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di saldo, durevole, popolare, ininterrotto. Hanno cercato di liberarla dagli artifici, gli umori, le passioni delle sètte, di trasformarla in uno strumento mediante il quale l’umanità possa ottenere il dominio sulle cose e non solo quello sui giudizi degli uomini». È opportuno ritornare all’inizio. Come vide con chiarezza Ernesto De Martino, la scelta fra pensiero magico e pensiero razionale non è conclusa. Anche dopo la grande scelta storica degli inizi dell’età moderna, il ‘magico’ tende continuamente e inesorabilmente a riaffiorare in alcune forme della vita religiosa, nella manipolazione delle coscienze da parte di innumerevoli ‘guru’, nella mistica del capo carismatico, nell’immagine dello scienziato onnipotente. La magia e la tradizione ermetica (e la visione del mondo e dell’uomo che ad esse è collegata) non sono state cancellate dalla storia ad opera della Rivoluzione scientifica: sopravvivono in forme diverse e a differenti livelli. Come Sigmund Freud non mancò di sottolineare, ogni volta che si parla di scienza andrebbe tenuto presente il carattere recente di ciò che chiamiamo ‘scienza’. Se è vero (come molti hanno sostenuto) che gli uomini di Neanderthal praticavano forme di magia, le prime pratiche magiche risalgono a circa Qualsiasi autorità, ma soprattutto quella della chiesa, deve opporsi alle novità senza lasciarsi spaventare dal pericolo di ritardare la scoperta di qualche verità, inconveniente passeggero e del tutto inesistente, paragonato a quello di scuotere le istituzioni e le opinioni correnti. Joseph De Maistre, ‘Examen de la philosophie de Bacon’, Lione 1853, II vol., p. 289.

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50.000 anni fa. Il che vuol dire che se la storia di questi innumerevoli anni venisse rispecchiata in un immaginario libro di 5.000 pagine, la storia della scienza da Euclide ad oggi occuperebbe non più di 250 pagine (da Galileo ad oggi solo 37 pagine). Le altre 4.750 pagine sarebbero tutte piene di ‘storie di magia’. Quando l’ambiguità e l’enigmaticità del linguaggio diventano essenziali ad una filosofia e la chiarezza linguistica viene accuratamente evitata ed esplicitamente condannata come espressione di semplice buon senso e di superficialità; quando il tema ‘guardare al passato’, l’affermazione di una Riposta Sapienza delle Origini e l’immagine di una Verità che è all’Inizio dei Tempi diventano le grandi idee guida e i motivi centrali di una filosofia; quando infine viene teorizzata una differenza di essenza fra gli eletti e i pneumatici (che possono attingere a quella Sapienza) e coloro che restano per sempre confinati nella temporalità del quotidiano e sono capaci solo di intelletto, ma del tutto incapaci di Pensiero; quando tutto questo avviene contemporaneamente o in una stessa filosofia (come ancora oggi avviene), allora la antica Tradizione Ermetica rivela la sua non spenta presenza, mostra la sua operante persistenza, celebra i suoi tardivi trionfi.


© Nicola Boccaccini

Credere, ciò che si chiama credere, credere a quel che vi dico sul modo di credere, confidando sulla mia buona fede, così come in ciò che va oltre il conoscere, l’ordinario o il probabile, è come credere ai miracoli. È sempre straordinario credere a qualcuno, o in qualcuno, che vi dica una cosa normale o che ve ne dica una straordinaria. Credere a qualcuno che vi dice «credi-mi!» (un credere incondizionato, a occhi chiusi, senza controllo, senza garanzie probabilistiche, senza indizi positivi, ecc.) è straordinario quanto assistere a un miracolo... Jacques Derrida, ‘...soprattutto: niente giornalisti! Quel che il Signore disse ad Abramo’, Castelvecchi, Roma 2006, pp. 45-46 (trad. it. di T. Lo Porto).


© Gulixx

[…] Vi è un’altra strana classe di casi in cui una stretta rassomiglianza esteriore non dipende dall’adattamento ad abitudini di vita similari, ma è acquistata per necessità di protezione. Mi riferisco al modo stupefacente con cui certe farfalle, come è stato descritto per la prima volta da Bates, imitano altre specie del tutto distinte. […] Di generazione in generazione i tipi meno perfettamente rassomiglianti vengono eliminati, e solo gli altri rimangono e propagano il tipo. Ecco dunque che qui abbiamo un’eccellente esemplificazione della selezione naturale. Charles R. Darwin, ‘L’origine delle specie per selezione naturale’, Newton Compton, Roma 1980, capitolo XIII, p. 402 (trad. it. di C. Baldu).


Chiara Ceci

chiara.ceci@unimib.it

La natura si nasconde: i mimetismi Il pericolo è sempre in agguato, nessuno è al sicuro. Ogni elemento che possa fornire un qualche vantaggio nella sopravvivenza di un organismo aumenta la sua possibilità di riprodursi. Ciò favorisce l’evoluzione di un certo numero di adattamenti che aiutano gli organismi a trovare cibo e a evitare che loro stessi diventino cibo per altri. Uno di questi adattamenti è il mimetismo, molto diffuso in natura con variegate sfumature. Trasformarsi a seconda del contesto in cui ci si trova e adattarsi all’ambiente, proprio come Woody Allen nei panni di Leonard Zelig. Per noi resta un sogno da film, ma la natura queste cose le sa fare benissimo. Gli organismi sono spesso dei campioni a nascondersi, ma per loro non si tratta di un gioco. Riuscire a rendersi invisibili a un predatore può voler dire la salvezza. Riuscire a non farsi vedere dalla preda può significare la cena. Noi uomini siamo animali principalmente visivi e quello che più ci colpisce di un organismo sono le forme, i colori e anche i comportamenti. Dobbiamo però tenere presente che i comportamenti e la fisiologia degli organismi vanno oltre quello che vediamo. Ricordiamoci poi che questo è il nostro modo di vedere il mondo: alcuni animali riescono a percepire lunghezze d’onda della luce che noi non vediamo, come ad esempio l’ultravioletto, e comunque percepiscono i colori in modo diverso da come facciamo noi con i nostri occhi. Per non parlare poi delle altre componenti della percezione degli stimoli esterni: suoni, odori e altri segnali chimici. Forse non riconosceremmo nemmeno casa nostra se la guardassimo con gli occhi di una formica. Sono quindi numerosi gli elementi che possono aiutare nell’arte del mascherarsi e a noi spesso può sfuggire come la natura sappia

nascondersi in modi diversi e complessi. Con il termine ‘mimetismo’ intendiamo una situazione in cui, grazie a certe caratteristiche, un organismo imita un modello così da rendersi meno visibile e camuffarsi: l’organismo possiede i colori dell’ambiente o di altri organismi (omocromia), oppure la forma di qualche altro elemento naturale (omomorfia). Il modello può essere sia un altro organismo o anche solo una sua parte, sia un elemento dell’ambiente che lo circonda. Pensando al mimetismo subito pensiamo a un animale che occulta la propria presenza nell’ambiente circostante grazie a una colorazione definita criptica. Questo aiuta sia per difendere che per offendere: grazie al mimetismo criptico una preda potrà meglio difendersi non essendo visibile, ma anche un predatore potrà sfruttare lo stesso trucco per non farsi vedere e per attaccare in modo inaspettato. L’imitazione va spesso al di là della forma e della colorazione. Imitare i movimenti, gli odori, i comportamenti e altre caratteristiche è fondamentale perché il mascheramento abbia successo. Gli insetti stecco (Fasmidi), ad esempio, posseggono una particolare morfologia che consente loro di mimetizzarsi alla perfezione sui rami, dei quali imitano la superficie anche nei particolari, come i licheni che li ricoprono. Grazie alla presenza di tre pigmenti nelle parti più esterne dell’esoscheletro, essi sono in grado di effettuare delle modificazioni cromatiche: i pigmenti migrano all’interno delle cellule localizzandosi su diversi livelli e riescono in questo modo a generare tonalità differenti. La capacità di cambiare colore rapidamente è rara tra i mammiferi, mentre è più diffusa tra insetti, rettili e molluschi. I repentini mutamenti di livrea possono aiutare a confondersi con 19


