Fuori Fuoco

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R A S S E G N A

G I O V A N I

R E G I S T I

SSEGNA DEI GIOVANI REGISTI ITALIANI

I TA L I A N I


GIOVANI REGISTI ITALIANI

IL CINEMA DI PAOLO SORRENTINO

FARE CORTO

In collaborazione con la cattedra di Storia e Critica del Cinema

Martedì 9 dicembre

Giovedì 11 dicembre

9-10-11-12 dicembre

Ore 18.00 FILM

Ore 19.30 I CORTOMETRAGGI DI

Ore 10.30 – 18.30

Ore 20.00 FILM

Ore 20.00 FILM

Jimmy della collina Riparo

Ore 22.00 FILM

Le ferie di Licu

Paolo Sorrentino L’uomo in più Ore 22.00 FILM

Le conseguenze dell’amore

Mercoledì 10 dicembre

Venerdì 12 dicembre

Ore 18.00 INCONTRO

Ore 18.00 FILM

“Cinema e distribuzione”

Partecipano: Gianluca Arcopinto, produttore Pablo s.r.l. - Simone Bachini, produttore Arancia Film s.r.l. - Carmine Amoroso, regista Cover Boy Roberto Barzanti, Presidente delle “Giornate degli autori - Mostra del Cinema di Venezia”.

Ore 20.00 FILM

Cover Boy

L’amico di famiglia Ore 20.00 INCONTRO CON

Paolo Sorrentino Ore 21.30 FILM

Il Divo

Rassegna “Fare corto”, proiezione a ciclo continuo di cortometraggi. Cortometraggi in proiezione:

Guinea Pig Bulli si nasce La strada chiusa Ombre Ma di cosa?? Eternal skin Lei non sa chi sono io Incisioni No End

Ore 22.00 FILM

Apnea

Facoltà di Lettere e Filosofia Sala Cinema

Cinema Nuovo Pendola

Sala della Biblioteca Santa Maria della Scala




Il cinema è la più giovane delle arti e mostra ogni anno di non voler invecchiare. È paradossale ma ogni volta che vediamo un film per la seconda volta notiamo i segni del tempo, spesso lo rendono migliore, altre volte datato, questo dipende inesorabilmente dalla potenza visiva e dalla struttura dell’opera. Ma il cinema in quanto tale non invecchia, per fortuna è anche un’industria, che ad ogni opera realizzata si rinnova, ritrova nuovi temi, nuovi volti e nuove tecniche e nei casi più significativi nuovi linguaggi. Lo stesso discorso vale per i tanti festival cinematografici che costellano il nostro Paese. I migliori sanno vestirsi di nuovo. Sanno anche rischiare e abbandonare i facili successi. È il caso di Visionaria che ogni anno sperimenta strade nuove, nuovi percorsi, diversificando le produzioni e gli eventi anche andando fuori da Siena ma senza mai abbandonare del tutto la no-

stra città, dove ha cominciato nel 1991 all’interno delle iniziative di una nostra Circoscrizione e grazie all’aiuto dell’amministrazione. Dalla Circoscrizione 2 Visionaria è arrivata fino al mondo virtuale di Second Life passando tra esperienze molto eterogenee, ma adesso, parlando di rinnovamento del linguaggio cinematografico, propone un nuovo evento per Siena: una rassegna di giovani registi italiani, una riflessione sul fare cinema indipendente. E questa è una sfida grande per un festival che fino ad oggi si è sempre occupato di cortometraggi, piccoli film con regole, tempi e linguaggi diversi dal lungometraggio. Ma è anche vero che è tempo di crescere e portare “al centro del fuoco”, per citare il titolo della rassegna, nuovi autori che faranno il futuro del nostro cinema. Con questa nuova veste di Visionaria poi possiamo davvero dire che si sancisce una diver-

sificazione tra i Festival senesi, sostenuti e promossi dall’amministrazione, con Fuori Fuoco si parla di lungometraggi dando spazio ai giovani registi italiani, ma soprattutto viene affrontato uno dei temi più scottanti del nostro cinema: la produzione e la distribuzione. Un tema fondamentale per comprendere le dinamiche di un film: la distribuzione resta l’argomento meno indagato del cinema ma è quello che può fare la fortuna o meno di un film. Senza contare poi le nuove forme di produzione che negli ultimi anni sono state sperimentate: autoproduzione, zero budget, cooperazione della troupe, sono molti davvero i metodi della produzione indipendente, facilitati dalla rivoluzione del digitale. Di tutto questo si parlerà durante il festival di Visionaria con autori, produttori, distributori e come sempre si farà con competenza e soprattutto con passione. Maurizio Cenni Sindaco di Siena


Fin dal 1991 Visionaria si è proposta, prima a livello locale e poi, con un più ampio respiro, come una realtà legata alla promozione ed alla diffusione delle Arti Visive con una particolare attenzione alle nuove tecnologie applicate all’immagine ed all’immaginario. Oltre al Festival Video Internazionale, evento di punta dell’Associazione abbiamo sempre contemporaneamente cercato di proporre anche altre realtà culturali spesso trascurate dai “media” ufficiali, ma di sicuro interesse sociale e culturale. La conferenza sui diritti umani dal titolo “O Direito e os Sinos” del Premio Nobel José Saramago, nostro ospite nel 1999, la rassegna fotografica Nati nei Bordelli - Born

into Brothels che, prima in Europa, anticipava di parecchi mesi l’assegnazione del Premio Oscar al documentario omonimo di Zana Briski, Il progetto di scrittura creativa applicata alla sceneggiatura, “Abitazioni”, che ha portato alla realizzazione di 4 cortometraggi realizzati interamente a Siena ed alla produzione del relativo dvd distribuito sotto licenza Creative Commons, fino ad essere il primo festival video realizzato contemporaneamente sia su Second Life che dal vivo. Fuori Fuoco, rassegna sui giovani registi italiani, fa propria la filosofia “Visionaria” che affianca da sempre ad una proposta culturale di indiscutibile livello, momenti di

aggregazione e di confronto tra pubblico ed addetti ai lavori, cercando di inserirsi a volte anche prepotentemente in quel rapporto di passività che troppo spesso viene a crearsi tra spettatore e spettacolo. Ringrazio a nome di Visionaria tutti coloro, e sono tanti, che in questi anni hanno creduto in noi e ci hanno supportato, condividendo le gioie e gli inevitabili dolori, ringrazio inoltre l’Amministrazione Comunale, l’Assessorato alla Cultura e la Mediateca Regionale Toscana per il supporto e la partnership che ci hanno accompagnati in questo bellissimo viaggio, che ci auguriamo essere, anche dopo quasi una generazione soltanto all’inizio. Roberto Dini Presidente Visionaria




GIOVANI REGISTI ITALIANI A cura dell’Associazione Culturale Europa 51


Verso quale orizzonte? Tecniche e possibilità distributive del cinema indipendente Tecnologia e rivoluzioni.

La storia del cinema è una storia di rivoluzioni, non semplici evoluzioni. La natura stessa del cinema, del resto, non è altro che una mescolanza dal potenziale altamente rivoluzionario: fotografia e vaudeville, teatro di strada e lanterne magiche, cabaret e magia circense, sono tutti elementi che, compressi in un unico contenitore ed espressi nella stessa formula, hanno contribuito a segnare i primi passi del cinema delle origini e – cosa più importante – a marcarne alcune caratteristiche fondanti. E proprio questo, il mix tra approccio al reale e illusione, tra costruzione dell’immagine e registrazione, tra intrattenimento e registrazione, in fin dei conti è il tratto peculiare del cinema in sé: certo più dell’arbitrario dualismo che ha visto contrapposti, loro malgrado, esponenti di fazioni avverse, i fratelli Lumiere e George Melies. Anche guardandola dal punto di vista dello sviluppo della tecnica, la componente innovatrice appare una costante. Nato (anche) come evoluzione della tecnica fotografica, il cinema è cresciuto seguendo un sentiero fatto di grandi salti in avanti. Una volta smarcatosi dall’inamovibilità del ritratto la strada percorsa è stata contrassegnata da immaginari (quanto sostanziali) punti di non ritorno: l’introduzione del sonoro, la comparsa del colore e via discorrendo di passaggio in passaggio, hanno contribuito a innovare e a riscrivere assiomi importanti del fare (e del fruire) cinema. Ad ogni modo, si tratta sempre di rivoluzioni che in breve tempo hanno contribuito a superare, o comunque ridefinire, i linguaggi precedenti. Anche oggi ci troviamo nel solco di un processo analogo. Il digitale sta portando una nuova rivoluzione nell’arte delle immagini in movimento, ma oltre alla rivoluzione tecnica e relativa ai linguaggi espressivi, cosa comunque

innegabile, il digitale è una delle principali cause dell’espandersi delle produzioni indipendenti: il costo relativamente basso di produzione permette infatti un approccio più diretto al cinema e quindi, teoricamente, maggior numero di produzioni. Ma oltre alla relativa economicità del digitale, oggi, le produzioni indipendenti sono molte: film anche di alto valore ma che spesso sono destinati all’invisibilità. E quindi chiediamoci cosa fare per attuare una rivoluzione anche nella distribuzione, quali sono i canali, oltre ai festival, per dare visibilità a questo tipo di produzione. Ci sono poi i casi altamente significativi di film autoprodotti, con la partecipazione della troupe agli eventuali proventi, film che spesso restano nel cono d’ombra creato dalle grandi produzioni, ma che in alcuni casi riescono ad emergere a diventare casi e da casi diventano veri e propri campioni, mettendo d’accordo critica e pubblico. In quest’ottica è bene analizzare i primi passi di molti registi italiani di queste ultime stagioni. Il Documentario.

Ma la produzione indipendente ha un altro grande pregio in questi anni: quello di aver riportato l’attenzione sul documentario, riaprendo le porte dei cinema anche a questo genere. Infatti la possibilità di produzioni a zero budget hanno aperto un nuovo canale distributivo, la vendita direttamente in supporto digitale e quindi maggiore capillarizzazione. Prima di questa “rivoluzione”, in Italia non avevamo una cultura del documentario: il cinedocumentario è stato sostituito dal paradigma cinema-realtà, tematica tipica del neorealismo e da questo monopolizzata in virtù del proprio successo. Altra considerazione da fare è che, grazie alle gabbie all’interno delle quali il documentario inteso come produzione prevalentemente istituzionale è stato confinato (gabbie soprattutto politiche, che conferiscono al prodotto una funzione prevalentemente didattica e paternalistica), gli hanno fatto assumere la forma di un’entità rigida,

poco invitante alla fruizione e percepito come un obbligo. Queste “gabbie” son quelle che hanno garantito di vivere (o di sopravvivere) a questo tipo di documentario a scapito di un investimento nella qualità. E non a caso le espressioni più alte del documentario italiano sono proprio quelle scaturite dallo sguardo sulle realtà sub-subalterne o subculturali come ad esempio i lavori di De Seta e Silvano Agosti. Oggi il digitale comporta una nuova prospettiva, va a essere una rivoluzione ancor maggiore che per la fiction, perché gli permette di implementare quell’approccio più diretto all’oggetto che sta poi alla base dell’idea stessa di cinema documentaristico. Si implementa, in altre parole, l’approccio “leggero”, fluido, in parte simile al discorso portato avanti dai seguaci del cinema “verité” degli anni sessanta. Ma dal punto di vista della distribuzione il documentario è ancora un prodotto fortemente periferico, rispetto al circuito classico del cinema, ma forse proprio questa sua condizione, unita alle potenzialità sempre in evoluzione della frontiera digitale, può essere sfruttata come opportunità. Qui i nuovi modi di fare cinema (cioè: organizzare, mettere insieme, finanziare) possono trovare più facilmente una via di realizzazione, anche in ragione di un rapporto più diretto con un serie di attori considerati normalmente a-cinematografici come enti locali, associazioni et similia, che possono giocare un ruolo importante nella messa in opera di un prodotto documentaristico. Fino alla maggiore facilità della realizzazione di consorzi (o comunque reti e circuiti) tra autori e/o produttori indipendenti, incontro questo cui il cinema documentaristico è forse più portato (probabilmente ancora in ragione della sua marginalità). Ma è questa strada, segnata dai documentaristi, che sta seguendo anche il cinema di fiction dove i costi sono stati abbattuti dal digitale. Questo non significa che prima di questa evoluzione tecnologica non esistesse il cinema indipendente, a basso


costo, fuori dalle grandi produzioni. Ci sono autori che hanno segnato il nostro cinema attraverso i loro film prodotti in modo marginale rispetto all’industria cinematografica e si badi bene film di fiction ed in pellicola: penso a Gian Vittorio Baldi, Corso Salani, Paolo Benvenuti, per fare soltanto i primi nomi che mi vengono in mente. Prolifici autori che su ogni film hanno investito il loro tempo personalmente per trovare finanziamenti. Da citare anche il caso di Florestano Vancini, un regista che faceva parte a pieno titolo della produzione “canonica” che per realizzare il suo “Le stagioni del nostro amore” nel 1965 ha impegnato la propria casa, riscattandola soltanto dopo la realizzazione di uno “spaghetti western” che potremmo definire alimentare. La differenza però tra il passato pre-digitale e l’oggi quindi non sta soltanto nella produzione (che come abbiamo visto si riusciuva a fare egregiamente anche prima fuori dall’industria), ma anche e soprattutto nella distribuzione. Il panorama italiano odierno è molto composito, molti autori nascono indipendenti e riescono ad emergere verso il cinema tradizionale, dove la differenza è fatta soprattutto dalla distribuzione e da un pubblico più ampio. Il discrimine in fondo al cinema è sempre lo stesso da quando è nato: essere visti o non visti. Nuove tecniche produttive e distributive.

