della persona che partecipa e interagisce al gioco”. Come esempio di TV usata con una valenza strategica Gallo ci segnala una sua esperienza condotta a Manpower con Pit Stop Lavoro, un talk show televisivo realizzato in collaborazione con la londinese CNBC che analizza la cultura e l’economia del lavoro in Italia. Utilizzando il sistema dell’inchiesta con gli ospiti in studio, l’obiettivo del progetto è di creare una connessione interattiva tra le diverse dimensioni del mondo del lavoro, coinvolgendo le persone che lavorano accanto ai protagonisti dell’economia e dello spettacolo. Caso unico in Italia, l’evento televisivo consente ai clienti di Manpower di avere una grande visibilità (basti pensare che una puntata ha uno share medio di 500.000 spettatori) e di relazionarsi con personaggi di rilievo della politica e dell’economia italiana. Ma l’esperienza di Gallo abbraccia anche il campo della web radio (lui stesso è diventato per passione un djblogger). La radio, ai tempi di Internet, è diventata uno strumento straordinario, sotto alcuni aspetti, lo è più della TV: “perché stimola molto di più la creatività… perché la TV ti proietta dentro il micromondo che ti rappresenta in quel momento, mentre con la radio un micromondo te lo costruisci nella tua testa… proprio perché vedi con le orecchie, con la mente e sogni”. Ma questa è un’altra storia, che andrà affrontata con più tempo e spazio.


comunicazione

LE STRATEGIE DI PRODUZIONE SERIALE TRA TV E SOCIAL NETWORKING

N

di Vincenzo Bernabei

ella fase attuale gli studi dei media sono particolarmente focalizzati sulle nuove modalità di serializzazione dei prodotti culturali anche perché, dopo una stagione in cui lo slancio innovativo dei contenuti sembrava essere incarnato principalmente dall’infotainment e dai reality show, si assiste ora a un prepotente ritorno del racconto di finzione, considerato tradizionalmente come uno dei motori primari dell’immaginario. D’altra parte è semplice constatare come alcune delle serie televisive messe in onda negli ultimi anni, tanto dalla tv generalista che dai circuiti a paga-


mento, siano state in grado di polarizzare i gusti e le attenzioni di varie fasce di pubblico in virtù della loro capacità di riscrivere il sistema valoriale comune. Se con Friends, ad esempio, abbiamo definitivamente imparato a non associare automaticamente il sottogenere sit-com a un contesto familiare più o meno tradizionale (senza rinnegare le centinaia di ore trascorse di fronte ai Robinson, ad Arnold, a Genitori in Blue Jeans e, perché no, ai Simpson) e con Lost abbiamo iniziato a disarticolare collettivamente le dimensioni spaziali e temporali della nostra esistenza (continuando per certi versi il lavoro che David Lynch e Marc Frost avevano iniziato a suo tempo con I segreti di Twin Peaks), con Dexter abbiamo toccato con mano, puntata dopo puntata, quanto talvolta possano risultare sfocati i concetti di legalità e quello di giustizia. Allo stesso modo le avventure delle quattro ragazze di New York protagoniste del fortunatissimo Sex and the City hanno dato la possibilità a milioni di donne (e non solo, diciamocelo) di apprezzare l’estrema perspicacia con cui il genere femminile riesce a trattare le tematiche connesse alla sessualità. Ma anche di constatare come l’intrattenimento sia ormai indissolubilmente legato alle suggestioni shopaholic, alle pulsioni verso una dimensione estetica del consumo quotidiano, con accessori e abiti griffati che – in piena ottica chick lit, come in un libro di Sophie Kinsella – non fungono più solo da gradevole contorno alla messa in scena, ma diventano veri e propri nodi relazionali tra i personaggi, nei confronti dei quali spesso siamo portati a costruire strategie di identificazione o differenziazione basandoci semplicemente sui gusti che manifestano nel loro universo narrativo. Naturalmente il particolare stato di grazia della fiction televisiva non deve suggerire che gli altri media, primi tra tutti il “vecchio” libro e il

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comunicazione “vecchio” cinema, si trovino necessariamente in uno stato di crisi irreversibile. Il primo, fatta esclusione per la perenne sofferenza in cui sembra versare una buona fetta dei piccoli editori (almeno quelli non dotati di una linea editoriale specialistica), pare conservare un buon appeal nei confronti di molte fasce di pubblico, aiutato dal generale successo raggiunto dai portali che praticano la vendita on line. Il secondo, invece, continua a ritagliarsi uno spazio importante tanto nella sua forma più spiccatamente industriale, associata al panorama dei grandi gruppi, quanto nelle sue declinazioni indipendenti, che da qualche anno vedono pienamente protagoniste sotto l’aspetto produttivo e distributivo anche le realtà una volta definite “emergenti”. Di sicuro, però, dalla nascita del cinematografo in poi, sappiamo che quando l’apparato cinematografico sente minacciate le proprie potenzialità egemoniche, tende a “contrattaccare” facendo leva sulla propria essenza tecnologica. Così fece di fronte alla diffusione massiccia del televisore, intorno agli anni Cinquanta del secolo scorso, dotandosi di schermi panoramici (il famoso Cinemascope, che si basava sulle riprese ottenute attraverso obiettivi anamorfici) e sistemi di colorazione per l’epoca fantasmagorici; e così ha fatto negli ultimi decenni rincorrendo i new media a colpi di surround, animazione digitale e spettacolarizzazione degli aspetti post-produttivi. Alle originali modalità di distribuzione e fruizione delle serie cult dell’ultimo periodo, che hanno visto vecchie e nuove generazioni di pubblici sperimentare e poi sistematizzare le ormai diffusissime pratiche di scambio peer to peer, riverberando all’ennesima potenza i contenuti dei loro prodotti preferiti, quindi, il cinema risponde innanzitutto rendendo anco-

ra più coinvolgente e sofisticata la messa in scena, la visione. È in quest’ottica che vanno considerate le ultime innovazioni del digital 3D con cui sono stati ottenuti molti degli ultimi blockbuster, come il dirompente Avatar di James Cameron, realizzato sia in 2D che in formato tridimensionale, ricorrendo ai protocolli RealD 3D, Dolby 3D (per il sonoro) e IMAX 3D, e brevettando appositamente un dispositivo di ripresa stereoscopica multi-obiettivo: tutti elementi che hanno fatto lievitare il costo complessivo dell’operazione a circa 300 milioni di dollari, considerando tanto le fasi di lavorazione che di promozione e lancio. Megaproduzioni a parte, appare ormai chiaro che le spiccate competenze di molti consumatori culturali contemporanei mal si coniugano con i circuiti di distribuzione più istituzionali, e spingono intere community di internauti a proporre autonomamente testi letterari e audiovisivi, partendo dal comune blogging e arrivando a quelle vere e proprie tattiche di auto-organizzazione mediatica che si raccolgono intorno agli user generated contents. Le modalità di produzione seriali sopra descritte, che si posizionano in uno spazio a metà tra il flusso televisivo e il social networking, sembrano le uniche di cui i produttori tradizionali possono disporre per evitare emorragie mortali di pubblico (soprattutto giovanile). Anzi, in un certo senso sembrano fungere da stimolo per l’intero sistema mediatico, tanto sotto l’aspetto culturale che tecnologico (sempre indissolubilmente connessi tra loro), proponendosi come insieme dinamico di tecniche e protocolli in grado di riallineare i formati e i contenuti dell’industria culturale tardo-moderna alle esigenze dei consumatori. In particolare, la relativa flessibilità delle fasi di lavora-

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zione, derivante da un’organizzazione dei comparti produttivi “leggera” e relativamente economica (soprattutto se confrontata con i meccanismi propri della cinematografia tradizionale) permette di raggiungere un grado di sperimentabilità avanzato, che ben si sposa con le pratiche fluide di “podcasting”, di fruizione personalizzata praticata dai target più all’avanguardia. I soggetti di mercato più accorti, come quelli rappresentati dal produttore Jerry Bruckheimer, un vero e proprio mostro sacro che vanta tra le sue imprese film come American Gigolò, Flashdance, Top Gun, The Rock, Armageddon, Pearl Harbor e la trilogia dei Pirati dei Caraibi, hanno raggiunto un grado di specializzazione nel settore – a questo punto potremmo definirlo “post-televisivo” – che permette loro di distribuire sistematicamente serie di successo in vari mercati (Bruckheimer è stato produttore esecutivo, tra le altre, di CSI: Crime Scene Investigation, CSI: Miami, Senza traccia, Cold Case, CSI: New York e Justice) Sin dalle età classiche il rapporto tra lo spettatore e la produzione seriale degli artefatti comunicativi ha costituito una costante culturale, quantomeno se si considera la dialettica perenne che si instaura tra i concetti di originale e copia, tra autorialità singola e multipla, tra testualità chiusa e aperta (basti pensare ai diversi gradi di emendabilità dei racconti della tradizione popolare basati sulla trasmissione orale). Con l’avvento della modernità, ad ogni modo, si instaurò un regime di producibilità seriale differente rispetto al passato,

poiché il prodotto culturale stesso venne ad assumere un valore strategico nuovo, in linea con l’assetto economico e organizzativo della società di massa. Dalla nascita della fabbrica in poi si serializza sostanzialmente tutto, proprio perché nella produzione in serie è celata la vera chiave dell’assetto dei rapporti di produzione e consumo.Quello a cui assistiamo attualmente, però, è un processo – neanche troppo graduale – di ulteriore riposizionamento delle forme seriali all’interno del panorama mediatico. La formazione della cosiddetta società in rete, in particolare, ha intensificato il bisogno di tutti quegli elementi tipici del racconto di finzione già conosciuti in epoca televisiva: riproduzione sullo schermo di pulsioni affettive legate alla quotidianità, schemi comportamentali tipicizzati che suggeriscono idee regolative da applicare nelle dinamiche di socializzazione, personaggi archetipici o, al contrario, modelli non conformi promotori di una rottura simbolica degli schemi, tecniche di suspense accompagnate da altrettanti accorgimenti atti allo scioglimento della trama... tutto tendenzialmente finalizzato a governare la complessità relazionale tipica delle società mature. Attraverso la ri-mediazione costante di tali elementi i mezzi digitali del presente ripropongono – in uno meccanismo basato sull’immediatezza e la continuità, più che sulla quotidianità – l’intero campionario narrativo sopra descritto, declinandolo nuovamente a favore di comunità di consumatori in perenne fermento e dai gusti (spesso insospettabilmente) sofisticati.


culture

ALLE RADICI DELLA SERIALITÀ CREATIVA TRA CARTOLINE E FOTOCOPIE

I

UNA COSA FATTA DAGLI UOMINI

HA SEMPRE

POTUTO ESSERE RIFATTA DA

UOMINI

[Walter Benjamin, 1936]

di Raffaella Di Lorenzo ed Emi Guarda

l concetto di serialità, proprio della nostra contemporaneità, è necessaria conseguenza delle innovazioni tecnologiche che si sono sempre più velocemente succedute nel corso dell’ultimo secolo. L’arte, come tutti i campi dell’esistenza umana, è stata coinvolta dalla rivoluzione tecnologica risentendone nelle forme, nei contenuti e nella sua stessa diffusione. Associare parole usate/abusate come arte (cos’è/esiste oggi l’arte?) e serialità richiama inevitabilmente alla mente lavori di artisti che hanno fatto dell’opera seriale e “riproducibile” la loro fortuna prendendo spunto dal gesto dissacrante di Marcel Duchamp che, nei primi decenni del secolo scorso, prelevava un oggetto quotidiano qualsiasi dalla realtà come uno “Scolabottiglie” (originale del 1914 perduto) e lo trasformava in arte semplicemente collocandolo in un museo. Si trattava di ciò che sarebbe


diventato il cosiddetto ready made. Successivamente a quel gesto i concetti di “unicità”, “originalità” e “aura” hanno perduto molte delle loro storiche connotazioni e soprattutto hanno assunto un peso diverso nella valutazione dell’opera d’arte contemporanea. L’associazione con l’evoluzione tecnologica ha fornito il supporto fisico per l’estensione, ormai quasi incontrollabile, della diffusione delle opere d’arte a un largo pubblico.

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E fin qui niente di nuovo. Oggi vogliamo aprirvi un capitolo della storia dell’arte probabilmente poco noto, parleremo di Mail Art e, per farlo, è necessario fare un passo indietro, al tempo in cui le e-mail erano solo delle lontane evoluzioni digitali della posta tradizionale. È proprio in questo campo ai nostri occhi obsoleto che ci stiamo muovendo: timbri, francobolli, lettere, cartoline e spedizioni. Sì, tenteremo un approccio conoscitivo della posta intesa


culture

©wikimedia.org in senso creativo (arte postale o Mail Art), seguiremo i percorsi secondo i quali da esperimento tipico delle avanguardie è divenuta un orizzonte di ricerca autonomo e distinto dalle altre forme d’arte e a oggi storicamente riconosciuto. Che cosa si intende esattamente per Mail Art? Tutte le forme di espressione che hanno utilizzato la posta sia come mezzo di comunicazione che estetico: produzione di cartoline

in serie, invio di lettere costruite con pezzi di giornali incollati, spedizioni di oggetti tramite sistema postale, ideazioni di timbri e francobolli, creazioni di piccole valigette con attrezzi postali da inviare o trasportare. Il tutto con i più diversi scopi: comunicare, creare network non ufficiali, pubblicizzare mostre-eventi o diffondere riproduzioni in miniatura di opere, trasmettere messaggi dissacranti, legare l’arte alla vita. Tutto ciò realizzato con un’ampia molteplicità di linguaggi, tendenze e tecniche


La Mail Art si connotò da subito per la spinta a esplorare un’alternativa alla creatività tradizionale fuori dalle righe del sistema dell’arte ufficiale, cavalcando l’onda delle profonde fratture valoriali e comportamentali apportate dalle contestazioni studentesche del finire degli Anni ’60. Nasceva come reazione a una situazione di incomunicabilità generata dalla limitata accessibilità/fruibilità ai prodotti del mercato culturale. Lo spazio della Mail Art, come scrive Vittore Baroni (1997) è dunque uno spazio alternativo, “underground, allargato e planetario” in cui la dimensione collettiva, democratica e in un certo senso “anarchica” inducono a guardare questo fenomeno artistico come alla “più grande opera d’arte collettiva che sia mai stata realizzata”, un’opera “in continua evoluzione”, “che ha come scheletro l’intera superficie del globo” [baccelli1.interfree.it/nuovosito.htm]) e che si è sviluppata con largo anticipo rispetto alla rivoluzione cibernetica e allo sviluppo di internet.

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eterogenee: da quelle tradizionali quali pittura, disegno e collages fino a quelle più innovative e audaci come fotomontaggi, elaborazioni in fotocopie, commistioni di materiali e utilizzo di supporti differenti.

Potrebbe a questo punto risultare utile un breve salto alle origini della Mail Art. Non si può a tal proposito dimenticare la prima consapevole azione postale intrapresa da Marcel Duchamp il 6 febbraio del 1916 quando spedì ad alcuni suoi vicini di casa una serie di 4 cartoline con informazioni cifrate sulla sua opera Il Grande Vetro (a partire dal 1915, Duchamp lavorò a La Sposa messa a nudo dai suoi scapoli, – traduzione di La Mariée mise à nu par ses célibataires, même – chiamato anche Grande Vetro, “quadro” formato da due enormi lastre di vetro – 277x176 cm – che racchiudono lamine di metallo dipinto, polvere, e fili di piombo), poi da lui riunite con la frase “Rendezvous du dimanche 6 fevriere 1916”. Tale operazione, oltre  a inaugurare una serie infinita di interventi artistici sul genere, andava ad aumentare di  un’ulteriore carica  simbolica l’opera rendendone ancor più difficile, se possibile, la decodifica.

unici dipinti da Balla o i collages di Pannaggi; altri ancora si rivolsero alla creazione di “oggetti postali”, ad esempio le lettera di stoffa di Corona. Diversamente per gli esponenti del Gruppo Fluxus come Higgins, Filliou e Vautier la Mail Art rappresentava un’ulteriore modalità di avvicinamento dell’arte alla vita, riprendendo elementi dadaisti, contaminando le sperimentazioni artistiche tradizionali con metodi, tecniche e oggetti derivati da altri contesti, questi artisti cercavano un approccio all’arte più immediato, giocoso e sicuramente meno elitario. Artisti del gruppo seguirono anche progetti di natura concettuale, come nel caso di On Kawara, che dal ’70 al ’72 inviò ogni giorno ad alcune persone telegrammi con la frase “sono ancora vivo”, per ironizzare sulla funzione tipica del telegramma.