Letture M. Fogden, Il colore degli animali. Mimetismo, corteggiamento, delimitazione del territorio, Mondadori, Milano 1976. W. Wickler, Mimetismo animale e vegetale, Muzzio Editore, Montereggio 1991. P. Ward, Il mimetismo animale, De Agostini, Novara 1979.

lo sfondo oppure segnalare ad altri animali variazioni di atteggiamento e umore. Uno dei maestri in questo campo è il polpo, cefalopode che, mutando atteggiamenti e colori, riesce a farsi passare per medusa, serpente di mare, pesce leone o altri pesci, ingannando così i predatori. Anche se i colori della pelliccia, delle piume o della pelle sono identici a quelli dello sfondo, un animale può comunque rimanere ben visibile se l’ombra del corpo mette in evidenza il suo profilo, oppure se essa si distingue in maniera inequivocabile sul terreno. Gli animali criptici più soggetti a essere scoperti a causa della loro ombra sono quelli che vivono su terreni piatti e aperti: per questo, quando si sentono minacciati, si acquattano. Un animale può ridurre sensibilmente la propria ombra anche orientando il corpo in modo opportuno rispetto al sole: le farfalle che chiudono le ali sopra il dorso tendono a posarsi nella direzione dei raggi solari, così l’ombra si riduce a una linea sottile. Altri ani-

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mali, tra cui molti pesci come le razze o lo passere di mare, hanno risolto la questione dell’ombra appiattendosi e sporgendo così di poco dal substrato. Una colorazione uniforme dà subito l’idea della forma dell’animale, mentre le sfumature di colore rendono più facile annullare il proprio effetto solido e nascondere la propria presenza. C’è chi ha le chiazze e chi le strisce; tutti però, quando sono osservati da una certa distanza, non sono più facilmente distinguibili poiché questo effetto, detto somatolisi, interrompe il profilo dell’animale. William Henry Bates è il naturalista inglese che per primo nel 1852 descrisse il mimetismo o, come lo chiamò lui, la ‘somiglianza per analogie’. Egli aveva osservato come le farfalle di alcune specie possedessero la colorazione di altre specie caratterizzate da qualche grado di nocività. Le specie tossiche venivano evitate dai predatori, dopo qualche tentativo di caccia e qualche esperienza negativa legata alla loro nocività; quindi, pos-


sedere la stessa colorazione di queste farfalle rappresentava un vantaggio perché i predatori evitavano i portatori del disegno associato all’esperienza negativa. Il mimetismo batesiano è perciò un inganno, dove i colori sono detti pseudoaposematici. Una situazione abbastanza simile a quella appena descritta si sviluppa quando sono presenti diverse specie, tutte caratterizzate da un certo grado di nocività per i predatori, che posseggono colorazioni simili. Parliamo qui di mimetismo mulleriano, in onore del naturalista tedesco Fritz Müller. L’assomigliarsi è un vantaggio per le specie interessate perché i predatori devono imparare ad evitare solo un disegno di avvertimento e non molti tutti diversi. Gli attacchi dei predatori che stanno imparando a conoscere il modello sono condivisi da tutte le specie, e ogni specie subisce meno attacchi singolarmente. Questa forma di mimetismo è basata sulla somiglianza nella livrea di specie diverse, e la colorazione è definita sinaposematica.

Animali che sembrano piante, piante che sembrano animali. Macchie che sembrano occhi, code che sembrano teste. Colori che cambiano con il passare delle stagioni. Cuccioli diversi dagli adulti. Maschi diversi dalle femmine. La casistica mimetica è davvero ampissima: ognuno ha il suo buon motivo per non farsi vedere, ognuno ha il suo modo per riuscirci. Il mimetismo è un grande esempio di evoluzione per selezione naturale ed è stato celebrato come tale già da Darwin. Esistono tuttavia ancora molte cose da chiarire sui meccanismi biologici che vi stanno dietro. Grazie ai recenti studi di biologia dello sviluppo si inizia a comprendere più chiaramente come avvenga l’evoluzione di forme caratterizzate da colori mimetici. Una volta identificati i geni responsabili dell’espressione degli schemi di colore in questione, si potrà andare a studiare con più precisione il rapporto con il successo riproduttivo degli individui e sarà possibile comprendere la trama di una storia fatta di geni e di colori.

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Il fenomeno globale […] delle carte geografiche satellitari interattive dichiara che ogni giorno e in ogni momento milioni di persone gettano il proprio occhio indagatore sulla crosta superficiale del nostro pianeta. Questa sorta di intensivo voyeurismo di scala globale, alimentato dalla possibilità tecnica di avvicinare istantaneamente lo sguardo a qualsiasi punto della terra, con zoomate e rapidi spostamenti vettoriali, sta rapidamente resettando la percezione dell’immagine del mondo, dandoci quasi la sensazione di avere guadagnato il passe-partout per la prospettiva metafisica del grande occhio. […] Catastare geograficamente lo spazio non è mai un’attività innocente, ma un atto di produzione e selezione, un dichiarato esercizio di potere: mappare significa dare l’imprimatur a un luogo, marcarlo prendendone possesso. Flavio Albanese, ‘La geografia e la misura della terra’, «Domus», novembre 2007, p. 1.


Intervista a Felice Casson di Luigi Gaudino

felice.casson@senato.it

P TO ET R C E S I segreti di Stato Luigi Gaudino. Quando si parla di velare – e magari di svelare – qualcosa, il pensiero non può non cadere sul tema del segreto di Stato. È una formula che richiama i molti misteri che hanno segnato la storia italiana del dopoguerra, dalla strage di Portella delle Ginestre in poi. Ma quali sono le regole che, nel nostro ordinamento, disciplinano la gestione del segreto? A chi tocca decidere quali informazioni sono destinate a rimanere nell’oblio e per quali è invece giunto il momento dello svelamento?

per nascondere i dati necessari all’investigazione della magistratura che non per aiutare, anche forzando in questo modo l’interpretazione della norma. Con la nuova legge questo importante concetto è stato sostanzialmente ripreso e rafforzato; inoltre – e questa è forse la novità principale – essa introduce un limite temporale al segreto di Stato nel senso che, a seconda del tipo di documenti di cui si tratta, il segreto vige soltanto per un determinato numero di anni (normalmente quindici anni, salvo proroghe motivate). In ogni caso, l’opposizione di un segreto di Felice Casson. Le regole sono cambiate da Stato può essere effettuata da chiunque, in poco: il 3 agosto di quest’anno è stata teoria, abbia a che fare con materia coperta approvata in via definitiva dal Parlamento una dal segreto, e quindi potrebbe essere un legge che riformula la materia che regoladipendente dei Servizi di sicurezza, ma anche menta il segreto di Stato e gli apparati dei un poliziotto, un pubblico amministratore, un Servizi di sicurezza. Fino a quella data era in dipendente che abbia notizie di tale natura. vigore la legge n. 801 del 1977, all’interno Di fronte a una opposizione di questo tipo il della quale il secondo comma dell’articolo 12 magistrato può condividerla, e quindi fermarsi diceva, sostanzialmente, che in nessun caso e procedere in questo senso a una chiusura è opponibile il segreto di Stato quando si dell’indagine, oppure può ricorrere al tratta di fatti eversivi dell’ordinamento costitu- Presidente del Consiglio dei Ministri, il quale zionale. Questa formula, così chiara, è stata può decidere se confermare o meno, attraperò nel corso degli anni passati travisata da verso la via dell’interpello, questo tipo di una parte e dall’altra ed è stata utilizzata più segreto. In materia di Servizi di sicurezza e di 36


Io so. Io so tutti questi nomi e so tutti i fatti (attentati alle istituzioni e stragi) di cui si sono resi colpevoli. [...] Il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica sono due cose inconciliabili in Italia.

Anne Fine, ‘Lo diciamo a Liddy?’, Adelphi, Milano 1999, p. 181 (trad. it. di O. Crosio).

Gli occhi di Stella erano diventati lucidi. Ora sapeva un segreto che non poteva né rivelare né dimenticare. «Come hai potuto rovinare tutto così?» mormorò piena di orrore. «Come hai potuto lasciare che le cose arrivassero a questo punto?».

