multiverso 3 vecchio nuovo

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Il nostro orologio biologico è situato in un gruppetto di cellule nervose (poche migliaia di neuroni) addensati alla base del cervello sopra il chiasma ottico, la sede dell’incrocio di fibre che originano dalla retina e sono dirette dentro al cervello, nei centri cerebrali dove si formerà l’immagine visiva. I raggruppamenti di cellule del cervello che hanno determinate caratteristiche e determinate funzioni si chiamano ‘nuclei’ e l’orologio biologico è situato, per l’appunto, nel nucleo soprachiasmatico, in una regione denominata ipotalamo. L’attività dei neuroni del nucleo soprachiasmatico ha un’oscillazione ritmica, governata da sofisticati meccanismi molecolari che coinvolgono ‘geni orologio’ (clock genes), i quali si accendono e si spengono ritmicamente nell’arco delle ventiquattro ore. Grazie a tale proprietà, il nucleo soprachiasmatico svolge un lavoro di pacemaker circadiano (circa diem), guidando, attraverso complessi meccanismi neurali, i ritmi biologici endogeni (cioè tutte le attività ritmiche del nostro organismo) e sincronizzandoli all’ambiente esterno. Naturalmente, per svolgere questo compito l’orologio biologico dev’essere informato di ciò che avviene nell’ambiente esterno e lo fa in tanti modi, ma il principale agente sincronizzante è la luce. Gli stimoli luminosi arrivano al nucleo soprachiasmatico tramite alcune delle fibre che originano dalla retina sulle quali il nucleo è seduto. Sono fibre che invece di proseguire dentro al cervello per andare a formare delle immagini visive si fermano

Quando gli erano stati applicati gli elettrodi alla fronte e il generatore del sonno aveva cominciato a pulsare, dinanzi ai suoi occhi era passato un breve sfoggio di disegni caleidoscopici, e di stelle che si allontanavano. Poi tutto si era dileguato e l’oscurità lo aveva inghiottito. Arthur C. Clarke, ‘2001 odissea nello spazio’, Longanesi, Milano 1968 (trad. it. di B. Oddera).

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nel nucleo soprachiasmatico per informarlo sulla quantità di luce ambientale. Tecnicamente il nostro orologio biologico è cieco, non vede immagini, ma sa sempre se siamo esposti alla luce o al buio, se è l’alba, giorno pieno, il crepuscolo o notte. È un orologio piccolo se paragonato alla vasta massa cerebrale, ma robusto, perché ad esso è affidata nei mammiferi (dei quali siamo parte) la regolazione di funzioni di altissima priorità biologica, quali la riproduzione o il mantenimento di funzioni vitali, tramite la regolazione della secrezione ormonale e di altre funzioni ritmiche. Attraverso vari meccanismi di controllo, il nucleo soprachiasmatico governa un regno di altri orologi sudditi, che risiedono fuori dal cervello, in molti organi del nostro corpo quali, ad esempio, il cuore ed il fegato, dotati anch’essi di un loro corredo di ‘geni orologio’. La biologia non si è però, forse, preparata perfettamente all’allungamento della nostra vita. Forse non ha avuto il tempo per farlo, visto che la vita media si è allungata rapidamente nel corso di pochi decenni, mentre le variazioni biologiche sono assai più lente e caute. Oppure, forse, chiediamo al nostro organismo durante l’invecchiamento prestazioni simili a quelle della vita giovane-adulta e ci sorprendiamo se queste cambiano. Sta di fatto che la regolazione dei nostri ritmi biologici nel corso dell’invecchiamento ‘normale’ è imperfetta. Il ciclo sonno/veglia, ad esempio, cambia: i risvegli notturni diventano più fre-


