multiverso 4 colore

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© Ulderica Da Pozzo

Sento che vi domandate: cosa vuol dire essere un colore? Il colore è il tocco dell’occhio, la musica dei sordi, un grido nel buio. [...] Sono contento di essere rosso! Mi brucia dentro, sono forte, so di attirare l’attenzione, so anche che non riuscite a resistermi. Non mi nascondo. Per me, la finezza non si ottiene con la debolezza o la fragilità, ma con la decisione e la forza di volontà. Mi faccio notare. Non ho paura degli altri colori, delle ombre, della folla o della solitudine. Com’è bello riempire con il mio fuoco vittorioso una superficie che mi attende! Dove mi espando io, gli occhi brillano, le passioni si fortificano, le sopracciglia si alzano, i cuori battono forte. Guardatemi, com’è bello vivere! Contemplatemi, com’è bello vedere. Io vedo ovunque. La vita comincia con me, tutto torna a me, credetemi. Orhan Pamuk, ‘Il mio nome è rosso’, Einaudi, Torino 2001, p. 197 (trad. it. di M Bertolini e S. Gezgin).


come fortemente repulsivi, il blu ed il verde come mediamente attrattivi. L’osservazione diretta delle scimmie durante gli esperimenti ha dimostrato che erano considerevolmente turbate dalla luce rossa. Quando ho voluto aumentare il loro stress trasmettendo un rumore forte e spiacevole, l’avversione a questo tipo di luce è divenuta persino più estrema. Successivi esperimenti hanno mostrato che erano reattive alla luce rossa proprio come se questa inducesse in loro paura. Questa avversione alla luce rossa non è propria solo delle scimmie Rhesus. La stessa reazione è stata scoperta nei babbuini e, più sorprendentemente, anche nei piccioni. Ma cosa accade con la specie umana? Esperimenti sulla preferenza di colore negli uomini hanno prodotto risultati che a prima vista sembrano essere in contraddizione con quelli degli altri primati. Quando si chiede di classificare i colori in rapporto al grado di ‘piacere’, il rosso è spesso ai primi posti, se non al top, della lista, sebbene ci siano tra gli individui grandi variazioni che dipendono, fra le altre cose, da personalità, età, sesso e cultura. Sono incline a dare poco peso a queste scoperte, per due ragioni. In primo luogo, come ha sottolineato Tom Porter, la scelta di un colore ‘preferito’ può essere fortemente influenzata da cambiamenti di moda; e in effetti, quando Porter fece degli esperimenti su persone che provenivano da ambienti sociali in cui la moda ha probabilmente un’influenza relativamente bassa – bambini africani da un lato e i residenti di una casa per anziani di Oxford dall’altro – trovò che entrambi i gruppi classificavano i colori in modo assai simile a quello delle mie scimmie, preferendo in modo consistente la parte blu dello spettro rispetto a quella rossa. In secondo luogo, e ancora più importante, c’è un problema metodologico insito nella maggior parte degli esperimenti di preferenza, poiché la domanda «cosa ti piace di più?» è in realtà una domanda troppo semplice da fare ad un uomo; gli uomini possono dire che a loro ‘piace’ un colore per una moltitudine di ragioni diverse che dipendono sia dal contesto nel quale immaginano ci sia il colore, sia

dal modo in cui interpretano il termine ‘piacere’. Sarebbe palesemente sciocco chiedere astrattamente alla gente «preferisci una situazione di stress o di calma?» e forse può essere ugualmente sciocco chiedere «ti piace di più il rosso o il blu?». Per scoprire qual è per gli uomini il significato dei colori, dobbiamo guardare a studi un po’ più approfonditi. Elencherò brevemente alcune prove specifiche che dimostrano come, in una varietà di contesti, sembra che il rosso abbia un significato davvero speciale per l’uomo. 1) Larghi campi di luce rossa inducono sintomi psicologici di risveglio emotivo, cambiamenti del ritmo cardiaco, resistenza dell’epidermide e attività elettrica del cervello. 2) In pazienti che soffrono di determinati disordini patologici, come ad esempio paralisi cerebellare, questi effetti psicologici diventano esagerati: nei pazienti cerebellari la luce rossa può causare angoscia intollerabile, aumentare i disordini di postura e movimento, abbassare la soglia del dolore e causare un generale scombussolamento del pensiero e del comportamento. 3) Quando il valore affettivo dei colori viene misurato con il metodo del ‘differenziale semantico’ (molto più raffinato di un semplice test di preferenza), gli uomini giudicano il rosso come un colore ‘pesante’, ‘potente’, ‘attivo’, ‘caldo’. 4) Quando il ‘peso apparente’ dei colori viene misurato direttamente chiedendo agli uomini di trovare il punto di equilibrio tra due dischi di colore, il rosso è giudicato in modo concorde come il più pesante. 5) Nell’evoluzione delle lingue il rosso è, senza eccezioni, la prima parola che definisce un colore ad entrare nel vocabolario: in uno studio su novantasei lingue Brent Berlin e Paul Kay ne trovarono trenta in cui l’unica parola per il colore (a parte il bianco e il nero) era il rosso. 6) Nello sviluppo linguistico di un bambino il rosso, di nuovo, viene solitamente per primo, e quando si chiede agli adulti semplicemente di elencare più velocemente possibile i nomi dei colori essi mostrano una tendenza molto forte ad iniziare dal rosso. 7) Quando la visione del colore viene danneggiata da lesioni centrali del cervello, la visione del rosso è quella che si perde per ultima e che si recupera per prima. 7


nessun punto ed in alcun istante si può riconoscere il colore preciso di un quark o gluone. La metafora del colore è, complessivamente, piuttosto infelice e non riesce a divenire strutturale: infatti, ad esempio, un gluone blu antiverde (indaco) trasforma un quark verde in uno blu, ma su una tavolozza combinando l’indaco col verde non si ottiene il blu. Oppure, i sistemi globali privi di carica di colore sono bianchi, ma in realtà l’assenza di colore è il nero, che non si può ottenere da colori complementari. Infine, mentre i singoli colori hanno una precisa valenza culturale, quelli specifici attribuiti ai quark sono assolutamente irrilevanti. Del resto la stessa simbologia di colore scompare nella notazione e nei calcoli effettivi della teoria, in quanto i tre stati diventano genericamente 1, 2, 3 e la metafora viene completamente persa. Era saggio seguire la prescrizione di Lucrezio: «E dunque evita di contaminare con un colore i germi delle cose».