Pier Paolo Pasolini, «Corriere della Sera», 14 novembre 1974.

sizione formale del segreto di Stato, la questione fondamentale sia quella della volontà politica: a distanza di tanti anni dalle stragi o da molti altri gravissimi fatti criminosi – sto pensando ad esempio all’attentato di Via Fani – non possiamo pensare di trovare scritto su un documento dei Servizi di sicurezza, ad esempio, chi ha commesso l’attentato: non si tratta di un problema legato alla opposizione formale o meno del segreto di Stato. È un problema di volontà politica Luigi Gaudino. Sin qui siamo rimasti sul degli attori e dei protagonisti di quella vicenpiano delle regole formalizzate. Sappiamo da. Mi viene in mente in maniera emblematiperò che, nella realtà, il terreno del segreto è ca la strage di Ustica: non c’è un documenabbastanza nebuloso. Ci sono segreti che to in Italia dove sia scritto cos’è successo; sono rimasti tali per decine di anni senza che invece ci dovrebbe essere una volontà politiancora si sappia chi, e in base a quale pote- ca molto forte per intervenire sia al nostro re, abbia deciso che determinate vicende interno, nei confronti dei vertici militari e dei dovessero restare nell’oblio. L’esempio, staServizi di sicurezza, sia nei confronti degli volta, è quello del cosiddetto ‘armadio della alleati, in particolare Francia e Stati Uniti, per vergogna’, nel quale sono rimaste sepolte per chiedere, e addirittura pretendere, la verità decenni le inchieste sulle stragi nazifasciste. su un fatto così grave. Si può dire allora che esistono segreti che sono tali ‘ufficialmente’ e altri che lo sono in Luigi Gaudino. Nel corso degli anni si sono maniera misteriosa? susseguiti Governi di diversa tendenza. Esiste qualche esempio significativo di rimoFelice Casson. Penso che, al di là dell’oppo- zione del segreto di Stato? segreti di Stato viene poi attribuita una competenza maggiore al Comitato parlamentare di controllo che, rispetto al passato, ha avuto un aumento del numero dei membri e delle competenze quanto ad indagini, investigazioni ed approfondimenti. In caso di conflitto tra magistratura e Presidente del Consiglio dei Ministri c’è il ricorso alla Corte costituzionale, davanti alla quale il segreto di Stato non può essere opposto in nessun caso.

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Felice Casson. Posso parlare della mia esperienza: durante le indagini sulla strage di Peteano erano emersi degli elementi relativi all’esistenza di una struttura clandestina che faceva riferimento ai Servizi di sicurezza, non solo nazionali ma anche internazionali, poi nota con il nome di ‘Stay Behind’ o Gladio. Ci fu quindi una serie di contatti epistolari diretti con l’allora Presidente del Consiglio dei Ministri, Giulio Andreotti, a seguito dei quali ho avuto l’autorizzazione ad accedere agli archivi dell’allora Sismi per poter verificare – al di là di qualsiasi precedente opposizione, di qualsiasi segreto che potesse essere frapposto in quel momento anche in futuro anche per il passato – la documentazione in possesso dei Servizi. Penso che questo sia un esempio emblematico ed anche molto importante: tanto che al tempo ha fatto scatenare le ire dell’allora Presidente della Repubblica Francesco Cossiga.

rispetto agli altri. L’esperienza nei processi per fatti di strage e terrorismo mi ha insegnato che sono stati rarissimi i casi di collaborazione mentre invece sono stati numerosissimi i casi di depistaggi e di deviazioni ad opera dei Servizi di sicurezza. Luigi Gaudino. Un’ultima curiosità. Il mondo

dei Servizi – quello in qualche modo regolamentato – è tradizionalmente istituzionale. Non mancano però i segnali – anche a livello internazionale – di un certo attivismo di carattere ‘privato’ (pensiamo ad esempio al caso Telecom, o alla presenza dei contractors in Iraq e Afghanistan). Qual è attualmente il ruolo di agenzie private, gruppi, consorterie nella raccolta, nella gestione, nell’uso di informazioni?

Felice Casson. Sono convinto che non sia assolutamente un fenomeno nuovo ma che ci sia sempre stato; probabilmente adesso se ne parla di più e si fa più in fretta a scoprirlo. Luigi Gaudino. Un altro passaggio mentale Cito alcuni esempi sintomatici della recente del tutto automatico è quello che associa il segreto di Stato all’attività dei Servizi segreti. storia d’Italia: uno fa riferimento all’epoca in Anche qui la storia italiana è densa di misteri. cui era presidente della Fiat Vittorio Valletta (dal 1946 al 1966) il quale aveva rapporti Almeno dagli anni Sessanta in poi si sente non solo con i Servizi di sicurezza – in partiparlare di ‘Servizi deviati’. Al comparire di colare per la parte che più gli interessava, qualche scandalo si risponde con riassetti ossia quella riguardante lo spionaggio in normativi, con mutamenti di sigle (il Sifar, il materia industriale – ma anche con associaSid, il Sisde, il Sismi), che durano sino allo zioni di tipo massonico, nazionali e internazioscandalo successivo. Bisogna rassegnarsi all’impossibilità di coniugare legalità e intelli- nali. Negli anni successivi abbiamo visto che quando sono stati scoperti documenti e pergence; efficienza dell’attività dei Servizi e sonaggi della loggia massonica P2 c’era un controllo democratico sul loro operato? È davvero inevitabile l’esistenza – nella migliore interesse fortissimo fra loro ad avere loro adepti ai vertici dei Servizi di sicurezza, tanto delle ipotesi – di una zona grigia tra ciò che che, all’epoca della strage di Via Fani, tutti i è legale e ciò che non lo è? capi dei nostri Servizi erano iscritti alla P2. Questo era successo anche all’inizio degli Felice Casson. Non ho mai condiviso l’espressione ‘Servizi deviati’, perché per me, anni Settanta, all’epoca del generale Maletti. soprattutto per il passato, i Servizi non sono Tutto ciò vuol dire che un’attenzione di logge, di interessi, di consorterie private sulle attività mai stati deviati ma sono stati istituiti ed dei Servizi o la commistione delle loro attività hanno operato così come hanno operato rispondendo ad una logica politica ben chia- c’è sempre stata e per certi versi è purtroppo ra. Al limite, riesco a pensare a Servizi deviati comprensibile. Il problema è quello di fare in modo che non ci siano questi contatti illeciti nel senso che deviati erano i Servizi che e che le verifiche e i controlli possano essere rispettavano le leggi e lavoravano assieme efficienti ed anche efficaci. alla magistratura alla ricerca della verità

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© Roberto Aita

Come valutare lo stato della verità in Italia? Lo stato della possibilità di dirla, di rintracciarla? Il livello di percezione sismica della verità in questo paese, il suo battito fioco è rinvenibile nel polso di molte situazioni ignorate, appena sfiorate nelle cronache locali, lasciate come picchi isolati: episodi trascurabili per chi interpreta il tracciato. […] Un giudice che stava per essere fatto saltare in aria […] un prete costretto ad allontanarsi dalla sua parrocchia […] un sindacalista ammazzato […]. Se raccontassi queste vicende a una cena, in qualsiasi città di questo paese, i miei commensali rimarrebbero come perplessi da faticare a credermi. O meglio direbbero che sono storie passate, di decenni trascorsi, di territori circoscritti. Storie siciliane, lontane, storie finite. Parlo del mio tempo invece, direi ai commensali. E del vostro paese, aggiungo. Roberto Saviano, «La Repubblica», 27 ottobre 2007, dalla presentazione dello spettacolo teatrale tratto dal suo libro ‘Gomorra’.