L’esperienza cinematografica è ormai irrimediabilmente trasformata: televisione, home video, cellulari, dispositivi portatili, web, una pluralità di schermi che riflettono il profondo cambiamento apportato dalle tecnologie digitali. Quando poi parliamo di internet, inglobiamo in un unico termine una pluralità di possibilità: siti web, IP Tv, download, peer to peer, social network, You Tube e altri luoghi virtuali di file sharing. Non si tratta solamente di una moltiplicazione delle piattaforme per la diffusione dei contenuti, ma di un nuovo modo di concepire il cinema, dove il film è parte di un processo di coinvolgimento più ampio dello spettatore, che inizia e finisce oltre il confine temporale della durata della pellicola. La

sala cinematografica perde la sua centralità in favore di forme di visione magari meno pregiate, ma preferibili perché disponibili in qualunque momento, luogo, potenzialmente reiterabili all’infinito. Questi nuovi canali, alternativi alle sale cinematografiche e al DVD, e quindi fuori dal soffocante controllo delle major cinematografiche, possono costituire una valida chance per diffondere film indipendenti, a patto che si comprendano le logiche che guidano il web 2.0 e le pratiche di fruizione dei nuovi spettatori. Non basta infatti rendere disponibile – gratis o a pagamento – un prodotto cinematografico on line, ma deve essere adeguatamente promosso e diffuso attraverso strategie virali, per sfruttare il tam tam mediatico e creare risonanza intorno al film o cortometraggio. Serve perciò un sito internet dedicato, un passaparola digitale attraverso la rete di cineblogger, contenuti extra e qualche evento virtuale. Nel corso degli ultimi dieci anni, abbiamo assistito a numerosi successi inaspettati, che hanno trovato in internet la propria forza per entrare nell’immaginario del grande pubblico. Basti pensare a The Blair Witch Project, film low budget di Myrick e Sancez, che deve il proprio successo in sala ai contenuti diffusi in rete ed alla costruzione verosimile della storia della strega di Blair; oppure The Man from Earth di Jerome Bixby, film immesso nel circuito illegale del filesharing, che ha poi trovato spazio nei canali tradizionali grazie alle recensioni positive degli utenti su Amazon.com ed Internet Movie Database. Ma abbiamo anche casi italiani, H2Odio di Infascelli, che ha distribuito il film prima in edicola e poi su web attraverso il sito, o Teosofia di Basadonne e Vaccari, mediometraggio scaricabile gratuitamente on line dalla pagina di myspace.com. In Italia, proprio per dare spazio a quei film che difficilmente usciranno in sala, sono nati alcuni siti dedicati al cinema indipendente citiamo www.cinemadistribuzione.com e www.neche.it – che offrono un database di titoli introvabili attraverso i canali tradizionali. Si tentano percorsi alternativi, dove

la proiezione in sala non è più l’inizio ma diventa il traguardo finale della distribuzione cinematografica. In questa ottica, un ruolo chiave è rivestito anche dalla televisione. Con l’arrivo delle piattaforme satellitari e del digitale terrestre, e la conseguente proliferazione dei canali televisivi, assistiamo ad una crescente domanda di contenuti, che trovano nel cinema un potente alleato. Questo anche in conseguenza della legge 122/1998, che stabilisce l’obbligo per le televisioni nazionali di destinare parte delle proprie risorse alla produzione e all’acquisto di opere cinematografiche italiane ed europee. Inoltre pay per view e IpTv, che basano la propria forza sulla dimensione della library, sono particolarmente predisposte all’acquisto di film non hollywoodiani, dati i prezzi minore dell’acquisizione dei diritti. Quale futuro?

C’è poi un altro fenomeno da monitorare, ancora in stato embrionale, ma in crescita progressiva: le produzioni che partono “dal basso”, che coinvolgono lo spettatore nella co-produzione di film o documentari, anche quando questi devono ancora essere realizzati. Al destinatario viene chiesto di contribuire economicamente al budget di produzione pre-acquistando una copia del dvd; chiaramente, per ogni progetto collettivo è richiesto un numero minimo di persone, per coprire le spese di produzione. Il primo esempio di questo cinema 2.0 è il film A Swarm of Angels di Matt Hanson, ancora in itinere, che vede i tanti finanziatori discutere delle scelte produttive (cast, location, ecc..) nel blog dedicato. In Italia è stata creata l’associazione “SelfCinema-Adopt-a-movie” che si propone di distribuire film indipendenti, spingendo gli spettatori ad «adottarli». Il suo proposito si è realizzato nella distribuzione in sala della pellicola L’estate di mio fratello di Pietro Reggiani, avvenuta solamente dopo aver raggiunto la cifra necessaria alla copertura dei costi. Simona Biancalana Francesco Corsi Giuseppe Gori Savellini


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JIMMY DELLA COLLINA

regia: Enrico Pau; sceneggiatura: Antonia Iaccarino e Enrico Pau, tratto dall’omonimo romanzo di Massimo Carlotto; fotografia: Gian Enrico Bianchi; montaggio: Johannes Hiroshi Nakajima; scenografia: Marianna Sciveres; musica: Sikitikis; interpreti: Nicola Adamo (Jimmy), Valentina Carnelutti (Claudia) Francesco Origo (Don Ettore), Giovanni Carroni (padre di Jimmy), Federico Carta (Simone); produzione: Guido Servino e Giuseppe Corso per X Film / Fondazione OPE; distribuzione: Aranciafilm; durata: 90’; origine: Italia, 2006.

Jimmy vive con la famiglia in una città industriale della Sardegna, circondata dalle ciminiere di una raffineria pertrolchimica. La vita scorre apparentemente senza slanci emotivi e prospettive, scarsa comunicazione con la famiglia operaia, scarse motivazioni al dialogo col padre e col fratello. Jimmy vuole una vita diversa a costo di abbandonare la famiglia, gli amici, la ragazza, a costo dell’illegalità.

Dopo una rapina organizzata e finita male gli si aprono le porte del carcere minorile, che lo inghiottono in un abisso di angoscia e violenza. Ma Jimmy ha già pronto un altro piano: un centro di recupero chiamato la Collina, dove Jimmy conosce don Ettore e soprattutto Claudia, ma il loro affetto, disponibilità o amore non basteranno a tenere il ragazzo lontano dai guai.


Un film nero, buio, pieno di foschia. Non lascia molte speranze la vita di Jimmy, non si vede la luce in fondo alla sua storia fatta di bassi slanci, di sopravvivenza di un ultimo tra gli ultimi. Anche il cancello aperto della comunità di recupero “La Collina” non è sufficiente a Jimmy per sentirsi libero. Per lui libertà significa qualcos’altro, significa differenziarsi rispetto alla famiglia, differenziarsi dalla vita del padre, del fratello, di Claudia, differenziarsi anche dalla vita dei piccoli criminali di provincia. Per Jimmy la libertà è abbandonare i panorami invasi dalle ciminiere, i fumi neri, abbandonare la lotta per sentirsi il più forte ed essere se stesso. Per Jimmy la libertà è il Messico. Una libertà che non troverà mai, perché Jimmy non è adatto per la malavita e non è adatto a vivere i propri sogni, è inquieto. Tra ferire ed essere ferito preferisce sempre ferire, e lo fa con la fidanzata, con la famiglia, con Claudia e con chiunque abbia creduto in lui. Per questo il film è cupo, inquietante e senza via d’uscita, perché mette in mostra un personaggio negativo, un protagonista intimamente cattivo ed egoista per cui si in alcuni casi si parteggia in altri si prova compassione. Ottimo film di Enrico Pau, il suo secondo lungometraggio tratto da un romanzo di Massimo Carlotto, capace di descrivere una Sardegna industriale ma scarna di prospettive. Nel complesso la parte migliore del film è proprio la regia, cauta, che segue la storia senza strafare ma costruendo atmosfere perfette, spesso da noir, creando una tensione fisica ed emotiva che nel finale resta, volutamente, inespressa, imprigionata dentro allo spettatore ed a Jimmy che anziché riscatto troverà soltanto autodistruzione.

Sala Cinema Facoltà di Lettere e Filosofia Martedì 9 Dicembre Ore 18.00

Enrico Pau

Enrico Pau è nato a Cagliari nel 1956 dove insegna italiano nelle scuole superiori. E’ stato attore di teatro e regista di spettacoli e operine musicali come il “Brutto Anattroccolo” musicato. Da molto tempo collabora inoltre come critico teatrale per la pagina culturale de “La Nuova Sardegna”. Nel 1996 il suo cortometraggio d’esordio “La Volpe e L’Ape” vince a Bologna e Siena e va in concorso ad Angers e Clermont Ferrand. Nel 2001 fa il suo esordio nel lungometraggio con “Pesi Leggeri” che partecipa ai festival di Montpellier, Bellaria, Viareggio e a “Bimbi Belli”, la rassegna di Nanni Moretti, oltre ad avere una lunga programmazione su Tele + e Sky.

Ingresso Gratuito


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RIPARO

regia: Marco Simon Puccioni; sceneggiatura: Marco S. Puccioni e Monica Rametta in collaborazione con Heidrun Schleef; fotografia: Tarek Ben Abdallah; montaggio: Roberto Missiroli; scenografia: Emita Frigato; musica: Cristiano Fracaro e Dario Arcidiacono; interpreti: Antonia Liskova (Mara), Maria de Medeiros (Anna) Mounir Ouadi (Anis), Vitaliano Trevisan (Salvio), Gisella Burinato (Laura); produzione: Mario Mazzarotto e Francesca Van Der Staay e Frederic Podetti per Interfilm (Roma) e Adesif (Parigi)/Rai Cinema; distribuzione: Movimento Film; durata: 100’; origine: Italia/Francia, 2008.

Anna e Mara, fidanzate e conviventi, al ritorno da una vacanza in Tunisia, scoprono che un giovane immigrato clandestino, Anais, si è infilato nella loro automobile e ne ha approfittato per superare la frontiera. Dal rapporto col ragazzo, che come corpo estraneo si inserisce nella loro relazione, emergono difficoltà ed incomprensioni della coppia e l’impossibilità

di gestire la vita a tre: Anna deve sopportare la fredda disapprovazione della madre, Mara il disprezzo del padre morente e Anis tenta di adattarsi alla sua nuova vita mentre prova a capire come sia possibile che due donne senza marito dormano nello stesso letto. Un evento tragico e luttuoso rompe l’equilibrio interno e sociale della “famiglia”.


Nessun riparo può essere tale per sempre. Sembra questo il messaggio che i protagonisti del film arrivano a comprendere. Non è un riparo eterno il rapporto tra le due ragazze, non è un riparo il lavoro per il ragazzo, non è un riparo la quiete della vita di coppia e non lo sarà a lungo neppure quel campo di grano turco del finale. Puccioni alterna con buona capacità diversi registri narrativi nel film e perfino diversi linguaggio cinematografici per descrivere la vita delle protagoniste: si passa velocemente dal road movie con macchina a mano ad un accenno di cinema psicanalitico per descrivere il rapporto tra le ragazze. Non si parla di una coppia omosessuale, soprattutto si parla di una coppia di diversa estrazione sociale, è la classe quello che contrappone le ragazze in società, non l’amore lesbico. E Mara lo capisce bene, lo capisce forse tardi, forse il soggetto vira troppo verso il melò con la morte del padre, con funerale pagato da Anna. Ma è la forza di questa sottotraccia a tenere in piedi il film, a tenere alto il livello di tensione emotiva. Forse per questo una delle scene meno riuscite è la seduzione del ragazzo nella sala da biliardo, forse perché fin troppo esplicita rispetto al resto. Un grande protagonista della pellicola poi è il contesto, l’ambiente circostante. È innegabile che il distretto industriale in cui tutto il film è ambientato influisce sui caratteri, sui rapporti e sulla storia dei singoli protagonisti: ambiente familiare per Anna, ambiente di lavoro per Mara, ambiente ostile che si scopre poco a poco per Anis. L’importanza che il regista dà all’ambiente è ribadita in ogni scena: le figure non sono mai al centro dell’immagine, sono rari i primi piani (per questo quei pochi sono ancora più emozionanti), si tratta sempre di piccole figure all’interno di un ambiente desolato e desolante.

Sala Cinema Facoltà di Lettere e Filosofia Martedì 9 Dicembre

Marco Simon Puccioni

Laureato in architettura a Roma e in regia cinematografica a Los Angeles (CalArts), insegna regia all’Accademia di Belle Arti di Perugia. Ha realizzato diversi corti e documentari che testimoniano un forte interesse per un cinema legato a tematiche sociali e all’elaborazione di un linguaggio cinematografico personale incentrato su argomenti esistenziali e affettivi. Tra i suoi lavori il documentario Partigiani assieme a Guido Chiesa, Davide Ferrario, Antonio Leotti e Daniele Vicari. Il suo primo lungometraggio Quello che cerchi, uscito in Italia nel 2002 con l’appoggio del Nuovo Sacher di Nanni Moretti, è stato accolto dalla stampa italiana e straniera come uno dei migliori esordi recenti.