Ancora prima dell’intuizione duchampiana, gli artisti della Secessione Viennese come Schiele e Kokoschka furono tra i primi a produrre cartoline postali in serie. Proprio nella variante della cartolina, quasi tutte le  avanguardie fecero ricorso all’arte, tra tutte vanno sicuramente annoverati come i più diretti precursori i futuristi e il collettivo Fluxus. Per i primi l’invio postale costituiva parte integrante del progetto di “ricostruzione futurista dell’universo”, in quanto il medium postale garantiva la possibilità di diffondere il programma in Italia e all’estero. Alcuni, come Depero, utilizzarono la cartolina (e le testate per la corrispondenza) per motivi (auto)pubblicitari e (auto)promozionali; altri la trasformarono in un luogo di più tradizionale creazione figurale, come i pezzi

Tuttavia, nonostante gli innumerevoli esempi possibili, la prima seria e consapevole esplorazione della rete postale in senso creativo, la dobbiamo all’artista americano Ray Johnson. Formatosi all’interno del panorama culturale dell’America degli Anni ’50, i suoi primi lavori erano per lo più delle lettere di piccolo formato con un carattere minimale e povero per la tendenza a utilizzare materiale riciclato ritagliato da giornali e riviste e soprattutto concettuale, dovuto all’uso dei “puns” (termine usato per indicare il gioco di parole). Johnson combinava le sue immagini con quelle ritagliate, mischiava testi e creava calembour e, spesso, recuperava materiale precedente in forma ristampata, fino a creare un’opera a molti strati piena di potenziali associativi visivo-verbali.


culture

L A   F O T O C O P I AT R I C E   C O M E   L A V A G N A (RI)PRODUTTIVA L’Arte Postale si trasformò in poco tempo in una pratica diffusa dalle dimensioni sempre più vaste e rizomatiche sfruttando nuovi canali comunicativi quali fax, telefono, personal computer e web. Nel vasto network della Mail Art anche la burocratica fotocopiatrice divenne uno dei più importanti media creativi. Dall’etimologia del termine “fotocopiatrice” foto (procedimento di tipo fotografico) e copia (dal sostantivo latino copia: abbondanza) appare subito evidente ciò che caratterizza la sua specificità: la capacità di riprodurre un numero variabile di copie a partire da un “originale” dato. La fotocopiatrice è un elaboratore in tempo reale di un messaggio visivo, un generatore poliedrico di immagini dotato di specifiche connotazioni e flessibile all’interazione con altri mass media e diverse correnti espressive. I Mail artisti sono anche Copy artisti e i Copy artisti diventano Mail artisti o artisti intermedia dal momento che si propongono di viaggiare attraverso molte, diverse, spesso immediate forme di produzione. Brevettata negli Stati Uniti da Chester F. Carlson nel 1938 per consentire la riproduzione di una copia senza dover utilizzare la matrice, nella seconda metà del Novecento la fotocopiatrice si affiancava agli strumenti tradizionali del fare artistico. La facilità di esecuzione che non richiedeva conoscenze tecniche specifiche, il basso costo delle copie prodotte e la possibilità di poterne verificare immediatamente l’operato hanno aperto le porte alle sue potenzialità creative Sono gli studi della Walt Disney a utilizzare per primi le fotocopie a colori per la duplicazione di cartoons destinati alla rea-

lizzazione del famoso lungometraggio One hundred and one dalmatians (La carica dei 101, 1961, Reitherman W., S. Luske H., Geronimi C.). Ciò che all’inizio colpisce di più l’attenzione degli artisti è quel particolare rapporto di “istantaneo corpo a corpo”, di immediata interattività che si viene a creare fra l’autore e la macchina. Soltanto in seguito a esperienze isolate, la Copy Art inizia a distinguersi come movimento artistico dai caratteri propri e le sgranature, lo “sporco di fondo” e il montaggio vengono codificati in un nuovo linguaggio estetico. Poiché non è possibile definire in base al grado di meccanicità di un mezzo il limite della creatività, la peculiarità dell’arte che prevede una serializzazione risiede nell’intenzionalità creativa dell’artista e, soprattutto, nel nuovo rapporto che si viene a instaurare tra autore e macchina, e tra opera e pubblico, dal momento che la riproducibilità rende le cose “spazialmente e umanamente più vicine” (Benjamin W., 1936). Tra gli “apostoli” della fotocopia creativa bisogna ricordare: l’americana Sonia Landy Sheridan, ideatrice a Chicago di un corso sperimentale per conseguire il diploma in Copy Art nel 1970, e l’eclettico italiano Bruno Munari che identifica, nelle violazioni dal normale uso della macchina, le chiavi espressive del mezzo. Agendo sulla trasgressione dei suoi codici e sull’errore voluto congiunti a un margine di casualità, Munari crea delle fotocopie d’autore o, come lui stesso le definisce utilizzando un ossimoro, delle “xerografie originali”. Il prodotto Copy Artistico nasce da un vicendevole scambio tra autore, opera e osservazione del dato esterno. Grazie al connubio di tecnica e contenuto e alle potenzialità metamorfiche del mezzo, gli operatori sono in grado di creare un prodotto nuovo in cui il dato in ingresso non sempre corrisponde  alla copia in uscita, a sua volta aperta a ulteriori trasformazioni: ogni risultato è al contempo un nuovo  possibile inizio. I Copy Artisti esplorano le qualità specifiche della macchina, interagiscono con tutta la tastiera, sperimentano la miscelazione di toner colorati e carte trattate, disin©Flickr-by Cnt-sevilla


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tegrano l’immagine attraverso la reiterazione di copie di uno stesso oggetto, muovono e trascinano il foglio sulla lastra di esposizione in tempi e direzioni variabili, agiscono sul coperchio aperto/chiuso/semichiuso e si servono del piano luce come di una “lavagna”, non solo per riprodurre, ma anche per produrre e inventare nuove forme facendo della Copy Art un’arte che crea se stessa. . Giocattoli, fiori, bottoni, vestiti, oggetti plastici di tutti i tipi e diversi parti del corpo - vedi l’originalissima Sindone elettrografica  di Daniel Sasson (1985) [www.danielesasson.it/copyart/copyart1.htm] - vengono esposti sul piano luce della macchina xerografica dando libero sfogo a quella vis creativa che non si esprime soltanto attraverso il lavoro manuale ma anche con l’impiego della tecnica. C’è poi chi predilige la realizzazione di opere più vicine a un gusto formale “tradizionale” intervenendo artigianalmente sulla copia attraverso colorazioni, collages, strappi e applicazioni, oppure realizzando “xeropitture” in cui cerca di coniugare l’immediatezza di una figurazione gestuale, simbolo di un’irriducibile vitalità del soggetto, con il linguaggio seriale della riproduzione meccanica: il primitivo e il tecnologico si trovano a coesistere all’interno di un’immagine xerografica.

L’istantaneità dell’esecuzione, l’imprevedibilità, l’improvvisazione e l’iterazione del prodotto diventano così le peculiarità di questa forma espressiva capace di trasformare la macchina in uno pennello elettrostatico . Il comune e diffuso medium xerografico presente nella realtà quotidiana come semplice riproduttore di copie diventa, con immenso stupore dei primi costruttori, documento artistico del nostro tempo dal quale derivano forme nuove di un altro reale: “Finiremo col trovarci una macchina fotocopiatrice in galleria la prima volta come oggetto d’arte, la seconda volta

come artista, la terza volta come gallerista” (D’Amore B., in Sasson D., 1989). Le esperienze di Mail e Copy Art definibili come testimonianze, relazioni tangibili e concrete della nostra trascorsa esistenza, hanno dunque rappresentato un utilizzo alternativo di vecchi e nuovi media proponendo un modello operativo, una dimostrazione di come l’espressione artistica sia una continua osservazione del presente, una riflessione su di esso e uno sguardo progettuale sulle possibilità future.

Per approfondire (1991) Baraldi C., Cucciolo M., Denti G., Copyart. La funzione creativa della fotocopiatrice, Ulisse, Bologna. (1997) Baroni V., Arte postale. Guida al network della corrispondenza creativa, AAA Edizioni, Bertiolo (UD). (2000) Benjamin,W., L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, 1936, tr. it. E. Filippini, Einaudi, Torino. (1980) Crispolti E. (a cura di), Ricostruzione futurista dell’universo, Mole Antonelliana, Torino, 1980, Assessorato per la cultura, Musei civici, Torino. (2005) Di Lorenzo R., Arte da lontano. Dalla Mail Art ai telefoni cellulari, in Noema http://www.noemalab.org/index2.php Munari B. (1977)Xerografie originali, Zanichelli, Bologna. (1989) Sasson D., L’arte schiacciabottone, Assessorato istruzione e cultura della provincia di Siena, Siena . (2003) Sbrilli A., La riproducibilità dell’opera d’arte dalla copia antica alle tecnologie digitali, in Enciclopedia dell’Arte, Garzanti, Milano.


marketing

I

di Renée Capolupo

n un mercato quasi del tutto saturo e fortemente concorrenziale, la pubblicità ha estremo bisogno di puntare su valori emozionali. Da molti decenni, dal consolidarsi della società dei consumi, si ritiene che non esistano più bisogni, o meglio che questi risultino facili da soddisfare. La concorrenza tra prodotti non si basa più sulla componente merceologica, ma sulla capacità di creare un’aura desiderabile attorno al prodotto. Si tenta di far vivere un’emozione al consumatore e per suo tramite legarlo al prodotto. Il consumatore post moderno è segnato dalla doppia corrispondenza fra usare prodotti e vivere emozioni.Se prima la pubblicità puntava sulle capacità funzionali di un prodotto (un detersivo si vende perché toglie le macchie,  profuma i panni,  oppure  non  lascia residui sui capi colorati) oggi esso si vende perché permette di indossare il Benessere: • il detersivo Vernel ti regala “un momento di relax” o “un abbraccio sensuale”; • Il dentifricio Az punta sull’inaspettato gusto del “fruit explosion” nonostante la tag-line precisi: “AZ un sorriso bello e sano dalla A alla Z”; • l’olio toscano diventa il “Nobile Carapelli” esprimendo l’alta qualità attraverso il ceto e la distinzione di classe; il gelato Cremeria ha per ingredienti degli elementi davvero unici: “solo nuvole e cielo”; •i tovaglioli Foxy si trasformano in rose che ornano la tavola (“metti in tavola l’eleganza”); • i punti accumulati con la business plus Iberia sono paragonati ai punti del corpo vitali per un massaggio energetico (“tutti i punti a cui dedichiamo la nostra attenzione sono su di te”);


• la Lancia si lega al mondo delle favole, prima con la Ypsilon che entra nel mondo di Biancaneve (“Chi è la più bella del reame?” La risposta è chiaramente: la lancia Ypsilon!), poi con la Musa che si trasforma nella City Limousine (“l’eleganza è la sola bellezza che non sfiorisce mai”, e chi ha bellezza ed eleganza sempiterne se non la Holly/Audrey Hepburn di Colazione da Tiffany?); lo yogurt Muller pretende che si faccia “l’amore con il sapore”; • se mangi Philadelphia potrai avere un effetto sugli uomini più potente di quello che provoca Axe sulle donne (tutti gli uomini ti guarderanno e questo “capiterà tutte le volte”); • Sunsilk, per finire, trasforma i capelli ricci in “onde di passione”, mentre con l’acqua VitaSnella “il tuo corpo sarà l’unica cosa che ti piacerà indossare”. In questo scenario si impone la pubblicità seriale, che stabilisce un rapporto duraturo con il consumatore: mentre il prodotto prende vita, varie storie si dipanano a pezzi e variazioni successive. Nel prototipo di pubblicità seriale di Carosello negli anni ‘60, erano gli attori scelti come testimonial a fare da protagonisti, più del prodotto stesso, e la presentazione di questo si riduceva infatti agli ultimi venti secondi. Oggi la pubblicità seriale procede secondo diversi formati narrativi. Per esempio con la sitcom (il caso di Dash, Crodino, Lavazza, Kimbo, etc.). Nello spot di Dash con Fabio de Luigi la serialità è improntata su gag autoironiche e lo spot di chiude con una voce fuori campo che si chiede appunto “Cosa accadrà nel prossimo episodio della Dash Sitcom?”. Negli spot Crodino con Vittoria Cabello e un King Kong romanesco, la risata esplosiva del gorillone chiude brevissimi siparietti comici su “l’analcolico biondo che fa impazzire il mondo”. Con il format-teaser, invece, maggiormente utilizzato quando si inserisce un nuovo prodotto sul mercato, si scatena la curiosità del consumatore attraverso serie di mini spot che appunto non svelano il prodotto, facendolo comparire solo dopo un certo numero di volte. Il primo a utilizzare questo format è stato Arman© kimbo.it

do Testa con la Mulino Bianco, mandando in onda quattro diversi spot ognuno dei quali presentava un membro della famiglia alle prese con qualche difficoltà della vita quotidiana e ognuno di essi esprimeva il desiderio di vivere in una casa nel verde, finché il quinto e ultimo spot vedeva tutti i membri della famiglia riuniti nella casa del Mulino Bianco. Infine varie pubblicità presentano una serialità imposta dalla narrazione, come è il caso dello spot Superga “o si odia o si ama”. O seguono l’andamento di miniracconti integrati alla quotidianità di vita dei consumatori. Non è quindi un caso che due aziende di Caffè, Lavazza e Kimbo, abbiano costruito la propria immagine utilizzando questi formati di pubblicità seriale. Kimbo lavora dalla fine degli anni ‘80, con Pippo Baudo, e poi salpa sulla nave da crociera prima con Massimo Dapporto e il caratterista napoletano, il marinaio Esposito, ancora presente quando l’azienda sceglie come testimonial lo smemorato naufrago Gigi Proietti (“Kimbo! …e chi se lo scorda”). Lavazza, invece, al posto del mare sceglie come luogo il paradiso, iniziando con Tullio Solenghi e passando alla coppia Bonolis-Laurenti, con i quali il caffé in paradiso è talmente buono da essere ambìto da santi, madonne e da nobili depurati dei loro peccati. Forse, proprio come i consumatori di pubblicità.


creatività

U

di Massimo Caiati

n paio di giorni passati con la matita in bocca, piedi sul tavolo alla ricerca della posizione più comoda, copy e art che cercano, pensano, litigano, si esaltano e a volte si addormentano: ecco come di solito nasce un’idea. Di certo, con un parto così comodo, ci si aspetterebbe una vita del tutto in discesa per la neonata creatività, eppure la strada che porta all’on air è ancora molto lunga e tortuosa, ed è fatta di presentazioni, layout, test e produzione.

Il primo grande pericolo che la nostra piccola protagonista deve affrontare è l’approvazione del direttore creativo, che dovrebbe essere sempre in cerca di idee nuove ed emozionanti. Superato il primo ostacolo, ecco che gli account fanno la loro minacciosa comparsa armati di brief, strategia e conoscenza delle fobie più recondite (e a volte anche un po’ bislacche) del cliente: naturalmente la futura stella del marchio dovrà essere in grado di rispettare tutti questi aspetti. A questo punto l’idea è di solito poco più di uno schizzo su un foglio di carta, del


tutto impresentabile a un cliente, neanche al più elastico ed esperto. Per rendere la “piccola di casa” pronta per il suo ingresso in società, diventa quindi necessario trasformarla in un vero e proprio layout (nel caso di una campagna stampa) o script (nel caso di uno spot TV). Nel primo caso ci si rivolgerà a illustratori e alla mano esperta e sapiente dell’art director, nel secondo caso sarà sufficiente un buon copywriter. Un’ultima controllata alla body copy e la nostra eroina è pronta per incontrare il cliente, il quale nel 50% dei casi boccia tutto… Qualora si tratti di una vera idea purosangue, in grado di soddisfare senza alcuna revisione tutti quanti, inizia una delle parti più estenuanti per chi lavora in pubblicità: i test. Questi test hanno lo scopo di individuare le idee migliori e correggerle prima che queste vengano prodotte, in modo da evitare di destinare risorse per una campagna che poi risulterà inefficace. Purtroppo però la maniera con cui sono fatti questi focus group è spesso illogico ed estremamente complicato, con il risultato che quello che nasce come un modo di risparmiare soldi si trasforma nel suo completo opposto. Vediamo perché, prendendo ad esempio l’approvazione di un’idea per uno spot TV. Dallo script che è stato presentato al cliente (praticamente una breve sceneggiatura non più lunga di una pagina, poco più articolata di quello che nel cinema viene chiamato soggetto) bisogna passare allo storyboard, una specie di fumetto composto da non meno da 15 disegni che ritraggono i momenti salienti della futura campagna, correlati da un’attenta descrizione del sonoro e delle parti recitate. Queste illustrazioni dovranno essere prima in bianco e nero (in modo da permettere agevolmente ogni tipo di correzione che il ciente possa richiedere), per essere poi finalizzate a colori quando tutti saranno soddisfatti.

Fatto ciò si arriva al test vero e proprio, che viene svolto generalmente chiudendo in una stanza una ventina di persone che rappresentano il main target del prodotto e mostrandogli il nostro bellissimo (e di solito estremamente caro, visti i prezzi degli illustratori) storyboard. A questo punto inizia un vero e proprio interrogatorio di terzo grado ai danni dei malcapitati potenziali consumatori, ai quali verrà chiesto ogni tipo di dettaglio che possa essere utile per migliorare la campagna: quanto si sentono coinvolti dalla storia, quanto si riconoscono nel personaggio dello spot, quanto hanno capito del funzionamento del prodotto? Il risultato di questa tortura è un documento di più di 30 pagine, nel quale viene elencato ogni tipo di commento. Tutto a posto, verrebbe voglia di dire, un lavoro articolato e ben fatto, seppur un po’ caro. Invece no. Il problema unico e irrisolto dei test (o almeno della maggior parte di essi) è proprio all’origine, è nel modo di fruizione delle campagne da parte degli intervistati. Quando vediamo una pubblicità in televisione non siamo pagati per farlo, siamo spesso distratti e a volte stiamo contemporaneamente facendo qualcos’altro. In pratica l’esatto opposto della situazione nella quale vengono posti coloro che partecipano a un focus group. Di conseguenza, essendo diverso il modo di somministrazione delle campagne rispetto alla realtà, anche i risultati saranno estremamente falsati. Nei test viene chiesto di commentare persino i più piccoli dettagli di una pubblicità, come ad esempio il colore del maglione del protagonista o l’arredamento della sua casa, mentre si perde completamente la più importante delle domande: “se vedessi questa pubblicità nascosta tra le centinaia di pubblicità che vediamo ogni giorno, sarei in grado di ricordarmela?”. Inoltre, quando si paga qualcuno per dare i propri commenti su un argomento che spesso non conosce (tutti noi guardiamo la pubblicità, ma ciò non ci rende esperti del setto©Flickr-by Mskogly


creatività

re), quest’ultimo si sentirà in dovere di dare un commento estremamente dettagliato, razionale, come se una pubblicità fosse una regola matematica esatta. La realtà non è questa, una pubblicità deve soprattutto suscitare emozioni, colpire, essere ricordata, e solo in ultima istanza convincere e vendere.