o Aita ert © Rob

isullcun r otto a d mo e r n p e hanno isti uccisi, n ata o d n n ro v k a gi è a t e r ro r ro Dub teggio dei a agli ostag indicati né t a e T on M sul no agini rte il c i tutti. rte non so evuto socLe ind creto, a pa identificat ric mo i o d n i i n n t t ate o tato c ro sono sta lti certifica ppure se ha esso riport o c e lo e ò c re m n d o u e n l p In me ggio. cesso le cause de e. Come si e e p d l a alattie e r anco l’ora d re, spesso ’inverosimil ravarsi di m non é n o il luog edico. Inolt l limite dell rti per l’agg ngono che grea o m se ste corso e sono ggi siano m famiglie so ledetto gas a lment ta a dell z n ufficia e alcuni os i, quando le as, quel ma e t g h ompe isposte nt c c Il e i t e r d i? is ( t e s t d e e ta r a re r he pre r niente aff ui l’inchies arfugli nchiesta pe cronic er c n ua a f o pe ’i p r u L in e t a . e s s n o s m u o is o a ne f sca) c i p re c gas co strua la c o t d l s M e e e i d t u d n o to: è q della città ire nie sul segret etto questo agini n forn ” nd ra ot procu enso e a no i è “seduta ione ha pr tre anni d’i s voz à inve , in e nni s it e d a iv t t n n e t senza r e o t ’a c i L lm t e . i a s r e n e t ie u u t azio lmen valchir iunque. Na tutti q ufficia tutte le con le da ch ificato giustificare . t e baule n r e a it id omil o: tiva ato mento n è mai st ltro obiettiv ra governa scendo a dim aven ’a tu no iu t t o r t s u n u , r a t t e li g s t a il a en ev specia uccise. e dell egiam iva av forze e stigat rze speciali cavata egr he le c erson p e o o ir f a n uto t d o delle totren hanno ricev o ale a e la s v n s : e o c e t il s e n b e ll u a e u a r s n t q s o s io e d o In az ar per c e, n l’indim a rigu i d’investig a. Inve un premio rio r strare ssuna colp ie n r r io a lc z p c a e o i s r e o d t p n e i u vano ment ricev ri dell casse m e m b o d i a v a n z a u b ro v k a h a B e n c h é t o c i ì s o C D ut i. e god a t t i d i e s t i t re a n n 94 . 193-1 p re m i a m p a t i a i f qu a 07, pp … o c o t r s u lt no 20 s a a is il e v M v degli u , dori s o p ra chiunq Monda essere rima che a rlare’, D. Girelli). p ito pa i, ib o in r ro h a lo . Cocc kaja, ‘P ovs li, M Politk . Casa Anna ra di E . a cu it . d (e


Lorenzo Guadagnucci

guadagnucci@libero.it

Quando la politica copre la verità: il caso di Genova Le giornate del G8, nel luglio 2001 a Genova, hanno segnato un punto di svolta nella storia recente del nostro paese. È perfino banale segnalarlo. Quei tragici giorni, che pure erano stati anche esaltanti prima che la violenza prendesse il sopravvento, hanno cambiato profondamente gli equilibri sociali e politici interni, la percezione dello Stato e le relazioni fra le forze di polizia da un lato, il potere politico, gli apparati giudiziari, la cittadinanza dall’altro. Schematizzando, possiamo dire che il G8 del 2001 ha inferto un colpo durissimo, quasi mortale a un movimento nascente; ha messo in discussione la tenuta delle garanzie costituzionali; ha mostrato l’inadeguatezza e i gravi limiti, sotto il profilo dell’etica democratica, delle nostre forze dell’ordine. Il movimento

La nascita del Genoa social forum, nei mesi precedenti il G8, è forse il più importante evento politico-culturale degli ultimi decenni. La rete che si costituisce, coinvolgendo centinaia di associazioni, gruppi, partiti, movimenti, porta alla ribalta una tensione politica, ribollente nel cuore della società, fino a quel momento rimasta pressoché invisibile. Si manifesta insomma in Italia la stessa mobilitazione in corso nel resto d’Europa e nel mondo attorno ai temi della giustizia globale, della difesa dell’ambiente dalle minacce portate da un sistema economico vorace e distruttore di risorse, della denuncia dello

strapotere acquisito su scala planetaria da pochi paesi e da un apparato istituzionale opaco e non democratico (lo stesso G8, ma anche istituzioni come la Banca Mondiale, il Fondo monetario internazionale, l’Organizzazione mondiale per il commercio). Pochi mesi dopo il primo Forum sociale mondiale di Porto Alegre (gennaio 2001), prende insomma corpo in Italia un movimento che pare destinato a incidere profondamente nella cultura politica del paese, sia per il numero dei gruppi aderenti, sia per la trasversalità delle appartenenze (si va dai gruppi religiosi ai centri sociali, dai comitati ambientalisti a formazioni sindacali, superando stori41


© Luca Laureati

Percy B. Shelley, ‘Sonetto’, in ‘Opere’, Einaudi-Gallimard, Torino 1995, p. 207 (ed. it. a cura di F. Rognoni).

A. Corradini, ‘La Velata’, chiesa di San Giacomo Apostolo, Udine (su concessione dell’Arcidiocesi di Udine, Ufficio Arte Sacra e Beni Culturali.

Non sollevare il velo dipinto che quelli che vivono chiamano Vita; anche se mostra immagini irreali, e simula soltanto, con tinte sparse a caso, tutto quello che vorremmo credere, — dietro, la Paura e la Speranza tramano, Moire gemelle, sempre intente a tessere le loro ombre sull’abisso, cieco e orrendo. Conobbi un uomo che l’aveva alzato... egli cercava (ché il suo perduto cuore era gentile), cose da amare e, ahimè, non le trovò; né al mondo v’era niente che egli potesse approvare. Fra l’incurante moltitudine passò, uno splendore in mezzo a ombre – macchia fulgida su questo fosco palcoscenico – uno Spirito che lottò per la Verità e, come il Predicatore non la trovò.


Intervista a Carlo Ginzburg di Aldo Colonnello

carlo.ginzburg@sns.it

Vero, falso, finto Aldo Colonnello. ‘Vero falso finto’ è il sottoti-

tolo del libro Il filo e le tracce. Si tratta di tre parole chiare e semplici, almeno all’apparenza e fino a quando le teniamo separate tra di loro, e dalla realtà…

parere, risulta troppo piatto. È stata cioè tolta quella velatura voluta dal pittore che aveva evitato toni troppo violenti, introducendo un elemento di complessità nel colore.

Aldo Colonnello. Che cosa lasciare e che cosa togliere, quanto conservare e quanto me, quindi bisognerà limitarlo. Cominciamo eliminare, è dilemma molto sentito ad esemda una constatazione: la realtà è complicata, pio anche in archeologia: ogni scavo e ogni e per di più viene spesso deliberatamente restauro cancellano o velano una parte della oscurata. Questo è sempre stato vero: ma vita dell’oggetto, della sua complessità e ne direi che ora è vero più che mai. Viviamo in possono condizionare o addirittura falsare un mondo in cui c’è una saturazione di comu- oppure impedire successive interpretazioni. nicazione e molta di questa comunicazione è deliberatamente menzognera. Accanto alla Carlo Ginzburg. Purtroppo questo si verifica menzogna, a cui si contrappone la verità, c’è molte volte, e a mio parere bisogna essere però anche l’elemento della finzione (dell’inconsapevoli che togliere la velatura da un venzione): di conseguenza, dobbiamo chiequadro è come bruciare la pagina di un libro derci quale sia il rapporto fra questi termini. di cui esiste un unico esemplare: è un atto di Proverò a prendere la questione da un altro arbitrio verso il passato, qualcosa che mi lato. Questa mattina mi sono alzato presto e pare intollerabile e che viene compiuto talvolsono andato a rivedere il Duomo di ta anche nei confronti di opere straordinarie. Pordenone, dove c’è un bel quadro di Da questo esempio emerge la complessità Giovanni Antonio de’ Sacchis, detto il della metafora del velo, della velatura e dello Pordenone: una Madonna della Misericordia svelare: se si svela quello che un attore del del 1515-1516, in cui sono raffigurati a passato, un pittore, uno scrittore, ha lasciato, destra san Giuseppe con in braccio il e in questo modo si vela quello che faceva Bambino (un tema molto interessante), a sini- parte di un messaggio complesso, si comstra san Cristoforo, di nuovo col Bambino, in mette un atto di arbitrio nei confronti del pasmezzo a loro la Madonna e, ai suoi piedi, i sato stesso. Qui lo svelare è sinonimo di donatori piccoli piccoli. Nel rivedere questo eccesso di interpretazione, di sopraffazione. dipinto ho ripensato a un tema su cui sto Ma non dobbiamo dimenticare che la metaforiflettendo e che mi appassiona (e mi preoc- ra che attribuisce allo storico il tentativo di cupa) da molto tempo, quello cioè relativo svelare la menzogna rinvia alla tradizione delall’eccesso di restauri. Ogni restauro è un’in- l’illuminismo, e alla metafora della luce della terpretazione, un’interpretazione storica, e la ragione che si contrappone all’oscurità. mia impressione nel rivedere questa pala è Mi riconosco in questa tradizione. che sia stata troppo restaurata, che siano state tolte delle velature, come si vede ad Aldo Colonnello. E allora, semplifico e probaesempio dal manto della Madonna che, a mio bilmente banalizzo, ci si può arroccare su

Carlo Ginzburg. Il tema ovviamente è enor-

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Il pudore, che sta al centro del rifiuto di rappresentare le cose, non consiste dunque nel coprirle o nel dissimularle a fini censori, ma serve anzi a rivelarle meglio. In questo, il pudore è la comprensione del paradosso che vuole che una cosa sia resa più presente dalla sua assenza, che il parossismo si manifesti al meglio nel declino, che la potenza e l’impeto del soffio vitale si avvertano più forte nel vuoto che nel pieno, nelle sfilacciature bianche lasciate dal pennello alla fine del tratto piuttosto che nel segno pieno e bene inchiostrato, nelle litoti di un testo letterario, nelle pause e nei silenzi della musica.