Ore 20.00

Ingresso Gratuito


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LE FERIE DI LICU

regia: Vittorio Moroni; sceneggiatura: Vittorio Moroni, Marco Piccarreda; fotografia: Vittorio Moroni, Marco Piccarreda, Habib Rahman; montaggio: Marco Piccarreda; musica: Mario Mariani; interpreti: Md Moazzem Hossain (Licu), Fancy Khanam (Fancy), Giulia di Quilio (Giulia); produzione: 50N/Rai Cinema; distribuzione: 01 distribution; durata: 93’; origine: Italia, 2006.

Licu è nato in Bangladesh, è musulmano, ha ventisette anni e abita a Roma in una casa in affitto con altri immigrati e sembra molto integrato. Lo conosciamo nella sua quotidianità, lavora come magazziniere in un laboratorio tessile la mattina, cassiere in un negozio alimentare la sera. Riceve da sua madre la foto di una ragazza di diciotto anni; si chiama Fancy ed è la sposa che la sua famiglia

ha scelto per lui. Licu ottiene solo quattro settimane di ferie non pagate per andare in Bangladesh e organizzare il matrimonio con la bella Fancy, che non conosce. Complicazioni tra le famiglie, alluvioni, ma alla fine i due si sposano e la ragazza si trasferisce a Roma, dove la vita è forse più semplice ma integrarsi è difficile, anche per Licu, con il suo nuovo ruolo di marito.


Difficile definire in una parola il genere a cui fa riferimento “Le ferie di Licu”, il secondo film di Moroni si allontana in modo definitivo dal film di fiction che sembrava comunque ben maneggiata nella prima pellicola. Siamo più dalle parti del documentario o della docufiction, ma con una poetica tipicamente cinematografica. Probabilmente un riferimento costante durante le riprese è stato Roberto Rossellini, per come è stato tratteggiato con realismo il mondo degli immigrati romani, la nuova classe proletaria della capitale con i loro rapporti, lavori, relazioni e tentativi anche felici di integrazione. Ed è ancora a Rossellini ed alla sua “India” che pensiamo nelle sequenze bengalesi del film, dove la società è si è evoluta e resa moderna ma la forza della natura è sempre più forte dell’uomo. Quindi non stiamo parlando di un semplice documentario, è più l’ideale neorealista di seguire una giornata nella vita di un uomo, solo che in questo caso il soggetto non sta vivendo una situazione quotidiana per il mondo occidentale, dove un matrimonio combinato per lettera è lontano dalla realtà, ma la regia ci rende tutto leggero e fluido e poetico, comprese alcune bellissime sequenze di Fancy rinchiusa, prigioniera volontaria, nel piccolo appartamento romano, che osserva non vista come un paradigma del cinema stesso, la vita reale fuori della finestra. Il film è un passo fondamentale nella carriera di Moroni come autore e come produttore indipendente, si tratta di una riconciliazione tra il cinema in senso più ampio ed il documentario, girato con una troupe leggera, basso budget ma occhi ed estetica assolutamente cinematografica, così come il valore finale non è soltanto la difficoltà di integrazione ma anche e soprattutto la difficoltà di crescere, di diventare adulti, una tematica, questa, universale.

Sala Cinema Facoltà di Lettere e Filosofia Martedì 9 Dicembre Ore 22.00

Vittorio Moroni

Vittorio Moroni ha esordito nel lungometraggio con Tu devi essere il lupo, nomination ai David di Donatello e ai Nastri d’argento 2005. Ha vinto il Premio Sacher d’argento al Sacher Festival di Nanni Moretti con il cortometraggio Eccesso di zelo e realizzato vari corti e documentari. Ha vinto due volte il Premio Solinas per il miglior soggetto originale con Il sentiero del gatto e Una rivoluzione.

Ingresso Gratuito


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COVER BOY

regia: Carmine Amoroso; sceneggiatura: Carmine Amoroso, Filippo Ascione; fotografia: Paolo Ferrari; montaggio: Luca Manes; scenografia: Biagio Fersini; musica: Marco Falagiani e Okapi; interpreti: Eduard Gabia (Ioan), Luca Lionello (Michele), Chiara Caselli (Laura), Francesco Dominedo (Mimmo), Gabriel Spahiou (Florin), Luciana Littizzetto (padrona di casa); produzione: Augusto Allegra, Giuliana Gamba e Arturo Paglia per Filand Srl/Paco Cinematografica; distribuzione: Istituto Luce; durata: 97’; origine: Italia, 2006.

Cover-boy (film low-budget girato con un nuovissimo formato digitale HDV) racconta l’amicizia fra Ioan (Eduard Gabia) e Michele (Luca Lionello) l’uno rumeno e l’altro italiano. I due sono accomunità dalla condizione precaria delle proprie vite: uno clandestino fuggito dal proprio paese e con un dolore nel propri passato e l’altro con un lavoro a tre mesi.

Le due vite precarie si avvicinano ai margini della società e si separano infine per scoprire il valore reale dell’amicizia in un mondo feroce che sfrutta il lavoro di Michele e l’immagine di Ioan che scambia per amore un sentimento utilitaristico della fotografa di moda. Ma forse è troppo tardi.


Senza dubbio instabili i protagonisti del bel film di Carmine Amoroso: instabili nel lavoro, instabili in famiglia, instabili nella società ed infine instabili nei sentimenti e nella necessità di dare sfogo a ciò che portano dentro, che sia rabbia o amore. Sono instabili Ioan e Michele, ma lo sono ancora di più la padrona di casa attrice fallita o la fotografa di guerra che senza rimorsi o pudori si ricicla nella moda e nella spettacolarizzazione a tutti i costi. Il film parla di precariato, i protagonisti cono due giovani impossibilitati a vivere una vita normale a causa di un contratto a tre mesi o di un documento di identità mancante. E nel paese in cui non si può definire vita quella di un giovane trentenne solo perché non ha un lavoro rispettabile c’è bisogno di una rivoluzione, o anche solo di speranza. È interessante il fatto che Ioan, il clandestino in fuga dal suo paese, abbia un passato tremendo alle spalle (la morte del padre durante la rivoluzione per un colpo di cecchino) mentre Michele, l’italiano cresciuto in provincia venuto a Roma per studiare come molti suoi coetanei, non ha un passato, non ci sono rapporti con la famiglia rimasta in Abruzzo. E nello stesso modo è Ioan a progettare il futuro, a proporre una via d’uscita. Il film sembra dire che l’Italia ha tolto dignità a quelli come Michele togliendo loro non solo un lavoro sicuro, ma la possibilità di vivere il futuro, sradicandoli dal proprio passato, dividendoli dalle famiglie, allontandoli ai margini della società. Resta nell’ombra il rapporto tra i due ragazzi teso tra amicizia e amore ma è questa tensione che fa bene al film, che connota perfettamente l’angoscia di Michele, un bravissimo Luca Lionello, un angoscia che si traduce in tragedia in finale fuori scena, quando la cinepresa attua un ultimo pudore: non ha avuto remore a mostrare il dolore di una vita precaria, di una generazione confusa che acco-

muna un extracomunitario rumeno ad un precario di Lanciano (perché come dice Michele “quando non hai il culo parato sei straniero in patria”), perché è una condizione sociale comune a molti, ma come uscire da questa angoscia è una scelta personale, un atto intimo che per tutto il film è rimasto nascosto. “Cover Boy” è un film a basso budget girato con tecnologia digitale con telecamere Hdv che hanno abbattuto i costi di produzione, permettendo un incipit da kolossal, una ricostruzione vibrante e reale a colori vividi della rivoluzione rumena del 1989. Ad un inizio del genere fa da contraltare un finale opposto, semplice, intimo, straziante nel nulla di una chiatta sul Danubio, dove un movimento di macchina (uno dei più belli degli ultimi anni) va ad escludere l’immagine di Michele dall’orizzonte di Ioan, ritornato a casa deluso dalla mercificazione che la società dello spettacolo gli ha proposto.

Carmine Amoroso Carmine Amoroso è nato in Abruzzo nel 1963. Agli inizi degli anni ’80 si è trasferito a Roma dove si è laureato in Lettere. Ha scritto e diretto varie inchieste giornalistiche. E’ autore della sceneggiatura Parenti Serpenti regia di Mario Monicelli, film acclamato da pubblico e critica, e dell’omonima pièce teatrale ( da otto anni in scena ininterrottamente in Italia e in Spagna ). Nel 1996 ha scritto e diretto Come mi vuoi.

Sala Cinema Facoltà di Lettere e Filosofia Mercoledì 10 Dicembre Ore 20.00

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RASSEGNA GIOVANI REGISTI ITALIANI

APNEA

regia: Roberto Dordit; sceneggiatura: Roberto Dordit con la collaborazione di Serena Brugnolo; fotografia: Tommaso Borgstrom; montaggio: Luciana Pandolfelli; scenografia: Beatrice Scarpato; musica: Paolo Buonvino e Pasquale Laino; interpreti: Claudio Santamaria (Paolo), Elio De Capitani (Giordano), Chiara (Michela Noonan), Fabrizia Sacchi (Monica), Giuseppe Battiston (Renato), Daniele Mauro (Leo); produzione: Nicola Giuliano e Francesca Cima per Indigo Film/ Rai Cinema; distribuzione: Istituto Luce; durata: 85’; origine: Italia, 2004.

Paolo è un giornalista sportivo di un piccolo giornale di provincia, ha un passato da schermidore ed un amico, Franz di cui crede di conoscere tutto. La morte dell’amico lo metterà di fronte alla realtà

che farà vacillare la fiducia in Franz ed in ciò che ha costruito. Anche la sua morte sembra nascondere qualche segreto che Paolo scoprirà assieme al piccolo Leo, affetto da autismo.


Il film di Dordit mette molta carne al fuoco ed il regista dimostra di avere le capacità necessarie per portare fino in fondo tutta la storia e di mantenere alta la tensione. Non tutto va per il verso giusto, ma la seconda parte del film è senza dubbio la migliore, sia per l’impianto narrativo che per il ritmo che innesca. La pellicola vorrebbe mostrare la provincia del nord est, i ricchi industriali ed i loro capannoni, vorrebbe creare un noir di denuncia e mostrare personaggi freddi e spietati accanto al candore dei bambini o degli idealisti. Queste intenzioni non sono del tutto tradite, alcuni personaggi sono però solo abbozzati o semplificati nel loro risvolto psicologico, ma è grazie alla parte finale del film che tutto diventa credibile ed efficace, compresa la denuncia sociale verso l’uso dei solventi nocivi o la miopia violenta del capitalismo selvaggio basato sullo sfruttamento del lavoro nero. Molto ben caratterizzato il personaggio di Paolo, un giovane giornalista idealista che si ritrova a parlare di sport in una piccola redazione locale. Ma troppo macchiettistici i personaggi di contorno, dal caporedattore alla figlia scapestrata e confusa dell’industrialotto. Meno scontato invece il personaggio del piccolo Leo, il cui candore nasconde segreti e pulsioni molto più grandi di lui, che solo l’affetto e l’attenzione possono salvare.

Sala Cinema Facoltà di Lettere e Filosofia Mercoledì 10 Dicembre Ore 22.00

Roberto Dordit

Roberto Dordit è nato a Venezia e attualmente vive a Bologna. In Francia dal 1997 al 1999 lavora per story board e decoupage tecnico di spot pubblicitari e documentari. Realizza vari documentari e due cortometraggi di fiction: Nella polvere e Zoo con il quale vince il Pardo di Domani al Quarantottesimo Festival Internazinale del Film di Locarno. Apnea è il suo primo lungometraggio.