Bontà (nome anche questo che sto clamorosamente inventando sul momento per chiari problemi di memoria) riuscirà a salvare i cereali e la colazione di tutti i bambini del mondo. Senza entrare nel dettaglio dell’idea (estremamente semplice, vista l’età del target), vorrei soffermarmi su un commento che ha suscitato grande ilarità al momento dei test e poi grandissima paura in agenzia nel momento in cui il cliente ha pensato fosse di vitale importanza. Alcuni di questi bambini hanno inA tal riguardo può essere utile un esempio. Qualche tempo fa fatti commentato l’incongruenza della storia, dal momento in un cliente produttore di cereali ha chiesto una pubblicità per il cui il proprietario e vate assoluto dei cereali di tutto il mondo suo prodotto destinato al target più giovane, dai 6 ai 10 anni. Di si preoccupa del furto di una sola confezione di cereali (sepconseguenza nei focus group sono stati chiamati dei bambini pur gigante). Ecco. di scuole elementari, ai quali è stato domandato di commentare I bambini non hanno riscontrato nessun problema nel paruna pubblicità che raccontava la storia di un Capitano spalare di capitani che vagano per lo spazio mangiando cereali ziale (proprietario assoluto di tutti i cereali di quella marca) e lottando contro golosi e perfidi nemici, ma hanno solche andava in giro per il cosmo con la sua mega confezione. Ad levato l’angusto problema della quantità di cereali rubati. un certo punto il suo acerrimo nemico Dottor Cattivaccio (non Chiaramente tutto ciò è frutto della fervida fantasia di un bambiricordo il suo nome, purtroppo non era stato creato per essere no, (che tra l’altro non avrebbe mai pensato a questa cosa nella ricordato da chi ha più di 11 anni, evidentemente) ruba la sua vita reale, quando ad uno spot ne segue sempre un altro), ma è scatolona di cereali e prova a fuggire. Naturalmente Capitan diventato un problema cruciale per l’altrettanto fervida fantasia (fantasia nell’invetare problemi che non esistono, sia ben chiaro) di coloro che ©Flickr-by Publicinsomniac hanno gestito e organizzato il focus group. Questo commento ha causato più di un mese di continue proposte alternative e modifiche atte a risolvere il problema, con conseguente enorme incremento dei tempi e dei costi di produzione. Alla fine, dopo settimane passate a spremersi le meningi e a contattare carissimi illustratori (bisogna ricordare che ogni presentazione al cliente deve essere perfetta, quindi richiede sempre illustratori e ore di lavoro dedicate alla finalizzazione dei layout), il problema è stato “brillantemente risolto” aumentando il numero di confezioni giganti rubate da una a quattro. Riassumendo, quasi sempre nei focus group si ignora l’appeal di una campagna, ponendo gli intervistati in una situazione estremamente diversa rispetto alla quotidianità e obbligandoli a pensare in maniera troppo razionale. Queste due cose generano campagne noiose, che saranno magari perfette sotto un profilo pseudo razionale (persino quando si parla di capitani spaziali) ma che nessuno mai ricorderà nella vita reale, quando spesso non si ha il tempo per pensare ma si reagisce solo a stimoli istintivi. In poche parole, se rinasco, voglio fare il capitano spaziale.



marketing

UNA PROVOCAZIONE STRATEGICA (1° PUNTATA)

N

di Claudio Biondi

el 1960, con il famoso omonimo film di Fellini, viene lanciata una delle forme di maglione più note al mondo, la cui produzione e vendita durano tuttora: il maglione dolce vita, appunto. Se il produttore Rizzoli si fosse servito di un’agenzia di tie-in (quelle che ora si occupano di product placement e licensing, all’epoca inesistenti) non si sarebbe lasciato sfuggire l’occasione e avrebbe probabilmente acquisito il diritto a brevettare la forma del maglione. In tal modo, avrebbe potuto cedere a un’industria manifatturiera il brevetto o avrebbe potuto produrne lui stesso trasformando un elemento visivo in una possibilità economica autonoma. Se è vero, però, che negli anni ’60 del secolo scorso, non esisteva non solo un’agenzia di tale tipo, ma nemmeno l’idea che potesse un giorno esisterne una (tutto ciò sarà frutto di analisi, studi ed iniziative a partire da trent’anni più tardi) è anche necessario chiedersi se le ragioni di una “mancata lungimiranza” del produttore siano dipese da un fattore personale (Rizzoli era già un potente editore e produttore e probabilmente non aveva nessuna voglia di diventare anche industriale manifatturiero) oppure da una carenza generale di cultura produttiva audiovisiva e, dunque, di una inefficace organizzazione delle possibilità economiche del film. Così, ad occhio e croce, propendiamo per questa seconda ipotesi.


Organizzare “possibilità economiche” significa infatti spingere lo sguardo oltre l’orizzonte che ci si presenta immediato. Significa guardare oltre i limiti di quello che esiste già. Significa scovare, in una qualsiasi organizzazione, ciò che è nascosto, non visibile, non immediatamente percepibile. Ma “organizzazione” – soprattutto se legata a un artefatto artistico - è termine che qui in Italia aveva (e purtroppo ancora ha) quasi significato negativo. In questa nostra cultura della spontaneità e della creatività, pronunciare la parola “organizzazione” significa correre il rischio di mettere in allarme gli interlocutori. Eppure dobbiamo convincerci che non esiste fenomeno, semplice o complesso

tali da permetterci di indagare se essa non presenti un propria possibilità organizzativa, magari restata un po’ nascosta finora. Comunemente per lunga serialità s’intende la produzione e la programmazione in tv di una narrazione (fiction) che fondandosi sempre sullo stesso tipo di contenuto, si svolge in più puntate o episodi. Il che corrisponde al vero solo in parte, giacché la stessa diversità tra i termini “puntata” ed “episodio” può condurre, ed in effetti conduce, ad una definizione più pertinente, consentendoci una prima fondamentale distinzione tra:

• serial (quali soap opera o telenovela tipo: Un posto al sole, Incantesimo, Beautiful, Dancing L’ERRORE PIÙ COMUNE CHE ABBIAMO COMPIUT Days) il cui contenuto narrativo O IN QUESTO SECOLO [n.d.a. il seco si svolge in puntate, ossia in lo xx] frammenti narrativi non con(E CONTINUIAMO A COMPIERE ANCORA OGGI) clusivi poiché la trama continua ininterrottamente fino alla chiusura URDA CONVINZIONE L’ASS È I, ZION NIZZA ORGA LE O INIAM ESAM QUANDO del serial;

CHE ESISTA UN UNICO MODO VERAMEN TE OTTIMALE DI GESTIRE OGNI ORGANIZZAZIONE.

• serie (CSI, La Signora in giallo, Sex and the City o Avvocati O. di New York, ad esempio) che ba’OPPOST CIÒ CHE È GIUSTO PER LA GENERAL MOTORS È È VERO L sandosi su un genere, è strutturaSPESSO SBAGLIATO PER LA JOE’S BODY SHOP. ta in episodi, in cui la narrazione SE TRATTASSIMO TUTTE LE ORGANIZZAZIONI ALLO STESSO MODO risulta da un intreccio tra trama verticale (che inizia, avviene e LISTA CHE OCU UN DI À RDIT ASSU SA STES LA MO COMMETTEREM finisce all’interno del singolo epiVOLESSE PRESCRIVERE A TUTTI GLI STESSI OCCHIALI. sodio o al massimo di due o tre episodi collegati) e trama oriz[Henry Mintzberg da Managment: mito e realtà (Garzanti, 1991)] zontale (che si svolge sul “fondo” che sia, che non abbia alle sue radici una sua organizzaziocome una sorta di fil rouge che continua da un episodio all’altro). ne.E  dobbiamo  anche  convincerci  che  non  esiste  un solo tipo di organizzazione, valida per tutte le imprese. All’interno della lunga serialità possono inoltre distinguersi dei Forti di tale convinzione, si può quindi cercare di capire quale “generi” individuabili essenzialmente in due macrocategosia il tipo di organizzazione che più convenga alla produziorie (comedy e drama) e in una caterva quasi infinita di sotne di artefatti audiovisivi in generale e, in particolare, della tocategorie che spesso mostrano commistioni e ibridazioni lunga serialità televisiva. Perché la lunga serialità? Perché mettendo a dura prova anche il più volenteroso esperto di ci sembra che questo tipo di produzione abbia caratteristiche

©Flickr-by Dalbera


marketing

tassonomia narrativa. È tuttavia utile tener presente tali sottocategorie perché spesso è proprio da tali commistioni che può derivare una maggiore o minore possibilità di applicare una tecnica organizzativa di marketing - che potremmo chiamare product recall – in grado di allargare il campo delle possibilità economiche. L’idea del racconto seriale o di largo respiro non è certo nata per o in televisione: ampiamente sperimentata nella letteratura (feuilleton: I Tre Moschettieri, Rocambole; romanzi: Maigret, Pepe Carvalho, Montalbano), nel cinema (Rambo, Rocky, Star Wars) nel fumetto (Superman, Tex Willer, Mandrake, Andy Capp) e nella radio (La Guerra dei Mondi, Alto gradimento), la media e lunga serialità ha sempre avuto – a parte dai contenuti, forme e sostanze narrative - il fine economico di fidelizzare il pubblico, di “affezionarlo” al medium (giornale, radio, cinema, ecc.) in cui il meccanismo della serialità era impiegato favorendo, in tal modo, all’azienda produttrice una più stabile piattaforma di utilizzatori. Il principio della fidelizzazione, applicato alla produzione televisiva, consente un doppio vantaggio: a) stabilità di spettatori; b) maggiore prospettiva di ricavo mediante la vendita di spazi pubblicitari. Il telespettatore, infatti, trovando nella serie televisiva elementi ricorrenti che lo attraggono e lo conquistano, sa - prima ancora di seguire un nuovo episodio - che ritroverà quegli stessi elementi nella puntata o episodio che seguiranno e tenderà a non perdersene alcuno. Corollario di questa osservazione è che se un target di spettatore (giovane, anziano, casalinga, famiglia, ecc.) preferisce un certo genere di serie tv, significa anche che è possibile indagare o almeno tentare di prevedere quale tipo di prodotto

potrebbe interessargli maggiormente. E tentare tale “previsione”, con tutti gli strumenti di analisi e di statistica necessari, significa appunto tentare di organizzarne meglio le possibilità economiche. In questo senso, dunque, ci sembra che l’organizzazione di una lunga serialità dovrebbe tener conto di quello che potremmo definire indice PP (indicatore di almeno due delle quattro classiche P del marketing, cioè Place e Promotion, ovvero di una maggiore o minore capacità di penetrazione promozionale). Indice PP che potrebbe variare a seconda di una serie di fattori sostanziali e che possiamo individuare in (ordine decrescente):

1.tipo di serialità (se serial o serie); 2.tipo di genere (comedy, drama, action, fantasy, ecc.); 3.tipo di sottogenere o commistione (family drama, ac-

tion-crime, horror-action, ecc.);

4.

tipo di personaggio protagonista (donna, uomo, giovane, tipo di professione, tipo di vita, tipo di carattere, ecc.);

5.

tipo di target (per censo, per attività produttiva, per fascia d’età, ecc.). Ora, tenuto conto che i singoli episodi o puntate vengono frammentati da stacchi pubblicitari (break) che il più delle volte non c’entrano nulla con il tema narrativo della serie o ©Flickr-by Manfrys


del serial, e tenuto conto che questi inserti hanno un notevole costo corrispondente anche al ricavo principe delle TV commerciali, ci sembra che un miglior risultato promozionale potrebbe derivare dall’applicazione di tale indice PP e dalla riunione in un unico schema narrativo-produttivo dei messaggi da veicolare. L’idea, insomma, è quella di fare in modo che lo spettatore non solo non sia “disturbato” da messaggi estranei al contesto narrativo, ma che anzi sia indotto a interessarsi della pubblicità veicolata nei “break” all’interno del singolo episodio o puntata. Il che implica, sul piano organizzativo generale, una sostanziale sinergia tra product placement e vendita di spazi. Ed è a tale sinergia organizzativa che ci richiamiamo quando parliamo di product recall. Una sinergia che consentirebbe ad alcuni tipi di brand di poter essere “chiamati” (call) all’interno della narrazione e “richiamati” (recall) all’interno dei break, in un rimando continuo tra le due forme di promo-pubblicità. Ma a quali vantaggi economico-finanziari una strategia di produtct recall potrebbe condurre? Per darne un’idea, sia pure ipotetica, dobbiamo tener conto dell’enorme dispersione di risorse economico-finanziarie che consegue al fatto che il meccanismo ideazione-finanziamento-produzione-promozione-acquisizione spazi è messo in moto e gestito da centri autonomi e diversi, quasi sempre con nessun legame tra loro. Chi produce un bene non sa né come né dove questo bene sarà pubblicizzato, chi ha un’idea narrativa non tiene conto delle possibilità di product placement, chi vende spazi pubblicitari non è interessato ad una giusta collocazione dei messaggi, chi – infine – confeziona tali messaggi non ha idea né di dove né come né quando saranno piazzati. Non solo. Spesso, la forza del richiamo è affidata alla notorietà di un testimonial estremamente costoso – in genere, una star del cinema o dello sport – forza che però risulta indebolita dalla sua “estraneità” al tema narrativo. Una cosa è, infatti, servirsi di un campione di calcio all’interno di una partita, altro è servirsi dello stesso calciatore in una storia d’amore o di un giallo. La nostra provocazione di un possibile product recall consiste appunto nell’immaginare che cosa potrebbe succedere se tali centri autonomi fossero – pur restando tali - opportunamente organizzati e se l’utilizzo del testimonial fosse legato alla trama narrativa. Immaginare, ad esempio, quale potrebbe essere il risultato di una simile strategia se una serie di brand (prodotti alimentari, bevande, detersivi, elettrodomestici, cucine, divani, arredamento, ecc.) si organizzassero ed investissero in una ipotetica serie “gastronomica” (da Giulio, al gambero verde) i cui personaggi principali fossero: Giulio, chef d’alto livello; Olga, sua moglie amministratrice; Roberto, il maître innamorato di Olga; Gina, una cameriera molto sensibile alle lusinghe; una coppia di clienti abituali formata da Clara, poliziotto e da Ernesto,

giornalista critico gastronomico. E immaginiamo l’infinita possibilità di storie che potrebbero nascere dentro ©Sigla CSI e fuori dal ristorante riguardanti brand che spaziano dall’arredamento ai prodotti alimentari, dai detersivi all’auto, e temi narrativi dalle difficoltà di gestione agli ostacoli sentimentali, dall’aumento dei prezzi all’inseguimento di un bandito, dalle invidie dei colleghi alle trappole dei concorrenti, e via discorrendo. Immaginiamo anche i brand che potrebbero-dovrebbero essere “posizionati” all’interno di tali storie e a quelli che dovrebbero-potrebbero essere segnalati negli spazi pubblicitari interni alla programmazione. Ma immaginare strategie economicofinanziare che sembrano favorevoli non significa certo avere gli strumenti adatti per verificarne l’efficacia. La ricerca di tali strumenti passa necessariamente per l’individuazione e l’analisi di alcuni dati che potrebbero verificare la nostra ipotesi e che si possono sommariamente individuare in: - costo medio di uno spazio pubblicitario; - costo medio di un episodio di serial e di una puntata di serie; - costo  medio  di  un testimonial - costo medio di una star interprete della serie o del serial; -  volume totale dell’investimento pubblicitario televisivo; -  volume  parziale  dell’investimeto pubblicitario televisivo inerente la fiction; -  tipologia di  spettatori attratti dalla serialità; - calcolo delle percentuali di ricavo che sono attribuite alle varie aziende che si occupano: della produzione delle serie, del piazzamento degli spazi pubblicitari, dell’impostazione promozionale, ecc., ecc... Come si vede un programma di ricerca abbastanza ambizioso che richiede tempo e che speriamo di concludere in un paio di altre puntate, affinché questo nostro intervento non abbia il solo gusto di una provocazione, sia pure fatta a fin di bene.


culture

R

di Giulia Grechi

iflettendo sulla produzione audiovisiva contemporanea, è evidente come alcune fiction televisive seriali abbiano negli ultimi anni sviluppato una particolare sensibilità e strumenti affilati per interpretare dinamiche cruciali della società attuale e per oltrepassare alcune empasse che la ricerca e il linguaggio scientifici sembra fatichino a superare. Tra le altre, la serie televisiva Lie to me è una formidabile rappresentazione della crisi di una certa modalità di produzione della conoscenza “scientifica” sulla corporeità. “Vedere è sapere” come recita una massima affissa all’entrata del padiglione antropologico della World’s Columbian Exposition di Chicago nel 1893. Avvicinare lo sguardo il più possibile, allenarlo a guardare in superficie e a leggere in profondità, lasciarlo scorrere lungo la pelle, catturarne un’immagine quasi istantanea: un leggero tremore, la contrazione estemporanea e involontaria di un muscolo, il movimento improvviso di un sopracciglio, il dilatarsi della pupilla fissa nella sua, una deglutizione imprevista, le narici che impercettibilmente si allargano per darsi ossigeno. Il corpo di chiunque, sotto lo sguardo minuzioso di Cal Lightman, è questo ordinato groviglio di frammenti tenuti insieme da muscoli vivi, che parlano a volte contraddicendo le parole, muscoli che hanno sempre qualcosa da dire, spesso nostro malgrado.


O CARDIACO, IT TT BA O D N RA O IT N O M O IO ST

©Sigla Lite to Me

TEMPERATURA DELLA PELLE,

SUDORAZIONE,

STRESS VOCALICO, PRESSIONE SANGUIGNA,

[Eli Locker]

LIE TO ME

Lie to Me è una serie televisiva statunitense realizzata dagli stessi produttori di 24 per la Fox, sulla quale è andata in onda nel 2009. Il protagonista della serie è Cal Lightman (Tim Roth), uno scienziato che ha studiato per oltre vent’anni la comunicazione non verbale e le emozioni umane alla base degli indizi della menzogna in differenti culture, sostenendo l’universalità delle espressioni emozionali di base (paura, felicità, rabbia, disgusto, sorpresa, disprezzo). Ha quindi fondato il “Lightman Group”, un’agenzia privata che fornisce consulenza a enti privati o pubblici per stabilire la sincerità delle persone. La storia e il personaggio di Cal Lightman sono ispirati agli studi del Dott. Paul Ekman, psicologo statunitense studioso del comportamento umano, del linguaggio del corpo e delle espressioni facciali. Fanno parte del Lightman Group: • la psicologa Gillian Foster (Kelli Williams), socia e amica di Lightman; • Eli Locker (Brendan Hines), giovane ricercatore che vive cercando di non mentire mai (la chiama “sincerità radicale”); • Lia Torres (Monica Raymund), allieva di Lightman, ex agente della polizia aeroportuale con un talento naturale nel riconoscimento delle microespressioni, che riesce a riconoscere in meno di un quinto di secondo.

