|ernesto fantozzi
il paese industriale
ernesto fantozzi
il paese industriale fotografie del 1964
a cura di: carlo cavicchio elisabetta masini
sommario
c’era una volta il paese industriale,
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Giorgio Bigatti
voce della realtà , specchio e memoria: l’importanza della fotografia di ernesto fantozzi, nel mirino di ernesto,
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Cesare Colombo
intervista a ernesto fantozzi
Uliano Lucas
a cura di Sara Zanisi
fotografie del 1964
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C’era una volta il paese industriale
Apparso oltre mezzo secolo fa, nel 1960, Milano Corea di Danilo Montaldi e Franco Alasia è un libro da cui non può prescindere chiunque voglia capire le trasformazioni vissute da Milano e il suo hinterland tra anni Cinquanta e primi Sessanta. È un racconto corale, in presa diretta, nato percorrendo i quartieri della periferia, incontrando gente, interrogando antichi residenti e i nuovi arrivati precariamente alloggiati in una città “dura, grigia, fatta solo di strade”, come dirà Ottiero Ottieri, vedendovi l’“incarnazione in cemento della struttura di classe”.
A Milano, nelle sue periferie, nei paesi della nuova fascia industriale il tessuto edilizio tradizionale è spesso costretto a una difficile convivenza con i nuovi caseggiati speculativi e con quartieri di casette autocostruite (le famose coree). Pur senza riuscire a tenere il passo con la domanda di alloggi popolari, la crescita edilizia sembra inarrestabile. In pochi anni, dal 1951 al ’61, nella parte nord della provincia di Milano circa 25.000 ettari vengono sottratti alle utilizzazioni agricolo-forestali. La campagna “distrutta, debole e pallida come il cielo” arretra senza difendersi e senza che nessuno la rimpianga, come scrive Ottieri, da poco approdato a Milano dalla natia Siena, in Tempi stretti, il suo primo romanzo industriale. Una capacità di leggere il cambiamento che Ottieri condivide con un altro scrittore toscano, il grossetano Luciano Bianciardi. Pochi anni più tardi, nella Vita agra, sarà proprio Bianciardi a lasciarci un memorabile ritratto di Milano, intuendo, fra i primi, il destino non più solo industriale di una città percorsa da nuovi stili di vita nel segno di una terziarizzazione ancora incipiente, ma avvertibile e pervasiva.
Milano Corea era un ritratto dalle molte facce di una trasformazione che era insieme economica, sociale e antropologica, un’indagine capace di interrogare i fenomeni nel loro svolgersi. Oggi che le lacerazioni e le sofferenze di quelle vicende lontane sono state metabolizzate dall’inesorabile passare del tempo, di tutto questo resta un’impressione di drammatico dinamismo. Sono gli anni in cui in Italia si registra lo smottamento del mondo contadino e un’inarrestabile fuga dalla terra. Migliaia di famiglie, da sud a nord, si mettono in movimento in cerca di lavoro e di una nuova identità, dirigendosi verso le città industriali. Donne e uomini, vecchi e bambini che portano il segno delle loro storie inciso sui volti, nei gesti e negli abiti, nei comportamenti e perfino nei gusti alimentari. Solo in provincia di Milano dal 1951 al 1961 la popolazione cresce del 26%, passando da 2.175.400 a 3.156.815 abitanti, in gran parte per effetto dell’immigrazione. “Gente rozza e importuna”, come si era detto di chi li aveva preceduti giusto un secolo prima, costretta a inventarsi nuove forme di convivenza in un ambiente difficile e sconosciuto, a cui sono le fabbriche con le loro alte ciminiere a imprimere un carattere distintivo.