Ingresso Gratuito


Visti, stravisti e mai visti Manuali d’amore, promesse d’amore, amori ritrovati, amori su misura, amori assenti, amori che non bastano, amori che ritornano, primi amori, ore senza l’amore, arrivederci amore ciao, ma l’amore… sì, quale amore, l’amour caché, voce del verbo amore, amore bugie e calcetto, benvenuti in amore, parlami d’amore, scusa ma ti chiamo amore…: già i titoli, limitandoci solo alle pellicole prodotte nelle ultime stagioni, definiscono la grande rotta – governata e contrassegnata dai criteri della popolarità, dall’affermazione di una sorta di epica dell’intimo, dall’ispessimento del tema della famiglia, dalle dinamiche interne al microcosmo domestico, da alcuni elementi agevolmente identificabili tesi a rispecchiare e interpretare il reale – su cui in modo sempre più deciso procede il cinema italiano. Il quale, ormai da oltre un cinquantennio, naviga sul grande oceano della commedia – dai confini estetici e concettuali labili e indefiniti – fluttuante e cangiante, soggetto alle alte e alle basse maree storiche, interessato da progressivi assestamenti e nutrito dai numerosi affluenti che in esso, confondendosi e dissolvendosi, si riversano. È un cinema che trita e miscela generi e sottogeneri, pratiche autoriali e tentativi amatoriali, strategie ponderate e tecniche improvvisate, argomenti e toni diversi, generando un cocktail stilistico-espressivo-tematico in cui solo saltuariamente si indovinano gli ingredienti e le dosi giuste. È un cinema che talvolta appare innervato da un galvanizzante spirito di iniziativa,

da un incoraggiante ricambio di maestranze, da una produzione quantitativamente rilevante; ma che è, in pari tempo, dominato ancora da una caotica articolazione, da una inquietante inafferrabilità, dalla difficoltà di consolidamento delle singole poetiche, dalla pigrizia o incapacità di aprire e percorrere inesplorate strade tematiche e stilistiche, da avvilenti criteri distributivi, da una situazione di invedibilità e invisibilità, da una “leggerezza” che talvolta diviene davvero “insostenibile”. Un cinema talvolta contrassegnato dal “nuovo che avanza” - che ha portato a piacevoli, quando non sorprendenti, scoperte - ma anche, talaltra, dal vecchio che regredisce, dall’appartatezza e dal sommerso che occultano l’emerso e l’emergente, dalla percorrenza di strade già battute e setacciate; un cinema di genere che talvolta rasenta il degenere, che non riesce a sollevarsi oltre “tre metri sopra il cielo”, tra “albekiare” e “notti prima degli esami”, “mattini che hanno l’oro in bocca” e “notti senza fine”, o che perlustra pedissequamente i territori della cronaca o delle problematiche sociali, senza però quella capacità di trasporre la realtà su piani diversi, poetici o metaforici. Eppure, a ben vedere, in tale vasto mare della consuetudine, negli ultimi anni si è posta in viaggio anche una schiera di giovani autori decisi a intraprendere rotte differenti, andando, per citare il titolo di un film di Stefano Reali, “in barca a vela contromano”, rivelandosi capaci, da un lato, di misurarsi con i maestri del passato e con quelli attivi consacrati, i loro fratelli “maggiori”, e, dall’altro, di individuare

nuove strade espressive al livello di linguaggio, strutture narrative, tensione civile: di aprire cioè squarci – in un involucro fatto di reiterazione di modelli consolidati, di uso e abuso del comico, di manieristica poeticità, di “piacevolezza” e di fievole garbo – o quantomeno degli spiragli, delle aperture, degli sguardi non stereotipati verso insondati o non sufficientemente scrutati orizzonti tematici. È il caso, anzitutto, di Paolo Sorrentino, autore di punta della nuova generazione, la cui opera – finora articolata in quattro lungometraggi rappresentanti altrettanti tasselli di un discorso poetico coerente e personalissimo – pullula di segni, motivi, atmosfere e allusioni ricorrenti che ne determinano l’unità, appunto, poetica, la continuità stilistica, l’identità autoriale. È il caso di Alessandro Angelini, capace di sviscerare, in L’aria salata, evitando la retorica e gli eccessi di pathos, le tensioni di una realtà complessa, non solo quella familiare (il difficile e inconciliabile rapporto tra padre e figlio), ma anche quella di un mondo chiuso e rimosso quale è il carcere. È il caso – per fare un altro esempio di cinema d’autore che ha avuto con il pubblico un rapporto non solo teorico – di Andrea Molaioli, ex aiuto regista di Moretti, abile nello scandagliare, in La ragazza del lago, adottando il registro del giallo-noir come lente di ingrandimento, la cupa normalità della provincia italiana e i suoi orrori. È il caso, ancora, dei giovani autori di cui questa rassegna ha voluto presentare le loro opere, esempi di una pratica cinematografica “altra e diversa”, capaci di accordare il loro impegno


contenutistico a soluzioni formali e connotazioni stilistiche innovative, espressione di un fenomeno – quello degli esordi o delle opere seconde – che nelle ultime stagioni ha assunto anche in termini meramente quantitativi una grande rilevanza e fervore. Sempre più folta, infatti, appare la schiera di autori giovani (o anche meno giovani, come Gianni Di Gregorio, il quale ha recentemente e felicemente esordito, cinquantottenne, con Pranzo di ferragosto) che approdano al lungometraggio con alle spalle una sufficiente esperienza professionale, maturata nel video, nel documentario, nel cinema corto, i quali, nel loro approccio visivo con la realtà colta da angolazioni che tendono a sfuggire al cinema ufficiale (con il privilegiamento delle periferie, urbane o geografiche, delle inquietudini giovanili, di un tessuto sociale rarefatto), si affidano a un’iconografia non codificata e convenzionale e a una cura e a un’attenzione particolare all’immagine. Sono opere, le loro – diverse per intenti e per esiti, per modalità produttive e per ambizioni - che tuttavia risentono, nella loro fase distributiva, delle anomalie e delle logiche perverse del mercato cinematografico, che sempre più concede spazio al cinema hollywoodiano e a quello commedial-popolare. Del centinaio di film annualmente prodotti (nel 2007 sono stati 105), solo la metà, o quasi, riesce a trovare un’uscita (talvolta semiclandestina) e approdare così nelle sale, almeno quelle delle città capozona. Della cinquantina di pellicole distribuite nell’arco della scorsa stagione, solo 8 hanno superato la soglia dei 5 milioni di euro di incasso (tra cui Il divo, Gomorra e Caos calmo, insieme

ai titoli più prevedibilmente commediali), una decina ha oltrepassato il muro di un milione (quasi tutti di impronta comico-sentimentale-adolescenziale). Per molti altri, la maggioranza, è un disastro o quasi; se alcuni film stentano a decollare, altri non riescono nemmeno a partire, rimanendo ben al di sotto dei 50.000 euro o, addirittura, dei 10.000. Sovente penalizzato dal sistema produttivo e/o distributivo che regola il circuito commerciale delle sale (alcuni film escono dal letargo produttivo nella stagione estiva, allorché i pochissimi cinema rimasti aperti acquistano sembianze di luoghi catacombali e irreali, rifugio solo per spauriti gruppetti di cinéphiles irriducibili), il cinema italiano d’autore continua a rivelare tutte le sue difficoltà di comunicazione con il pubblico. Come una canna al vento, esso tende a piegarsi, spesso a rompersi. Suscita sospetto e distacco, anche nei casi in cui la qualità dei film meriterebbe un atteggiamento perlomeno di curiosità. È un cinema, quello italiano, fatto di film, appunto, visti stravisti mai visti, costretto sovente a rimanere in “apnea”, lagunare e paludoso, nel quale le isole o gli atolli dell’autorialità, pur prolificando e aumentando numericamente, sono circondati da vaste sacche di acqua stagnante determinate da una marcata erosione della qualità cinematografica e da uno iato tra le promesse e i risultati, i progetti e le attuazioni. Un cinema sempre in bilico fra incoraggianti segnali di ripresa e deludenti verifiche, milionari successi (soddisfacenti spesso solo per i produttori) e cocenti delusioni, buone riuscite e caporettiane disfatte, convenzione e innovazione,

mediocrità e autorialità. Quello tra il (giovane) cinema italiano e il (giovane) pubblico rimane un rapporto difficile, costellato di diffidenze reciproche, di comuni incomprensioni, di una generale allarmante afasia; un rapporto che diviene più conciliante solo in talune occasioni (attraverso soprattutto i prodotti commediali, con i quali è meno difficile veder lievitare i dati dei borderò), e che, per essere ricucito in modo più saldo e duraturo, necessiterebbe forse che lo spirito del “giovane” si identificasse in misura maggiore, in entrambe le parti, con quello del realmente “nuovo”. Affinché la cinematografica “nouvelle vague”, determinata essenzialmente da quei cineasti che riescono con coerenza a sviluppare i propri autoriali itinerari artistici, sia meno tenue, e l’orizzonte di un Italian Renaissance meno sfuggente e lontano. Franco Vigni


Se il cinema si vede Le previsioni volgono al bello: per il 2008 la fetta di mercato del cinema di produzione italiana dovrebbe attestarsi attorno al 32-33%, migliorando ancora il buon andamento del 2007. Possiamo ritenerci contenti e inneggiare alla resurrezione del “made in Italy”, facendo tesoro dei confortevoli dati del botteghino? Al recente Festival internazionale del film di Roma erano ben 21 le pellicole italiane sparse nelle cinque sezioni della kermesse. Allora, tutto bene? Nemmen per sogno. Chi si accontenta di dare uno sguardo alle cifre degli incassi e si limita a dedurre da esse, e da esse soltanto, i tratti del panorama, come minimo ha la vista corta. Che questa ripresa esista non c’è dubbio ed è una fenomeno non banale, ma di per sé attesta ben poco. “Gomorra” e su un piano assai inferiore “Il divo” sono due titoli che rincuorano, due opere d’autore che aprono nuove prospettive anche di linguaggio, ma per il resto la situazione non consente entusiasmi facili. Se quel 30% e più della torta si scompone, sarà facile constatare che maggioritariamente risulta dalla serie delle commediole giovanilistiche, di astuta fattura ma piuttosto vacue. E se si va ancora più a fondo sarà agevole rendersi conto che una buona metà della fortuna ottenuta si deve ai filmacci natalizi, che hanno preso il posto un tempo proprio dell’avanspettacolo più

trito e scollacciato. Bisogna, allora, intendersi: che esista una grossa quota di mercato occupata da film di chiaro intento commerciale e che questa tipologia di produzione, grevemente casereccia e di immediato riscontro, riscuota ampio gradimento non è un guaio. In un sistema che funzioni non ci si dovrà scandalizzare più di tanto se esiste un’area piuttosto collaudata in grado di ottenere il sicuro favore di un pubblico propenso ad un consumo leggero e paratelevisivo. Però leggendo i numeri si deve avere l’onestà di dire quali realtà registrano e quali tendenze fanno intravedere. Non è neppure il caso di meravigliarsi se hanno uno spazio così rilevante ingredienti tanto appetibili e appariscenti. Ma per quanti sono i film italiani visti – il più delle volte solo in patria – quanti sono quelli che non riescono a circolare oltre il circuito dei festival – se va bene – frequentati dagli addetti ai lavori? Quanti sono i titoli che ottengono una decente visibilità? Negli ultimi anni i film prodotti in Italia o di prevalente coproduzione italiana sono più o meno un centinaio. Ebbene: se si scorrono le classifiche non credo si possa dire che son più d’una trentina i titoli nazionali, tra quelli che son riusciti a raggiungere una consistente fetta di pubblico. Ammettiamo pure che per alcuni sia preferibile l’ombra dell’inedito. Ma per prove talvolta di grande dignità espressiva e di effettiva ricerca stilistica è accettabile che

non riescano ad avere accesso ad una qualche sala? Questo è un nodo drammatico, che nessuna euforia basata sui bollettini statistici scioglie. E il discorso vale anche per la maggior parte dei film europei, malgrado gli sforzi lodevolissimi di una parte della distribuzione e dell’esercizio, sostenuti dal programma MEDIA attraverso Europacinemas e da altri analoghi strumenti. Ebbene: soltanto se tra distribuzione e esercizio si troverà un equilibrio che esalti libertà di scelta, qualità delle opere e differenziazione degli spazi si faranno seri passi in avanti. Coi tempi che corrono l’impresa è più che ardua. L’esercizio si trova oppresso da – asservito a – una distribuzione obbligante e minacciosa. Neppure il “cinema d’essai” riesce a conservare più di tanto i caratteri che dovrebbero contrassegnarlo. I tenimenti hanno una scansione meccanica, consentono poco o nulla di interpretativo e di specifico. Negli ultimi cinque anni si calcola che in Italia abbiano chiuso non meno di quattrocento sale cittadine. Se nessuno può pretendere che una società privata tenga aperta una sala quando, già in partenza, non è messa nelle condizioni di sopravvivere, è chiaro che occorre provvedere diversamente: costruendo con autentica convinzione e con concorrenti investimenti pubblici un circuito di sale dedite ad una programmazione varia, tale da accogliere, tra gli altri, i buoni film destinati altrimenti a resta-


re nel dimenticatoio. Non serve a nulla demonizzare i multiplex che, in numero di 200, hanno realizzato in dieci anni qualcosa come 1800 nuovi schermi. Si tratta di regolare questo tipo di sviluppo accompagnandolo con una riqualificazione mirata di altri luoghi. E non – si badi – vagheggiando un circuito alternativo, che abbia per scopo chissà quali eversive finalità, ma perseguendo strategicamente un’articolazione del circuito o, se si preferisce, la definizione di più circuiti in sintonia con un mercato da declinare al plurale. Esistono mercati e non il mercato, esistono pubblici e non il pubblico: da sempre. E questa realtà, oggi ancor più complessa e frammentata di orientamenti e gusti, rifiuta di farsi ingabbiare dentro un’unicità di gestione e tanto meno dentro un calendario standardizzato e eguale in ogni dove. L’opera cinematografica soffre oggi di svantaggi sempre più vistosi. In una libreria trova posto il libro del grande editore, magari scritto dal giornalista televisivo di turno, e – a stento – il libro edito da una piccola case editrice specializzata e seguita da una precisa fetta di fedeli lettori. Ogni film invece si pretende percorra un identico binario, fatta eccezione per quelli più fortunati che possono ambire alle poche sale riservate nelle grandi città. Per attuare un disegno del genere sono necessari robusti investimenti pubblici – il momento non è dei migliori –, i quali in convergenza con quelli privati affrontino con lungimiranza una condizione che ogni

giorno va degradandosi. L’esperienza del “Circuito cinema” rivela limiti pesantissimi, del tutto al di sotto delle attese. Certo: senza una “rivoluzione culturale” nell’audiovisivo, senza, per esempio, introdurlo a pieno titolo come materia nei processi educativi e formativi, una minima inversione di tendenza sarà impossibile. Eppure è indispensabile, se si vuol salvare la sala quale momento peculiare dell’uscita di un film o almeno come uno dei momenti fondamentali. È inutile finanziare certe opere se poi non si aiutano a circolare, se non ci si cura della loro fruibilità. Se penso ad una sala modello mi vien fatto di citare l’Arsenale di Pisa, dove una lezione si alterna alla visione di un film recente, dove la riproposizione di un film storico è in agenda al pari di una pellicola sperimentale o di un documentario di intelligente impegno. Sullo sfondo sta la lotta contro l’eccesso di concentrazione duopolistica, Rai-Mediaset, che il mondo del cinema mutua pari pari dall’universo televisivo. E si smetta con l’accusare la cosiddetta pirateria informatica dei mali che rendono tanto difficoltoso il futuro del cinema. I pirati aumenteranno se non si sarà in grado di eccitare una nuova attenzione verso la pluralità espressiva che i film incarnano. Quando riescono – se riescono – a trovar luce, a farsi visione.