CHE SAREBBERO INUTILI SENZA IGHTMAN LE INTUIZIONI DI L


culture

Lightman rappresenta fin dentro al suo cognome (basilare dispositivo di definizione di sé e di identificazione nella nostra cultura) l’illusione illuminista sulla quale la nostra modernità ha costruito le proprie fondamenta e il proprio

prigionato. Sa bene che l’opposizione tra verità e menzogna, intorno alla quale tutta la serie sembra dipanarsi, non regge, è una trappola, per quanto a volte lui stesso sembri tentare in ogni modo di affermare il contrario: “la verità è scritta sul nostro volto”, “il linguaggio IL CORPO S’AFFERMA COME SOGGETTO! del corpo non mente”. LiIL CORPO È UN FINE E NO ghtman incarna la profonda N UN MEZZO! ambivalenza sottesa a queNICA! GRIDA! IL CORPO SIGNIFICA! COMU ste opposizioni normative: CONTESTA! SOVVERTE! la verità, a maggior ragione la verità di un corpo, può [Italo Calvino, Se una notte d’inverno un viaggiatore] essere solo plurale, decenpotere scientifico, economico, politico, spettacolare. Si trattrata, posizionata, parziale, narrativa, inventiva. Per questo lui ta dell’ingenua illusione di uno sguardo disincarnato stesso mente sempre. O meglio, racconta delle storie, attua che, vedendo, “conosce”, secondo un processo del delle strategie, per “non lasciare che dei particolari blocchino tipo visibilità-controllo-conoscenza-potere. Uno sguardo di la verità”. questo tipo è stato quello che l’antropologia del XIX secolo (ma anche la sociologia, la medicina e la politica, come ha Dobbiamo imparare a guardare, questa è l’ossessione di ampiamente notato Foucault) ha rivolto sui corpi di soggetti Lightman, ed ecco esplodere l’altra fondamentale ambiappartenenti a culture “altre”, o considerati “altri” pur apvalenza con la quale uno scienziato che studia la corporeipartenendo alla stessa cultura del soggetto che li osservava. tà (sia egli un antropologo, un medico, un sociologo, un E non è un caso se questo immaginario antropologico, legato neuroscienziato o un comunicatore) si trova a fare i conti. ai corpi e agli oggetti, è citato spesso e tematizzato aperta“Guardare” come intensificazione della capacità di mente in Lie to me: maschere “tribali” adornano le pareti delfare esperienza del reale attraverso i sensi. l’ufficio di Lightman, all’interno del quale si apre una stanzetta È ormai inequivocabile da un lato la radicale messa in dicon il suo archivio personale di reperti etnografici, fotografie e scussione (da parte di alcuni approcci ai margini di discipline documenti che lo ritraggono durante le sue ricerche in Nuova come l’antropologia medica e le neuroscienze) del dualismo Guinea e in Marocco. cartesiano tra corpo e mente che ha strutturato gli orienta-

CHE DEI PARTICOLARI

NON LASCIARE MAI BLOCCHINO LA VERITÀ

[Cal Lightman]

QUESTE SONO ESPRESSIO NI UNIVERSALI. LE PERSONE MANIFESTANO

LE EMOZIONI ALLO STESSO

ISTI. CHE SIANO CASALINGHE O TERROR

LA VERITÀ NOSTRO VOLTO È SCRITTA SUL

[Cal Lightman]

Lo sguardo non permette a uno scienziato di conoscere in modo immediato ciò che vede. Piuttosto gli permette di farsene un’immagine, di appropriarsene costruendone una rappresentazione, che acquisisce senso nel momento in cui viene interpretata. Così come un dispositivo fotografico non “registra” una realtà preesistente, ma la “costruisce” nel momento stesso (e nel modo) in cui l’occhio del fotografo ne ritaglia una porzione piuttosto che un’altra. Cal Lightman sembra uno scienziato “cinico, impassibile, stoico e ossessionato dalle contrazioni facciali”, come lo definisce ironicamente la sua socia-psicologa Foster. Ma Lightman conosce bene i paradossi nei quali a volte sembra im-


menti classici allo studio del corpo. Dall’altro lato lo sguardo dello scienziato sul corpo non può più permettersi il distacco e l’oggettività che fino a qualche tempo fa venivano considerati in modo esclusivo garanzia di scientificità.

possibile rendere più penetrante una metodologia basata sull’osservazione – che, d’altra parte, è sempre una “meta-osservazione”, un processo cioè per cui il soggetto e l’oggetto dello sguardo sono sempre entrambi reciprocamente osservanti. L’osservazione è sempre un’attività relazioO. TT TU nale e allo stesso tempo riflessiva, di messa SU TE EN M IS JENK in gioco del proprio sé, al punto che colui che osRE STABILI NON RIUSCIAMO A serva “vede” l’altro solo se è in grado di osservare UNA LINEA BASE PER CAPIRE in un certo modo se stesso. QUANDO DICE LA VERITÀ Se, come dice Saramago, “le immagini vedono con gli occhi che le vedono”, i corpi non parlano da [Eli Locker] soli, parlano sempre a qualcuno, a un altro corpo: La stratificazione di sensi che il corpo contiene e produce fa sì a uno sguardo in corporato che sappia leggerli e interpretarli. che l’adottare un approccio “mono-oculare” (nel duplice senso Lo sguardo di Lightman non registra ma produce, costruisce di considerare il corpo solo nei suoi aspetti carnali o solo nei suoi un’immagine dell’altro, basata sulla relazione corporea attraaspetti mentali, e di tentare di comprenderlo attraverso una singo- verso lo sguardo e su un processo interpretativo che non può la disciplina) non permetta di leggerne e penetrarne lo spessore. non essere riflessivo e mettere in gioco la sua stessa sogIl corpo è intriso di menti – è un corpo mindful –, con- gettività. tiene e produce una complessità che gli permette di corto- Se anche fosse vero che i corpi non mentono (e non è vero, circuitare i confini tra le discipline che lo studiano, che esige dal momento che il corpo è “naturalmente” sovversivo), qui ci un approccio interdisciplinare e l’utilizzo di metodi di anali- sono in gioco le immagini dei corpi e gli occhi che le vedono. La si attenti alla dimensione incorporata della ricerca stessa. trappola è sempre nello sguardo (incorporato) di chi guarda. Nel processo di apprendimento del sapere scientifico e nella sua pratica, lo scienziato o il ricercatore non solo accumulano NON DEVI ed elaborano un capitale di conoscenza, ma assumono una DISPIACERTI disposizione incorporata, cioè ricevono, interpretano e proPER QUALCOSA ducono conoscenza scientifica attraverso la propria esperienza CHE VEDI corporea. Questa, che è possibile definire senza troppa enfasi Torres] una svolta epistemologica per lo sguardo scientifico sul cor[Cal Lightman a Ria po, ha da tempo innescato un cruciale ri-posizionamento delle pratiche e dei linguaggi scientifici, sottolineandone gli aspetti incarnati, emozionali, e il ruolo produttivo della soggettività SAI, dello scienziato o del ricercatore.

©www.vancouversun.com

PER ESSERE UNO CH

DA TUTTA UNA VI TA, MI DISPIACE

E STUDIA LE EMOZ

DIRE CHE NO

CAPISCI AFFATTO

[a Cal Lightman, il suo mig

IONI

liore amico]

N LE

Lie to me si colloca esattamente agli incroci ambigui della relazione tra una epistemologia ancorata al dato “non contaminato” e i nuovi paradigmi che, dalla metà degli anni Ottanta e da più parti, tentano di dare conto delle rimozioni operate da uno sguardo disincarnato a beneficio della fiducia in una conoscenza oggettiva. Al contrario, proprio tenendo in considerazione il complesso tessuto emozionale dei soggetti è

“ “


tecnologie e web

COME I SOCIAL NETWORK CAMBIANO IL RAPPORTO TRA FAN E PRODUTTORI

l

di Giulia Marinelli

l 20 dicembre, mentre centinaia di persone si affrettavano a completare il loro shopping natalizio, la Galleria Alberto Sordi di Roma è stata invasa da duecento ballerini che hanno iniziato a ballare sulle musiche di Don’t Stop Believing: era in corso il primo flash mob italiano per promuovere Glee, serie di punta dell’ultima stagione televisiva di Fox (in Italia dal 21 gennaio). Sono eventi come questo che ci danno realmente un’idea di come il fandom stia entrando sempre più nelle pratiche quotidiane degli individui: al giorno d’oggi, i fan non sono più connotati negativamente come lo erano quelli di Star Trek, oggetto dei primi studi condotti da Henry Jenkins all’inizio degli anni Novanta. Le media companies vedono la loro passione sempre meno come una minaccia per l’integrità, sia artistica che economica, dei propri prodotti e sempre più come un’opportunità da sfruttare per promuoverli al meglio. Le espressioni dei fan non sono limitate dalle barriere delle comunità (on o offline) a cui appartengono, ma le superano, diventando parte costitutiva della vita degli individui alla stregua delle altre attività quotidiane. Sempre più persone, inoltre, si avvicinano ai prodotti mediali attraverso pratiche sociali che un tempo sarebbero state bollate come “tipiche dei fan”, ma che sono ormai entrate a far parte della normalità dei comportamenti di consumo delle audience attuali. Il coinvolgimento attivo di quote sempre più ampie del pubblico diventa di interesse strategico per le media companies, che stanno imparando ad accogliere e valorizzare la cultura partecipativa delle audience, sollecitando i fan come sostenitori dal basso, sfruttando la creatività espressa attraverso i contenuti generati dagli utenti


e coinvolgendoli nelle campagne di promozione dei prodotti. Quello che sta accadendo con Glee negli Stati Uniti, e ora anche in Italia, illustra con chiarezza questo nuovo rapporto tra media companies e fan. Candidata a quattro Golden Globes, la serie è ambientata alla William McKinley High School di Lima in Ohio, dove la compagnia di canto e ballo (“Glee”, appunto) della scuola torna in auge grazie agli sforzi del professor Will Shuester. Raccogliendo in parte l’eredità di High School Musical, essa racconta le vicende di un gruppo di ragazzi che supera prove e affronta difficoltà per seguire la propria passione. Glee è presto diventato un vero e proprio fenomeno di culto negli Stati Uniti - con ascolti record e i due album della colonna sonora in vetta alle classifiche iTunes - e Fox, il network che la produce e trasmette, ha deciso di puntare molto sulla sua promozione tra i fan, sfruttando gli innumerevoli mezzi che offre la Rete. Come prevedibile, l’attenzione di produttori e distributori è concentrata sui social network, e su Twitter nello specifico: sono proprio queste piattaforme l’ultima frontiera su cui inseguire il fandom per coglierne le peculiarità e alimentarne le tendenze. In Twitter le persone aggiornano frequentemente il proprio status spesso anche da dispositivi mobili raccontando in 140 caratteri le small little things che accadono nella vita quotidiana, ma anche raccogliendo e condividendo informazioni, notizie e opinioni sugli argomenti di loro interesse. Per la non reciprocità obbligata del rapporto (si può “seguire” una persona senza che questa debba rispondere ad una richiesta di relazione), Twitter consente di stabilire relazioni con persone percepite come lontane o irraggiungibili ma rilevanti rispetto ai propri interessi. La strategia messa in atto dalla produzione di Glee è di rendere disponibili per i fan una serie di account Twitter, relativi sia ad attori e produttori della serie che agli stessi personaggi. Per i fan questo significa poter essere connessi con i propri attori, registi, cantanti e produttori preferiti, con cui attivare una relazione di intimità non reciproca a distanza percepita come prossima e “naturale”, ma anche ottenere informazioni “di prima mano” che contribuiscano a placarne la sete di conoscenza sull’evoluzione delle storie, e persino sulla vita personale dei loro attori preferiti. Per Glee, oltre ai profili personali degli attori, sono stati creati dalla produzione quattro account relativi ai protagonisti della serie, in cui i personaggi (o meglio, gli autori che ne fanno le veci) non danno elementi aggiuntivi rispetto all’evoluzione della storia ma si limitano a commentare piccoli avvenimenti quotidiani al fine di dare una sensazione di continuità narrativa ai loro “seguaci” su Twitter. La produzione si mantiene in contatto con i fan attraverso altri due profili, GLEEonFOX e Gleetv: su quest’ultimo si leggeva (ore 20.22 del 23 Dicembre) “quietly, we are taking over the world...Viva Italia!” in riferimento al flash mob di promozione avvenuto a Roma. Il pubblico diventa autonomamente protagonista durante la messa in onda degli episodi, inondando la piattaforma di

CHI SONO I FAN?

I fan sono individui che organizzano la propria esistenza ogni giorno intorno a una certa attività (per esempio seguire un evento sportivo o una serie televisiva) o una relazione con particolari prodotti e generi mediali. Sono la parte più attiva e innovativa dell’audience diffusa dei testi popolari, partecipanti a pieno titolo alla costruzione e alla circolazione di significati, ma anche lettori che si appropriano di testi popolari e che li rileggono in un modo che asseconda altri interessi. Tra le principali attività dei fan on line rientrano la condivisione di informazioni sul loro oggetto di fandom, il commento di vari aspetti dei prodotti mediali e l’esercizio di una capacità critica nella loro valutazione a diversi livelli.

tweet taggati “#Glee”. Un’analisi condotta sui primi 13 episodi andati in onda negli Stati Uniti monitorando la percentuale di tweet relativi alle serie in relazione al totale di tweet complessivi scritti all’interno di un’ora ha messo in evidenza l’elevata mole di messaggi (alcune decine di migliaia) scambiati durante le visione di Glee e la continuità del fenomeno nel tempo. Anche in occasione della messa in onda di altri prodotti seriali la pratica sociale si esprime con rilievo simile, sebbene Glee si mantenga su livelli percentualmente più elevati ad esempio, l’ultimo episodio andato in onda prima della pausa invernale ha registrato un picco dell’1,85% di tweet con il tag “#Glee” durante la trasmissione sulla East Coast, e dello 0,98% durante la trasmissione sulla West Coast. Attraverso i Social Network Sites sembra essersi aperta una nuova forma di contatto tra media companies e fan delle serie televisive. Come in altre forme peculiari del Web 2.0, è la costruzione di relazioni il centro delle pratiche di appropriazione, rielaborazione e condivisione della testualità. Si tratta di una dimensione nuova che i produttori devono imparare a valorizzare per creare e rinnovare costantemente un legame solido ed emotivamente coinvolgente con il pubblico dei loro prodotti.


marketing

UNA STRATEGIA COMUNE

L

di Gabriele Moratti

e prime cose che ci vengono in mente quando pensiamo a una serie televisiva, sono quelle che ci colpiscono come pubblico: soggetto, personaggi, interpreti principali, genere, ambientazione ecc. A volte è difficile rendersi conto però che, come per qualsiasi altro prodotto, dietro ciascuno di questi aspetti esiste una precisa strategia di branding che definisce, anche per le serie televisive, posizionamento, target, naming, logo, style-guides. A seconda delle aspettative, e quindi degli investimenti dei produttori, questi aspetti possono essere più o meno sviluppati, ma sono sempre presenti e pianificati nella quasi totalità delle serie televisive che vengono prodotte nel mondo. In particolare queste strategie sono ben visibili e chiare quando si prendono in considerazione le serie USA. Alcuni prodotti televisivi esistono e sopravvivono nel tempo al di là degli interpreti. Sentieri, nato come prodotto radiofonico, è successivamente diventata la soap opera più longeva della storia della televisione, mutando nel tempo praticamente tutti i suoi interpreti, ma restando sempre coerente con la sua personalità. ER, ha mutato interpreti nel corso degli anni, continuando ad ottenere successo anche dopo l’abbandono del superdivo George Clooney. Un altro caso emblematico è Doctor Who, la popolare serie inglese che è andata in onda dal 1963 per quasi 30 anni (è stata rimessa in produzione di recente) cambiando ciclicamente l’interprete principale a ogni nuova stagione, senza accusare per questo ripercussioni negli ascolti.


Venendo a prodotti più vicini a noi, possiamo citare Carabinieri, Un medico in Famiglia, I Cesaroni, tutte serie TV pensate con caratteristiche precise di brand, seppure con le grandi differenze che distinguono i prodotti italiani dalle produzioni statunitensi. Le serie devono perciò essere considerate a tutti gli effetti dei marchi, con tutte le derivazioni che ciò comporta a livello marketing: licenze per la realizzazione di merchandising e prodotti collaterali, strategie di comunicazione, strategie di messa in onda / posizionamento in palinsesto. Tralascerò qui gli aspetti legati alla brand extension per parlare invece delle modalità relative alla messa in onda che vanno a influire sulle scelte dei broadcaster, ovvero dei canali.

Vediamone un esempio pratico. CSI è una delle serie di maggior successo del decennio e negli anni ha mantenuto livelli record di notorietà e ascolto. Quando però CSI venne mandato in onda per la prima volta su uno dei canali FOX (nello specifico Foxlife, piattaforma Sky, 2004-05), gli ascolti seppur buoni non furono così eclatanti come ci si poteva attendere. Successivamente, però, nacque un canale tematico specializzato nel genere poliziesco/crime e, dati i temi trattati, CSI venne naturalmente spostato su FoxCrime incrementando gli ascolti quasi del doppio e dimostrando come la messa in onda su un canale televisivo perfettamente in linea con il prodotto sia in grado di dare una valorizzazione altrimenti non possibile. Ad oggi FoxCrime ha ancora una programmazione fortemente tematizzata e focalizzata sul genere poliziesco/crime ed è uno dei più importanti canali di genere della piattaforma satellitare in Italia. È interessante notare come la coerenza di due brand, canale e prodotto, riesca a creare un effetto sinergico efficace e virtuoso. La serie TV in quanto brand non può più essere considerata un prodotto slegato dal canale su cui viene trasmessa, ma ne diventa parte integrante, contribuendo da un lato a definirne © la personalità, e trovando nel contempo l’ambiente ideale attraverso cui  raggiungere esattamente il pubblico per cui è stata concepita. È  quindi fondamentale in una strategia di programmazione tenere conto della coerenza  tra il  brand “canale” e il brand “serie”,  in quanto questo diventerà sempre di più un fattore chiave per raggiungere gli obiettivi di ascolto. -b ckr F li

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In questi ultimi anni il mercato televisivo sta subendo una profonda trasformazione. È oggi possibile fruire del prodotto televisivo in un numero di modi impensabile solo pochi anni fa. Il consumatore può, infatti, scegliere tra la televisione in chiaro, il digitale terrestre (a pagamento e non), le piattaforme satellitari pay e free, la webTV, la TV on demand, le console per videogames, l’home entertainment (Dvd, blu ray ecc.). È comunque necessario sottolineare che indubbiamente una parte di queste piattaforme sono fortemente di nicchia e probabilmente sono destinate a restare tali. Va anche evidenziato che la gran parte del pubblico non è ancora sufficientemente evoluta da sfruttare tutte le piattaforme a sua disposizione: si limita a un uso tradizionale e generalista del mezzo televisivo, o al massimo sottoscrive degli abbonamenti alla pay-tv per avere un prodotto più completo e/o apparentemente più qualitativo. Uno degli elementi più rilevanti nel panorama televisivo attuale è infatti la grande frammentazione cui stiamo andando incontro: frammentazione nata con l’avvento di una nuova piattaforma tecnologica su cui poggiano canali televisivi diversi e totalmente innovativi (SKY), e che ora sta proseguendo il suo cammino su scala ancora maggiore, a causa del passaggio al Digitale Terrestre sull’intero territorio nazionale. In un mercato di questo tipo, diventa di fondamentale importanza che un canale televisivo presti grande attenzione al proprio brand. I brand televisivi si sono infatti evoluti con l’ingresso delle piattaforme satellitari / pay-tv e quindi con la nascita delle tematizzazioni dei canali. Ora l’incremento esponenziale del numero di canali a disposizione del pubblico cosiddetto “generalista” sta causando contestualmente una forte tematizzazione degli stessi anche al di fuori delle piattaforme a pagamento. Per questo, il branding dei canali diventa sempre più una leva importante per

indirizzare le scelte dei fruitori. Il comportamento dell’utente sta cambiando radicalmente e il pubblico tenderà sempre di più a cercare l’offerta che gli viene fatta da un certo canale X, perché sa che quella corrisponderà a una tipologia di programmazione affine ai propri gusti e non accetterà più volentieri e passivamente un palinsesto rigido basato su una programmazione oraria. È chiaro che una fruizione di questo tipo influisca fortemente sulle strategie di programmazione e di branding del canale televisivo. Il brand del canale televisivo deve essere costruito facendo leva su programmi perfettamente coerenti con il proprio posizionamento in modo da poter attrarre il pubblico cui ambisce, e allo stesso modo una serie televisiva con un determinato posizionamento potrà essere valorizzata al meglio se proposta da un canale che si rivolge dichiaratamente al suo target obiettivo.




tecnologie e web

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di Pierpaolo Panìco

anciata nel febbraio del 2009 da FoxFactory e dal dipartimento New Media di Fox Channels Italy, FlopTv è una WebTv, ovvero un portale che, come recita il comunicato stampa diffuso, “vuole essere luogo di sperimentazione di formati e linguaggi, oltre che una palestra per talenti e autori comici”. Il gruppo Fox, di proprietà della News corp. del magnate australiano Rupert Murdoch ha deciso, infatti, di utilizzare il nostro Paese come terreno per sperimentare alcune delle tante possibilità che la rete offre a chiunque voglia confrontarsi con l’ affascinante oggetto che è la post-televisione.