© Nicola Boccaccini

Anne Cheng, ‘Vertus de la pudeur dans la Chine classique’, Paris 1992, citato da Monique Selz in ‘Il Pudore. Un luogo di libertà’, Einaudi, Torino 2005, p. 96-97 (trad. it. di S. Pico).


Rosella Prezzo

rosprezzo@tiscali.it

La verità svelata dal velo Nelle pratiche discorsive e metaforiche, nell’immaginario e nell’iconografia della nostra cultura, il velo, così come il gesto del velare o dello svelamento, è stato associato sia al sacro sia al profano. Esso rimanda alternativamente al vedere-attraverso, al baluginìo dell’intravedere, e all’oscurità dell’enigma in cui si cela e si custodisce il mistero; alla nudità della verità svelata e alle apparenze ingannevoli (i famosi veli di Maya o di Isis); al desiderio di possesso e alla distanza; alla purezza e all’erotismo; ai canoni tanto del pudore quanto della seduzione femminili (di cui la danza dei sette veli di Salomè è emblema); alla sacralità e alla profanazione. Richiama infatti la violenza sull’altro («sciogliere i sacri veli di Troia» è il sogno di Achille, che assimila l’abbattimento delle mura della città allo stupro del velo che ricopre la dignità delle sue donne), ma anche la venerazione nei suoi confronti («Sovra candido vel cinta d’uliva / donna m’apparve», scrive Dante). Il velo ha tenuto insieme, in un doppio vincolo, nel loro contrapporsi ma anche nel loro reciproco e intimo rimando, la Verità, come oggetto del desiderio del sapere, e il Femminile, costruzione di genere e luogo immaginario di ogni ambivalenza. Tanto che Nietzsche, nella sua critica alla filosofia come metafisica e al concetto di verità, quale presupposta essenza da svelare, ricorre proprio all’immagine del femminile, ribal-

tando in positività vitale tutto ciò che ad essa era associato con segno negativo. Secondo Nietzsche infatti l’artificiosa contrapposizione tra verità e apparenza – tra «mondo vero», ideale, superiore, puro, e «mondo apparente», corporeo, inferiore, fallace, regno caduco dei sensi – ha indotto i filosofi a «chiamare verità la menzogna», togliendo valore a questo mondo e condannando la vita, coi suoi giochi di superficie e velamenti, a non-essere, a non-verità. Ma per Nietzsche la verità sta proprio in questa verità della non-verità. Mentre la verità che non comprende la vita diventa falsità, favola consolatoria in cui trovare rimedio alle proprie paure; disvelamento teso a catturare, al di là dei veli, una verità identica a sé. Ma la verità, come la vita, «è donna». 5


cerimonie di affiliazione ad associazioni e congregazioni; riti di protezione, purificazione, consacrazione, adozione, intronizzazione, fusione; riti di esibizione o di nascondimento; riti della prima, dell’unica o dell’ultima volta. Alla molteplicità di funzioni e significati corrisponde la varietà delle associazioni e delle omologie. Mettersi sotto lo stesso velo vale come sedere sulla stessa sedia, bere dallo stesso contenitore, scambiarsi un boccone di cibo, bagnarsi con la stessa acqua, legarsi con il medesimo laccio, allattare simbolicamente dallo stesso seno, pronunciare insieme l’identica formula. Mettersi o togliersi il velo equivale a stringere o a sciogliere la pettinatura, lasciar crescere o radersi la barba, mutare nome, farsi una tonsura, cambiarsi d’abito, cingere una cintura, infilarsi un anello, superare un confine, togliersi o infilarsi le calzature, percorrere lo stesso cammino. Sovrapporre a un oggetto il velo, occulta o esalta; mettendosi sotto un velo si opera la ‘transitio ad sacra’, ci si dichiara morti alla condizione precedente, ma anche ci si sposa, si esprime nascondimento oppure autorevolezza; ponendosi sotto un lenzuolo – come la povera Julia Carta, processata per questo dall’inquisitore Gamarra nel Real Castello di Sassari, il 20 maggio del 1597 – ci si può confessare direttamente a Dio, evitando i rischi che comporta lo svelare le proprie cose a un prete. Di fronte alla ricchezza di significati e di tradizioni associata a un rettangolo di tessuto dalle mille fogge, connesso al capo, ai capelli e al

Letture A. Van Gennep, I riti di passaggio, introduzione di F. Remotti, Boringhieri, Torino 1981. F. Adelkhah, La révolution sous le voile. Femmes islamiques d’Iran, Khatala, Paris 1991. F. Shirazi, The Veil Unvelled. The Hijab in Modern Culture, University Press of Florida, Gainesville 2001. C. Pasquinelli (a cura di), Occidentalismi, Carocci, Roma 2005. E. Shafak, La bastarda di Istanbul, Rizzoli, Milano 2007. 10

volto (e perciò all’anima, allo spirito, alla coscienza, all’identità, alla soggettività; espressione di status, ma anche di stati d’animo e di atteggiamenti interiori), e di fronte all’ambivalenza del velo, capace di esprimere sia sottomissione che autorità, colpisce che da alcuni anni l’attenzione si incanali, impoverendosi, sulla sola questione del velo islamico femminile, assunto anch’esso in termini semplificati e approssimativi. Il problema, allora, non è il velo delle donne islamiche (quali?), ma la riduzione occidentale delle donne musulmane a solo problema. Lo esprime con chiarezza Elif Shafak, scrittrice turca, stanca di sentirsi riproporre in giro per il mondo le stesse domande sullo stato di oppressione delle donne del suo paese, alle prese con il ‘ritorno del velo’: «Perché quasi sempre, quando si parla di donne musulmane, le si associa a dei problemi? Le donne musulmane non hanno momenti di gioia? Non provano mai piacere, felicità, soddisfazione? Come mai le donne musulmane sono sempre ritratte come creature oppresse, obbedienti, ignoranti, incapaci di descriversi da sole e bisognose che siano altri a farlo? Le donne musulmane hanno bisogno di essere salvate? Da chi, da voi?». Contro le riduzioni e le semplificazioni, buon esercizio potrebbe essere un ‘ritorno al velo’ che recuperi, in tutte le culture e anche nella nostra, almeno un poco della straordinaria ricchezza di significati di cui è imbevuto questo pezzo di stoffa, capace di esprimere e di occultare, di schermare o di esaltare, ma sempre in ogni caso di lasciar trasparire.


Marjane Satrapi, ‘Persepolis. Storia di un’infanzia’, Sperling & Kupfer Editori, Milano 2003, p. 3 (trad. it. di C. Sparagana e G. Gasparini).


Luigi Gaudino

gaudino@uniud.it

L’idea di una società in cui non siano visibili i simboli pubblici della religione – croci intorno al collo, riccioli ai lati del viso, turbanti o veli – è politicamente pericolosa. Essa presuppone che la società si fondi su una specie di ‘autorità centrale dei permessi’ che possiede tutte le risorse necessarie a creare una moralità pubblica. Rowan Williams (Archbishop of Canterbury), «The Times», 27 ottobre 2006.