quenti, così come le sonnolenze diurne, il sonno si frammenta e, al mattino, la fine del periodo di sonno è sempre più precoce. Tutto ciò, naturalmente, varia molto da un individuo all’altro, così com’è straordinariamente variegata la gamma di quantità di sonno e di veglia negli individui giovani. È d’altra parte ugualmente variegata la gamma delle variazioni inter-individuali dell’età biologica rispetto all’età anagrafica. Tuttavia, gli ampi studi condotti negli ultimi anni sulla popolazione del primo mondo (i paesi nei quali la vita media si allunga) concordano nel denunciare che le alterazioni dei ritmi biologici e, in particolare, del ciclo sonno/veglia sono molto frequenti nel corso dell’invecchiamento, con un impatto di vasta portata sulla qualità della vita dell’individuo ed altissimi costi sociali ed economici. Quindi l’orologio biologico invecchia? Pare proprio di sì. L’oscillazione ritmica del gruppetto di cellule del nucleo soprachiasmatico sembra attutirsi un po’, il ticchettìo si arrugginisce, il segnale di comando del pacemaker diventa meno vigoroso. Dobbiamo rassegnarci? Naturalmente no. Di fronte alla constatazione di un fatto è necessario porsi delle domande e comprendere i fenomeni per cercare di controllarli. Perché l’orologio biologico s’inceppa nel corso dell’invecchiamento? In realtà non abbiamo ancora risposte conclusive a tale quesito. Molti dati, però, indicano che in tutto l’organismo cambia un po’, invecchiando, l’assetto delle cellule, con un

aumento, pur se di lieve entità, di molecole che in genere sono coinvolte in segnali infiammatori. L’orologio biologico sembra essere particolarmente infastidito da questo tipo di segnali. Forse madre natura non lo aveva avvertito che avrebbe dovuto fronteggiare anche questa evenienza. Ma il cervello non è fatto a compartimenti stagni ed i fenomeni cognitivi che includono la percezione di un intervallo temporale sono anch’essi influenzati dal governo dell’orologio biologico. Ad esempio, lo studio di prestazioni mentali che richiedono attenzione all’intervallo temporale fra due stimoli (visivi o uditivi) in individui con un’età media di 20 anni, confrontati con individui con un’età media di 70 anni, ha evidenziato che i soggetti anziani forniscono prestazioni molto più brillanti al mattino che nel pomeriggio, a fronte di una prestazione costante degli individui giovani. La fase circadiana entra, quindi, nelle operazioni mentali influenzando operazioni attentive e decisionali e queste interazioni fra sistemi neurali sono in un equilibrio fragile e precario nell’invecchiamento. Per giudicare dell’importanza e delle conseguenze di questa fragilità, proviamo a riflettere sull’età media dei capi di governo in giro per il mondo, cui sono affidati compiti decisionali d’importanza capitale… Le ricerche continuano e speriamo di riuscire ad ‘oliare’ a dovere anche le lancette di questo prezioso orologio nascosto nel cervello.

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Adriana Zarri

Vecchietto a chi? L’allungarsi del corso medio della vita fa sì che il nostro sia un mondo di vecchi e pone l’interrogativo: quand’è che comincia la vecchiaia? Qualche secolo fa poteva cominciare a quarant’anni poi, via via, quell’inizio si è spostato in avanti. A quarant’anni noi siamo ancora quasi giovani, nel pieno della forza e della vitalità. Bisogna raddoppiare quella cifra per poter parlare – ad ottant’anni – di vecchiaia, ma di vecchiaia ancora viva e vegeta, ricca di forza, di saggezza e di esperienza. Ottantenni – anno più, anno meno – sono Napolitano, Ciampi, Scalfaro, Benedetto XVI e nessuno, di certo, penserebbe di sottovalutarli e di applicar loro quell’etichetta vezzeggiativa (ma di un vezzeggiamento che suona come offesa) contenuta nel termine ‘vecchietti’. Nessuno certo di questi personaggi – e di altri come loro – è un vecchietto, forse non è nemmeno vecchio, nel senso di una decadente senilità. Ingrao ha compiuto da poco i novant’anni, ma neanche lui, nel succitato senso, è un vecchio, tanto meno un vecchietto. Così, per restare nell’ambito politico, la Rossanda, se non erro, ha compiuto, lei pure, gli ottanta e neanche lei è vecchietta né vecchia. Ma quando comincia la vecchiaia? Certo più tardi di un secolo fa, ma quando poi collocar di preciso quell’inizio è difficile dirlo perché è un inizio che – a voler stare non alla cronologia ma alla vitalità – cambia da persona a persona e, a stabilirlo, non basta la carta d’identità con i suoi dati puntuali, precisi, ma statici ed eguali per tutti. C’è infatti una vecchiaia biologica e una vecchiaia psicologica e le due non sempre coincidono. E, nell’accezione psicologica, come capacità di azione culturale, sociale e politi-

