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Corrispondenze del caso



NUF #01 INVERNO 2012 INDEX 5 EDITORIALE 6 COVER 9 CORRISPONDENZE 18 INTERMEZZO 20 IL MAZZO DI CARTE 30 SKETCHBOOK

NUF è ideato/disegnato da Roberto Miata; i testi, le fotografie e i disegni sono di Roberto Miata. “ è impresso su carta Splendorgel Brilliant White da 160 g/mq delle cartiere Fedrigoni. La copertina è impressa su carta Tintoretto Gesso da 250 g/mq delle cartiere Fedrigoni. “ è piegato in formato A5, rilegato a spilla e composto con Alternate Gothic e Utopia

Tutti i diritti riservati © 2012

NUF è stato stampato nel mese di gennaio 2012, in venti copie numerate. Questa copia può essere vista unicamente online.



EDITORIALE

Roberto Miata

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attraverso queste casuali corrispondenze tra le opere, ho cercato di rappresentare un po’ la poetica di Salvatore Rizzuti, la coerenza e il percorso artistico che lo caratterizzano, la figurazione e la fisicità della materia usata in corrispondenza all’intimità dei temi trattati, ai sentimenti rappresentati. Negli scatti, un’opera risulta quasi un’ulteriore spiegazione dell’altra, come se una fosse l’anima dell’altra, il pensiero nascosto. Così, ad esempio, il “Minotauro” che dorme cela un senso di morte rappresentato da “Il Freddo”, o il gufo de “L’ultimo viaggio”, uccello notturno, che vede nell’oscurità, si contrappone all’Eva dietro di lui de “Il rifiuto del peccato originale / 2” che si copre il viso con le mani. Corrispondenze, quindi, frutto del caso, anche se forse può non sembrare. E del caso si parla, dopo l’intermezzo, nel racconto “Il mazzo di carte”: il protagonista, un vecchio maggiordomo che non lavora più, si ritrova ad avere a che fare con il caso nello stesso momento in cui prova a spiegarlo ad un compaesano. Questo racconto vorrebbe avere leggermente il sapore de “Il Gattopardo” di Tomasi di Lampedusa, anche se né il tema né lo stile ne sono degni. Infine, nella sezione Sketchbook vi sono alcuni schizzi buttati qua e là su pezzi di carta che ho conservato nel tempo. Buona visione e buona lettura, quindi, a chi ha l’occasione di avere NUF tra le mani.

EDITORIALE

NUF è un insieme di pochi fogli su cui stampo delle foto e dei racconti, riflessioni e disegni. L’intento è quello di creare un piccolo, piccolissimo progetto editoriale, un progetto direi quasi minimo ma costante, tramite il quale fare il punto della situazione su certe cose che faccio, o che vorrei fare. Potrebbe essere scambiato per qualcosa di inutile, di superfluo, addirittura di egocentrico, non fosse per la diffusione che si propone di avere: minima. Pochi fogli distribuiti a poche persone. L’intento è quello di rendere NUF una cosa pregiata, rara. Quando una cosa è rara, è raro anche che se ne parli. Solo pochi “fortunati” ne sanno qualcosa, ne possono parlare e solo a chi può dimostrarsi interessato. Sembra un’anti-ambizione e forse lo è. Quasi un voler andare dalla parte opposta rispetto a dove oggi vanno tutti i mezzi di comunicazione. Bene, non mi dispiace che sia così. Nella massa, questi fogli si perdono, non hanno completamente senso, non servono a nulla. NUF non vuole essere un prodotto diffuso, ma un prodotto minimo, sintetico, immediato. In questo primo numero, che ha per titolo “Corrispondenze del caso”, ho voluto inserire un piccolo portfolio di fotografie scattate con un iPhone 4 e l’applicazione Hipstamatic. Ritraggono sculture di Salvatore Rizzuti, docente all’Accademia di Belle Arti di Palermo, in corrispondenza fra loro. Queste corrispondenze sono del tutto casuali e le opere non sono state disposte in modo da creare relazioni. Attraverso questi scatti,

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In fondo trovo che la necessitĂ sottostĂ al caso.