Roberto Barzanti



IL CINEMA DI PAOLO SORRENTINO A cura di Franco Vigni


Il buio della profondità marina squarciato dalle luci violente di tre sub, armati di fiocine, intenti in una battuta di pesca notturna; nella colluttazione con una piovra sbucata da dietro uno scoglio, uno di essi perde il boccaglio: la sua torcia affonda nell’abisso, divenendo un punto luminoso che via via si affievolisce (L’uomo in più). Una figura immobile e indefinita, compressa in un ambiente vuoto, scabro e geometrico rischiarato da un’algida luce, avanza lentamente dallo sfondo, trasportato da un tapis roulant, in una immobilità che trova consonanza con la fissità dell’inquadratura (Le conseguenze dell’amore). La figura di una suora (dal cui dettaglio degli occhi l’obiettivo, con un movimento di dolly ad allargare, giunge ad inquadrarla in campo medio dall’alto) semisepolta in una spiaggia marina, con la sola testa che fuoriesce dalla sabbia, osservata da due misteriose figure colte di spalle (L’amico di famiglia). Un volto (quello del personaggio di Andreotti) che una serie di aghi da agopuntura trafiggono e trasfigurano in una maschera grottesca. Già gli incipit, nei film di Sorrentino, si strutturano come microcosmi, carichi di tensione drammatica o lirico-figurativa, quasi autonomi poemi visivo-sonori essi stessi, capaci però di illuminare il macrocosmo del testo conferendogli fin dall’inizio una precisa impronta stilistica, emotiva ed autoriale. Dal lungometraggio d’esordio del 2001 a Il divo, quello di Paolo Sorrentino si configura come un cinema che, nella sua continuità, testimonia una costante fecondità creativa e una innovativa e originale pratica registica, che procede per accenni, squarci evocativi, frammenti metaforici, accensioni poetiche, aforismi visivi, allusioni ed atmosfere che mirano non tanto a riprodurre il reale bensì a trasfigurarlo, distorcerlo, frammentarlo, allegoriz-

zarlo, ingigantirlo, restituendone così un’immagine traslata ancora più densa e pregnante. È un cinema percorso da una ricerca dello spazio dell’immagine e da una scrittura che si muove sul crinale del grottesco e del surreale, della “rappresentazione” della realtà e della sua trasfigurazione metafisica e visionaria. In racconti che procedono sovente per capitoli o “blocchi” narrativi, connotati in modo programmaticamente “ambiguo”, collocati a metà strada tra realtà oggettiva e realtà soggettiva mediante un costante movimento di traslazione delle cose che le fa oscillare dal vissuto all’immaginario, dal reale alla rêverie, Sorrentino delinea la visione di un mondo inattingibile, mosso da dinamiche perverse di potere, pratiche aberranti, regole spietate, rapporti crudeli e cinici. I suoi personaggi – uomini “in più”, “amici di famiglia” sopraffatti dalle “conseguenze dell’amore”, “divi” – sono figure quasi caricaturali di esclusi o di (auto)reclusi, serrati in un’indolenza, o in un’impotenza, e in una solitudine che li astrae non solo dall’universo esterno ma anche da se stessi. Personaggi che implacabili vortici di tradimenti, subdoli maneggi, infide trame conducono dalle vette del successo, o della ricchezza o del potere ai margini di esistenze opache, abrase, incolori, meschine. Segregato nella sua disperazione e in una indotta inoperosità e passività, il giocatore Antonio Pisapia, il teorizzatore della tattica calcistica dell’uomo in più, intraprende il viaggio senza ritorno verso l’autoannichilimento. Segregato nell’eremo del proprio io, e, nella sequenza finale del film, anche nell’angusto spazio di una cella carceraria, è pure il suo “doppio”, il cantante Tony Pisapia, la cui figura e il cui ruolo sociale tendono ad assottigliarsi e vieppiù a svanire, divenendo infine esile ricordo, immagi-

ne riprodotta su una foto da appendere in una bettola di provincia, ombra sfuggente, macchia o punto che l’acqua marina – nella sequenza preconclusiva – sembra inghiottire e dissolvere. In un albergo svizzero è confinato il protagonista di Le conseguenze dell’amore, la cui vita, monotona e vuota, ha subìto un azzeramento, scandita da usuali riti e inveterate abitudini: gli sporadici frammenti dialogici che egli scambia con quegli avventori o il personale dell’hotel che cercano di incunearsi nella sua solitudine, le saltuarie partite a carte con la coppia di anziani e ormai decaduti proprietari dell’albergo, il ricorrente arrivo e il successivo trasporto in banca di misteriose valigie piene di soldi, e la regolare assunzione settimanale, ogni mercoledì alle dieci di mattina, di una dose di eroina. Compressa nell’isolamento, marcato anche dallo sgraziato aspetto fisico e dalla repellenza della sua figura, è anche la squallida e misera esistenza dell’”amico di famiglia”, il sarto-usuraio Geremia, anch’egli estraniato dalla società e dagli affetti, che sembra agire, accumulando avidamente e illecitamente denaro e ricchezze materiali (nonché i gianduiotti da non dare rigorosamente a nessuno) di cui mai godrà e che non riesce neppure a esibire, spinto da un senso di ritorsione nei confronti di un mondo da cui è rifiutato e che egli stesso rigetta. E segregato, a ben vedere, appare anche il divo Andreotti, che non a caso Sorrentino coglie nel momento più critico della sua carriera e nello scorcio storico del suo declino, “bloccato” nelle sue movenze, fissato in una maschera grottesca, espressione di un potere fermo e immutabile da sempre, immobilizzato in una impassibilità e in una solitudine senza varchi, disumanizzato e impenetrabile, “imprigionato” in aule parlamentari o


giudiziarie, in ambienti chiusi e umbratili dove anche le emozioni, i dolori, gli affetti si spengono e si annullano. Tutti, nei film di Sorrentino, sembrano divenire dei simulacri, ombre evanescenti, espressione di un vivere sociale oramai disgregato e perverso. Tutti appaiono come ingranaggi di uno stesso mostruoso sistema cannibalico e spietato che non lascia scampo, privati di umanità, in un universo indecente senza più ideali e senza remore. Come i protagonisti, o persino peggio di loro, si mostrano gli altri personaggi che fanno loro da contorno e che sovente ne determinano le dinamiche esistenziali: allenatori che “strigliano” i propri giocatori sbraitando e vomitando loro addosso insulti e volgarità, compagni di gioco che propongono di truccare le partite, presidenti o manager subdoli e infidi; sicari e boss mafiosi che, come oscuri burattinai, costringono al confino decidendo delle sorti altrui; madri arpie e marcescenti che rantolano in sudice lenzuola, ninfette che si concedono in odio al mondo, cialtronesche comparse, “amici” inaffidabili pronti alla truffa, individui meschini che chiedono prestiti di denaro solo per ragioni di vanità; e la schiera di politici, banchieri, prelati, prestanome che fa da corte al divo Giulio. Accomunati da uno stesso egoismo e da una stessa brama e avidità (di soldi, di successo, di fama, di potere, di prevalere nonostante e contro qualunque norma giuridica e coerenza morale), i personaggi sorrentiniani condividono anche un simile, patetico destino di scacco, di isolamento dal mondo, pur essendo al centro di attenzioni molto interessate, e un simile algore interiore che la messa in scena, sempre contesa tra solidità geometrica e rarefazione, riflette e corrobora. Gli ambienti e i luoghi in cui le loro figure sono proiettate e “ingabbiate” si definiscono piuttosto come non luoghi,

connotati da un lato da una precisione e un nitore geometrici e, dall’altro, da una (in)consistenza arcana e fluttuante: spogliatoi, scale mobili, garage, sale da bar, hall e camere d’albergo, saloni enormi e vuoti o ambienti angusti, oppressivi e isolanti; involucri acquei, catapecchie buie e fatiscenti grondanti umidità, inquietanti spazi di metafisico spessore, elementi architettonici imponenti e “dechirichiani”, lividi od oscuri scorci urbani. Ambienti sospesi in quello stesso sordo e inerte limbo in cui i personaggi appaiono confinati, evidenziati anch’essi in una corporeità che trapassa nella fantasmaticità. È d’altronde tra tali due elementi che il cinema di Sorrentino proficuamente oscilla e si definisce, in testi filmici talora giocati più sulla evocazione che sul racconto nei quali oggettività e soggettività si intersecano, si intrecciano, si sovrappongono; in cui squarci della realtà fisica si alternano e si confondono con immagini fantastiche (mnemoniche, oniriche, visionarie), e in cui l’atmosfera rarefatta ha pur sempre un’evidente corposità e un saldo spessore morale e “ideologico”. Sogno e realtà sovente convivono sullo stesso piano, in storie che presentano molteplici vie di fuga (i due Pisapia, ne L’uomo in più, hanno una relazione di parentela? O l’uno è la proiezione dell’altro? La figura della madre è veramente reale? Ed è reale la sequenza finale o è piuttosto un flashback che rievoca il passato dell’ex cantante? Si trova realmente, egli, nella cella attorno alla tavola imbandita del pesce che ha cucinato per gli altri compagni detenuti, oppure è annegato in mare in cui, nella sequenza precedente, si era tuffato per sfuggire alla polizia?). È una scrittura, quella di Sorrentino, che più che veicolare risposte intende produrre dubbi e domande. Si tratta, appunto, di quella volontaria, produttiva “ambiguità” che è il modo dell’autore di essere

dialettico e che rende il suo cinema ricco di infinite sfaccettature, conferendo alle immagini la massima fascinazione e, in pari tempo, il massimo potere d’urto. Infittendo la propria opera di tracciati metaforici, di invenzioni simboliche, di supporti tematici, o anche solamente di possibili percorsi interpretativi, Sorrentino intende chiamare in causa lo spettatore, spingendolo alla meditazione e a una ricerca interpretativa personale, esaltando il suo ruolo attivo, inducendolo alla vita polisemica del testo. Come d’altronde, presentandosi come deliberata proposta della chiave di lettura del film, esplicita il piano-sequenza conclusivo de Il divo: in cui la macchina da presa, attraverso un complesso movimento combinato di carrello-panoramica-dolly, segue l’ingresso della figura andreottiana, in semi-soggettiva, nell’aula del palazzo di giustizia; tutti i presenti si voltano ad osservarlo, volgendo lo sguardo in direzione della stessa macchina da presa; dopo aver percorso l’ampio emiciclo dell’aula, rivelando i banchi a cui gli avvocati e i teste hanno già preso posto (mentre il senatore a vita, rientrato in campo, si siede a sua volta accanto ai suoi avvocati difensori), l’obiettivo, continuando a spaziare nell’ampio salone (ed escludendo ancora di campo la figura dell’ex presidente), mostra gli scranni del tribunale e l’ingresso in aula della corte, giungendo, al termine di un movimento circolare quasi a 360°, ad inquadrare nuovamente Andreotti, “stringendo” su di lui fino al primo piano, colto adesso – in un capovolgimento del punto di vista operato sul piano della scrittura – dalla stessa prospettiva visiva degli stessi giudici. Che è poi anche quella dello spettatore.

