multiverso 2 flessibilità

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Franco Fabbro

preside.formazione@amm.uniud.it

elaSviluppo rberec àteicplasticità itsalp e op cerebrale pulivS eugnell’apprendimento nil elled otnemidnerp delle pa’lle lingue n Il cervello umano è un sistema dotato di una grande complessità che può essere intuita considerando alcuni dati numerici. Si pensa che il cervello sia formato da 100 miliardi di neuroni (1011); ogni neurone possiede in media 1.000 (103) sinapsi che lo collegano ad altri neuroni. Moltiplicando il numero dei neuroni per il numero delle sinapsi si ottiene il numero delle connessioni cerebrali, che per ogni individuo sono intorno a centomila miliardi (1014). Ciascuna delle sinapsi può trovarsi in un differente stato funzionale in relazione ai diversi livelli di attivazione o di inibizione elettrochimica. È stato calcolato che ogni sinapsi può avere in media circa dieci possibili stati funzionali. Combinando gli stati funzionali con il numero delle sinapsi otteniamo il numero dei possibili stati cerebrali. Il risultato è un milione di miliardi (1015). Si tratta di un numero impressionante che avvalora la metafora concepita durante il Rinascimento, che ogni uomo abbia dentro di sé un microcosmo che può essere paragonabile per complessità al macrocosmo. Oltre alla complessità il cervello umano presenta una seconda caratteristica fondamentale, cioè il ‘cambiamento’. Come è noto il cervello si sviluppa secondo un meraviglioso programma durante la vita fetale. Tuttavia alla nascita il sistema nervoso umano non ha completato il suo sviluppo per due diverse ragioni. Da una parte i piccoli degli esseri umani nascono ‘prematuri’. Dovrebbero nascere infatti a 18-20 mesi, ma per facilitare il passaggio della testa nel canale del parto vi è stata una spinta evolutiva alla nascita prematura intorno ai nove mesi. D’altra parte lo sviluppo e il cambiamento del cervello continua per tutta la vita in maniera evidente fino a 20 anni, in maniera più ‘sottile’ fino alla morte. 30

Gli studi di neurobiologia hanno identificato quattro indici per misurare il cambiamento a livello del sistema nervoso. Questi indici sono: la densità neuronale, lo sviluppo dei dendriti, la sinaptogenesi e la mielinizzazione. La densità neuronale si riferisce al numero di neuroni per millimetro cubo. Essa diminuisce costantemente con l’età fino a raggiungere, nell’adulto, un valore che è tipico per ogni struttura del cervello. Lo sviluppo dei dendriti si riferisce alla selezione di alcuni dendriti e al loro aumento in lunghezza e in complessità (mediante lo sviluppo delle spine dendritiche). La sinaptogenesi si riferisce allo sviluppo delle sinapsi ed è un indice della complessità dei collegamenti fra i neuroni. Sono state identificate cinque fasi distinte della sinaptogenesi. Nelle prime fasi, fino agli 8 anni di età, vi è un rapido sviluppo del numero delle sinapsi; successivamente si assiste a una progressiva eliminazione con ‘potatura’ delle sinapsi. Per mielinizzazione si intende il processo di rivestimento degli assoni con guaine mieliniche. La mielinizzazione degli assoni rappresenta un importante processo di maturazione del cervello perché aumenta l’efficacia della trasmissione delle informazioni. È stato riscontrato che una particolare struttura del cervello raggiunge una mielinizzazione completa in coincidenza con l’acquisizione piena delle funzioni a cui è preposta. Il cervello alla nascita non è dunque completamente sviluppato ma matura progressivamente durante la crescita e l’apprendimento. Lo studio delle tappe di mielinizzazione è stato uno dei metodi più utilizzati per misurare la maturazione cerebrale. La formazione della mielina nel midollo spinale inizia a metà della vita fetale e continua per tutto il primo anno di vita. I fasci nervosi delle vie motorie, sensoriali