CORRISPONDENZE sculture di Salvatore Rizzuti

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In primo piano Vespro siciliano, legno di frassino assemblato, 1982 e in secondo piano a sinistra La pelle, gesso, 1997

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Vespro siciliano, legno di frassino assemblato, 1982

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In primo piano Il freddo, terracotta, 2009 e in secondo piano Minotauro, terracotta 2009

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In primo piano Ultimo viaggio, terracotta, 2009 e in secondo piano a sinistra Il rifiuto del peccato originale 2, legno di tiglio assemblato, 1989

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In primo piano Mutilazione, terracotta, 2007 e in secondo piano Omaggio a Piero, terracotta, 1998

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In primo piano Il bacio, terracotta, 2006 e in secondo piano Sul trampolino, legno di frassino, 1980

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#01 - INVERNO 2012 In primo piano Vespro siciliano, legno di frassino assemblato, 1982 e in secondo piano a destra Angelo 3, terracotta, 2004

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Filemone e Bauci, terracotta, 1994

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In primo piano Il Rifiuto del peccato originale, terracotta, 1988 e in secondo piano SalomĂŠ 2, terracotta, 1989

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imì era stato tutta la vita a servizio dal barone di Calatasoli. Era ancora un bambino quando entrò per la prima volta nei saloni settecenteschi di villa Cutrera e in cinquantasette anni di devota carriera aveva visto i patrimoni di quella potente famiglia siciliana dissolversi nel nulla, o come aveva detto una volta il barone Manfredi, trasformarsi, a giustificazione del fatto che nulla si crea e nulla si distrugge. Una vita spesa a servire gli altri a tal punto che quando per l’età fu costretto a congedarsi, non sapeva che farsene della sua vita, tanto gli sembrava vuota. Non aveva moglie né figli e a sessantasei anni non aveva neanche parenti; l’unico affetto che identificava con l’amore l’aveva provato una volta, quando era ragazzo, per una contadina di Calatasoli, dove il barone Nicola, padre di Manfredi, si trasferiva nei mesi più caldi con tutta la famiglia e la servitù. Ma il ricordo di quest’amore ricambiato e però mai ufficializzato nelle vesti sacre del matrimonio, era ormai quasi un fastidio, quasi un dolore che da qualche parte dentro di lui doveva trovarsi e che gli


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seccava andare a disturbare col pensiero. Viveva quindi le sue giornate distillando con cura i momenti trascorsi in gioventù e occupandosi con non molto interesse dei piccoli fatti che gli capitavano al Circolo dei Braccianti di San Giorgio, paese nel quale era nato e nel quale fatalmente aveva deciso di attendere la morte. Il fatto che quasi si annoiasse a sentire i discorsi che gli altri vecchi come lui facevano del lavoro nei campi, delle nuove generazioni, delle fimmine di ieri e di oggi, della politica stagnante del paese, il fatto, dicevo, che quasi si annoiasse, non era stato capito dai suoi compagni di circolo. Al contrario anzi, questi gli attribuivano un’aura di distaccata saggezza e di giusto equilibrio nell’ascoltare i discorsi e nell’esprimere opinioni, a tal punto che era diventato non proprio un punto di riferimento, ma una persona che diceva cose sensate e per questo da ascoltare, visto che quando parlava non sprecava di certo il fiato. Mimì di questo se n’era accorto ma se lo spiegava con il fatto di aver maturato nel corso della sua esistenza la difficile facoltà di stare in silenzio e di parlare solo quando interpellato, dando risposte che potessero essere d’aiuto e di assistenza. Inoltre era convinto che questo ruolo glielo avessero attribuito perché aveva vissuto al fianco, anzi rispettosamente un passo indietro, del barone Manfredi, un uomo colto, scienziato e filosofo, che aveva speso la sua breve vita nei libri e che considerava la conoscenza la sola fonte di salvezza per l’uomo. Certo era che Mimì, nonostante non sapesse né leggere né scrivere, aveva subìto di riflesso il fascino della cultura tutte le volte che si trovava nello studio o in biblioteca con il barone, il quale lo rendeva partecipe delle sue riflessioni filosofiche. E sapeva che la conoscenza non era stata in grado di salvare l’uomo Cutrera e la sua famiglia dalla dissoluzione del patrimonio. Lui invece, in qualche modo, da quella dissoluzione si salvò. Il barone Nicola, buonanima, aveva lasciato scritto nel testamento che a Mimì fosse garantito un vitalizio dal momento in cui avrebbe lasciato la famiglia Cutrera. A questo si deve aggiungere la piccolissima casa di San Giorgio nella quale viveva, unico lascito del padre, e un appezzamento a ulivi altrettanto insignificante che il barone Manfredi gli aveva donato e che lui aveva dato in gestione a confinanti in cambio dell’olio bastevole per sé, olio che chiamava affettuosamente del barone. In fondo la sua vecchiaia era tranquilla e questo lui lo sapeva, alle volte