ticelle, vediamo un succedersi ed intrecciarsi di traiettorie variamente colorate, e lui potrà dirci: le tracce verdi sono elettroni, quelle viola pioni... e allora? Allora dobbiamo ricordare che i colori hanno un importante ruolo epistemologico, come segni o indicatori naturali per l’identificazione di oggetti fisici. Oltre al loro ruolo di ‘segni naturali’, essi servono come segni convenzionali, arbitrari, fissati secondo una corrispondenza che sia utile ed immediata. Anche al commissario Montalbano di Camilleri «veniva naturale, sin da quando era nicareddu, di dare un colore ad ogni odore che lo colpiva». Così, nell’analisi degli eventi, torna utile identificare le particelle con codici di colore che in genere vengono fissati all’interno della collaborazione di scienziati che partecipano allo stesso esperimento, a seconda dei gusti e delle tradizioni. Queste caratterizzazioni cromatiche permettono di ‘pensare con gli occhi’, ma rimangono patrimonio individuale e non entrano nel linguaggio scientifico. In realtà le stesse immagini che descrivono Le particelle non hanno colore, ma... gli eventi non sono altro che modelli teorici No, non ha senso pensare che le particelle espressi mediante immagini: non mostrano il fisiche abbiano colore. Ma se osserviamo un mondo, ma ciò che noi pensiamo del mondo. ricercatore che segue su di un monitor il sus- Visualizzano le nostre concezioni del mondo. seguirsi degli eventi in un esperimento di par- E noi pensiamo a colori...

I chimici facevano errori ogni giorno, era parte del loro lavoro. Di rado, però, i loro errori li conducevano verso direzioni interessanti. Perkin macchiò un tessuto di seta con la sua scoperta e rimirò la nuova tonalità. Era, realizzò, un colore brillante e lucente, e vide che non svaniva con l’esposizione prolungata alla luce. Il problema che dovette affrontare era che cosa fare a quel punto. «Dopo aver mostrato questo materiale colorante a diversi amici, mi venne consigliato di considerare la possibilità di fabbricarne in larga scala». Simon Garfield, ‘Il malva di Perkin’, Garzanti, Milano 2002, p. 40 (trad. it. di A. Antonini).

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ni o’ più n e v o p a d i e. U n g i a r o n n i l t a g e s c c i d o ra o n d e d i v i t a s i m la di lu h e ra n t i i c h i u i c o t e a g o i d a n z a c i ro s s g i a v i b i o c c h e q u a l n i er nta r f i e n e r i i m i e n t ro l i t à v e a p e o p o i u n a l o s e s u n t i d i l e . Po i g i e , e a s o l i d a l t o , d a ’ o r v o l e d s o n t u i b r i l l a u t e v o re g r n t e n s n t e i n z z M e s a p e ro n o a n o d n t e m t r u t t u u n a i s a m e c o n i v i f u e ro d u a m e s o d i s e ro i n i l e n z i o t a rd d i s t e s c o n t i n m p l e s e m e r s ro n o s e s i p i a t a , u n c o a s t re c i v o l a rico larono re bluerse, s rive ide sfeta em . pall na vol vista e, u r i d e l l a fuo Aldo

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Luigi Gaudino

gaudino@uniud.it

I colori del diritto Il diritto ha un colore? La risposta più immediata dovrebbe essere negativa. L’icona della giustizia è, infatti, una donna bendata: spada e bilancia sono i suoi attributi. Nessun colore: neutro lo sguardo – anzi: cieco – perché imparziale e inflessibile. Basta poco, però, per accorgersi che non è così: di colori e diritto si può parlare; e il discorso può essere condotto lungo una molteplicità di piani. In biblioteca. Mi guardo intorno. Sugli scaffali i tanti libri – allineati con cura – rivelano, proprio in virtù dei loro colori, il loro tempo. Rilegature rigide, colori austeri. Marroni di pelle; rossicci; neri, addirittura. Lettere d’oro sulle coste dichiarano gli argomenti. Colori cupi, di quando il diritto era scienza esoterica per pochi. Linguaggio iniziatico, da pochi conosciuto; deposito di sapienza e di potere. Collane uniformi ed eleganti, use a far mostra di sé sugli scaffali polverosi e scricchiolanti degli studi di avvocati o notari, oppure destinate ad adornare biblioteche di palazzo. Scuri e ordinati, quei volumi. A ricordare che, di fronte alla legge, poca cosa è la persona. Più in qua nel tempo, le cose mutano. Sono gli anni ’60. Le Università si riempiono. La divulgazione prende piede; e la tipografia diventa povera. Copertine leggere, colori sbiaditi. Più noia che minaccia.

E oggi… oggi invece è un tripudio di colori. L’editoria di massa è anche concorrenza: occorre rallegrare l’acquirente. Il grafico suggerisce formati e colori accattivanti. Rossi squillanti; lucidi azzurri, grigi eleganti. Non manca il giallo, né il viola; il verde è presente in abbondanza, insieme al blu, al bianco e al crema, in molte sfumature. Libri belli, verrebbe da dire; e a portata di tutti. La prosa, purtroppo, continua sovente nella sua oscurità. Ma non sono solo questi, i colori del diritto. Per molti il diritto è bianco o nero: la ragione e il torto, su sponde diverse, inconfondibili. Ma si sbagliano. Il diritto è, anzitutto, sfumatura: è la gamma del grigio, modulata in tutte le sue potenzialità, a segnare il territorio che divide il giusto dall’ingiusto. Se poi li apriamo questi codici, questi libri, 39


per promuovere i propri prodotti non sorprende, mentre lascia più stupiti (e perplessi) la campagna Alice delle nuove vellutate Findus, presentate come cibo-colore. Una donna vestita di rosso viene condotta da un coniglio-cartoon dal grigio cunicolo di una grigia metropolitana nel mondo colorato e cartonato delle creme Findus, prodotte da lisergici e postgenetici fiori: quella arancio (zucca e carota), quella verde (porro e finocchi)… La promessa dello speaker non riguarda il sapore delle zuppe, né la qualità degli ingredienti ma il colore stesso: il beneficio viene dalla scelta del colore, non dall’alimento, quasi non si mangiasse che con gli occhi nel grigio mondo della vita metropolitana. Nella sua naiveté, il filmato di Alice riporta agli aspetti più profondi del colore, tratti che anche la pubblicità come il marketing non solo non possono dimenticare, ma su cui, anzi, insistono e giocano sempre più. Come raccontava Julia Kristeva in un ispiratissimo saggio su Giotto, l’esperienza cromatica è, al contempo, esperienza di minaccia dell’io e tentativo di una sua ricostituzione, un luogo narcisistico e autoerotico per eccellenza (l’Alice Findus è singolarmente sola, coniglio a parte!). Differentemente dalla forma (dal disegno e dalla composizione), il colore non impone una legge simbolica inviolabile ma gioca in modo libero sulla propria gamma. Le culture, lo spazio e il tempo strutturano cioè, come si è accennato, dei codici cromaLetture D. Batchelor, Cromofobia, Mondadori, Milano 2001. F. Gallucci, Marketing emozionale, Egea, Milano 2006. J. Kristeva, La joie de Giotto, in Id., Polylogue, Le Seuil, Paris 1977, pp. 383-408.