Franco Vigni


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FUORIFUOCO

PAOLO SORRENTINO

Cinema Nuovo Pendola Venerdì 12 Dicembre Ore 20.00

Incontro con il regista

Paolo Sorrentino è nato a Napoli il 31 maggio 1970. Inizia a scrivere per il cinema (vince il premio Solinas, nel 1997, con Dragoncelli di fuoco, collabora alla sceneggiatura di Polvere di Napoli diretto da Capuano l’anno seguente, scrive il copione di La voce dell’amore che Michele Placido avrebbe dovuto dirigere) e per la televisione (portano la sua firma alcuni episodi della prima serie televisiva La squadra prodotta dalla Rai). Contemporaneamente, passando dietro la macchina da presa, realizza alcuni cortometraggi (dopo Un paradiso, del 1994, selezionato per partecipare a un festival di corti promosso da Ciprì e Maresco, dirige L’amore non ha confini, 1998, e La notte lunga, 2001). Dal corto passa quindi al lungometraggio: L’uomo in più (2001), del quale è anche sceneggiatore, presentato felicemente nella competizione ufficiale alla Mostra del Cinema di Venezia, vince vari premi (tra cui il Nastro d’argento come migliore opera prima, il Ciak d’oro per la migliore sceneggiatura e la Grolla d’oro al protagonista Toni Servillo, oltre a tre candidature al David di Donatello). Sono i primi riconoscimenti in Italia e all’estero di un regista che si afferma subito

come uno dei più talentuosi autori del giovane cinema italiano, che struttura le sue storie partendo da una traccia narrativa realisticamente precisa per poi scomporla, allontanandosi dalla realtà attraverso la messa in scena. Ancora più numerosi sono i riconoscimenti che riceve per Le conseguenze dell’amore (2004), in concorso a Cannes 2004 e a diversi altri festival europei e non, vincitore di 5 David di Donatello, 4 Nastri d’argento, 5 Ciak d’oro, 3 Globi d’oro. Dopo aver preso parte, in un cammeo, a Il caimano di Nanni Moretti, con L’amico di famiglia (2006), presentato in concorso al Festival di Cannes, Sorrentino definisce ulteriormente la sua poetica e la sua originale pratica filmica. A Cannes, vincendo il premio della Giuria (e ricevendo successivamente cinque nominations agli European Film Awards) torna due anni dopo con Il divo (2008), incentrato sulla figura di Giulio Andreotti (che va ad aggiungersi a quella degli altri suoi personaggi, sempre a metà tra l’estrema ordinarietà e la straordinaria stravaganza, a cui la sua penna prima e la macchina da presa poi riescono a dar vita), con cui Sorrentino è riuscito ad arrivare al cuore di critica e pubblico.


L’AMORE NON HA CONFINI

Cinema Nuovo Pendola Giovedì 11 Dicembre Ore 19.30

Ingresso Gratuito

L’amore non ha confini è la storia di Beato, killer napoletano quarantenne, che un giorno viene convocato dal Mahatma, noto boss della malavita che vive rinchiuso in un bunker. Il compito di Beato è di individuare chi, tra i quattro fidati collaboratori, ha tradito il Mahatma. In quest’occasione Beato incontrerà un suo vecchio e indimenticato amore… regia: Paolo Sorrentino soggetto e sceneggiatura: Paolo Sorrentino fotografia: Pasquale Mari musica: Pasquale Catalano, Ninette e le bimbo visioni scenografia: Antonio Farina costumi: Alessandra Cianelli montaggio: Jacopo Quadri suono: Alessandro Farina, Daghi Rondanini interpreti: Gianni Ferreri, Luigi Petrucci, Giovanni Esposito, Gaetano Amato, Caterina De Regibus, Sergio Marra prodotto da: Francesca Cima, Nicola Giuliano produzione/distribuzione: Indigo Film formato: 35mm / Colore durata: 12 min

LA NOTTE LUNGA

La lunga notte di Manolo agli Champs Elysées, parucchiere delle dive, alla sua prima esperienza con la cocaina. Fra discoteche e sedute spiritiche, baronesse vedove e spacciatori, riesce finalmente ad organizzare il suo momento di intimità con Ariel Bachini, famosa star del cinema, ma…

regia: Paolo Sorrentino soggetto e sceneggiatura: Paolo Sorrentino e Anna Mitone fotografia: Mario Amura montaggio: Cristiano Travaglioli interpreti: Roberto De Francesco, Chiara Caselli, Giovanni Esposito produzione: Indigo Film, Telepiù prodotto da: Francesca Cima, Nicola Giuliano formato: DV Cam / 35mm / Colore durata: 15 min


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FUORIFUOCO

PAOLO SORRENTINO

L’UOMO IN PIÙ

regia: Paolo Sorrentino; sceneggiatura: Paolo Sorrentino; fotografia: Pasquale Mari; montaggio: Giogiò Franchini; scenografia: Lino Fiorito; musica: Pasquale Catalano; interpreti: Toni Servillo (Tony), Andrea Renzi (Antonio Pisapia), Nello Mascia (il Molosso), Ninni Bruschetta (Genny), Angela Goodwin (la madre di Tony), Enrica Rosso (Elena), Clotilde Sabatino (Vanna), Roberto De Francesco (Gigi Moscati) Italo Celoro (l’allenatore), Baniamino Femiano (il presidente), Marzio Honorato (Tagliaferri), Peppe Lanzetta (Salvatore), Stefania Barca (Monica), Rosaria De Cicco (maria), Monica Nappo (Veronica), Maurizio Cocorullo (Filippo Reale); produzione: Nicola Giuliano, Kermit Smith, Francesca Cima, Angelo Curti per Indigo Film/Keyfilms; distribuzione: Keyfilms; durata: 100’; origine: Italia, 2001.

È la storia di due uomini, negli iniziali anni ‘80, i quali portano lo stesso nome, Antonio Pisapia. Uno è un giocatore di calcio di una squadra che milita in serie A, umile e introverso, il quale ha fatto del pallone la ragione della sua vita, e che diviene famoso non tanto per una nuova tattica di gioco che egli tenacemente quanto vanamente propone, quanto per un goal realizzato in semirovesciata che proietta la sua squadra verso i vertici alti della classifica. Dopo l’exploit, e dopo essersi rifiutato di truccare un incontro per un giro sporco di scommesse, come propostogli dai suoi stessi compagni, du-

rante un allenamento subisce un infortunio che lo costringe al ritiro dall’attività agonistica. L’altro, chiamato Tony, cinico, sbruffone ed estroverso, è un cantante sulla cresta dell’onda, dedito alla droga, alle donne e alla vita sregolata e maledetta. Lasciatosi sedurre da una ragazza troppo giovane, viene denunciato dalla moglie e dalla madre che non gli ha mai perdonato la morte del fratello durante una battuta di pesca. L’arresto è inevitabile, con conseguenze rovinose sulla carriera. Quattro anni dopo, entrambi sono impegnati a cercare di risalire la china: l’ex calciatore sta cercando di costruirsi una


carriera di allenatore, ma nessuno lo ingaggia, neanche il presidente della sua vecchia squadra il quale, dopo tante promesse, rudemente gli confessa che per lui non ci sarà mai posto; il cantante, benché assolto al processo, ormai fuori dal

giro dei grandi ingaggi, riesce a ottenere solo piccole scritture per umilianti esibizioni in provincia. Un giorno, casualmente, i due si incontrano, scambiandosi un silenzioso sguardo che intreccerà e unirà i loro destini in un esito drammatico.

L’uomo in più del titolo è il giocatore su cui si basa l’innovativo schema di gioco di Antonio; ma è anche l’escluso, il diverso, l’estraneo, colui che avanza, che è rimasto privo di un ruolo sociale ed esistenziale. Uomini in più sono i protagonisti, i quali passano entrambi dall’apoteosi del successo alla caduta, dal trionfo alla sconfitta, dalla popolarità all’anonimato, sprofondando in un baratro di disperata solitudine. Differenti per carattere e personalità – tanto è schivo e ancorato a saldi principi etici il calciatore quanto è sfrontato e scevro di moralità il cantante – i due sono il rovesciamento speculare, l’uno doppio e specchio dell’altro (oltre al nome, hanno in comune il giorno di nascita), nello scontro con un mondo – quello del calcio in un caso, dello spettacolo nell’altro – pervaso da ipocrisia e infingimenti, disonestà e viscidità, nel quale prevalgono l’arroganza, la prevaricazione, la volgarità, e i cui massimi rappresentanti sono il presidente e il manager. In tale scontro i due Pisapia soccombono entrambi, uniti da una simile sorte nel loro essere in più nel mondo, da un uguale smarrimento ma anche da una stessa ansia di attaccarsi a qualcosa che vale, di non farsi definitivamente travolge-

re. Quell’ansia che forse i due riescono a comunicarsi, con quello sguardo fortuito e fugace che li rende coscienti della loro specularità, con cui ognuno scorge negli occhi dell’altro la propria immagine rovesciata. Segno di incontro e di intesa, quello sguardo si pone però, al contempo, anche come momento di rottura del parallelismo, segnando la divergenza delle due figure e la divisione delle due vite, conducendo l’uno a reagire ai propri malesseri e inappagamenti con l’introiezione e l’altro con l’estroiezione (fisicamente suggerita dall’escrescenza che Tony ha sul cranio e che si fa asportare chirurgicamente), avviandoli rispettivamente verso l’implosione e verso l’esplosione. Che anch’esse, tuttavia – nel sistema allusivo ed evocativo adottato da Sorrentino nel sondare e dare spessore ai paesaggi esteriori quanto interiori – sembrano rincorrersi in un sistema circolare secondo un’equidistanza che le rende intercambiabili, secondo quel procedimento e quel gioco di reversibilità degli opposti, o di dissomiglianza dell’identico, che il regista, con incisiva espressività e programmata irrisolutezza, adotta e mette in scena.

Cinema Nuovo Pendola Giovedì 11 Dicembre Ore 20.00

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FUORIFUOCO

PAOLO SORRENTINO

LE CONSEGUENZE DELL’AMORE

regia: Paolo Sorrentino; sceneggiatura: Paolo Sorrentino; fotografia: Luca Bigazzi; montaggio: Giogiò Franchini; scenografia: Lino Fiorito; musica: Pasquale Catalano; interpreti: Toni Servillo (Titta Di Girolamo), Olivia Magnani (Sofia), Adriano Giannini (Valerio), Raffaele Pisu (Carlo), Angela Goodwin (Isabella), Diego Ribon (il direttore), Giselda Volodi (una cameriera), Giovanni Vettorazzo (il signor Letizia), Anna Valeria Dini (la lettrice), Gianna Paola Scaffidi (Giulia), Antonio Ballerio (il direttore di banca), Gilberto Idonea, Gaetano Bruno (i sicari), Enzo Vitagliano (Pippo D’Antò), Nino D’Agata (un mafioso), Vittorio Di Prima (Nitto Lo Riccio); produzione: Francesca Cima, Nicola Giuliano, Domenico Procacci per Indigo Film/Fandango/Medusa; distribuzione: Medusa; durata: 100’; origine: Italia, 2004.

Da otto anni Titta di Girolamo vive pressoché recluso in un anonimo albergo di un’anonima cittadina della Svizzera italiana. La sua vita è regolata da consuetudini, gesti e movimenti che si ripetono sempre uguali, tra la camera e il bar, il ristorante e il salotto dove si concede qualche partita a carte con una coppia di anziani (gli ex proprietari dell’albergo caduti in disgrazia). Regolarmente, ogni mercoledì mattina alla stessa ora, assume una dose di eroina, così come altrettanto regolarmente riceve una valigia piena di soldi – che egli, senza neanche aprire, consegna in

banca – intorno alla quale si condensano tutti i misteri, mostruosi e inquietanti, legati al suo passato e ai suoi rapporti con il mondo della mafia e delle banche, e che gradualmente si rivelano e si compongono. Nella sua vita monotona e immutabile entra un giorno, scompaginandola, il sorriso di una ragazza, Sofia, la barista dell’albergo, con cui lentamente Titta si lascia coinvolgere sentimentalmente. Ma le “conseguenze” di quell’amore, se da un lato sembrano riaprire una partita esistenziale che pareva ormai chiusa, dall’altro, per lui, si dimostreranno fatali.


È una vita sospesa quella di Titta, sospesa nel vuoto come la figura del suo vecchio e lontano amico d’infanzia a cui egli, negli attimi che precedono la sua tragica fine a cui si è lasciato condannare, rivolge il proprio pensiero, e che le immagini conclusive del film mostrano su un traliccio dell’alta tensione in alta quota, intento nel proprio lavoro, sperduto tra le silenti e innevate cime montuose. È una vita sospesa nell’immoto limbo della solitudine e della segregazione, sul confine della non esistenza. Sprofondato nella monotonia e in una imperscrutabile malinconia e indifferenza, Titta è l’uomo in meno, l’uomo che non c’è, l’uomo senza emozioni, senza presente e senza futuro. Staziona solitario in un albergo poco frequentato, accompagnato dalle sigarette sempre accese e dal silenzio, interrotto saltuariamente da parchi scambi di battute con chi cerca di scalfire il suo isolante involucro che lo separa dall’esterno. Intrattiene frettolose e distaccate conversazioni telefoniche con la famiglia, anch’esse freddo rituale, come la settimanale assunzione della dose di eroina che pratica con ferrea periodicità o il consuetudinario trasporto delle valige in banca, di un’esistenza rigidamente disciplinata, blindata come il caveau in cui si reca a portare i soldi. Di questo mondo ovattato, inerte e vuoto, simile ad un acquario, dove i gesti e i pensieri sono deprivati di senso, in cui il protagonista è immerso – come punizione che quel potere occulto e minaccioso di cui è succube gli ha inferto – Sorrentino restituisce con grande maestria lo spessore attraverso i silenzi, le atmosfere asettiche, gli sguardi, i suoni, i rumori (il prolungato fruscio delle banconote conteggiate a mano dai solerti impiegati della banca), considerati anch’essi come materiale compositivo, contribuendo a sottolineare il senso profondo della situazione

narrativa, quell’intorbidimento e quell’indurimento da cui Titta, taciturno, composto, risoluto, elegante e scostante, si è lasciato pervadere. Vetri, finestre, barriere, di fronte a cui la sua figura è sovente posta, vengono scenograficamente e visivamente a sottolineare l’inattingibilità dell’esterno a cui egli non può, e forse non vuole, accedere. Esterno che tuttavia, attraverso piccoli segnali, fa talvolta irruzione in quell’assurda gabbia di abitudinarietà e ripetitività con cui Titta cerca di non procombere nel precipizio del nulla su cui è proteso: la visita del fratello che menziona l’amico di vecchia data, l’incursione improvvisa di due sicari della mafia, e, soprattutto, la relazione, anche se solo appena accennata, con la barista dell’albergo, che produce una crepa nel rigido, coriaceo e apparentemente infrangibile schema mentale e comportamentale del protagonista. Piccoli eventi che lo inducono a dischiudersi dal torpore, ad esporsi, ad uscire dal suo liquido amniotico-anestetico, a giocare un’ultima, decisiva partita per il riappropriamento di una vita rubata. Ma nel gioco, e nella vita, come Sorrentino asseriva già nel suo primo film citando una frase di Pelè, «il pareggio non esiste».