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si chiedeva dove si sarebbe trovato se il caso avesse voluto diversamente. Se lo chiedeva pure quella mattina che accadde il fatto, una cosa curiosa che lo fece stranire non poco. Come tutte le mattine si trovava al circolo. Di solito si metteva fuori ma d’estate era troppo caldo e preferiva sedersi a un tavolo dentro per farsi il solitario con le carte. Si sa, il solitario è una questione di fortuna, più che altro la sua riuscita dipende da come sono immischiate le carte. Di fortuna e di attenzione anche. Mimì le immischiava e poi le posava sul tavolo a seconda dell’ordine previsto dalle regole. Di solitari ne conosceva tanti, ma gliene piacevano due o tre in particolare. Andava avanti a farli tutta la mattina, interrompendosi di tanto in tanto per scambiare due parole con chi veniva a trovarlo al tavolo. Quella mattina al circolo c’erano pochi vecchi per via dello scirocco: chi leggeva il Giornale di Sicilia (o faceva finta perché analfabeta), chi giocava a briscola, chi sedeva sulle sedie accanto al muro sporco e parlava alternando poche battute a lunghe pause di silenzio, forse temendo di esaurire subito il discorso. C’era quel giorno anche Enzo Calatrasi, un tempo bracciante, che appoggiato all’entrata fumava una sigaretta e da un po’ fissava Mimì. Lui non se ne era accorto e continuava a girare le carte, a spostarle nel tavolo, ad immischiarle. Finita la sigaretta, Enzo Calatrasi si alzò la giacca che era appoggiata sulle spalle con un movimento improvviso di queste che tradiva un certo nervosismo. Era in effetti abbastanza teso quando si decise ad avvicinarsi a Mimì. – Salutiamo, Mimì – disse a voce alta. Nessuno sembrava averlo sentito, perché nessuno lo guardò, tranne Mimì. – Salutiamo – rispose lui – che si dice? Si segga – e smise di immischiare le carte. Con fare imbranato Enzo Calatrasi prese la sedia difronte a Mimì, la trascinò rumorosamente e ci si sedette. – Ma che si deve dire, oggi c’è d’impazzire, questo scirocco ci fa diventare tutti scimuniti. Mimì sorrise leggermente sotto i baffi bianchi e riprese a mischiare le carte. Calatrasi si accese un’altra sigaretta e aspirò profondamente. Poi una nube di fumo denso si alzò sopra le carte già disposte per il solitario. Il vecchio bracciante stava fissando una donna di denari sul tavolo quando riprese a parlare:


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– Me la sa spiegare una cosa, lei? – Quando avevano bisogno di un suo consiglio, tutti ci iniziavano così, quasi lo volessero interrogare su una cosa che loro già sapevano, per vedere se rispondeva correttamente, ma che invece non sapevano affatto e proprio per questo si rivolgevano a lui. – Mi dica, mi dica tutto – fece schiacciando un poco l’occhio sinistro e sfoderando dal mazzo un fante di coppe. – Sono giorni che ci penso e non mi do pace – e si fece preoccupato più di quanto non fosse. – Forse penserà che sono pazzo, o forse no; lei è stato a fianco di gente importante che ha fatto sempre discorsi importanti e sono sicuro che lo riterrà lo stesso importante il mio discorso. Mimì non si scompose, ma iniziò a provare un certo fastidio; da sotto la visiera della sua coppola continuava ad osservare le carte disposte sul tavolo cercando di non sbagliare a sistemarle. Avrebbe voluto dire che dei discorsi importanti della gente importante lui non aveva capito molto, che si ricordava di quando u baruni gli accennava di un certo Platone e di un certo Cartesio o leggeva ad alta voce testi di chimica pieni di termini incomprensibili; o ancora di quando ragionava, Manfredi Cutrera, intorno a calcoli matematici, appuntati su un quaderno, fatti di lettere e non di numeri e del fatto che per lui, per Mimì, lettere, numeri e altri segni scritti erano tutti la stessa cosa. Tutti tranne i segni sulle carte da gioco. Ma si limitò a rassicurare il suo interlocutore e, spostando un quattro di mazze su un cinque dello stesso seme, lo esortò: – Suvvia, importante o no, me ne parli, magari si libera di questo pensiero e non si sa mai che non sia tutto qui il problema. – Esatto – fece il bracciante come se avesse trovato il termine giusto. – È proprio un problema il mio. Ed è questo: – calò un silenzio improvviso, Calatrasi prese fiato e sbatté mollemente l’indice tozzo e calloso nell’aria – lei lo sa quante stelle ci sono nel cielo? Mimì tenne con assoluta disinvoltura l’assetto da maggiordomo che ormai gli cadeva addosso meglio di tante divise tagliate su misura, ma nonostante ciò iniziò a pensare che il povero Calatrasi forse non ci stava più con la testa. Sfoderò dal mazzo un sette di denari e sorrise beffardo, perché i dischi d’oro disegnati sulla carta gli ricordavano una costellazione e provò velocemente a unire quei dischi con una linea immaginaria quasi a formare un disegno simile a quelli che si trovavano nei libri di astronomia del barone e che dovevano rappresentare animali, o divinità antiche, o altro