In Italia la Fox non cerca di essere una “anti-tv”, anzi ha come chiara ambizione quella di provare ad anticipare i gusti di domani. Per cercare di raggiungere il suo obbiettivo, FlopTv ha messo tra le file dei suoi autori la banda della Short Cut Production, quella, per intenderci, dei famosi trailer parodia apparsi nelle trasmissioni della Gialappa’s, che hanno come nome icona quello di Maccio Capatonda, pseudonimo di Marcello Macchia.


I video firmati dalla Short Cut, siano essi tratti da spettacoli televisivi o da siti web, sono tra i video virali di maggior successo nel nostro Paese. Diffusi tramite tutti i social network possibili (Facebook, Twitter, Myspace etc.) contano anche oltre un milione di contatti su YouTube, superando quasi sempre i 200.000 spettatori, (quota che decreta il successo di un video virale nel nostro Paese). Eppure, praticamente a un anno dalla sua nascita, i numeri di FlopTv sembrano quasi decretarne − la maledizione è nel nome − proprio un flop. I suoi video, sebbene ve ne sia la possibilità, non girano tra i social network e in un solo caso hanno superato le 100.000 visioni, fermandosi in genere ben al di sotto delle 20.000. Questi numeri deludono fortemente per due motivi principali:

1. la Shortcut ha creato intere serie originali che hanno rea-

lizzato i sogni e le richieste dei tantissimi fan che, a loro volta, ne hanno decretato il successo su YouTube;

2.il numero delle visioni dei prodotti originali di FlopTv,

veicolati tramite YouTube (anche nel sito di proprietà di Google è presente un canale FlopTv), doppia il numero di quelle effettuate tramite il portale di proprietà della Fox; Tutto ciò potrebbe far pensare che, in Italia, ciò che non è su YouTube non ha molte possibilità di successo (in parte è vero), ma per cercare di capire meglio questo fenomeno si deve dare uno sguardo anche ai numeri delle visioni di altri prodotti presenti su YouTube: se escludiamo le clip televisive, che solo nel caso di eventi eccezionali quali cadute, gaffe o incidenti, superano le visioni della banda di Maccio Capatonda, registrano visioni record, tra i filmati nati appositamente per YouTube, solo gli scherzi telefonici di Lamentecontorta, ovvero Frank Matano (addirittura Sky ne ha messi in produzione alcuni originali per il suo canale SkyUno, etichettandoli come Scherzi.tv). Da qui possiamo dedurre l’importanza del target: i cosiddetti “nativi digitali”, coloro che sono stati

formati quasi contemporaneamente sia sul linguaggio alfabetico che su quello della rete, quelli cioè meglio disposti al consumo di prodotti web, sono i nati a partire dalla metà degli anni Novanta (in contemporanea con Internet), dunque hanno circa 15 anni. Sono proprio i “nativi digitali” ad aver decretato il successo degli scherzi telefonici di Frank Matano, ma questa generazione sfiora soltanto – come età – il target di FlopTv dove, per accedere a molti dei contenuti del sito, si deve essere maggiorenni. Di fatto, dunque, FlopTv, come nelle sue intenzioni, ha in corso una sperimentazione che precorre i tempi e mira a un target che quasi ancora non c’è. Sebbene a tutt’oggi non abbia un grande successo, FlopTv non demorde, bensì rilancia: insieme a Maccio Capatonda, FlopTv ha realizzato per iPhone e iPod Touch un gioco basato solo su clip girate dalla banda della Short Cut. Il meccanismo alla base di FlopTv 12 (il nome che troverete nell’appstore di iTunes) ricorda quello dei videogiochi come Dragon’s Lair o dei libri gioco, quelli in cui il lettore sceglieva quali pieghe l’intreccio doveva prendere in determinati momenti: 12 risulta infatti essere quasi una fiction interattiva in cui bisogna condurre alla salvezza “l’uomo qualunque”, Bruno, mentre scappa da uno spietato killer. Dopo aver assistito alla riproduzione di un filmato compare una schermata in cui si deve scegliere fra tre vie di fuga: a seconda della strada scelta, si potrà vedere un’altra clip, ma soltanto se la scelta è quella giusta la fuga continua, altrimenti il protagonista, “l’uomo qualunque” Bruno, muore. Se, infine, vi state domandando perché si chiama 12, la risposta è semplice: perché, come recita la sua descrizione nello store di iTunes, questa è la serie che vale la metà di 24.

©Flickr-by Laughing Squid


comunicazione

DELIRIO SERIALE IN FORMA BREVE

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di Pasquale Napolitano

i stanno affermando in maniera sempre più evidente forme di serialità contemporanea chiaramente influenzate, nelle dinamiche produttive, nelle estetiche, nel fatto che abbiano seguito e distribuzione, dal canale web e dalla conseguente ibridazione di quest’ultimo con le forme seriali televisive. Questi video-oggetti peculiari si connotano per una serie di caratteristiche produttive, quali uno spiccato senso del low-fi derivante da un consapevole e scanzonato utilizzo di assetti “casalinghi” di editing e riprese, nonché un conseguente uso di effetti digitali relativamente poco costosi e di buona resa, se effettuati con perizia, come il “chroma key” (strumento che rende possibile lo “sfondamento” del piano di visione dell’inquadratura per aggiungere nuove possibilità di sfondo), o After Effects per l’aggiunta di maschere, titolazione,e creazione di ambienti tridimensionali. Sotto il profilo estetico assistiamo, nei casi più significativi, a un ibrido postmoderno di “fatto in casa” e iper-reale.


La Short Cut Production ha messo a punto un vero e proprio brand su questo genere di prodotti. Creata dal niente da due giovani cineasti indipendenti, essa ha raggiunto una fama capillare diffondendo i propri prodotti in rete, riuscendo, attraverso il passaparola, ad arrivare alle vetrine mediatiche di Mai dire Gol e del network All Music. Maccio Capatonda, Herbert Ballerina e tutta la congerie di attori falliti e freak che interpretano questi peculiari artefatti, personaggi uniti dal comune denominatore della totale incapacità espressiva e recitativa, si concentra da subito su una delle forme brevi di particolare appeal nel panorama dell’industria culturale contemporanea: il trailer. Fulminei inserti di culto non più lunghi di un minuto, costruiti con il classico meccanismo emozionale di picchi e plateau: la principale differenza rispetto allo standard cinematografico sta nel fatto che in questo caso il trailer non è una forma breve vicaria di un altro prodotto, di cui è anche mezzo promozionale, piuttosto è il prodotto stesso. Simulacro che condensa in sé tutte le componenti verosimili rispetto al cinema di genere, e comprende nella sua brevitas una sorta di campionario dei topoi di genere, per di più riuscendo a confezionare lavori dalla trama supposta coerente nonostante le ellissi proprie di tale forma. Prodotti come La Febbra e La Febbra 2 sono un irridente concentrato della cinematografia thrilling alla Shyamalan, così come Natale al cesso, il più politico dei lavori Short Cut (dall’eloquente sottotitolo: “Il genere di film che il mondo ci invidia”), è uno sguaiato corollario dell’umorismo gastro-intestinale dell’italico cine-panettone. Col tempo la Short Cut passa alla realizzazione di vere e proprie serie-tv in formato breve, tra queste la più interessante è senza dubbio la saga del predicatore Padre Maronno, che un giorno, per errore della costumista si trova a interpretare i panni di un classico commissario televisivo, tale Commissario Catiponda, che utilizza non precisate virtù di mistico (la “vedenza”) insieme a un’interpretazione personale della legge tipica di molti commissari televisivi. Con questa serie, due dei topos seriali, il commissario ed il santo, si fondono letteralmente insieme, in una creatura bicefala e debordante.

COSA STATE FANDO... STIRPE DEGENERATION!

Marcello Cesena, Sensualità a Corte appropriazione del meccanismo seriale per costruire prodotti che si connotano come meta-serie, milieu di tutte le convenzioni di genere giustapposte con la più assoluta disinvoltura. È il caso di Sensualità a Corte, sempre di Marcello Cesena, e di tutta la forte operazione intrapresa da Marcello Macchia (più noto come Maccio Capatonda) e la sua Short Cut Production. Marcello Cesena, autore di teatro-off e interprete shakespeariano, membro dei mitici Broncovitz insieme a Maurizio Crozza e Ugo Dighero, conserva il gusto al travestimento, al camouflage, al recitar cortese proprio del teatro elisabettiano, riconfigurandolo in una sorta di forma iperrealistica di matrice cyberpunk. Le avventure del giovin signore misogino Jean Claude, un baronetto della nobiltà francese di fine settecento, dall’ambito cortese virano improvvisamente verso altri universi dell’industria culturale mainstream, come testimoniano la sua cotta per una versione cialtronesca di Batman, che lui chiama confidenzialmente “Renato”, o la sordida relazione incestuosa con Darth Fener, per gli amici “Stefano”. La dispotica madre è la causa primaria della sua psicologia infantile: non si sa nulla del suo passato, se non che ha sposato il padre di Jean Claude per “ragioni fiscali” e che ha partorito Jean Claude a 40 anni (in realtà Madre lo ha adottato dopo averlo trovato in una cesta davanti a una boutique D&G). Il tutto reso ancora più isterico grazie a un uso spregiudicato e consapevole della voce, nonché al convulso iper-citazionismo degli universi più beceri e grossolani dell’industria culturale: quiz a premi, imbarazzanti stacchetti televisivi, spot di dubbio gusto. L’ambientazione della fiction è “Parigi, 1794”, cornice del tutto generica: i protagonisti infatti, sebbene abbigliati secondo la moda del Settecento, interagiscono con più scenari ed utilizzano spesso elementi tecnologici dei nostri giorni (spray, cellulari, ecc.). Sensualità a Corte, arrivato ormai alla quinta stagione in cinque anni, è girato completamente con standard domestici e sembra uno spettacolo di Paolo Poli diretto da Shinya Tsukamoto.

In rete la diffusione e la facilità di reperimento del prodotto culturale ne rappresentano il vantaggio competitivo, per cui la bassa qualità del segnale, le conseguenti sgranature dell’immagine, i formati e i retini non propriamente cinematografici sono una sorta di contropartita necessaria sulla quale poter costruire estetiche e modalità espressive. Buona parte di questi prodotti, in particolare quelli più interessanti ed “emulati” percorrono la strada della parodia, intesa sia come destrutturazione di serie esistenti (è il caso del Dott. House di Marcello Cesena), sia – ed è la fattispecie più interessante – come serie di serie, parodia del concetto stesso di serie: non più presa in giro (e contemporaneamente omaggio e cannibalizzazione) di mitologie e narrazioni esistenti, quanto

Dal 23 febbraio 2009, buona parte di questa serie di esperimenti sono raccolti sotto il cappello della web tv a tema Flop Tv, uno dei dodici canali tematici di Fox Entertainment Group Italia. Con Flop Tv la Short Cut ha prodotto un progetto ambizioso, La Villa di lato, serie ambientata in una villa “quasi maledetta” dell’hinterland meneghino. Al di là del risultato ambivalente, l’operazione possiede un valore intrinseco nel delineare future possibili strategie produttive di questo genere di forma breve. La Villa di lato infatti, è stato prodotto grazie al finanziamento della Busto Arsizio Film Commission: per la prima volta una serie demenziale, per di più distribuita attraverso il canale web, vince una commissione pubblica rilevante, vincolata alla realizzazione di prodotti dalla forte componente di promozione territoriale.


creatività

LE VIE INCONSUETE DELLA PRODUZIONE E DELLA POST-PRODUZIONE

di Niko Demasi in collaborazione con Sputnik Media

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e piccole dimensioni non sempre sono sinonimo di ridotta reattività, anzi spesso permettono una flessibilità che in un mercato fluttuante e incerto come quello dell’audiovisivo può diventare il fattore decisivo nella competizione. Incontriamo Piero Costantini e Fabio Tarantino di Sputnik Media, piccola ma agguerrita factory che ha fatto della flessibilità e dell’uso creativo delle tecnologie digitali la propria “bandiera” produttiva.

Niko Demasi: Per rompere il ghiaccio: un breve excursus sulla vostra esperienza professionale; come siete arrivati a occuparvi di postproduzione, vfx e motion graphics? Fabio Tarantino: A 17 anni avevo un contratto discografico con l’etichetta ACV records di Tony Verde. Negli studi, oltre alle registrazioni, si progettavano le copertine dei vinili e dei cd e i videoclip. Quello è stato il mio primo approccio alla comunicazione visiva, alla grafica. In quel periodo facevo musica ma sentivo dentro di me la voglia di esplorare il mondo dell’audiovisivo. Ho frequentato un master in grafica e da li sono arrivato al video, autodidatta per vocazione!


Piero Costantini: Anche il mio percorso parte dalla musica: nel ’97 vivevo in un paesino vicino a Udine e facevo l’operaio saldatore, dopo aver visto in televisione il videoclip dei Bluvertigo Fuori dal tempo decido che devo assolutamente cercare di conoscere la band. Ho la fortuna di farlo a un loro concerto. Dopo essere diventati amici mi propongono di realizzare (con i miei ferri) la scenografia di Altre forme di vita, videoclip che vincerà gli Mtv Music Awards. Così mi sono ritrovato per la prima volta su un set: la folgorazione è stata istantanea. ND: Domanda d’obbligo: Avatar e l’impatto della tecnologia 3D.. FT: La tecnologia ha sempre un grande impatto sul video, nelle tecniche di ripresa e divulgazione. Il 3D è secondo me il primo gradino della scala che porterà al video olografico (abbiamo vari esempi stile Minority Report) e soprattutto all’interattività. Il cinema e il videogame si fonderanno. PC: Appunto… a me Avatar non sembra un film, né tantomeno mi sembra fotorealistico. Diciamo che se fin qui si è cercato di rendere realistico il virtuale, nel caso di Avatar si è virtualizzato il reale, rendendo, di fatto, il progetto omogeneo. Trovo interessante la realizzazione di un mondo 3D che possa essere declinato facilmente in videogame. ND:  Molti sostengono che, svanito “l’effetto novità”,l’interesse del pubblico rientrerà e la tecnologia 3D sarà confinata in determinati generi (ani-

mazione, action movie, horror); al contrario molti, Cameron in testa, parlano di un nuovo linguaggio e di nuova estetica che cambieranno per sempre l’audiovisivo: da addetti ai lavori, qual è la vostra posizione? FT: Come ho detto prima, credo che sia l’interattività il futuro e non solo per i film di animazione o action. Grazie anche al supporto della banda larga (in Italia ancora oggetto misterioso purtroppo), la PS3, la Wii, l’interattività con l’audiovisivo, finora solo entertainment, è sempre più possibile ed efficace. Lo spettatore non sarà più passivo ma attivo, potrà interagire con i personaggi e gli ambienti del video. Come nei videogiochi, ma nelle sale. PC: Sono convinto che commercialmente il cinema 3D avrà sbocchi importanti ma solo per un certo tipo di cinema, il 35mm non morirà mai. Il cinema è fatto innanzitutto di storie e la fruizione di queste ultime in 3D è ancora difficile e faticosa. ND: I produttori di tv cominceranno molto presto a commercializzare i primi apparecchi “3D ready”, quindi il “3D domestico” (in Inghilterra già sono trasmessi i primi eventi sportivi in 3D) potrebbe essere il prossimo punto di svolta: cosa può significare dal punto di vista produttivo e professionale per chi si occupa di contenuti digitali e post-produzione? FT: Naturalmente bisogna aggiornarsi, studiare le nuove tecnologie per conoscerne le potenzialità. ©Sputnik Media


creatività

Una nuova tecnologia offre sempre nuove possibilità, ma non bisogna dimenticare che il “contenuto” è sempre più importante del “contenitore”. Oggi l’homemade, la cosiddetta “generazione YouTube”, il web 2.0, sono processi importanti che stanno cambiando il linguaggio, ma spesso sono poveri di contenuti. Quello che fa la differenza tra un professionista e un amatore consiste proprio in questo. PC: Essere up-to-date è fondamentale nel nostro mestiere. La macro differenza che incontreremo sarà lavorare su due fotogrammi contemporaneamente, quindi serviranno macchine che girino al doppio della velocità, memorie di massa raddoppiate e speriamo… budget raddoppiati! ND: Abbandoniamo Hollywood e i “massimi sistemi” e torniamo a una realtà a noi più vicina: parliamo di video promozionale e video aziendale, prodotti che negli ultimi anni hanno trovato sempre più spazio nella comunicazione d’impresa. Qual è la vostra esperienza in questo particolare settore? FT: Abbiamo lavorato in questo ambito. Le aziende hanno sempre più voglia di avere un “biglietto da visita” professionale ed efficace perché grazie alla rete (e una buoDALL’ANAGLIFO AD AVATAR: BREVE STORIA DELL’ILLUSIONE TRIDIMENSIONALE La visione binoculare Tutte le tecniche (analogiche e digitali) per ottenere l’illusione della tridimensionalità delle immagini si basano sulla visione binoculare: l’occhio destro e quello sinistro (distanti l’uno dall’altro 6 cm. circa) inviano al cervello due immagini differenti (derivanti dallo scostamento laterale) dello stesso oggetto; il cervello elabora questi stimoli fondendo le due immagini: in pratica ogni occhio vede l’oggetto osservato da una prospettiva diversa, la percezione della profondità deriva dalla minore o maggiore corrispondenza della posizione dell’oggetto nelle due immagini. La stereoscopia è la tecnica utilizzata per simulare la visione binoculare e ottenere tramite immagini “ospitate” su supporti bidimensionali (fogli di carta, diapositive, fotogrammi…) l’illusione della tridimensionalità. Le origini I primi esperimenti sulle immagini stereoscopiche risalgono agli anni venti dell’800: si trattava di coppie di disegni affiancati che riproducevano soggetti leggermente differenti per simulare la visione binoculare; questi tentativi

na strategia) possono raggiungere un grande numero di utenti, riuscendo anche a selezionare meglio il target. PC: Sei in quanto appari. Se non appari non sei. Ormai la regola è questa e le aziende se ne stanno rendendo conto. Investire in comunicazione, quando si hanno margini a disposizione, è una buona scelta per promuoversi e portare risorse in bilancio. ND: Quali sono le problematiche tipiche che si incontrano quando si progetta e poi si realizza un video aziendale? FT: Il cliente. A parte gli scherzi, il problema è riuscire a rappresentare al meglio l’azienda. Capire la Mission, il punto di forza e rappresentarlo al meglio. Il tutto restando nel budget. PC: Il dialogo con il cliente è fondamentale. Spesso, infatti, il nostro interlocutore non è un esperto di comunicazione. Per cui per noi è essenziale accompagnarlo, facendolo sentire a proprio agio, attraverso le scelte giuste. ND: Spesso si ha la sensazione che il committente abbia colto le potenzialità comunicative del video ma non del tutto le caratteristiche tecniche e linguistiche: dal vostro punto di vista, quali sono gli errori o le pioneristici subirono un’accelerazione con la fotografia: risale al 1949 lo stereoscopio di Brewster, un binocolo “portatile” che permetteva la visione di una coppia di immagini fotografiche catturate da una fotocamera binoculare. L’avvento del cinema distolse l’attenzione del pubblico dallo “spettacolo” delle immagini stereoscopiche: la standardizzazione della pellicola 35 mm (utilizzata come supporto) e la commercializzazione di apparecchi economici (il View-Master e TruVue i più diffusi) prolungò però la vita dello stereoscopio fino al secondo dopoguerra. L’anaglifo e i primi “occhialini” Un particolare tipo di immagine stereoscopica è l’anaglifo: si tratta di uno stereo-


mancanze che pregiudicano (spesso sin dall’origine) la riuscita finale del progetto? FT: Naturalmente al committente del linguaggio e delle tecniche interessa poco o niente (soprattutto se non è nemmeno appassionato di video, cinema o quant’altro). Questo è spesso frustrante per noi, i committenti non sono disposti a pagare una telecamera il doppio per avere il filmato in HD ad esempio. Proprio qualche giorno fa ho letto non so dove: “Clients are the difference between design and art”. Noi tutti siamo artisti falliti! PC: In Italia c’è poca voglia di sperimentare. Si tende al classico, al pubblico di Rai Uno… Nel mondo anglosassone le cose sono molto diverse: il cliente è in grado di delegare e affidarsi molto di più e i risultati si vedono. I ragazzi di Squint Opera ne sono un esempio lampante.