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tici, delle corrispondenze, dei rimandi che le pratiche, anche di marketing, violano e trasgrediscono costantemente al momento dell’applicazione. Il colore diventa, in questo senso, un punto di fuga rispetto alle norme della narrazione, della prospettiva e della rappresentazione stessa – minaccia per i fondamenti della nostra cultura, come mostra bene David Batchelor parlando della ‘cromofobia’ dell’Occidente. Lavoro pulsionale del colore che certe comunicazioni recenti mostrano con chiarezza sorprendente. Sony Bravia, ad esempio, rappresenta un mondo, grigio e triste, devastato e reinventato dall’avvento del colore digitale: i colori dilagano su edifici, piazze, strade, giardini, creando continue anomalie percettive e deformazioni. La grande festa cromatica finisce con l’assomigliare stranamente a una guerra a suon di spruzzi ed esplosioni: conflitto e violenza del godimento. Anche HP rappresenta il colore come invasione atomistica indiscriminata di palline multicolori, una vera e propria piena fisica che gioca tra forme e informe, evocando il ritmo altro del regime pulsionale. Sono queste le nuove frontiere del marketing dei colori, sempre più allusivo e intangibile rispetto ai prodotti, sempre più incuneato nei meandri psichici del soggetto-consumatore, fino a pornograficamente sfiorare – senza alcun pudore, senza nessuna mediazione – il suo fondo pulsionale più nascosto, la sua natura perversa e polimorfa.


«È rosso, questo?» «Sì.» «E i tubi?» «Sono gialli.» «E quello lì?» [indicando alcune figure dipinte sul Muro di Berlino]

«È grigiazzurro.» «Quello?» «È arancione... ocra.» «Arancione o ocra?» «Ocra.» «Rosso… Giallo… e quello?» «È verde.» «E quello sopra gli occhi?» «È azzurro.» Dal film di Wim Wenders ‘Il cielo sopra Berlino’, 1986/87.


Sergio Polano

polano@iuav.it

I colori della pace «Una bandiera – si legge nell’enciclopedia – è un drappo di stoffa o di altro materiale di uno o più colori, disposti a bande orizzontali o secondo un particolare disegno che rappresenta uno Stato, una comunità regionale, linguistica o etnica, un partito, un sindacato, un’associazione sportiva o altro». Vuol rappresentare ‘altro’, in effetti, la bandiera di cui si ragiona qui brevemente e cioè l’ideale di un’amplissima comunità senza confini di stati, regioni, lingue, etnie: una radicale volontà di pace tra gli uomini, che stenta a realizzarsi in terra, come mostrano le vicende della nostra specie, la più feroce, invasiva e adattabile del pianeta, assieme ai ratti. A fronte di tante bandiere di guerra (tra le ragioni storiche forti dell’uso delle bandiere), che oppongono uomo ad uomo con violenza per la morte, la bandiera di pace vuol unire ed affratellare con mitezza per la vita. Non si può non convenire a margine, tuttavia, che «il bellicismo comunicativo – come ha osservato Mario Perniola in Contro la comunicazione (2004) – svuota di significato la parola ‘guerra’, non meno di quanto peraltro il pacifismo comunicativo svuoti di significato la parola ‘pace’. Non a caso si mandano insieme truppe offensive e aiuti umanitari».

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© Azimut

Questa bandiera, come ogni bandiera, ha una sua forma peculiare, una specifica configurazione e declinazione formale, veicolo visivo-materiale dell’idea; in sintesi estrema, è una bandiera-arcobaleno (tra le molte, come vedremo): sette sottili strisce orizzontali, di altrettanti colori, quelli associati per convenzione e tradizione al mirabile fenomeno celeste dell’arcobaleno – rosso, arancio, giallo, verde, azzurro, blu e viola – entro uno dei formati più diffusi per le bandiere, un rettangolo di rapporto 3 a 2 tra base e altezza. Seppur intrinsecamente più debole in termini ottico-percettivi, rispetto ad altre configurazioni, e priva della rigida protezione assicurata ad alcuni tipi – tra i più diffusi – di bandiere (quelle nazionali, in primis, simbolo inviolabile delle patrie, per le quali ci si può immolare), l’efficacia emblematica del vessillo iridato si è andata tuttavia rafforzando significativamente negli ultimi tempi, nella scia di una tradizione di remote origini. Come per l’immagine della colomba, anche per l’arcobaleno l’associazione con la pace, nella nostra cultura, si trova infatti già nella narrazione biblica del diluvio universale. Noè libera una colomba e questa torna con un rametto di olivo nel

becco (Genesi, 8:11), a significare che Dio si è riappacificato con gli uomini e quindi per essi c’è ancora terra; la comparsa in cielo dell’arcobaleno, poco più tardi (Genesi, 9:12-17), al termine del diluvio, simboleggia (secondo un’interpretazione diffusa) un Eccelso inchino, primordiale segno non-verbale di fine delle ostilità, o un gioioso ponte ad arco che raccorda e congiunge le due rive del mondo terreno e di quello celeste (seconda un’altra). In effetti, la storia della bandiera-arcobaleno in Occidente, a fianco della storia degli emblemi in generale, delle bandiere e degli altri vessilli di pace in specie, è più articolata di quanto non si possa sospettare. Per restare in Europa, nel corso del Cinquecento, ad esempio, durante la ‘guerra dei contadini’ che travaglia a lungo i paesi di lingua tedesca, la bandiera-arcobaleno è l’emblema che i rivoltosi espongono, assieme al Bundschuh (la ‘scarpa grossa’), per esprimere la speranza in una nuova era di riscatto ed eguaglianza sociale. Lo stesso Thomas Müntzer, protagonista di questi moti con la sua predicazione riformatrice, viene spesso raffigurato con la bandiera-arcobaleno in pugno. 47