Noi, loro e il velo Da bambino, si andava d’estate in vacanza in Sardegna. Si era ospiti di parenti, e le visite familiari occupavano gran parte della permanenza: le famiglie erano ampie, a quel tempo, e i legami di parentela si intendevano ‘stretti’ almeno sino al sesto grado. Un paio di giorni era dedicato alle visite nel paesino del nuorese che era stato abbandonato alcuni decenni prima dai nonni in cerca di fortuna. Al nostro arrivo le zie (cioè più o meno tutte le donne della zona) uscivano dalle loro case per salutarci, ci invitavano a entrare e a ripararci dal sole abbagliante. Offrivano agli adulti bicchierini di malvasia; ai bambini dolcetti e gassosa. Le donne più anziane – quelle oltre la quarantina – vestivano in genere di nero e avevano il capo coperto; non saprei dire se a causa di lutti familiari o per antiche abitudini. Dovuto a vedovanza era invece senz’altro il nero indossato dalle donne più giovani. E il tempo trascorso dalla perdita poteva essere in parte intuito dal progressivo diradarsi dei segni esteriori del dolore. Le regole non scritte del controllo sociale consentivano che, col passare degli anni, il rigore dell’abito venisse

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attenuato; permettendo via via di non indossare calze nere, fazzoletto al capo, maniche lunghe. Credo che più di un lustro fosse necessario per poter inserire qualche nota di colore negli abiti. Molte però allungavano spontaneamente il periodo, a dimostrazione dell’intensità della devozione verso il caro estinto; e non mancava qualcuna che – indossato il lutto in un certo frangente della propria vita – da quel momento non l’aveva più abbandonato. Le giovani vedove restavano per la maggior parte da sole per tutta la vita. Erano anni, d’altronde, nei quali non erano soltanto i costumi a essere assai diversi da quelli attuali, ma anche le regole del diritto. Il Codice penale irrogava sanzioni decisamente lievi per chi uccidesse «il coniuge, la figlia o la sorella» ove fosse stato spinto a ciò da motivi d’onore; e ugualmente indulgenti si era – sempre in presenza di causa d’onore – nel caso di infanticidio e aborto. Il tradimento della donna era sempre un reato (adulterio); quello dell’uomo solo in certi casi (concubinato). Anche lo stupro poteva esser condonato, in caso di «matrimonio riparatore». Il Codice civile dichiarava il marito «capo


La questione del velo, semplice metafora, ne pone un’altra: quella relativa al luogo in cui, più che altrove, questo simbolo provoca disagio. Come deve essere allora la nostra Scuola perché un copricapo non diventi un rompicapo? […] Uno strumento di civilizzazione ancor più che di socializzazione, la cui missione è tanto sociale quanto pedagogica. Un luogo di trasmissione e non di comunicazione […] Come può la trasmissione del sapere essere neutrale, in modo che tutti possano sentirsi a proprio agio, se non si rende neutrale l’ambiente sottraendolo alle divisioni economiche, politiche e religiose create dalla società capitalistica, confessionale, globalizzata? Un alunno può esprimere le proprie convinzioni mediante la parola, nei compiti scritti o con risposte orali […] ma non può imporre agli altri lo spettacolo della propria appartenenza allo stato puro senza ledere il principio di uguaglianza che esiste tra ragazzo e ragazza, biondo o bruno, gracile e ben piantato, fedele e ateo, ecc. Régis Debray, ‘Cosa ci vela il velo? La Repubblica e il Sacro’, Castelvecchi, Roma 2007, p. 14 (trad. it. di M. Bertolini).

della famiglia», e poneva la donna in stato di subordinazione e obbedienza; mentre i figli erano sottoposti alla «patria potestà». I giudici riconoscevano senza difficoltà un risarcimento in danaro alla donna che si fosse concessa perché ingannata da una falsa promessa di matrimonio: persa l’illibatezza, alla sedotta restavano, infatti, ridotte possibilità di sistemazione matrimoniale. Ormai la nostra società non è più così, e non lo sono più nemmeno i nostri codici. La nostra legislazione e i nostri costumi sono decisamente cambiati, e in meglio: nel segno della libertà e dell’uguaglianza. Ma non da molto: le regole sopra descritte sono state smantellate tra la metà degli anni ’70 e i primi anni ’80. Allora non ci farebbe male girare qualche volta lo sguardo all’indietro e ricordare come eravamo, solo l’altro ieri. Ci aiuterebbe a capire le regole e gli usi di altri popoli, con i quali siamo chiamati a confrontarci e a convivere. Ci aiuterebbe a ricordare le difficoltà, gli ostacoli, le resistenze che si sono dovuti superare per giungere ai risultati dei quali siamo giustamente orgogliosi.

Le nostre nonne portavano il velo; tutte lo portavano in chiesa; molte anche fuori. Alcune lo indossavano per pressione sociale; altre perché costrette dai mariti; molte per abitudine o perché sentivano di doverlo fare. Con tutta probabilità, se qualcuno avesse loro vietato di indossarlo, non l’avrebbero mai più abbandonato. Le nonne di adesso vanno invece a capo scoperto; nessuno impone, né vieta loro un qualsiasi indumento; non indossano più il velo perché questo è il loro sentire, maturato nel corso degli anni, in sintonia con i cambiamenti della società che le circonda. È una libertà conquistata nel corso del tempo, con fatica e pagando anche dei prezzi. Per molte donne provenienti da altri paesi ciò che indossano è un segno di identità, è un legame con quel poco di ‘casa’ che è loro rimasto una volta sradicate. Per altre il velo è invece il segno di una sottomissione. E noi, che ci siamo passati meno di una generazione fa, non possiamo che assicurare alle une e alle altre il massimo della libertà.

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dalla fiaba di H.C. Andersen, in ‘Marionette in libertà’, Einaudi Ragazzi, Trieste 1996, pp. 100-116.

C’era una volta un vestito di niente, fatto di niente, cucito con un ago di niente, un ditale di niente, forbici di niente, per gente da niente, da niente. È permesso? È permesso? Avanti, accomodatevi, signore. Mi manda l’imperatore a vedere il vestito a che punto sta. Siamo quasi a metà della metà. Presto sarà finito. Eh, anche prima... (A metà? Mi stupisco. Io niente vedo e niente ci capisco.) Che ne dice, Eccellenza? Non è una magnificenza? Che riflessi, che tinte... Queste rose non sembrano dipinte? Ah, sì, le rose... certo... Uh... davvero carine... (Non vedo né rose né spine. Non vedo un accidente. Sarà segno che non sono intelligente? Non mi ero mai accorto di essere uno stupido o un indegno, ma se lo sanno gli altri sono morto... Fingerò di vedere...) Che opera d’ingegno! Che finezza! Che delicatezza! Un lavoro mirabile, insuperabile... Primo tessitore Eccellenza, lei è molto amabile. Secondo tessitore Osservi questa sfumatura... Ciambellano Arte! Arte pura di squisita fattura! (E pensare che vedo soltanto aria pura.) Signori, mi compiaccio Permettete, vi abbraccio... Riferirò, riferirò... [...] Imperatore Come va? Regina Come va? Imperatore Di aspettare mi sono seccato spero che il mio vestito sia terminato. Regina Anche il mio! Anche il mio! Primo tessitore Sire, un istante, attacco questo bottone di diamante. Secondo tessitore Madama, un momentino, aggiungo questo volantino... Primo tessitore Ecco fatto Maestà, siete soddisfatto? Secondo tessitore Madama, siete contenta? Regina Resto di princisbecco! (Non vedo un fico secco) Imperatore (O effetto terribile della stoffa invisibile! Dunque non sono degno di fare l’imperatore, o nel caso migliore ho una testa di legno?)