©Sputnik Media

ND: Quando si realizza un video aziendale spesso ci si trova nella condizione di dover procedere per tentativi, in una continua rimodulazione tra le richieste del cliente e le soluzioni proposte, una “dinamica al ribasso” che quasi sempre lascia scontenti tutti: partire dal brand e da una precisa strategia di branding potrebbe essere una soluzione a questo tipo di problematiche? gramma, ottenuto mediante la sovrapposizione su un supporto di due immagini che simulano la visione binoculare; l’illusione della tridimensionalità si ottiene grazie all’utilizzo di occhiali

con lenti dotate di filtri colorati. La tecnica è abbastanza semplice ed economica: si prepara prima e si proietta (o si stampa) poi l’anaglifo composto di due immagini stereoscopiche ©wikimedia.org


creatività

©Sputnik Media

FT: Io penso che la strada migliore sia la fiducia. Mi spiego. Non so se sia un “male” tutto italiano, ma c’è un insano metter bocca dappertutto, sugli aspetti tecnici e di comunicazione, da parte di chi paga (e non lo fa di mestiere) e si sente tenuto a dire la sua. Io credo che se ognuno facesse “il suo” (parliamo di professionisti naturalmente), ci sarebbero molti meno problemi di questo genere. PC: Preprodurre, preprodurre e ancora preprodurre. Lavorare su carta non costa nulla. Io consiglio sempre di ragionare bene sul da farsi, di prendersi i tempi dovuti, di avere le idee chiare. Così facendo la realizzazione sarà univocamente ben considerata da tutte le parti.

ND: Qual è il tipico flusso di lavoro che porta alla realizzazione di un video aziendale o promozionale? Come dovrebbe essere nel “migliore dei mondi possibili”? FT – PC: Il cliente fa il brief e fornisce il materiale a disposizione, noi metabolizziamo le richieste e le trasformiamo in uno o due proposte creative e un preventivo. Si tratta anche sui 20 euro per arrivare al budget.Si procede a un rough del progetto per far capire al cliente come le nostre “idee” si risolvono nel video. Si fanno delle valutazioni e correzioni col cliente. Si produce il video possibilmente nella versione definitiva.

sovrapposte e filtrate mediante una coppia di colori complementari (per esempio una con un filtro rosso, l’altra con un filtro ciano): la visione attraverso gli appositi occhiali (una lente con filtro rosso, l’altra con filtro ciano) permette ad ogni occhio di vedere l’immagine corrispondente, il cervello fonde poi le due immagini (leggermente differenti per via dello scostamento) in un’unica rappresentazione tridimensionale. Il problema di questa tecnica risiede nel non perfetto filtraggio delle immagini (con relative interferenze di un’immagine sull’altra) e nella scarsa resa dei colori.

Il Teleview fu il primo sistema a utilizzare due proiettori, uno per l’occhio destro e uno per quello sinistro: l’alternarsi di fotogrammi in rapida successione e l’utilizzo di uno speciale visore con otturatori sincronizzati (tramite le poltroncine) con i proiettori permetteva di ottenere un’immagine stereoscopica di qualità e una migliore fruizione per gli spettatori. Un sistema del tutto originale fu quello basato sul filtro polarizzatore: la proiezione prevedeva due pellicole parallele perfettamente sincronizzate (due canali distinti per occhio destro e sinistro), uno schermo dedicato realizzato in materiale riflettente (silver screen), occhiali a lenti polarizzate per la visione. Questa tecnologia caratterizzò la cosiddetta età dell’oro del cinema 3D (1950-1955). L’affermarsi del Cinemascope, le difficoltà legate alla proiezione della doppia pellicola e la difficile “coesistenza” di film “piatto” e film 3D sullo schermo di una stessa sala portarono al progressivo declino del cinema tridimensionale. I decenni successivi sono caratterizzati da lunghi periodi di oblio intervallati da stagioni in cui il cinema torna a guardare alla tridimensionalità: negli anni ’60 con la tecnologia SpaceVision 3D (film stereoscopici stampati su una singola pellicola); negli anni ’70 con Stereovision (singola pellicola 35mm con affiancamento di due immagini anamorfiche); nei primi anni ’80 assistiamo ad un vero e proprio revival del cinema 3D: la tecnologia è basata sul sistema Space Vision, tra i titoli ricordiamo Lo squalo 3 e Venerdì 13: weekend di terrore.

Il cinema 3D I primi tentativi di ottenere immagini in movimento tridimensionali sono legati alla sperimentazione sulla stereoscopia: lo scienziato e inventore inglese Charles Wheatstone, oltre allo stereoscopio (1832), realizzò anche lo stereofantascopio, tecnologia che non riuscì mai a superare la status di “curiosità” e affermarsi commercialmente. La prima proiezione di un film 3D per un pubblico pagante si tenne a Los Angeles nel 1922: la pellicola si intitolava The Power of Love e la tecnica utilizzata era quella dell’anaglifo. Negli anni ’20 furono sperimentate altre tecnologie come il Teleview e il filtro polarizzatore.

Tridimensionale digitale Con l’affermarsi delle tecnologie digitali il cinema 3D torna


ND: Quando si affronta un nuovo lavoro ci si trova nella condizione di dover mediare tra limiti di budget, limiti di tempo e creatività: come affrontate e risolvete questo tipo di problemi? FT: L’unico modo a mio parere è attraverso le idee. Ovvero trovare il concetto giusto realizzabile nei tempi e con il budget a disposizione. E credo che sia questo uno dei nostri vantaggi competitivi. Probabilmente non perché siamo dei geni, ma perché grazie a un’esperienza decennale costruita su progetti di vario genere, inquadriamo al meglio la situazione e troviamo le giuste soluzioni. PC: Diciamo che l’esperienza viene in aiuto. In tutti i sensi, anche quella che ci ha portato a de-strutturarci per abbattere i costi fissi. Così facendo, mantenendo invariato il margine, abbiamo una parte consistente di budget in più da investire nelle produzioni. ND: Per chiudere, a quali progetti state lavorando attualmente? FT: Abbiamo un contratto in esclusiva con Albatros Film, che produce gran parte delle Ficiton per la Rai e Mediaset. Stiamo chiudendo una collana homevideo sul Poker (I segreti del grande poker) per La Gazzetta dello Sport. nuovamente in auge a partire dai primi anni del nuovo millennio: è del 2003 il documentario Ghosts of the Abyss che James Cameron realizza con il sistema IMAX 3D utilizzando tecnologie HDTV. Da qui in poi il cinema tridimensionale conosce un’accelerazione esponenziale che si traduce in un conseguente proliferare di titoli: ricordiamo tra gli altri Polar Express del 2004 (primo lungometraggio di animazione in 3D); Chicken Little del 2004 (primo titolo in Digital 3D dei Walt Dysney Studios); Scar del 2007 (primo film narrativo in 3D realizzato completamente in digitale); U2 3D del 2008 (primo concerto dal vivo in 3D); UP, maggio 2009 (primo lungometraggio Pixar in 3D); Avatar, dicembre 2009 (lo stato dell’arte). Il fattore decisivo per l’attuale successo al botteghino del cinema tridimensionale è da individuare sicuramente nella qualità della fruizione resa possibile dalle tecnologie 3D. Attualmente gli standard di proiezione sono tre, tutti basati su singolo proiettore digitale: • Il sistema XpanD 3D si basa sulla fruizione tramite occhiali attivi sincronizzati con il proiettore per mezzo di onde radio: le immagini per l’occhio destro e sinistro si susseguono sullo schermo in successione senza nessun filtro. • Il sistema RealD Cinema prevede il filtraggio delle immagini mediante polarizzazione e la visione tramite occhiali passivi con lenti

Ci stiamo occupando della comunicazione della federazione MMA (XC1 Extreme Combact Italia) che esordirà su Dahlia tv a giorni. Abbiamo in cantiere un videoclip e… PC: …e poi c’è la parte cinematografica (quella che ci piace di più e che nasce solo da noi): il mio lungometraggio La zona d’ombra, che è sul tavolo della commissione del Ministero dei Beni Culturali, grazie al forte interesse dimostrato da un importante produttore romano. Un soggetto avvincente e molto attuale che potrebbe essere una serie tv o ancora un lungometraggio. Una docufiction sui protagonisti del mondo del Poker al quale ci siamo da poco avvicinati con notevole interesse.

©Sputnik Media polarizzate: ogni lente filtra l’immagine relativa all’occhio corrispondente. •Il sistema Dolby 3D è basato su un sistema di filtraggio del colore che, modificandone leggermente la lunghezza d’onda, permette di proiettare immagini con componenti di colore differenti per ogni occhio; anche questo standard prevede la fruizione attraverso occhiali passivi. Il sistema RealD Cinema sembra essersi affermato come standard mondiale per il cinema tridimensionale. ©wikimedia.org


formazione

LA POSTPRODUZIONE AUDIO, TRA TECNICHE ARTIGIANALI E SENSORIALITÀ TATTILE DEL DIGITALE

L

di Vincenzo Aiello

avorare nella post-produzione audio significa essere di fatto l’anello finale di una lunga catena di processi iniziata con la scrittura della sceneggiatura di un film, continuata con la realizzazione delle riprese, terminata con il montaggio definitivo della scena. Solo a questo punto si realizza la colonna sonora, che in ambito professionale non designa, come nel linguaggio comune, la musica composta per il film, ma l’insieme di tutti i contributi sonori che concorrono a definire la vasta gamma espressiva e comunicativa che il suono può avere in ambito cinematografico. Si parte anzitutto dai materiali incisi nel corso delle riprese: la presa diretta. Spesso i dialoghi incisi in presa diretta devono essere attentamente selezionati tra i vari ciak disponibili per scegliere le registrazioni migliori e renderle omogenee tra di loro. I dialoghi ascoltati nella sala cinematografica possono quindi non essere quelli corrispondenti alla scena vista dallo spettatore, ma essere quelli delle scene scartate, le cosiddette “riserve”.


Nel frattempo il lavoro del compositore che scriverà le Successivamente è necessario preparare dei fondi, degli musiche originali del film è già a buon punto. Capiambienti sonori, che “riempiano” i 5+1 canali audio che ta spesso che il compositore inizi a elaborare temi musidanno quella sensazione di spazialità del suono a 360 gradi cali con differenti tipologie d’orchestrazione e arrangiache ormai è diventato uno standard per cinema e televisione. mento dopo aver letto soltanto la sceneggiatura del film. Particolare cura richiede la scelta dei fondi che devono Negli ultimi anni nell’esecuzione di musiche per il cinema si rendere omogenee le registrazioni che si ascoltano sul è fatto un uso massiccio di virtual instruments, gli emulatori canale centrale, quello dedicato al dialogo. Alcune regidi strumenti reali basati sulla strazioni sono infatti più rumorose di altre per varie cause: tecnica del campionalampade utilizzate per illuminare la scena, traffico, passagmento digitale. Questi gio di aerei, variazioni nell’orario e nel luogo d’incisione. set strumenti muSoprattutto quando ci si trova in presenza di un classicinematografico sicali virtuali co dialogo girato con la tecnica del campo e controconsencampo queste differenze possono generare l’effetto straniante di riprodurre differenti ambienti sonori a seconda del personaggio che sta parlando, con l’aggiunta di fonico di direttore della fastidiosi “salti” quando si passa dall’uno all’altro. Riuscire a isolare presa diretta fotografia una porzione dell’ambiente sonoro più rumoroso aggiungendo una “pista” all’intero dialogo è l’espediente più comune per risolvere questo problema, insieme all’uso di particolari filtri che eliminaaudio inciso “girato” no le frequenze più fastidiose. in presa diretta In seguito si scelgono e si montano gli ambienti stereo frontali e posteriori, che servono a collocare le scene in un contesto sonoro predefinito, e per far questo ci si avvale sia di ambienti incisi dal fonico di presa diretta, non necessariamente sul set, sia del lavoro di tecnici specializzati nella registrazione e creazione di ambienti ed effetti sonori: i rumoristi. Questa fase può essere molto creativa: grazie all’uso del suono si può completare o addirittura stravolgere la location effettiva delle riprese: una scena girata nei dintorni di Roma potrà raccontare, per esempio, un luogo distante e selvaggio. Il lavoro dei rumoristi tradizionalmente era costituito principalmente dai rumori di sala, tutti quei suoni cioè che venivano incisi in una sala di registrazione con l’impiego di soluzioni particolarmente fantasiose. Mi vengono in mente le classiche noci di cocco utilizzate per imitare gli zoccoli dei cavalli oppure la carta velina per imitare il suono montatore della legna che arde nel camino. del suono Ancora oggi molti suoni vengono incisi in questo modo, soprattutto quelli dei passi. I rumoristi utilizzano decine di tipi di scarpe diverse, da uomo e da donna, e ricreano in sala tutti i possibili tipi di terreno. Sono così in grado di reinterpretare tutte le movenze degli attori, aggiungendo anche quello che gli americani chiamano foley, cioè i movimenti di strofinio sulla pelle e sugli abiti che i normali movimenti del corpo umano producono.

montatore - scena

montaggio video definitivo

rumorista

fonico di mix

compositore


formazione

tono di ridurre notevolmente i costi e soprattutto i tempi di esecuzione dei brani musicali. Un altro vantaggio consiste nel fatto che ogni tipo di modifica legata ai costanti cambiamenti che avvengono al montaggio può essere riportata molto velocemente su un brano musicale realizzato con dei virtual instruments, modificando la partitura e l’arrangiamento al computer, senza dover interagire con dei veri musicisti. Tutti gli elementi finora descritti – i suoni di presa diretta accuratamente selezionati e integrati tra loro dal montatore del suono, il lavoro dei rumoristi e quello di chi compone la musica originale del film – confluiscono sul banco del fonico di mix. La figura del fonico di mix è quindi quella di colui che valorizza l’apporto dei vari contributi sonori che si succedono e si sovrappongono durante la visione del film. In quest’opera è egli affiancato dai supervisor della casa di produzione cinematografica e, nei momenti salienti, dalla presenza del montatore della scena e del regista. Deve quindi conferire grande fluidità a tutti questi elementi, rendendo omogenei i dialoghi incisi in presa diretta e le integrazioni realizzate in doppiaggio, dosando attentamente l’apporto della musica nei momenti in cui essa deve essere solo un elemento di accompagnamento e in quelli in cui ha una funzione più enfatica. Il fonico di mix deve essere inoltre molto abile nell’interpretare e soddisfare le richieste del regista, traducendo in concrete azioni sul piano tecnico quelli che sono i desiderata espressi in termini descrittivi o a livello di sensazione. L’audio rimane infatti un elemento privo di una corporeità immediatamente valutabile, come quella che ha l’immagine, e

spesso questo rende più indefinibile e oscure anche le emozioni contrastanti e inconsce che è in grado di generare. Le novità più significative degli ultimi anni riguardano le possibilità tecniche e distributive connesse alla digitalizzazione del cinema, che per l’audio è di fatto già realtà da molto tempo (i suoni sono registrati e lavorati interamente su formati digitali) mentre per il video sta diventando effettiva in questo momento con il progressivo abbandono della pellicola e grazie all’esistenza di formati digitali ad alta definizione con una resa ottimale. Tale processo comporta importanti scelte creative per i registi, i quali grazie al digitale possono creare ex novo scenografie, paesaggi, personaggi, sia per il lavoro di montatori e direttori della fotografia, sia per i distributori, che potranno diffondere i film trasmettendo dei dati in via telematica senza il supporto fisico della pellicola. Un altro aspetto del fenomeno sarà l’omologazione degli standard tecnici per cinema e televisione (tecniche di ripresa, montaggio e fruizione dei film che avverrà contemporaneamente nelle sale cinematografica tradizionale ma anche via web, satellite, telefonini palmari etc.). Infine, le sale cinematografiche, come sta avvenendo negli USA, inseguiranno sempre di più l’obiettivo di coinvolgere lo spettatore attraverso una sensorialità non solo visiva e uditiva ma anche tattile, con l’uso massiccio delle basse frequenze e gli speciali sedili che producono particolari vibrazioni in corrispondenza di alcune scene del film. Lo scopo, naturalmente, è quello di conferire sempre maggiore spettacolarità e coinvolgimento alla visione dei film in sala, al fine di contrastare la concorrenza spietata di supporti domestici e della distribuzione via reti telematiche e satellitari, che ormai entrano direttamente nelle case degli spettatori, muniti di schermi LCD o al plasma e di impianti audio surround. ©Flickr-by Vancouverfilmschool



culture

A

LA NOSTRA PATRIA

SONO

I NOSTRI SGUARDI [Sam Peckinpah]

ntonello Novellino – cui la città di Bilbao nel maggio scorso ha dedicato una ricca retrospettiva –, salernitano di nascita, vive e lavora tra Roma e Madrid. Appartiene a quella rara schiera di filmakers per i quali la definizione “sperimentale” è sicuramente limitativa, se non addirittura “obsoleta”. Infatti la sua ricerca di giovane regista è un continuo attraversare le forme della comunicazione audiovisiva. Un continuo reinventarle e riordinarle verso molteplici universi espressivi (e qui viene anche in “soccorso” creativo la formazione da antropologo che appartiene agli studi di Antonello). In Novellino troviamo produzioni dal taglio visionario e sperimentale certo, ma anche lavori di raffinata fiction, “mini film”, regie di videoclip, documentari, spot pubblicitari, campagne di sensibilità sociale, lavori di video-teatro e tanto altro ancora. Insomma, utilizza i linguaggi della comunicazione audiovisiva contemporanea spingendo continuamente l’acceleratore della produzione e della progettazione (spesso condivisa con altri sodali e compagni di strada: Luca Granato, Anna De Rosa, Sara Novellino, Viola Simonetti) per proporsi con entusiasmo come un artista mediale totale.