portavano a distinguere le tinte in ‘uniche’ e ‘binarie’. Uniche sono le tinte identificate ordinatamente con i nomi ‘rosso’, ‘verde’, ‘giallo’ e ‘blu’, mentre binarie sono quelle che nascono dalla miscelazione di due tinte uniche contigue, per esempio la tinta arancia nasce dalla miscela di rosso e giallo. La miscelazione delle tinte non contigue, distinte nelle due coppie rosso-verde e giallo-blu, porta alla loro cancellazione fino a raggiungere il colore acromatico. Hering definì ‘opponenti’ queste coppie di tinte, e così pure definì i colori ‘nero’ e ‘bianco’. Tale ordinamento doveva associarsi a meccanismi della fisiologia della visione e sembrava discordare con la teoria del ‘tristimolo’ di Young-von Helmholtz-von Grassmann-Maxwell. Ciò dava corpo alla controversia. Il grande Ervin Schrödinger tentò una soluzione, ma non fu significativa. Solo una più profonda conoscenza della fisiologia del sistema visivo, avvenuta in oltre cinquant’anni di studi, portò ad associare la rappresentazione di Young-von Helmholtz-von Grassmann-Maxwell al primo stadio del processo visivo, quello della ‘trasduzione’, e quella di Hering al secondo stadio. Come già detto, la legge del centro di gravità di Newton è associata al ‘metamerismo’, parola quasi sconosciuta ai non addetti, pur essendo il fenomeno fondante della colorimetria, per il quale radiazioni luminose, fisicamente diverse perché caratterizzate da distribuzioni spettrali di potenza diverse, possono

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indurre uguali sensazioni di colore. Grazie ad esso la riproduzione del colore (fotografia, televisione, tipografia…) è relativamente semplice, perché per riprodurre il colore associato ad una luce non è necessario riprodurre la stessa luce, ma basta produrre una luce metamerica. Ma il metamerismo è anche una maledizione per chi si occupa di vernici, di inchiostri, di materiali colorati… Oggetti di uguale tinta sotto una certa lampadina possono apparire diversi sotto un’altra, a dispetto dello studiatissimo fenomeno della ‘color constancy’. Questa è la ragione per la quale, se si acquistano oggetti d’abbigliamento, non ci si deve fidare della luce interna del negozio, ma si deve fare una verifica pure alla luce del sole. Se nella pratica il metamerismo è anche una maledizione, vuol dire che il colore è molto importante. È l’elemento primo nella comunicazione, e il giusto colore, oltre ad avere valore estetico, è sinonimo di qualità, sia per le cose naturali sia per gli oggetti artificiali. Ed è a questo punto che, dovendo quantificarlo e riprodurlo, si richiede una conoscenza del colore, non artistica, ma scientifica e tecnica. I testi della tradizione italiana ci portano lontano nel tempo e sono prevalentemente rivolti all’arte. La scuola è assente. La ricerca colorimetrica pure. Ma la richiesta per una cultura del colore è crescente. Cerchiamo di essere ottimisti. La scienza del colore non è conchiusa e forse l’Italia può ancora sperare di avere un ruolo.


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Giorgio Camuffo


Ferruccio Montanari

La richiesta di un testo sul colore ad un daltonico dichiarato e confesso lascia alcuni dubbi. È nel segno del corretto politicamente? Sì, se significa dare una voce nella notte in cui tutte le vacche sono nere a chi si perde tra i gomitoli di beige. È nel segno della vita in diretta, cioè come vive il colore un daltonico? Bene, se se ne è fatto una ragione fin da piccolo, e l’ha tramutata non dico in orgoglio (daltonian pride) ma in una forma di curiosità da conversazione leggera. Più difficile per gli stonati, altra minoranza non protetta che tende a calarsi la celata. È per capire se si concorda con Lyons piuttosto che con Eco sull’esempio dell’hanunoo, la lingua malayo-polinesiana che ha quattro ampi nomi fondamentali di colore, corrispondenti nella sostanza ai nostri nero, bianco, rosso e verde ma che si differenziano tra loro non tanto per le variazioni cromatiche, quanto nelle varianti ‘luminoso-oscuro’, ‘umido-secco’, ‘fresco-arido’. Si concorda, si concorda. Così come Hokusai: «C’è un nero che è vecchio e un nero che è fresco». È per sapere se il daltonismo dà molti inconvenienti (a parte l’impossibilità a prendere il brevetto di pilota e nei casi più gravi, la patente di guida)? Escludo: gli inconvenienti spesso possono assumere la faccia dell’opportunità, basta scegliere. Ad esempio, favolosi anni ’70. Escono dei jeans (Rifle?) in vellutino millerighe. La gamma colori è vivace e brillante, il prezzo ottimo. Se ne prendono più di un paio e una sera si esce con quelli blu, a tirar tardi discutendo di politica. Il blu dei miei pantaloni (visto da tutti come viola) apre una discussione tra personaggi del socialismo storico che vanno a dividersi tra i «matipareuncolore?» e «machettifrega?». Chiude la discussione il più autorevole, che rivolge al capo dei «matipareuncolore?» la domanda dalle cento pistole «Hai qualcosa contro il viola?». Più tardi mi rivolse alcune attenzioni, accolte da un mio cortese rifiuto signorilmente accettato.