Cambiano i luoghi, cambiano gli uomini. L’impatto del fenomeno è forte, traumatico, intrigante. Sollecita reazioni, talvolta anche di rigetto, genera tensioni, pone ai municipi inediti problemi di compatibilità sociale e ambientale, reclama una nuova politica dei servizi. Prefigura, nei comportamenti dei giovani e nei loro desideri, un mondo nuovo, il sogno di un presente meno grigio e chiuso di quello dei loro padri. Finalmente sembra possibile pensare di ritagliarsi un pezzo di benessere, parola entrata di prepotenza nel lessico familiare degli italiani: nuovi consumi alimentari, nuovi abiti, nuove acconciature, un desiderio di mobilità, sinonimo di libertà, che ha negli scooter e nelle motociclette i suoi simboli.
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Storie raccontate tante volte, ma alle quali oggi si torna a guardare con occhio diverso, animati da nuove curiosità e dal desiderio di capire, alla scala locale, how migration shaped our world. Un percorso all’interno del quale vengono acquisendo sempre maggiore rilievo la documentazione fotografica e il cinema.
Rivedere a cinquant’anni di distanza quel suo lontano reportage, pressoché inedito, sarà per molti una sorpresa, come lo è stata per me. Sono immagini che hanno la capacità di cogliere e trasmetterci con meditata immediatezza la violenza e la seduzione del cambiamento. Siamo nel 1964 e le fotografie ci mostrano un mondo ancora in equilibrio, anche se è evidente che si tratta di un equilibrio solo apparente, internamente agito da un’irrefrenabile ansia di cambiamento, percorso da un desiderio di modernità cui vanno strette le vecchie abitudini di vita e di lavoro.
Si pensi al corto di Franco Piavoli Emigranti, del 1963, un documento di rara forza sulla realtà e la fatica del migrare colte nei volti delle donne e degli uomini assiepati nelle sale d’aspetto della stazione centrale di Milano; oppure, su di un diverso piano, meno intimo e maggiormente teso alla denuncia politica, alle immagini pubblicate in quegli stessi anni dalle pagine locali dell’“Unità”, da cui recentemente Uliano Lucas e Tatiana Agliani hanno tratto un lungo racconto fotografico. È prendendo le mosse da questo lavoro che Fondazione Isec ha deciso di promuovere questa mostra di Ernesto Fantozzi dedicata al Paese industriale.
Credo che ciascuno, sfogliando le pagine di questo catalogo, troverà motivi d’interesse e di riflessione osservando le facce e i gesti, i segni, il paesaggio, ritrovando forme di socialità ormai scomparse e ancora segnate da una separatezza di genere rivelatore del lungo cammino di liberazione percorso dalle donne. Scoprendo, dietro le luci del miracolo, un’Italia povera, oggi che di povertà si torna a parlare, un’Italia dove il lavoro minorile era un fenomeno diffuso (quanti ricordano che l’innalzamento a quattordici anni dell’obbligo scolastico, un tornante decisivo della nostra storia civile, data al 1962?). Di tutto questo va dato merito a Ernesto Fantozzi. E per questo la Fondazione Isec è lieta di poter presentare una mostra che mi è subito apparsa coerente al lavoro di ricerca di conservazione della memoria che ci impegna da anni.
Si tratta un reportage del 1964, al culmine della stagione del miracolo. La fase di maggiore accelerazione dell’economia si è ormai esaurita. E la ripartenza, dopo la breve flessione congiunturale del 1963, evidenzierà progressivamente contraddizioni irrisolte determinando una crescente tensione sociale, che esploderà al chiudersi del decennio nelle lotte operaie e studentesche. Naturalmente questo Fantozzi non poteva saperlo. Avvertiva però con forza che qualcosa si era rotto per sempre. Che i paesi non erano più tali, che la modernità stava scuotendo dalle fondamenta le vecchie strutture insediative del nord Milano e che tutto questo avrebbe determinato nuovi assetti sociali. Sente allora l’urgenza di documentare ciò che avverte, andando alla ricerca dei segni di una trasformazione in atto. E lo fa con lo strumento che gli è più congeniale: la macchina fotografica.