[...] Primo tessitore Secondo tessitore Primo tessitore Secondo tessitore Primo tessitore Secondo tessitore Primo tessitore Ciambellano Primo tessitore Ciambellano Primo tessitore Secondo tessitore Primo tessitore Ciambellano Primo tessitore Secondo tessitore Primo tessitore Secondo tessitore Ciambellano


© Erika Pittis

(Che abbia ragione il popolo quando dice che sono un’oca? Ahi, mi sento morire di vergogna...) Imperatore (Qui fingere bisogna...) Signori, vi dirò Il mio parere imperiale: il vestito è... mica male. Regina Ma caro, ma caro, delle tue auguste lodi, non essere così avaro: non ho mai visto niente di più bello! [...] Primo tessitore Sire, ci confondete... Ora, se permettete, faremo una prova della veste nuova. Imperatore Una prova, dite! Regina Anche a me! Secondo tessitore I vestiti si vedono meglio indosso, voi capite. Imperatore Capisco... Debbo spogliarmi? Regina Anch’io? Primo tessitore Degnatevi, maestà... Secondo tessitore Degnatevi, sovrana... [...] Maggiordomo La folla attende ansiosa di ammirare quest’opera miracolosa. Imperatore E sia! Si vada! Fatemi strada. Voglio mostrarmi al popolo in tutto il mio splendore. Regina Anch’io mi sento splendente come una stella. Però sono più bella Maggiordomo Ecco le loro imperiali maestà! Lunga vita e felicità! Bambino Ma non vedete, o gente, che le Loro Maestà non hanno indosso niente! Voci dalla folla Monello impertinente! Tappategli la bocca! Cosa ci tocca di sentire... Ma è vero... È la verità... È la vera, verissima verità... Hanno scambiato il balcone per la camera da letto. O per il gabinetto! Imperatore Olà, cortigiani, ciambellani, maggiordomi, ammiragli... Presto, chiamate il boia! Un cortigiano Per i due truffatori, Maestà? Imperatore No! No! Per quel bambino che ha detto la verità. Cortigiano Agli ordini, Sire! (al pubblico) Ma voi, se lo vedete, ditegli di fuggire... nascondetelo... proteggetelo... E quando sarà grande tornerà per mettere in fuga mille bugiardi con una sola verità.

Regina


Dire «non c’è», significa prima di tutto dire «c’è». Dire che non c’è niente da nascondere, significa immediatamente che qualcosa è nascosto, e tale rimane. Ed è l’inaccessibilità di questo qualcosa a motivare il bisogno di spingere sempre più oltre i limiti del vedere e del mostrare. «Mostrare tutto» rimanda da un lato alla società dell’immagine nella quale viviamo e, dall’altro, alla scomparsa dei limiti. Significa che qualsiasi intrusione è autorizzata.

© Ulderica Da Pozzo

Monique Selz, ‘Il Pudore. Un luogo di libertà’, Einaudi, Torino 2005, p. 18 (trad. it. di S. Pico).


Intervista a Gianni Vattimo di Augusta Eniti ai Colonos, Villacaccia di Lestizza, agosto 2007

gianni.vattimo@unito.it

Pudore ed esibizione Augusta Eniti. A proposito di esibizione, oggi pare che tutto possa essere esibito, nella convinzione che ci sia una padronanza della visio, che l’immagine sia segno di, che nell’immagine sia da cercare l’identità, che l’immagine sveli. Gianni Vattimo. Lo svelamento suppone

sempre qualcosa di velato, che è quello che ci interessa, quello che Marx chiamava ideologia: c’è cioè uno sfondo che si dà per ovvio, che è il panorama dentro il quale le cose si svelano, ma in realtà quando le cose appaiono i giochi sono già fatti. Quindi l’immagine come tale svela ben poco, semmai nasconde molto, e in tanti sensi, ciò che è evidentemente presente, il giusto e il falso. Nietzsche dice: «Di quello che vi appare più evidente dovete soprattutto dubitare», perché ciò che appare evidente è una fregatura: ve l’ha insegnato la mamma, vi siete abituati, l’avete sentito alla televisione… Questo oggi è vero in tanti sensi e mi fa pensare a Jacques Derrida, a Martin Heidegger che non credeva alla presenza, anzi: tutto tranne la presenza… non pretendete cioè che io presti fede a ciò che è lì davanti a me. Molto proba-

bilmente questo non è nemmeno però più naturale del naturale, è solo corrispondente ad un’epoca anche tecnologicamente determinata. È vero, ad esempio, che l’arte astratta non è iniziata con la fotografia, però certamente da quando c’è stata la fotografia i pittori hanno smesso di fare tanti ritratti e hanno iniziato a fare dei quadrati, a buttar giù delle cose. Non dico che la spiegazione sia solo questa, però certamente questo ha avuto un suo peso. Oggi molti filosofi dicono che è finita l’epoca della rappresentazione: io non so nemmeno bene che cosa significhi, però certamente vuol dire che ciò che si dà spettacolarmente davanti agli occhi per qualche ragione non ci persuade più tanto. Prendiamo ad esempio L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica di Walter Benjamin: quando l’opera non era riproducibile aveva anche un valore sacrale, che poi adesso è diventato solo, eventualmente, un valore economico. Se uno scopre che le statue di Modigliani non sono di Modigliani – ma le ha sempre considerate tali e alcuni grandi critici hanno giurato che sono sue –, adesso non gli piacciono più: è chiaro che hanno perso tutto quel valore auratico 27


Š Manuel Ramos


Alessandro Dal Lago, Pier Aldo Rovatti, ‘Per gioco. Piccolo manuale dell’esperienza ludica’, Raffaello Cortina, Milano 1993, pp. 17-18.

Distanziamento, velo , maschera sembrano [...] termini più appropriati per esprimere l’essenza, per dir così, del gioco. In cui, va subito aggiunto, c’è soprattutto una misura da tenere, e dunque da salvare, un equilibrio non facile da stabilire e poi da mantenere, se vogliamo restare nel gioco , tra la realtà normale, quella delle ‘cose’ o del mondo esterno, come lo chiamiamo, e la realtà distanziante, la distanza che realizziamo attraverso il gioco . [...] Tutto il gioco consiste, si potrebbe dire, nel gioco di questo velo o di questa maschera. Nell’incertezza, e nel rischio, che la misura di questo velo o di questa maschera, e dunque anche di questa finzione, riesce a realizzare e a mantenere. Se il velo è troppo sottile, e troppo grande risulta il peso delle cose perché possiamo davvero venire coinvolti, allora il gioco presto svanisce. Ma non giungiamo ad alcuna oasi, né ci trasferiamo in alcun corpo celeste, neppure quando il velo è troppo spesso, quando cioè, cancellato del tutto il peso delle cose, entriamo appunto nella pura fantasia, nella semplice immaginazione, o anche nel sogno.


infine la condizione di oscurità dell’iniziato; sciolta questa oscurità, il mystes perveniva alla luce. I mysteria erano dunque essenzialmente notturni, ma si trattava di una notte che avrebbe poi partorito la luce, oppure di una notte nella quale le fiaccole della divinità indicavano la via. Nella raffigurazione dell’urna Caetani Lovatelli sopra all’iniziato con il capo coperto una giovane liknophoros tiene sospeso il liknon, il vaglio per la spulatura del grano, e, accanto ad essi, sono presenti le divinità di Eleusi: Demetra affiancata da Kore e da una figura maschile, probabilmente Iacco – visto forse come personificazione dell’urlo degli iniziati dei misteri eleusini –, che indossa una pelle di cerbiatto (la nebris). La scena in cui una giovane tiene il vaglio sopra l’iniziato si ripete in vari monumenti o pitture e costituisce il momento centrale dell’introduzione ai misteri: il vaglio era spesso coperto da un velo che durante il rito veniva sollevato per mostrare all’iniziato il phallos, l’emblema della fecondità, variazione misterica dei rituali fallici del culto pubblico e testimonianza dell’importanza del mostrare e del vedere. Altre raffigurazioni – come quelle della villa dei Misteri a Pompei e della villa Farnesina a Roma – che rappresentano riti di iniziazione, mostrano il momento dello svelamento del phallos. Nella villa dei Misteri, del 60 a.C., la scena mostra un gruppo di persone tra le quali una donna velata, la sacerdotessa, che attende ad un rito sacrificale assistita da due giovani donne e che compie con le mani due differenti azioni: con la sinistra scopre una cesta tenuta da un’ancella mentre con la destra regge un ramoscello verde sul quale un’altra ancella, che tiene un rotolo di papiro, versa con una brocca un rivolo d’acqua lustrale. Inoltre, una giovane donna inginocchiata – già iniziata come una baccante con il tirso,