Riferimento bibliografico: David Batchelor, ‘Cromofobia’, Bruno Mondadori, Milano 2001 (trad. it. di M. Sampaolo).


bianchi, sotto il segno del multiculturalismo, secondo modalità che spazzano via la possibilità di concentrare l’attenzione sulla «complessità della risposta nella costruzione di sé dello studente e lettore (bianco) in relazione alla percezione dell’‘altro’ (nero)». Dovremmo riconoscere, sostiene Carby, che «ognuno in questo ordine sociale è stato costruito nella nostra immaginazione politica come soggetto razzialmente connotato» e che perciò dovremmo considerare l’essere bianchi alla stregua dell’essere neri per poter «rendere visibile ciò che è reso invisibile quando viene visto come lo stato normativo di esistenza: il punto (bianco) nello spazio da cui tendiamo a identificare la differenza» (H. Carby, The Multicultural Wars, in Black Popular Culture, a cura di G. Dent, 1992). L’invisibilità dell’essere bianchi come posizione razziale nel discorso bianco (che non significa necessariamente dominante) è tutt’uno con la sua ubiquità. In effetti per la maggior parte del tempo le persone bianche non parlano d’altro che di persone bianche, è solo che lo facciamo in termini di ‘persone’ in generale. Ogni indagine – condotta attraverso libri, musei, giornali, pubblicità, film, televisione, software – mostra ripetutamente che nelle rappresentazioni occidentali i bianchi sono sproporzionatamente predominanti, hanno i ruoli centrali e più elaborati, e soprattutto sono fissati come norma, standard, esperienza comune. I bianchi sono dappertutto nelle rappresentazioni. Ma proprio per questo e proprio per il loro porsi come norma a loro non sembra di essere rappresentati ‘come’ bianchi, ma come persone di diverso Spesso la loro rabbia erompe perché pensano genere, classe, sesso e abilità. In altre parole, che tutti i modi di guardare che enfatizzano la al livello della rappresentazione razziale, differenza sovvertano la fede liberale in una i bianchi non sono di una certa razza, sono soggettività universale (siamo tutti persone umane e niente altro) che secondo loro fareb- semplicemente la razza umana. be scomparire il razzismo. Hanno un profondo Ci viene detto spesso che ora viviamo in un investimento emozionale nell’‘uguaglianza’, mondo di identità multiple, di ibridità, di peranche quando le loro azioni riflettono il primato dita di un centro e di frammentazione. dell’essere bianchi come segno che comunica Le vecchie illusorie identità unitarie di classe, chi sono e che cosa pensano. di genere, di razza, di sessualità vengono (bell hooks, Black Looks. Race and meno; una persona può essere nera e gay Representation, 1992). e di classe media e donna; si può essere bi-, Non diversamente, Hazel Carby discute l’uso poli- o non-sessuali, di razza mista, di genere di testi di autori di colore in classi formate da indeterminato e di chissà che classe. Ma non

e lesbici (R. Dyer, Seen to Be Believed: Some Problems in the Representation of Gay People as Typical, in The Matter of Images. Essays on Representation, 1993) discuto il fatto che dei cosiddetti queen o dyke ci possono essere più varianti. Nelle illustrazioni che accompagnano questa mia ipotesi, comparo un ‘queen modaiolo’ tratto dal film Irene con un ‘queen di colore’ tratto dal film Car Wash: la prima immagine, quella di un bianco, non ha connotazioni razziali, mentre la variante rappresentata nell’altra immagine è completamente ridotta alla sua razza. Inoltre, questa è l’unica immagine di un non bianco cui faccio riferimento nell’articolo, in cui comunque non ho sottolineato il fatto che tutte le altre immagini prese in considerazione rappresentano bianchi. Qui, come negli altri esempi bianchi che ho fatto in questa pagina, il queen modaiolo, dal punto di vista razziale, è considerato come semplicemente umano. Un tale assunto – e cioè che le persone bianche siano semplicemente persone, cosa che non è poi troppo diversa dal dire che i bianchi sono persone, mentre le persone di altri colori sono qualcosa d’altro – è endemico nella cultura bianca. Le critiche più forti rispetto a tutto ciò sono state rivolte a coloro che si potrebbero considerare come in assoluto i meno razzisti o i meno strenui sostenitori della supremazia bianca. bell hooks, ad esempio, ha notato come si stupiscono e si arrabbiano i liberals quando si concentra l’attenzione sul loro essere bianchi, quando vengono visti come bianchi da persone non bianche:

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Bianco! È il colore spirituale dei nostri tempi, l’atteggiamento deciso che guida tutte le nostre azioni. Non grigio, non bianco avorio, ma bianco puro. Bianco! È il colore della nuova era, il colore che esprime l’intera epoca: la nostra, quella del perfezionismo, della purezza e della certezza. Bianco, solo questo. Alle nostre spalle, il ‘marrone’ della decomposizione e dell’accademismo, l’azzurro del divisionismo, il culto del cielo azzurro, degli dèi dalle barbe verdastre, e degli spettri. Bianco, puro bianco. Theo van Doesburg, ‘Manifesto’, citato da John Berger, ‘Sul guardare’, Bruno Mondadori, Milano 2003, p. 140.


BING / Tutto noto tutto bianco corpo nudo bianco un metro gambe aderenti come cucite. Luce calore suolo bianco un metro quadrato mai visto. Muri bianchi un metro per due soffitto bianco un metro quadrato mai visto. Corpo nudo bianco fisso solo gli occhi appena. Tracce intrico grigio pallido quasi bianco su bianco. Mani pendenti aperte palmo avanti piedi bianchi talloni uniti angolo retto. Luce calore facce bianche radianti. Corpo nudo bianco fisso hop fisso altrove. Tracce intrico segni senza senso grigio pallido quasi bianco. Corpo nudo bianco fisso invisibile bianco su bianco. Solo gli occhi appena azzurro pallido quasi bianco. Testa globo in alto occhi azzurro pallido quasi bianco fisso avanti silenzio dentro. Brevi mormorii appena quasi mai tutti noti. Tracce intrico segni senza senso grigio pallido quasi bianco su bianco. Gambe aderenti come cucite talloni uniti angolo retto. Solo tracce irrisolte date nere grigio pallido quasi bianco su bianco. Samuel Beckett, ‘Bing’, in ‘Teste-morte’, Einaudi, Torino 1969, p. 79 (trad. it. di V. Fantinel e G. Neri).

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Questo testo è tratto da R. Dyer, White. Essays on Race and Culture, Routledge, London 1997, pp. 2-4.