, r a g n r a a r t F c e l f n o n

© Nicola Boccaccini

erò h g e i pi m n no a m erò, z z e p Mi s


tattili, visive e uditive raggiungono invece un elevato grado di maturazione già alla fine del primo anno di vita. Le strutture sottocorticali, come i gangli della base, il talamo e il cervelletto raggiungono un buon grado di maturazione intorno ai 2 anni e la completano prima dei 7 anni d’età. Le aree corticali che completano per prime la mielinizzazione sono le aree sensorimotorie primarie. In seguito – prima degli 8 anni – maturano le aree associative dei lobi occipitale, temporale, parietale e frontale, incluse le classiche aree di rappresentazione del linguaggio (area di Wernicke e di Broca) e le fibre che collegano tali aree (ad esempio il fascicolo arcuato). Infine, molto tempo dopo la pubertà, completano la loro maturazione alcune aree associative terziarie del lobo temporale, del lobo parietale (giro angolare) e della corteccia prefrontale coinvolte nell’integrazione, nella sintesi e nella regolazione del comportamento. Gli studi pionieristici di neuropsicologia dello scorso secolo hanno evidenziato che lo sviluppo della psiche umana deriva dall’interazione fra la maturazione del cervello e l’ambiente linguistico e culturale in cui un bambino cresce. Ogni essere umano durante il processo della crescita ‘interiorizza’ o meglio ‘incarna’ a livello neuronale le tradizioni culturali e linguistiche sviluppate storicamente dalla cultura all’interno della quale il soggetto completa la sua maturazione fino alla pubertà. Gli studi di neurolinguistica del plurilinguismo hanno evidenziato che l’acquisizione precoce di più lingue in un bambino ‘scolpisce’ – a livello microanatomico – il cervello in maniera differente rispetto all’acquisizione di una lingua soltanto, oppure rispetto all’apprendimento adulto di una seconda lingua. L’acquisizione precoce di più lingue determina una rappresentazione delle competenze fonologiche (riconoscimento e produzione dei suoni delle lingue) e morfosintattiche

(applicazione delle regole grammaticali) in specifici circuiti neuronali che coinvolgono prevalentemente alcune strutture sottocorticali (gangli della base e talamo) e sottotentoriali (cervelletto) con una limitata rappresentazione corticale delle lingue. Questa rappresentazione prevalentemente sottocorticale delle lingue acquisite prima dell’età critica è responsabile delle competenze linguistiche tipiche dei bilingui precoci, ovvero l’uso automatico e naturale delle due lingue, l’assenza di accento straniero e di errori grammaticali nell’espressione verbale. Come è noto è possibile apprendere le lingue anche da adulti. Esiste quindi una plasticità a livello cerebrale attiva durante tutto il corso della vita. L’apprendimento da adulti sembra dipendere da cambiamenti neurofunzionali delle sinapsi nei circuiti neuronali localizzati a livello della corteccia cerebrale. Esperimenti di neurofisiologia compiuti negli ultimi quindici anni hanno evidenziato notevoli modificazioni della rappresentazione cerebrale di stimoli sensoriali (tattili e uditivi) in seguito a fenomeni di apprendimento. Anche l’apprendimento di lingue in età adulta, specialmente se mediato da strategie consapevoli, è collegato a fenomeni di plasticità corticale. La seconda lingua infatti tende ad essere rappresentata nelle strutture della memoria dichiarativa (aree corticali posteriori dell’emisfero cerebrale specializzato per il linguaggio). Il risultato è che l’apprendimento di una seconda lingua in età adulta determina una espressione lenta e faticosa, con accento straniero e la presenza di numerosi errori morfosintattici. In senso metaforico possiamo concludere che le lingue acquisite precocemente scolpiscono gli strati più profondi del cervello mentre le lingue apprese in età adulta modificano soltanto le strutture più superficiali e più recenti del cervello.