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emblema dionisiaco, sulla spalla – è in procinto di sollevare il drappo di porpora che ricopre una cesta, il vannus, o liknon, dove sta il phallos; l’azione volge quindi alla sua conclusione con lo svelamento dell’emblema della fecondità, il phallos. Nella villa della Farnesina l’affresco, ora conservato al Museo Nazionale Romano e datato al 20 a.C., mostra un giovane uomo che tiene in mano un liknon velato contenente un enorme phallos. Anche gli stucchi provenienti dalla stessa villa presentano la medesima scena: nel momento centrale del rito una cesta o un vaglio sono coperti da un velo che lascia intravedere il phallos; successivamente il velo viene sollevato e il contenuto è mostrato all’iniziato che in questo modo diventa partecipe della conoscenza dei mysteria. Il velo che copriva la testa era spesso visto come simbolo religioso. In molti culti gli officianti erano velati, come accadeva in Oriente nelle cerimonie del culto di Cybele e Attis, in cui l’archigallus, il massimo sacerdote, portava un lungo velo sotto la sua corona. Il sacerdote dei culti eleusini, lo ierofante, era spesso vestito con un mantello ripiegato sopra la testa e anche il dadouchos, colui che teneva la torcia, era rappresentato con il capo velato dal mantello. Lo stesso Pontefice Massimo romano portava un lembo della toga sopra il capo e dunque officiava capite velato. Anche le divinità dei culti misterici – Demetra, Iside, Cybele – erano spesso raffigurate velate, tanto che il velo era diventato un loro attributo. Cybele e Demetra erano spesso rappresentate con una corona turrita e un velo che scendeva sulle loro spalle, esattamente come Tyche. E le imperatrici, da Livia in poi, spesso si facevano rappresentare come dee o sacerdotesse e quindi con il velo sulla testa, a dimostrazione che esso, nella tradizione greco-romana, aveva assunto un valore simbolico e religioso complesso.


© Paolo Comuzzi

Georg Simmel, ‘Das Geheimnis und die geheime Gesellschaft’, Lipsia 1908, citato da Umberto Eco in ‘I limiti dell’interpretazione’, Bompiani, Milano 1990, p. 50.

Il segreto conferisce a chi lo possiede una posizione d’eccezione e opera come una forma d’attrazione determinata da pure ragioni sociali. Esso è fondamentalmente indipendente dal suo contenuto, ma certamente è tanto più efficace in quanto il suo possesso esclusivo è vasto e significativo... Dalla segretezza, che copre d’ombra tutto ciò che è profondo e significativo, nasce il tipico errore per cui ogni cosa misteriosa è importante ed essenziale. Di fronte all’ignoto il naturale impulso all’idealizzazione e il naturale timore dell’uomo cooperano insieme allo stesso fine: intensificare l’ignoto attraverso l’immaginazione e considerarlo con una intensità che di solito non è riservata alle realtà evidenti.



© Danilo De Marco

la re d e l a i l u c to pe on aspet ’ l e ggio n r a i s u t s i e t ione s m sposiz c’è b ra c o a b o l i s c e i l e ’ m n e u s to rso non sta s e g re t t ra v e l a g re t o é que e e h a s N c al r l m . i i e , […] ariant e m i ra o n e, p c u l t a m e n t o v i c z e e v a u c n i i s le ne comun o il suo oc i tutte omunicazio d s a r t e a la c a t t ra v n t e e s f r e n v a re ; r e a s t i e r b ti. p esor ntenu to da o u c . 10. n i e i t 004, p tt u t rino 2 i o T d i, un con d to inau ne’, E vimen icazio comun dissol Pernio Mario

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vere la biografia del prozio potrebbe avere una finalità politica nel contesto della rivoluzione; la decisione finale di non svelarne il tradimento potrebbe collocarsi invece nel contesto della pacificazione che dalla fine del 1923 seguì la guerra civile. Nel 1970 Bernardo Bertolucci ricava dal Tema di Borges il film La strategia del ragno, ambientato in Italia durante la Resistenza; nel 1971 Sergio Leone usa il canovaccio come elemento della sceneggiatura di Giù la testa (Bertolucci era stato uno degli sceneggiatori del suo precedente film, C’era una volta il West, del 1968: chissà che non sia stato proprio lui a parlargli del racconto). Questa volta lo scenario è il Messico del 1916 e il traditore-eroe è l’intellettuale rivoluzionario Villega, che tradisce sotto tortura e viene poi costretto a gettarsi con una locomotiva contro un treno di militari, atto eroico che, in maniera canonicamente borgesiana, coincide con la sua esecuzione. Passerà alla storia come l’eroe di cui la rivoluzione ha bisogno, mentre il brigante Juan Miranda, che ha acquistato una coscienza politica e che è il vero eroe della vicenda, resterà nella memoria come un brigante. Come se non bastasse, Miranda compie la sua evoluzione ideologica e morale sotto l’influenza dell’amico Sean Mallory, un rivoluzionario irlandese amareggiato perché in patria ha giustiziato un amico che si è macchiato di tradimento politico (e, nei suoi confronti, amoroso), come si evince da alcuni flash-backs in cui la rivoluzione irlandese è tematizzata direttamente. La storia del tema del traditore e dell’eroe si conclude per quanto ne so nel 1972, con la variazione virtuosistica, in cui i principali elementi delle precedenti variazioni si combinano armoniosamente, costituita da un episodio appartenente alla serie a fumetti ‘Corto Maltese’ di Hugo Pratt, Concerto in O minore per arpa e nitroglicerina. Siamo ancora in Irlanda intorno al 1920, durante la rivoluzio-

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ne, tra brume che sembrano uscite direttamente dal Traditore di Ford. L’eroe Pat Finnucan è stato fucilato dall’odiato O’Sullivan, un irlandese che si è arruolato con gli inglesi, e il Sinn Fein, nel cui seno stavano sorgendo dei conflitti, dopo la sua morte ha ritrovato l’unità. Il finale del racconto svela che Finnucan era in realtà un traditore ma, poiché «rappresentava l’eroe nazionale» e «il simbolo della lotta contro la corona», l’IRA aveva deciso di giustiziarlo facendo credere che fosse stato fucilato dagli inglesi. Il vero eroe era dunque O’Sullivan, che aveva ‘tradito’ a questo scopo (e per di più, dopo essere stato smascherato dagli inglesi, muore da eroe). Pratt, oltre all’ambientazione irlandese, sembra accogliere da Borges (o da Leone?) la chiara motivazione politica del velo rimesso sull’amara verità, recuperando però direttamente da Chesterton, e perfezionandola, la simmetria tra il traditore-eroe e l’eroe-traditore. Da Chesterton (e forse in parte da Leone) proviene anche il clima di disincanto etico che pervade il racconto: «È una storia triste e sordida» dice a un certo punto Sean Finnucan, fratello di Pat; «È un’orribile storia» dice Flambeu a padre Brown, che precisa: «Voi siete pieno di pensieri puri e buoni. Accadde peggio ancora». La novità nel racconto di Pratt è che in esso il vero eroe è tale proprio perché si sacrifica accettando il ruolo di traditore: il nostro tema vi è declinato con particolare attenzione, più che al traditore-eroe, all’eroe-traditore, trascurato da Chesterton e cancellato da Borges. Sullo sfondo, tuttavia, c’è forse un altro racconto di Borges, Tre versioni di Giuda, come il Tema scritto nel 1944 e incluso in Finzioni, nel quale un teologo teorizza che Giuda il traditore, per collaborare all’opera della salvezza, «rinunciò all’onore, al bene, alla pace, al regno dei cieli, come altri, meno eroicamente, rinunciano al piacere».


© Ralph Eugene Meatyard, ‘In prospettiva’, Art&, Udine 1995, p. 49.

La maschera nasconde e rivela allo stesso tempo. Ma lo fa in maniera differente, secondo le situazioni, e nei diversi momenti della vita. All’inizio la maschera la trovi in famiglia. Tu credi che nessuno avesse la maschera. Poi ti accorgi che gli altri se la mettono. […] Così per te incomincia il lungo e tormentoso apprendistato della maschera. Ne sei osservatore e attore. Cerchi di capire cosa c’è dietro a quella che portano gli altri, e insieme cerchi di capire quale sia quella che meglio serve a te per proteggerti dagli altri. E te la levi e te la rimetti. […] Tieni gli altri a distanza, mentre ti guardi un po’ alla volta crescer dentro la maschera, che solo in parte ti costruisci, ma che poi, volente o nolente, a un certo punto, ti vedrai costretto a indossare. Alessandro Pizzorno, ‘Il velo della diversità. Studi su razionalità e riconoscimento’, Feltrinelli, Milano 2007, p. 377.


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