abbiamo ancora raggiunto una situazione in cui le persone bianche e il progetto culturale bianco non siano più in ascesa. I media, la politica, l’istruzione sono ancora nelle mani dei bianchi, parlano ancora a loro nome, anche se dichiarano (e spesso aspirano sinceramente a farlo) di parlare a nome dell’umanità. In controluce rispetto al fiorire di una miriade di voci postmoderne bisogna anche vedere la tendenza contrapposta, che va verso l’omogeneizzazione della cultura mondiale, nel perdurare del dominio statunitense nella disseminazione delle notizie, nei programmi televisivi più popolari e nei film hollywoodiani. Il multiculturalismo postmoderno può davvero aver aperto uno spazio per le voci dell’altro, mettendo in crisi l’autorità dell’Occidente bianco (C. Owens, The Discourse of Others: Feminists and Postmodernism, in The Anti-Aesthetic. Essays on Postmodern Culture, a cura di H. Fostel, 1983), ma può allo stesso tempo funzionare come uno spettacolo parallelo per le persone bianche che continuano a deliziarsi nel guardare tutte le differenze che le circondano. Il film La moglie del soldato (1992) mi sembra un buon esempio di ciò. Il film esplora con fascinazione e generosità la natura ibrida e fluida dell’identità: il genere, la razza, l’appartenenza nazionale, la sessualità. Anche se tutto questo si risolve poi, seppur ridicolizzandolo, attorno a un uomo bianco eterosessuale e reinscrive la sua posizione nel punto di intersezione tra eterosessuali-

tà, mascolinità e razza bianca come quella dell’unico gruppo che non ha bisogno di essere ibrido e fluido. Possiamo davvero essere sulla via di una genuina ibridità, di una molteplicità senza alcuna egemonia (bianca) e può essere davvero che sia lì che vogliamo arrivare, ma non ci siamo ancora e non ci arriveremo fino a che non vedremo il potere connesso all’essere bianchi, la sua particolarità e la sua limitatezza, li metteremo al loro posto e daremo fine al loro dominio. Questo significa studiare l’essere bianchi in quanto tale. A volte si presta attenzione all’‘etnicità bianca’ (cfr. ad esempio R.D. Alba, Ethnic Identity: the Transformation of White America, 1990), ma questo identifica sempre un’identità fondata su origini culturali, quali quelle inglesi, italiane o polacche, cattoliche o ebraiche, o ancora polacco-americane, irlandesi-americane, cattolico-americane, ecc. Comunque queste sono varianti dell’etnicità bianca (anche se alcune sono più bianche di altre) e la loro analisi tende a distogliere l’attenzione da quella dell’essere bianchi in quanto tale. John Ibson, nel discutere i risultati di una ricerca sull’etnicità bianca negli Stati Uniti, conclude che essere, per dire, polacchi, cattolici o irlandesi, potrebbe non essere poi così importante per gli americani bianchi come alcuni vorrebbero (Virgin Land or Virgin Mary? Studying the Ethnicity of White Americans, in «America Quarterly», 1981). Ma l’essere bianchi senz’altro lo è. [Traduzione di Sergia Adamo]

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Fra tutte le differenze che esistono fra le razze umane, il colore della pelle è la più cospicua ed una delle meglio spiccate.

© Klavdij Sluban, ‘Transiberiana’, 2003.

Charles Darwin


Aihwa Ong

aihwaong@berkeley.edu

La Cina di oggi è gialla? Fino ai primi anni ’80 l’identità nazionale della Cina era determinata saldamente dal socialismo e definita chiaramente dai confini territoriali della ‘madrepatria’. L’identità cinese era del tutto sganciata dall’economia globale e i cinesi che vivevano all’estero venivano tenuti a rigida distanza, mentre il Paese cercava di stabilire relazioni con i nuovi Stati indipendenti del sud-est asiatico. L’isolamento rispetto alla comunità internazionale permetteva allo Stato cinese di rafforzare la propria identità nei confronti della popolazione; inoltre, in quanto gigante comunista, la Cina poteva ambire alla leadership dell’intero Terzo mondo. Questa identità nazionale, ancorata a un determinato territorio (la ‘madrepatria’) e ad una determinata storia (quella della Repubblica Popolare), ha iniziato a vacillare quando nei pressi di Hong Kong sono state istituite le cosiddette Special Economic Zones (SEZS). L’integrazione della costa meridionale cinese con città come Tokyo, Singapore, Taipei, Kuala Lumpur e Jakarta ha prodotto, infatti, un afflusso sia di individui e di capitali cinesi provenienti dall’estero, sia di investimenti occidentali, oltre ad un flusso non controllabile di informazioni e immagini veicolate dai media. L’incremento del commercio, delle comunicazioni e degli scambi ha stimolato una sempre maggiore richiesta di beni, idee e culture occidentali, nonché il

desiderio di viaggiare in altri Paesi. La presenza e le attività dei cinesi provenienti dall’estero (principalmente dall’Asia sud-orientale) hanno dato vita a una quantità di reti transfrontaliere che subordinano ogni differenza politica agli interessi di tipo commerciale. Questi legami tra i cinesi della ‘madrepatria’ e quelli che provengono dall’estero, tra quanti vivono nella terraferma e gli investitori stranieri, tra il socialismo cinese e il capitalismo straniero, hanno tutti contribuito a frantumare i confini politici della nazione. Fin dall’inizio, in realtà, il regime di Deng è stato molto attento a inquadrare la modernità cinese all’interno di un ambito territoriale ben definito, anche rispetto ad altri Stati-nazione a livello mondiale. Per quanto, infatti, egli abbia 19


celeste, fino alla ‘rivelazione’ divina della legge e della sua necessità salvifica, o più concretamente di una geografia elementare che risponde all’esigenza umana di comprendere il mondo e di dargli un ordine distintivo e logicamente coerente? Se è vero che la visione del cielo è un’esperienza universale degli uomini, come si passa dalla constatazione empirica alla trasfigurazione simbolica e religiosa? È un problema anche per la nostra religione, dal momento che il cielo è anche il principio di ogni idolatria diabolica e quindi di ogni disordine esistenziale: il culto del Sole e della Luna, il senso ‘divino’ delle stelle, i rituali dei cicli stagionali, i calendari festivi e l’ordine che dallo spazio cosmico viene proiettato sul tempo sociale della storia. Se le religioni, come dice Claude LéviStrauss, sono un’antropomorfizzazione della natura, le domande sul cielo sono molto più complesse e riguardano prima i processi di significazione umana e terrena e poi le connotazioni celestiali e paradisiache. Pur con invenzioni stravaganti come la divinazione e/o con un immaginario apparentemente illimitato come la mitologia, una cultura umana ha bisogno di caratterizzarsi come riduzione di complessità del mondo e quindi prima di tutto come cosmo-logia: lo fa a partire dal corpo umano e dalla sua posizione eretta (più che dall’albero cosmico e/o dal simbolismo universale della croce, come asse sostanziale che unisce il cielo e la terra), formalizzando strutture logiche elementari (alto/basso, destra/sinistra, ecc.) che applica ai vari ambiti della realtà che vuole spiegare: cielo/terra, est/ovest, ecc.: il simbolismo è sempre un mettere insieme più ordini distinti per esigenze sia di riduzione di complessità sia di libertà di immaginazione. Il cielo è essenziale rispetto alla terra quanto l’alto rispetto al basso e ogni codificazione sucLetture M. Eliade, Trattato di storia delle religioni, Boringhieri, Torino 1976. J. Gernet, Cina e cristianesimo, Marietti, Casale Monferrato 1984. G. Pettinato, La scrittura celeste. La nascita dell’astrologia in Mesopotamia, Mondadori, Milano 1998. D. Sabbatucci, Divinazione e cosmologia, Il Saggiatore, Milano 1989. 40