«È da sparargli» ho sentito dire da un bambino di tre anni, cioè uno che per tre anni aveva vissuto, non fatto il servizio militare. In qualche luogo nascono i bambini come prodotti finiti. Usciti dal corpo materno saltano i tanti modi della sensibilità attraverso i quali la parola ha dovuto svilupparsi prima di poter diventare un modo di dire. Karl Kraus, ‘Detti e contraddetti’, Adelphi, Milano 1994, pp. 328-329 (trad. it. di R. Calasso). 32


Mr. Linea, Osvaldo Cavandoli, 1969.


ci o e ch son o nim ppena a ’ d na i e t z i a e t t i o a s o o ono n ti; gi simp n o sa Vi s muov nosciu quali i che o r comnoi co con le e viz ia dolo i d a t e z z e s s i o n e ra v i g l i n c o l u t r i s o , p a l a m ep i e t à e o n m o n i a a n a f i l e n cend z voca e o i z n , a a p ro t e r ro r t e m p l s i a v v i r i s o n a o il li con i che a per iò tocc ita, che timent in animutto c della v sen nima ento; t ziale lvolta na di a entim essen io e ta perso d i s p a r t e è s e r o v e l a u o v e, e alla tto ciògico. D comm inciar cia e t u h e t ra p i ù c i ò c o m c o m i n a n c u i n o n n t e p uq u e s t a e ro t n r b e a l t o l a m d i a e o t re b t o c o là s omme e si p idimen la c ciò ch ‘l’irrig c o n m a re i a l e ’ . chia ita soc la v


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© Nicola Boccaccini

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© Luca Laureati


Pierluigi Cappello

pierluigi.cappello@libero.it

8191Bosco ,notrudi oCCourton, id ocsoB1918 Un reggimento di fanteria guadagna la protezione di un bosco, a ridosso del fronte occidentale, ottantotto anni fa. Il bosco è un bosco di luglio e non è molto lontano dalla prima linea, ma la sua bocca verdeggiante è una capsula di silenzio dimenticato nei cuori di coloro che hanno combattuto. «Caro Camillo, sono stato dieci ore in combattimento, sotto un fuoco violentissimo. Mio fratello e io siamo salvi non so come e incolumi: ma mi sento rotto, sfasciato – una specie di congelazione del cuore, con qualche sprazzo di molta tristezza. Fu la notte di S. Giuseppe… Addio, addio… mi sembra che non vivrò mai più, tuo Angelo. (Ora siamo sicuri e si scherza)». Uomini che rientrano dal fronte. Questa è una lettera di Angelo Barile, indirizzata a Camillo Sbarbaro, il 19 marzo del 1916. Se c’è un colore che domina nei ricordi della prima guerra mondiale, è il colore del fango. Uomini costretti a farsi fango, a rompere la terra, a ridurre la propria umanità per non vedere la morte che riempie gli occhi, soldati che non alzano mai la testa, tenendo lo sguardo ben dentro all’impasto senza forma che li ha generati. «Addio, addio… mi sembra che non vivrò mai più». Sono sicuri e scherzano i ragazzi del XIX reggimento di fanteria del Regio Esercito Italiano, protetti dal bosco di Courton, lontani dalla guerra. Magari la giornata di luglio è una giornata soleggiata, e forse il fresco delle foglie è appena appena mosso da una brezza e il bosco sussurra ai loro corpi con la serenità di un mare in pace, come quando le acque dànno confidenza alla pelle, ferme. E allora quei volti, che prima erano tutti uguali, riuniti in uno solo dalla fatica e dalla paura, schiudono pian piano i loro lineamenti di uomini e il soldato riconquista il suo essere marito, fratello, figlio. Ognuno di loro è un luogo di rinascita. Alcuni ragazzi cominciano a giocare, più collegiali in gita che soldati, finché la guerra richiude il pugno su quella pace e il


Š Paolo Jacob


Claudio Naranjo

és Sulla led àtflessibilità itnedi’llus ee àsull’identità tilibisself aldel luS sé Come preludio: un’ode alla flessibilità