di Alfonso Amendola


Un  artista mediale che amplifica l’utilizzo della telecamera innervandola continuamente di elementi extra che guardano non solo a differenti linguaggi, ma anche a differenti procedure e stilemi: •  La  natura:  La  pianta, vero scontro tra sorpresa e invenzione •  Il corpo: superlativo – e personalmente molto caro – il suo Pier Paolo Pasolini • L’idea d’amore: una nota particolare la merita Marcelo che nasce come “promo” di un festival ma in realtà si struttura come un videoclip ulteriormente rafforzato dalla fondamentale colonna sonora di Angelo Marrocco •  La specificità musicale: un tessuto di ricco dialogo espressivo lo abbiamo nei videoclip realizzati su brani dei 3fade e dei da’namaste • Il pittorico come matrice narrativa: Il silenzio che omaggia il lavoro artistico di Enzo Bianco; oppure Good/Evil dove torna la tensione strettamente visiva e visionaria per creare un magico dialogo ancora una volta con il corpo • L’impegno sociale: Dietro le cose, profondissimo lavoro di sensibilità e vissuto

costruire per immagini in movimento. Per questo nel pulsare rizomatico e circolare dei lavori di Antonello possono abitare cosi tante sfere del visivo. Perché c’è felicità di costruzione! La storia dell’immagine nasce come “mappa”, come disegno che serviva agli uomini per spostarsi e conquistare il mondo. Le immagini che realizza Antonello Novellino sono cartografie che raccontano emozioni, vissuti, derive, approdi... che indicano orizzonti. E anche quando il lavoro è “su commissione” (non dimentichiamo che tutta la storia dell’arte, quella con la “A” maiuscola nasce su commissione) Antonello realizza lavori di grande stile e perizia, dove la sua firma (la felicità del creare e il desiderio di cartografare) hanno sempre pienezza d’eco. Antonello Novellino sa bene che un film è un lavoro complesso, stratificato e collettivo… Infatti gli appartiene una lucida consapevolezza: “un film – leggiamo Antonello - è un racconto per immagini e quindi la ricerca visiva è parte fondamentale: le location, i costumi, i colori, la luce, avere buoni collaboratori che ti sostengano”. Un parlar chiaro, diretto, operativo, di puntuale riflessione, idea che si trasforma in azione… (“credo nelle idee che diventano azione” urlava Ezra Pound). Per concludere, il cinema e tutta l’articolazione dei linguaggi audiovisivi di Antonello Novellino sono il grande viatico per osservare la vita, per costruire il mondo a partire dai propri sogni, per celebrare con vigore e necessità d’artista totale quel “pensiero che si apre su immensità” (citando un frammento poetico di Anna De Rosa).

• L’impegno militante pacifista: Guerra: unico comandamento ammazza tutti i deboli un intenso “mini-film” che ha un obiettivo, ed è lo stesso regista a sottolinearlo “la guerra è assurda, è una follia e con Guerra voglio far ricordare che la guerra non è un male necessario!” ©Queimada Brand Care • La ricerca teatrale: La ri-nascita in collaborazione con la compagnia “Compagine” e il premontato del cortometraggio • La cena è servita con un magnetico Antonello De Rosa • La ricostruzione documentaristica: una perla storica resta sicuramente Xena 2997, che documenta una azione performativa ideata da Paola Biato e realizzata nel 1997 in un locale underground del salernitano. Questo lavoro è anche utile per comprendere la “storica” presenza nel mondo dell’audiovisivo di Antonello che già giovanissimo girava con la sua telecamera e raccontava il mondo e le cose attraverso le immagini. L’elenco potrebbe continuare in quanto la prolificità è ulteriore elemento di forza di Antonello Novellino. Una prolificità che ha trovato in Spagna maggior forza, respiro, azione ed anche amalgama produttivo e che indica “un’incomparabile felicità dell’inventare” (parafrasando Pablo Picasso). Ecco, anche questo c’è nella ricerca di questo giovane filmaker: la gioia del


formazione

IL LUNGO PERCORSO A OSTACOLI PER DIVENTARE REGISTI DI UN PRODOTTO AUDIOVISIVO

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di Samad Zarmandili

hi è un regista? Un intellettuale, un artigiano, un artista, un tecnico? È difficile fornire una definizione precisa e univoca. Cominciamo col dire che è una figura professionale recente, che si è andata delineando nel secolo scorso soprattutto con la nascita del cinema prima e della televisione poi. I francesi lo definiscono metteur en scène, ma la messa in scena è una parte, se pur fondamentale, non esaustiva di questo lavoro; quindi: il regista è il responsabile artistico e tecnico-professionale di un film, di un lavoro teatrale, di una trasmissione televisiva o radiofonica. Ma in un contesto produttivo in continua evoluzione e trasformazione quali competenze deve saper sviluppare un buon regista, e quale percorso si può intraprendere per accostarsi a questo lavoro? Non esiste, almeno in Italia, un percorso formativo ben definito per imparare questo mestiere, escludendo il Centro Sperimentale di Cinematografia, che comunque forma solo cinque, sei professionisti ogni tre anni. I tanti corsi universitari dedicati alle discipline dello spettacolo offrono per lo più una preparazione storico-critica, molto spesso svincolata da un approccio pratico, fondamentale per chi vuole lavorare nell’industria dell’audiovisivo. E il nodo della questione è proprio questo: la formazione pratica, l’aspetto quasi artigianale di questo mestiere. Si potranno studiare testi scientifici e manuali sulla regia, e si potranno seguire tutte le lezioni del mondo, ma finché non si sarà messo


piede su un set, non si potrà capire fino in fondo cosa significhi dirigere un prodotto audiovisivo. Il set è un luogo dove circa una cinquantina di persone, ognuna con degli incarichi molto precisi, producono, con grande dispendio di risorse economiche, fisiche e mentali, l’equivalente di circa due ore del prodotto che lo spettatore vedrà poi al cinema o in televisione, e il regista è colui che orchestra, sovrintende, e giudica il lavoro di tutte queste persone, dall’attore protagonista all’ultimo addetto. Anche se può apparire paradossale, allora, la prima delle operazioni che un aspirante regista deve compiere per conoscere la realtà del set è... portare i caffè agli attori! Proprio così, cominciando a fare l’assistente alla regia questo sarà sicuramente il primo compito che gli verrà affidato, e non si pensi che l’incarico in questione sia avulso dal contesto, perché in un ambiente dove molte persone si muovono in uno spazio ristretto, con dei tempi ben stabiliti, portare un caffè al momento giusto è sicuramente un buon modo per fare il proprio ingresso in un sistema organizzato, e quindi nello scintillante (ma spesso complesso) mondo dello spettacolo. Da qui si può iniziare a prepararsi per ricevere compiti di maggiore responsabilità finché, come aiuto regista, si acquisiranno le competenze per armonizzare e organizzare i tempi di lavoro di tutta la troupe, nonché per coadiuvare il lavoro del regista sul set. Una volta compiuto tale percorso, che permette di raggiungere un grado di professionalità sufficiente, si presentano in effetti nuove possibilità per chi entra nel mercato dell’audiovisivo, tanto più se si considera che in una fase come quella attuale le tecnologie rendono molto più fluido e snello il processo produttivo rispetto al passato. In particolare, le innovazioni tecnologiche hanno reso più agevole la realizzazione di tutti quei prodotti come i documentari, i reportage, i backstage (molto in voga negli ultimi anni) che prima necessitavano dell’intervento di diversi professionisti e che ora possono essere realizzati da un gruppo di persone molto più ridotto, al limite persino da una sola persona in grado di utilizzare una telecamera e un programma di montaggio: una nuova figura professionale parallela e ©Samad Zarmandilli concatenata a quella del regista si è quindi affacciata nel campo dell’audiovisivo, quella del film maker. Oltre al bagaglio tecnico, resta fondamentale nella formazione professionale di un regista l’affinamento  dell’aspetto creativo. E allora ci si dovrà confrontare con la propria capacità di trasformare una storia, o un qualsiasi tipo di idea, in immagini. A questo proposito la realizzazione di uno o più cortometraggi può essere il modo più completo per avvicinarsi alla parte

creativa di questo lavoro. Si avrà la possibilità di dirigere e seguire tutte le fasi di realizzazione di un prodotto audiovisivo narrativo, dalla scrittura all’edizione, in un tempo e con un budget limitati, senza doversi confrontare per forza con la filiera industriale, in cui l’opera deve avere un valore commerciale pari o, come è auspicabile, superiore a quanto è costata. D’altra parte, a differenza di molte altre forme creative, come la realizzazione di un libro, di un quadro, di una canzone, la realizzazione di un film è da subito strettamente legata al processo industriale. È per eccellenza la forma artistica, o più semplicemente di intrattenimento, più costosa e che necessita del maggior numero di figure professionali al suo servizio per essere portata a termine. Per “fare un film”, dopo aver trovato una buona storia, è fondamentale scrivere una “sceneggiatura di ferro”, un copione cioè che contenga tutti quegli elementi drammaturgici e descrittivi che permettano a coloro che lavoreranno al film di sapere con precisione cosa fare. Ma la cosa forse più difficile per un regista all’opera prima è trovare un produttore e dei finanziamenti. Investire in un’opera prima, su un regista sconosciuto è per il mercato un rischio molto elevato e sono molteplici gli elementi che devono coincidere perché ciò si realizzi. Solo dal momento in cui il progetto sarà stato finanziato – possono passare anni – comincerà il processo operativo, che si sviluppa attraverso una fase di preparazione, una di riprese, fino alla post-produzione. Durante tutta la lavorazione del film il compito principale e più complesso del regista è fare in modo che tutti lavorino al massimo delle proprie possibilità e che sia mantenuta in vita, almeno in parte, quella scintilla che lo aveva fatto innamorare della storia che sta raccontando. Dopo che l’opera ultimata sarà messa a disposizione del pubblico e del mercato, e magari il giorno in cui, alcuni mesi più tardi, squillerà il telefono e si sentirà dall’altra parte qualcuno che propone di dirigere un nuovo lavoro, sarà iniziata la difficile carriera di un nuovo regista.


comunicazione

PICCOLE RIFLESSIONI SU UN LIBRO CHE NON DIVENTERÀ MAI UN FILM

N

di Diego Altobelli

egli ultimi anni, in media (la fonte è un’Ansa del 08/12/2009), 8 film di successo su 20 sono stati tratti da libri di successo. Basti pensare a tutti gli Shrek, agli Harry Potter, ai Twilight, ai Codici da Vinci e ai Diavoli che vestono Prada. Anche l’Italia sembra assecondare il trend: da Melissa P. (tratto dal best-seller 100 colpi di spazzola) a Gomorra, alle Centinaia di metri sopra al cielo, è tutto un produciciò-che-leggono e vedrete che da qui a una serie di film tratti da libri di Fabio Volo il passo sarà breve. La prima, banale, conclusione a cui si può giungere è che da un libro di successo si può trarre un film di successo (con l’ovvio corollario: da una serie di libri di successo si può trarre una serie di film di successo) e questo sembrerebbe vero indipendentemente dalla possibilità di “serializzare” gli intrecci narrativi: dalle Saghe Medievali Degli Anelli alle Saghe Magico-Collegiali interconnesse da


rg

©wikimedia.o

DAVID FOSTER WALLACE

Da bambino Wallace è un ottimo studente e un promettente giocatore di tennis, proprio come uno dei protagonisti di Infinite Jest. La tecnica che elaborò per battere gli avversari è ben riportata nel suo saggio dedicato al tennis, alla trigonometria e ai tornado (in DFW, 1997) Da adolescente frequenta l’Amherst College dove si laurea in letteratura inglese e filosofia e si specializza in logica modale e matematica. La sua tesi in matematica viene premiata con un importante riconoscimento e l’altra tesi (quella in filosofia) diventa il soggetto del suo primo, incredibile, romanzo del 1987: La scopa del sistema, la storia di Lenore Beadsman, la-bella-e-giovane-redattrice-inconverse-nere alla ricerca della nonna, un’allieva di Wittgenstein, scomparsa misteriosamente da una casa di riposo (ma raccontare la trama così è come dire che Delitto e Castigo di Dostoevskij è la storia di un omicidio di una vecchia usuraia e dei sensi di colpa di uno studente spiantato). Dopo la laurea ottiene un Master in scrittura creativa e da lì lo ritroviamo romanziere, scrittore di racconti, articoli e saggi, nonché docente universitario (se volete avere un’idea di che tipo di insegnate potesse essere uno come Wallace consiglio la lettura del saggio su Autorità e uso della lingua in DFW 2005). Wallace ha scritto “solo” due romanzi ma numerosi racconti e romanzi brevi. I suoi articoli e i suoi saggi sono importanti per la tecnica e lo stile di scrittura tanto quanto le sue storie più “lunghe” (uno su tutti: Una cosa divertente   che non farò mai più, 1997, nel quale recensisce in prima persona una crociera caraibica extralusso). Un disagio profondo e una forte depressione sono, probabilmente, alla base della sua ultima, tragica scelta (12 settembre 2008): togliersi la vita. Se volete farvi veramente del male, leggete il commovente e incredibilmente sincero discorso per il conferimento delle lauree tenuto al Kenyon College nel 2005 (in Questa è l’acqua, 2008: 143-166). Da allora tutti gli Howling Fantods del mondo (il significato del neologismo è uno dei piccoli segreti che i lettori di Infinite Jest amano custodire e re-interpretare in discussioni infinite), non riescono a consolarsi e aspettano con sempre meno pazienza l’uscita di Pale King, il romanzo a cui lavorava prima della “tragica scelta”.


comunicazione forti rimandi diegetici (difficile capire Il Terzo se non si è visto Il Primo), sino alle “Sagre” Adolescenziali Amoroso-Vampiresche che sovvertono qualsiasi linearità del racconto (si vede Il Secondo anche senza Il Primo anzi, anche partendo da metà film).

si chiama Infinite Jest (1996) ed è di David Foster Wallace, “la mente migliore della sua generazione”, come ha scritto il New York Times su tutte le fascette rosse sopra i suoi romanzi.

TRATTO DA L’assunto “si può trarre un film praticamente da qualsiasi libro” sembrerebbe talmente vero che si può pensare, anche nella remota possibilità che non vi si riesca subito – Orson Welles inseguì Don Chisciotte per una vita –, si possa ottenere comunque ottimo “materiale” per altri film (Don Chisciotte di Orson Welles, Jess Franco,1992). Insomma, una volta che si riadattano monoliti come Moby Dick (J. Huston, 1956) o la Bibbia (sempre J. Huston, 1966) o addirittura l’Ulisse-di-Joyce (giuro, esiste, si chiama Bloom, 2004, S. Walsh) saremmo portati a pensare che è possibile tradurre in immagini qualsiasi opera letteraria, anche la più audace dal punto di vista stilistico. E se poi, alcuni di questi “riadattamenti” scorrono via pessimi e anonimi non fa niente perché si può sempre articolare in maniera più o meno dotta il commento di mia cugina dopo la visione di “Gnù” Moon al cinema: “il libro è meglio”. Nonostante il fallimento di alcuni adattamenti cinematografici (come non si può ricordare, perlomeno, l’imbarazzate Stephen King regista?) e, data per scontata una cultura non iconoclasta, si può sostenere che qualsiasi testo letterario recente possa essere raccontato per immagini? E per contro: esiste un libro scritto negli ultimi anni dal quale non si potrà mai trarre un film? Perché, intendiamoci, che esistano dei libri da cui non si possano trarre dei film è ovvio ma, pensateci un momento: vi viene in mente un libro di uno scrittore contemporaneo, diciamo degli ultimi 30 anni, cresciuto guardando la tv, che non possa essere trasformato in un film? E, se sì, perché mai uno non dovrebbe scrivere una storia da cui possa essere tratto un film visto che ricevere un’opzione per un romanzo da una major equivarrebbe a vincere alla lotteria? Inoltre, bisogna dirlo, da ottimi libri (qualche volta anche da libri mediocri), si traggono ottimi film e, senza andare a scomodare i riferimenti bibliografici di Kubrick, è sufficiente pensare a cosa hanno combinato i Fratelli Coen con Non è un paese per vecchi di McCarthy (2006). Secondo me sì, il libro di uno scrittore contemporaneo cresciuto con la tv da cui non si può trarre un film esiste,

© Diego Altobelli


PERCHÉ NON SI PUÒ TRARRE UN FILM DA INFINITE JEST? Nell’edizione Einaudi del 2006, IJ è un romanzo di 1281 pagine con 100 pagine di “note ed errata corrige”. Sin dal peso (1 Kg senza matite e segnalibri) se ne percepisce la mole e la complessità. Se poi si considera che le pagine sono fitte-fitte e scritte con un corpo che di solito negli altri libri si usa per i credits dietro la copertina, si può immaginare quanto tempo, dedizione e pazienza occorrono per portarne a termine la lettura. Chiariamolo subito: IJ non si consiglia, non si suggerisce, non si presta, né si regala. Questo è un libro a cui un lettore deve giungere da solo, con la libertà di abbandonarlo, rileggerlo, amarlo, ignorarlo, lasciarlo in attesa sul comodino per più di un mese, odiarlo, ma con la certezza che, comunque vada, una volta finito, potrà distinguere nettamente un “prima” e un “dopo” averlo incontrato. Non sono però né la mole né la piccolezza dei caratteri a impedirne una trasposizione cinematografica ma la scrittura e lo stile letterario. Cosa rende “libro” un libro e “film” un film? La risposta è tutta nella scrittura di Wallace, nella sua costan-

te ricerca di topoi narrativi che siano a uso esclusivo della scrittura. La sua non è una scrittura-per-immagini (destinata alle immagini) ma una scrittura-per-parole, una scrittura che segue e riproduce il crearsi rizomatico delle idee nel cervello dei personaggi, una gigantesca mappa che coincide con il territorio narrativo nel quale si sviluppano le azioni, una mappa 1:1 attraversata contemporaneamente da infinite linee narrative, universi paralleli di significati e buchi neri che si aprono, squarciano la carta e trascinano il lettore afferrandolo direttamente per lo stomaco. Una qualsiasi pagina di Wallace contiene così tanti soggetti, plot e spunti narrativi dai quali, a cascata, potrebbero fiorire decine e decine di nuove storie, che le sue opere potrebbero essere utilizzate come un compendio di tutti i topoi narrativi moderni. Il suo stile non si sviluppa in “orizzontale” seguendo i classici flussi narrativi a cui il pubblico è abituato, ma sprofonda in mille rivoli, precisazioni, risvolti inaspettati, interruzioni, interpolazioni (le note da saggio accademico inserite nelle vicende dei personaggi sono solo uno dei tanti wallacismi). Il lavoro di DFW è cosparso di una costante e continua ricerca, e tutte le storie sembrano essere scritte con l’unico scopo di rispondere alla domanda: può la narrativa essere innovativa, originale e unica rispetto agli altri mezzi di comunicazione? DFW riesce nel miracolo di coniugare lo sperimentalismo delle avanguardie con quello che fino a qualche tempo fa si chiamava “il grande pubblico”, qualunque cosa voglia ancora dire oggi dopo l’avvento del web. La sua scrittura non è costruita con fuochi pirotecnici fini a se stessi, non è cinismo e auto-ironia postmoderna compiaciuta, non è “guarda-mamma-senza-mani” (anche questo è un wallacismo) ma è sempre frutto di mille ricerche maniacali, parola dopo parola, frase dopo frase. Prendiamo il cliché postmoderno del product placement narrativo.Sin da DeLillo i personaggi vengono connotati, volontariamente, con le marche dei prodotti. Questo perché è diventato indispensabile, per definire la psicologia di un personaggio, sapere cosa indossa, che musica ascolta e con quali cereali fa colazione. La narrativa contemporanea ha preso questo topos e lo ha snaturato, svilito, reso “canone”, a tal punto da renderlo completamente inoffensivo finché non è arrivato Wallace (ovviamente non è stato l’unico), che lo ha ridefinito facendo un passo avanti e andando oltre il post-moderno (e non uso “post-post moderno” perché è troppo “anni ‘90”). Non solo i personaggi sono brandizzati ma, in IJ, lo è anche il tempo della narrazione: c’è l’Anno del Pannolone per Adulti Depend, l’Anno del Pollo Perdue Wonderchicken, ecc. e i brand – tutti i brand – sono creati ex novo. Una delle mie note preferite di IJ, per rendere l’idea, riporta l’intera filmografia del professor Incandenza, regista d’avanguardia, con tanto di dettagliate schede tecniche composte da durata, cast e trama dei film (11 pagine di filmografia).