Giorgio Bigatti Fondazione ISEC
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Nel mirino di Ernesto
tore edilizio – se li trova di fronte quasi senza cercarli. È in certo modo circondato da una umanità che lo guarda senza sorridere, rassegnata, alle fermate dei bus e dei tram extraurbani, o davanti a modesti baretti, o accanto agli incroci nebbiosi, ancora senza semafori.
Come mi è capitato di scrivere in altre occasioni, la lunga vicenda narrativa che ha coinvolto Ernesto Fantozzi lungo più di cinquant’anni (e che ancora non è conclusa) può essere compresa solo attraverso il rapporto tra la sua scelta di una precisa esplorazione visuale ed il particolare clima sociale del nord Italia. Quasi subito, dall’inizio delle sue ricerche fotografiche – non professionali ma certo non amatoriali! – il suo atteggiamento appare polemico nei confronti delle visioni formali che da decenni gli autori suoi colleghi, in maggioranza, conducono.
Il quadro complessivo che osserviamo, inquadratura dopo inquadratura, ha una propria impressionante coerenza. Le figure inquadrate non sanno di venir trasformate dallo sguardo di Ernesto in ‘protagonisti’.
Per Ernesto l’analisi della società che ci circonda, dell’umana commedia che si svolge davanti ai nostri occhi... non può piegarsi a degli schemi stilistici di superficiale armonia, per così dire, consolatori. I suoi dichiarati riferimenti al fotogiornalismo Usa, al cinema neorealista, alla letteratura d’inchiesta, lo portano subito verso un linguaggio visivo essenziale, depurato da ogni possibile accademia.
La fotografia non appare alla gente come un temibile mezzo di cattura e di divulgazione del privato. Il fotografo è visto come uno strano passante armato ma non ostile, addirittura come una specie di esploratore alieno, eppure amichevole. Ernesto osserva attraverso il mirino glaciale della sua Leica e viene contemporaneamente ‘osservato’ dai protagonisti inconsapevoli di una tumultuosa transizione.
Al contrario, egli vorrebbe – a ogni scatto – far scomparire qualsiasi scelta compositiva nell’inquadratura, qualsiasi finezza prospettica o tonale… che faccia pensare a un progetto ‘artistico’. E tuttavia, il suo progetto di raccontare in modo asciutto, rigoroso, il clima sociale in cui si immerge, ha un esito personale ancora oggi inconfondibile. Che è una forma pudica di coerenza e, in certo senso, di creatività.
Ci colpiscono i diversi ragazzini al lavoro con dignità adulta nel volto, come nell’abito. La motorizzazione popolare - soprattutto attraverso gli scooter e le motoleggere - porta le pompe di carburante accanto ai tavolini dei caffè, con una interessante coesistenza di gesti e di atti rituali. Caffè, vino, gelati: il volto antico dei ‘pubblici esercizi’ è però molto distante dalla classica pigrizia ‘mediterranea’ ben nota ai turisti stranieri. Circondati dal fango dei quartieri e dagli scarichi dei mezzi, i tavolini senza tovaglia sono anch’essi una metafora delle durezze che questi caotici paesi attraversano.
Dalla metà degli anni Cinquanta, nell’hinterland milanese, la trasformazione territoriale è in atto. E – come si è già scritto – non solo i contadini della Brianza si trasformano in operai, ma dal Meridione arrivano braccianti, artigiani, pescatori, reduci di guerra. Ernesto Fantozzi – che percorre il territorio anche nelle rigide giornate di inverno, per ragioni legate alla sua professione nel set-
I muratori con le biciclette, fermi a Cusano Milanino, guardano negli occhi, nell’obiettivo, il nostro (allora giovane) amico Ernesto
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Fantozzi. Non parlano, ma sembrano divertiti, attenti alla ripresa. Immaginiamo oggi di fare una domanda al loro posto: che cosa è veramente successo nei cinquant’anni che ci separano da quell’ attimo? Oggi ognuno di noi – a seconda della nostra età, delle nostre idee e convinzioni – sa (o crede di sapere) che un lungo processo ha mutato la condizione di un territorio vastissimo. E che sono mutati i modelli del lavoro, del tempo libero, dell’abitare, del vestire, del muoversi…
bar, dove sono finiti quei ragazzi. Oppure che si possa leggere il tutto come un passaggio culturale e operativo della fotografia italiana degli anni Sessanta, tra crisi artistiche e nuovi impegni. Ma c’è un’ultima considerazione che credo anche Ernesto possa condividere. Oggi produrre immagini fotografiche (grazie alle tecnologie digitali sviluppate soprattutto nei telefoni cellulari ormai protesi di ognuno di noi) coincide con l’atto stesso del vedere.