Flexibilitas, mi sei così cara che preferirei parlare a te piuttosto che parlare di te con qualcuno; quindi, anche se è convenzione considerarti un nome astratto, ti invocherò come una persona così da esprimere meglio il mio amore, pensandoti come una Musa o addirittura come un verbo, anche più sottile del molto venerato logos. Perché tu sei, flexibilitas, la sottilità stessa al cuore della complessità – eppure così semplice. Tu sei l’invisibile tutto che contiene ogni cosa – e dal grembo nel non-essere ti proietti nel mondo attraverso le idee e le azioni del saggio. Ma il mondo può solo afferrare le tue parole, forme e formule, essendo inconsapevole del tuo sacro respiro. Entra a far parte dell’educazione, ti imploriamo, perché quelli che stanno nell’oscurità hanno assassinato l’educazione molto tempo fa, ed essa ha bisogno di nascere a nuova vita, così che tutti noi possiamo sopravvivere. Poiché nell’educazione lo spirito è stato bandito dai fautori delle parole morte, e la bontà resa irrilevante dal potere burocratico servile e auto-referente, e la sottilità dell’intelletto rimpiazzata da informazioni quantificabili. Eppure il mondo ha bisogno di quello che le macchine non possono fare, ed è il segno rivelatore della consapevolezza: il vero volare, che non è questione di elevarsi al di sopra di una superficie bidimensionale, ma il lasciarsi indietro ogni dimensione esplicita verso l’incondizionato senza dimensioni. Vieni, flexibilitas e rendici cedevoli, ché anche le nostre menti, diventando arrendevoli, possano penetrare il mistero e infine arrivare al desiderato riposo. Vieni, ancella della Grande Profondità e portaci fino al cuore del nostro desiderio.


valori, ma credo che questa sia l’essenza della saggezza, il migliore rimedio alla smodatezza dei nostri desideri e delle nostre emozioni distruttive, e quindi la chiave per la felicità. Sul potenziale politico dell’assenza di ego e sulla flessibilità che l’accompagna

«Di tutti i fatti della scienza non ne conosco uno più solido o fondamentale del fatto che se inibisci il pensiero e perseveri in questo, alla fine arrivi in una regione di consapevolezza al di sotto o al di là del pensiero, e diversa dal pensiero ordinario nella sua natura e nel suo carattere. Una consapevolezza di qualità quasi universale e una realizzazione di un sé decisamente più vasto di quello a cui siamo abituati. E dato che la consapevolezza ordinaria con la quale abbiamo a che fare nella vita di tutti i giorni si basa prima di tutto sul piccolo sé individuale, ne consegue che uscire da questo schema è come morire rispetto al sé ordinario e rispetto al mondo ordinario. È come morire nello stato ordinario, ma in un altro senso, è come svegliarsi e trovare che l’io, il più reale, intimo sé, pervade l’universo e tutti gli altri esseri viventi» Così scriveva Edward Carpenter nell’Inghilterra del XIX secolo, ma anche se interpretata in vari modi e raggiunta spontaneamente o attraverso i metodi proposti dalle varie scuole spirituali, non dubito che questa sia un’esperienza che è conosciuta da sempre e da tutte le culture, anche se accessibile solo a pochi. Tuttavia può essere che ci troviamo in una fase di transizione verso il mondo che Sri Aurobindo e Pierre Teilhard de Chardin hanno intravisto, in cui la chiave per superare la condizione critica del mondo potrebbe essere una via di illuminazione collettiva. Non credo, però, che la nuova condizione possa svilupparsi spontaneamente. Piuttosto dovrebbe implicare una sorta di ‘metanoia’ istituzionale – un cambiamento nel modo di pensare nei governi e nell’educazione. Il che potrebbe sembrare inconcepibile, ma lo penso tuttavia possibile, poiché lo vedo come la nostra unica speranza e poiché, dopo tutto, dovrebbe essere nell’interesse dei governi servire gli interessi comuni della gente, ed ‘è’ nell’interesse sia dell’individuo che della comunità diventare ‘nessuno’. 6