Cinema Nuovo Pendola Giovedì 11 Dicembre Ore 22.00

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PAOLO SORRENTINO

L’AMICO DI FAMIGLIA

regia: Paolo Sorrentino; sceneggiatura: Paolo Sorrentino; fotografia: Luca Bigazzi; montaggio: Giogiò Franchini; scenografia: Lino Fiorito; musica: Pasquale Catalano; interpreti: Giacomo Rizzo (Geremia de’ Geremi), Fabrizio Bentivoglio (Gino), Laura Chiatti (Rossana), Gigi Angelillo (Saverio), Clara Bindi (la madre di Geremia), Nicola Grittani, Francesco Grittani (i gemelli Contessa), Marco Giallini (Attanasio), Lorenzo Gioielli (Montanaro), Alina Nedelea (Belana), Roberta Fiorentini (la moglie di Saverio), Geremia Longobardo (Giacomo), Fabio Grossi (il cognato di Saverio), Barbara Valmorin (la nonna del Bingo), Lorenzo Sorrentino (suo nipote), Giorgio Colangeli (Massa), Barbara Scoppa (Tiziana), Elias Schilton (Tesauro), Luisa De Santis (Silvia), Lucia Ragni (la cassiera); produzione: Domenico Procacci, Francesca Cima, Nicola Giuliano, per Fandango/Indigo Film/Babe Film; distribuzione: Medusa; durata: 110’; origine: Italia, 2006.

Vecchio, laido, sordido e sgradevole, Geremia de’ Geremei è proprietario di una piccola sartoria, ma la sua vera fonte di guadagno deriva dall’attività di usuraio, condotta da poveraccio e maniere melliflue e “cortesi” che lo portano a proclamarsi “amico di famiglia”, attraendo in realtà e invischiando nella sua tela fatta di ricatti e ritorsioni le sue vittime. Nonostante la consistente ricchezza accumulata, conduce una vita miserevole, abitando con la madre in un modesto appartamento devastato dall’umidità. Suo alleato, occupandosi delle riscossioni, è Gino, una sorta di solitario e anacronistico cowboy di provincia di mezz’età. Nell’esistenza scialba e gretta di Gere-

mia entra un giorno Rossana, miss Agro Pontino, giovane e bella, di cui dapprima estorce i favori sessuali (sciogliendo con essi il debito economico contratto dalla famiglia per la decorosa celebrazione delle sue nozze), poi se ne innamora irrimediabilmente. Insofferente di tutto (del ragazzo che ha sposato, della propria famiglia e anche di se stessa), Rossana, pur considerandolo ripugnante fino a dichiararglielo ripetutamente, si dichiara disposta a ricambiare il sentimento. Per lei Geremia giunge a mettere in gioco se stesso, insieme a un’ingente somma di denaro che decide di concedere in prestito, per il quale rischia di perdere l’intera ricchezza accumulata.


Bestie più forti che divorano quelle più deboli, animali vegetariani che diventano preda di quelli carnivori: le immagini dei documentari naturalistici che scorrono sullo schermo televisivo perennemente acceso, davanti al quale sta inchiodata al letto la madre arpia e deforme del protagonista nel loro cadente appartamento, diventano metafora della natura di quell’umanità che Sorrentino, con pathos visionario e virtuosismo tecnico, mette in scena, in una visione sconcertata e desolante dei rapporti interpersonali. Un’umanità feroce ai limiti della presentabilità, di cui risalta la bestialità, nella quale l’egoismo e l’avidità, di denaro e di sesso, hanno anestetizzato e fatto eclissare qualsiasi valore morale, e a cui le scelte, le azioni, le pulsioni degli individui appaiono conformati. Un’umanità brutale, malata e deforme, di cui Geremia si pone a emblema. Prima fisicamente, con il suo fisico sgraziato, il volto irregolare (sovente contornato da fette di patate fatte aderire alla testa da un fazzoletto legato stretto, come rimedio antico alle sue emicranie), l’unghia del mignolo abnorme, un braccio perennemente ingessato, l’aspetto untuoso, l’andatura strascicante, la sensazione di repellenza che esso produce. Quindi moralmente, con la sua etica aberrante, la sua ipocrisia (da buon benefattore, a chiunque dispensa massime di vita e frasi di spicciola e domestica filosofia riprese da Rider’s Digest e promette di dedicare il suo ultimo pensiero da vivo), il suo cinismo nel tessere la trama di interessi ed estorsioni. Sgorbio, lurido e sardonico, viscido, abietto e spregevole, Geremia ha un rapporto morboso, degenerato e distorto con qualsiasi cosa: con il denaro e gli oggetti preziosi, accumulati così avidamente ma rigorosamente depositati in cassette di sicurezza, mai esibiti e assai avaramente ed egoisticamente spesi e impiegati; con

il sesso, praticato o immaginario, ridotto anch’esso a mera mercificazione e prezzo di riscatto; con la madre, vecchia e pingue megera inferma e semi-incestuosa. Pur nella sua repellenza, e in modo ridicolo e patetico, Geremia mantiene tuttavia, nei suoi recessi più profondi e segreti, la “nobiltà” d’animo di lasciarsi pervadere da un sentimento autentico, da un affetto per il quale si mostra disposto a giocarsi tutto, emotivamente ed economicamente. La sua finale “apertura”, benché destinata a risolversi in un amaro scacco e in una atroce disillusione, gli restituisce forse un senso di “bellezza”, non certo esteriore bensì interiore, e di purezza di cui invece sono affatto privi tutti coloro che lo circondano: Rossana, estraniatasi da tutto e da tutti, dalla famiglia e da se stessa, bella fuori come corrotta dentro; Gino, il consigliere di Geremia, folcloristica figura country agropontiniana che sogna il Tennessee, orditore, assieme a Rossana, della cupa beffa finale, nonché le due gaglioffe comparse che per una manciata di soldi si incaricano di metterla in atto; e i clienti-vittime di Geremia, ancora più laidi e rivoltanti di lui, spinti a chiedere il denaro in prestito per fini miserevoli, ostentare un matrimonio di triste apparenza, giocare a bingo, ricorrere alla chirurgia estetica, comprare un titolo nobiliare. È un’umanità senza remore e in regresso, distaccata e cinica, quella nei cui interstizi più ripugnanti l’occhio della macchina da presa, come un bisturi, affonda, incidendone il corpo vieppiù putrescente. Un’umanità giunta all’ultima spiaggia, come quella che Geremia, nelle inquadrature conclusive, perlustra infaticabilmente con un rilevatore di metallo, in cerca di monetine e monili lasciati cadere da ignari villeggianti.

Cinema Nuovo Pendola Venerdì 12 Dicembre Ore 18.00

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PAOLO SORRENTINO

IL DIVO

regia: Paolo Sorrentino; sceneggiatura: Paolo Sorrentino; fotografia: Luca Bigazzi; montaggio: Cristiano Travaglioli; scenografia: Lino Fiorito; musica: Teho Teardo; interpreti: Toni Servillo (Giulio Andreotti), Anna Bonaiuto (Livia Andreotti), Piera Degli Esposti (la signora Enea, segretaria di Andreotti), Paolo Graziosi (Aldo Moro), Giulio Borsetti (Eugenio Scalari), Flavio Bucci (Franco Evangelisti), Carlo Buccirosso (Paolo Cirino Pomicino), Giorgio Colangeli (Salvo Lima), Alberto Cracco (don Mario), Lorenzo Gioielli (Mino Pecorelli), Gianfelice Imparato (Vincenzo Scotti), Massimo Popolizio (Vittorio Sbardella), Aldo Ralli (Giuseppe Ciarrapico), Giovanni Vettorazzo (il giudice Scarpinato), Cristina Serafini (Caterina Stagno), Achille Brugini (monsignor Fiorenzo Angelini), Fanny Ardant (la moglie dell’ambasciatore francese), Michele Placido; produzione: Francesca Cima, Nicola Giuliano, Andrea Occhipinti, Arturo Paglia, Isabella Cocuzza per Indigo Film/Lucky Red/Parco Film; distribuzione: Lucky Red; durata: 110’; origine: Italia, 2008.

Dalla fine dell’ultimo dei suoi sette governi, nel 1992, allo sfaldarsi della sua corrente e all’inizio del processo di Palermo, nel 1996, che lo vede imputato per associazione mafiosa: il film ripercorre l’ultima parte da “divo” di Giulio Andreotti, il politico più influente che ha determinato le sorti del paese italiano per oltre mezzo secolo. Più influente ma anche più ambiguo, segreto, misterioso, complesso, imperscrutabile, che tartarughescamente si è infiltrato in ogni piaga e in ogni interstizio del Potere nostrano, sospettato di

tutto perché capace di tutto, credente in un dio che ammette l’uso del Male a fin di Bene. Stragi, suicidi eccellenti, assassinii, rapimenti, strangolamenti, avvelenamenti, sparizione di personaggi scomodi, accuse dei pentiti della mafia: in tutto egli sembra essere coinvolto, su tutto sembra esserci lo zampino della sua figura, onnipotente, piovresca, silenziosa, insinuante, solitaria, isolata, inamovibile, gelida, orchestratore e manovratore abilissimo e occulto delle storie sue e delle controstorie altrui.


Le grandi orecchie oltremodo distanziate dal cranio, la sagoma ingobbita, china sul tavolo, la montatura eccessiva degli occhiali, la faccia trapunta da aghi per la cura dell’emicrania. Come l’usuraio Geremia ne L’amico di famiglia, anche la figura di Andreotti, ne Il divo, assume già dalla prima inquadratura i connotati di una maschera grottesca, quella del potere, spettrale, lugubre, vampiresca (lo vediamo emergere lentamente dall’oscurità), ad enucleare e sottolineare metaforicamente l’intento che sottende l’intero film: offrire del personaggio andreottiano un ritratto che oscilla tra il grottesco, il surreale e il documentaristico, tra il pubblico e il privato, in un flusso di immagini al contempo verista e immaginario, che implica la biografia documentata e anche possibile. Come Geremia, anche il “divo” Giulio è un “amico di famiglia”: di famiglia cristiana, di famiglia mafiosa. Come lui è solito dispensare, sibilando e con sguardo fisso, perle di massime di vita e di cinismo («A pensare male degli altri – recita una tra le più celebri – si fa peccato ma si indovina»). Misterioso, glaciale e distaccato, è la maschera tetra di un potere oscuro che si perpetua, il cui vero volto rimane nella penombra, inattaccabile, invisibile, nascosto (come nell’inquadratura in cui, poco più avanti, è colto in mezza figura frontale, nella penombra della cucina del suo appartamento, mentre prende un’aspirina, con il lampadario acceso che gli copre interamente la testa). L’Andreotti sorrentiniano è una sorta di automa, un Golem apparentemente privo di qualsiasi reazione emotiva, che sembra non provare mai dolore, né affetto, né emozione. Il sismografo della sua emotività, perennemente inerte, si aziona, registrando lievi oscillazioni, solo nei momenti in cui si materializza, sotto forma di incubo, lo spettro di Aldo Moro, il cui rapimento e la cui successiva uccisione da parte delle Brigate Rosse pesano su di lui come un macigno impossibile da rimuovere. Come fendenti, al pari delle frequenti emicra-

nie, le parole dello statista – provenienti dal proprio memoriale e rimarcanti proprio la sua assenza di fervore umano – tormentano le sue notti insonni. Rievocando fatti pubblici e operando incursioni nella sua privata, lo sguardo di Sorrentino (e della macchina da presa) “penetra” nella stessa testa (sovente dolorante) del suo personaggio, portando alla superficie squarci incubici, lacerazioni mentali, frammenti di visioni (l’iterata immagine dello skateboard che attraversa un corridoio o scivola su una cavità cilindrica per andare ad esplodere nell’immagine successiva) o schegge di autocoscienza e fantasmi dell’anima: come nella sequenza della confessione, di potente forza d’urto, in cui Andreotti, seduto al centro di una stanza, solo e illuminato da forti luci, prima pacatamente poi sempre più ansiosamente ed esagitatamente, smarrendo la consueta flemma e l’abituale compostezza, si autoaccusa di una lunga serie di fatti e di misfatti. Tra le due dimensioni, quella esteriore e quella interiore, quella reale e quella immaginifica, l’obiettivo si muove costantemente, nella strutturazione di una materia narrativa che procede per ellissi, accelerazioni, arresti, dilatazioni, sovrapposizioni, parentesi, capitoli che si pongono come tessere di un puzzle che però non potrà trovare completo compimento. Wellesianamente, in un gioco di luci e di ombre, Sorrentino rinuncia a dare giudizi netti, lasciando che l’enigma resti enigma. Nell’inquadratura conclusiva la macchina da presa si sofferma sul primo piano frontale del suo personaggio, seduto sul banco degli imputati nell’aula giudiziaria del tribunale palermitano, immobile e impassibile come sempre, in un’immagine che per certi versi rinvia a quella finale di Citizen Kane, nella quale l’obiettivo si arresta sul cartello appeso al cancello della villa del potente magnate Kane: «No trespassing». L’accesso è vietato, e irrisolvibile rimane forse il mistero.

