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Nuove ascensioni | Il volto roccioso del Monte Rosa
Un grande bastione di gneiss dove stava un’unica via, tracciata nel 1959. Il 16 giugno 2022, però, Fabrizio Manoni e Andrea Lanti si sono avventurati lassù, sul “triangolo” della parete est della Cima di Jazzi (3804 m), e vi hanno lasciato un secondo notevole itinerario
Ha quasi novant’anni ma se dovesse capitarvi tra le mani, magari nella ristampa anastatica del 2008 dell’editore Alberti di Verbania, L’epopea del Monte Rosa di Eugenio Fasana resta una lettura vivamente consigliata. Un libro che si apre descrivendo subito, con prosa d’altri tempi ma godibile, «l’altare di Valpadana»: quel «colosso alpino che sopravanza, a destra e a sinistra, la cerchia di punte visibili col suo profilo a sega». Il Fasana osserva «da un punto qualunque della pianura lombarda», da cui il Monte Rosa «si presenta come il vero protagonista della cerchia alpina». Tanto che il «contadino padano, che vive all’aperto dall’alba al tramonto, ne conosce tutte le mutazioni di luce e di colore». E senza saperne il perché «gode della presenza e benignità» della «gran montagna, sede delle nevi e di chi sa quali oscure forze naturali» proprio come «l’Everest sublime» per «i pastori tibetani».
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C’ERA UNA VOLTA IL GHIACCIO
La parete est del Monte Rosa, che chiude la valle Anzasca dominando Macugnaga, vanta in effetti dimensioni himalayane, che i numeri rendono piuttosto bene: circa 2500 metri di altezza dal ghiacciaio del Belvedere alla cresta sommitale e circa 3000 di larghezza, con quattro punte – Gnifetti (4554 m), Zumstein (4563 m), Dufour (4634 m) e Nordend (4612 m) – a coronare il tutto. Una fortezza senza eguali nelle Alpi, magnifica dal Passo di Monte Moro (2868 m, raggiungibile in funivia) da cui cercare le storiche vie di salita a cominciare dal canalone Marinelli, salito il 22 luglio 1872 da Ferdinand Imseng e compagni e tra le perle della carriera alpinistica di Achille Ratti – papa Pio XI – che lo scalò il 31 luglio 1889, trentatré anni prima di salire al soglio pontificio. Alpinismo pionieristico, da «slanci lirici», a cui già il Fasana guardava con nostalgia. E si chiedeva, nel volume citato, «chi fa oramai ascensioni così dette di ghiaccio?». La considerazione successiva è piuttosto interessante: «Gli alpinisti d’oggi (siamo nel 1931, ndr), fatti astuti dagli accorgimenti della tecnica, armati di super-ramponi e di lunghe punte in duralluminio in funzione di chiodi di sicurezza, affrontano solo nelle migliori condizioni di neve le pareti di ghiaccio celebri». In questo modo «nella scorsa stagione 1930, ad esempio, vennero ripetute famose ascensioni in un tempo sorprendentemente breve, scegliendo, per mandarle ad effetto, il mese di giugno». Una candida via di salita: così appariva novant’anni fa, all’inizio dell’estate, il canalone Marinelli. Nel giugno 2022, invece, complici le scarse precipitazioni invernali e il caldo, il bianco era già un ricordo e di arrampicarsi lassù, dove il 10 giugno 1969 il leggendario Sylvain Saudan scese con gli sci, non se ne parlava proprio.
LA RINVINCITA DELLO GNEISS
Fabrizio Manoni, classe 1963, è un fuoriclasse silenzioso. Uno di quelli per cui, per misteriose ragioni, il tempo sembra non passare: forse perché la voglia di scalare è sempre la stessa, adesso come nel 1986 sulla Nordest dello Shivling (6543 m) – fantastica impresa – o come nel 1993 sulla Ovest del Makalu (8463 m) – tentativo sulla più ardua muraglia di tutti gli Ottomila. E non teme, Fabrizio, di legarsi con alpinisti molto più giovani di lui, come Tommaso Lamantia e Luca Moroni sul Mittelrück (3363 m) nel 2021 (ne abbiamo parlato in queste pagine nel dicembre scorso) o come Andrea Lanti sulla Cima di Jazzi (3804 m) qualche mese fa. E detto questo, il lettore preparato avrà capito il perché del lungo preambolo sulla Est del Monte Rosa, che oltre il Nordend si abbassa a destra (nord) allo Jägerjoch (3910 m), risale allo Jägerhorn (3970 m), prosegue con il Piccolo e il Gran Fillar (3620 e 3676 m) e si riprende – eccola – con la Cima di Jazzi.