Quindi è compito dei governi preoccuparsi di creare le condizioni affinché le persone imparino ad identificarsi con la sostanza dell’essere e non con le sue caratteristiche contingenti. Come quando, secondo Omero, Odisseo divenne troppo adirato e arrogante per continuare a sostenere la sua identità di ‘nessuno’ e mise in pericolo la sua vita, così noi ci attiriamo le disgrazie se ci identifichiamo troppo rigidamente con il nostro nome e la nostra fama. È stato in un attacco di disposizione patriarcale che Odisseo tentò di ferire i ciclopi confidando nel suo nome – un gesto trionfalistico paragonabile a quello di un campione che pianta una bandiera sulla cima di una montagna o di un conquistatore che erige un monumento alla sua gloria nel territorio conquistato. Ed è lo spirito patriarcale, eccessivamente eroico, combattivo ed egemonico che ci mette nei guai, sia nella famiglia che nella comunità allargata, e nel mondo delle relazioni internazionali. È come se un padre autoritario dentro di noi avesse reso schiavi l’aspetto materno e nutrice della nostra natura e la spontaneità del nostro bambino interiore e se, allo stesso tempo, queste nostre svalutate e inibite subpersonalità si fossero ribellate diventando disfunzionali, così che la naturale democrazia di padre-madre-bambino nelle azioni dei nostri tre cervelli ne sia stata distrutta. Ritengo che la difficoltà a guarire dalla condizione patriarcale possa essere evitata attraverso l’educazione e, possibilmente, attraverso un modo di amarsi più consapevole e un’educazione più adeguata; e che non ci sia niente di più importante da raggiungere per i governi che mettere in moto questo processo. Così penso che Lao Tzu avesse ragione e che spetti a noi creare un modo di educare che non trascuri la nostra necessità di imparare a ‘scomparire’. Perché niente come il rinunciare alla nostra rigida adesione a quello che crediamo di essere può essere un antidoto efficace alla hybris patriarcale, e perché morire a noi stessi può essere il punto di partenza verso un equilibrio democratico ed eterarchico tra il padre-madre-bambino che risiedono nella nostra anima. [Traduzione di Paola Zamparo]


© Guido Guidi

La costruzione di un’identità è un processo infinito e perennemente incompleto e tale deve restare per assolvere il proprio compito (o, più precisamente, per mantenere credibile la promessa di un suo assolvimento). Nel disegno di vita incentrato sulla lotta per l’identità, autocreazione e autoaffermazione sono la posta in palio, e la libertà di scelta rappresenta al contempo l’arma principale e il premio più ambito. La vittoria finale significherebbe in un sol colpo annullare la posta, deporre le armi e revocare il premio. Per evitare che ciò accada, l’identità deve restare flessibile e sempre suscettibile di ulteriori sperimentazioni e cambiamenti; deve essere un genere di identità autenticamente «a tempo». La possibilità di disfarsi di un’identità nel momento in cui cessa di soddisfare o perde attrattiva rispetto ad altre e più seducenti identità disponibili è di gran lunga più importante che non il «realismo» dell’identità attualmente ricercata o momentaneamente conquistata e goduta. Zygmunt Bauman, ‘Voglia di comunità’, Laterza, Roma-Bari 2004, p. 63 (trad. it. di S. Minucci). 7


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Š Ulderica Da Pozzo


davide.zoletto@uniud.it

© Ulderica Da Pozzo

Davide Zoletto

Giocare disimparare erara pmisid rper ep e racoiG 1. Apprendere ad apprendere. È uno degli slogan della flessibilità in educazione. Come a