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ca, si può essere vecchi a quarant’anni e giovani a ottanta. Il suddetto allungarsi della vita fa sì che il nostro sia un mondo abitato, in gran parte, da vecchi, ma non necessariamente da vecchietti, poiché il protrarsi della vita porta con sé un protrarsi di vitalità, di interessi, di vivacità. Insomma, vecchi lo si è sempre di più, vecchietti sempre meno. Ciò nonostante siamo ammalati di giovanilismo. Sembra passato il tempo nel quale si onorava ‘la veneranda canizie’ e ai vecchi si faceva ricorso per attinger, da loro, esperienza e saggezza. Il culto della bellezza e della forza inevitabilmente ci allontana dalla vecchiaia che è, pur sempre, decadenza. Si decade più tardi ma si decade inevitabilmente, fino all’esito finale della morte, che può colpire anche i giovani ma, da vecchi, più spesso. E la rimozione della morte ci allontana ancor più dalla senilità. Oggi noi proclamiamo ‘largo ai giovani’ ma non ho mai sentito proclamare ‘largo ai vecchi’. I giovani – sempre diciamo – sono il domani, il futuro del mondo; ma senza il passato (ci si perdoni il bisticcio) il futuro non ha futuro: è una proiezione vuota, priva di contenuto. Ieri, oggi e domani, passato, presente e futuro fatalmente s’intrecciano e non c’è vecchiaia che non abbia, alle spalle, giovinezza, né giovinezza che non abbia, davanti a sé, vecchiaia. Ieri e domani, e in mezzo c’è l’oggi: un punto mobile il cui trascorrere segna il trascorrere della vita. È la perenne dialettica del mondo, tra la vita e la morte, tra l’inizio e la fine. Benché, per il credente (e tutti i popoli, tutte le civiltà l’hanno creduto) la morte non sia la fine ma un sempiterno inizio.


Altan, ‘Cronache dal Belpaese’, I Classici del Fumetto di Repubblica, Roma, 2005, p. 69.


del luogo, del tempo e dei mezzi utilizzati. È non solo prodotto di una visione ma restituzione del processo relazionale che è avvenuto e che ancora continua ad accadere. Questa attenzione alla dimensione processuale e al divenire vuole in qualche modo essere indicativa di una metodologia dell’incontro, mai conclusa, sempre rivolta al cambiamento, al relativo, al possibile. La bellezza non sta nella ‘conclusione’ definitiva ma nell’armonia della visione presente nello sguardo e nella mente di colui che crea, come anche di colui che fruisce dell’opera d’arte, dell’altro, del mondo. Tutto questo significa che ciascuno deve prestare piena attenzione al mondo liquido in cui fluisce la vita dell’essere e a tutte quelle modalità che mai si sottraggono alla corrente del tempo. Questa forma di relazione con il mondo, che la Zambrano definisce con il principio di ‘entrare nella realtà’, pare avvenire in modo più semplice quando l’uomo/la donna, raggiunta l’età ‘libera’, si muove con maggiore leggerezza entro la dimensione di un quotidiano non più scandito dagli impegni improrogabili dettati da ruoli e lavori, e riflette sulla possibilità di sciogliere quei legami del ‘dover essere’ previsti dal contesto sociale e familiare. Per conoscere l’essere uomo/donna nel fluire del tempo, la pedagogia contemporanea ha offerto interessanti chiavi di lettura del processo di invecchiamento e ha permesso, allo stesso tempo, di rilevare le modalità tipiche in cui si declina e si diversifica l’esistenza umana in relazione all’età, e alla vecchiaia in particolare. Quest’ultima instaura con il mondo circostante vissuti complessi e variegati, dato il potenziale di risorse che ciascuno di noi possiede e che è pronto ad emergere ed attualizzarsi proprio in situazioni di limite. Si è visto che le modificazioni che accompagnano l’invecchiamento (ad esempio l’abbas-

