Montagne360 | Luglio 2021

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SEGNALI DAL CLIMA a cura di Mario Vianelli

La coperta che si restringe Nelle Alpi la persistenza al suolo del manto nevoso è in netta diminuzione, con ricadute ambientali ed economiche

L

Mario Vianelli

a durata del manto nevoso è una caratteristica importante per ogni regione montana, avendo una notevole influenza sul regime idrografico, sulla vegetazione e sui comportamenti della fauna, tutti fattori intrecciati fra loro, e con molti altri, nella fitta rete di relazioni che compone la complessità ambientale. La permanenza della neve al suolo è però quanto mai variabile Ω sia da un anno all’altro, sia su una scala temporale più ampia Ω cosicché soltanto le rilevazioni strumentali riescono a delineare un quadro attendibile delle tendenze in atto. Uno studio pubblicato sulla rivista Climatic Change da un gruppo di ricercatori dell’università di Basilea e dell’Institute for Snow and Avalanche Research di Davos ha misurato la persistenza della neve nelle Alpi centrali svizzere avvalendosi dei dati di 23 stazioni di rilevamento manuale, comprendenti la serie completa dal 1958, e di quelli della rete di 15 centraline automatiche entrate in funzione nel 2000, ubicate fra i 1000 e i 2500 metri di quota. Prevedibilmente è risultato che la durata del manto nevoso è in contrazione e che è particolarmente sensibile l’anticipo della fusione primaverile: in media la neve al suolo è scomparsa 2,8 giorni prima per ogni decennio, con un deciso incremento fra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta, in linea con quanto emerso da altre ricerche sul clima alpino; la tendenza pare strettamente correlata all’aumento delle temperature e non sembra essere compensata da nevicate particolarmente abbondanti. I modelli elaborati in base ai dati ottenuti ipotizzano che entro la fine del secolo la permanenza di neve al suolo per più di

30 giorni sarà rara al di sotto dei 1600 metri, con uno spessore della neve in declino del 74%, mentre a 2500 metri di quota la neve scomparirà un mese prima di adesso. È evidente che la diminuzione del manto nevoso avrà ricadute sul turismo invernale, sulla produzione idroelettrica e anche sull’agricoltura montana, ma richiederà soprattutto un adattamento alla vegetazione e la fauna alpina. Se di spessore sufficiente, la copertura nevosa è un ottimo isolante termico in virtù dell’aria contenuta e protegge le piante e il terreno dal gelo. Una fusione precoce avrà come effetto una ripresa vegetativa anticipata che potrà esporre le piante al rischio di gelate e anche alterare la sincronizzazione fra la disponibilità di foraggio e l’attività degli erbivori. E non è chiaro l’effetto che avrà l’allungamento della stagione vegetativa Ω stimato in più di un terzo

nel corso del secolo Ω sulla fisiologia di piante estremamente specializzate, che hanno sviluppato sofisticati adattamenti per sopravvivere ai rigori degli ambienti d’alta quota. Ad esempio, studi precedenti effettuati sugli anelli di crescita del rododendro rosso (Rhododendron ferrugineum) hanno rilevato che a 2400 metri la crescita aumenta in relazione alla scomparsa precoce della neve, mentre nella fascia altitudinale fra i 1800 e i 2000 ne è penalizzata a causa delle gelo. L’altra variabile difficilmente valutabile è il ruolo della complessa topografia alpina, dove la conformazione del terreno e l’esposizione generano microclimi e microambienti differenti anche se contigui: ad esempio, negli avvallamenti la neve si deposita maggiormente e si conserva più a lungo, ed è proprio lì che troveranno rifugio le specie più sensibili ai rischi della fusione precoce. Ÿ luglio 2021 / Montagne360 / 11


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