dire che nella cosiddetta società della conoscenza non basta più semplicemente imparare. Perché qualunque cosa si impari o si acquisisca (conoscenze, competenze, atteggiamenti…), sembra diventare da un momento all’altro obsoleta, inadeguata, inutile a essere ‘spesa’ su un ‘mercato’ (di conoscenze, di competenze, di atteggiamenti…) che cambia continuamente e imprevedibilmente. Per questa ragione dovremmo invece apprendere ad apprendere: cioè diventare capaci di imparare e acquisire altrettanto continuamente e altrettanto imprevedibilmente quei saperi, quelle competenze, quegli atteggiamenti che quel ‘mercato’ ci chiede. Il carattere retorico, oggi, di questo tipo di discorsi viene evidenziato da più parti, soprattutto nella misura in cui serve più a produrre nuove offerte formative che ad aumentare davvero l’integrazione dei suoi destinatari. Ma questo nulla toglie alla ricchezza teorica e pedagogica di un’idea come quella dell’apprendere ad apprendere. Solo che proprio quella ricchezza ci chiede un supplemento di senso critico. In tempi non sospetti – quando ancora nessuno proclamava le magnifiche sorti progressive della società della conoscenza – uno degli inventori dell’apprendere ad apprendere, Gregory Bateson, ricorreva al gioco per mostrarci il senso di quello che lui e Margaret Mead chiamavano ‘deutero-apprendimento’ o ‘apprendimento 2’. Nel 1955, a una delle Macy Conferences sulla cibernetica, Bateson propone il seguente esempio: prendiamo un bimbo che gioca a essere un arcivescovo (si sa che i bimbi devono per forza – per imparare a rispettarli – scherzare spesso coi ‘santi’, siano essi arcivescovi, medici, insegnanti o genitori): nessuno di noi penserà che quel bimbo stia imparando come fare da grande l’arcivescovo; che stia, cioè, imparando alcune conoscenze più o meno dottrinali, alcune competenze più o meno

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© Luca D’Agostino / Phocus Agency


Uno strano mistero vive nelle onde di un suono vibrante. Se si comunica un movimento ad un oggetto in posizione di riposo, esso accoglie l’impulso e ripete il movimento finché l’energia ricevuta non si sia estinta. Avviene lo stesso con una corda messa in vibrazione o una colonna d’aria; ma mentre l’onda lentamente si estingue, s’alzano piano dei suoni più lievi e più chiari, come da nebbie umide, dal canto che si dilegua. Marius Schneider, ‘Il significato della musica’, Rusconi, Milano 1996, p. 62 (trad. it. di A. Audisio, A. Sanfratello e B. Trevisano).


Š Danilo De Marco


Erri De Luca

elibissRiassunto elfni acopdi e’nun’epoca u id otnusinflessibile saiR La politica inventata nel decennio settanta del secolo scorso fu senza deleghe, di piazza, spiccia di modi e contagiosa. Quel famoso Pasolini che nel marzo ’69 prendeva le parti dei poliziotti negli scontri di Valle Giulia a Roma, nel ’69 cambiava trincea. Allo stadio si incitavano le squadre al ritmo delle sillabe tronche dei cortei della sinistra rivoluzionaria. Nelle prigioni si entrava in molti per motivi politici cambiando i connotati alle reclusioni e ai reclusi. Le rivolte dei penitenziari salivano sui tetti per farsi sentire, perché quello contava, allearsi alle voci di un paese in rivolta. Nelle caserme si iniziò dallo sciopero del rancio. Le piazze non erano aperte, le manifestazioni dovevano imporsi contro i divieti, difendersi dallo scioglimento. Diventammo pubblica insolenza, insolubile. Fu così per dieci anni, dalla strage di stato del dicembre ’69 alla Banca dell’Agricoltura di Milano, all’annientamento della scorta di Moro a opera delle Brigate Rosse nel marzo del ’78 a Roma. In mezzo abitammo noi, inflessibili con la parola politica, che era intrattabile, non negoziabile. Eravamo il tutto e il subito come programma minimo. Ho saputo poi dalle scritture sacre che l’estremismo è ragionevole. Ho saputo dalle richieste e dai comandamenti di quella divinità esigente, che l’umanità reagisce solo a grandi impulsi, a compiti schiaccianti. Eravamo in inferiorità numerica, minoranza che non diminuiva. La mia frazione, Lotta