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che ora non ricordava. Rispose, guardando il bracciante negli occhi, che non lo sapeva e rilanciò a sua volta la domanda: – Quante ce ne sono? – Assai – fece Calatrasi – assai – e il suo indice adesso si trovava in compagnia di tutte le altre dita, mentre roteava la mano aperta in segno di abbondanza. – Certo, assai sono – fece eco quasi subito Mimì, come a dimostrare che sapeva la risposta e intanto pensava che sicuramente il povero Calatrasi era uscito pazzo – E con questo? – Beh, quello che non mi spiego è come si fa a decidere quale stella deve cadere e quale no tra tutte. – E chi è che lo decide? – U signuri. A questo punto Mimì avrebbe voluto sbuffare, ma si limitò a riconsiderare la sua posizione sulla sedia spostando il suo peso ora sulla gamba sinistra, ora su quella destra. Poi si fermò un momento dal girare una carta che aveva già preso dal mazzo e disse: – Mi pare, signor Calatrasi, che anche senza immischiare il buon Dio, la sua domanda sia abbastanza complicata. – E chi allora le fa cadere e perché? – il vecchio Calatrasi aveva lo sguardo di chi, avendo manifestato un pensiero, si sente per questo preso in giro da colui che con una semplice frase riesce ad instillare nel primo il dubbio per quello che ha detto. Mimì posò sul tavolo un tre di spade facendo schioccare un angolo della carta dopo averlo leggermente piegato verso su con l’indice. Stava per rispondere quando Calatrasi riprese con tono di scuse. – Forse mi sono spiegato male. Il mio voleva essere solo un esempio. In verità più che delle stelle, mi chiedo perché c’è un destino e a questo punto mi chiedo chi lo stabilisce. Ma così, tanto per parlare sa? Vede, io penso di essere stato sfortunato, sono nato, ora ci vuole, sotto una cattiva stella. Saprà lei, i guai che ho avuto da quando sono caduto da cavallo e saprà che questo mi ha costretto ad abbandonare i campi prima del tempo tirando a campare a stento. Già combattere con la terra è un castigo di Dio perché lavorare la terra è terribile, non c’è speranza. E poi c’è stato il furto nel magazzino di tutto il raccolto, quell’anno che passarono i soldati. In tutto il paese l’unico furto lo subii io. E mio figlio, perso in guerra quello