cessiva ha senso solo all’interno di questa logica della mente: non a caso è sufficiente guardare in alto per accorgersi della regolarità del sole e della luna, dei pianeti e delle stelle, dell’alternanza del giorno e della notte, in definitiva di un ordine del cielo che costringe il pensiero ad andare oltre l’opposizione logica e il calcolo sperimentale. I calendari delle civiltà antiche sono la formalizzazione sociale, e quindi anche simbolica, di un ordine spazio-temporale che ha origine da un’osservazione attenta del cielo, che non necessariamente mette in moto credenze di ordine religioso. Le conferme antropologiche sono tante e di ogni tipo: rinvio qui solo a due che possono essere considerate anche come limiti dell’immaginario celeste. Da un lato la sociologizzazione del cielo nella mitologia dei popoli senza scrittura: il codice cosmologico è solo una delle tante possibilità di comunicazione sociale, dal momento che il sole e la luna devono evitare l’incesto e le stelle osservare le regole sociali delle buone maniere per evitare disastri universali. Dall’altro una sorta di costrizione dell’ordine celeste sulla vita sociale, come nell’immaginario simbolico e politico dell’impero cinese: come si sono resi presto conto i Gesuiti del XVII secolo, il ‘mandato celeste’ non aveva a che fare con la religione perché il T’ien dei Cinesi era solo il cielo, e non il Signore del cielo. Quando dalla ortodossia imposta delle religioni passiamo all’ortopratica ordinatrice delle civiltà, l’immaginario del cielo si allarga e le sue rappresentazioni si moltiplicano, fino ad invertire gerarchie di senso e prospettive esistenziali, senza necessariamente decostruire quelle più conosciute e per noi più familiari. Tutto dipende da come guardiamo il cielo e dal valore che vogliamo dare a quell’azzurro che dall’alto dà luce al chiaroscuro della nostra vita sulla terra.


Che cos’è l’azzurro e che cosa pensare dell’azzurro? La stessa difficoltà per la morte. Della morte e dei colori, non sappiamo discutere. Albert Camus, ‘Il rovescio e il diritto’, Bompiani, Milano 1999, p 73 (trad. it. di S. Morando).


© Luca Laureati

Quest’anno è di moda il blu Roland Barthes, ‘Scritti’, Einaudi, Torino 1998 (ed. it. a cura di G. Marrone).


Anselmo R. Paolone

arp3@libero.it

Il ‘Blues’, dal nero al celeste Già in epoca elisabettiana ‘to have the blue devils’ significava essere vittima di una tristezza profonda e peculiare: ce lo ricorda ancora nel XIX secolo Alfred de Vigny. Il diavolo, di solito rosso, si tingeva di blu per rappresentare un umore altrimenti difficile da descrivere con le parole. I colori, la paletta cromatica intera, da sempre sopperiscono alle parole con le loro ineffabili sfumature. L’azzurro parla delle alte sfere celesti. Il blu profondo parla degli abissi insondabili. «I am caught between the devil and the deep blue sea», recita un’altra fonte, questa volta una canzone. Il Blues è dunque tristezza abissale, quasi diabolica. Nessuno sa con esattezza quando e come, nello Stato del Mississippi, il colore dell’abisso sia stato associato a un tipo di musica mai ascoltato prima, una forma aurorale di lamento, di sfogo intimista e tenace. Siamo, comunque, nella seconda metà del XIX secolo. L’ambiente è notoriamente quello delle piantagioni di cotone. Mentre gli schiavi (liberati e non) lavorano, si accompagnano con gli hollers, brevi canti ritmati, a volte in forma di question and answer, domanda e risposta (un po’ quello che fanno ancora oggi i plotoni dell’U.S. Army durante le marce di addestramento). Dopo la liberazione degli schiavi, a volte i braccianti vengono intrattenuti da musicisti

ambulanti che, in cambio di pochi soldi o di cibo, cantano accompagnandosi con la chitarra. Sono una versione nera dei cantastorie che ormai da decenni percorrono gli Stati del Sud e dell’Ovest, attingendo alle fonti musicali più disparate (musica popolare europea, marcette militari, operetta) per costruire un repertorio spontaneo di canzoni americane. Tuttavia questi musicisti neri hanno in più qualcosa di assolutamente originale. Le loro semplici melodie sono il risultato di una contaminazione di questa musica con qualcosa di inaudito che viene dall’Africa: le scale pentatoniche. La più comune, la pentatonica minore, contiene alcuni intervalli già noti alla musica occidentale, come la terza minore, utilizzata da sempre per evocare la tristezza. 43



Davide Zoletto

davide.zoletto@uniud.it

I colori dell’altro L’altro è sempre colorato. Siamo noi, di solito, a vederci come neutri, spesso bianchi, di certo mai di colore. Non a caso diciamo che le nostre società, le nostre scuole, le nostre classi diventano oggi colorate perché solo oggi vi arriverebbero persone diverse da noi. Come se quelle società, scuole, classi non fossero state già sempre segnate da volti e storie assai poco omogenei fra loro. Serve a poco che psicologi e fisici ci ricordino che in realtà i colori non esistono, che sono tutti nel modo in cui i nostri organi di senso percepiscono il mondo, non sono nel mondo. Così come serve a poco che gli studiosi di genetica ci dicano che non esistono le razze. Di fatto, poi, noi vediamo il mondo a colori, e a colori vediamo anche gli altri. E se è vero che Momo, la bambina protagonista del romanzo di Michael Ende, è lì a ricordarci quanto sarebbe alienante un mondo tutto grigio, i tanti bambini stranieri delle nostre classi – così come tanti bambini meridionali – sono anche loro lì a ricordarci quanto male fa sentirsi colorati dagli altri. Sentirsi dare del ‘negro’ fa male. E fa male anche sentirsi dare del ‘nero’ o sentirsi dare semplicemente del ‘bambino di colo-