comunicazione Lo sforzo titanico e incredibilmente affascinante di DFW, dalla Scopa del Sistema alle Brevi interviste con uomini schifosi (dove ci lascia ricostruire la trama attraverso le riposte), ai romanzi brevi di Oblio (ma attenzione: un romanzo breve di Wallace è un concentrato di contenuto che equivale a una saga di uno scrittore che pubblica in corpo 12 con interlinea doppia) è stato pertanto quello di restituire alla scrittura una forma nuova e rinnovata rispetto alla sua eterna nemesi: l’immagine, prima cinematografica e poi televisiva, e coloro che hanno letto il saggio di Bolter e Grusin stanno vedendo lampeggiare davanti ai loro occhi la scritta “remediation”. Questo il motivo per cui penso che trarre un film da Infinite Jest sia difficile (leggi impossibile). Almeno quanto scrivere una sceneggiatura sul settore “letteratura contemporanea” di Wikipedia. Ma ciò non vuol dire che DFW non abbia influenzato il linguaggio cinematografico, anzi.

COLPO DI SCENA: COSA C’ENTRANO I TENENBAUM? La tesi che sostiene un piccolo gruppo di howling fantods è questa: che Wes Anderson abbia portato sul grande schermo con The Royal Tenenbaum (2001), “pezzettini” di Infinite Jest, piccole molecole di narrazione, a volte atomi. Possiamo chiamarle “citazioni”, “riadattamenti” o “omaggi”, non è importante. Le analogie tra IJ e Royal Tenenbaum sono numerose e partono dalla “cornice narrativa”: la storia di una famiglia benestante con figli-piccoli-geni, e del loro conseguente “fallimento” in età adulta. Proseguono (le analogie) con: le dissertazioni dotte ma ironiche, le “dipendenze”, l’assenza di antagonisti classicamente intesi come “oppositori”, le elucubrazioni mentali, l’attenzione maniacale ai dettagli, il racconto come affresco che mette sullo stesso piano innumerevoli linee narrative, e non entro affatto nell’universo simbolico dei personaggi (Ri-

INFINITE STORY (OVVERO: SULL’IMPOSSIBILITÀ DI RIASSUMERE IJ) Anche se è impossibile riassumere l’intreccio di una storia di Wallace tenterò quantomeno di inquadrare alcune linee narrative principali. C’è una “cartuccia” di un film chiamata Infinite Jest (citazione shakespeariana traducibile molto liberamente con “scherzi infiniti”), ma conosciuta anche come l’Intrattenimento, che, una volta vista, fa regredire la mente dei suoi spettatori a uno stato di dipendenza catatonico. Questo Intrattenimento sta colpendo diverse persone e altre stanno indagando per scoprirne la provenienza e il contenuto. C’è un’esclusiva Accademia di tennis fondata dallo stesso autore dell’Intrattenimento, morto suicida con la testa nel microonde (il suicidio è un tema ricorrente nella narrativa wallaciana, sin dall’aneddoto filosofico del barbiere che si fa esplodere la testa nella Scopa del sistema), e gestita (l’Accademia) dall’algida moglie, un’esperta di grammatica simpatizzante di movimenti separatisti. L’Accademia è frequentata dai loro figli: Hal Incandenza, promessa del tennis e Mario, un ragazzo macrocefalo con handicap psicofisici attratto dal linguaggio cinematografico, oltre al fratello maggiore, Orin, che è un campione di football sesso-dipendente. Attorno a loro numerosi compagni di corso con problemi di dipendenza da droghe più o meno leggere, una casa di recupero dalle tossicodipendenze piena di personaggi interessanti, primo tra tutti Don Gately, un ex ladro di appartamenti. Ah, poi c’è anche un gruppo di separatisti quebechiani chiamati Gli Assassini sulle sedie a rotelle, c’è La-ragazza-più-bella-del-mondo che va in giro con il viso sempre coperto, e c’è un gioco di ruolo dalle regole complicatissime, che si svolge sui campi da tennis dell’Accademia, dal nome Eschalon e mi fermerei qui, anche se non ho raccontato che l’1% del contenuto del romanzo.


chie Tenenbaum da piccolo era una promessa del tennis, per dire). Solo per i “maniaci dei dettagli” grandi, piccole e piccolissime corrispondenze sono riportate su Austinchronicle.com [www.austinchronicle.com/gyrobase/Issue/story?oid=oid%3A84206] e Kottke. org [kottke.org/09/04/the-royal-tenenbaums-and-infinite-jest].

INFINITE GAME La tesi di questo scritto è che con l’attuale tecnologia e l’attuale grammatica audiovisiva è impossibile trarre un film da Infinite Jest, ma con ciò non si intende sostenere che altri media non possano, qui e ora, appropriarsi della struttura narrativa dell’opera e riuscire a riproporla sotto nuove forme. Negli USA stanno preparando una trilogia sulla Divina Commedia e, anche se non sono molto ottimista su tale trasposizione cinematografica, credo che Dante’s Inferno, il gioco per playstation, sia il modo migliore per restituire la complessità dell’opera, con tutti i limiti di un videogame action-adventure un po’ splatter che, per chiari motivi ermeneutici, non potrà esprimersi in endecasillabi. Va bene, Dante muscoloso con tatuaggio a croce sul petto forse è un po’ eccessivo e Beatrice come la principessa-da-salvare di Super Mario Bros potrebbe far accapponare la pelle dei “puristi” ma, se cercate “Dante’s Inferno” su YouTube capirete quanto la rappresentazione digitale degli inferi sia vicina all’originale del ‘300. Ecco, questo per dire che il gioco di Infinite Jest io lo comprerei immediatamente e passerei anche nottate insonni a pianificare strategie a Eschaton. Solo che difficilmente qualcuno lo produrrà mai. Maledizione.

© Diego Altobelli

Per approfondire Qui ci sono tutti i libri di DFW che ho letto. Ne manca uno che, casualmente, parla di “infinito”: Tutto, e di più. Storia compatta dell’infinito (Everything and More: A Compact History of Infinity, 2003). Molti ne sconsigliano la lettura per le numerose “inesattezze” di traduzione e, vista la mia scarsa conoscenza della matematica, nonché la mia pressoché nulla capacità di leggerla in inglese (la matematica), ho scelto di aspettare fiducioso una ristampa. Se vi state chiedendo quale logica seguire, il mio consiglio è: partite con La scopa del sistema e poi andate avanti. Buona lettura. ROMANZI (1987), The Broom of the System, tr. it. La scopa del sistema, Einaudi, Torino 2008. (1996), Infinite Jest, Einaudi, Torino 2006. RACCONTI E ROMANZI BREVI (1989), Westward the Course of the Empire, tr. it., Verso Occidente l’impero dirige il suo corso, Minimum Fax, Roma 2001. (1990), Girl with Curious Hair, tr. it., La ragazza con i capelli strani, Minimum Fax, Pavona (Roma) 2008. (1999), Brief Interviews with Hideous Men, tr. it., Brevi interviste con uomini schifosi, Einaudi, Torino 2000. (2004), Oblivion: Stories, tr. It., Oblio, Einaudi, Torino 2004. (2009), Questa è l’acqua, Einaudi, Torino 2009 SAGGI con M. Costello (1990), Signifying Rappers: Rap and Race In the Urban Present, tr. it. Il rap spiegato ai bianchi, Minimum Fax, Roma 2000. (1997), A Supposedly Fun Thing I’ll Never Do Again, tr. it., Una cosa divertente che non farò mai più, Minimum Fax, Roma 2001. (1997), A Supposedly Fun Thing I’ll Never Do Again, tr. it., Tennis, Tv, trigonometria, tornado (e altre cose divertenti che non farò mai più, Minimum Fax, Roma 1999. (2005), Consider the Lobster, tr. it., Considera l’aragosta, Einaudi, Torino 2006.


tecnologie e web

IL VIDEOGIOCO CREATO DAGLI UTENTI

di Francesca Comunello e Simone Mulargia

I

l tema delle culture partecipative e degli user generated content è ormai da qualche anno al centro della riflessione sul mondo digitale. Accanto agli esempi più noti (i video prodotti e caricati dagli utenti su YouTube, l’enciclopedia collaborativa Wikipedia, ecc.), si stanno sviluppando fenomeni ancora di nicchia, ma che racchiudono potenzialità assai interessanti. Un caso particolarmente significativo ci sembra rappresentato dalle sperimentazioni condotte nell’ambito dello user generated videogaming. Ovvero, dei videogiochi creati dagli utenti. In questo articolo ci concentreremo su un gioco specifico, Little Big Planet (Sony Computer Entertainment), che ci sarà utile per affrontare anche questioni di carattere più generale. Alcune caratteristiche del gioco, infatti, lo rendono particolarmente adatto per osservare i comportamenti di consumo produttivo messi in atto dagli utenti a ridosso dei contenuti multimediali. Little Big Planet (LBP) è un videogioco platform sviluppato per PlayStation 3 che consente ai giocatori di progettare autonomamente e diffondere online ulteriori livelli di gioco. Le avventure dei personaggi di LBP (chiamati Sackboy e Sackgirl) si snodano attraverso gli 8 capitoli presenti nel gioco base: I Giardini, La Savana, Il Matrimonio, Il Canyon, La Metropoli, Le Isole, I templi e La Natura Selvaggia. I progressi all’interno della storia (sono presenti circa 50 livelli),


consentono ai giocatori di acquisire dei premi chiamati “bolle premio” che andranno poi a costituire dei veri e propri tool che completeranno l’editor attraverso il quale l’utente potrà costruire i propri livelli. Attraverso la connessione al PlayStation Network gli utenti possono caricare i propri livelli e giocare a quelli creati dagli altri gamer. Tradizionalmente, per la creazione di videogiochi (livelli ulteriori, mondi) sono richieste competenze tecniche molto elevate, al punto che alcune delle prime sperimentazioni condotte in tal senso non possono certo essere ricondotte al modello di “user” generated content. Gli “user”, in quei casi, mostravano competenze specialistiche assai simili a quelle dei professionisti più esperti. A titolo di esempio, il popolare sparatutto multiplayer Counter-Strike nacque dall’impegno di due studenti universitari che poterono utilizzare il codice di Half-Life. Pubblicato inizialmente come mod gratutito (mod sta per modification e indica le modifiche apportate a un videogioco attraverso l’accesso al codice sorgente), divenne poi di proprietà della Valce Software, già titolare dei diritti del videogame da cui era stato tratto. Little Big Planet, invece, offre agli utenti un editor molto semplice da utilizzare, che consente a tutti, anche a chi ignora i fondamenti della programmazione, di realizzare i propri livelli autoprodotti. Quello che diventa decisivo, per il successo di ogni nuovo li-

©cover_garden

vello user generated, è allora la conoscenza della grammatica del gioco, oltre alla capacità di utilizzare in modo adeguato i diversi social media utili per diffondere e valorizzare il proprio livello all’interno della community dei giocatori. In termini complessivi, LBP pare funzionare come efficace esempio di cultura convergente e di culture partecipative (termini resi celebri da Henry Jenkins). Si tratta infatti di un gioco relativamente semplice, se fruito in modo tradizionale (ovvero limitandosi a giocare ai livelli proposti dai produttori). Diventa davvero interessante, per i giocatori, nel momento in cui si sperimentano nel ruolo di produttori o, almeno, si cimentano nella ricerca, nel commento, nella valutazione dei livelli generati dagli altri utenti. Little Big Planet pare essere un prodotto quasi costitutivamente cross-mediale: il fenomeno, infatti, eccede i confini del singolo ambiente per cui era inizialmente sviluppato (la PlayStation 3 e il PlayStation Network), colonizzando, attraverso un gioco di rimandi, commenti e citazioni, differenti piattaforme mediali. Ad esempio, sul web si registra un’elevata presenza di materiali correlati ai livelli di gioco prodotti dagli utenti (dai forum dedicati, in cui si sviluppano ampie discussioni in merito, a YouTube, dove sono reperibili migliaia di video che hanno come oggetto i livelli user generated, alcuni dei quali raggiungono quantità considerevoli di visualizzazioni). Inoltre, Little Big Planet sembra funzionare come un ricco


tecnologie e web

llers

bContro ©Flickr-by So

BUSINESS E GAMING. GIOCO E SOCIAL NETWORK NELLA RETE D’IMPRESA Direttore della ricerca: Mario Morcellini Coordinatori: Francesca Comunello e Paola Panarese Team di ricerca: Giuseppe Anzera, Federica Cardia, Veronica Mobilio, Simone Mulargia e Anna Totaro Metodologia utilizzata: quantitativa e qualitativa in particolare questionario di 39 domande somministrato tramite websurvey per il quale l’invito alla compilazione è stato inviato all’indirizzo mail di tutti gli iscritti italiani al PlayStation Network; approfondimento qualitativo dei principali temi emersi in fase quantitativa, con particolare enfasi sulle motivazioni e sui processi simbolici sottostanti, attraverso focus group realizzati in presenza e online; per analizzare sono stati elaborati alcuni indici aggregati che fanno riferimento, rispettivamente, ai consumi culturali degli utenti, alla familiarità/competenza tecnologica, alla propensione per un uso social delle tecnologie e all’utilizzo attivo di LBP. Risposte al questionario: oltre 12.000, di cui 8.829 complete e dunque utilizzate per le elaborazioni (3.054 utilizzatori di w ovvero il 34,6%) Caratteristiche degli intervistati: la quasi totalità dei rispondenti al questionario è di sesso maschile (97%) e si concentra nelle fasce d’età comprese tra i 20 e i 34 anni. La fascia d’età prevalente è quella dei 20-24enni (pari al 23% del campione), seguita dai 25-29enni (19%). Il 49% del campione è residente nel Nord Italia, mentre il 24% risiede nel C entro Italia e il 26% nel Mezzogiorno.


contenitore di cultura convergente. I materiali simbolici provenienti da diverse esperienze mediali (film, fumetti, altri videogiochi) entrano a far parte delle esperienze videoludiche proposte dagli utenti verso gli altri utenti. Molti dei livelli, infatti, sono costruiti intorno a un complesso set di rimandi e citazioni di altri videogames (ad esempio Metal Gear Solid, Super Mario Bros, God of War, Grand Theft Auto etc.) o di altri prodotti dell’industria culturale (Matrix, Watchman, Godzilla, Ritorno al futuro etc.)

LITTLE BIG PLANET: QUALCHE ISTANTANEA DAI RISULTATI DELLA RICERCA Ripercorriamo qui brevemente alcuni dei principali risultati emersi nell’ambito di un più ampio progetto di ricerca intitolato Business e Gaming. Gioco e Social Network nella rete d’impresa, realizzato dalla Facoltà di Scienze della Comunicazione, Sapienza Università di Roma, in collaborazione con Sony Computer Entertainment Italia. Gli utenti che abbiamo studiato, mostrano una forte inclinazione alla fruizione di contenuti user generated. Se abilitati da idonee piattaforme tecnologiche e da corrispondenti ©cover_garden livelli di literacy (competenze), essi rivelano anche un’elevata propensione alla produzione di contenuti (anche estremamente raffinati), con l’esplicita intenzione di condividerli online. Per quanto riguarda l’utilizzo attivo di LBP, emerge che esso è associato alle fasce d’età più giovani (fino a 14 anni; tra 15 e 19; tra 20 e 24) e, in modo meno netto, a soggetti che generalmente ottengono punteggi elevati sull’indice dei consumi culturali. Inoltre, tra le caratteristiche dei giocatori risulta presente una ©cover_garden diffusa familiarità con i devices tecnologici, spesso accompagnata a una propensione verso un utilizzo social oriented delle tecnologie stesse (uso del pc per accedere a sistemi di social network, chattare, scambiare mail; uso del pc e delle console per giocare online o in gruppo). È interessante notare, inoltre, che circa un quinto degli utenti LBP dichiara di aver caricato almeno una volta un livello da lui creato. Tale dato, se rapportato al totale dei

rispondenti (tutti utenti Play Station Network), pur scendendo al 7,4% risulta più significativo rispetto a quanto avviene in altri ambienti 2.0 (a partire da Wikipedia e YouTube). Per concludere, riteniamo che LBP possa essere letto come esempio specifico e peculiare di user generated content: si tratta, infatti, di un gioco che sembra essere conscio dei processi di costruzione di senso che stanno intorno al gioco. Si presenta infatti come un platform abbastanza semplice nella sua struttura iniziale, che però mette costitutivamente a sistema l’ipotesi che siano gli utenti a creare contenuto, coerentemente con le pratiche di creazione e condivisione di contenuti tipiche dei social media (tagging, rating, ecc.). I giocatori mostrano piena consapevolezza di una simile caratteristica, che viene immediatamente evocata nelle descrizioni che gli stessi danno di Little Big Planet. Nelle parole di uno dei partecipanti ai focus group: “Più che giocarci, lì lo scopo fondamentale è creare il gioco. È uno scorrimento 3D simile a Crash Bandicot, però ti danno tutti gli elementi per montare un tuo livello. […] Il gioco è veramente divertente, però più che il gioco normale, che sono dieci livelli, tu ti dovresti sbizzarrire nel creare livelli online e scaricare anche quelli che ti danno gli altri.” Augusto.





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