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stesso anno. Insomma, ho patito, Mimì, per questa sorte avversa e non sono riuscito mai a capire perché proprio a me è toccata ‘sta vita – parlava tranquillo, il tono di voce lasciava intuire che sì quegli eventi gli erano pesati, ma ormai li accettava come parte del suo vissuto, anche se non ne capiva il senso. Stava per riprendere fiato quando Mimì gli disse: – È il caso. A governare queste cose ci pensa il caso. Lei non ci crederà, ma un giorno feci un discorso simile al barone Manfredi e mi rispose in un modo che, forse non comprenderò mai bene, ma che non posso scordare, anche perché raramente mi presi con lui il lusso di poter fare un discorso. Non che non fosse ben disposto, ma sa, noi che non abbiamo studiato… e comunque, quello che mi disse fu pressappoco questo: le coincidenze non dimostrano che esiste un destino, al contrario, sono la prova che tutto è casuale. Calatrasi stette a sentire con rispettoso silenzio le parole del barone di Calatasoli che giungevano misteriose sino a lui, attraverso la voce di Mimì. Le sentiva, ma non le capiva, così il suo ossequiante silenzio si spalmò sul suo viso facendogli aggrottare la fronte, stringere gli occhi e sporgere leggermente la mascella in fuori. Mimì comprese e cercò di spiegarsi meglio. Continuò a sfoderare dal mazzo le carte e a posarle al loro posto sul tavolo in modo quasi meccanico e riprese a parlare. – Il fatto che questi eventi siano capitati tutti a lei, non significa certo che era destinato. È stato solo un caso, potevano non capitare e sono capitati, poteva essere che accadeva solo un fatto spiacevole e gli altri no. Non è stato deciso prima, è successo per caso. Vede, anche il fatto che un giorno feci una domanda al barone simile alla sua e che ora posso risponderle come lui rispose a me, è una coincidenza, ma non significa che c’era un destino, che così doveva essere per forza. È successo per caso. Questa parola, caso, si posò sul tavolo come fosse una carta da gioco e si portò con sé un bel po’ di silenzio. Enzo Calatrasi avrebbe voluto accendersi una sigaretta ma non osò, perché sentiva che forse qualcosa stava capendo e non voleva perdere quella sensazione movendosi in quell’istante; rimase dunque a guardare il vuoto. Mimì, invece, posò sul tavolo l’ultima carta che gli restava in mano, un sette di spade. Il solitario non era riuscito. Alla rinfusa le avvicinò fra di loro accatastandole e con cura ricompose il mazzo. Ricominciò a mescolare. Le carte si sovrapponevano fra le mani di continuo e, più che spingerle per compattarle, esse cadevano sole affiancandosi le une alle altre per

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poi distaccarsi nuovamente a caso, a seconda di quante ne prendevano le dita. In questo continuo movimento in su e in giù sembrava che le carte ballassero uno di quei balli dove le coppie si scambiano di continuo, balli a cui aveva assistito tante volte durante la sua carriera di servo nelle serate a festa dei ricchi saloni di casa Cutrera. Cambiò solitario. Mise quattro carte sul tavolo disposte a croce con una quinta al centro e cominciò a sovrapporre a queste le carte dei rispettivi semi ma del valore inferiore. Quelle che non poteva sovrapporre le posava poco distante una sopra l’altra; quando capitava un asso, lo posizionava in uno dei quattro angoli della croce e sopra metteva in ordine crescente le carte che prendeva o dalla croce, o dal mazzetto sul tavolo, o dal mazzo che aveva in mano. Calatrasi a quel punto si mosse, si girò un momento a pensare e guardò attraverso la porta d’ingresso del circolo: vide la strada deserta e assolata; l’attraversò con gli occhi fino alle due case di fronte, in mezzo alle quali il vicolo dei Santi andava scendendo, e andando con lo sguardo oltre il vicolo vide lontano la valle. E poi il mare, poco più scuro del pallido cielo. In effetti per lui era troppo difficile da capire. Cos’era, si chiedeva, questo caso che ora tutto disordinava. Il destino ci ha sempre governato, questo destino voluto da Dio, il cui senso e scopo rimane un mistero. Si rigirò verso Mimì che stava raccogliendo di nuovo le carte dal tavolo. I suoi occhi pazienti lasciavano capire che un altro solitario non era riuscito. Le immischiò nuovamente e, ancora una volta, nelle sue mani da un mazzo diventavano due e poi uno e due ancora e uno finalmente. Quando smise di confonderle, le compattò per bene a formare un parallelepipedo di carte ben composto. Alzò la testa e guardò dolcemente, quasi sorridendo, con occhi stretti da morbide rughe, il povero Enzo Calatrasi che sembrava, come si dice, più confuso che persuaso. – Che ci vuole fare? Il caso comanda – gli disse e mise a terra la prima carta, un asso di denari. Lo posizionò per bene sul tavolo e prese dal mazzo la seconda carta, un due di denari che mise sopra l’asso. E poi la terza che era un tre anch’esso di denari. Lo mise sopra al due e gli parve strano, pensò che se fosse stato così facile il solitario, non ci avrebbe provato piacere. Continuò a girare le carte del mazzo ad una ad una e scoprì che al tre di denari seguiva il quattro dello stesso seme e poi il cinque, il sei e il sette, poi la donna e il fante tutti di denari, e infine il re che faceva bella mostra