re’: saranno anche parole politicamente più corrette, ma aggiungono allo stigma del colore quel tanto di buonismo che rende lo stigma ancora più doloroso. Tant’è che molta cultura nera, soprattutto molta cultura nera al femminile (e quindi due volte esclusa, fanno testo a questo proposito le pagine di un’autrice come bell hooks) rivendica provocatoriamente il suo essere ‘negra’. Parlare oggi di ‘colori’ significa parlare delle ‘differenze’ che segnano le nostre società. Non si tratta allora tanto di decidere ‘se’ vediamo più o meno colorate le società, cioè ‘se’ riconosciamo o meno le differenze. Si tratta di decidere ‘come’ le vediamo colorate, ‘come’ vediamo il ‘rapporto’ fra i vari colori, cioè ‘come’ vediamo il ‘rapporto’ fra queste differenze. In poche 51


parole: quando vediamo le nostre società, scuole, classi come colorate, vediamo un insieme di colori rigidamente delimitati, contornati, o vediamo piuttosto un continuum di sfumature, di colori che passano l’uno nell’altro? Tra un colore e l’altro ci sono linee o sfumature? Se ci sono linee, allora anche le tante politiche del riconoscimento, le tante politiche e pedagogie multiculturali e multiculturaliste, ci rinchiudono in tanti isolotti che nei casi migliori non si parlano, nei casi peggiori sono in lotta più o meno violenta fra loro. Senza contare che ciascuno di questi colori – così rigidamente distinti – viene immediatamente posizionato lungo una ‘linea del colore’ che va immancabilmente da un ‘meno’ di dignità e umanità (il ‘nero’) a un ‘più’ di integrità e umanità (il ‘bianco’). Ogni nuovo colore, ogni nuova persona o gruppo non sono semplicemente ‘gialli’, ‘rossi’ o ‘marroni’, ma sono anche più o meno ‘neri’ o ‘bianchi’, cioè più o meno ‘uomini’. Lo sapevano bene, ieri, gli italiani d’America, tanto più ‘neri’ (erano o non erano chiamati ‘guinea’?) di molti loro omologhi migranti europei. Lo sanno bene oggi quegli albanesi che probabilmente ci sembrano più ‘neri’ (cioè più minacciosi, più lontani da noi) di tanti ghanesi. Ma come imparare a vedere sfumature e non linee fra i colori? Un filosofo come Henry Bergson ci invitava a guardare il giallo, l’arancione e il rosso come un continuum di sfumature e non come tre colori distinti. Purtroppo, e Bergson lo sapeva bene, il nostro pensiero tende sempre a ri-tracciare le linee. Perché sono più rassicuranti, più facili da gestire, rispetto alle

Letture H. Bergson, Pensiero e movimento, Bompiani, Milano 2000. M. Ende, Momo, Longanesi, Milano 1984. J. Guglielmo, S. Salerno (a cura di), Gli italiani sono bianchi?, Saggiatore, Milano 2006. bell hooks, Elogio del margine. Razza, sesso e mercato culturale, Feltrinelli, Milano 1998. G. Rodari, I cinque libri. Storie fantastiche, favole, filastrocche, Einaudi, Torino 1993. 52

sfumature. L’esercizio di imparare a vedere i colori sfumare l’uno nell’altro è un esercizio sempre in salita, a cui non dobbiamo smettere di allenarci. Non è mai troppo presto per iniziare. Nella scuola dell’infanzia i colori sono un ‘classico’ argomento su cui fare intercultura. Altrettanto ‘classico’, sempre nella scuola dell’infanzia, è partire da una delle belle filastrocche di Gianni Rodari. Si intitola Girotondo di tutto il mondo e inizia così: «Filastrocca per tutti i bambini, per gli italiani e per gli abissini, per i russi e per gli inglesi, per gli americani e i francesi, per quelli neri come il carbone, per quelli rossi come il mattone, per quelli gialli che stanno in Cina dove è sera se qui è mattina…». Fermarsi qui, e far notare ai bambini come tutti i bambini siano uguali anche se di colore diverso, è certo una cosa importante, ma ci allena ancora solo a vedere linee e non sfumature… Però in quella stessa filastrocca, nel finale, c’è un’idea che potrebbe aiutarci ad andare anche in un’altra direzione: «per i bambini di tutto il mondo, che fanno un grande girotondo, con le mani nelle mani, sui paralleli e sui meridiani». Ecco, questo girotondo finale potrebbe essere una delle occasioni in cui imparare, fin dalla scuola dell’infanzia, a guardare anche le sfumature. Basterebbe far notare ai bambini (e notare anche noi) come in un girotondo non ci si tenga solo per mano, ma si giri anche, e il più velocemente possibile. E quando si gira, come in una girandola o in una trottola colorate, i colori non riusciamo più a percepirli distinti. Vediamo solo sfumature.


ici ritann b i n a i otid olti qu d Nicholls. m , 3 e 0 tazion i Ingri del 20 u d p e o t m s a a t a e l’ oc ll’es che t ra g i c i subir tto ne l d e e g e n t e, a d v o d , i r a e c i p t n h l i n i c rto e i t a t a m i 4 6 a n n i r i s u n s e c o n d o p e rd e re l ’ a ultima t e o p d s n a d di er , in Qua ews p e n e ra punto iuntiva a ro n o s n l g p e u g l e u l s a g c c n a a i a r r si o esi ma ta t ferit he e a p ro t a. La n l a m a m u c a t a p u l t a t i r s i d i re c t u o s c a e c i i u Q en ap a re tars a. F a di s vuto d i l t ro v l’adat gamb m a e u a a l a r a , l t r te o e m t e d se al o corp p ro b l e e r s c e g l i e r pazien n u u n n s i u u l g i i e g d ad od zio si a za dov i l re s t s t re g u a n i t a r i o n a l t h eguen spettiva di n s a l o n l c o a c , e s ea in io p ro ient ro n e Serviz dalla cale ‘H ra v a n n a r t o m a r o l l t ò e v n i d a e l r ’ e a , c d n ne tur iu coper sse be che no per pagars a a l d l n a a o ro s a , t ro che dirit ,00 eu iciale f i abbia t r n 5.000 a o ica. n a icolog gamb o che s t p a a n v a i u r z p ). di ten apovin di R. C Invece ffriva assis rad it. (t 9 n a l e. . o 6, p a 200 rity’ le i, Rom eltem M Autho ’, ro impe opo ilroy, ‘D Paul G

l’


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