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samento della vista, l’attenuazione della capacità di resistenza o forza fisica, ma anche la perdita delle figure parentali e affettive, le diverse e labili capacità di memorizzare elementi nuovi), obbligando ad abbandonare modi di essere noti e consolidati (vecchi), permettono – e a volte costringono – di attivare possibilità impreviste ed alternative (nuove), insieme alla scoperta di dimensioni precedentemente trascurate. In altre parole, la persona anziana si trova di fronte alla necessità di modificare il proprio progetto di vita e, nell’affrontare l’inevitabile mutamento dell’ambiente e del proprio panorama relazionale, tende a rivolgersi in modo creativo ad ogni forma di linguaggio comunicativo possibile (danza, teatro, pittura, cinema, musica e via dicendo). «Per l’anziano si tratta di utilizzare le perdite in un progetto di vita caratterizzato anch’esso da mutamento, movimento, complessità, dove la dimensione dell’attesa viene inglobata in un più ampio disegno che consente di assumere la senilità come momento di verifica e di cambiamento del progetto esistenziale stesso» sostiene Pinto Minerva (Il tempo della vita. L’essere diversamente della vecchiaia, in Pedagogia al limite, a cura di P. Bertolini e M. Dallari, Firenze 1988), sottolineando come tale forza dipenda, però, dai modi con cui si è costruito l’intero processo vitale soggettivo, dalle determinanti educative e socio-ambientali e dal contesto culturale di appartenenza. La scelta di un progetto creativo come canale comunicativo privilegiato getta nuova luce su un campo di ricerca ancora tutto da esplorare e legato alla partecipazione dell’uomo, e dell’anziano in particolare, alla vita sociale. In questo senso la creatività appare espressione di libertà lungo l’intero corso della vita verso un futuro libero dal peso insostenibile dell’infinito.


33 Graphic design Roberto Duse


1. La prima scelta è quella di non fare nulla: quando il nostro uomo avrà raggiunto 80 anni, avrà esaurito tutte le risorse disponibili e, troppo vecchio per lavorare, dovrà mendicare per poter vivere. A quel punto, poco importa che a provvedere sia la carità dei privati o l’assistenza pubblica: in ogni caso, il costo dei tre anni di vita supplementari sarà stato scaricato completamente sulle generazioni future. Una scelta eticamente discutibile, ma politicamente molto comoda, perché consente di rinviare la soluzione dei problemi. Incidentalmente, almeno in parte, è proprio quello che stiamo facendo ora, adeguando i calcoli solo in ritardo (ogni 10 anni), e anzi non rispettando neppure questa scadenza decennale. 2. La seconda possibile soluzione al problema è ridurre il tenore di vita: 2.a) solo degli anni di lavoro, lasciando comunque 0,67 di consumo annuo per gli anni della pensione, ma innalzando i contributi; 2.b) solo degli anni della pensione, lasciando però 0,67 di consumo per gli anni di lavoro, e cioè lasciando invariata l’aliquota contributiva, oppure 2.c) di tutte le età, cioè distribuendo i sacrifici. Nel primo caso, a conti fatti, occorre alzare i contributi fino a 0,38 (e lo stipendio netto si riduce allora a 0,62); nel secondo caso, bisogna abbassare le pensioni fino a 0,58. Nel terzo caso, infine, i sacrifici sono ripartiti: un po’ aumentano le aliquote contributive (a 0,37 circa), e un po’ si abbassa il tenore di vita di lavoratori e pensionati, fino a 0,63 circa. L’ultima scelta appare nel complesso la più ragionevole all’interno di questo blocco di opzioni ma, si noterà, non è quella della riforma Dini, che ha invece optato per la soluzione (2.b) – contributi costanti e pensioni più basse – anche se in pratica sta attuando la (1): non fare niente, e qualcuno pagherà.

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3. Ma c’è forse qualcosa di meglio della (1) e

della (2). La terza possibilità è quella di lavorare leggermente più a lungo, in modo che, lasciando invariata l’aliquota contributiva (a 0,33 nel nostro esempio), rimangano invariati anche il reddito netto da lavoro e la pensione (entrambi pari, in questo esempio, a 0,67) in un contesto di equilibrio dei conti previdenziali. Con i nostri numeri, l’età pensionabile deve salire da 60 a 62 anni. E non sono calcoli difficili: basta mantenere costanti, prima e dopo, le proporzioni tra vita lavorativa e vita pensionabile. Prima, il nostro uomo, su 60 anni di vita autonoma (dal ventesimo all’ottantesimo compleanno), passava 40 anni al lavoro, e cioè lavorava i due terzi di questo periodo. Ebbene, la stessa proporzione è quella che va applicata anche agli anni di vita aggiuntivi, che andranno quindi trascorsi per due terzi al lavoro e per un terzo in pensione. In questo esempio, poiché si sopravvive per tre anni di più, se ne devono lavorare anche due di più, e si allunga il periodo di quiescenza di un solo anno. Concludendo