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del suo piatto d’oro. Lo posò in cima al mucchietto e a questo punto si meravigliò; abbassò gli angoli della bocca e fece una smorfia dalla quale sembrava dovesse uscire una emme, che invece rimaneva dietro le labbra serrate, e guardò Calatrasi ora lontano dai suoi pensieri che gli sorrideva con complicità e gli diceva: – Che fortuna, dieci carte tutte in ordine, e quando mai è successo? Ma Mimì lo sentì appena perché aveva ripreso a girare le carte dal mazzo, sempre una alla volta. Ed uscì l’asso di coppe e poi il due e il tre e tutte le carte di coppe in successione fino al re. Continuò con lentezza a girare e questa volta uscirono le carte di spade, sempre dall’asso al re una appresso all’altra a salire. E quando arrivò a uscire l’asso di bastoni, si chiese seriamente come avesse fatto a mescolare le carte fino a metterle in ordine. Ma appena pensò questo ebbe paura di avere parlato troppo presto, perché mancavano ancora nove carte da girare e potevano anche essere in disordine. Guardò nuovamente il bracciante che aveva in faccia la sua stessa espressione incredula e poi di nuovo quelle nove carte che gli restavano in mano, una mano rugosa e adesso tremante. Con l’altra prese la carta in cima e la girò: un due di bastoni. Lo posò sull’asso e prese la successiva, sperando, non sapeva bene perché, che fosse il tre. Calatrasi si lasciò scappare un mmii’ alla vista dei tre bastoni legati tra loro disegnati sulla carta che Mimì posò sulle altre. La mano di lui esitò un secondo prima di pescare dalla cima del mazzo il quattro e posarlo sul tavolo. E il cinque venne appresso. Il sei di mazze era la prima delle cinque carte che gli restavano in mano e la posò poco prima di scoprire il sette. Mancavano tre carte all’appello, tre carte che a questo punto dovevano essere in questa successione: donna, fante e re. Mimì appoggiò la schiena alla sedia e si girò a guardare gli altri dentro il circolo. C’erano meno persone di quando era entrato, ormai sarà stata ora di pranzo. Nessuno comunque sembrava essersi accorto di quello che stava accadendo al tavolo di Mimì. Il maggiordomo prese fiato e guardò il bracciante fisso negli occhi; questi, invece, i suoi non li spostava dalle ultime tre carte nelle mani di Mimì. Fu così che Mimì volle scoprire la terzultima carta, guardando gli occhi di Calatrasi per vederci stupore se la figura fosse stata di donna, o delusione se il disegno avesse rappresentato un uomo a cavallo o con una corona. Girò la carta e fu come girare una manopola con scritto sopra la parola

