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Alpinismo | Spingendo il limite più in là
Chiacchierata con Massimo Demichela, classe ’54, scalatore di livello, rifugista appassionato e protagonista del Soccorso alpino piemontese
di Simone Bobbio
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«Ero scarso nell’arrampicata, ma compensavo questa carenza con una grande precisione tecnica nella chiodatura e nelle manovre di corda: è il motivo principale per cui alcuni grandi nomi dell’arrampicata mi portavano con loro». Detto da uno che ha scalato con gente del calibro di Gian Piero Motti, Giancarlo Grassi, Roberto Bonelli, Danilo Galante, Gianni Comino, Alessandro Gogna e Jacopo Merizzi, suona quantomeno strano. Ma Massimo Demichela, che si definisce vanitoso come un pavone, non è avvezzo all’autocelebrazione, anzi: il suo carattere dissacrante e burbero all’apparenza lo tiene alla larga dal trionfalismo. «Il Nuovo Mattino è stata una rivoluzione, certo. Ha aperto la mente agli scalatori dell’epoca, ha proposto nuovi orizzonti a un mondo dell’alpinismo molto conservatore e ha portato a un’esplosione tecnica dell’arrampicata. Ma vorrei anche smitizzare un po’ quegli anni e la percezione che ne trasmettiamo agli arrampicatori di oggi». Classe ’54, torinese di nascita e valsusino d’origine, Demichela ha vissuto tre vite in una, sempre con la montagna all’orizzonte. Dopo gli anni ruggenti da scalatore, è stato un appassionato rifugista prima di diventare una colonna del Soccorso alpino piemontese da cui è andato in pensione la scorsa estate.
VIVERE DI MONTAGNA
Come ti sei avvicinato alla montagna?
«È stato un compagno di liceo, Mauro Pettigiani, a trasmettermi la passione per l’arrampicata. Nel frattempo avevo anche partecipato a due campi speleo sul Marguareis con Andrea Gobetti, Piergiorgio Baldracco e Giovanni Badino. Poi è venuto il servizio di leva negli alpini in Friuli: dopo il corso di roccia in Val Rosandra ci mandavano a battere traccia per le gare di scialpinismo e ad attrezzare una falesia nella Valle del Piave. In quell’occasione conobbi Gianni Comino, con cui in seguito aprimmo una via sul Corno Stella. Ma il grande salto risale al 1981, dopo un periodo di vagabondaggio a scalare in giro per l’Italia e un’esperienza lavorativa insoddisfacente. Fu l’anno in cui presi in gestione il Rifugio Amprimo in Val di Susa, coronando il sogno di vivere in e di montagna. Contemporaneamente sono entrato nel Soccorso Alpino che, a partire dagli anni 2000, mi ha impegnato a tempo pieno come tecnico di elisoccorso e operatore di centrale».
Durante i tuoi anni giovanili, hai vissuto da protagonista un’epoca di grande fermento dell’arrampicata, anche da un punto di vista dell’assunzione del rischio. Come ti è servito, in seguito, quando sei diventato soccorritore?
«Sì, a quei tempi ci piaceva giocare con il rischio, cercando di spostare il limite sempre un po’ più in là. Io stesso mi sono fatto male più volte, per fortuna senza aver bisogno dei soccorsi, e ne pago ancora oggi le conseguenze sotto forma di acciacchi vari provocati dagli infortuni. A 67 anni, dopo 40 anni nel Soccorso alpino, mi sento di dire che eravamo decisamente dissennati. Ma le mie esperienze alpinistiche mi hanno aiutato a capire meglio le situazioni in cui intervenivo da soccorritore e le persone che andavo a recuperare, la loro sofferenza. Ho anche risolto alcune operazioni su vie che avevo aperto. L’aspetto che ho sempre faticato ad accettare è la banalità dell’incidente, spesso causata dalla fatalità».
SERVE PIÙ CULTURA DELLA MONTAGNA
Perché sei diventato soccorritore?
«Per due motivi principali. Un giorno partecipai casualmente a un intervento insieme all’amico Franco Salino, che era già nel Soccorso alpino. Avevo ammirato l’efficienza e l’efficacia con cui Franco aveva saputo gestire la situazione: ogni sua azione era guidata da competenza tecnica e lucidità, frutto di un’esperienza e una preparazione che volevo acquisire anche io. L’altro motivo era il lavoro come rifugista. Secondo me, tutti i gestori di rifugio dovrebbero anche essere soccorritori perché sono il presidio del territorio in cui si trovano, molto spesso la prima risorsa disponibile per correre in aiuto di qualcuno che ha bisogno. Infatti, ogni anno erano almeno 5 o 6 gli interventi che gestivo e risolvevo da solo, per il semplice fatto di essere vicino al luogo dell’incidente».
Come hai visto cambiare la frequentazione della montagna?
«Durante i vent’anni da rifugista ho registrato un aumento costante di persone. Ho gestito rifugi da “merenderos”, cioè meta di escursioni e passeggiate e non punto di partenza per ascensioni alpinistiche, quindi è un’osservazione sul mondo dell’escursionismo estivo e invernale. Da quando ho iniziato a fare i turni in elisoccorso e nella centrale operativa del Soccorso alpino, il mio sguardo si è allargato su tutte le attività della montagna. Verso la fine, il mio giudizio si è fatto più severo, ho la sensazione che sia cresciuto anche il numero degli sprovveduti che vanno in montagna. La diffusione delle palestre di arrampicata al chiuso ha portato a un miglioramento generalizzato della tecnica di arrampicata, però mi sono trovato spesso a soccorrere persone fisicamente molto forti, ma impreparate ad affrontare la difficoltà ambientale della montagna, l’ingaggio di una via e il rapporto con la roccia. D’altronde oggi chiunque può entrare da Decathlon, comprarsi l’attrezzatura e partire per una gita, una scalata o una ferrata. Quello che manca è la cultura della montagna».