In estrema sintesi, dal punto di vista previdenziale, un allungamento della durata media della vita è un costo, perché si paga la pensione per un periodo più lungo, e per pagarlo ci sono soltanto le tre possibilità elencate sopra. Con la terza, si lavora un po’ di più, adeguando dinamicamente, anno per anno, l’età pensionabile; con la seconda si abbassa il tenore di vita della popolazione, o di tutta o solo di una parte di essa; e con la prima si scaricano i costi su qualcun altro – la generazione dei nostri figli –, che non si conosce, che verrà un giorno, ma che per il momento non è neppure qui per protestare. Chissà quale strada sceglieremo noi?


«Per molto tempo ci siamo lamentati per le dimensioni della nostra popolazione. Sembrava un freno allo sviluppo. Oggi la demografia è diventata la nostra arma. Con un miliardo di abitanti, di cui il 70 per cento ha meno di 35 anni, siamo un mercato in crescita vorticosa per tutte le industrie e i servizi, dalla finanza all’edilizia, dalla grande distribuzione all’abbigliamento. La differenza tra popoli vecchi e popoli giovani balza agli occhi. Quando vado a fare compere da Marks & Spencer a Londra, i reparti più ricchi sono quelli che vendono i prodotti per anziani, mentre un grande magazzino di New Delhi è tutto rivolto a bambini e teenager» (Poornima Shenoy). Federico Rampini, ‘L’impero di Cindia’, Mondadori, Milano 2006, p. 31.


A che cosa serve la scuola se non a preparare individui capaci di affrontare il mondo del prossimo futuro secondo le tecniche più avanzate? Perché non si insegnano queste tecniche (dato che l’arte non si può insegnare) invece che quelle del passato? Il passato non torna mai, non esistono rievocazioni se non per giocarci sopra, vedi il caso del Liberty. [...] Il passato può avere solo una funzione di informazione culturale e va tenuto legato al suo tempo, altrimenti non si capisce niente.

© Ulderica Da Pozzo

Bruno Munari, ‘Design e comunicazione visiva’, Laterza, Bari 2006, p. 9.


della famiglia di origine, causando in questo modo una rilevante perdita di competenze. Al tempo stesso, un successore che non si sia mai assunto la responsabilità dei processi decisionali sentendo di poter sempre contare sul proprio genitore, può non aver sviluppato una maturità sufficiente a gestire un’organizzazione e, quando costretto a farlo per la sopravvenuta morte dell’imprenditore, può non essere in grado di reggere la tensione. Un’altra situazione frequente è quella in cui, nonostante il passaggio generazionale sia formalmente avvenuto, il vecchio imprenditore continua sostanzialmente ad occuparsi della gestione dell’azienda e dei principali processi decisionali, causando da un lato incomprensioni personali con i figli e, dall’altro, un generale disorientamento tra gli stakeholders (dipendenti, fornitori, clienti, banche...) su quale sia l’effettivo organo di governo aziendale. Una successione efficace, infatti, prevede il passaggio in capo al successore di quello che viene definito il capitale sociale dell’imprenditore, ossia quell’insieme di relazioni di fiducia con dipendenti, fornitori, clienti e altri stakeholders che favoriscono il funzionamento dell’impresa e la cui gestione richiede tempo e lunga preparazione. Per essere realizzato in modo efficace, tuttavia, questo passaggio dev’essere definitivo e non caratterizzato da momenti di ritorno che delegittimerebbero il successore, sminuendolo nel suo ruolo di leader.