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“stupore” e collegata direttamente al povero Calatrasi, il quale spalancò gli occhi e con un leggero movimento delle labbra esclamò: – Fimmina è. Mimì si guardò la donna di mazze vestita di giallo che aveva in mano e tremante la pose sopra il mucchio ordinato di carte sul tavolo. Nell’altra mano ne rimanevano due, il dorso di entrambe ben visibile perché senza pensarci, forse per nervosismo, le muoveva sfregandole una contro l’altra, tenendole tra il pollice e le altre dita. Enzo Calatrasi a quel punto fermò quel movimento posando la sua mano sul polso di Mimì – Aspetti che mi accendo una sigaretta – disse e già con l’altra mano in tasca cercava il pacchetto. Mimì aspettò. L’accendino si accese. Il tabacco nella sigaretta bruciò. Il fumo sul tavolo si distese. Era giunto il momento di chiudere quello stranissimo solitario. Sapeva bene Mimì che girare la penultima carta equivaleva a girarle tutte e due insieme. La prese dunque e la voltò su se stessa. La guardò un tempo infinito e non associò subito la figura al suo significato. Nella carta vedeva raffigurato Enzo Calatrasi vestito di blu con un cappello giallo e questa volta non era il Calatrasi caduto da cavallo e pieno di disgrazie, ma era un Calatrasi allegro che stava seduto in sella ad un puledro grigio e, mostrando le spalle, girava la testa sorridendo a chi lo guardava. Era il nove di mazze la penultima carta. E l’ultima non poteva che essere il re. Quando finalmente Mimì capì che le carte che aveva mischiato si erano casualmente ordinate nelle sue mani in modo crescente dall’asso al re e nella corretta successione dei semi - denari, coppe, spade e bastoni - il mazzo si ritrovava composto nelle sue quaranta carte sul tavolo una sopra l’altra e con il re di mazze in bella vista su tutte. Sbalordito, per quanto un maggiordomo della sua età e della sua esperienza poteva esserlo, Mimì lasciò andare nuovamente la schiena indietro sulla sedia e guardò il suo interlocutore. Enzo Calatrasi aveva tra le dita un piccolo cilindro stretto e lungo di cenere che doveva ricordare una sigaretta e quando, con una meraviglia quasi da fesso in volto, se ne accorse, era ormai troppo tardi per farla cadere nel posacenere, perché il piccolo cilindro cadde sbriciolandosi sui suoi pantaloni. Questo lo fece riprendere dallo stupore e, ripreso il colorito in viso, si volse verso Mimì: – Ma come è possibile? Tutte le carte in ordine. Mai vista una cosa simile! Mimì sorrise e poi rise di gusto con un ghigno leggermente acuto, tipico


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di certe persone anziane. Rise, contagiato, anche il bracciante e qualcuno nella sala li guardò e accennò un sorriso, non capendo cosa ci fosse da ridere. Poi Mimì rispose: – Ha visto?, caro Calatrasi, il caso. Ancora una volta. Sembra ci debba essere un destino in questa incredibile coincidenza e invece immischiando alla rinfusa le carte, queste si sono ordinate casualmente in mano. Era proprio questo che cercavo di spiegarle. E anche questa coincidenza, sa?, di ciò che mi ha chiesto e di quello che ci è capitato ora sotto gli occhi, è solo un caso. – Sorrideva umilmente Mimì e bonariamente, come faceva un tempo col piccolo Manfredi che giocava e come fece qualche anno prima col Manfredi in punto di morte, così giovane ancora per andarsene, strappato alla famiglia dalla tubercolosi. Poi con un colpetto di spalle si aggiustò la giacca che vi stava poggiata senza aver infilato le maniche e si alzò. Guardò ancora una volta il mazzo di carte sul tavolo e poi salutò Calatrasi – Salutiamo – e si avviò verso l’uscita. Il bracciante rimase a bocca aperta, lo vide uscire dalla porta e fermarsi un attimo sull’uscio. Lo vide salutare un passante con un cenno e poi immergersi nella luce di mezzo dì fino a sparire.

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DEFINIZIONI

CASO s. m. [lat. casum] - 1. Avvenimento imprevisto, circostanza fortuita. 2. Causa misteriosa e remota degli avvenimenti umani. 3. Fatto, situazione, vicenda, spec. dolorosa o problematica o che ha vasta risonanza. 4. Stato patologico considerato come argomento di indagine o di controllo | Ogni manifestazione di una malattia spec. infettiva o epidemica; ogni individuo che ne è affetto | Ogni individuo sottoposto ad indagini cliniche e persona o cosa fuori dal normale. 5. Ipotesi, possibilità. 6. Opportunità. 7. Caduta. 8. Aspetto assunto da una parola flessa, in relazione ad una determinata funzione grammaticale.

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s. f. [da corrispondente] - 1. Atto, modo, effetto del corrispondere | Relazione di uguaglianza, somiglianza, proporzione, simmetria, equivalenza e sim. 2. Scambio di lettere, spec. regolare e prolungato, epistolario, carteggio | Insieme di lettere e sim. ricevute o da spedire. 3. Scritto o servizio di un corrispondente o inviato speciale. 4. Contraccambio, reciprocità, spec. riferito a sentimenti affettuosi e sim. 5. Relazione, protezione autorevole | Rete di traffici, di contatti, commerciali, politici e sim. 6. Relazioni di somiglianza fra elementi di lingue diverse. 7. Applicazione | Trasformazione | Relazione fra due spazi topologici. 8. Coincidenza fra due mezzi di trasporto. 9. Legame tra un pianeta e il mondo animale, vegetale, minerale.




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