Le copie che Ernesto estrae oggi dalle sue cartelle sono tuttavia immagini ben diverse da quelle che egli ha stampato in camera oscura o esposte in lontane mostre. Sono dei reperti che riprendono una loro nuova vita a partire da chi oggi le osserva… compreso l’autore stesso.
A differenza della produzione di immagini analogiche (in pratica di tutta la fotografia del Novecento che Fantozzi eroicamente rappresenta) oggi miliardi di immagini digitali invadono il web, con segni ottici quasi sempre privi di valore espressivo o narrativo. L’atomizzazione crescente sembra togliere il ‘significato’ che hanno fin qui avuto le riprese fotografiche, come personale visione del mondo. In questo senso il racconto operato da Ernesto sul Paese industriale è anche l’indicazione per un recupero di progetti visivi strutturati. È l’indicazione per rinnovate inchieste personali, mirate, critiche. È in sostanza l’esempio di un metodo di analisi fotografica che non può andare perduto. Cesare Colombo
Per Fantozzi erano allora un accanito esercizio di attenzione e solidarietà verso strutture, oggetti, veicoli, persone che rispecchiavano una dimensione di innegabile durezza, difficoltà, disagio. Nel rapido passare dei decenni, noi stessi testimoni di quei momenti, possiamo compiere una infinità di raffronti col presente. Misurare contraddizioni, progressi, arretramenti. Valutare l’abisso antropologico che ci separa da quegli anonimi protagonisti ormai dispersi. Ma cosa dicono le fotografie di Ernesto Fantozzi a chi non ha vissuto quel clima storico, forse non ne ha mai letto un resoconto, né sentito raccontare in famiglia? È facile (ma pericoloso) che tutta questa intensa foto-storia sia accettata come un pacchetto di cartoline polverose. Oppure che scatti l’opzione nostalgia, un mondo perduto da rimpiangere. Oppure che si presenti il desiderio, l’occasione per una inchiesta visiva-bis dopo mezzo secolo: come sono oggi quei posti, quei
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Durante gli anni frenetici del boom i paesi dell’hinterland milanese perdevano progressivamente la loro identità per arrivare a fondersi in un’unica sconfinata periferia. ernesto fantozzi
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Cusano Milanino
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Desio
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Cinisello Balsamo
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pagina a lato e successiva Cusano Milanino
Cusano Milanino 20
Lissone
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Cinisello Balsamo pagina successiva Cologno Monzese
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Cinisello Balsamo pagina precedente Cologno Monzese
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Redecesio pagina successiva: Una località dell’hinterland
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Rho
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Cinisello Balsamo
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Rho
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Melegnano
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Catalogo realizzato in occasione della mostra de “Il paese industriale” 7-23 giugno 2013 presso Fondazione ISEC Villa Milyus, Largo La Marmora, 17 20099 Sesto San Giovanni (Mi) Catalogo a cura di: Carlo Cavicchio Elisabetta Masini Hanno collaborato Giorgio Bigatti Cesare Colombo Uliano Lucas Sara Zanisi Grafica e fotolito: CDcromo, Milano Stampa: Graphic s.r.l., Milano
Ernesto Fantozzi è socio del CFM e socio FIAF dal 1958