D’altro canto, anche i figli tendono spesso a posticipare la successione e l’assunzione di responsabilità imprenditoriale, quasi che l’attesa possa ritardare il processo di invecchiamento del genitore. In questo caso il fenomeno viene alimentato da atteggiamenti orientati a fargli percepire la sua centralità ed importanza all’interno dell’azienda, anche in attività o decisioni che potrebbero essere tranquillamente assunte in prima persona. Questa situazione porta l’imprenditore a sentire il suo ruolo come indispensabile all’interno dell’organizzazione e a ritardare il più possibile la propria uscita. In tutti questi casi, il passaggio generazionale vero e proprio tende a verificarsi solo con la sopraggiunta morte del genitore, in un momento in cui il successore si trova ad affrontare contemporaneamente sia il lutto che le nuove e pressanti responsabilità derivanti dalla conduzione dell’impresa. Risulta quindi chiaro come un’attenta gestione degli aspetti personali della transizione generazionale (che oltre ai casi citati includono anche le problematiche relative al mantenimento di un equilibrio fra famiglia e impresa, l’individuazione del successore, l’eventuale scelta di cedere la società a terzi...) sia assolutamente strategica ai fini del successo della transizione stessa e rappresenti un presupposto per l’efficace trattamento delle problematiche emergenti anche nell’area legale/fiscale e in quella economico/gestionale.

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Emilia. E la percentuale di anziani spiega solo parzialmente queste differenze, passando da più del 20% in Toscana ed Emilia, a valori del 16% in Veneto e del 13% in Campania. Nel finanziamento delle Regioni per la spesa sanitaria la ‘questione senile’ entra solo come quota capitaria, cioè come numero di anziani presenti. Non fa molta differenza considerare anche i decessi o la percentuale di fragili, data la forte correlazione esistente. La Lombardia stacca nettamente le altre regioni pur avendo una percentuale di anziani più bassa di quella delle regioni del Centro. Ciò che sorprende è la differenza del tasso di mortalità, particolarmente tra i più anziani. Cosa si nasconde dietro questa maggior forza di mortalità? Differenziali sociali, isolamento (l’impoverimento delle regioni montane delle alpi piemontesi, deprivazione materiale al Sud e supporto sociale nelle città mediopiccole dell’Emilia e del Veneto), l’arrivo recente di coorti di più fragili (nelle aree meridionali, dove si è registrato un incremen-

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to della sopravvivenza, diversamente dalla Lombardia)? E non dovremmo tenerne conto nella redistribuzione delle risorse sociali e sanitarie alle Regioni? È interessante notare che secondo stime della Regione Emilia il numero di anziani disabili che non beneficia di servizi è compreso tra i settecentomila e il milione: una minor copertura da imputare presumibilmente alle regioni del Sud. La vecchiaia entra quindi di buon diritto nei temi di politica assistenziale, laddove si pone la questione del supporto sociale e sanitario all’anziano. Sottolineiamo sociale, oltre che sanitario. Forse qui si deve recuperare il senso più ampio dell’esperienza umana, sfuggendo la scorciatoia, economicamente redditizia, della medicalizzazione e privatizzazione del problema, che passa attraverso la sindrome della fragilità dell’anziano, e ponendo l’attenzione sulle condizioni di disuguaglianza sociale e di salute così evidenti nel nostro paese.


Questi vecchi mi hanno sempre meravigliato. Ma come mai sono riusciti a passare in mezzo a tanti pericoli arrivando sani e salvi alla più tarda età? Come hanno fatto a non finire sotto un’automobile, come hanno potuto superare le malattie mortali, come hanno potuto evitare una tegola, un’aggressione, uno scontro in ferrovia, un naufragio, un fulmine, una caduta, un colpo di rivoltella? Come sono scampati al pericolo d’essere uccisi da qualcuno dei loro numerosi nemici, alle conseguenze di più che mille correnti d’aria e alle complicazioni di almeno cento raffreddori? [...] Invece, eccoli là, col naso al suo posto e tutto in regola, vispi e arzilli più di prima, dopo essere andati in giro – pensate un poco – per settant’anni sani e salvi, vale a dire per qualcosa come un trentamila giornate, riportando a casa altrettante volte la pelle intatta. Qualcuno, al massimo, ha un’espressione spaventevole nello sguardo, ma i più sono allegri e soddisfatti. Veramente questi vecchi debbono essere protetti dal demonio! Alcuni ancora osano traversare la strada lentissimamente. Ma sono matti? Achille Campanile, ‘Cantilena all’angolo della strada’, in ‘Opere’, Bompiani, Milano 2001, pp. 1470-1471.


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