Cinema Nuovo Pendola Venerdì 12 Dicembre Ore 21.30

Ingresso Gratuito



FARE CORTO


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FARE CORTO

FARE CORTO ovvero Corti fatti bene di Mauro Tozzi Se anche il cinema giovane ha difficoltà ad emergere, come documentiamo nella nostra rassegna, figuriamoci quale abisso insondabile rappresenti il mondo del cortometraggio. Da quasi vent’anni, Visionaria è sulla breccia ed il suo Festival Internazionale, ogni anno, cerca di mostrare quanto di meglio e di bello c’è nel corto. Per questo, abbiamo voluto includere nel progetto “Fuori Fuoco” anche una breve rassegna di cortometraggi e abbiamo voluto intitolarla “Fare Corto” per significare che ci troviamo di fronte ad opere di ingegno dove le professionalità messe in campo, le idee genuine rappresentate e la voglia di fare dei giovani autori non

Sala Biblioteca Santa Maria della Scala 9-12 Dicembre Ore 10.30-18.30

Ingresso Gratuito

meritano il limbo mediatico nel quale il cortometraggio sembra essere da tempo esiliato. Abbiamo scelto, visto il taglio complessivo della manifestazione, di dare spazio ad autori italiani in cui sono compresi i vincitori dell’ultima edizione del Festival Visionaria (Piombino, 1-4 Ottobre 2008) e due corti realizzati dagli studenti dell’Università di Siena che hanno preso parte alla rassegna “Tagliamo Corto” (Siena, 18 Novembre 2008). Cogliamo l’occasione per ringraziare il complesso museale Santa Maria della Scala per gli spazi concessi.La Mediateca di Siena e l’Associazione Culturale Visionaria operano nell’ambito della sede di Siena della Fondazione Mediateca Regionale Toscana, ubicata presso il complesso museale Santa Maria della Scala, piazza Duomo 2.

La Mediateca realizza produzioni audiovisive, organizza e promuove iniziative culturali e formative per avvicinare giovani e adulti al cinema, svolge percorsi educativi sul linguaggio audiovisivo e cinematografico. E’ possibile consultare il grande patrimonio audiovisivo che compone i due archivi di Siena e di Firenze: film, cortometraggi, documentari, animazioni, dalla nascita del cinema ai giorni nostri. Gli archivi dei film sono consultabili online agli indirizzi Siena: www.visionaria.eu/catalogo Firenze: www.mediatecatoscana.it Per informazioni: tel. e fax 0577 530803 e-mail: siena@mediatecatoscana.it; vision@visionaria.eu


GUINEA PIG

BULLI SI NASCE

LA STRADA CHIUSA

Una donna di colore per poter curare la sua bambina malata, quale ultima risorsa decide di sottoporsi, per denaro, ad un esperimento scientifico che ben presto, si rivelerà una vera e propria tortura.

Ma se davvero la scuola è palestra di vita, quanto può essere dura per Ale, un bambino timido con occhiali spessi un dito? E perché non reagisce agli attacchi di teppistelli da 2 soldi? E Maria, cosa la spinge ad intervenire per difenderlo dai bulli che lo assediano?

Un bambino percorre le silenziose vie del paese. Le persone che incontra lo salutano e gli chiedono notizie dei suoi. Poi va in macelleria a ritirare la spesa per la mamma. Quando si rincammina nella stessa atmosfera familiare, qualcosa turba questa quiete…

Regia: Massimo Cappelli Italia, 2008 Durata: 15’ Formato originale: HDV Soggetto: Federica Pontremoli Sceneggiatura: Federica Pontremoli Musica: Giuliano Taviani Fotografia: Raoul Torresi Montaggio: Raoul Torresi Interpreti: Fabio Troiano, Chiara Francini, Edoardo De Gennaro, Martina Lombardi Produzione: Antonella Perrucci e Amedeo Bacigalupo

Regia: Massimo Fallai Italia, 2008 Durata: 15’ Formato originale: 35 mm Soggetto: Massimo Fallai Sceneggiatura: Massimo Fallai, Massimo Falorni Suono: Angelo Bonanni Fotografia: Stefano Palombi Montaggio: Stefano Palombi Interpreti: Roberto De Francesco, Ninni Bruschetta, Alessio Ciaccio Produzione: Rio Film e River Film

Regia: ANTONELLO DE LEO Italia, 2007 Durata: 16’30’’ Formato Originale: DVD Soggetto: Antonello De Leo Sceneggiatura: Antonello De Leo, Domenico Saverni Suono: Alberto Padoan Musica: Marco Schiavoni Fotografia: Marco Onorato Montaggio: Marco Onorato Interpreti: Fiona May, Henry Garrett, David Brandon, Michael Fitzpatrick, Joy Longo, Mariam G. Yohans, Joie Davidow Produzione: Dax Film Entertainment

Premio Gran Visionario Visionaria International Toscana Video Festival 2008

Premio FuoriClasse - Panorama Italiano Visionaria International Toscana Video Festival 2008


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FARE CORTO

OMBRE

MA DI COSA??

ETERNAL SKIN

In un futuro non troppo lontano i sogni della piccola Gaia sono rovinati dai cattivi che abitano la città. Il nonno la distrae facendole usare la fantasia, le crea un nuovo mondo, un luogo fantastico dove potersi rifugiare per scappare dalla realtà...

Il Tribunale di Piombino ingiunge lo sfratto ai coniugi Olzi se non pagano entro pochi giorni. Loris, affetto da una paralisi alla mano destra, e la moglie sono disperati, ma giunge in città il campione del mondo di bocce Vasco Gordillo che, attraverso una conferenza, lancia una sfida: se perderà la gara con uno sfidante pagherà 20.000 euro: proprio la somma necessaria ai coniugi Olzi per conservare la loro casa. Loris Olzi accetta la sfida! Girato e montato a Piombino in 48 ore su suggerimento del titolo, delle caratteristiche dei personaggi e di alcune situazioni da parte del pubblico presente alla prima serata del Festival Visionaria 2007, secondo le regole di Corto à la Carte, progetto ideato da JeanPhilippe Pearson.

In un cimitero di campagna Aldo, accompagnato dal suo cane Leon, posa un mazzo di fiori sulla tomba di una giovane donna. Durante il viaggio di ritorno i due incontrano una prostituta, Helena, ed, inspiegabilmente, Leon comincia ad abbaiare. Il mattino seguente nel parcheggio di un supermercato Aldo si imbatte nuovamente in Helena ed, ancora una volta, Leon si scaglia ferocemente contro di lei...

Regia: Alberto Meroni Svizzera, 2008 Durata: 10’ Formato originale: 35 mm Soggetto: Alberto Meroni Sceneggiatura: Alberto Meroni, Sara Beltrame Suono: Sandro Hess Musica: Roberto Lenzinger Fotografia: Michael Bonito Montaggio: Michael Bonito Interpreti: Pietro Ghislandi, Gaia Fossani Produzione: Imagofilm Lugano / Villi Herman

Regia: Jean-Philippe Pearson Italia, 2007 Durata: 15’40’’ Formato originale: Mini Dv Soggetto: Jean-Philippe Pearson, Alfredo Cavazzoni, Gila Manetti Sceneggiatura: Jean-Philippe Pearson Suono: Jean-Philippe Pearson Musica: AA.VV. Fotografia: Jean-Philippe Pearson Montaggio: Jean-Philippe Pearson Interpreti: Alfredo Cavazzoni, Gila Manetti, Duccio Barlucchi, Pino Modica, Enrico Caroti-Ghelli, società bocciofila e gli abitanti di Piombino Produzione: Ass. Culturale Visionaria

Regia: Edoardo Lugari Italia, 2007 Durata: 14’ Formato: 16 mm Soggetto: Sergio Rodriguez Sceneggiatura: Sergio Rodriguez, Edoardo Lugari Suono: Ricki Milano Musica: Mauro Pagani Fotografia: Matteo de Martini Montaggio: Luca Angeleri Interpreti: Manola Tayde, Daniele Leornatelli, Andrea Cecchi Produzione: Bedeschifilm

Premio FuoriClasse - Panorama Italiano Visionaria International Toscana Video Festival 2007


LEI NON SA CHI SONO IO

INCISIONI

NO END

Saverio Saletti è un noto presentatore televisivo, un divo del piccolo schermo. Sicuro di sé e della sua posizione fino a quando è conosciuto e rispettato. Ma al primo inciampo, quando deve dimostrare di essere una persona oltre che un personaggio non tutto fila liscio. Personaggi grotteschi e due totem a caratterizzare l’Italia di provincia: la televisione ed il gioco del lotto.

Una storia d’amore che finisce può trasformarsi nella punta di uno scalpello che lascia un profondo solco sul vetro di uno specchio.

Come l’obiettivo di una telecamera che incide su nastro vergine, lo sguardo inconsapevole di un bambino è incapace di filtrare le immagini. “no End” perchè, senza fine, le immagini si imprimono nella memoria e non vanno più via.

Regia: Francesco Guasconi Italia 2008 Durata: 15’ Soggetto e sceneggiatura: Giuseppe Gori Savellini Montaggio: Emilio Carlo Sapia Scenografia e location: Giuseppe Gori Savellini Musica e Fotografia: Emilio Carlo Sapia Audio: Alessandro Guasconi Interpreti: Leonardo Muzzi (Saverio Saletti), Pietro Da Ru (Sindaco Malcastagnaio), Edoardo Fontani (barista), Marco Bonucci (paesano), Chiara Bratto (paesana), Clizia Corti (Bella del paese), Marco De Santis (venditore abusivo), Carlo Borgogni (il cieco) Produzione: Kangaroo Film

Regia: Carlo Tozzi Durata: 5min Anno: 2008 Genere: Fiction Interpreti: Cosetta Turco, Giacomo Moscato Sinossi\Sceneggiatura: Carlo Tozzi Musiche originali: Giulio Aldinucci Realizzato con il sostegno dell’ Ardsu Siena.

Regia: Stefano Lodovichi Durata: 15min Anno: 2007 Formato originale: HD Formato proiezione: mini dv\BETA sp / attualmente non disponibile)\DVD Genere: Fiction Interpreti: Alessandro Sampaoli, Elisabetta Magnani, Lorenzo Tassone. Sceneggiatura: Stefano Lodovichi Fotografia: Roberto Perugini Musiche originali: Francesca Piccioni & Obsil Montaggio Audio\Video: Stefano Chiodini & Carlo Tozzi sito: www.noend.tv

Realizzato dagli studenti del Corso di Laurea di Scienze dei Beni Storico-Artistici e Cinematografici della Facoltà di Lettere dell’Università di Siena.

Realizzato dagli studenti del Corso di Laurea di Scienze dei Beni Storico-Artistici e Cinematografici della Facoltà di Lettere dell’Università di Siena.


R A S S E G N A

F U O R I

G I O V A N I

R E G I S T I

FUO CO

I TA L I A N I



Progetto e coordinamento Tiziana Tarquini La rassegna Il cinema di Paolo Sorrentino è a cura di Franco Vigni La rassegna Giovani Registi Italiani è a cura di SIENA, 9-12 DICEMBRE 2008 Associazione Culturale per il Cinema Europa 51 Interventi di Roberto Barzanti Organizzazione Tiziana Tarquini, Mauro Tozzi, Franco Vigni, Giuseppe Gori Savellini

In collaborazione con

Partners

Catalogo ed immagine coordinata, sito web Mimmo Manes CanefantasmaStudio Selezione materiali audiovisivi per la rassegna “Fare Corto” Mauro Tozzi Montaggio materiali audiovisivi Associazione Culturale per il Cinema Europa 51 Hanno collaborato Renzo Barbetti, Roberto Dini, Alfredo Cavazzoni, Barbara Mottola, Duccio Barlucchi, Claudio Santori, Laura Pozzi, Pamela Pifferi Grazie a Prof. Guglielmo Moneti, Lara Lucchetta, Nicola Calocero, Simona Biancalana, Francesco Corsi, Giulia Endemini, Guglielmo Turbanti, Virus Studio, Fabio Canessa e Andrea Bruni

Progetto grafico




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