Continua, si scioglie nel ’76 nel punto di massima espansione. A quel tempo ci si addiceva la parola comunismo, l’unica che non avevamo inventato noi, ma il secolo, prima di noi. Non era differita nel futuro, non era abbinata a una presa di forza del potere. Comunismo era il giorno, dal buio dei volantini distribuiti all’ingresso del primo turno di fabbrica fino all’ora notturna in cui si scioglieva la riunione che fissava il da farsi del giorno seguente. Il comunismo dormiva poco. In Parlamento il partito che portava quel nome era per noi un pezzo del potere costituito. Il potere costituito andava inceppato ovunque. Comunismo era il nome, il rumore di quell’inceppamento. Noi eravamo l’attrito. Non credevamo ad alcuna versione ufficiale. Capovolgevamo la notizia per renderla leggibile. Che la strage alla banca di Milano fosse di stato l’abbiamo denunciato e dimostrato noi. La verità giudiziaria manca ancora oggi. Non potevamo fornire ricambio alla classe dirigente. Oggi quelli che la formano sono gli imboscati e i disertori del decennio settanta. Sono i più flessibili del mondo, cambiano inclinazione a ogni sondaggio. È classe politica di affini. Da noi un governo di centrodestra ha per concorrente un’opposizione di centrodestra. La parola politica è la più screditata del vocabolario. Nel decennio settanta è stata la più nobile. Entrava nei rapporti personali, anche gli abbracci, i figli, il calcio, i desideri, i viaggi erano politici...

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Enzo Rullani

enzo@rullani.com

Com’è possibile perseguire obiettivi a lungo termine in un’economia che ruota intorno al breve periodo? Com’è possibile mantenere fedeltà e impegni reciproci all’interno di aziende che vengono continuamente fatte a pezzi e ristrutturate? In che modo possiamo decidere quale dei nostri tratti merita di essere conservato all’interno di una società impaziente, che si concentra sul momento? Queste sono le sfide che il nuovo capitalismo flessibile pone al carattere. Richard Sennett, ‘L’uomo flessibile’, Feltrinelli, Milano 2005, p. 10 (trad. it. di M. Tavosanis/Shake).

oihcsEconomia ir led aimo del nocrischio E Condividere progetti, investimenti, significati nell’esplorazione del nuovo e del possibile Come eravamo… (quando regnava l’ordine fordista)

Per parlare di rischio, di incertezza e di precarietà bisogna innanzitutto stabilire una distanza col ‘fordismo’, ossia con quel paradigma produttivo e istituzionale in cui rischio, incertezza e precarietà non facevano parte dell’esperienza di vita dei ‘lavoratori tipici’, tutelati e garantiti dal contratto e dalle leggi. I rischi gravanti sul sistema produttivo e generati dalle innovazioni erano infatti metabolizzati e neutralizzati dalle grandi tecnostrutture (corporations private e welfare State), uscendo in pratica dall’orizzonte di vita della gente, e dei lavoratori in primo luogo. Ai quali, in cambio dell’obbedienza al management e allo Stato, negoziata dalle rappresentanze sindacali e politiche del lavoro dipendente, veniva garantito un posto di lavoro stabile e un percorso professionale in ascesa, con salari e competenze uniformemente crescenti, nel corso degli anni. Non era un mondo esaltante, per chi lavorava ‘alle dipendenze’, ossia in ruoli esecutivi in cui tempi, luoghi e contenuti del proprio lavoro venivano decisi e regolati da altri. Ma era un mondo ragionevolmente sicuro. Per esserlo, i suoi legami e i suoi confini dovevano essere stretti, con stanze ben squadrate, prive di porte e finestre, o, al massimo, aperte a chi non si ferma più di tanto, essendo solo di passaggio. Il mondo del fordismo funzionava, in effetti, come un regime chiuso di appartenenze e di possibilità. Dove, secondo i programmi, essendo tutto regolato e negoziato, niente in pratica poteva/doveva accadere: né di cattivo, né di buono. Le singole persone non avevano, in quelle stanze, spazi rilevanti per andare oltre l’orizzonte loro consegnato dalle identità di classe, di luogo, di azienda, consegnate in partenza.

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