Siamo sulla cresta di confine. E se in Svizzera, dall’altra parte, la nostra montagna non è più di un placido rilievo che forma un tutt’uno con il Findelgletscher, in Italia precipita con un complesso versante sui pascoli alti di Macugnaga. E lassù, con il vertice quotato 3428, spicca il cosiddetto “triangolo”: una parete nella parete, un appicco roccioso di 300 metri sostenuto da speroni inframezzati da gole incassate e violato il 28 e 29 giugno 1959 da Nino Bertolini, Mario Bisaccia, Pierino Jacchini, Luigi Bodio e Aldo Fontana. La loro via, piuttosto impegnativa (VI e A2 con 22 chiodi e 2 cunei), è rimasta per oltre sessant’anni l’unica della struttura, con gli alpinisti maggiormente attratti dalle vicine salite su ghiaccio della grande Est. «Una volta si andava in Valle Anzasca per quelle avventure – spiega Manoni –, per quegli itinerari che negli ultimi tempi sono diventati assai problematici, impercorribili in estate perché mai in condizioni. L’attenzione si è quindi spostata sulla roccia, su pareti non dimenticate ma comunque trascurate, che oggi stanno avendo la loro rivincita. Proprio come il “triangolo” della Jazzi con il suo gneiss di qualità, dove io e Andrea Lanti, il 16 giugno scorso, siamo riusciti ad aprire una seconda via di ampio respiro. Era una mia vecchia idea, che sono contento di aver realizzato con un giovane di Macugnaga. Nella parte bassa siamo saliti per lo sperone centrale, a sinistra del canale facile ma pericoloso della linea storica. Sopra, sul “triangolo” vero e proprio, siamo invece passati a destra di Jacchini e soci, procedendo direttamente ma sempre con logica alpinistica, senza forzature. Che vuol dire seguire le fessure e aggirare gli strapiombi. La prima sezione della nuova via, che attacca a 2800 metri ed è lunga 600, è chiaramente la meno impegnativa – sono 7 tiri con difficoltà fino al 6a – mentre la seconda è piuttosto dura: il “triangolo” è sempre verticale e compatto e non regala niente, con 2 tiri di 6c, 2 di 7a (obbligato) e 2 di 6b. Il tutto protetto a rari spit – li ammetto senza problemi ma li uso con parsimonia! – da integrare con friend fino al numero 2».
IL VOLO DEL VETERANO
A proposito di ancoraggi fissi e mobili: mentre Fabrizio stava piantando uno spit, tenendo con una mano il trapano e con l’altra un appiglio, quest’ultimo ha pensato bene di rompersi. E la conseguenza, ahimè, è stata un gran volo: «Sono cascato per una quindicina di metri – racconta Manoni –, fermato da un friend 0.3. E fortunatamente, a parte un gomito ammaccato e un dito tagliato, non mi sono fatto niente di grave. Così sono andato avanti, con il gomito gonfio – che in verità non era messo troppo bene, visto che una volta a casa non mi ha lasciato scalare per un mese – e tamponando in qualche modo il mio povero anulare. Comunque ci siamo divertiti, risolvendo sul posto i pochi dubbi sulla linea da seguire, individuata dal basso. È stato bello salire su quello gneiss rossiccio che ricorda il granito, con fessure brevi che non richiedono incastri ma anche con piccoli strapiombi e placche. Una via varia, insomma, da cui siamo scesi in doppia e dove contiamo di tornare per migliorare le soste, attualmente con un solo spit». Il veterano quindi non si ferma: le montagne cambiano ma lui no, positivamente stimolato dalla differenza di età con i suoi compagni. Li invita ad avere riguardo, perché potrebbe essere loro padre, ma poi sta davanti, scherza con loro e abbatte ogni barriera anagrafica. Un po’ come Igor Koller, l’uomo del Pesce sulla Marmolada, stupito nel vedere i suoi soci perennemente giovani e lui sempre più vecchio. «Ma che scherzo è questo?», si chiedeva. E si rispondeva da solo, pensando alla sua inestinguibile passione.